Giuseppe Parini è forse il poeta che meglio interpreta il ‘700 italiano: inizia la sua produzione poetica come arcade, si avvicina alle idee illuministiche senza arrivare al radicalismo francese e mantiene per la sua intera produzione poetica una venerazione per la forma classica.
Cenni biografici
Nasce Bosisio, nella Brianza, nel 1729, ultimo di dieci figli, da una famiglia di modeste condizioni (il padre era commerciante di seta). Iniziato agli studi presumibilmente dai parroci del paese, li proseguì a Milano, presso una prozia, la quale, alla sua morte (1741) lo fece erede di una piccola rendita annua a patto che il nipote prendesse gli ordini sacerdotali.
Bosisio: luogo di nascita di Giuseppe Parini
Dopo una non brillantissima carriera scolastica pubblica il suo primo libro di poesie Alcune poesie di Ripano Eupilino (nome di derivazione arcadica, tratto dall’anagramma del suo cognome – Parino – e dal nome latino del lago presso il suo paese – Eupili). Questo libro gli diede fama immediata e gli permise d’entrare nella prestigiosa Accademia dei Trasformati. Qui trovò un ambiente aperto ai problemi, incline al dibattito su temi di varia natura e presto all’interno di essa raggiunse gradi di prestigio.
Nel 1754, ordinato sacerdote, entrò come precettore al servizio del duca Serbelloni, dove rimase per ben otto anni, allontanandosi dopo aver avuto un diverbio con la duchessa. Questi anni furono fondamentali per Parini: per lui, nato in ristrettezze economiche il mondo dell’aristocrazia lombarda gli sembrava pieno di fascino, dove regnavano la gentilezza e le belle maniere; ma riuscì anche a vedervi un mondo dove imperava la noia, il senso di vuoto e dove tutta quella bella coreografia sembrava ricoprire la nullità della classe aristocratica ormai avviluppata intorno a gesti esteriori e riti codificati.
In questi anni inizia la produzione delle Odi, (tra le più famose di questo periodo La vita rustica e La salubrità dell’aria) che lo occuperà per tutta la vita: esse non apparterranno a pubblicazioni regolari, ma verranno diffuse separatamente. Intanto approfondisce il suo legame con le idee d’oltralpe: suggestionato dalle letture del Rousseau e di Voltaire, Parini nel 1757 pubblica il Dialogo sopra la nobiltà. Sempre nello stesso anno inizia l’importantissimo Discorso sopra la poesia, in cui chiarisce la sua poetica e il ruolo che egli affida alla letteratura.
A seguito del licenziamento della Serbelloni, inizia il servizio presso il conte Giuseppe Maria Imbonati, come precettore di suo figlio Carlo. Per lui egli pubblica l’ode L’educazione.
E’ del 1763 l’uscita, anonima, de Il Mattino, prima parte del poema Il Giorno. Del 1765 è il Mezzogiorno, mentre Il Vespro e La Notte usciranno postume.
Negli anni in cui l’imperatrice Maria Teresa d’Austria (una delle principali esponenti dell’assolutismo illuminato) inizia un rapporto di collaborazione con gli intellettuali milanesi, Parini diventa poeta ufficiale del Regio Ducale Teatro del conte Firmian, plenipotenziario dell’imperatrice. Il conte offre a lui incarichi prestigiosi, come la direzione della Gazzetta di Milano e il ruolo di docente di Belle Lettere presso le scuole Palatine istituite dal governo, divenuto poi Regio Ginnasio di Brera. Alla morte di Maria Teresa gli succede Giuseppe II. Parini, come molti intellettuali milanesi, non condivide le riforme radicali del nuovo sovrano. Deluso, si allontana progressivamente da quell’impegno civile che aveva caratterizzato la sua opera precedente.
Allo scoppio della Rivoluzione Francese, Parini mostra subito interesse per le idee di libertà, tanto da destare sospetti da parte degli Austriaci. All’arrivo di Napoleone a Milano, Parini, insieme a Pietro Verri, entra a far parte della nuova Municipalità, interessandosi della Pubblica Istruzione; ma solo dopo tre mesi se ne allontana (o viene allontanato) per il suo moderatismo e per la sua difesa verso il cattolicesimo. Ormai vecchio e malato, egli riduce al minimo i suoi impegni sia civili che letterari.
Al ritorno degli Austriaci, nel 1799, Parini non viene allontanato per aver collaborato con i Francesi. Ma ormai la malattia lo mina nel fisico, tanto da condurlo alla morte nello stesso anno.
La poetica
La poetica pariniana è contenuta, oltre che nel Discorso sopra la poesia, nelle lezioni universitarie e in opere poetiche come Alla Musa.
UTILITA’ DELLA POESIA
Che se altri richiedesse se la poesia sia utile o no, io a questo risponderei ch’ella non è già necessaria come il pane, né utile come l’asino o il bue; ma che, con tutto ciò, bene usata, può essere d’un vantaggio considerevole alla società. E, benché io sia d’opinione che l’instituto del poeta non sia di giovare direttamente, ma di dilettare, nulladimeno son persuaso che il poeta possa, volendo, giovare assaissimo. Lascio che tutto ciò che ne reca onesto piacere si può veramente dire a noi vantaggioso; conciossiaché, essendo certo che è utile è ciò che contribuisce a render l’uomo felice, utili a ragione si posson chiamare quell’arti che contribuiscono a renderne felici col dilettarci in alcuni momenti della nostra vita. […] Egli è certo che la poesia, movendo in noi le passioni, può valere a farci prendere abborrimento al vizio, dipingendocene la turpezza, e a farci amar la virtù, imitandone la beltà. […] La poesia che consiste nel puro torno del pensiere, nella eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso, è come un alto e reale palagio che in noi desta la meraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e move, è un grazioso prospetto della campagna, che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno.
Nicolas Poussin: L’ispirazione di un poeta
Se si dovesse chiedere se la poesia sia utile o meno, io risponderei che certo non è necessaria come il pane, né utile come l’asino e il bue; ma, con tutto ciò, se bene utilizzata, può essere d’un grande vantaggio per la società. E. sebbene io creda che compito del poeta non sia di essere utile in modo diretto, ma di procurare piacere, tuttavia sono convinto che il poeta possa, volendolo, essere molto utile. Infatti tutto ciò che ci reca un onesto piacere, è per noi di assoluto vantaggio. Tralascio il fatto che tutto ciò che ci reca un onesto piacere si può veramente affermare che sia per noi vantaggioso; poiché, essendo certo che è utile ciò che contribuisce a rendere felice l’uomo, a ragione si possono definire utili tutte quelle arti che contribuiscono a renderci felici con procurarci piacere in alcuni momenti della nostra vita. […] E’ certo che la poesia, eccitando in noi le passioni, può riuscire a farci sentire disgusto per il vizio, mostrandocene la turpitudine, e a farci amare la virtù, imitandone la bellezza. […] La poesia che consiste nel perfezionamento formale, nell’eleganza dell’espressione, nell’armonia del verso è come un palazzo alto e regale, che ci può meravigliare, ma non emozionare. Al contrario la poesia che ci tocca e ci commuove, è un grazioso panorama della campagna, che ci allaga e ci inonda il petto.
E’ una pagina importante, che ci offre la possibilità di capire che cosa e quale compito il Parini affidasse alla poesia. In primo luogo al “meraviglioso” barocco e al “diletto” morale arcade, sostituisce l’“utilità” illuminista. Tuttavia l’“utilità”, non dev’essere “diretta”, altrimenti cesserebbe il piacere. Quest’ultimo è dato dalla bellezza, che se vuota e fine a se stessa “desta la meraviglia”, che, non emozionando, non può insegnare ciò che è “turpitudine” e “virtù”; ma se privo di bellezza (come un bel prato fiorito) non risponderebbe al bisogno dell’uomo, e quindi non avrebbe alcuna funzione.
L’ideologia illuminista
LO SPLENDORE E IL MERITO DEGLI AVI
POETA: Or bene; di che tempo credete voi che avesse cominciamento la vostra famiglia?
NOBILE: Dal tempo di Carlo Magno, cicala.
POETA: Olà, tu fammi dunque il cappello tu, scòstati da me tu.
NOBILE: Insolente! Che linguaggio tieni tu ora con me? Tu mi faresti po’ poi scappare la pazienza.
POETA: Olà! Scòstati, ti dico io.
NOBILE: E perché?
POETA: Perché la mia famiglia è di gran lunga più antica della tua.
NOBILE: Taci là, buffone; e da chi presumeresti però tu d’esser disceso?
POETA: Da Adamo, vi dico io.
NOBILE: Oh, io l’ho detto che tu ci avveresti bene a fare il buffone. Io comincio quasi ad aver piacere d’essermi qui teco incontrato. Suvvia, fammi adunque il catalogo de’ tuoi antenati.
POETA: Eh, pensate! La vorrebb’esser la favola dell’uccellino, se io avessi ora a contarvi ogni cosa. Questi rospi che ora ci rodono non hanno mica tanta pazienza, sapete! Così fosse stato addendato il vostro primo ascendente dov’ora uno ora d’essi m’addenta; che voi non vi vantereste ora di così antica famiglia.
NOBILE: Ispàcciati, comincia prima da tuo padre, e va’ via salendo. Come chiamavas’egli?
POETA: Il signor Giambattista, per servirvi.
NOBILE: E il tuo nonno?
POETA: Il mio nonno…
NOBILE: Or di’.
POETA: Zitto, aspettate ch’io lo rinvenga: il mio nonno…
NOBILE: Sbrìgati, ti dico, in tua malora!
POETA: Il mio nonno chiamavasi messer Guasparri.
NOBILE: E il tuo bisavolo?
POETA: Oh questo, affé ch’io non mel ricordo, e gli altri assai meno: ricorderestivi voi i vostri?
NOBILE: Se io me li ricordo? Or senti: Rolando il primo, da Rolando il primo Adolfo, da Adolfo Bertrando, da Bertrando Gualtieri, da Gualtieri Rolando secondo, da Rolando secondo Agifulfo, da Agifulfo…
POETA: Deh, lasciate lasciate, ch’io son ben persuaso che voi vi ricordate ogni cosa. Cappita! voi siete fornito d’una sperticata memoria, voi. Egli si par bene che voi non abbiate studiato mai altro che la vostra genealogia.
