GIOSUE CARDUCCI

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Giosue Carducci

Giosue Carducci (senza accento, così come lo stesso si firmava) nasce a Valdicastello, in Versilia nel 1835. Suo padre era un medico condotto, di idee liberali (partecipò ai moti del ’31), dal carattere impetuoso e a volte violento. Mite e dolce la madre, Ildegarda Colli, di cui conservò sempre un affettuoso pensiero. Nel 1839 la famiglia si trasferisce in Maremma, cantata in seguito, con accenti nostalgici e vitalistici, come appare nella celeberrima Traversando la Maremma toscana. La sua prima formazione avviene sotto la guida paterna, che lo spinge verso valori risorgimentali e libertari e quindi, anche alla letteratura romantica, che di quei valori era portavoce. Ma la sua formazione comprende anche una lettura attenta della storia di Roma che gli ispirò il forte valore per la libertas repubblicana, che egli vide poi riconfermata nella più recente storia della Rivoluzione Francese cantata nei sonetti del Ça ira.
La famiglia subì, per motivi politici riguardanti il padre, un nuovo trasferimento in Toscana. Qui, nella città di Firenze, riprende gli studi presso gli Scolopi, dando un maggior ordine alla sua formazione. Al termine della preparazione superiore si iscrive a Lettere presso la Normale di Pisa, dove si laurea nel 1856 con una tesi sulla cavalleria medievale.
In questa città entra in contatto con gli “Amici Pedanti”, con cui rivendica la ripresa della classicità, contro le “mollezze” dei poeti tardo romantici. Ma la sua critica si rivolge anche contro Manzoni, che insegna, a suo dire, la “vile rassegnazione” ammantata da un provvidenzialismo divino che non permette all’eroe virile d’esprimere appieno la sua libertà.
Dopo la laurea si dedica all’insegnamento e alle pubblicazione delle sue prime opere poetiche. Ma la sua vita riceve il primo tragico colpo: il suicidio del fratello Dante (1857), avvenuto il giorno successivo ad un violento alterco con il padre e la morte, di un solo anno successiva, dello stesso (1858).
Ciò fa sì che il poeta si chiuda, quasi a cercare conforto e sicurezza affettiva, nel cerchio di affetti familiari: sposa la cugina Elvira Menicucci, che gli darà quattro figli e pubblica le due prime raccolte poetiche Rime (1857) e Juvenilia (1860).

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L’aula dell’università di Bologna dove Carducci svolse la sua attività di docente

E’ proprio nell’anno della pubblicazione del suo secondo libro che viene nominato professore di Letteratura Italiana presso l’università di Bologna. E’ in questo periodo, che potremo indicare tra il 1860 ed il 1870, che il Carducci matura un atteggiamento di critica verso la politica del neonato stato italiano per:

  • la poca lungimiranza, priva d’ideali, che guida le prime esperienze del governo postunitario;
  • le irrisolte questioni veneta e romana, in seguito ottenute con poca gloria per la nostra patria;
  • la convenzione di Settembre del 1864, che sembrava volesse rinunciare alla presa di Roma;
  • l’arresto di Garibaldi, mito delle lotte risorgimentali.

Nel 1862 si iscrive alla Massoneria, che lo mette in contatto con gli ambienti repubblicani e anticlericali e sempre in questo periodo di tempo, allarga i suoi interessi culturali, leggendo e rivalutando il romanticismo, soprattutto d’origine non italiana come il francese Hugo ed il tedesco Heine.
Si avvicina anche al Positivismo e alla loro idea di progresso ed egli, collegandola al suo rifiuto della Chiesa, lo testimonia in uno scritto del 1863, non certo fra i migliori, Inno a Satana. Compone anche un terzo libro di raccolte, Levia gravia, che vedrà le stampe nel 1868.

Il 1870 è un anno difficile per lui: gli muore a solo 3 anni il figlioletto Dante e l’amata madre. Dopo due anni inizia una relazione con una donna sposata, Carolina Cristofori Piva, con la quale scambierà numerose lettere, fonti inesauribili per studiare l’evoluzione ideologica e poetica di Carducci.
Un altro anno capitale per la sua biografia è il 1878, anno in cui incontra i sovrani, in visita a Bologna. Le calde parole di Umberto e di Margherita gli scaldano il cuore e mitigano il suo repubblicanesimo.

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La regina Margherita di Savoia

L’avvicinamento alla monarchia provoca una forte protesta tra i rivoluzionari, ma il suo cambiamento trova ragione nella delusione per la politica trasformista di Depretis e la paura della Comune parigina; di fronte ad una paura che tali motivi potessero essere disgregatrici, Carducci vede ora la monarchia come fonte di coesione nazionale.
Sono del 1883 le poesie del Ça ira, che inneggiano ancora la Rivoluzione Francese, ma il suo atteggiamento politico sta seguendo l’iter dell’onorevole Crispi: partiti ambedue dal socialismo, approderanno alla monarchia e all’avventura coloniale dell’Italia.
Questo percorso lo porterà a diventare poeta vate, cioè rappresentante ufficiale dell’ideologia italica, e ciò verrà confermato con l’elezione a senatore del Regno.
Nonostante questo il suo carattere s’incupisce: sempre più gretto gli appare l’orizzonte politico, finisce anche il rapporto con Carolina e sente gli anni pesare. Ma forse è proprio questo a determinare i suoi migliori esiti poetici, Odi barbare (pubblicate nel 1887 e riviste sino al 1889) e Rime nuove (1887).
Negli anni seguenti i fatti salienti continuano ad essere l’insegnamento universitario e la relazione con Annie Vivanti, giovane poetessa, di 31 anni più giovane di lui.
S’ammala: un attacco di paralisi lo colpisce al braccio, scrive stanche poesie ormai vuote e retoriche che riunisce alle due raccolte precedenti ripubblicando il tutto con il titolo Rime e ritmi (1899).
Nel 1906, l’accademia di Svezia lo insignisce con il premio Nobel alla letteratura e l’anno seguente muore.

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Il premio Nobel del 1906

L’itinerario poetico

La prima produzione carducciana è forse, per noi lettori contemporanei, la più caduca. Essa comprende i testi che vanno dai giovanili versi del 1857 sino al 1871 e comprende le raccolte Rime, Juvenilia e Levia Gravia. Oltre a rappresentare l’apprendistato poetico di Carducci, prevale in esse l’insegnamento classicista degli “Amici pedanti” e una vis polemica contro il governo che fa della magniloquenza retorica la sua cifra stilistica.

Delle prime due raccolte poetiche è forse da ricordare, sebbene sia considerata dai più piuttosto “brutta”, l’Inno a Satana che, se da una parte può apparentare il nostro all’anticlericalismo scapigliato, dall’altro testimonia il suo avvicinamento al Positivismo, di cui il treno diventa simbolo. Ne riportiamo un breve estratto:

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Immagine di un treno

INNO A SATANA
(vv.169-200)

Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra:

corusco e fumido

come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani;

sorvola i baratri;

poi si nasconde
per antri incogniti,
per vie profonde;

ed esce; e indomito

di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido,

come di turbine
l’alito spande:
ei passa, o popoli,
Satana il grande.

Passa benefico
di loco in loco
su l’infrenabile
carro del foco.

Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
de la ragione!

Sacri a te salgano
gl’incensi e i voti!
Hai vinto il Geova
de i sacerdoti.

La macchina a vapore, marchingegno bello e terribile si slancia, percorre in mari e la terra: // fiammeggiante e fumante come i vulcani, oltrepassa le montagne, corre tra le pianure; // passa sopra le voragini, poi si nasconde in grotte segrete, in gallerie profonde; // poi esce e, indomabile, emette il suo suono come quello di una tempesta di spiaggia in spiaggia, spande il suo vento come quello di una tempesta: egli passa, o popoli, il grande Satana. // Passa benefico di luogo in luogo su un carro di fuoco che non si può fermare. // Ti saluto, o Satana, o ribellione, o forza vendicatrice della ragione. // Salgano a te i sacri incensi e i buoni propositi! Hai sconfitto il Dio che predicano i sacerdoti!

Ci piace ricordare che il testo del ’63 sarà pubblicato solo due anni dopo e si potrebbe (almeno per i contemporanei era) considerare una risposta diretta e polemica contro il Sillabo di Pio IX che rinnegava ogni forma di modernità. Il tono ribelle e battagliero contrappone la figura di Satana (si pensi a dell’Anticristo è l’ora di Praga) alla mediocre ed accomodante filosofia del “quieto vivere” post-unitaria e, soprattutto, alle ingerenze clericali e agli oscurantismi di fede. Satana quindi diviene il principio libertario, il portatore naturale di un messaggio vitalistico, che può liberare l’uomo dal giogo delle credenze e dei dogmatismi. Coniugando dissenso politico e critica ideologica, l’Inno (composto da duecento versi distribuiti in cinquanta quartine di quinari a schema ritmico ABCB, secondo la schema del “brindisi”, e cioè di un componimento poetico da recitarsi a tavola, e in maniera estemporanea) sviluppa allora un’invocazione alla scienza e al progresso.

Più matura l’altra sua raccolta poetica Giambi ed epodi, che comprende versi scritti a partire dal 1867. Come dice lo stesso titolo scelto, esse costituiscono il punto più alto della sua vis polemica contro gli ingloriosi sviluppi dell’Italia. E’, se così si può dire, una poesia corposa, realistica, ricca di spunti classici (Archiloco ed Orazio) e reminiscenze patriottiche di tipo romantico. Non mancano in essa ricordi di un passato glorioso recente, come la stessa Rivoluzione francese, di cui canta i grandi ideali di libertà cui la stessa Francia ora, con Napoleone III in accordo con Pio IX, sembra voler abdicare del tutto.

Più importanti è certamente meglio riuscite le due raccolte Rime nuove e Odi barbare, la cui composizione coincide con quella precedente (come a voler sottolineare come l’ispirazione gagliarda ed eroica e quella più malinconica ed intimista, coincidano). La differenza è soprattutto metrica, come Carducci sottolinea nella scelta del titolo (Rime nuove, versificazione secondo la tradizione italiana; Odi barbare, applicazione della metrica quantitativa latina alla qualitativa italiana, nata quest’ultima, per la suggestione proveniente dal Parnasse francese). D’altra parte la morte del figlio e della madre, la fine della relazione con la sua Lina, non possono che lasciare un’ombra sull’animo del poeta stesso. I temi tra le due raccolte sono simili, ma segnano un netto passaggio rispetto alle altre precedenti: ad una vis polemica contro il presente si sostituisce ora un ripiegamento, vissuto con malinconia, come per la morte del figlio, cantata in Rime nuove in due celeberrime poesie:

FUNERE MERSIT ACERBO

O tu che dormi là su la fiorita
collina tósca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?

E’ il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.

Ahi no! giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di visïon leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole

vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l’adre
sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.

O tu (dice il poeta, rivolgendosi al fratello Dante) che riposi là sulla fiorita collina toscana di S. Maria a Monte, e accanto a te sta sepolto nostro padre, non hai poco fa udito tra l’erbe del sepolcro una soave voce di pianto? // E’ il mio fanciulletto, che batte alla tua solitaria porta: egli che nel nome glorioso e venerato rinnovava la tua ideale presenza sulla terra, anch’egli fugge la vita, o fratello, che a te fu così tormentosa. // Ma, ahimè!, a lui la vita non era affatto amara: giocava tra le aiole variopinte di fiori, e mentre era allietato da fantasie graziose, la morte lo avvolse e lo spinse alle vostre rive fredde e solitarie.// Oh, accoglilo tu giù, nelle buie dimore dell’oltretomba, perché egli non vuole entrare e volge il capo al dolce sole ed a chiamar la madre.

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Un melograno in fiore

PIANTO ANTICO

L’albero a cui tendevi
la pargoletta mano,
il verde melograno
da’ bei vermigli fiori

nel muto orto solingo
rinverdì tutto or ora,
e giugno lo ristora
di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,

sei ne la terra fredda,
sei ne la terra negra;
né il sol piú ti rallegra
né ti risveglia amor.

L’albero verso il quale orientavi la tua manina, il melograno dalle verdi foglie e dai rossi fiori, nel silenzioso e solitario orto, è nuovamente germogliato e l’estate lo matura con il suo calore e la sua luce. Tu figlio di questo povero corpo, invecchiato e sciupato dal tempo, tu unico dono di questa mia vita inutile, giaci nella fredda terra di un camposanto, non potrai più vedere la luce del sole, ne godere dell’amore.

