Cesare è l’uomo che più di tutti ha fatto discutere: grande politico che ha, nel bene e nel male, segnato la sorte “occidentale” della nostra storia oppure colui che, per il potere personale, ha ucciso non solo la libertà, ma milioni e milioni di cittadini germanici che gli si opponevano? Difficile rispondere, ma semplice è dire che la storia ha allontanato l’uomo delle nostre passioni ideologiche e politiche. Ma una cosa, questa nostra storia, non è riuscita a cancellare: la sua enorme e straordinaria capacità scrittoria che, con i suoi Commentarii, ha fatto nascere la storiografia a Roma.
Notizie biografiche
Cesare nasce nel 100 a. C. a Roma nel Lazio da una, seppur non ricchissima, nobilissima famiglia: il padre faceva derivare il nome della gens Iulia addirittura da Venere ed Enea; la madre, Aurelia, era una donna ricordata per l’estrema virtù e per la parentela con Mario. Giovanissimo, dopo aver ripudiato la donna promessagli, sposò la figlia di Cinna, un esponente del partito mariano: ciò non fu ben visto da Silla, che gli voleva imporre il divorzio; ciò lo costrinse quindi ad allontanarsi dalla città. Si recò come militare in Asia e vi rimase fino a quando Silla morì (78 a.C.). Rientrato a Roma e dedicatosi all’attività forense, accusò due ex sillani di concussione, mostrando sin da subito le sue simpatie per il partito popolare. Nel 77 a.C. si recò a Rodi, dove perfezionò la sua eloquenza e quando tornò a Roma, riprese sin da subito la sua attività forense. Nel 68 a.C. divenne questore e riabilitò la figura di Mario, nel 65 divenne edile e, per conquistarsi simpatie dal popolo, pur riempiendosi di debiti, cominciò a fare elargizioni e a organizzare giochi. Nel 63, come Pontefice Massimo, si oppose alla morte, senza regolare processo, dei catilinari. Divenuto ricco grazie all’incarico di propretore in Spagna, Cesare pensò bene di poter entrare in politica. Visto e considerato che Pompeo, altro grande protagonista politico, ma allineato sulla linea degli optimates, non riusciva a farsi ratificare il progetto di dare terre ai suoi veterani, egli si mise d’accordo con lui e con Crasso e diede vita al primo triumvirato. Diventato grazie ad esso console, si fece nominare proconsole per la Gallia, dove dal 58 al 52 compì una sanguinosa e vittoriosa guerra contro i Germani di cui ci lasciò egli stesso testimonianza nel De bello Gallico. La morte di Crasso e i successi di Cesare, insospettirono Pompeo, che, nel 51 si fece nominare console sine collega nel periodo in cui Roma viveva una vera propria anarchia. Cesare tentò di opporglisi chiedendo la nomina consolare per l’anno successivo, ma non solo gli fu negata, in quanto era ancora fuori città, ma fu dal Senato dichiarato nemico pubblico. E’ a quel punto che Cesare varcò il Rubicone dando vita, così alla guerra civile. Riuscì con la sua abilità militare a scompaginare i piani pompeiani (che credeva di poter conservare l’appoggio spagnolo che venne invece annientato proprio da Cesare) e a inseguire il generale romano fino a Farsalo, dove lo batté. Pompeo rifugiatosi in Egitto venne ucciso da Tolomeo, ma non venne ringraziato per questo da Cesare. Anche di questa guerra egli volle darci testimonianza, con il suo De bello civili. Tornato in città come trionfatore, il generale romano si trovò di fronte ad una situazione lacerata da una serie di guerre civili e tentò una politica, sia pur conciliatrice, “assoluta”, in cui egli, appunto, assumeva su di sé le responsabilità di governo. Accusato per questo dall’aristocrazia, che lo vedeva come l’instauratore di una monarchia orientaleggiante, Cesare fu ucciso da una congiura senatoria, capeggiata da Bruto e Cassio nel 44 a.C.
Le opere minori
Forse non è corretto definire “minori” opere che ci sono pervenute fortemente lacunose, o di cui nulla abbiamo. E’ una terminologia “di comodo” con la quale s’intende riferirsi ad opere che, pur importanti, non hanno avuto la fortuna di poter essere oggi lette. Esse sono:
- Orazioni: sappiamo che Cesare compose 14 orazioni, fra cui alcune laudationes funebres e fu un oratore di successo, tanto da essere ricordato, come scrittore elegante e raffinato, fino alla tarda antichità;
- De analògia: in due libri, d’argomento retorico-grammaticale, in cui Cesare si fa propugnatore di una prosa lineare, senza ricercare termini desueti ma quelli, per analogia, appunto, vicini alle forme regolari;
- Anticato: di carattere politico in cui rispondeva ad un opera con cui Cicerone esaltava la figura di Catone l’Uticense (Cato). Pur riservando una certa asprezza verso il personaggio, Cesare invece mostra apprezzamento per la capacità stilistica dell’arpinate.
- Un opera odeporica, il libro di viaggio Iter, in cui descriveva il percorso da Roma alla Spagna;
- Un celebre epigramma contro lo scrittore Terenzio, definito dimitiatus Menander.