NOBILE: Ora ti dai tu per vinto? mi concedi tu oggimai che io e gli altri nobili miei meritiamo rispetto e venerazione da voi altri plebei.
POETA: Io vi concedo che voi aveste di molta memoria voi e i vostri ascendenti; ma, se cotesto vi fa degni di riverenza, io non so perché io non debba dare dello Illustrissimo anco a colui che mostra le anticaglie, dappoiché egli si ricorda di tanti nomi quanti voi fate, e d’assai più ancora.
NOBILE: E’ egli però possibile, animale, che tu non ti avveda quanto celebri, quanto illustri, e quanto grandi uomini sieno stati questi miei avoli?
POETA: Io giurovi ch’io non ne ho udito mai favellare. Ma che hann’eglino però fatto codesti sì celebri avoli vostri? Hanno eglino forse trovato la maniera del coltivare i campi; hanno eglino ridotti gli uomini selvaggi a vivere in compagnia? Hanno eglino forse trovato la religione, le leggi e le arti che sono necessarie alla vita umana? S’egli hanno fatto niente di questo, io confessovi sinceramente che codesti vostri avoli meritavano d’essere rispettati da’ loro contemporanei, e che noi ancora non possiamo a meno di non portar riverenza alla memoria loro. Or dite, che hanno eglino fatto?
NOBILE: Tu dèi sapere che que’ primi de’ nostri avoli prestarono de’ grandi servigi agli antichi nostri principi, aiutandoli nelle guerre ch’eglino intrapresero; e perciò furono da quelli beneficati insignemente e renduti ricchi sfondolati. Dopo questi altri divenuti fieri per la loro potenza, riuscirono celebri fuoriusciti, e segnalarono la loro vita faccendo stare al segno il loro Principe e la loro patria; altri si diedero per assoldati a condorre delle armate in servigio ora di questo or di quell’altro signore, e fecero un memorabile macello di gente d’ogni paese. Tu ben vedi che in simili circostanze, sia per timore d’essere perseguitati, sia che per le varie vicende s’erano scemate le loro facoltà, si ritirarono a vivere ne’ loro feudi; ricoverati in certe loro ròcche, sì ben fortificate, che gli orsi non vi si sarebbono potuti arrampicare; dove non ti potrei ben dire quanto fosse grande la loro potenza. Bastiti il dire che nelle colline ov’essi rifugiavano, non risonava mai altro che un continovo eco delle loro archibusate, e ch’egli erano dispotici padroni della vita e delle mogli de’ loro vassalli. Ora intendi quanto grandi e quanto rispettabili uomaccioni fosser costoro, de’ quali tenghiamo tuttavia i ritratti appesi nelle nostre sale.
POETA: Or via, voi avete detto abbastanza dello splendore e del merito de’ vostri avi. Non andate, vi priego, più oltre, perché noi entreremmo forse in qualche ginepraio. Per altro voi fate il bell’onore alla vostra prosapia, attribuendo a’ vostri ascendenti il merito che finora avete attribuito loro. Voi fate tutto il possibile per rivelare la loro vergogna e per isvergognare anche voi stesso, se fosse vero, come voi dite, che a voi dovesse discendere il merito de’ vostri maggiori e che questi fossero stati i meriti loro. Io credo bene che tra vostri antenati, così come tra’ nobili che io ho conosciuti, vi saranno stati quelli che meriterebbono d’essere imitati per l’eccellenza delle loro sociali virtù; ma siccome queste virtù non si curano d’andare in volta a processione, così si saranno dimenticate insieme col nome di que’ felici vostri antenati, che le hanno possedute.
NOBILE: Or ti rechi molto in sul serio, tu ora.
POETA: Finché voi non mi faceste vedere altro che vanità, io mi risi della leggerezza del vostro cervello; ma dappoiché mi cominciate a scambiare i vizi per virtù, egli è pur forza che mi si ecciti la bile. Volete voi ora che noi torniamo a’ nostri scherzi?
NOBILE: Sì, torniamoci pure, che il tuo discorso comincia oggimai a piacere; e quasi m’hai persuaso che questa Nobiltà non sia po’ poi così gran cosa, come questi miei pari la fanno.
POETA: Rallegromene assai. Ben si vede che l’aria veritiera di questo nostro sepolcro comincia ora ad insinuarvisi ne’ polmoni, cacciandone quella che voi ci avevate recato di colassù.
NOBILE: Sì, ma ti mi dèi concedere, nondimeno, che io merito onore da te in grazia della celebrità de’ miei avi.
POETA: Or bene, io farovvi adunque quell’onore che fassi agli usurpatori, agli sgherri, a’ masnadieri, a’ violatori, a’ sicari, dappoiché codesti vostri maggiori di cui m’avete parlato furono per l’appunto tali, se io ho a stare a detta di voi; sebbene io mi creda che voi n’abbiate avuti de’ savi, de’ giusti, degli umani, de’ forti e de’ magnanimi, de’ quali non sono registrate le gesta nelle vostre genealogie perché appunto tali si furono e perché le sociali virtù non amano di andare in volta in processione. Non vi sembra egli giusto che, se voi avete ereditato i loro meriti, così ancora dobbiate ereditare i loro demeriti, a quella guisa appunto che chi adisce un’eredità assume con essa il carico de’ debiti che sono annessi a quella? e che per ciò, se quelli furono onorati, siete onorato ancora voi, e, se quelli furono infami, siate infamato voi pure?
NOBILE: No certo, ché codesto non mi parrebbe né convenevole né giusto.
POETA: E perché ciò?
NOBILE: Perché io non sono in verun modo tenuto a rispondere delle azioni altrui.
POETA: Per qual ragione?
NOBILE: Perché, non avendole io commesse, non ne debbo perciò portare la pena.
POETA: Volpone! voi vorreste adunque godervi l’eredità, lasciando altrui i pesi che le appartengono, eh! Voi vorreste adunque lasciare a’ vostri avoli la viltà del loro primo essere, la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne dee nascere, serbando per voi lo splendore della loro fortuna, il merito delle loro virtù, e l’onore ch’eglino si sono acquistati con esse.
NOBILE: Tu m’hai così confuso, ch’io non so dove io m’abbia il capo. Io son rimasto oggimai come la cornacchia d’Esopo, senza pure una piume d’intorno. Se per questo, per cui io mi credeva di meritar tanto, io sono ora convinto di non meritar nulla, ond’è adunque che quelle bestie che vivevan con noi, facevanmi tante scappellate, così profondi inchini, davanmi tanti titoli, e idolatravanmi sì fattamente ch’io mi credeva una divinità? e voi altri autori, e voi altri poeti, ne’ vostri versi e nelle vostre dediche, mi contavate tante magnificenze dell’altezza della mia condizione, della grandezza de’ miei natali, e il diavolo che vi porti, gramo e dolente ch’io mi sono rimasto!
POETA: Coraggio, Signore; ché voi siete giunto finalmente a mirare in viso la bella verità. Pochissimi sono coloro che veder la possono colassù tra’ i viventi; e qui solo tra queste tenebre ci aspetta a lasciarsi vedere tutta nuda com’ella è. Coraggio, Eccellenza.