Le due poesie riguardano, allo stesso modo, la morte del figlioletto Dante, avvenuta nel novembre del 1870. La prima di esse sembra essere stata scritta nel giorno della perdita, come riporta il testo autografo in cui compare la data, ma se così fosse non possiamo che ammirare la compostezza, lui così enfatico e magniloquente, con la quale risolve il suo dolore. Sin dall’inizio le reminiscenze classiche lo aiutano: il titolo, infatti, ripreso da un verso virgiliano in cui si narra dell’incontro di Enea con i bambini morti, potremo tradurlo con “travolse con una morte prematura”; quindi la costruzione del sonetto in cui l’“io” viene assolutamente cancellato e vengono richiamati le figure andate via, il padre, ma soprattutto il fratello, di cui il bambino ripete il nome. Ma le scelte lessicali sono di Giosue, “romita porta”, “l’ombra avvolse” e in ultimo le terzine che ci riportano in mente Foscolo con le aiuole assolate, e con l’immagine del morente che cerca, con l’ultimo sguardo il sole, a cui aggiunge la figura materna a sottolineare maggior pathos; certamente le numerose reminiscenze letterarie offrono a lui la moderazione con cui esprimere la sofferenza.

Dell’anno successivo è Pianto antico, composta da quattro strofe di settenari; la struttura si può definire bipartita: nella prima emergono elementi di vita, lo stesso melograno, cui il fanciullo volgeva la mano, è accompagnato da immagini coloristiche, fiori vermigli, rinverdire. Tra la prima parte e la seconda il sole (luce e calor). Quindi la morte con immagini luttuose, terra inaridita, inutile vita, terra fredda/ negra. Si è che per Carducci vita/morte, luce/buio, non possono che essere intrecciati.

Nella stessa raccolta troviamo anche la rievocazione del passato:

IL COMUNE RUSTICO

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda orma si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero

che tace, o noci de la Carnia, addio!

Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre d’un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù

accampata a l’opaca ampia frescura

veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
Il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
«Ecco,io parto fra voi quella foresta

d’abeti e pini ove al confin nereggia.

E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi,se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi,o figlio,l’aste,ecco le spade,
morrete per la vostra libertà.»

Un fremito d’orgoglio empieva i petti,

ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la Madre alma de’cieli.
Con la man tesa il console seguiva.

«Questo,al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia.»
A man levata il popol dicea Sì.
E le rosse giovenche di su ’l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.

Sia che la vostra fredda ombra si imprima solitaria sui campi verdi tra faggi e abeti al sole puro e leggero del mattino, sia che incupisca immobile nel giorno morente sulle ville disseminate intorno alla chiesa che prega o al cimitero // che tace, o noci della Carnia, addio! Vaga tra i vostri rami il mio pensiero sognando i fantasmi di un tempo che fu. (Io) non vedo paure di morti e diavoli goffi con streghe bizzarre in conciliaboli ma il valore campagnolo del comune riunito // nell’ampia freschezza ombrosa durante la stagione del pascolo il giorno della festa dopo la messa. Il console dice, e ha prima posto le mani sopra le sante insegne cristiane: « Ecco, io divido fra voi quella foresta di abeti e pini verso l’estremità in cui (essa) infoltisce. E voi condurrete la mandria muggente a quelle alture là. E voi, se l’unno o se lo slavo ,eccovi, o figli, le lance, ecco le spade, morrete per la nostra libertà.» // Un brivido d’orgoglio riempiva gli animi, innalzava le bionde teste; e il grande sole batteva sulle fronti dei prescelti. Ma le donne piangenti sotto i veli invocavano la Madre protettrice dei cieli. Con la mano resa il console proseguiva: // «Questo ordino e voglio nel nome di Cristo e della Madonna» e il popolo, sollevati le mani, diceva sì. E i rossi buoi vedevano passare il piccolo senato, mentre il sole brillava a mezzogiorno.

Contro una certa letteratura romantica e post/romantica che vedeva il medioevo come momento narrativamente (e quindi ideologicamente) votato al “noir” e all’intrigo, Carducci lo disegna solare e pieno d’energia. Questa rievocazione, nata dopo un periodo di villeggiatura in Carnia nel 1887, più che mettere in contrapposizione età presente e passata, sembra richiamare in lui i maschi propositi e l’anelito, mai sopito, per i valori rinascimentali, con linguaggio ampio e sostenuto. Ma proprio qui possiamo misurare la caducità della poesia carducciana: sembra infatti predominare la maniera al vero sentire, disegnando immagini stereotipate e quindi banali (che tanto piacquero alla retorica fascista): il console a braccia levate, i contadini biondi e forti, le donne velate.

Sempre qui vengono sviluppati anche ricordi personali:

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La nebbia agli irti colli

SAN MARTINO

La nebbia a gl’irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini
va l’aspro odor dei vini
l’anime a rallegrar.

Gira su’ ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando
sta il cacciator fischiando
su l’uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d’uccelli neri,
com’esuli pensieri,
nel vespero migrar.

La nebbia sale sui colli privi di vegetazione mentre pioviggina e, a causa del vento di maestrale, il mare è rumoroso e molto mosso e produce una schiuma bianca; // ma lungo le strade del paesino, l’odore pungente del vino nelle botti in cui fermenta rallegra le anime.// Lo spiedo gira sulla legna infuocata scricchiolando; il cacciatore fischiando sta sulla porta a osservare attentamente // tra le nubi rossastre gli stormi di uccelli migratori neri, che sono come i pensieri malinconici dell’esiliato alla sera.

Poesia, scritta nel 1883, celeberrima e forse svalutata dall’abuso che se n’è fatto, a partire dall’obbligo di mandarla a memoria in età infantile, rimane un bel quadretto espressionistico che sembra richiamarci alla contemporanea poesia dei macchiaioli. La poesia si apre con un immagine autunnale, in cui le forze della natura, contrariamente alle immagini virili, appaiono avvolte dalla nebbia. Al centro due quartine in cui appare una gioia quotidiana, introdotta infatti dall’avversativo “ma”, dove emerge la convivialità, riassunta nel vino e nello spiedo, per poi chiudere con un immagine che sembra richiamare la prima, in cui gli “uccelli neri” dei pensieri, si riaffacciano, ma per poi migrare nella sera. La duplicità del verbo migrare può suggerire una diversa interpretazione del testo: da una parte può significare “i neri uccelli dei pensieri che volano al tramonto somigliano a malinconici pensieri vagabondi, suscitati dalla sera” (Baldi) o “uccelli neri rappresentano i pensieri, soprattutto funebri, che volano lontano per una riacquisita serenità”. Al di là dell’interpretazione, quel che conta è la capacità impressionistica di disegnare un paesaggio come riflessione e il persistere di un modo di osservare la realtà che riguarda, in Carducci, più l’occhio che la mente.

Le Odi barbare, come già detto, sono versi sperimentali, in cui il poeta mostra la sua perizia nel volgere il verso latino alla metrica italiana. Ma al di là del fatto tecnico, anche questa raccolta partecipa sia dei difetti che dei pregi che abbiamo riscontrato nella poesia carducciana.

Per i difetti, resi ancor più evidenti dal modello baudelairiano (Parfum exotique) cui Carducci s’ispira, presentiamo Fantasia:

FANTASIA

Tu parli; e, de la voce a la molle aura
lenta cedendo, si abbandona l’anima
del tuo parlar su l’onde carezzevoli,
e a strane plaghe naviga.

Naviga in un tepor di sole occiduo

ridente a le cerulee solitudini:
tra cielo e mar candidi augelli volano,
isole verdi passano,

e i templi su le cime ardui lampeggiano
di candor pario ne l’occaso roseo,
ed i cipressi de la riva fremono,
e i mirti densi odorano.

Erra lungi l’odor su le salse aure
e si mesce al cantar lento de’ nauti,
mentre una nave in vista al porto ammaina
le rosse vele placida.

Veggo fanciulle scender da l’acropoli
in ordin lungo; ed han bei pepli candidi,
serti hanno al capo, in man rami di lauro,
tendon le braccia e cantano.

Piantata l’asta in su l’arena patria,
a terra salta un uom ne l’armi splendido:
è forse Alceo da le battaglie reduce
a le vergini lesbie?

Tu parli (a Lidia) e l’anima mia cedendo dolcemente alla molle aura, si lascia attraversare dai suoni carezzevoli delle tue parole e naviga con la fantasia verso terre straniere. // Naviga nel tepore del sole al tramonto, che sembra sorridere alle azzurre e deserte distese opposte del cielo: in alto fra cielo e mare volano i bianchi gabbiani, passano isole verdi di vegetazione, // e i templi alti sulle cime dei monti risplendono per il loro bianco marmo di Paro alla luce fosca del tramonto, ed i cipressi della riva sussurrano al vento e i mirti folti emanano odore. // L’odore dei mirti si diffonde nell’aria marina dal sapore di salsedine e si mescola col canto lento dei marinai, mentre una nave, entrando nel porto, ammaina le rosse vele tranquillamente perché essa non è più scossa dalle onde del mare. // Vedo fanciulle scendere dall’acropoli in fila lunga ed ordinata; e indossano bei pepli bianchi, hanno ghirlande al capo, in mano rami d’alloro, tendono le braccia e cantano (per onorare il ritorno di un guerriero).  // Piantata l’asta sulla spiaggia della patria, salta a terra dalla nave un uomo splendidamente armato: è forse Alceo che ritorna vittorioso dalle battaglie alle fanciulle di Lesbo?

La differenza tra il poeta francese ed il nostro si evidenzia palesemente. Il “tu” iniziale, infatti è riferito a Lidia (il nome “oraziano” della Piva, appassionata del poeta francese) a cui dedica la poesia come segno di pace dopo un piccolo bisticcio. Le parole lo riportano, fantasticamente, ad un tramonto in un isola greca, in cui si affacciano marinai greci, accolte da fanciulle che tendono le braccia e cantano. Fra i marinai il guerriero Alceo, ricevuto da vergini graziose. E’ vero che anche in Baudelaire un profumo risveglia immagini di purezza classica, ma in lui aleggia una sensualità già dal senso scelto, l’odore, dall’oggetto da cui tale odore promana, il “seno ardente” e quindi tutta la languidezza della vegetazione. In Carducci permane solo un riferimento classico, che svela in lui la nostalgia non della purezza classica, ma dei valori classici, quelli della guerra e dell’amore rappresentati da Alceo/Carducci.

Per i pregi, forse la più bella poesia carducciana e certamente uno dei vertici della lirica italiana del secondo Ottocento é:

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Stazione notturno

ALLA STAZIONE IN UNA MATTINA D’AUTUNNO

Oh quei fanali come s’inseguono
accidiosi là dietro gli alberi,
tra i rami stillanti di pioggia
sbadigliando la luce su ’l fango!

Flebile, acuta, stridula fischia
la vaporiera da presso. Plumbeo
il cielo e il mattino d’autunno
come un grande fantasma n’è intorno.

Dove e a che move questa, che affrettasi
a’ carri fóschi, ravvolta e tacita
gente? a che ignoti dolori
o tormenti di speme lontana?

Tu pur pensosa, Lidia, la tessera
al secco taglio dài de la guardia,
e al tempo incalzante i begli annidài,
gl’istanti gioiti e i ricordi.

Van lungo il nero convoglio e vengono
incappucciati di nero i vigili,
com’ombre; una fioca lanterna
hanno, e mazze di ferro: ed i ferrei

freni tentati rendono un lugubre
rintócco lungo: di fondo a l’anima
un’eco di tedio risponde
doloroso, che spasimo pare.

E gli sportelli sbattuti al chiudere
paion oltraggi: scherno par l’ultimo
appello che rapido suona:
grossa scroscia su’ vetri la pioggia.

Già il mostro, conscio di sua metallica
anima, sbuffa, crolla, ansa, i fiammei
occhi sbarra; immane pe ’l buio
gitta il fischio che sfida lo spazio.

Va l’empio mostro; con traino orribile
sbattendo l’ale gli amor miei portasi.
Ahi, la bianca faccia e ’l bel velo
salutando scompar ne la tenebra.

O viso dolce di pallor roseo,
o stellanti occhi di pace, o candida
tra’ floridi ricci inchinata
pura fronte con atto soave!

Fremea la vita nel tepid’aere,

fremea l’estate quando mi arrisero;
e il giovine sole di giugno
si piacea di baciar luminoso

in tra i riflessi del crin castanei
la molle guancia: come un’aureola
più belli del sole i miei sogni
ricingean la persona gentile.

Sotto la pioggia, tra la caligine
torno ora, e ad esse vorrei confondermi;
barcollo com’ebro, e mi tócco,
non anch’io fossi dunque un fantasma.

Oh qual caduta di foglie, gelida,
continua, muta, greve, su l’anima!
io credo che solo, che eterno,
che per tutto nel mondo è novembre.

Meglio a chi ’l senso smarrì de l’essere,
meglio quest’ombra, questa caligine:
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.