Commentarii
Di Cesare, invece, ci è giunto un corpus, detto appunto Corpus Caesarianum, in cui sono inseriti i Commentarii de bello Gallico, in sette libri, a cui se ne aggiunge un ottavo a firma di Aulo Irzio, suo luogotenente e i Commentarii de bello civili, in tre libri. A questo punto è necessario spiegare la natura del commentarius. Non è questo, infatti, un vero e proprio genere letterario: si tratta di una serie di notazioni che un uomo politico durante la sua attività o un generale durante una guerra appunta per offrire poi ad uno studioso o letterato, che le avrebbe trasformate con il fine di ornarle di tutti gli strumenti retorici che facevano parte della scrittura storica. E’ pur vero che già precedentemente esisteva qualche forma di commentarius (si ricordi, ad esempio, quello di Silla): essi servivano soprattutto non solo ad illustrare le operazioni militari e politiche di qualche importante personaggio, ma tendevano a voler giustificare il suo operato. Infatti questo genere (che in greco prende il nome di ὑπομνήματα = hypomnémata) sta tra il puro e semplice diario e l’opera storica e circolava già a Roma in forma autonoma. Pertanto, dobbiamo arguire che lo stesso Cesare intendesse costruire testi che avessero una loro autonomia. E di questo ne siamo certi perché, seppure non scrive alcuna introduzione, elemento che fa parte, nella cultura classica, della scrittura storiografica, usa gli excursus e i discorsi diretti (tra questi quello famosissimo di Critognato) che invece, non appartenendo al commentarius fanno parte della storiografia. D’altra parte il suo stile appare a Cicerone:
GIUDIZIO SU CESARE
(Brutus 262)
Nudi enim sunt, recti et venusti, omni ornatu orationis tamquam veste detracta. Sed dum voluit alios habere parata, unde sumerent qui vellent scribere historiam, ineptis gratum fortasse fecit, qui volent illa calamistris inurere: sanos quidem homines a scribendo deterruit; nihil est enim in historia pura et inlustri brevitate dulcius.
Sono davvero ammirevoli, schietti, semplici, ricchi di grazia, spogli d’ogni ornamento come un bel corpo senza veste. Ma mentre egli ha voluto fornire ad altri il materiale cui potessero attingere quelli che volessero scrivere di storia, ha fatto forse cosa gradita agli stolti che saranno tentati di farvi i riccioli, ma certamente ha distolto dallo scrivere gli uomini di buon gusto. Nulla infatti è più gradevole della semplice e chiara brevità.
esprimendo un giudizio che ci fa capire la consapevolezza di dar maggiore lustro ad un genere che finora non era stato considerato al pari di quello storiografico.
De bello Gallico
Il Commentarius de bello Gallico, conosciuto da tutti come il De bello Gallico è un’opera in cui Cesare racconta, anno dopo anno, la sua guerra contro le popolazioni residenti in quelle regioni. L’opera affronta infatti, in sette libri, il periodo che va dal 58 al 52 a.C. e non sappiamo se la sua stesura sia avvenuta durante gli avvenimenti o redatta, velocemente, come dice Irzio, tra il 52 e il 51. La materia, come già detto, è distribuita secondo le azioni che annualmente Cesare svolgeva, ma, affinché essa apparisse agli occhi del lettore veritiera (e in linea di massima lo è: sarebbe stato stupido da parte sua alterare i fatti, a persone che certamente li conoscevano) e obiettiva (cosa invece su cui vige qualche dubbio: infatti è nel modo in cui organizza i materiali che offre l’implicito giudizio del lettore), parla di sé sempre in terza persona. Ricordiamo che l’opera si conclude con uno VIII libro che è steso non più da Cesare, ma da Aulo Irzio.
- I libro, anno 58: dopo aver illustrato il luogo su cui si svolge l’azione, vengono narrate le due azioni militari dell’anno: una contro gli Elvezi, che a loro volta avevano attaccato gli Edui; Cesare li sconfigge e li ricaccia nel loro territorio. L’altra contro Ariovisto, re degli Svevi, che si era insediato nei territori della Gallia. Dopo averlo battuto, Cesare si convince a svolgere una campagna preventiva in Gallia.
I popoli della Gallia prima della conquista di Cesare
IL TERRITORIO E LE POPOLAZIONI DELLA GALLIA
(I,1)
Gallia est omnis divisa in partes tres, quarum unam incolunt Belgae, aliam Aquitani, tertiam, qui ipsorum lingua Celtae, nostra Galli appellantur. Hi omnes lingua, institutis, legibus inter se differunt. Gallos ab Aquitanis Garumna flumen, a Belgis Matrona et Sequana dividit. Horum omnium fortissimi sunt Belgae, propterea quod a cultu atque humanitate provinciae longissime absunt, minimeque ad eos mercatores saepe commeant atque ea, quae ad effeminandos animos pertinent, important, promixique sunt Germanis, qui trans Rhenum incolunt, quibuscum virtute bellum gerunt. Qua de causa Helvetii quoque reliquos Gallos virtute praecedunt, quod fere cotidianis proeliis cum Germanis contendunt cum aut suis finibus prohibent aut ipsi in eorum finibus bellum gerunt. Eorum una pars, quam Gallos obtinere dictum est, initium capit a flumine Rhodano; continetur Garumna flumine, Oceano, finibus Belgarum; attingit etiam ab Sequanis et Helvetiis flumen Rhenum; vergit ad septentriones. Belgae ab extremis Galliae finibus oriuntur; pertinent ad inferiorem partem fluminis Rheni; spectant in septentrionem et orientem solem. Aquitania a Garumna flumine ad Pyrenaeos montes at eam partem Oceani, quae est ad Hispaniam, pertinet; spectat inter occasum solis et septentriones.