Edizione contemporanea del Dialogo sopra la nobiltà
POETA: Dunque, in che tempo credete voi abbia avuto inizio la vostra famiglia? NOBILE: Da Carlo Magno, chiacchierone. POETA: Olà, portami rispetto, allontanati da me. NOBILE: Insolente! Come ti permetti di parlarmi così. Mi fai perdere la pazienza! POETA: Olà, spostati ti dico. NOBILE: E perché? POETA: Perché la mia famiglia è molto più antica della tua. NOBILE: Sta zitto, buffone. Da chi credi d’esser disceso? POETA: Da Adamo, ti dico io. NOBILE: Oh, l’ho detto io che tu riusciresti bene a fare il buffone. Quasi quasi mi fa piacere d’averti incontrato. Dunque, fammi l’elenco dei tuoi antenati. POETA: Eh, pensa! Dovrebbe essere la favola dell’uccellino, se dovessi raccontarti tutto. Questi rospi che ora ci rodono non hanno mica tutto questo tempo. Così fosse stato morso un tuo antenato dove ora sono addentato io; voi non vi vantereste di una così antica famiglia. NOBILE: Sbrigati. Comincia da tuo padre e poi prosegui. Come si chiamava?POETA: Giambattista, per risponderti. NOBILE: E tuo nonno? POETA: Mio nonno…NOBILE: Dì. POETA: Zitto, che mi deve venire in mente. Mio nonno… NOBILE: Sbrigati, ti dico, alla malora! POETA: Mio nonno si chiamava Guasparri. NOBILE: E il tuo bisnonno? POETA: Oh, non lo ricordo e degli altri, poi, ancora meno: ricordi tu i tuoi? NOBILE: Se me li ricordo? Senti: Rolando I, da lui Adolfo I, da lui Bertrando, poi Gualtieri, Rolando II, Agifulfo… POETA: Basta, basta, mi sono convinto che ricordi tutto. Caspita! Sei fornito di una straordinaria memoria. Sembra che tu non abbia studiato altro che la tua genealogia. NOBILE: Ti dai per vinto? Mi concedi ora che io e gli altri nobili meritiamo rispetto e venerazione da voi plebei. POETA: Ti concedo d’avere molta memoria, tu e i tuoi antenati; ma se questo ti fa degno di riverenza, non capisco perché io non debba dare dell’Illustrissimo a un uomo che mostra tutte le sue antichità, perché si ricorderebbe tanti nomi quanti tu fai, e molti di più. NOBILE: Ma è mai possibile, animale, che tu non t’accorga di quanto celebri, quanto illustri siano stati i miei avi?POETA: Ti giuro che non ne ho mai sentito parlare. Ma cosa hanno fatto questi tuoi celebri avi? Hanno forse trovato il modo di coltivare la terra? Hanno insegnato agli uomini selvaggi a diventare civili? Hanno inventato la religione, le leggi, l’arte necessarie alla vita umana? Se non hanno fatto qualcosa di questo, ti confesso sinceramente che meritavano d’esser rispettati dai loro contemporanei, e che noi stessi non possiamo fare a meno di rispettarli. Ora dimmi, hanno fatto qualcosa di questo? NOBILE: Devi sapere che questi antichi nostri avi hanno prestato grandi servizi ai loro principi, aiutandoli nelle guerre che intrapresero; per questo furono beneficati in modo munifico e resi ricchi sfondati. Dopo costoro, altri diventati arroganti per il loro potere, diventarono dei celebri fuoriusciti, e si segnalarono nel fare stare nei propri limiti il principe e la loro patria. Altri diventarono soldati mercenari per condurre le truppe ora di un principe ora di un altro e fecero molte stragi di popoli in ogni parte. Ben puoi capire che in simili circostanze, sia per timore di essere perseguitati, sia per essersi ridotti di numero, si ritirarono a vivere nei loro feudi; ricoverati in certi loro luoghi così impervi che neppure gli orsi avrebbero potuto raggiungerli; qui non ti posso dire quanto fosse grande la loro potenza. Ti basti sapere che nelle colline dov’essi si rifugiarono, non risuonava altro che il suono dei loro fucili e che essi erano padroni assoluti della vita sia delle loro mogli che dei vassalli. Ora capisci quanto grandi e quanto rispettabili siano stati questi omaccioni, dei quali teniamo i loro ritratti appesi nelle nostre sale. POETA: Suvvia, hai parlato abbastanza sullo splendore e sul merito dei tuoi avi. Basta così, perché altrimenti entreremo in un ginepraio. Inoltre tu fai un bell’onore alla tua capacità dialettica, attribuendo a tuoi avi i meriti che hai elencato. Fai di tutto per rilevare la loro vergogna e per svergognare anche te stesso, se fosse vero, come dici, che a te dovessero discendere i loro meriti e che questi siano stati i loro. Penso che tra i tuoi antenati, così come tra i nobili che ho conosciuto, ce ne sarebbero stati alcuni che meriterebbero d’essere imitati per le loro virtù sociali; ma siccome queste virtù non sono solite essere elencate, si saranno dimenticate insieme col nome di quei felici vostri antenati che le hanno possedute. NOBILE: Ora stai volgendo il discorso su cose serie. POETA: Finché tu non hai fatto altro che mostrarmi la loro vanità, ho riso della superficialità del tuo cervello; ma quando hai iniziato a scambiare vizi per virtù, è normale che mi salga la bile. Vuoi che torniamo a scherzare? NOBILE: Sì, torniamo a scherzare, che il tuo discorso comincia a piacermi; mi hai quasi convinto che questa nobiltà non sia una così gran cosa, come i miei pari ritengono. POETA: Me ne rallegro molto. Si vede che l’aria veritiera di questo sepolcro comincia a penetrare nei tuoi polmoni, facendo uscire quella che avevate portato da lassù. NOBILE: Sì, ma mi devi concedere nondimeno, che io merito onore in grazia alla celebrità dei miei avi. POETA: Suvvia, vi farò dunque l’onore che suole farsi agli usurpatori, ai delinquenti, ai soldatacci, ai violentatori, agli assassini, dal momento che i tuoi antenati, di cui mi hai parlato prima, furono appunto tali, almeno dalle tue parole; sebbene io credo che fra i tuoi antenati, ne hai avuto dei saggi, giusti, umani, forti e generosi; le gesta dei quali non sono state registrate nelle vostre genealogie perché appunto furono tali e perché le virtù sociali non amano essere ricordate. Non ti sembra giusto che, se ne hai ereditato i meriti, ne debba ereditare anche i demeriti, così come chi consegue un’eredità assume con essa anche i debiti connessi con essa? E che perciò se i tuoi avi furono onorati, sei onorato anche tu, se furono infami, devi essere considerato infame anche tu? NOBILE: No certo, che non mi sembra né conveniente né giusto. POETA: E perché? NOBILE: Perché io non sono affatto tenuto a rispondere delle azioni altrui. POETA: E perché? NOBILE: Perché non avendole commesse, non ne devo portare la pena. POETA: Furbone! Vuoi dunque godere l’eredità lasciando i pesi che le appartengono, eh! Tu vorresti lasciare ai tuoi avi la vigliaccheria del loro primo formarsi (come nobili), la malvagità delle azioni di molti di loro e la vergogna che ne deriva, conservando per te lo splendore della loro ricchezza, il merito delle loro virtù e l’onore che si sono procurati con esse. NOBILE: Mi hai così confuso che non so più dove ho la testa. Sono rimasto come la cornacchia nella favola d’Esopo, senza neppure una piuma indosso. Se per questo, io credevo di meritare tanto, e ora sono convinto di non meritare niente. Da dove deriva dunque il fatto che quelle “bestie” che vivevano con me, si scappellavano, s’inchinavano profondamente davanti a tanti titoli, mi idolatravano in modo che io mi credevo una divinità? E voi autori, poeti, nei vostri versi, nelle vostre dediche, mi raccontavate tante meraviglie della sublimità della mia condizione, della grandezza della mia nascita, e, il diavolo ti porti, son rimasto povero e dolente! POETA</ strong>: Coraggio, Signore! Sei giunto finalmente a osservare la verità. Pochissimi sono coloro che l’osservano lassù, tra i viventi, e soltanto qui, tra le tenebre ci aspetta di vederla così tutta nuda come ella è. Coraggio, Eccellenza.
Quest’opera, appartiene al periodo giovanile del Parini, infatti fu scritta tra le Poesie di Ripano Eupilino e la stesura de Il Giorno. Pur inserendosi in un filone già ben sviluppato nel corso del Settecento, quello della critica nobiliare, esso se ne distanzia per l’impianto quasi teatrale del dialogo e per la forza stringente del ragionamento. In questa operetta si mostra come le idee sull’uguaglianza illuminista passi, in Parini, attraverso un processo di rieducazione “nobiliare”, anche in vista di quello che sarà l’impegno del poeta, quello di educare. Infatti per lui non si tratta, come per i più combattivi autori del Caffè, di creare un vero e proprio ceto borghese, capace di rinnovare lo stato, cancellando le vecchie “feudalità”; egli crede che tale rinnovamento sia compito della nobiltà:
- Una forte borghesia minerebbe in profondità le strutture sociali (e morali) dello stato;
- Il predominio dell’agricoltura e quindi dei proprietari terrieri, il cui compito è quello di modernizzare il modo di produzione, lascerebbe intatta la struttura sociale e, come è tradizione, si baserebbe su quei principi che sono alla base dell’educazione cattolica.
Odi
Anche le Odi risentono di quell’impegno civile, pur se mitigato da una concezione classica della versificazione, ben in linea con le idee espresse nelle opere poetiche. Esse, 25 in tutto, furono composte in un lungo periodo di tempo, dal 1757 al 1795 e sono testimonianza della temperie culturale che il nostro autore attraversa.
Le Odi (Edizione del 1951)
Esse, proprio perché non rappresentano un opera pensata in un momento della vita, ma testimonianza sia delle idee maturate dal poeta milanese sia dalle influenze che la temperie culturale gli offriva, sogliono essere divise in tre momenti:
- 1757 – 1796: odi dal carattere illuminista che risente dell’ideologica fisiocratica; di questo periodo riportiamo la celeberrima La salubrità dell’aria (1759):
LA SALUBRITA’ DELL’ARIA
Oh beato terreno
del vago Eupili mio,
ecco al fin nel tuo seno
m’accogli; e del natìo
aere mi circondi;
e il petto avido inondi.
Già nel polmon capace
urta sé stesso e scende
quest’etere vivace,
che gli egri spirti accende,
e le forze rintègra,
e l’animo rallegra.
Però ch’austro scortese
qui suoi vapor non mena:
e guarda il bel paese
alta di monti schiena,
cui sormontar non vale
borea con rigid’ale.
Né qui giaccion paludi,
che dall’impuro letto
mandino a i capi ignudi
nuvol di morbi infetto:
e il meriggio a’bei colli
asciuga i dorsi molli.
Pèra colui che primo
a le triste ozïose
acque e al fetido limo
la mia cittade espose;
e per lucro ebbe a vile
la salute civile.
Certo colui del fiume
di Stige ora s’impaccia
tra l’orribil bitume,
onde alzando la faccia
bestemmia il fango e l’acque,
che radunar gli piacque.
Mira dipinti in viso
di mortali pallori
entro al mal nato riso
i languenti cultori;
e trema o cittadino,
che a te il soffri vicino.
Io de’miei colli ameni
nel bel clima innocente
passerò i dì sereni
tra la beata gente,
che di fatiche onusta
è vegeta e robusta.
Qui con la mente sgombra,
di pure linfe asterso,
sotto ad una fresc’ombra
celebrerò col verso
i villan vispi e sciolti
sparsi per li ricolti;
e i membri non mai stanchi
dietro al crescente pane;
e i baldanzosi fianchi
de le ardite villane;
e il bel volto giocondo
fra il bruno e il rubicondo,
Dicendo: – Oh fortunate
genti, che in dolci tempre
quest’aura respirate
rotta e purgata sempre
da venti fuggitivi
e da limpidi rivi.
Ben larga ancor natura
fu a la città superba
di cielo e d’aria pura:
ma chi i bei doni or serba
fra il lusso e l’avarizia
e la stolta pigrizia?
Ahi non bastò che intorno
putridi stagni avesse;
anzi a turbarne il giorno
sotto a le mura stesse
trasse gli scelerati
rivi a marcir su i prati.
E la comun salute
sagrificossi al pasto
d’ambizïose mute,
che poi con crudo fasto
calchin per l’ampie strade
il popolo che cade.
A voi il timo e il croco
e la menta selvaggia
l’aere per ogni loco
de’ varj atomi irraggia,
che con soavi e cari
sensi pungon le nari.
Ma al piè de’ gran palagi
là il fimo alto fermenta;
e di sali malvagi
ammorba l’aria lenta,
che a stagnar si rimase
tra le sublimi case.
Quivi i lari plebei
da le spregiate crete
d’umor fracidi e rei
versan fonti indiscrete;
onde il vapor s’aggira;
e col fiato s’inspira.
Spenti animai, ridotti
per le frequenti vie,
de gli aliti corrotti
empion l’estivo die:
spettacolo deforme
del cittadin su l’orme!