Oh quei lampioni della stazione, come si inseguono pigri e monotoni laggiù dietro gli alberi in mezzo ai rami gocciolanti di pioggia, proiettando sul fango una luce così debole da sembrare che stiano sbadigliando! // La vaporiera lì vicino fischia emettendo un rumore ora lieve, ora forte, ora pungente.  Il cielo nuvoloso e la mattinata autunnale stanno intorno come se fossero un grande fantasma. // Dove va, a che cosa si dirige questa gente silenziosa e avvolta nei mantelli che corre verso i convogli scuri del treno? Verso quali dolori sconosciuti o sofferenze per una speranza lontana? // Lidia, tu, pensierosa, il biglietto porgi al taglio secco del controllore, e contemporaneamente offri al tempo opprimente gli anni della giovinezza e i momenti felici e i ricordi. // Vanno e vengono lungo il treno scuro,  incappucciati in impermeabili neri i vigili, come se fossero ombre; hanno una lanterna che emette poca luce e mazze di ferro: e i freni di ferro // provati restituiscono un triste e lungo botto: in fondo all’anima a questo rumore corrisponde, come se fosse un’eco, un’angoscia dolorosa, che sembra una fitta. // E gli sportelli sbattuti quando vengono chiusi sembrano offese: sembra una presa in giro l’ultimo invito a salire che risuona veloce: a pioggia rumoreggia fitta sui vetri. // Già la locomotiva, simile a un mostro, consapevole dell’energia che ha dentro la sua struttura metallica emette sbuffi di vapore, trema, ansima, apre i suoi occhi di fuoco; getta attraverso il buio il suo potentissimo fischio che lancia una sfida allo spazio. // Parte il mostro crudele; trainando le carrozze in modo orribile, sbattendo le ali e si porta via il mio amore.  Ahimè il viso pallido e il bel velo scompaiono nell’oscurità mentre mi saluta. // Oh viso dolce con un pallore rosato, oh occhi lucenti come stelle portatori di pace, o fronte bianca e pura, dolcemente incastonata tra ricci voluminosi! // Palpitava la vita nell’aria tiepida, palpitava l’estate quando (gli occhi e il volto della donna) mi sorrisero e il sole di giugno, di inizio estate si compiaceva di baciare con la sua luminosità // la morbida guancia tra i riflessi dei capelli castani: i miei sogni, più belli anche del sole, circondavano la delicata figura della donna come se fossero un’aureola. // Ora sotto la pioggia tra la nebbia torno a casa e vorrei confondermi con loro; traballo come se fossi ubriaco, e mi tocco per assicurarmi di non essere anch’io dunque un fantasma. // Oh, come foglie che cadono molto fredde, continue, silenziose, pesanti sull’anima! Io credo che ovunque, in tutto il mondo, eternamente sia soltanto novembre. // Per chi ha perduto il senso della vita è meglio questa oscurità, è meglio questa nebbia, io voglio, voglio fortemente cullarmi in una noia che duri per sempre.

In questo testo non mancano parole ed immagini auliche, così come non mancano parole ed immagini realistiche, ma qui vengono fuse con straordinaria capacità offrendoci nella trama testuale un vero e proprio riflesso di stato d’animo dal sapore baudelairiano. Già la prima immagine risulta essere impressionistica, con quei fanali che “sbadigliano” la luce sul fango; il cielo plumbeo, scuro, i carri foschi, anneriti e ancora i neri vigili. E quindi la parola tedio, lo “spleen”, ma qui lo spleen si fa quasi singulto. Quindi il treno, un tempo cantato come singolo di progresso (Inno a Satana), ora descritto con terrore, capace di portar via l’amata. E poi, con un topos carducciano, dall’immagine reale il ricordo, solare a ricordare la nascita dell’amore. Ma la poesia torna a cantare il presente, la caligine, il dolore che lo rende come un ubriaco, la percezione che tutto è dolore, e, quasi leopardianamente rovesciando il perdersi nell’immensità, qui il perdersi si configura sempre in un infinito tedio.

 

LA SCAPIGLIATURA

BrecciaPortaPia-1.jpgBreccia di Porta Pia

L’Italia all’indomani dell’unità è un paese che presenta delle contraddizioni interne che, nell’immediato danno voce a problemi di difficilissima soluzione:

  • dal punto di vista politico si trattava di rendere effettiva una unità politica che presentava ancora differenze notevoli tra le popolazioni del paese;
  • dal punto di vista culturale era necessario invece che gli intellettuali – che nell’età precedente avevano avuto un compito ben preciso che potremo riassumere con il termine di patriottismo, trovassero un nuovo ruolo e una nuova collocazione in un Italia che non rispecchiava i sogni che loro stessi e la generazione che li aveva preceduti avevano nutrito.

Il Regno d’Italia nasce nel 1861, sebbene termini completamente la sua annessione nel 1866 con il Veneto e nel 1870 con Roma. Sin da principio questo nuovo stato si mostrava al cospetto europeo come un paese fortemente arretrato, con un’economia ancora profondamente agricola, una limitatissima borghesia ed un livello culturale drammaticamente “basso”. Tutto ciò veniva aggravato dalla frattura esistente tra Nord e Sud e di come lo stesso re (che, pur dinanzi ad una nuova nazione, continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II) volle “conquistare” il Sud. Era questa la sensazione che molte popolazioni meridionali provarono ed infatti molti di loro, sentendosi estranei al processo risorgimentale, si ribellarono, dando vita al cosiddetto “brigantaggio”.

A tutto questo si aggiunge, dopo la presa di Roma, la frattura che si venne a creare tra laici e cattolici: frattura che comportò ufficialmente sino al ’19 (quando nacque il Partito Popolare di Don Sturzo) il divieto da parte dei credenti di partecipare alla vita civile e politica dello stato (quella che diventerà l’aristocrazia nera) con il non expedit (non conviene, non è opportuno). Ciò determinò nella costruzione di questa nuova realtà nazionale il mancato apporto di un’importante componente della società italiana, quale quella cattolica, nonché la difficoltà di instaurare un pur qualsivoglia dialogo a cui la Chiesa, almeno nei primi anni del nuovo regno, si mostrava completamente sorda. 

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Milano: Via Laghetto intorno al 1870, quando ancora c’era l’acqua del naviglio

La prima risposta culturale a questo stato di cose lo diede Milano, con un movimento che venne definito “Scapigliatura”.

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Tranquillo Cremona: Ritratto di Cletto Arrighi

INTRODUZIONE A LA SCAPIGLIATURA E IL 6 FEBBRAIO

Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo mi trovai nella necessità o di coniare un neologismo o di andare a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo. Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perché s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dare a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricare parole nuove, per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente – e costui fu un letterato – una vita da débauché; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui mi ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo – ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica – e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatoio la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntare le cose un po’ difficili – confesso un mio debole – non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità d’individui d’ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo, indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per … mille e mille altre cause e mille altri affetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in un nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo – personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
La Scapigliatura milanese è composta di individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili… Da un lato un profilo più italiano che Meneghino, pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioia la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizio e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori di una felicità inarrivabile e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.

Come già riportato nel titolo del brano, la Scapigliatura, come movimento letterario, trova il suo nome e il suo modo d’essere dall’introduzione di un romanzo del milanese Cletto Arrighi, giornalista e autore di feuilleton.

Cosa ci dice l’introduzione a La Scapigliatura e il 6 febbraio? In primo luogo l’identità tra il significato del termine e a chi lo vuole attribuire: se scapigliato vuol dire dai capelli disordinati attraverso una risemantizzazione (attribuzione di un nuovo significato) ora indicherà una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo, indipendenti come l’aquila delle Alpi, e in seguito li ricollegherà a Milano, capitale allora di una incipiente industrializzazione e città meglio collegata alle novità culturali che allora provenivano soprattutto dalla Francia.

Detto chi sono l’Arrighi ci dice come sono e cosa fanno: inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere. In parole semplici sono “poveri”, emarginati e, come dice ancora l’autore fanno “gruppo” e li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili…

Sulla base di tale testo si così definire la scapigliatura:

  • un fenomeno generazionale, che connota da subito la breve durata del loro movimento: 1860 – 1880. Molti muoiono in giovane età (per uso di alcol o di droghe) o abbandonano la scrittura; altri s’imborghesiscono (Arrigo Boito diventerà un celeberrimo librettista verdiano, dapprima tanto odiato);
  • Milano: sebbene gli scapigliati non provengano tout court dalla città meneghina (anche il Piemonte avrà una parte importante) rappresenta pur sempre il centro più all’avanguardia dell’intera penisola, nel quale è presente la forte contraddizione tra l’Italia pre e post unitaria.
  • La scapigliatura rappresenta una casta o nuova classe, ma non una scuola: eterogenee sono le esperienze come diversi sono gli esiti. Nonostante questo tra di loro condividono ideali e modi di pensare.
  • Se eterogenei sono gli esiti, non altrettanto si può dire contro chi e cosa si rivolgono: opposizione contro i modelli dominanti e l’autoritarismo paterno. Il loro faro è il ribellismo figlio della loro voglia di bruciare l’esperienza e di porsi come “altri”.
  • Identità tra esperienza biografica, indole e pratica letteraria. E’ inscindibile il binomio tra “ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca”. La contraddizione tra ideale e reale sarà quasi un loro leitmotiv.
  • La loro esperienza si traduce in un fatto estetico e nella ricerca di un nuovo concetto di “bello”.

Quali sono i miti polemici contro cui si scagliano?

  • sul piano sociale rifiutano il perbenismo e la grettezza spirituale, per meglio dire le convenzioni della classe liberal-borghese, uscita trionfatrice dal processo risorgimentale. Proprio perché è la classe dalla quale provengono essi vogliono mettere in atto una vita autentica, libera, miserabile ma sincera. Per questo i loro atteggiamenti “irregolari” sono spessi esibiti con fierezza, l’uso ed abuso di alcol e droghe, sessualità libera e spesso deviante.
  • sul piano economico rifiutano il modello borghese fondato sul denaro e si pongono dalla parte degli sfruttati ed emarginati. Nella loro letteratura entra a far parte il proletario urbano, anche se tale presenza non riesce (come in Francia) a tradursi in una precisa scelta di classe né in progetto politico.
  • sul piano politico denunciano il fallimento dell’ideale risorgimentale, del concetto di Patria e della libertà. Non è un caso che alcuni scapigliati dopo aver preso le armi per liberare l’Italia dall’oppressore straniero, vedono i loro ex compagni adesso rivolgerle contro masse inermi di contadini estranei al processo unitario.
  • Sul piano religioso annunciano la morte di Dio, ormai ridotto ad una serie di ritualizzazioni prive di significato. In alcuni di loro appaiono anche temi che potremo ricondurre alla blasfemia. Si sente tuttavia a volte l’esigenza di una religiosità più interiore.
  • Sul piano letterario sono contro il Romanticismo e i suoi stanchi epigoni (soprattutto Prati ed Aleardi). Ma il rapporto più complesso è certamente con Manzoni, il quale viene difeso da alcuni come modello di una letteratura universale e per la sua rivoluzione linguistica, chi lo avversa come reazionario. Non bisogna dimenticare che la loro avversione è per quel tipo di letteratura liberal cattolica romantica italiana; non rifiutano viceversa il senso del mistero e dell’irrazionale che invece è figlio della letteratura nordica, soprattutto tedesca.

Ci sembra necessario ora posare lo sguardo sulle più importanti personalità, soffermandoci sia su alcuni esiti poetici sia su quelli prosastici che, proprio in quanto caratteristici di questa età, ci danno la misura dei limiti che tale movimento ebbe, ma nel contempo di come, all’interno di tali limiti, essi siano riusciti a porsi come prima “avanguardia” nazionale e a far sì che proprio da loro partissero poi le esigenze per rinnovare la letteratura sul piano della realtà (verismo) e nel contempo su quello dell’irrazionalità (simbolismo/decadentismo).

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Arrigo Boito

Il primo che incontriamo è Arrigo Boito (1842-1918). Passa gli anni ’60 viaggiando per l’intera Europa e, al ritorno a Milano, per mezzo di Emilio Praga s’avvicina alla Scapigliatura. Scrittore, sperimenta la fiaba di carattere nordico con il prosimetro Re Orso, con accenti satirici e grotteschi ed intanto scrive su giornali recensioni musicali. Musicista egli stesso dà in scena il Mefistofele (1868) cercando di ricreare l’atmosfera wagneriana. I suoi versi vengono pubblicati soprattutto su riviste. Partecipa alla terza guerra d’indipendenza e al ritorno si stacca dall’ideologia e dalla letteratura giovanile e si fa librettista delle ultime opere verdiane (Otello e Falstaff).

Di lui riportiamo quello che, insieme al testo di Emilio Praga, è considerato il manifesto poetico della Scapigliatura:

DUALISMO

Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto chèrubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l’ale,
verso un lontano ciel.