La Gallia, nel suo insieme, è divisa in tre parti: una abitata dai Belgi, un’altra dagli Aquitani, la terza dai popoli chiamati localmente Celti, da noi Galli. Essi differiscono tra loro per linguaggio, istituzioni e leggi. Il fiume Garonna separa i Galli dagli Aquitani; la Senna e la Marna li dividono dai Belgi. Di questi popoli i più forti sono i Belgi, che sono i più lontani dalla cultura e dalla civiltà della nostra Provincia; molto di rado essi vengono visitati dai mercanti, i quali, perciò, non vi introducono le merci atte ad infiacchire i costumi; confinano con i Germani d’oltre Reno, e con essi sono continuamente in guerra. Per questa stessa ragione anche gli Elvezi superano per valore gli altri Galli: anch’essi combattono quasi ogni giorno contro i Germani, sia per tenerli lontani dalle loro terre, sia perché essi invadono le loro. la parte che abbiamo detto appartenere ai Galli comincia al fiume Rodano, ha per confine il fiume Garonna, l’Oceano, il territorio dei Belgi, tocca il Reno dalla parte dei Sèquani e degli Elvezi ed è orientata verso nord. Il paese dei Belgi dai più lontani territori della Gallia si estende fino al corso inferiore del Reno ed è rivolto verso nord-est. L’Aquitania si estende dalla Garonna ai Pirenei e a quella parte dell’Oceano, che è volta verso la Spagna, guarda verso nord-ovest.
(trad. di Fausto Brindesi)
E’ questo l’incipit dell’intera opera, dalla quale, tuttavia, possiamo rilevare alcuni aspetti interessanti: come già detto la volontà di far entrare direttamente il lettore in medias res, cioè catapultarlo, sin dall’inizio nel teatro delle azioni; ma ancora la sottolineatura della bellicosità, quasi inversamente proporzionale alla vicinanza o meno alla civiltà, sia pur capace di “infiacchire gli animi”. Allora, pur con molta neutralità, essendo essi molto forti è necessaria una guerra preventiva, prima che essi, la cui guerra sembra essere nel sangue, ci attacchino.
Ma si veda, come sempre nel libro I, Cesare voglia in qualche modo disegnare se stesso come il condottiero che combatte secondo ragione e come a violare la stessa siano proprio i capi avversari:
CESARE E ARIOVISTO
(I, 34-36)
Quam ob rem placuit ei ut ad Ariovistum legatos mitteret, qui ab eo postularent uti aliquem locum medium utrisque conloquio deligeret: velle sese de re publica et summis utriusque rebus cum eo agere. Ei legationi Ariovistus respondit: si quid ipsi a Caesare opus esset, sese ad eum venturum fuisse; si quid ille se velit, illum ad se venire oportere. Praeterea se neque sine exercitu in eas partes Galliae venire audere quas Caesar possideret, neque exercitum sine magno commeatu atque molimento in unum locum contrahere posse. Sibi autem mirum videri quid in sua Gallia, quam bello vicisset, aut Caesari aut omnino populo Romano negotii esset. (…)
Ricevuta la risposta che Ariovisto non si sarebbe recato da lui, Cesare gli pone delle condizioni:
Primum ne quam multitudinem hominum amplius trans Rhenum in Galliam traduceret; deinde obsides quos haberet ab Haeduis redderet Sequanisque permitteret ut quos illi haberent voluntate eius reddere illis liceret; neve Haeduos iniuria lacesseret neve his sociisque eorum bellum inferret. (…)
Alle condizioni che Cesare gli impone, che sono, a ben guardare, “provocatorie” per la libertà di azione degli stessi Germani nei loro territori, Ariovisto risponde, ricordando il diritto dei vincitori sui vinti, diritto che gli stessi Romani avevano da sempre preteso:
(…)
Ius esse belli ut qui vicissent iis quos vicissent quem ad modum vellent imperarent. Item populum Romanum victis non ad alterius praescriptum, sed ad suum arbitrium imperare consuesse. Si ipse populo Romano non praescriberet quem ad modum suo iure uteretur, non oportere se a populo Romano in suo iure impediri.
Decise perciò (Cesare) di mandare ambasciatori ad Ariovisto per chiedergli di scegliere una località situata a pari distanza tra loro per un colloquio, perché voleva trattare con lui importanti affari di stato che interessavano entrambi. A questi ambasciatori Ariovisto rispose che se avesse avuto bisogno di qualcosa da Cesare si sarebbe recato da lui: ma poiché era Cesare che voleva qualcosa, spettava a lui recarsi da Ariovisto. D’altra parte egli non riteneva opportuno recarsi nella Gallia romana senza esercito e per radunarlo accorrevano grandi approvvigionamenti, spese e fatica. Gli sembrava però strano che nella Gallia a lui sottomessa per diritto di guerra ci fosse qualcosa che potesse interessare Cesare o il popolo romano.
(…) in primo luogo, di non far passare più contingenti di Germani al di qua del Reno per stabilirsi in Gallia; poi di restituire gli ostaggi degli Edui in sua mano e di permettere ai Sèquani di rendere quelli che essi detenevano; infine di non recare danni agli Edui e di non portare guerra ad essi né ai loro alleati.
(…) era diritto di guerra che i vincitori dominassero a loro arbitrio i vinti; era consetudine, anche del popolo romano, di comandare ai vinti non secondo le imposizioni altrui ma a modo loro. Se egli dunque non prescriveva al popolo romano di esercitare il proprio diritto, bisognava che anch’egli dal popolo romano non fosse ostacolato nel suo.
(trad. di Fausto Brindesi)
E’ semplice notare come tutto stia nella descrizione con cui i due comandanti in campo si comportano: Cesare è colui che chiede, Ariovisto colui che rifiuta; se quindi rifiuta è nel torto, ed è lecito da parte del Romano porre condizioni, anche se l’avversario rivendica per sé, come lo è per Cesare, lo ius belli. Insomma quello che interessa è che non vi è, né dall’una né dall’altra parte ragione, ma solo volontà di guerra.