Né a pena cadde il sole
che vaganti latrine
con spalancate gole
lustran ogni confine
de la città, che desta
beve l’aura molesta.
Gridan le leggi è vero;
e Temi bieco guata:
ma sol di sé pensiero
ha l’inerzia privata.
Stolto! e mirar non vuoi
ne’ comun danni i tuoi?
Ma dove ahi corro e vago
lontano da le belle
colline e dal bel lago
e dalle villanelle,
a cui sì vivo e schietto
aere ondeggiar fa il petto?
Va per negletta via
ognor l’util cercando
la calda fantasia,
che sol felice è quando
l’utile unir può al vanto
di lusinghevol canto.
Paesaggio di campagna
Oh felice terra del mio amato lago Pusiano, ecco che infine in te mi accogli e dell’aria nella quale nacqui mi circondi; e inondi il petto desideroso di respirarla! // Questa aria vivace, che guarisce gli spiriti malati, rinnova le forze e rallegra l’animo, già si sospinge e scende nei grandi polmoni. // Perché lo scirocco nocivo qui non soffia; e protegge il bel paese una catena di alte montagne, che non riesce a oltrepassare la tramontana, che ha rigide ali. // Né qui si trovano paludi che dal letto malsano mandano alle estremità non protette nuvole infettate di malattie; e il mezzogiorno asciuga ai bei colli i dorsi umidi. // Che muoia colui che per primo espose la mia città alle acque sgradevoli e ristagnanti e al maleodorante fango; e per guadagnare non si curò della salute dei cittadini. // Sicuramente quella persona ora è invischiata nell’orribile fanghiglia del fiume Stige, dal quale alzando la faccia impreca contro il fango e l’acqua che gli piacque raccogliere. // Guarda tra il riso maledetto i coltivatori malati che hanno dipinto in viso un pallore mortale; e tu, o cittadino, trema, perché sopporti che il riso sia coltivato nelle vicinanze della città. // Io trascorrerò i miei giorni tra la gente felice, sana e robusta anche se carica di fatiche, dei miei colli salubri nel bel clima incontaminato. // Qui, con la mente libera, circondato da acque pure, al fresco sotto l’ombra celebrerò con i versi i contadini vivaci e agili sparsi per i campi coltivati; // e canterò ancora le membra sempre stanche dietro al grano che cresce, i robusti fianchi delle contadine ardite, il bel volto allegro tra il marrone e il rosso // dicendo: – Oh genti fortunate, che in un clima mite respirate questa aria, ventilata e purificata sempre da venti passeggeri e da limpidi ruscelli! // La natura diede con generosità un cielo terso e un’aria pura alla città superba; ma ora chi conserva i bei doni, tra il lusso, l’avarizia e la sciocca pigrizia? // Ahi! Non bastò che avesse intorno putridi stagni; ma addirittura sotto le sue stesse mura portò i maledetti ruscelli a marcire sui prati per contaminare l’aria. // E la salute comune fu sacrificata per il desiderio di ambiziosi cavalli, che poi passano per le strade con crudeltà e fasto, facendo cadere il popolo. // A voi il timo, lo zafferano e la menta selvatica diffondono in aria vari profumi per ogni luogo, che con dolci e care sensazioni stimolano le narici. // Ma ai piedi dei grandi palazzi una gran quantità di letame fermenta e infetta con esalazioni nocive l’aria immobile, che rimane a ristagnare tra le case alte. // Qui le case dei poveri versano dai vasi da notte fonti, che recano disturbo al pubblico, di liquidi marci e malvagi, dai quali il vapore si diffonde e viene inspirato assieme al fiato. // Animali morti, abbandonati per le vie affollate, riempiono i giorni estivi di esalazioni malsane, spettacolo che provoca ribrezzo al cittadino che sta camminando. // Appena è sceso il sole, navazze vaganti con aperture spalancate percorrono ogni strada della città, che quando si sveglia, respira l’aria nociva. // Le grida vietano ciò, è vero; e Temi, dea della giustizia, osserva con sguardo bieco; ma la pigrizia dell’individualista bada solo ai propri interessi. Sciocco! E non vuoi vedere nel danno comune il tuo proprio? // Ma dove corro e mi allontano, lontano dalle belle colline, dal bel lago e dalle piccole contadine, alle quali l’aria così viva e pura fa ondeggiare il petto? // L’ispirazione poetica va per una via trascurata dagli altri poeti, cercando sempre l’utile, perché è felice solo quando può unire l’utile all’orgoglio di un canto armonioso.
In quest’ode è palese la polemica contro la cattiva amministrazione cittadina che permette la presenza di acque stagnanti per la produzione di riso intorno alla città e per la scarsa attenzione all’igiene pubblica. E’ evidente che tale argomento avvicina lo scrittore alle contemporanee battaglie del combattivo periodico Caffè. Tuttavia c’è qualcosa che lo allontana e fa di quest’ode un tratto tipico della concezione poetica pariniana: l’esaltazione della campagna, di contro alla città, è ancora pervasa da elementi idillici, edulcorati, di derivazione arcadica; lo stile è fortemente ricercato, con una costruzione del verso fortemente ipotattica con inversione degli elementi sintattici, richiami alla cultura classica, ma anche alla concretezza nominale, secondo il sensismo “polmon capace”. Ma ancora più fondamentale è la chiusa dell’ode in cui afferma, orgogliosamente, di scrivere poesia su argomenti “sconosciuti” letterariamente parlando, cioè riguardanti il “vivere civile”, ma tale scelta può riguardare il tema poetico e non la forma, altrimenti la poesia cesserebbe di essere tale.
- Nel secondo periodo, che copre gli anni tra il 1777 ed il 1785, le odi presentano un aspetto maggiormente civile, come appare, appunto l’autobiografica e famosa ode La caduta (1785):
LA CADUTA
Quando Orïon dal cielo
declinando imperversa;
e pioggia e nevi e gelo
sopra la terra ottenebrata versa,
me spinto ne la iniqua
stagione, infermo il piede,
tra il fango e tra l’obliqua
furia de’ carri la città gir vede;
e per avverso sasso
mal fra gli altri sorgente,
o per lubrico passo
lungo il cammino stramazzar sovente.
Ride il fanciullo; e gli occhi
tosto gonfia commosso,
che il cubito o i ginocchi
me scorge o il mento dal cader percosso.
Altri accorre; e: oh infelice
e di men crudo fato
degno vate! mi dice;
e seguendo il parlar, cinge il mio lato
con la pietosa mano;
e di terra mi toglie;
e il cappel lordo e il vano
baston dispersi ne la via raccoglie:
te ricca di comune
censo la patria loda;
te sublime, te immune
cigno da tempo che il tuo nome roda
chiama gridando intorno;
e te molesta incìta
di poner fine al “Giorno”,
per cui cercato a lo stranier ti addita.
Ed ecco il debil fianco
per anni e per natura
vai nel suolo pur anco
fra il danno strascinando e la paura:
nè il sì lodato verso
vile cocchio ti appresta,
che te salvi a traverso
de’ trivii dal furor de la tempesta.
Sdegnosa anima! prendi
prendi novo consiglio,
se il già canuto intendi
capo sottrarre a più fatal periglio.
Congiunti tu non hai,
non amiche, non ville,
che te far possan mai
nell’urna del favor preporre a mille.
Dunque per l’erte scale
arrampica qual puoi;
e fa gli atrj e le sale
ogni giorno ulular de’ pianti tuoi.
O non cessar di porte
fra lo stuol de’ clienti,
abbracciando le porte
de gl’imi, che comandano ai potenti;
e lor mercè penètra
ne’ recessi de’ grandi;
e sopra la lor tetra
noja le facezie e le novelle spandi.
O, se tu sai, più astuto
i cupi sentier trova
colà dove nel muto
aere il destin de’ popoli si cova;
e fingendo nova esca
al pubblico guadagno,
l’onda sommovi, e pesca
insidioso nel turbato stagno.
Ma chi giammai potrìa
guarir tua mente illusa,
o trar per altra via
te ostinato amator de la tua Musa?
Lasciala: o, pari a vile
mima, il pudore insulti,
dilettando scurrile
i bassi genj dietro al fasto occulti.
Mia bile, al fin costretta,
già troppo, dal profondo
petto rompendo, getta
impetuosa gli argini; e rispondo:
Chi sei tu, che sostenti
a me questo vetusto
pondo, e l’animo tenti
prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto.
Buon cittadino, al segno
dove natura e i primi
casi ordinàr, lo ingegno
guida così, che lui la patria estimi.
Quando poi d’età carco
il bisogno lo stringe,
chiede opportuno e parco
con fronte liberal, che l’alma pinge.
E se i duri mortali
a lui voltano il tergo,
ei si fa, contro ai mali,
della costanza sua scudo ed usbergo.
Nè si abbassa per duolo,
nè s’alza per orgoglio.
E ciò dicendo, solo
lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio.
Così, grato ai soccorsi,
ho il consiglio a dispetto;
e privo di rimorsi,
col dubitante piè torno al mio tetto.