Ecco perché nell’intime

cogitazioni io sento
la bestemmia dell’angelo
che irride al suo tormento,
o l’umile orazione
dell’esule dimone
che riede a Dio, fedel.

Ecco perché m’affascina

l’ebbrezza di due canti,
ecco perché mi lacera
l’angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m’allarga il cuor.

Ecco perché la torbida
ridda de’ miei pensieri,
or mansüeti e rosei.
or violenti e neri;
ecco perché, con tetro
tedio, avvicendo il metro
de’ carmi animator.

O creature fragili
dal genio onnipossente!
forse noi siam l’homunculus
d’un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozïoso gioco
un buio Iddio ci fé

E ci scagliò sull’umida

gleba che c’incatena,
poi dal suo ciel guatandoci
rise alla pazza scena,
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col piè.

E noi viviam, famelici
di fede o d’altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d’acerbo duol.

Talor, se sono il dèmone
redento che s’indìa,
sento dall’alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.

L’illusïon – libellula
che bacia i fiorellini
L’illusïon – scoiattolo
Che danza in cima i pini
L’illusïon – fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,

Viene ancora a sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l’anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m’attira
nella profonda spira
dell’estro idëator.

E sogno un’Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell’Ideale
che mi fa batter l’ale
e che seguir non so.

Ma poi, se avvien che l’angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impäuriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto.

E sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d’alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
e il cielo, altezza impervia.
derido e di protervia
mi pasco e di velen.

E sogno un’Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse imagini
d’un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmïando vien.

Questa è la vita! l’ebete
vita che c’innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un’ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s’accheta più!

Come istrïon, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d’equilibrio
sovra una tesa corda,
tale è l’uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.

La poesia del 1863 è composta da sette strofe di settenari con rima abcbdde. L’ultimo verso tronco di ogni strofa, rima con l’ultima della strofa seguente. In essa appare il tema dell’inconciliabilità degli opposti che nel poeta vuol dire aspirare verso l’assoluto e contemporaneamente cadere nel vizio. Tale dualità sembra riprendere sia da una parte temi baudelairiani che gli scapigliati mostrano di conoscere assai bene sia quello fondamentale della delusione tra l’ideale preunitario ed il reale borghese, negatore di ogni bellezza del presente. Per questo è necessario cantare ciò che risponde alla bellezza assoluta etera, ma, essendo negato dalla meschinità della realtà, non rimane che rivolgersi ad una verità (materiale) che mente ad una Verità (ideale).

In Boito il tutto è reso con un verseggiare “cantabile” (non per niente è un musicista” che ne attenua l’asprezza del dettato, ciò che tuttavia tiene il testo (e l’intera scapigliatura) al di qua di una novità letteraria (come in Francia Baudelaire), utilizzando un lessico e repertori retorici che si richiamano alla tradizione.

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Tranquillo Cremona: Emilio Praga sul letto di morte

Il poeta più importante e una delle personalità più emblematiche della Scapigliatura milanese è Emilio Praga (1839-1875). Figlio di una ricca famiglia industriale anche lui trascorre la giovinezza nel viaggiare e conoscere i luoghi e le personalità più importanti della cultura europea. A Milano conosce Cletto Arrighi, di cui diventerà amicissimo fino ad un litigio violento che metterà fine alla loro relazione. Discreto pittore cercherà di mettere in atto quella fusione delle arti che è una delle mete più importanti dell’estetica scapigliata. Dopo la nascita del figlio Marco nel 1862 e la morte del padre cade in miseria si lascerà trascinare dall’abuso di alcol e droghe. Separatosi dalla moglie, impossibilitato di vedere il figlio, si spegnerà in miseria nel 1875.

La poesia che vi presentiamo è nella raccolta poetica Penombre (1864) :

PRELUDIO

Noi siamo i figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.

Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già dall’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;

s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario…

Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visïoni assorto,
tu puoi morir!… degli anticristi è l’ora!
Cristo è rimorto!

O nemico lettor, canto la Noja,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja,
il tuo cielo, e il tuo loto!

Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.

Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango,

giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!

Questa poesia è stata composta un anno dopo rispetto a quella di Boito e rappresenta, come già detto, un’altra lirica manifesto. E’ composta da 7 strofe di quattro versi, di cui tre endecasillabi e in modo alternato un settenario ed un quinario. Lo schema delle rime è ABAb.

Tale testo si può dividere nettamente in due parti: nelle prime 4 strofe si rappresenta tutto ciò che il poeta rifiuta, la religione cristiana – abbastanza ricco è il vocabolario che si riferisce a quest’area semantica, arca dell’Alleanza, il vitello d’oro, il Calvario, il Sudario – e il più alto rappresentante che della religione fa il suo fulcro letterario, Manzoni. Nella seconda viene invece sottolineato il vuoto e la noia, e la figura del “nemico lettore” che bisogna scandalizzare (temi ripresi dalla poesia di Baudelaire, ben conosciuta dal Praga). La verità non può quindi far altro che svelare la degradazione che la noia tende a ricoprire. Anche qui, come nella precedente poesia di Boito, il dualismo tipico della lirica scapigliata si inscrive in uno sperimentalismo letterario che gioca sull’eccesso, ma che non sdegna di misurarsi anche nell’elegiaco, quando il nemico lettore nella settima strofe diventa fratello.

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Iginio Ugo Tarchetti

Sul piano della prosa l’autore più rappresentativo è certamente Iginio Ugo Tarchetti (1839 – 1869). Partecipa alla carriera militare fino al 1965, per poi dedicarsi alla letteratura. I suoi autori, dai quali trasse ispirazione per la sua opera, sono il tedesco Hoffmann e l’americano Poe. Da essi prese spunto per i suoi Racconti fantastici. Srisse anche un romanzo-pamphlet antimilitarista, intitolato Una lucida follia. Ma il suo capolavoro, rimasto incompiuto e terminato (l’ultimo capitolo) dal suo amico Salvatore Farina, è certamente Fosca.

A cinque anni dall’avvenimento, il militare Giorgio, vuole rievocare nella carta un periodo particolarmente doloroso della sua vita, caratterizzato dall’amore per due donne completamente antitetiche: Clara e Fosca. I ricordi iniziano quando il giovane militare, in congedo per malattia, decide di abbandonare il suo paese per recarsi a Milano, a far visita ad un amico. Qui Giorgio incontra Clara, una giovane donna ricca di bellezza e virtù con la quale intrattiene una tenera relazione amorosa, nonostante Clara sia sposata con un impiegato di un’amministrazione governativa. La relazione dura solo due mesi, quando Giorgio, viene richiamato e trasferito a nuova destinazione. Di stanza in un piccolo villaggio, Giorgio è spesso ospite nella casa del colonnello, comandante della guarnigione. E’ qui che il giovane fa conoscenza con la cugina di questo, Fosca, descritta dal proprio medico come «la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso». Fosca è una donna di rara bruttezza affetta da una grave malattia, ma allo stesso tempo dotata di un’acuta sensibilità e di una raffinata cultura: Giorgio presto inizia a subirne l’oscuro fascino, tanto da non riuscire ad evitarla e da essere costretto ad instaurare con la donna un morboso legame sentimentale. Da questa relazione Fosca sembra trarre nuovo vigore e quasi guarire dalla sua malattia, a scapito però di Giorgio, che si sente deperire e avvicinare alla morte. Con la complicità del medico, il giovane riesce a ottenere un trasferimento provvisorio a Milano, che in seguito dovrà diventare definitivo. Tuttavia, negli ultimi giorni di soggiorno in casa del colonnello succede l’irreparabile: Fosca, alla fine del romanzo, muore logorata dalla malattia in seguito ad una morbosa nottata trascorsa con l’amato, mentre Giorgio, sfidato a duello dal colonnello, è colto da un malore e si rende conto di essere vittima della stessa malattia della donna. Sopravvissuto al duello, Giorgio apprenderà solo dopo quattro mesi di malattia della morte di Fosca, avvenuta tre giorni dopo il duello. Il romanzo si chiude con una lettera del medico, che consiglia a Giorgio di viaggiare e distrarsi, in modo da poter guarire completamente.

FOSCA

Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.
Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:
«Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre cosí malata!»
Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.
«Ora mi sembrate però guarita» risposi io.
«Guarita! – esclamò ella sorridendo – mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.»
Vedendo che la conversazione minacciava sì presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.
«Non sapete — ella riprese dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce – che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva mai letto.»
«Avete avuto troppo premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.»
«E’ vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.»
«Parmi anzi utile.»
«Utile sí, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per… me. Vi sono delle letture che mi fanno male.»
«Voi sapete – io dissi per tenermi da capo sulle generali – che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?»
Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: “Altro è l’uomo, altro le sue opere”, e riprese: «Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci principi retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia – non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina – ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?»
«Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?»
«O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.»
«Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero; – io dissi – ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura.»
«Sorvolo sui libri – rispose ella mestamente – come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; così è di tutte le cose; così è della vita. Non leggo né per imparare, né per pensare – abborro i libri di morale e di metafisica – leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. E’ tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete – aggiunse ella con aria di mesta ironia – il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi.

La presentazione di Fosca sembra ripercorre l’intento scapigliato di épater le bourgeois, descrivendo l’iperbolica bruttezza della protagonista, come personaggio principale di una “storia d’amore”. Tale bruttezza non è data da una deformità particolare, ma dalla sua eccessiva magrezza che ne lascia intravedere lo scheletro. Ecco allora che possiamo vederla come raffigurazione della morte stessa, come se Tarchetti abbia voluto rendere, all’interno di una storia contemporanea, il vecchio mito di eros e thanatos. Ma Fosca non è solo una malata (di cosa non è dato sapere, sembra più un dato esistenziale): in lei si agitano forti passioni, una vita intensa dettata da uno sguardo penetrante che invita di più all’ideale di una vita (i suoi grandi occhi). Tale ideale non può che vivificarsi nella letteratura che rifiuta ogni forma di pragmatismo e perbenismo, proprio come la scuola scapigliata insegna. Ella pertanto piena di sogni trascina verso di sé il militare, in uno scambio di vita/morte, trasmettendo l’inutilità del vivere, quando questo è realizzato nelle forme ormai desuete del romanticismo, Chiara.

Forse Tarchetti sentiva già dentro di sé la malattia (morirà di tisi), se sentirà l’esigenza di portarla dentro una pagina scritta. L’episodio che racconta, inoltre, le occorse veramente (s’innamora a Parma di un’epilettica, non bella, e la sua malattia sembra attrarlo) e suscitò, nella società d’allora, grande scandalo;

L’attrazione morbosa verso la morte sembra essere per lui un leit motiv, come si dimostra in un’altra celeberrima poesia:

MEMENTO!

Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato.

Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non poss’io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.

E nell’orrenda visïone assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporgere le fredda ossa di morto.

Gli esiti più alti, a parte il caso di Fosca, vennero tuttavia da due scrittori che potremmo dire “a latere” dell’esperienza scapigliata, di cui non condivisero a volte né il modus vivendi, né l’ideologia socialista/anarchica.

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Carlo Dossi

Il primo di loro è Carlo Dossi (1849 – 1910), di nobile famiglia lombarda. Diverrà un eccellente ambasciatore diplomatico, dapprima a Bogotà, quindi ad Atene e sarà a capo della segretaria di Crispi. Alla morte di quest’ultimo si ritira a vita privata. Ingegno precocissimo dà alle stampe il suo capolavoro L’altrieri a soli diciotto anni:

INTRODUZIONE 

I mièi dolci ricordi! Allorchè mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza – rotta solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna sull’ammattonato i circolari piombi della destra – mentre la gatta pìsola accovacciata sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolìo, sonnecchia; oppure quando, seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l’ànima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in segni di un lontano avvenire e stanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, strìngesi ad un intenso melancònico desiderio per ciò che fu. Io li evòco allora i mièi amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co’ suòi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tìrano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stùzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi comìnciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante aqua dal borbottino. Ed èccomi – a un tratto – bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala è calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidìssima mappa, dai lucenti cristalli, quà e là arrubinati, dalla scintillante argenterìa, vi ha molti visi – di chi, non sovvengo – visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lì, due mani in bianchi guanti, pòsano nel mezzo, su un piatto turchino, quel dolce che è la vera imàgine dell’inverno, che così bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e… Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso… E tutto rovina. Segue una tenebrìa: a mè par d’èssere solo, solìssimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto bìbì… Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’una e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d’un azzurro smagliante; l’àura, fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sè un cerchio. Com’ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringèndomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che làsciano il succio. E il cerchio intanto, abbandonato, traballa, disvìa… giravoltando, cade. Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. E’ la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire. E tò, in un salone (che stanzettina mi sembra adesso! ) entro una màchina di una sèggiola, mia nonna, ammagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscìo metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo, un cuffìone a nastri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lùcido intavolato, rùzzola, da mè lanciata, una trottola. Strìduli suoni d’un ansante organetto sàlgono dalla strada. Io, sùbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo al poggiuolo, arràmpico sul balaustrata e giù vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterèllano convulsi sullo sfiatato istrumento. – Oh i belli! i belli! – grido applaudendo… e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia civica, del padre, cerca d’impietosire impannate e vetriere, il mio più lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. E’ Nencia, la bambinaja: sobbràcciami d’improvviso, mi porta via – mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove stà un tepido bagno. E lì, essa e mamma, mi svèstono, mi attùffano, m’insapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia… Giuochiamo a chi fà il bacio più pìccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segreto fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispìgliano. E babbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! – Cattivo babbino – dico io schermèndomi – tu punci, tu… – Oh, i mièi amati ricordi, èccovi. Mentre di fuori, ai lunghi sospiri del vento, frèmono, piègansi le pelate cime degli àlberi e batte i vetri la pioggia – qui vampeggia il più allegro fuoco del mondo, scoppietta, trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschìssimi; quì, un mucchio di crepitanti marroni, or or spadellati, forma il centro del cìrcolo… Amici mièi, novelliamo.