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II libro, anno 57: viene narrata la guerra contro i Belgi, che insieme ad altre popolazioni, stanno organizzando una spedizione contro i romani. Cesare combatte separatamente prima i Belgi, poi i Nervi. Infine viene anche espugnata la cittadella degli Aduaci. La Gallia sembra pacificata, tanto che il Senato decreta uno straordinario ringraziamento agli dei.
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III libro, anni 57-56: viene narrato, ancora nel 57, il tentativo del luogotenente Servio Galba di aprire una via nelle Alpi. Quindi, con una flotta, viene intrapresa la guerra contro i Veneti, mentre un altro suo luogotenente debella gli Aquitani. Ora tutti i popoli della Gallia atlantica sono assoggettati.
- IV libro, anno 55: vengono narrate le spedizioni contro gli Usipeti e Tencteri, che si sono affacciati oltre il Reno spinti dagli Svevi. Costruito un ponte, Cesare oltrepassa il fiume mostrando tutta la sua potenza; annienta gli Sigambri e, rinviando la guerra contro gli Svevi, decide di affacciarsi sulla Britannia.
LA COSTRUZIONE DI UN PONTE
(IV, 17-18)
Caesar his de causis quas commemoravi Rhenum transire decreverat. Sed navibus transire neque satis tutum esse arbitrabatur neque suae neque populi Romani dignitatis esse statuebat. Itaque etsi summa difficultas faciendi pontis proponebatur propter latitudinem, rapiditatem altitudinemque fluminis, tamen id sibi contendendum aut aliter non traducendum exercitum existimabat. Rationem pontis hanc instituit. Tigna bina sesquipedalia paulum ab imo praeacuta dimensa ad altitudinem fluminis intervallo pedum duorum inter se iungebat. Haec cum machinationibus immissa in flumen defixerat festuculisque adegerat, non sublicae modo derecte ad perpendiculum, sed prone ac fastigate, ut secundum naturam fluminis procumberent, his item contraria duo ad eundem modum diuncta intervallo pedum quadragenum ab inferiore parte contra vim atque impetu fluminis conversa statuebat. Haec utraque insuper bipedalibus trabibus immissis, quantum eorum tignorum iunctura distabat, binis utrimque fibulis ab extrema parte distinebantur. Quibus disclusis atque in contrariam partem revinctis, tanta erat operis firmitudo atque ea rerum natura, ut, quo maior vis aquae se incitavisset, hoc artius inligata tenerentur. Haec derecta materia iniecta contexebantur ac longuriis cratibusque consternebantur. Ac nihilo setius sublicae et ad inferiorem partem fluminis oblique agebantur, quae pro ariete subiectae et cum omni opere coniunctae vim fluminis exciperent, et aliae item supra pontem mediocri spatio, ut si arborum trunci sive trabes deiciendi operis causa essent a barbaris missae, his defensoribus earum rerum vis minuentur neu ponti nocerent. Diebus decem, quibus materia coepta erat comportari, omni opere effecto exercitus traducitur. Caesar ad utramque partem pontis firmo praesidio relicto in fines Sugambrorum contendit. Interim a compluribus civitatibus ad eum legati veniunt; quibus pacem atque amicitiam petentibus liberaliter respondet obsidesque ad se adduci iubet. At Sugambri, ex eo tempore quo pons institui coeptus est fuga comparata, hortantibus iis, quos ex Tencteris atque Usipetibus apud se habebant, finibus suis excesserant suaque omnia exportaverant seque in solitudinem ac silvas abdiderant.
Cesare aveva deciso, per la ragione che ho detto, di attraversare il Reno; ma riteneva che il passaggio per mezzo di navi non sarebbe stato né sicuro né confacente alla dignità sua e del popolo romano. Perciò, sebbene la costruzione di un ponte presentasse molte difficoltà per la larghezza, la velocità e la profondità del fiume, pure riteneva che si dovesse attuare questo piano o rinunciare al trasporto dell’esercito. Fece costruire il ponte così: vennero congiunte a due a due, alla distanza di due piedi, delle travi dello spessore di un piede e mezzo (circa 45 cm.), molto appuntite all’estremità inferiore e di altezza commisurata alla profondità delle acque. Queste travi si calarono nel fiume per mezzo di macchine e si conficcarono con battipali, non diritte e perpendicolari come le comuni palafitte, ma inclinate come i tetti, nel senso della corrente del fiume; poi vennero collocate di fronte a ciascuna coppia a quaranta piedi di distanza (circa 12 m.), ma in senso contrario alla corrente, altre file di travi, legate allo stesso modo a due a due. Sopra queste coppie di travi vennero incastrati dei pali grossi due piedi (tanta era la distanza fra una trave e l’altra di ogni coppia) che le tenevano distaccate ed erano assicurati, alle loro estremità da due ramponi che impedivano alle coppie di avvicinarsi. Con queste palafitte, tenute distaccate e collegate in direzione contraria si otteneva una costruzione così salda e così ben congegnata che quanto più violenta fosse stata la corrente, tanto più il sistema sarebbe stato fortemente legato. Si appoggiarono poi sulle traverse delle travi collocate per lungo, che furono ricoperte con tavole e graticci. Oltre a ciò, altre travi furono disposte in senso obliquo, come dei contrafforti, e collegate a tutto il resto, verso il lato a valle del ponte perché contribuissero a sostenere la forza della corrente. A monte e a poca distanza del ponte vennero confitte altre travi, come diceva per il caso che i barbari, per abbattere la costruzione, vi mandassero contro tronchi di alberi o navi: sarebbe stato in tal modo, attutito l’urto e preservato il ponte da eventuali danni. In dieci giorni da quando si cominciò a portare il materiale, l’opera fu compiuta e l’esercito passò il Reno. Cesare lasciò un saldo presidio sull’una e l’altra sponda del fiume e si diresse verso il paese dei Sigambri. Frattanto gli arrivarono ambasciatori da parecchie città; poiché chiedevano pace ed amicizia, egli rispose benignamente ma ordinò che gli fossero consegnati ostaggi. I Sigambri, che fin dal momento in cui era cominciata la costruzione del ponte, si erano preparati alla fuga, per consiglio dei Tenteri e degli Usipeti che avevano con loro, si erano allontanati dai propri territori portando seco ogni loro cosa e si erano rifugiati in regioni disabitate e coperte di foreste.