Gaetano Matteo Monti: Monumento a Giuseppe Parini nel museo di Brera (1838)
Quando Orione, costellazione celeste, fa sentire i suoi influssi negativi sul clima, mentre volge al tramonto e la pioggia, la neve ed il gelo si versano sopra il buio terreno, la città vede camminare me, che mi muovo nella brutta stagione, con la gamba malata, tra il fango ed il disordinato e caotico procedere veloce dei carri; // e per una pietra a me avversa che sporge rispetto alle altre o per un passaggio sdrucciolevole, (la città vede) lungo il cammino me stramazzare spesso. // Ride il ragazzo, ma subito volge il riso in pianto commosso, quando vede il gomito, le ginocchia e il mento percosso. // Accorre un altro uomo e mi dice: «Oh, infelice poeta, degno di un destino meno crudele e, continuando a parlare, circonda il mio fianco // con la mano pietosa e mi solleva da terra; e raccoglie nella strada il cappello sporco ed il bastone. «La patria ricca di denaro ti loda, te poeta immortale immune dall’essere cancellato del nome che invoca gridando e con insistenza ti spinge a terminare Il Giorno opera grazie alla quale ti mostra allo straniero // eppure continui a trascinare il tuo corpo debilitato dagli anni e dalle malattie. // Eppure continui a trascinare il tuo corpo debilitato dagli anni e dalle malattie a piedi fra il danno di una caduta e paura di un’altra // e né i tuoi versi, sebbene lodati ti permettono un pur misero cocchio che ti salvi dagli incroci delle strade e dalle intemperie. // Anima sdegnosa, prendi una nuova decisione se intendi sottrarre il vecchio capo da altri pericoli. // Tu non hai parenti né amiche facoltose e nemmeno ville lussuose che ti possano far preferire a mille altri nel gioco casuale della sorte. // Dunque arrampicati per le ardue scale dei potenti come puoi e fai risuonare, ululando come un cane il tuo pianto, nei loro atri e nei loro saloni // e non smettere di collocarti nella schiera dei clienti, umiliandoti di fronte alle persone “basse” capaci di influenzare i potenti; // e grazie a loro insinuati nelle stanze più recondite dei potenti, e sopra la loro tetraggine recita storielle argute e pettegolezzi. // Ora, se tu sai, cerca astutamente i percorsi oscuri per giungere là dove si decide il destino dei popoli; // e fingendo di aver trovato un nuovo modo per incrementare l’erario pubblico, confondi le acque e trai vantaggio con l’imbroglio. // Ma chi mai potrebbe guarire la tua mente illusa o fare percorrere una via (più facile al guadagno) te, così legato al concetto di poesia civile e morale? // Abbandonala o come una volgare attrice, (la tua Musa) insulti il pudore, solleticando i bassi istinti nascosti dietro il fasto». // La mia ira, trattenuta fin troppo, uscendo dal profondo petto, rompe gli argini e così gli rispondo: «Chi sei tu che aiuti a sollevare questo vecchio corpo e nonostante questo lo getti in terra? Sei caritatevole, ma non giusto. // Un buon cittadino dirige le sue capacità verso quell’obiettivo dove lo indirizzarono la sua indole e i primi eventi della sua vita, in modo tale che la patria abbia stima di lui. // Quando poi, appesantito dagli anni, lo assale il bisogno, domanda aiuto con discrezione e misura, a testa alta come comanda la sua dignità interiore. // E se gli uomini insensibili gli voltano le spalle, egli si fa scudo e perseveranza grazie alla sua integrità morale. // Non abbassa se stesso per il dolore, né si innalza per orgoglio» E così dicendo, abbandono colui che costituiva il mio appoggio e mi allontano con aria sdegnata. // Così grato per i soccorsi avuti, sono indispettito dai consigli e privo di rimorsi, col passo incerto torno a casa mia.
Su un tessuto fortemente classicheggiante, il Parini, come spesso nella sua poesia, gioca sulla contrapposizione dell’innocenza del bambino che prima “ride” di fronte alla caduta, per poi commuoversi per le ferite del poeta. Il poeta racconta un episodio autobiografico, una caduta sul selciato dovuta alle malcerte gambe (era malato di artrite) e l’accorrere misericordioso di un passante. A questa prima descrizione ne segue una seconda determinata dalla lunga perorazione del soccorritore, che muta tuttavia diventando da colui che aiuta a risollevare il poeta a colui che lo vorrebbe “gettare” in terra con l’adulazione e la falsità intellettuale. A questo rovesciamento corrisponde l’altrettanto ribaltamento dell’uomo in terra che invece sa elevarsi moralmente sulla meschinità, insegnando, termine fondamentale nella poetica pariniana, la moralità che si traduce, nel poeta stesso, in onestà intellettuale.
- Fra gli anni compresi tra il 1787 ed il 1795 cominciano a prevalere odi dal carattere intimistico, in cui appare la crisi dell’illuminismo ed il sorgere di tematiche già neoclassiche, come ci testimonia l’ode Alla Musa (1795):
ALLA MUSA
Te il mercadante che col ciglio asciutto
fugge i figli e la moglie ovunque il chiama
dura avarizia nel remoto flutto,
Musa, non ama.
Né quei cui l’alma ambiziosa rode
fulgida cura, onde salir più agogna;
e la molto fra il dì temuta frode
torbido sogna.
Né giovane, che pari a tauro irrompa
ove a la cieca più Venere piace:
né donna, che d’amanti osi gran pompa
spiegar procace.
Sai tu, vergine dea, chi la parola
modulata da te gusta od imìta;
onde ingenuo piacer sgorga, e consola
l’umana vita?
Colui cui diede il ciel placido senso
e puri affetti e semplice costume;
che, di sé pago e dell’avito censo,
più non presume;
che spesso al faticoso ozio de’ grandi
e all’urbano clamor s’invola, e vive
ove spande natura influssi blandi
o in colli o in rive;
e in stuol d’amici numerato e casto,
tra parco e delicato al desco asside;
e la splendida turba e il vano fasto
lieto deride;
che ai buoni, ovunque sia, dona favore;
e cerca il vero; e il bello ama innocente;
e passa l’età sua tranquilla, il core
sano e la mente.
Dunque per che quella sì grata un giorno
del giovin cui diè nome il dio di Delo
cetra tace; e le fa lenta intorno
polvere velo?
Ben mi sovvien, quando, modesto il ciglio,
ei già scendendo a me, giudice fea
me de’ suoi carmi: e a me chiedea consiglio:
e lode avea.
Ma or non più. Chi sa? Simìle a rosa
tutta fresca e vermiglia al sol che nasce,
tutto forse di lui l’eletta sposa
l’animo pasce.
E di bellezza, di virtù, di raro
amor, di grazie, di pudor natìo
l’occupa sì, ch’ei cede ogni già caro
studio all’oblio.
Musa, mentr’ella il vago crine annoda,
a lei t’appressa; e con vezzoso dito
a lei premi l’orecchio; e dille: e t’oda
anco il marito:
«Giovinetta crudel; per che mi togli
tutto il mio D’Adda, e di mie cure il pregio
e la speme concetta, e i dolci orgogli
d’alunno egregio!
Costui di me, de’ genii miei s’accese
pria che di te. Codeste forme infanti
erano ancor, quando vaghezza il prese
de’ nostri canti.
Ei t’era ignoto ancor, quando a me piacque.
Io di mia man per l’ombra e per la lieve
aura de’ lauri l’avviai, vèr l’acque
che, al par di neve
bianche le spume, scaturir dall’alto
fece Aganippe, il bel destrier che ha l’ale:
onde chi beve io tra i celesti esalto
e fo immortale.
Io con le nostre il volsi arti divine
al decente, al gentile, al raro, al bello:
fin che tu stessa gli apparisti al fine
caro modello.
E se nobil per lui fiamma fu desta
nel tuo petto non conscio: e s’ei nodria
nobil fiamma per te, sol opra è questa
del cielo e mia.
Ecco già l’ale il nono mese or scioglie
da che sua fosti, e già, deh! ti sia salvo,
te chiaramente in fra le madri accoglie
il giovin alvo.
Lascia che a me solo un momento ei torni;
e novo entro al tuo cor sorgere affetto,
e novo sentirai da i versi adorni
piover diletto:
però ch’io stessa, il gomito posando
di tua seggiola al dorso, a lui col suono
de la soave andrò tibia spirando
facile tono:
onde, rapito, ei canterà che sposo
già felice il rendesti, e amante amato;
e tosto il renderai dal grembo ascoso
padre beato.
Scenderà in tanto dall’eterea mole
Giuno, che i preghi de le incinte ascolta;
e vergin io de la Memoria prole,
nel velo avvolta,
uscirò co’ bei carmi; e andrò gentile
dono a farne al Parini, italo cigno,
che, ai buoni amico, alto disdegna il vile
volgo maligno.»
Euterpe, la musa della poesia lirica e della musica
La Musa non ama te, mercante che senza una lacrima si allontana dai figli e dalla moglie ovunque lo chiami l’avidità che rende i cuori duri nei mari lontani; // né (ama) quello a cui l’anima ambiziosa corrosa dal desiderio di successo per cui ambisce salire più in alto, e sogna con agitazione la molto temuta frode durante il giorno. // Non ama neppure il giovane, che come un toro irrompe dove la lussuria vuole trascinarlo, né la donna che osi mettere in mostra un gran numero d’amanti. // Lo sai tu, vergine dea, chi la parola poetica ama leggere ed imita, da cui emerge un piacere sincero, e (che) consola la vita umana? // Colui al quale il cielo ha offerto sentimenti onesti e affetti sinceri e un semplice modo di vivere, che non desidera di più del patrimonio ereditato, contento del suo stato, // che spesso si allontana dal faticoso ozio dei potenti e dal clamore della città e vive dove la natura spande i suoi benefici effetti o sulle colline o in riva al mare; // e in un gruppo di pochi e onesti amici, e tra essi siede a tavola con moderazione e finezza e deride la folla dei ricchi e l’inutile fasto; // che dona, dovunque egli sia, favori alle persone buone e ricerca la verità ed ama l’innocente bellezza, e passa la sua vita tranquillamente, con il cuore e la mente sani. // Dunque perché la cetra del giovane, cui il dio di Delo (Apollo, Febo) diede il nome, ora tace un tempo così gradita, e la polvere lenta la ricopre come un velo? // Mi ricordo, ora, quando, con atteggiamento modesto, scendendo dal suo palazzo nella mia piccola casa mi fece giudice delle sue poesie e mi chiedeva consiglio e ne riceveva lode. // Ma ora non più. Chissà? Come una rosa fresca e rossa si nutre del sole che nasce, (così) forse la sposa diletta nutre tutto il suo animo, // e lo occupa di bellezza, di virtù, di amore, di grazia, di una innata pudicizia, che egli cede ogni già gradito studio alla dimenticanza. // Musa, mentre ella i bei capelli in-treccia, avvicinati e, premendole con un dito l’orecchio, dille, e fa in modo che t’ascolti an-che il marito: // “Giovinetta crudele, perché mi rapisci tutto il mio D’Adda, e il frutto dei miei insegnamenti e la speranza riposta su di lui, e il dolce orgoglio di aver formato un egregio alunno? // Costui si accese di me, delle mie qualità, prima che s’accendesse di te. Le sue membra erano ancora infantili, quando fu conquistato dalla dolcezza della poesia. // Non lo conoscevi ancora quando a me lui piacque. Io con la mia mano l’avviai, nell’ombra attraversata dal soffio dei venti tra gli allori, verso le acque del monte Pegaso, che simili a neve, // con le spume bianche, Pegaso bel destriero, fece nascere dall’alto, dalle cui acque, per chi le beve, io innalzo tra gli dei e lo rendo mortale. // Io con le arti divine lo diressi verso ciò che è decente, gentile, raro, bello, tanto che tu stessa alla fine gli apparisti come un gradito modello. // E se fu destata in te una nobile fiamma per lui nel tuo petto in-consapevole e se egli nutriva una nobile fiamma per te, ciò è opera solo mia e del cielo. // Ecco che già il nono mese in cui tu fosti sua è terminato, e già, lo voglia Dio, il giovane ventre ti accoglie già fra le madri. // Lascia che lui torni a me solo un momento e sentirai sorgere nel tuo cuore un nuovo affetto, giungere una nuova gioia dai bei versi, // perché io stesso, poggiando il gomito sullo schienale della tua sedia, a lui ispirerò con il suono del soave flauto una piacevole poesia, // per cui rapito egli canterà che lo hai reso sposo felice, e un amante amato da te, e presto lo renderai padre beato di un figlio nascosto nel tuo grembo. // Scenderà nel frattempo Giunone dall’Olimpo, che ascolta le parole delle donne incinte // ed io vergine figlia della Memoria, avvolta in un velo, uscirò con le mie belle poesie e andrò a farne dono al Parini, poeta italiano, che amico dei buoni, disprezza fortemente il vile volgo maligno.