Pagina esemplare, che mostra la distanza dalla narrazione per farsi quasi lirica, in cui nulla succede se non il liberarsi di pensieri senza alcuna casualità. Lo distanzia dalla grande prosa Novecentesca l’atto volontaristico della riesumazione memoriale, ma lo riscatta dalla produzione contemporanea un modernissimo uso della lingua, che mescola registri (dagli altissimi termini boccacciani “arrubinare” ai balbettii infantili (bibì, punci). Lo apparenta alla scapigliatura non certo la vita, ma il suo anticonformismo letterario, che lo farà riscoprire da grandissimi intellettuali del secolo scorso come grande maestro.

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Vittorio Imbriani

Stessa sorte toccherà al napoletano, pur essendo vissuto a lungo nel Nord, Vittorio Imbriani (1840 – 1886), lontanissimo da qualsiasi accesso anarcoide, ma tutore rigorosissimo ed anche conservatore della tradizione. Fu considerato vicino alla scapigliatura per la ricerca di una scrittura irregolare, fortemente anticlassica. Ciò si può evincere dalla pagina tratta da uno dei suoi romanzi più famosi Dio ci scampi dagli Orsenigo (1887):

UOMINI AL CLUBBE

Maurizio, frattanto, ito al circolo, al clubbe, trovò, che alquanti scapestrati, pari suoi, giocavano al lanzichenecco, ch’è, press’a poco, il nostro zecchinetto; e le poste eran grosse. Si fermò, a guardare. Lo invitarono, a sedere al tavolino, ma se ne scusò. Il marchese Barberinucci, (cui, se vi ricorda, egli doveva diecimila lire, per le quali aveva firmata una cambiale,) il contino Capecchiacci, il cavalier Bacherini, il maggior De Cristoforis, il tenente Vermaleone ed alcuni altri astanti, a motteggiarlo, sulla sua prudenza, sul suo rinsavimento: e che brutto vizio era il giuoco! e’ farebbe, pur, bene, a guarirsene! Maurizio s’arrovellava, internamente; ma, pure, si schermiva, barzellettando, spiritoseggiando, con disinvoltura, deplorando la soppressione de’ conventi, che non gli permetteva di ritirarsi, in uno asilo romito, dal tumulto del mondo. «In un convento?» disse il Bacherini. «In un convento un mi ci ritirerei: piuttosto, in un monistero, sì,» Esaurito l’incidente, quando l’attenzione di tutti era, ben, rivolta, al giuoco, Maurizio, che vi assisteva, con gli occhi intenti e sbarrati, sentì mettere un braccio, sotto al suo. Si voltò. Gli era il marchese Barberinucci, che il trasse, nel vano d’una finestra. Questo marchese, bisogna figurarselo un uomo sulla cinquantina; tutto ritinto e ripicchiato; col naso e le gote, corrosi dal salso; un po’ guercio; frequentatore della piú alta società; ghiottone matricolato; fortunatissimo giocatore; donnajuolo esimio. Non isbarcava, in Fìrenze, ondechessia, una nuova… ehm ehm! c’intendiamo! ch’ei non fosse de’ primi, a spingere una ricognizione su quel terreno! Veramente, lo spendere, che faceva, era sproporzionato, a’ mezzi suoi confessabili; veramente, nessuno avrebbe saputo indicare, in quale angolo di Toscana, d’Italia o del mondo, fossero i feudi antichi suoi, le proprietà sue presenti; nondimeno, tutti il qualificavano di perfetto gentiluomo. Così, neppure gli ammiratori piú sfegatati (ne avea. Chi non ne ha? Un sot trouve, toujours, un plus sot, qui ‘l admire!) avrebber potuto specificare, quali meriti intrinseci, quali servigi, resi alla patria, gli avessero fruttata la nomina, a grand’uffiziale di non so quale ordine. Mah! nell’Italia nostra, i meriti ed i servigi vengono, così, stranamente, valutati! si ha un’idea, così, incomprensibile della parola gentiluomo! Gentiluomo non è l’uomo di prosapia illustre; non è l’uomo di nobili costumi e gentili; non è il gentleman inglese. E… guardatevi intorno; e vedrete, quante villane carogne pretendono e ricevono del gentiluomo, a tutto pasto. Il Barberinucci prese, come dicevamo, il Della-Morte, per sotto al braccio; ed il trasse, nel vano di una finestra: «Fai bene, a ‘un giocare; ecco! Chi ha fortuna in amore ‘un giôchi a carte». ‘Un giochi, goffaggine fiorentina delle piú sconce, per non giuochi. Fortunato in amore, Maurizio! lui, che aveva perduta quell’Almerinda, tanto cara! lui, oppresso, infeliciato, da quest’esosa Radegonda! Agli orecchi suoi, le parole del Barberinucci, di Bista Barberinucci, sonavano, con un senso ironico, che non era, nell’intenzione di chi le pronunziava. Balbettò qualche parola di diniego. «Non istare a sciorinarmi frottole, ecco!» replicò il marchese. «Ma sai, che, te, sei un gran porco, di horrer drietro, a tante femminacce, aendo in casa quer pezzo di donna, che nascondi, agli amici?» «Aaahn! capisco, adesso, cosa vuoi dire. Ma t’assicuro, che è una fortuna d’amore, onde io mi sbrigherei, piú che volentieri». Il Barberinucci sorrise, come chi trova, alla bella prima, quella carta, che s’era accinto a cercare, fra un mucchio enorme di scritture, senza alcuna lusinga di rinvenirla od, almeno, di potervi metter su la mano, presto. «Intendo! Toujours perdrix!» E proseguì «O chi è? O come si chiama? O da quando hai preso, a mantenerla, te? O con chi la staa, prima? Ti hosta molto, eh? O perché la un si ede, mai, alle Hascine? Ecco, una bella donna è!» Dapprima, il Della-Morte tacque, imbarazzato. Gli si affollarono, innanzi alla mente, i sacrificî, fatti, per lui, dalla Radegonda; qual donna la si fosse: e fin le diecimila lire, offertegli, la mattina: e, da lui, condizionatamente, accettate; e sulle quali contava, per pagare, appunto, l’interlocutore. Stette, quindi, per contraddirgli, per disingannarlo, dal supporre, nella signora Salmojraghi-Orsenigo, una femmina da conio. Ma perché prendersi tanto incomodo? ma che gliene importava? Sorrise, adunque, di quel fatuo riso, che può valer, per un’affermazione, e che suol farsi, trattandosi di femmine, quando vogliamo far credere ciò, che si reputa malfatto il divulgare, e che, spesso, non è vero. Non s’è spifferato un esplicito sì, quindi, niuno ha il dritto di chiamarci ned indiscreti né menzogneri. Con quel sorriso, Maurizio si scostò, dal Barberinucci, sclamando: «Ah! se sapessi! Non tutto quel, che luce, è oro. Darei qualunque cosa, per esser liberato, da quella pittima! Maledetto il momento, in cui la presi! La trovi bella tanto? A me, piace, neppure». E prese a camminar, su e giú, per salotto, soffermandosi, però, in ogni giravolta, presso il tavolino da giuoco.

Dio ne scampi dagli Orsenigo è una sfottitura delle istanze sentimentali dei romanzi, con una satira dove ogni ingenuità cade sotto la sferza della coscienza ironica. E’ uno dei romanzi più arditi del suo tempo, ma segnato da una pedagogia castigatoria, come se qualcuno ci dicesse: «Adesso vi faccio vedere io come vanno a finire tutte le favole sull’amore, con le belle fantasie romantiche!» Ovvero, come termina il capitolo XVI: «Cosa vuol dire fare i conti senza l’oste!».

Ma la pagina presentata è un ardito esempio di anti manzonismo proprio laddove l’autore milanese era più celebrato, la lingua. Se infatti nei Promessi sposi Manzoni si fa garante di una lingua media che egli trova nel fiorentino parlato dai colti, Imbriani utilizza lo stesso fiorentino capovolgendolo in maniera sarcastica ed indicando, senza alcuna remora, come l’operazione dello scrittore romantico fosse falsa e fuorviante. Ed è proprio nel suo sarcasmo contro il grande maestro, sia nella trama del romanzo che nella lingua, possiamo avvicinare Imbriani alla scapigliatura.
Ma è come voler dire che ogni autore, che all’indomani dell’Unità abbia sentito l’esigenza di allontanarsi dal passato per dare una nuova prospettiva culturale, sia lui appartenuto o no al movimento scapigliato, si debba ascrivere a quel sentimento “ribellistico” che animava i discorsi sul fare letterario.

 
 
 
 

LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA

Se dovessimo dare una cronologia, diremo subito che il periodo di tale dinastia va dal 14 al 68 d.C., anni in cui avvengono le morti, rispettivamente, di Augusto e di Nerone. Ma, al contempo, se dovessimo leggerlo sotto forma politica, dovremmo sottolineare come l’ambivalenza tra il (falso) rispetto della Repubblica, la cosiddetta restitutio reipublicae dell’operato di Augusto e l’autocrazia imperiale del suo essere Princeps, verranno ben esplicitate dalle spinte ambivalenti che caratterizzano i quattro imperatori della dinastia giulio-claudia, prima della nuova catastrofe dell’annus horribilis del 69. D’altra parte non possiamo dimenticare che, prima d’addentrarci in una qualsiasi valutazione di carattere storiografico, dobbiamo tener presente della tendenziosità che sui successori augustei operarono storiografi filo-senatoriali quali Svetonio e Tacito che, con capacità diverse, ci lasciarono di quest’età una visione torbida e cupa. Nostro compito, pertanto, sarà quello di avvicinarci, per quanto possibile, alla verità storica sull’operato e più precisamente sulla politica culturale di Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone.

La successione

La figura inaugurata da Augusto, quella del princeps, non aveva avuto precedenti nella storia repubblicana e pertanto risultava assolutamente difficile, per lui, trovare un successore in grado di rivestirne il ruolo e l’autorità che tutto il popolo Romano, dalla nobilitas alla plebs, gli aveva attribuito, grazie anche alla pacificazione ottenuta dopo le sanguinose guerre civili. Morto in tarda età, venutigli meno dapprima il genero Agrippa, poi i nipoti Gaio e Lucio, da lui nati e dalla figlia Giulia, designò Tiberio, figlio della sua seconda moglie Livia con Tiberio Claudio Nerone. Ciò determinò la denominazione di dinastia Giulia (gens Iulia a cui apparteneva Augusto) e gens Claudia (gens d’origine di Tiberio).

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Tiberio (14-37)

Su Tiberio pesa il giudizio di Tacito sugli Annales, eppure egli non fu un “pessimo” imperatore, così come la storiografia successiva volle indicarci. Divenne Caesar in tarda età, a 56 anni, dopo aver mostrato grandissime capacità militari sia in Pannonia che in Germania, insieme al figlio e al fratello, rispettivamente Drudo minore e maggiore, e al nipote Germanico. Quest’ultimo, dopo aver ottenuto vittorie brillanti morì e secondo le illazioni popolari fu lo stesso Tiberio ad averlo ucciso per gelosia in Oriente, tramite il nobile Pisone, (la cosa non fu mai accertata). Quando divenne imperatore seppe proseguire, tuttavia con meno auctoritas di quella di Augusto, soprattutto per una certa ritrosia personale che lo rendeva schivo agli occhi della plebs, la politica di suo padre adottivo, riuscendo a mantenere buoni rapporti con il senato. Tutto ciò durò finché, per motivi oscuri, decise di abbandonare Roma e di ritirarsi in una splendida villa su Capri. Lasciò quindi nella capitale il suo prefetto del pretorio, Seiano, un ricco d’origine equestre, che, venuto in attrito con la nobilitas, cominciò a dare vita ad una serie di processi di lesa maestà, non nascondendo le sue mire per essere investito dallo stesso Tiberio come suo successore. Ma la volontà di non inimicarsi le vecchie famiglie aristocratiche fece accettare all’imperatore l’accusa del tradimento del suo prefetto e lo condannò a morte. Ciò non provocò alcun miglioramento: vecchio, sospettoso, lasciò in eredità un’immagine di sé assolutamente sgradevole, morendo fuori dalla città eterna nel 37 d.C.