(trad. di Fausto Brindesi)
Questo brano rappresenta non soltanto la descrizione della grandissima capacità tecnica dei romani, ma il modo attraverso cui Cesare mostra la sua superiorità, rispetto ai barbari, affinché i nemici, timorosi della sua potenza, s’inchinino per non essere superati. Infatti si tratta di cacciare gli Svevi dai territori degli Edui e dei Sequani. Per far ciò occorre prevenire: superare il Reno, attaccare i Sigambri e impedire qualsiasi mossa all’avversario. Si tratta, cioè, di una vera e propria campagna preventiva.
- V libro, anno 54: avviene la seconda spedizione in Britannia e Cesare, vincendo il re di quei luoghi lo obbliga a versare tributi. Inserisce a questo punto, un breve excursus sui Britanni. Ritorna quindi in Gallia e deve affrontare popolazioni che, approfittando della sua assenza, avevano attaccato i suoi quartieri invernali. Riesce, in questo modo a sedare la ribellione.
- VI libro, anno 53: Cesare, temendo una ribellione gallica, fa venire nuove tre legioni. Riesce così a annientare ribellioni di alcune popolazioni galliche. Quindi ripassa il Reno e obbliga gli Svevi a rifugiarsi nei loro confini estremi. Subito dopo Cesare dà vita ad un lungo e articolato excursus etno-antropologico sugli usi e sui costumi dei Galli. Ritorna in Gallia e annienta la popolazione degli Eburoni, ma il loro capo, Ambiorige, sfugge alla cattura. Dopo aver messo il proprio esercito nei quartieri invernali, Cesare torna in Italia.
Vediamo in che modo Cesare, nell’excursus, parla dei Sacerdoti dei Galli:
PRIVILEGI E DOTTRINA DEI DRUIDI
(VI, 14)
Un druida
Druides a bello abesse consuerunt neque tributa una cum reliquis pendunt, militiae vacationem omniumque rerum habent immunitatem. Tantis excitati praemiis et sua sponte multi in disciplinam conveniunt et a parentibus propinquisque mittuntur. Magnum ibi numerum versuum ediscere dicuntur. Itaque annos non nulli XX in disciplina permanent. Neque fas esse existimant ea litteris mandare, cum in reliquis fere rebus, publicis privatisque rationibus, Graecis litteris utantur. Id mihi duabus de causis instituisse videntur, quod neque in vulgum disciplinam efferri velint, neque eos qui discunt litteris confisos minus memoriae studere; quod fere plerisque accidit, ut praesidio litterarum diligentiam in perdiscendo ac memoriam remittant. In primis hoc volunt persuadere, non interire animas, sed ab aliis post mortem transire ad alios, atque hoc maxime ad virtutem excitari putant, metu mortis neglecto. Multa praeterea de sideribus atque eorum motu, de mundi ac terrarum magnitudine, de rerum natura, de deorum immortalium vi ac potestate disputant et inventuti tradunt.
I Druidi non partecipano alle guerre né pagano i tributi come gli altri, sono esenti dal servizio militare e da ogni altro gravame. Attirati da così grandi privilegi, molti giovani di loro volontà si recano da loro per esserne discepoli e molti sono mandati dai genitori e dai parenti. Da loro, a quanto pare, debbono imparare a memoria un gran numero di versi; per molti il tempo del noviziato dura venti anni. Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti, invece per gli altri affari, sia pubblici che privati, usano l’alfabeto greco. Mi sembra che due siano le ragioni per cui evitano la scrittura: prima di tutto perché non vogliono che le norme che regolano la loro organizzazione siano risapute dal volgo, poi perché perché i discepoli non le studino con meno diligenza, confidando negli scritti (accade, infatti, quasi a tutti che, fidando sull’aiuto della scrittura, non si tenga in esercizio la memoria). Il principale loro insegnamento è l’immortalità dell’anima e la sua migrazione, dopo la morte, da un corpo all’altro; essi ritengono che questa dottrina, eliminato il timore della morte, sia il più grande incitamento al valore. vengono anche trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e i loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sulla essenza e sul potere degli dei.
(trad. di Fausto Brindesi)
L’altra classe sociale analizzata da Cesare, è quella dei cavalieri che, insieme a quella sacerdotale, detiene il potere tra le popolazioni galliche:
I CAVALIERI
(VI, 15)
Alterum genus est equitum. Hi, cum est usus atque aliquod bellum incidit (quod fere ante Cesaris adventum quotannis accidere solebat, uti aut ipsi iniurias inferrent aut inlatas propulsarent), omnes in bello versantur, atque eorum ut quisque est genere copiisque amplissimus, ita plurimos circum se ambactos clientesque habet. Hanc unam gratiam potentiamque noverunt.
L’altra classe privilegiata è quella dei cavalieri. Costoro, quando ce n’è bisogno in caso di qualche guerra (e questo prima dell’arrivo di Cesare capitava quasi ogni anno, o che portassero le armi contro qualcuno o che si difendessero), accorrono tutti per combattere e quanto più sono nobili e facoltosi, tanto più numerosi servi e clienti hanno con sé. Conoscono questa sola specie di autorità e di potenza.