E’ questa una delle ultime odi del Parini e nasce come omaggio poetico verso un suo alunno, Febo D’Adda, che stava per diventare padre. Non manca in quest’ode il sentimento morale che ha contraddistinto la fase illuminista di Parini; tuttavia sono notevoli le differenze con un testo come La salubrità dell’aria:
- Non emerge qui un tema “prettamente civile”, ma un fatto privato;
- E’ protagonista qui la poesia, che si presenta nella sua forma “adorna” e classica;
- Prevale, rispetto al sensismo, la ricerca di parole vaghe, incorporee e prese dalla tradizione;
- Pervade l’ode la ricerca della armonia del dettato, che vuole rendere il tutto estremamente etereo;
- La consapevolezza dell’essere lui il cantore dell’armonia del canto poetico.
E’ che Parini, ormai deluso dalla piega cui l’Illuminismo ha condotto la storia, cerchi altri approdi poetici che la temperie culturale dell’epoca stava già elaborando: il neoclassicismo.
Il Giorno
Questo passaggio dai valori illuministici ad una visione maggiormente neoclassica, armonica, della poesia, è riscontrabile anche nell’opera maggiore del Parini: Il Giorno. Quest’opera consta di quattro parti: Il Mattino, Il Mezzogiorno, Il Vespro e La Notte: e se i primi due sono informati dallo spirito de La vita rustica, gli ultimi risentono del clima de Alla Musa, e furono pubblicati postumi all’inizio dell’800. E’ un poemetto in endecasillabi sciolti, metro usato per le opere didascaliche; anche il Giorno lo è: infatti Parini s’immagina precettore di un “giovin signore” e l’accompagna nei riti e nelle occupazioni proprie dei quattro momenti della giornata. In sostanza deve “educare” questo giovane aristocratico a ben figurare nella vuota società alla quale appartiene.
Tuttavia l’opera ha una funzione morale e satirica in quanto il suo vero oggetto è la vita frivola e vuota dell’aristocrazia. E’ un’opera incompiuta, in quanto manca di una stesura definitiva. Dapprima il poeta lavora contemporaneamente a due poemetti: il Mattino e il Mezzogiorno che vengono pubblicati nel 1763 e nel 1765; quindi comincia a progettare la Sera, senza concluderla. Più tardi pensa di riunire tutto il materiale in un unico testo: dalla Sera derivano due parti il Vespro e la Notte, che tuttavia non vedranno la luce durante la sua vita, ma saranno pubblicate, incompiute, postume. La continua revisione che dell’opera fa il poeta ci porta a diverse edizioni del Giorno, in cui si riflettono i cambiamenti politici e poetici dell’autore. Il modo con cui Parini conduce la narrazione è detto “antifrastico”: infatti esiste un narratore che ha una duplice faccia: da una parte egli “educa” il giovin signore ai piaceri della vita, dall’altra polemizza contro quel sistema di vita. Per meglio dire il lettore è invitato a leggere sempre il contrario di ciò che è contenuto nel dettato. Il registro è pertanto l’ironia che sottende tutta l’opera.
Esempio di ciò è l’incipit:
IL RISVEGLIO DEL GIOVIN SIGNORE
Sorge il mattino in compagnia dell’alba
innanzi al Sol che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villano sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intepidir la notte:
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovàr Cerere e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del Sol raggi rifrange.
Allora sorge il Fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette; o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol giojelli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.
Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo
qual istrice pungente irti i capelli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
Signor, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie e le canore scene
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte: e stanco alfine
in aureo cocchio col fragor di calde
precipitose rote e il calpestìo
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno; e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi
siccome allor che il Siculo terreno
dall’uno all’altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.
Così tornasti a la magion: ma quivi
a novi studj ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di Francesi colli
e d’Ispani e di Toschi o l’Ongherese
bottiglia a cui di verde edera Bacco
concedette corona, e disse: siedi
de le mense reina. Alfine il Sonno
ti sprimacciò le morbide coltrici
di propria mano, ove, te accolto, il fido
servo calò le seriche cortine:
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire altrui.
Dritto è perciò che a te gli stanchi sensi
non sciolga da’ papaveri tenaci
Morfèo prima, che già grande il giorno
tenti di penetrar fra gli spiragli
de le dorate imposte; e la parete
pingano a stento in alcun lato i raggi
del Sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno: e quinci io debbo
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar cantando.
Già i valetti gentili udir lo squillo
del vicino metal cui da lontano
scosse tua man col propagato moto;
e accorser pronti a spalancar gli opposti
schermi a la luce; e rigidi osservàro
che con tua pena non osasse Febo
entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia
alli origlieri i quai lenti gradando
all’omero ti fan molle sostegno.
Poi coll’indice destro, lieve lieve
sovra gli occhi scorrendo, indi dilegua
quel che riman de la Cimmeria nebbia;
poi de’ labbri formando un picciol arco,
dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
O, se te in sì gentile atto mirasse
il duro Capitan quando tra l’armi,
sgangherando le labbra, innalza un grido
lacerator di ben costrutti orecchi,
onde a le squadre varj moti impone;
se te mirasse allor, certo vergogna
avria di sé più che Minerva il giorno
che, di flauto sonando, il fonte scorse
il turpe aspetto de le guance enfiate.
Ma già il ben pettinato entrar di novo
tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
quale oggi più de le bevande usate
sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
indiche merci son tazze e bevande:
scegli qual più desii. S’oggi ti giova
porger dolci allo stomaco fomenti
sì che con legge il natural calore
v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
scegli ’l brun cioccolatte, onde tributo
ti da il Guatimalese e il Caribbeo
ch’ha di barbare penne avvolto il crine:
ma se nojosa ipocondria t’opprime,
o troppo intorno a le vezzose membra
adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
la nettarea bevanda ove abbronzato
fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo
giunto, e da Moca che di mille navi
popolata mai sempre insuperbisce.
Certo fu d’uopo che dal prisco seggio
uscisse un Regno, e con ardite vele
fra straniere procelle e novi mostri
e teme e rischi ed inumane fami
superasse i confin, per lunga etade
inviolati ancora: e ben fu dritto
se Cortes e Pizzarro umano sangue
più non istimàr quel ch’oltre l’Oceàno
scorrea l’umane membra; onde tonando
e fulminando, alfin spietatamente
balzaron giù da’ loro aviti troni
re Messicani e generosi Incassi,
poiché nuove così venner delizie,
o gemma de gli eroi, al tuo palato.