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Caligola (37-41)

Sembra che sia stato Macrobio, dopo aver sostituto Seiano nel ruolo di prefetto del pretorio, ad imporre Caligola al senato che, in quanto figlio di Germanico, era ben visto sia dagli ambienti militari, dai senatori e soprattutto dalla plebe che aveva, verso suo padre, un vero e proprio culto. Furono infatti i soldati a soprannominarlo Caligola dalla “caliga” tipica calzatura usata dalle truppe che seguivano Germanico in Germania. Alla morte del padre tornò a Roma, e ad appena 25 anni fu nominato imperatore. Pochissime le fonti sul suo breve operato politico (non abbiamo la testimonianza di Tacito, ma solo di Svetonio), ma sembra che tutte si riferiscano alla sua “pazzia” (si dice che abbia nominato senatore il suo cavallo Incitatus): egli infatti virò verso una politica assolutistica che prevedeva l’orientalizzazione e quindi la sua “divinizzazione” e “sottomissione” di ogni altra componente statale. Ciò gli procurò molti nemici, (ad eccezione della plebe, che lo amava), tanto che solo dopo quattro anni fu ucciso.

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Claudio (41-54)

Per evitare disordini sociali i pretoriani acclamarono subito come suo successore suo zio, Claudio, saltando qualsiasi deliberazione del Senato (precedente questo che testimonia l’importanza che il ceto militare aveva assunto nell’Impero). Anche per lui le notizie e le testimonianze tramandateci furono impietose: ciò che si tendeva a mettere in rilievo erano le deformazioni fisiche (sembra le tremasse la testa e che fosse claudicante) e foniche (balbettava). Tuttavia la storiografia più recente lo assolve dalla gran parte delle critiche: era un intellettuale, dedito a studi storiografici, e grande lacuna ha rappresentato la perdita degli studi sugli Etruschi da lui svolti. Ma ancora più importanti furono i suoi successi politici: riassestò il bilancio disastrato dalle spese folli di Caligola e, in politica estera, sistemò le questioni aperte dal suo predecessore in Oriente e portò avanti la conquista della Britannia che, sotto di lui, divenne provincia. Grande importanza ebbe la riorganizzazione dello Stato, integrando ad esso molti notabili delle province. Inoltre lasciò le incombenze amministrative nelle mani di liberti che, in tal modo, assumevano maggiori responsabilità dei senatori stessi (fu infatti polemicamente ricordato come l’“imperatore dei liberti”). Tuttavia il suo regno fu pieno d’intrighi, causati soprattutto dalle donne: aveva sposato in terze nozze Messalina, che gli aveva dato il figlio Britannico. Oltremodo dissoluta, fu accusata di tramare contro il marito e messa a morte. Sposò allora Agrippina che riuscì a fargli adottare un figlio avuto da un precedente matrimonio. Quindi nel ’54 lo avvelenò per assicurare al figlio la successione al trono.

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Nerone (54-68)

Il periodo neroniano risulta essere il più favorevole per la formazione di grandi personalità letterarie, caratterizzanti proprio questa dinastia. Ciò fu probabilmente promosso dallo stesso imperatore, cultore della cultura greca, egli stesso poeta e, con scandalo di tutti, istrione. Queste qualità, d’altra parte, ci offrono anche la visione di un imperatore protagonista, che, come tale, non poteva certo essere accondiscendente verso le istituzioni ma, come il suo predecessore, assolutista. Il suo impero può essere diviso in due parti: il primo, definito quinquennio felice in cui divise le responsabilità di governo con il filosofo Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro; il secondo in cui prevalse il suo aspetto dispotico che lo condusse alla fine. Infatti egli, dominato dalla madre Agrippina, salì al potere a soli diciassette anni. La stessa genitrice convinse Claudio a richiamare dal confine Seneca, mandato lì per gli intrighi della prima moglie Messalina; inoltre gli diede in moglie Ottavia, figlia di Claudio. Dopo aver ucciso quest’ultimo e portato il figlio al trono, nonostante la presenza del filosofo e del militare, lo convinse a uccidere il fratellastro Britannio, ma fu allo stesso modo uccisa per essersi opposta al divorzio con Ottavia per sposare in seconde nozze Poppea. Anno importante fu il ’64, in cui Roma venne distrutta da un rovinoso incendio. Sull’operato gli storici si dividono: il modo attraverso cui l’imperatore si adoperò in questo frangente è stato visto da una parte in modo positivo per l’abnegazione che egli dimostrò verso la plebe e la capacità di ricostruire Roma, dall’altro in modo negativo per come egli accontentò la plebe additando come capro espiatorio il cristianesimo e approfittò di tale frangente per costruirsi sul Palatino una splendida e immensa dimora, la Domus aurea. Certo è che per questo evento Nerone si ritrovò con le casse imperiali vuote e in estrema difficoltà nel dover seguitare una politica accondiscendente verso i desideri della plebe romana. Ciò comportò un forte aumento nell’imposizione fiscale delle provincie che causarono la ribellione delle popolazioni sotto la direzione di Roma. Inoltre la stessa nobilitas, costretta fino allora ad una cieca obbedienza, tentò di ribellarsi attraverso quella che storicamente viene definita la “congiura dei Pisoni”. Vennero messi a morte molti senatori ed intellettuali come lo stesso Seneca, Petronio e Lucano. Infine si sollevarono le milizie di stanza in Spagna, in Galilea e in Gallia con i loro generali; Nerone, resosi conto di esser rimasto solo, infine decise di togliersi la vita nel ’68, chiudendo così un’epoca ed una età.

La cultura

Nessuno degli imperatori appartenenti a questa dinastia non si può definire un non intellettuale: Tiberio, Caligola, Claudio, ma il vero e proprio rifiorire culturale avvenne soprattutto con Nerone, sia per la promozione culturale che egli stesso incoraggiò, sia per il fatto stesso che l’imperatore in persona non si negò il piacere di essere (e forse realmente fu) un ottimo poeta, anche se di lui non ci è pervenuto nulla.

Per chiarezza riassumeremo qui i principali “generi” attraverso cui la cultura “letteraria” si esercitò:

  • Già in età augustea l’epica mitico-storica, in un periodo non più fondativo/giustificativo del potere, non poteva trovar luogo: a mostrarlo fu l’opera di Manilio Astronomica, dove l’epica si sposa alla filosofia stoica di una realtà assolutamente trascendente e astorica. Lucano, invece con il suo Bellum civile cancella qualsiasi elemento mitico, ma non ultimo dei motivi, non lo concluse perché costretto a uccidersi da Nerone;
  • La storiografia del periodo o si struttura in semplici sintesi come quella di Valleio Patercolo oppure non ci è pervenuta soprattutto perché le opere furono vergate da senatori e quindi antimperialisti: Cremuzio Cordo ce ne offre l’esempio: la sua opera fu messa al macero e lui costretto a uccidersi;
  • La satira trovò nuova forma e struttura sul modello di quella menippea che era caratterizzata dal prosimetro: fu utilizzata sotto il periodo neroniano da Seneca con l’Apokolokýntosis di Seneca ed il Satyricon di Petronio;
  • L’oratoria perde il profondo significato che aveva alla fine della Repubblica; la non libertà politica ne fa un puro esercizio in cui si vuole mostrare il proprio essere peritus dicendi, soprattutto pubblicamente attraverso le declamationes;
  • Se non può svilupparsi una vera e propria “critica” al potere in forma diretta, come accadrà sotto Domiziano e, più in là, Adriano, la metafora sugli umili trova spazio nell’unico genere che la letteratura latina non aveva ancora sviluppato da quella greca, la fiaba: fu Fedro a farlo.

LA LINEA REALISTA IN EUROPA: DAL ROMANTICISMO AL NATURALISMO

Sembra quasi naturale che la cultura positivista, figlia dello “scientismo” più che della “teorizzazione” e della “riflessione sul sé”, abbia come principale sbocco culturale la pittura e la letteratura romanzesca. Per quest’ultima è ben evidente che tale movimento trovi maggior sfogo là dove un romanzo d’ambientazione contemporanea era già nato e che aveva preso il nome generico di “realismo”: Dickens in Inghilterra e Stendhal, Balzac e Flaubert in Francia, l’esplosione della grande narrativa russa.

Francia
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Stendhal

Stendhal è lo pseudonimo di Henry Beyle, nato nel 1783 e morto piuttosto giovane nel 1841. E’ autore di due importantissimi romanzi Il rosso e il nero del 1830 e La Certosa di Parma del 1839. L’essere nel passaggio che condurrà la letteratura dall’attenzione verso l’io nei rapporti con la realtà, sia essa naturale che reale (la lirica leopardiana, il romanzo manzoniano) al modo in cui la realtà influenza l’uomo, lo rende un autore estremamente importante.

Julien Sorel de Il rosso e il nero è ancora un uomo “eccezionale”, al centro dell’attenzione nella cui ottica si muove la narrazione, ma è anche determinato dall’ambiente in cui si trova ad agire; l’ammirazione per Napoleone all’inizio, che gli fa tentare la scalata sociale attraverso la carriera militare, la Restaurazione che gli fa spostare le sue armi verso le donne per la sua strategia d’affermazione, sembrano già adombrare un conflitto di classe. Dirà infatti ai giudici, che lo condannano per un omicidio:

DIFESA DI JULIEN SOREL

Signori giurati
L’orrore del disprezzo che, al momento di morire, credevo di poter sfidare, mi fa prendere la parola. Signori, non ho l’onore di appartenere alla vostra classe: voi vedete in me un contadino che si è ribellato contro la bassezza del proprio destino.
Non vi chiedo nessuna grazia, non mi faccio nessuna illusione, la morte mi attende; essa sarà giusta. Ho potuto attentare ai giorni di una donna di ogni rispetto, di ogni omaggio. La signora era stata per me come una madre. Il mio delitto è atroce, esso è “premeditato”. Ho perciò meritato la morte, signori giurati. Ma quand’anche fossi meno colpevole, vedrei degli uomini che, senza esser trattenuti da quel che la mia giovinezza può meritare di pietà, vorranno punire in me e scoraggiare quella classe di giovani che, nati in una condizione inferiore e oppressi in qualche modo dalla povertà, hanno avuto la fortuna di procurarsi una buona educazione e l’audacia di mescolarsi a quella che l’orgoglio dei ricchi chiama società.
Ecco il mio delitto, signori; ed esso sarà punito con tanta più severità, in quanto io non sono affatto giudicato dai miei pari. Non scorgo sui banchi dei giurati qualche contadino arricchito, ma soltanto borghesi indignati…

Ma non bisogna dimenticare l’asciuttezza della narrazione, fatta di concretezza, che lui definisce da “codice civile”, ad allontanarlo da ogni forma d’immaginifico, come nell’Ivanhoe di Walter Scott o di lirismo, come, appunto, I Promessi Sposi, manzoniani.

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Honoré De Balzac

Honoré De Balzac (1799 – 1850) è certamente uno dei più prolifici narratori francesi e ciò non soltanto a fini economici (per recuperare denaro in avventure finanziare fallimentari), ma anche per una forma, oseremo dire con un termine moderno, “compulsiva”, quella di voler rappresentare l’intera società francese del suo periodo. Comédie humaine (Commedia umana) è il progetto letterario in cui vuole descrivere ogni aspetto sociale del suo tempo. Egli li divide in tre “studi”: il primo Studi di costume del XIX secolo, il secondo, Studi filosofici ed il terzo Studi analitici. Il primo di essi si suddivide a sua volta in sottogeneri ed avrà descrizioni di vita privata, vita militare, politica e di campagna.
Insomma nella mente di Balzac vi era l’intenzione di scrivere un’opera-mondo in cui venisse racchiuso tutto il reale: per questo userà il termine dantesco; così come quest’ultimo ha rappresentato ha rappresentato l’intera umanità nell’aldilà, egli vuole descrivere in un al di qua di spazio (la Francia della Restaurazione) e di tempo (la prima metà dell’800).