(trad. di Fausto Brindesi)
O come si può ancora vedere in quest’altro in cui analizza il loro modo di concepire la famiglia:
L’ISTITUZIONE FAMILIARE
(VI, 18-19)
Galli se omnes ab Dite patre prognatos praedicant idque ab druidibus proditum dicunt. Ob eam causam spatia omnis temporis non numero dierum, sed noctium finiunt. Dies natalis et mensum et annorum initia sic observant ut noctem dies subsequatur. In reliquis vitae institutis hoc fere ab reliquis differunt, quod suos liberos, nisi cum adoleverunt ut munus militia sustinere possint, palam ad se adire non patiuntur filiumque puerile aetate in publico in conspectus patris adsistere turpe ducunt. Viri, quantas pecunias ab uxoribus dotis nomine acceperunt, tantas ex suis bonis aestimatione facta cum dotibus communicant. Huius omnis pecuniae coniunctim ratio habetur fructusque servantur: uter eorum vita superarit, ad eum pars utriusque cum fructibus superiorum temporum pervenit. Viri in uxores sicuti in liberos vitae necisque habent potestatem; et cum pater familiae inlustriore loco natus decessit, eius propinqui conveniunt et, de morte si res in suspicionem venit, de uxoribus in servilem modum questionem habent et, si compertum est, igni atque omnibus tormentis excruciatas interficiunt. Funera sunt pro cultu Gallorum magnifica et somptuosa; omniaque quae vivi cordi fuisse arbitrantur in ignem interferunt, etiam animalia, ac paulo supra hanc memoriam servi et clientes quos ab iis dilectos esse constabat iustis funeribus confectis una cremabantur.
I Galli dicono di essere tutti discendenti dal padre Dite e che ciò sia stato tramandato dai druidi. Perciò non calcolano il tempo contando i giorni, ma le notti: le date natalizie, il principio dei mesi e degli anni sono contati facendo incominciare la giornata con la notte. Riguardo alle rimanenti usanze differiscono dagli altri popoli quasi solo per questo, che permettono ai figli di presentarsi a loro in pubblico solo quando sono in età tale da poter prestare servizio militare e credono cosa vergognosa che un fanciullo si fermi davanti al padre in presenza degli altri. Gli uomini, fatta la stima dei denari e dei beni che ricevono come dote dalle mogli, ve ne uniscono altrettanti, tolti dai loro; amministrano poi l’intera somma e ne accumulano i frutti; quello dei due coniugi che sopravvive eredita sia il capitale di entrambi, sia il frutto degli anni precedenti. Gli uomini hanno diritto di vita e di morte sulle mogli, come sui figli; quando muore un capofamiglia di nobile stirpe, i suoi parenti si riuniscono tutti, e se per quella morte sorge qualche sospetto sulla moglie, conducono, in merito, le indagini come usano con gli schiavi; in caso di colpevolezza la donna è condannata a morire tra le fiamme o con altri atroci supplizi. I funerali sono, per quel che la civiltà dei Galli permette, veramente lussuosi: vien gettato sul rogo tutto ciò che era caro al vivo, anche gli animali; poco tempo fa anche i servi e i clienti cui era particolarmente affezionato venivano bruciati insieme al cadavere, dopo la celebrazione dei riti.
(trad. di Fausto Brindesi)
E’ evidente che qui Cesare non voglia apparire come colui che sia spinto solo da interesse culturale nello spiegare i mores principali delle popolazioni galliche (senza tuttavia negare che, comunque, tale interesse vi sia); ma, proprio secondo la logica militare, quella di conoscere a fondo sia i territori, come dimostra nell’incipit, che gli usi, per poter colpire il nemico nelle “strutture” geografico-culturali in cui egli si dimostri più debole.
- VII libro, anno 52: In Gallia scoppia la rivolta generale dei Galli sotto la guida del capo degli Averni Vercingetorige. Il segnale di battaglia è il massacro di una delle legioni romane residenti a Cenabo. Cesare torna precipitosamente in Gallia e si reca nei territori degli Averni. Assedia dapprima Villaunoduno, quindi dà una severissima punizione agli abitanti di Cenabo e prende altre città nel territorio di Vergingetorige, ma non Gregovia. Si rivoltano anche gli Edui, tradizionali alleati di Roma, ma Cesare sconfiggendo la cavalleria gallica, costringe il nemico a rifugiarsi nella roccaforte di Alesia. Dopo una durissima battaglia, Cesare riesce a ottenere la vittoria e a catturare Vercingetorige.
Statua di Vercingetorige ad Alesia
DISCORSO DI CRITOGNATO
(VII, 77)
Nihil – inquit – de eorum sententia dicturus sum, qui turpissimam servitutem deditionis nomine appellant, neque hos habendos civium loco neque ad concilium adhibendos censeo. Cum his mihi res sit, qui eruptionem probant; quorum in consilio omnium vestrum consensu pristinae residere virtutis memoria videtur. Animi est ista mollitia, non virtus, paulisper inopiam ferre non posse. Qui se ultro morti offerant, facilius reperiuntur quam qui dolorem patienter ferant. Atque ego hanc sententiam probarem (tantum apud me dignitas potest), si nullam praeterquam vitae nostrae iacturam fieri viderem: sed in consilio capiendo omnem Galliam respiciamus, quam ad nostrum auxilium concitavimus. (…) Romani vero quid petunt aliud aut quid volunt, nisi invidia adducti quos fama nobiles potentesque bello cognoverunt, horum in agris civitatibusque considere atque his aeternam iniungere servitutem? Neque enim umquam alia condicione bella gesserunt. Quod si ea, quae in longinquis nationibus geruntur ignoratis, respicite finitimam Galliam, quae in provinciam redacta, iure et legibus commutatis, securibus subiecta perpetua premitur servitute.