Rappresentazione scolastica del “Risveglio del giovin signore”
Sorge il mattino in compagnia dell’alba prima del sole che poi grande appare sull’orizzonte e rende felici gli animali, le piante, i campi e il mare. Allora il buon contadino si alza dal caro letto che la moglie e i figli avevano intiepidito durante la notte; poi portando sul collo i sacri attrezzi che Cerere e Pale (rispettivamente dea delle messi e della pastorizia) avevano scoperto per prime, va nel campo con il bue che gli cammina lentamente davanti, e dal piccolo sentiero scuote i rami dalla rugiada che come gemme riflettono i nascenti raggi del sole. Nello stesso tempo si alza il fabbro e riapre la rumorosa officina e ritorna alle opere non terminate il giorno precedente, sia se lavora a rendere sicuri i forzieri all’inquieto ricco fornendogli una chiave complessa e di meccanismi di ferro, sia se vuole incidere gioielli e vasi d’argento e d’oro per ornamento di spose e tavole imbandite. Ma che? Tu inorridisci e drizzi i capelli come un istrice a sentire le mie parole? Ah, non è questo il tuo mattino, giovin signore. Tu non ti sei seduto ad una povera mensa al tramonto del sole e ieri non sei andato a dormire in un letto scomodo alla luce incerta del crepuscolo, come è condannato a fare l’umile volgo. A voi nobili, figli degli dei, a voi concilio di semidei, Giove benigno concesse altro destino, e a me conviene guidarvi lungo una nuova strada con accorgimenti e leggi diverse. Tu hai prolungato la notte tra le feste, il teatro dell’opera e il gioco d’azzardo e infine stanco, in una carrozza d’oro, con il fragore di calde ruote e il calpestio dei cavalli velocissimi, lungamente hai turbato la quieta aria notturna e hai illuminato intorno a te le tenebre con alte fiaccole, cosi come Plutone, che fece rimbombare il territorio siciliano dall’uno all’altro mare con il carro a cui davanti splendevano fiaccole delle Furie dai capelli di serpente. Così sei tornato al palazzo, ma qui a nuove occupazioni ti preparava la mensa con stuzzichini e vini inebrianti dei colli francesi, spagnoli, toscani, o quello ungherese (Tokaj), a cui Bacco concesse una corona di verde edera e le disse: “Siedi, regina della tavola”. Infine il sonno ti assestò con le proprie mani i morbidi guanciali, intorno ai quali, una volta adagiato, il servo abbassò i tendaggi di seta e a te chiuse gli occhi dolcemente il gallo che è solito aprili agli altri. E’ perciò giusto che Morfeo, dio del sonno, non ti sciolga dal sonno profondo i sensi stanchi, prima che il giorno tenti di entrate tra le imposte dorate e prima che i raggi del sole alto si rifrangano a stento sulle pareti. Qui devono avere inizio le gradite occupazioni della tua giornata, e da questo momento che devo iniziare il mio compito, e con i miei insegnamenti guidare te verso le imprese gloriose. Già i valletti solerti hanno udito lo squillo del campanello scosso da lontano (attraverso una corda) dalla tua mano, e accorsero pronti a spalancare le imposte opposte alla luce e attenti hanno fatto in modo che Febo (il sole) non osasse colpirti direttamente gli occhi. Alzati ora un poco e appoggiati sui cuscini, i quali, digradando, ti offrono un gradito sostegno alle spalle. Passa l’indice della mano leggero leggero sugli occhi quindi cancella i segni del sonno e, formando con le labbra un piccolo arco gradevole da vedersi, sbadiglia silenziosamente. O se ti vedesse in un atteggiamento così raffinato il duro capitano quando tra le armi, spalancando la bocca, lancia un grido che lacera le orecchie, con cui ordina alla squadre dei movimenti; se ti vedesse proverebbe una vergogna più grande di quella di Minerva quando vide riflesse le sue guance gonfie mentre suonava il flauto. Ma già io vedo entrare il tuo servitore ben pettinato; egli ti chiede quale, fra le solite bevande, tu preferisci nella tua tazza preziosa; tazze e bevande sono prodotti orientali, scegli quello che più desideri. Se oggi ti è gradito offrire allo stomaco dolci e riscaldanti bevande tanto che il calore vi giunga regolato e ti aiuti a digerire scegli lo scuro cioccolato che te ne fanno dono gli abitanti del Guatemala e dei Caraibi che hanno i capelli circondati di penne secondo l’uso barbarico. Ma se ti appesantisce una certa malinconia (causata dalla digestione) o cresce troppo grasso attorno alle tue graziose parti del corpo, onora le tue labbra con la bevanda simile al nettare nella quale tostato fuma e brucia il seme giunto da te da Aleppo e da Moca che sempre affollata da mille navi, insuperbisce. Certo fu necessario che uno stato uscisse dai territori antichi (Spagna) e con navi coraggiose fra tempeste in mari sconosciuti ed eventi straordinari e timori, rischi e privazioni, superasse i confini del mondo conosciuto ancora inviolati. E fu veramente giusto che Cortes e Pizzarro non stimassero sangue umano quello che scorreva nei corpi della gente d’oltremare, per cui tuonando e fulminando (con le armi da fuoco) infine gettarono giù dagli antichi troni i re messicani e i generosi Incas affinché giungessero così, o gemma degli eroi, nuove delizie al tuo palato.
E’ chiaro già da questo incipit la vena polemica del Parini: alla vita sobria dei contadini e degli artigiani fa da contraltare quella vuota ed inetta del giovin signore. La parodia è certo data dal rovesciamento dei valori, dalle iperboli di cui è intessuto il brano e dalla splendida polemica anticoloniale che chiude il passo. Ma più forte e più incisivo è il motivo anti-aristocratico contenuto nell’episodio del licenziamento d’un servo per un futile motivo da parte di una dama:
LA VERGINE CUCCIA
Tal ei parla o signor: ma sorge in tanto
a quel pietoso favellar de gli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta
pari a le stille tremule brillanti,
che a la nova stagion gemendo vanno
da i palmiti di Bacco entro commossi
al tiepido spirar de le prim’aure
fecondatrici. Or le sovvien del giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovanilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con gli eburnei denti
segnò di lieve nota: e questi audace
col sacrilego piè lanciolla: ed ella
tre volte rotolò; tre volte scosse
lo scompigliato pelo, e da le vaghi
nari soffiò la polvere rodente:
indi i gemiti alzando, aita aita
parea che dicesse; e da le aurate volte
a lei la impietosita eco rispose;
e dall’infime chiostre i mesti servi
asceser tutti: e da le somme stanze
le damigelle pallide tremanti
precipitàro. Accorse ognuno: il volto
fu d’essenze spruzzato a la tua dama:
ella rinvenne al fine. Ira e dolore
l’agitavano ancor: fulminei sguardi
gettò sul servo; e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; e in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti,
vergine cuccia de le Grazie alunna.
L’empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre: a lui non valse
zelo d’arcani ufici. Ei nudo andonne
de le assise spogliato onde pur dianzi
era insigne a la plebe: e in van novello
signor sperò; che le pietose dame
inorridìro; e del misfatto atroce
odiàr l’autore. Il perfido si giacque
con la squallida prole e con la nuda
consorte a lato su la via spargendo
al passeggero inutili lamenti:
e tu vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane isti superba.
Così egli (il vegetariano) parla, o Signore, e sgorga intanto per le sue pietose parole una dolce piccola lacrima dagli occhi della tua Dama, simile a gocce tremule, brillanti, che in primavera stillano dai tralci della vite, portate dei primi venti fecondatori di vita. Ora le torna alla mente il giorno, oh terribile giorno! in cui la sua bella e dolce cagnetta allevata dalle Grazie, giocando in modo giovanile, segnò lievemente con i denti d’avorio il piede plebeo di un servo, ed egli, audace, con il piede sacrilego la lanciò via e lei tre volte agitò i peli scarmigliati, e dalle narici soffiò polvere irritante. Quindi emettendo gemiti pareva che dicesse aiuto aiuto e dai soffitti dorati rispose Eco impietosita: e dalle stanze di sotto tutti i servi accorsero preoccupati e dai piani di sopra le damigelle pallide scesero in fretta. Tutti accorsero; il volto della tua dama fu spruzzato di essenze ed alla fine rinvenne: l’ira, il dolore l’agitavano ancora, gettò sul servo sguardi rapidissimi e chiamò debolmente tre volte la sua cagnetta e questa gli corse in braccio; a modo suo sembrava chiedere vendetta e tu vendetta avesti, giovane cagnetta allevata dalle grazie. Il servo empio tremò; udì la sua condanna con gli occhi a terra. A lui non valse il merito di vent’anni di servizio, a lui non fu d’aiuto lo zelo con cui compì incarichi segreti, si pregò e si promise inutilmente; egli se ne andò privato della divisa grazie alla quale in passato era rispettato tra la gente. Inutilmente sperò di trovare un altro padrone, perché le dame pietose inorridirono per il suo gesto e provarono odio per l’autore di questo misfatto. L’infelice restò sulla strada insieme ai figli denutriti e con la moglie accanto, diffondendo inutili lamenti tra i passanti, e tu giovane cagnetta, dea compensata da vittime umane, andasti superba.
E’ questa una delle pagine più famose del Parini: qui il nostro sfoggia una vena polemica che colpisce nel segno: l’indignazione, tuttavia, non prevale sul dettato poetico, che mescola uno stile leggiadro con la profonda rettitudine morale che trasuda da ogni verso. Ne sia testimonianza il finale, con il servo costretto ad elemosinare, vendetta della “superba vergine cuccia, delle Grazie alunna”.
GLI ILLUMINISTI
Cotesto ancor di rammentar fia tempo
i novi sofi, che la Gallia, e l’Alpe
esecrando persegue: e dir qual arse
de’ volumi infelici, e andò macchiato
d’infame nota: e quale asilo appresti
filosofia al morbido Aristippo
del secol nostro; e qual ne appresti al novo
Diogene dell’auro spregiatore,
e della opinione de’ mortali.
Lor volumi famosi a te verranno
da le fiamme fuggendo a gran giornate
per calle obliquo, e compri a gran tesoro
o da cortese man prestati, fièno
lungo ornamento a lo tuo speglio innanzi.
Poiché scorsi gli avrai pochi momenti
specchiandoti, e a la man garrendo indotta
del parrucchier; poiché t’avran la sera
conciliato il facil sonno, allora
a la toilette passeran di quella
che comuni ha con te studi e liceo
ove togato in cattedra elegante
siede interprete Amor. Ma fia la mensa
il favorevol loco ove al sol esca
de’ brevi studj il glorioso frutto.
Louis-Marin Bonnet: Donna che prende il caffè (1774)
Adesso è giunto il momento di ricordare i nuovi filosofi, gli illuministi, che la Francia e la Svizzera perseguitano, condannando le loro teorie e dire quale loro opera fu bruciata e colpita da una censura infamante e quale rifugio la filosofia procuri all’edonista Arisippo del nostro tempo (Voltaire) e quale al nostro Diogene (Rousseau), dispregiatore della ricchezza e delle opinioni volgari. I famosi loro volumi ti giungeranno in poco tempo, fuggendo dai roghi, comperati per via illegali o prestati da una persona gentile e saranno importante ornamento davanti alla toilette della tua dama. Dopo averli sfogliati in modo veloce, mentre rimproveri il parrucchiere dalla mano inesperta; poiché la sera ti concilieranno il sonno in seguito passeranno alla toilette di colei che ha in comune con te gli studi e la scuola, dove, in toga elegante, siede Amore. Ma sarà la tavola il luogo maggiormente favorevole per esibire il glorioso frutto di un così breve studio.
Continua la critica pariniana contro la nobiltà: in questo caso il suo strale si poggia sul falso sapere o, per meglio dire, il sapere alla moda; è fondamentale, sembra dirci il poeta milanese, che l’élite settecentesca, in campo sociale, non si mostri ignara delle novità culturali del periodo che potranno andare sia dalle più futili informazioni ai più importanti volumi del periodo. E’ che, per chi esibisce un sapere non approfondito, i due estremi si appiattiscono: il sapere superficiale funziona come chiacchiericcio, ed è importante per mostrarsi a la page. Che forse appaia, tra le righe pariniane, una critica verso un certo tipo di nobiltà la cui cultura è certamente superficiale è evidente; ma anche, laddove essa fosse approfondita e consapevole, come potrebbe esser utile al miglioramento civile, secondo il suo esempio e la sua idea di letteratura.