In tale messe di opere (ben 137 romanzi), tuttavia si può scorgere un disegno comune che tutte le sottende:

  • il romanzo sociale è credibile soltanto se lo sono i personaggi che lo compongono; la loro plausibilità è dato dalla definizione dei rapporti con l’ambiente in cui vivono, condizionandoli nel loro essere e nel loro agire;
  • da qui un’attenzione estrema per gli elementi esterni in cui il protagonista è inserito. Egli li impregna di sé e ne è a sua volta impregnato.
  • descrizione degli ingranaggi che sottendono la società: egli arriva a capire fondamentalmente quali sono meccanismi che determinano la ricchezza, l’avidità, l’astuzia che una società sottomessa al denaro attua per affermare se stessa;
  • la creazione di una miriade di personaggi che non terminano la loro azione in un solo romanzo, ma possono riapparire in altri, denotando l’onnicomprensività e la ciclicità della propria narrazione.

E’ difficile scegliere in tale grande massa di romanzi quelli che potremo definire capolavori di Balzac: certamente non si possono dimenticare La cugina Bette, Papà Goriot, Il colonello Chabert. Ma certamente uno dei più celebrati è Eugenie Grandet:

Quest’ultimo narra la storia di Eugenia Grandet, vittima di una società che nel denaro e nel profitto individua i valori fondamentali. Suo padre, la cui abilità nei commerci è pari all’avarizia, ha realizzato una grossa fortuna ma fa vivere nelle più meschine ristrettezze la sua famiglia. L’amore di Eugenia per il cugino Carlo non può realizzarsi perché questi a causa dei dissesti familiari del padre, parte per le Indie a cercare fortuna. Eugenia lo attende con devoto e romantico affetto per cinque anni, ma quando, arricchito, Carlo ritorna, sposa una giovane di nobile famiglia. Eugenia, che intanto è rimasta orfana e ricca ereditiera accetta rassegnata un matrimonio puramente formale (cioè a condizione che non venga consumato) con un anziano pretendente. Rimasta ben presto vedova, passa le sue solitarie giornate dedicandosi ad opere di beneficenza.

LA FAMIGLIA GRANDET

Nel vano della finestra più vicina alla porta stava una sedia di paglia montata su una predella, allo scopo di elevare la signora Grandet a un’altezza che le permettesse di vedere i passanti. Un tavolino da lavoro di legno di ciliegio scolorito riempiva il vano, e la poltroncina di Eugenia Grandet era lì accanto. Da quindici anni, tutte le giornate della madre e della figlia trascorrevano tranquillamente in quell’angolo, in un lavoro assiduo; dal mese di aprile sino al mese di novembre. Il primo giorno di questo mese, esse potevano prendere il loro domicilio invernale accanto al camino: soltanto quel giorno, infatti, Grandet permetteva che si accendesse il fuoco nella sala: e lo faceva spegnere il trentun marzo, senza badare né ai primi freddi della primavera né a quelli dell’autunno. Uno scaldapiedi, alimentato con la brace del fuoco della cucina che Nanon riserbava alle padrone giocando d’astuzia, aiutava la signora e la signorina Grandet a trascorrere le mattine o le serate più fresche dei mesi di aprile e di ottobre.
Madre e figlia rammendavano tutta la biancheria della casa, e dedicavano tanto coscienziosamente le loro giornate a quell’umile lavoro da operaie che, se Eugenia voleva ricamare un collettino per la madre, era costretta a sacrificare le ore del sonno, ingannando il padre per avere un po’ di luce, poiché da molto tempo l’avaro misurava le candele alla figlia e a Nanon, così come la mattina dosava il pane e le provviste necessarie al consumo giornaliero.
La grande Nanon era forse l’unica creatura umana capace di accettare il dispotismo del suo padrone. Tutta la città invidiava ai Grandet l’erculea Nanon, la quale, così chiamata per la sua statura di cinque piedi e due pollici, apparteneva alla famiglia da trentacinque anni, e, benché ricevesse soltanto sessanta lire di salario, era considerata la più ricca domestica di Saumur. Infatti quelle sessanta lire, accumulate per trentacinque anni, le avevano consentito recentemente di accendere un vitalizio di quattromila lire presso il notaio Cruchot. Quel risultato delle lunghe e persistenti economie di Nanon era sembrato enorme, e tutte le altre serve, vedendo assicurato alla povera sessantenne il pane per la vecchiaia, ne provavano invidia, senza pensare a qual prezzo di duro servaggio esso era stato conquistato.
A ventidue anni la povera ragazza era così repellente che non si era potuta collocare presso alcuno, e quella ripugnanza era certo molto ingiusta, poiché il suo viso sarebbe stato assai ammirato sulle spalle di un granatiere della guardia; ma in ogni cosa occorre, come si suol dire, l’opportunità.
Costretta a lasciare una fattoria incendiata dove sorvegliava le mucche, essa venne a Saumur in cerca di un posto, animata da quel robusto coraggio che non si rifiuta a niente. Grandet, il quale pensava allora di prender moglie e voleva già metter su casa, notò quella ragazza che tutti respingevano e, poiché nella sua qualità di bottaio era buon conoscitore della forza fisica, intuì quali vantaggi si sarebbero potuti trarre da una creatura femminile dalla statura erculea, ben piantata sui propri piedi come una quercia di sessant’anni sulle proprie radici, dai fianchi robusti, dal dorso quadrato, dalle mani da carrettiere e dall’onestà vigorosa quanto la sua intatta virtù. Né le verruche che ornavano quel viso marziale, né il colorito rossiccio, né le braccia nerborute, né i cenci della Nanon spaventarono il bottaio, che era ancora nell’età in cui si ha il cuore sensibile; anzi, egli vestì, calzò, nutrì la povera ragazza, le diede un salario e la fece lavorare senza maltrattarla troppo.
Vedendosi così accolta, Nanon pianse di gioia in segreto e si affezionò sinceramente al bottaio, il quale, d’altronde, la sfruttò feudalmente. Infatti Nanon faceva tutto: rigovernava la cucina, faceva il bucato, andava a lavare la biancheria alla Loira, la riportava sulle spalle; si levava appena era giorno, si coricava tardi; faceva da mangiare per tutti i vendemmiatori durante i raccolti, sorvegliava i braccianti, difendeva come un cane fedele la proprietà del padrone; infine, ciecamente fiduciosa in lui, obbediva senza commenti ai suoi più assurdi capricci. Nel famoso anno 1811, il cui raccolto costò pene inaudite, dopo vent’anni di servizio Grandet decise di regalare a Nanon il suo vecchio orologio, unico dono che essa mai ricevette da lui; infatti, benché egli le passasse le proprie scarpe vecchie (essa poteva portarle), era impossibile considerare come un regalo il profitto trimestrale delle scarpe di Grandet, tanto erano logore. Insomma la necessità rendeva talmente avara quella povera ragazza, che Grandet finì col volerle bene come si vuol bene a un cane, e Nanon si era lasciata mettere al collo un collare guarnito di aculei le cui punzecchiature non la ferivano più. Se Grandet affettava il pane con troppa parsimonia, essa non se ne lagnava; anzi partecipava allegramente ai vantaggi igienici derivanti dal severo regime di quella casa, dove mai nessuno era malato.
Eppoi Nanon faceva parte della famiglia: rideva quando Grandet, si rattristava, gelava, si riscaldava, lavorava con lui. E quante dolci ricompense in quel cameratismo! Il padrone non aveva mai rimproverato alla serva né le pesche primaticce o le peschenoci, né le prugne o le susine mangiate sotto l’albero.
«Su, fanne una scorpacciata, Nanon» le diceva nelle annate in cui i rami piegavano sotto il peso dei frutti, che i fattori erano costretti a gettare ai maiali. 

Il piccolo brano presentato non fa che confermare l’oggettività ricercata dall’autore; nessun commento, ma poche notazioni a renderci il clima. Descrizioni della mobilia, degli alimenti, della fisicità degli stessi personaggi ci dicono molto più dei rapporti personali, ad esempio, tra la madre e la figlia rispetto a papà Grandet e di quest’ultimo verso Nanon, di quanto ci possa dire un intervento chiarificatore dell’autore.

Un’importante notazione sull’intera produzione balzacchiana ce la lascia Engels, coautore con Marx del Manifesto: “Balzac, che io ritengo maestro del realismo di gran lunga maggiore di tutti gli Zola del passato, del presente e dell’avvenire, ci dà nella Comèdie humaine un’eccellente storia realista della società francese, poiché, sotto forma di una cronaca, egli descrive quasi anno per anno, dal 1816 al 1848, la spinta sempre crescente della borghesia in ascesa contro la società nobiliare che, dopo il 1815, si era ricostituita ed era ritornata a inalberare, nei limiti  delle sue possibilità, il vessillo della vieille politesse française (vecchia eleganza francese). Egli descrive come gli ultimi avanzi di questa società, per lui esemplare, andavano a poco a poco soggiacendo all’assalto del ricco e volgare villan rifatto o venivano da lui corrotti (…) e intorno a questo quadro centrale raggruppa una storia completa della società francese dalla quale io, perfino nelle particolarità economiche (ad esempio la ridistribuzione della proprietà reale e personale dopo la Rivoluzione francese) ho imparato più che da tutti gli storici, gli economisti, gli statisti di professione di questo periodo messi insieme.”

Perché tale giudizio è importante? Perché ci fa riflettere sul rapporto tra ideologia e letteratura: Balzac era politicamente un legittimista, eppure descrive i meccanismi economici molto meglio di qualsiasi “rivoluzionario” intento a cambiare la società.

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Gustave Flaubert

Gustave Flaubert (1921 – 1880) è certamente colui che meglio di qualunque altro ha saputo rappresentare il passaggio tra l’idealismo ed il realismo. Figlio della generazione successiva a quella di Stendhal e di Balzac egli vive pienamente le speranze e la seguente delusione della rivoluzione borghese del ’48 francese, la Restaurazione sotto Luigi Filippo e quindi il secondo Impero di Napoleone III, l’espansione economica e lo sviluppo delle forze democratiche e la nascita della filosofia positivista.

Sul piano culturale, gli anni ’50, vedono la reazione di un gruppo di intellettuali verso la libertà “stilistica e contenutistica” della letteratura romantica e realizzano una poesia in cui torna in auge la perfezione formale cercando un dettato di cristallina bellezza e di oggettiva descrizione, dove proprio al lirismo si contrappone il dettato di un oggettivo realismo depurato da ogni incrostazione sentimentale. Sono questi i cosiddetti “Parnassiani”. Questo può in parte spiegare la ricercatezza, oseremo dire, quasi maniacale verso la forma di scrittura di Flaubert, ma non ne limita la sua importanza quasi rivoluzionaria sul piano del romanzo europeo. Tale importanza è derivata proprio da un atteggiamento tipico della sua “personalità”. Attenti studi hanno rivelato che il sottofondo delle sue aspirazioni è prettamente romantico e questo si accorda in un primo momento con la sua giovinezza: la famiglia, le idee, la rivoluzione; poi la morte delle persone a lui molto care, il padre e la sorella (1846), l’involuzione ed il neo cesarismo napoleonico lo portano ad una forma di nevrosi che lo condurrà ad analizzare l’inevitabile scontro tra sogno e realtà, vivificandolo nella figura di Emma Bovary. Ma l’incapacità del personaggio è la sua, se arriverà a dire “Madame Bovary c’est moi”.

Charles Bovary, modesto medico di provincia, sposa in seconde nozze Emma Rouault, figlia di un proprietario terriero. Emma, il cui temperamento sognatore è stato nutrito dalle letture romantiche dell’adolescenza, è presto delusa dalla mediocrità del marito, che pure l’ama profondamente e dalla vita che gli offre. Comincia a intristire: Bovary, preoccupato del suo stato, si traferisce a Yonville, nella speranza che il cambiamento d’aria le giovi. A Yonville Emma è corteggiata da Léon, praticante notaio: ma il giovane non osa dichiararsi e parte per Parigi. Emma si lascia sedurre da Rodolphe Boulanger, un banale dongiovanni di provincia, e ha un breve periodo di felicità; ma non tarda a stancare l’amante con i suoi eccessi. Rodolphe, spaventato dall’idea di fuggire insieme, l’abbandona. Emma ne è sconvolta, e cerca freneticamente di stordirsi. A Rouen ritrova Léon, più ardito dopo il soggiorno parigino; convinta di riuscire a legarlo a sé, ben presto stanca anche lui. Comincia così la sua degradazione: si indebita con un usuraio, all’insaputa del marito e non sa come pagarlo. Chiede inutilmente aiuto a Léon e a Rodolphe; poi, disperata, si uccide. Charles Bovary, assillato dal ricordo della moglie, alla quale ha perdonato i tradimenti, si lascia lentamente morire.