Nulla – disse costui – io voglio dire circa la proposta di coloro che chiamanbo col nome di resa una turpissima servitù, che io ritengo che non meritevoli di essere detti cittadini, né di essere interpellati nel consiglio. Apro la discussione con quelli che approvano l’idea di una sortita, proposta in cui tutti voi siete d’accordo nel vedervi un richiamo alla nostra antica virtù. Ma è debolezza d’animo, non un valore, questo non saper sopportare per un po’ le privazioni. E’ più facile trovare chi si offre spontaneamente alla morte che uno che sappia sopportare con pazienza la sofferenza. Ed io approverei questa proposta – tanto può in me il senso dell’onore – qualora vedessi che si metterebbe in gioco solo la nostra vita; ma, nel decidere dobbiamo pensare a tutta la Gallia, che abbiamo chiamata ad aiutarci. (…) I Romani, invece, cosa cercano e cosa vogliono? Spinti dall’invidia, per averci conosciuti nobili per fama e potenti in guerra, vogliono impadronirsi dei nostri campi e delle nostre città e tenerci in perpetua schiavitù. Nessuna guerra essi hanno mai fatto per altro scopo. E se non sapete quel che accade nelle regioni più lontane, guardate la Gallia a noi vicina, ridotta in provincia romana, che ha avuto leggi e istituzioni nuove e che soffre in continua servitù, piegata alla scuri littorie.
(trad. di Fausto Brindesi)
Che Cesare voglia qui abbracciare le tesi di Critognato sembra impossibile, soprattutto perché, poco prima, definisce la sua oratio crudelis et singularis e lui un vero e proprio delinquente se, nella stessa orazione (da noi omessa) arriva a invitare il suo popolo “facere quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt: qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus, qui aetate ad bellum inutiles videbantur, vitam toleraverunt neque se hostibus tradiderunt” (a fare quello che i nostri antenati fecero nella guerra contro i Cimbri e i Teutoni, che pure non era pari a questa: essi chiusi nella città di fronte a una carestia simile alla nostra, tirarono in lungo la loro vita nutrendosi delle carni di quelli che non sembravano atti alle armi, ma non si arresero ai nemici). Dal momento in cui a dichiarare che i Romani avrebbero tolto la libertà e resi schiavi loro è uno che invita i propri all’antropofagia, risulta evidente la volontà di capovolgere e rendere proprie le ragioni dell’assedio.
De bello civili
Il De bello civili, in tre libri, racconta gli episodi bellici tra 49 e il 48, riguardanti la guerra civile, appunto, tra Cesare e Pompeo.
Pompeo e Cesare
- I libro, gennaio-settembre 49: La narrazione si apre con il Senato che rifiuta la proposta di Cesare di far deporre il comando dell’esercito a Pompeo, così come era stato intimato a lui. Quindi il decretare da parte dei filo pompeiani lo stato di emergenza e l’armarsi contro il generale, fa sì che Cesare passi il Rubicone. Nonostante cerchi di trovare un accomodamento, e ricevuti solo dinieghi, marcia verso la città, mentre Pompeo si rifugia a Brindisi. La città viene assediata da Cesare, ma Pompeo fugge a Durazzo. Quindi Cesare decide di portare la guerra in Spagna dove batte i legati di Pompeo.
POMPEO CONVOCA I SENATORI
(I,3)
Misso ad vesperum senatu omnes, qui sunt eius ordinis, a Pompeio evocantur. Laudat promptos Pompeius atque in posterum confirmat, segniores castigat atque incitat. Multi undique ex veteribus Pompei exercitibus spe praemiorum atque ordinum evocantur, multi ex duabus legionibus, quae sunt traditae a Caesare, arcessuntur. Completur urbs eius commilitonibus, tribunis, centurionibus, evocatis. Omnes amici consulum, necessarii Pompei atque eorum, qui veteres inimicitias cum Caesare gerebant, in senatum coguntur; quorum vocibus et concursu terrentur infirmiores, dubii confirmantur, plerisque vero libere decernendi potestas eripitur. Pollicetur L. Piso censor sese iturum ad Caesarem, item L. Roscius praetor, qui de his rebus eum doceant: sex dies ad eam rem conficiendam spatii postulant. Dicuntur etiam ab nonnullis sententiae, ut legati ad Caesarem mittantur, qui voluntatem senatus ei proponant.
Sciolta sul far della sera l’adunanza del senato, sono convocati da Pompeo tutti quelli che appartenevano a quell’ordine. Egli loda e l’incoraggia per l’avvenire gli uomini risoluti, riprende e sprona quelli che si mostrano più titubanti. Si richiamano da ogni parte molti soldati dei vecchi eserciti di Pompeo con la promessa di premi e di più alti gradi e se ne fanno venire molti dalle due legioni che erano state consegnate da Cesare. La città si riempie di commilitoni di Pompeo, di tribuni, di centurioni e di soldati richiamati. Si raccolgono in senato tutti gli amici dei consoli, i seguaci di Pompeo e di coloro che avevano vecchi rancori con Cesare; dalle grida e dal gran numero di questi sono atterriti i timidi e sono incoraggiati i dubbiosi; ma ai più è tolta la facoltà di pronunciarsi liberamente. Il censore Lucio Pisone, così come il pretore Lucio Roscio, si offrono di andare da Cesare, per informarlo di questi fatti; domandano sei giorni di tempo per compiere la missione. Alcuni esprimono anche il parere di inviar messi da Cesare per fargli conoscere le decisioni del senato.