LA NOTTE: RASSEGNA DI NOBILI
Questi è l’almo garzon, che con maestri
da la scutica sua moti di braccio
desta sibili egregi; e l’ore illustra
l’aere agitando de le sale immense,
onde i prischi trofei pendono e gli avi.
L’altro è l’eroe, che da la guancia enfiata
e dal torto oricalco a i trivj annuncia
suo talento immortal, qualor dall’alto
de’ famosi palagi emula il suono
di messagger, che frettoloso arrive.
Quanto è vago a mirarlo allor che in veste
cinto spedita, e con le gambe assorte
In amplo cuoio, cavalcando a i campi
rapisce il cocchio, ove la dama è assisa
e il marito e l’ancella e il figlio e il cane!
Quegli or esce di là dove ne’ fori
si ministran bevande ozio e novelle.
Ei v’andò mattutin, partinne al pranzo,
vi tornò fino a notte: e già sei lustri
volgon da poi che il bel tenor di vita
giovinetto intraprese. Ah chi di lui
può sedendo trovar più grati sonni
o più lunghi sbadigli; o più fiate
d’atro rapè solleticar le nari;
o a voce popolare orecchi e fede
prestar più ingordo e declamar più forte?
Ecco che il segue del figliuol di Maia
II più celebre alunno, al cui consiglio
nel gran dubbio de’ casi ognaltro cede;
sia che dadi versati, o pezzi eretti,
o giacenti pedine, o brevi o grandi
carte mescan la pugna. Ei sul mattino
le stupide micranie o l’aspre tossi
molce giocando a le canute dame.
Ei, già tolte le mense, i nati or ora
giochi a le belle declinanti insegna.
Ei la notte raccoglie a sé dintorno
schiera d’eroi, che nobil estro infiamma
d’apprender l’arte, onde l’altrui fortuna
vincasi e domi; e del soave amico
nobil parte de’ campi all’altro ceda.
Vuoi su lucido carro in dì solenne
gir trionfando al corso? Ecco quell’uno,
che al lavor ne presieda. E legni e pelli
e ferri e sete e carpentieri e fabbri
a lui son noti: e per l’Ausonia tutta
è noto ei pure. Ii càlabro di feudi
e d’ordini superbo; i duchi e i prenci,
che pascon Mongibello; e fin gli stessi
gran nipoti romani a lui sovente
ne commetton la cura: ed ei sen vola
d’una in altra officina in fin che sorga,
auspice lui, la fortunata mole.
Poi di tele ricinta, e contro all’onte
de la pioggia e del sol ben forte armata,
mille e più passi l’accompagna ei stesso
fuor de le mura; e con soave sguardo
la segue ancor sin che la via declini.
Vedi giugner colui, che di cavalli
invitto domator divide il giorno
fra i cavalli e la dama. Or de la dama
la man tiepida preme; or de’ cavalli
liscia i dorsi pilosi, ovver col dito
tenta a terra prostrato i ferri e l’ugna.
Aimè misera lei quando s’indìce
fiera altrove frequente! Ei l’abbandona;
e per monti inaccessi e valli orrende
trova i lochi remoti, e cambia o merca
ma lei beata poi quand’ei sen torna
sparso di limo; e novo fasto adduce
di frementi corsieri; e gli avi loro
e i costumi e le patrie a lei soletta
molte lune ripete! Or vedi l’altro,
di cui più diligente o più costante
non fu mai damigella o a tesser nodi
o d’aurei drappi a separar lo stame.
A lui turgide ancora ambe le tasche
son d’ascose materie. Eran già queste
prezioso tapeto, in cui distinti
d’oro e lucide lane i casi apparvero
d’Ilio infelice: e il cavalier, sedendo
nel gabinetto de la dama, ormai
con ostinata man tutte divise
in fili minutissimi le genti
d’Argo e di Frigia. Un fianco solo avanza
de la bella rapita; e poi l’eroe,
pur giunto al fin di sua decenne impresa
andrà superbo al par d’ambo gli Atridi.
Ma chi l’opre diverse o i varj ingegni
tutti esprimer poria, poi che le stanze
folte già son di cavalieri e dame?
Tu per quelle t’avvolgi. Ardito e baldo
vanne, torna, ti assidi, ergiti, cedi,
premi, chiedi perdono, odi, domanda,
sfuggi, accenna, schiamazza, entra e ti mesci
a i divini drappelli; e a un punto empiendo
ogni cosa di te, mira e conosci.
Uno è l’ardito giovanotto che con magistrali movimenti del braccio provoca sibilanti schiocchi di frusta e rende prezioso il tempo agitando l’aria degli immensi saloni sulle cui pareti pendono i antichi trofei e ritratti d’antenati. Un altro è un eroe che imita il postiglione con la guancia gonfia e il ricurvo corno, che s’affretta a giungere dove è chiamato, annunciando negli incroci delle strade, la sua bravura. Quanto è bello a vedersi con l’abito attillato e gli stivali di cuoio, mettendosi a correre a perdifiato su un cavallo della carrozza nei campi dove la donna è seduta col marito, la serva, il figlio e il cane! Un altro ora esce dalle piazze, dove si servono bevande, tempo perso e pettegolezzi. Ci è andato di mattina, se n’è allontanato all’ora di pranzo, vi è tornato di notte: sono ormai trent’anni, da quando era giovinetto, che segue questo bel ritmo di vita. Ah, chi più di lui può, sedendo, trovare sonni più gradevoli o più lunghi sbadigli o stuzzicare le narici più volte con un tabacco scuro o ascoltare avidamente i pettegolezzi e riferirli ad alta voce? Ecco che segue il più celebre seguace di Mercurio (figlio di Maia), dio del gioco, che presta fede ai suoi consigli tralasciando gli altri ogni volta che il gioco diventa pericoloso, sia di dadi, scacchi, dama, o di brevi o lunghi giochi di carte. Lui su far del mattino addolcisce, giocando, le emicranie e le aspre tossi delle vecchie dame. Ora, dopo cena, insegna le novità dei giochi alle signore che stanno invecchiando. Di notte raccoglie intorno a sé gruppi di nobili che sono desiderosi d’apprendere l’arte del gioco e del baro per vincere e sottomettere la ricchezza altrui e con cui convincere un caro amico a concedere parte dei suoi campi. Vuoi tu un giorno andare trionfante su un carro tirato a lucido? Ecco l’unico che possa dirigere i lavori. Lui conosce i legni, i ferri, le seti, costruttori e fabbri, ed è conosciuto in tutto il sud d’Italia. Nobile calabro, superbo di feudi e titoli: a lui duchi e principi siciliani e addirittura gli stessi discendenti degli antichi romani si affidano a lui e lui se ne vola da un officina ad un altra finché, sotto il suo sguardo, ne vede la ben costruita mole. Poi, contornata di teli che la proteggono sia dal sole che dalla pioggia, lui stesso l’accompagna per più di mille passi fin fuori le mura della città e la segue con sguardo estasiato fino alla svolta della strada. Ora si deve arrivare il domatore di cavalli che divide il suo tempo tra i cavalli e la dama. Ora stringe con mano tiepida quella della donna, ora liscia i peli del cavallo e controlla col dito attento il ferro e l’unghia. Ah, povera lei quando si appresta frequentemente una fiera! Egli l’abbandona e per montagne impervie e vallate paludose, trova i luoghi più lontani e scambia e compra cavalli. Ma beata quando torna pieno di fango e porta il nuovo acquisto di cavalli frementi e le ripete per molti mesi la loro discendenza e l’indole e i luoghi di nascita! Oppure ne vedi un altro di cui nessuna donna fu più abile nell’intrecciare trame o sfilare fili d’oro da arazzi. A lui sono piene le tasche di fili rubati. erano questi appartenenti ad un antico tappeto in cui era riprodotta la guerra di Troia in fili d’oro e colorati, ed il cavaliere, chiacchierando nella stanza della dama, ormai con mano decisa tira i fili che raffiguravano le popolazioni della Grecia e di Troia; è rimasto solo un fianco alla bella Elena, ed infine riuscirà, dopo un decennio, e andrà superbo per aver finito l’impresa al pari dei Greci. Ma chi potrebbe descrivere le opere e i diversi ingegni, dal momento che tutte le stanze si sono riempite di cavalieri e dame? E tu aggirati fra quelle. Con coraggio e baldanza vai, torna, siedi, alzati, indietreggia, spingi, chiedi scusa, ascolta e domanda, sfuggi, fa’ piccoli cenni, entra e mescolati ai gruppi di nobili; e infine occupando ogni spazio, osserva ed impara.
Se qui viene descritto un momento de La Notte, possiamo anche dire quanto la stessa oscurità si sia impossessata dell’autore: dalla luminosità ideologica che sottendeva alcune Odi e Il Mattino, si passa qui alla chiusura di un passo in cui la “prospettiva civile” viene quasi del tutto a mancare. Sette ritratti, come sette sono i peccati capitali, di una nobiltà che ha completamente perso se stessa:
- l’esperto di schiocchi di frusta;
- il suonatore di trombetta;
- il frequentatore di trent’anni del caffè;
- il giocatore infallibile;
- il domatore di carrozze;
- il domatore di cavalli;
- il distruttore di arazzi.
Al finto precettor, quindi al poeta, il sorriso antifrastico si fa ghigno e i ritratti, fortemente statici nella loro inefficacia esistenziale, ci dicono che forse non c’è più nulla da sperare in una nobiltà che sta sparendo per i colpi infertole dalla Rivoluzione Francese; forse è anche per questo se Parini non riesce a concludere il poemetto, ma anche a fare della nobiltà ne La Notte un ritratto la cui piattezza e ripetitività rende questa classe un automa completamente fragile nella sua vuotezza. Quale compito, quindi, di riforma nobiliare se la storia sta cancellando questa classe sociale? La ricercatezza formale con cui descrive la vacuità non è più sorretta da una profonda ironia: l’iperbole, l’inversione, le metafore, le anastrofi sembrano ricamare un tessuto i cui protagonisti sono ormai defunti tessuti in un arazzo impolverato.