(trad. di Giovanni Bruno)
Riportiamo qui il terzo paragrafo del primo libro, proprio perché ci serve a dimostrare come l’autore voglia sottolineare che l’intero Senato si trova alle dipendenze di un capo; è Pompeo, infatti che chiama veterani, centurioni, nemici di Cesare, a scopo intimidatorio: se il Senato teme Cesare, perché sovvertitore della Repubblica in senso autoritario, sin dall’inizio il vincitore della Gallia dimostra che ad averla già sovvertita è Pompeo, che ha in mano l’intero corpo del Senato che si è messo alle sue dipendenze.
- II libro, luglio-ottobre 49: l’unica città che continua a resistergli è Marsiglia. Dopo averla assediata, è costretta a chiedere la pace, e Cesare decide di non saccheggiarla. In Africa, il suo luogotenente Curione si scontra ad Utica con Azzio Varo, pompeiano, avendo la meglio. Nel frattempo Giuba, re dei Numidi, si muove verso di lui con un grande esercito. Ingannato da false notizie e fiducioso verso se stesso decide di attaccarlo, ma i Romani subiscono una forte sconfitta; Curione muore combattendo.
- III libro, novembre 49-ottobre 48: Cesare torna per combattere Pompeo sulle coste dell’Epiro. Le sue truppe sono stanche, mentre le forze del nemico sono fresche e numerose. Dopo le prime scaramucce in cui Cesare ha la peggio, Pompeo decide di dirigersi verso sud, e riunite le sue forze con quelle di un suo generale, attende Cesare a Farsalo. A quel punto Cesare sfida a battaglia Pompeo, che invece si mostra insicuro. Iniziato lo scontro, Cesare, grazie alla sua abilità, sconfigge il nemico, che si rifugia in Asia Minore e poi in Egitto. Ma qui viene ucciso da Tolomeo. Appena Cesare giunge ad Alessandria apprende la notizia della morte di Pompeo: nel frattempo inizia una rivolta contro i Romani, con cui inizia la guerra contro gli Egiziani.
DISCORSO DI CESARE AI SOLDATI
(III, 90)
Exercitum cum militari more ad pugnam cohortaretur suaque in eum perpetui temporis officia praedicaret, in primis commemoravit testibus se militibus uti posse, quanto studio pacem petisset, quae per Vatinium in conloquiis, quae per Aulum Clodium cum Scipione egisset, quibus modis ad Oricum cum Libone de mittendis legatis contendisset. Neque se umquam abuti militum sanguine neque rem publicam alterutro exercitu privare voluisse. Hac abita oratione exposcentibus militibus et studio pugnae ardentibus tuba signum dedit.
Esortando, secondo il costume della legge militare, l’esercito alla battaglia e proclamando le prove continue di benevolenza che egli gli aveva dato, ricordò soprattutto che i soldati potevano testimoniare con quale vivo desiderio avesse cercato la pace, quante trattative avesse avviate nei colloqui per mezzo di Vatinio, con Scipione per mezzo di Aulo Claudio e quanto avesse insistito con Libone ad Orico con uno scambio di ambasciatori; egli aveva sempre cercato di evitare un inutile spargimento di sangue e si era sempre adoperato perché non si privasse la patria di uno dei due eserciti. Tenuto questo discorso, fece dare il segnale di tromba, come chiedevano i soldati, accesi dal desiderio di combattere.
(trad. di Giovanni Bruno)
E’ questo il momento topico che precede la battaglia: il discorso d’esortazione ai soldati. Eppure qui, nelle parole pronunciate da Cesare, notiamo subito un cambiamento di tono, che da esortativo passa a persuasivo:
- egli si richiama, nel passo, all’uso militare (militari more); quindi, pur nell’eccezionalità della situazione (bellum civile) egli deve allontanare dai soldati il timore d’uccidere “un fratello” e riportare il tutto alla normalità;
- egli afferma la bontà e la veridicità di quanto dice chiamando a testimoni i soldati stessi (testis militibus);
- ma soprattutto l’idea che si evince è che egli voglia convincere il lettore di aver cercato in tutti i modi evitare la guerra e di esservi costretto, vista l’arroganza e prepotenza altrui.
Apollonio di Giovanni : La battaglia di Farsalo (prima metà del XV sec.)
La veridicità storica dei Commentarii
Non è facile, grazie alla grande capacità di Cesare scrittore, cogliere nella sua imparzialità narrativa, (si ricordi al tal proposito l’uso della terza persona) elementi fortemente tendenziosi. Ancora oggi gli storici affermano che ciò che racconta Cesare è fondamentalmente vero. Tuttavia alcuni elementi ci permettono di cogliere il modo in cui egli abbia voluto dare al lettore di ieri e ai posteri, una vincente idea di sé. Tra tanti elementi il primo è il suo epicureismo: nei Commentarii, infatti, non c’è nessuna presenza trascendentale che abbia potuto, in qualche modo, influenzare un evento. E’ logico che, laddove la forza divina non c’è, a guidare gli avvenimenti bellici, è dell’uomo in generale, che della Fortuna, che si aggira imprevedibile nei vari campi di battaglia. E’ allora nella virtus del dux e dei suoi sodati, che sanno prevenirla e contrastarla, che risiede l’idea vincente che Cesare si era ripromesso di trasmetterci e ciò vale per ambedue le opere: nella prima egli sottolinea la sua grande capacità da stratega e l’alto valore dei suoi soldati; nella seconda, viceversa, l’alto suo senso di “legalità” con cui ha cercato in tutti i modi di convincere l’avversario ad evitare un’inutile spargimento di sangue.