IL CARCERE QUOTIDIANO

Per tenersi al corrente, si abbonò all’ “Alveare medico”, un giornale nuovo di cui gli erano pervenuti i prospetti; lo leggeva, in parte, dopo cena, ma il tepore della stanza, insieme con la fatica della digestione, facevano sì che in capo a cinque minuti, fosse addormentato; rimaneva là, con il mento appoggiato alle mani e i capelli arruffati come una criniera che arrivavano fino al piede della lampada. Emma lo guardava e alzava le spalle. Perché non aveva almeno per marito uno di quegli uomini accesi di taciturno fervore che lavorano di notte in mezzo ai libri e che, giunti ai sessant’anni, l’età dei reumatismi, portano finalmente una piccola spilla a forma di croce sull’abito nero di cattivo taglio? Emma avrebbe desiderato che il nome di Bovary, ora il suo nome, fosse illustre, le sarebbe piaciuto vederlo nelle librerie, leggerlo nei giornali, noto in tutta la Francia. Ma Charles non aveva ambizioni! Un medico di Yvetot, con il quale si era trovato ultimamente per un consulto, lo aveva quasi mortificato addirittura al capezzale del paziente e davanti a tutti i parenti riuniti. Quando Charles, la sera, raccontò il fatto, Emma si accalorò molto contro il collega del marito. Quest’ultimo fu intenerito dall’atteggiamento di sua moglie: la baciò sulla fronte con gli occhi pieni di lacrime. Ma Emma era esasperata e piena di vergogna, lo avrebbe preso volentieri a schiaffi. Andò nel corridoio, aprì la finestra e rimase a respirare l’aria fresca per calmarsi.
«Che disgraziato! Povero disgraziato!» ripeteva, mordendosi le labbra.
Si sentiva sempre più irritata dal suo modo di comportarsi. Con il passare degli anni Charles prendeva abitudini grossolane; alla fine del pranzo era solito tagliuzzare i tappi delle bottiglie vuote; dopo aver mangiato si passava la lingua sui denti. Sorbiva il brodo producendo gorgoglii chioccianti a ogni cucchiaiata, e, poiché cominciava a ingrassare, gli occhi, già piccoli, sembravano spostarsi verso le tempie, spinti verso l’alto dalle gote gonfie di adipe.
A volte Emma gli ricacciava nel panciotto il bordo rosso delle maglie, gli raddrizzava la cravatta o buttava via i guanti consumati che egli stava per infilare. Ma non faceva questo per lui, bensì per se stessa, per una specie di estensione del suo egoismo, di irritazione nervosa. Altre volte gli parlava di ciò che aveva letto, un brano di un romanzo, una nuova commedia o l’ultimo aneddoto sul gran mondo riportato dal giornale; dopotutto, Charles era qualcuno, un orecchio sempre disposto ad ascoltare, un’approvazione sempre pronta. La cagnolina stessa riceveva le sue confidenze ed ella ne avrebbe fatte anche ai ceppi del caminetto e al bilanciere della pendola.
In fondo al cuore continuava a sperare che accadesse qualcosa di diverso. Come i marinai in pericolo, volgeva sguardi disperati sulla solitudine della sua vita, cercando di scorgere una vela bianca lontana fra le brume dell’orizzonte. Non sapeva che cosa stava aspettando, quale vento avrebbe spinto verso di lei l’avvenimento desiderato, a quale lido l’avrebbe fatta approdare, se si sarebbe trattato di una scialuppa o di un vascello a tre ponti carico di angosce o pieno di felicità fino ai boccaporti. Ogni mattino, al risveglio, sperava che ciò avvenisse, proprio quel giorno, e ascoltava ogni rumore, si alzava di soprassalto, e si stupiva che ancora non accadesse nulla; poi, al tramonto, sempre più triste, desiderava di essere all’indomani.
Tornò la primavera. Emma provò a volte un senso di soffocamento, ai primi calori, quando fiorirono i peri. Fin dai primi giorni di luglio, cominciò a contare sulle dita quante settimane mancavano per arrivare al mese di ottobre, nella speranza che il marchese di Andervilliers forse avrebbe dato ancora un ballo alla Vaubyessard. Ma tutto il mese di settembre trascorse senza che giungessero lettere o visite.
Dopo quella delusione, il suo cuore rimase vuoto ancora una volta, e la serie delle giornate tutte uguali ricominciò.
Ormai si sarebbero susseguite dunque, così, tutte in fila, monotone, anonime, e senza portare con sé proprio nulla? Le altre esistenze, per quanto piatte fossero, avevano almeno la probabilità di un avvenimento imprevisto, e gli avvenimenti imprevisti provocano talora peripezie senza fine, e tutto cambia. Soltanto per lei non succedeva mai niente, Dio aveva voluto così! L’avvenire si presentava come un corridoio nero in fondo al quale v’era una porta sprangata.
Non si interessò più di musica. Perché sonare? Chi l’avrebbe ascoltata? Dal momento che non avrebbe mai potuto esibirsi con un abito di velluto con le maniche corte, a un concerto, su un pianoforte Erard, facendo correre le dita leggere sui tasti d’avorio, e sentire intorno a sé, circondarla come una brezza, un mormorio estatico, non valeva la pena di annoiarsi a studiare. Lasciò in fondo a un cassetto anche i fogli da disegno e i ricami. A che serviva? A che serviva? E poi, cucire la innervosiva.
“Ho già letto tutto” si diceva.
E restava lì a far arroventare le molle nella brace del camino o a guardar cadere la pioggia.
Che tristezza, la domenica, quando sonava il vespro! Ascoltava con una concentrazione attonita battere a uno a uno i rintocchi sordi della campana. Sul tetto un gatto camminava lentamente facendo la gobba, sotto i raggi di un pallido sole. Il vento sollevava nugoli di polvere sulla strada maestra. Di tanto in tanto, un cane lontano ululava: e la campana, a intervalli regolari, continuava i suoi rintocchi monotoni che si perdevano nella campagna.
Intanto la gente usciva di chiesa. Le donne avevano gli zoccoli lucidati, i contadini le bluse nuove, i bambini piccoli, senza cappello, saltellavano davanti a loro; tutti si avviavano verso casa. E fino a notte cinque o sei uomini, sempre gli stessi, restavano a giocare al turacciolo, davanti alla porta dell’osteria.
Fu un inverno freddo. I vetri, la mattina, erano coperti da uno strato di gelo e la luce che filtrava attraverso essi, biancastra come quella dei vetri smerigliati, si manteneva talvolta uguale per tutta la giornata. Alle quattro del pomeriggio bisognava già accendere il lume.
Nelle belle giornate, Emma scendeva in giardino. La brina aveva posato sui cavoli merletti d’argento con lunghi fili chiari che andavano da un cespo all’altro. Gli uccelli tacevano, tutto sembrava addormentato, la spalliera coperta di paglia, e la vigna, simile a un grande serpente malato sotto la sporgenza del muro, dove, avvicinandosi, era possibile scorgere i centopiedi trascinarsi sulle innumerevoli gambe. In mezzo agli abeti nani, il curato con il tricorno, che leggeva il breviario, aveva perduto il piede destro e il gesso, sfaldandosi con il gelo, gli aveva coperto di croste bianche il viso.
Poi rientrava, chiudeva la porta, attizzava il fuoco e abbandonandosi al calore del caminetto sentiva ripiombare su di sé, ancora più pesante, la noia. Desiderava scendere in cucina a chiacchierare con la domestica, ma una specie di pudore la tratteneva.
Tutti i giorni alla stessa ora il maestro di scuola, la berretta nera di seta sul capo, apriva le imposte di casa sua e la guardia campestre passava con la sciabola sul camiciotto. La sera e la mattina, i cavalli della posta, a tre a tre, attraversavano la strada per andare a bere al fontanile. Di tanto in tanto la campanella della porta di un’osteria tintinnava e quando c’era vento si sentiva cigolare sui ganci che lo reggevano il catino d’ottone che serviva da insegna alla bottega del barbiere. Questa bottega era decorata da una vecchia illustrazione di un giornale di moda incollata contro un vetro e da una testa femminile di cera dai capelli gialli. Anche il parrucchiere si lamentava della sua vocazione soffocata, del suo avvenire rovinato, e sognava una bottega in qualche grande città, come Rouen, per esempio, sul porto, vicino al teatro, e intanto passeggiava su e giù tutto il giorno, fra la chiesa e il municipio, imbronciato e in attesa di clientela.
Quando la signora Bovary alzava gli occhi, lo vedeva sempre là, come una sentinella, di guardia con la papalina di traverso e una giacca di raso.
Nel pomeriggio, talvolta, dietro i vetri della sala, nella via, compariva una testa d’uomo, dai favoriti neri e dal volto abbronzato, sul quale si stendeva lentamente un largo sorriso dolce che scopriva i denti bianchi. Subito si facevano sentire le note di un valzer e sopra l’organino, in una minuscola sala da ballo, ballerini alti un dito, dame in turbante rosa, tirolesi in giacchettino, scimmie in marsina nera, cavalieri in pantaloni a coscia giravano e giravano fra le poltrone, i divani, le mensole, moltiplicandosi nei pezzetti di specchio tenuti insieme da una carta d’oro. L’uomo girava la manovella guardando a destra e a sinistra e verso le finestre. Di tanto in tanto lanciava contro un paracarro un lungo getto di saliva scura e appoggiava su un ginocchio il suo strumento, la cui cinghia dura gli stancava la spalla; ora triste e lenta, ora gioiosa e veloce, la musica dell’organino si diffondeva attraverso una tendina di taffetà rosa o una grata di ottone ad arabeschi. Erano motivi in voga nei teatri, motivi che venivano cantati nei saloni, che accompagnavano, la sera, le danze sotto i lampadari splendenti, echi del mondo dai quali Emma veniva raggiunta. E allora sarabande senza fine si srotolavano nella sua mente: come una baiadera su un tappeto a fiori il suo pensiero saltellava con le note, ondeggiava di sogno in sogno, di malinconia in malinconia. L’uomo, dopo aver ricevuto l’elemosina che gli veniva gettata nel berretto, copriva l’organino con una vecchia coperta turchina, se lo passava sulla schiena e si allontanava con passo pesante. Emma lo guardava andar via.
Soprattutto all’ora dei pasti sentiva di non poterne più: in quella stanzetta al pianterreno, dove la stufa faceva fumo, la porta cigolava, i muri trasudavano e i pavimenti erano sempre umidi, le sembrava che tutta l’amarezza della sua esistenza le venisse servita nel piatto e, come il fumo del bollito, salivano dal fondo dell’anima sua altrettante zaffate di tedio insulso. Charles mangiava con lentezza, Emma sgranocchiava qualche nocciolina o si divertiva, appoggiata a un gomito, a disegnare linee con la punta del coltello, sulla tela cerata.

E’ evidente nel passo come, attraverso la tecnica del punto di vista interno, senza passare all’io narrante, egli riesca, con incredibile “precisione” a leggere i pensieri della sua giovane protagonista: tutto è visto attraverso gli occhi di lei, l’autore sparisce completamente, alienando da sé qualsiasi forma di commento. Probabilmente questo fece accusare l’autore di aver scritto un’opera amorale, in quanto legittimava l’adulterio, ma egli non invita ad alcuna azione: è talmente “preciso” nell’identificazione che si perde la capacità di distinguere tra autore e personaggio. E’ proprio questa capacità che fa di Emma una donna il cui nome diventa una vera e propria tipologia a cui si attribuisce, appunto, il nome di “bovarismo”: Insoddisfazione spirituale; tendenza psicologica a costruirsi una personalità fittizia, a sostenere un ruolo non corrispondente alla propria condizione sociale; desiderio smanioso di evasione dalla realtà, soprattutto in riferimento a particolari situazioni ambientali, sociologiche e sim. (Enciclopedia Treccani)

Se una forma di realismo che, grazie all’opera di Flaubert, affina sempre più le sue armi nella capacità di descrizione oggettiva è con i fratelli Edmond e Jules de Goncourt che trova la teorizzazione di un nuovo sentire che prenderà, appunto, il nome di “naturalismo”.

Questi due scrittori (Edmond, 1822-1896), Jules (1830 – 1870), nel romanzo Germanie Lacertaux (1865), programmano un nuovo compito che una narrazione deve assumere, quello di rappresentare scientificamente il degrado della società nei suoi strati più umili. Infatti la loro opera narra la storia di una serva, malata di isteria, che si degrada progressivamente, fino alla morte, per una passione amorosa. E’ ispirato ad un caso vero, quello di una domestica dei due fratelli.

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Fratelli de Goncourt

LA PREFAZIONE A GERMAINE LACERTAUX

Dobbiamo chiedere scusa al pubblico per questo libro che gli offriamo e avvertirlo di quanto vi troverà. Il pubblico ama i romanzi falsi: questo è un romanzo vero.
Ama i romanzi che dànno l’illusione di essere introdotti nel gran mondo: questo libro viene dalla strada.
Ama le operette maliziose, le memorie di fanciulle, le confessioni d’alcova, le sudicerie erotiche, lo scandalo racchiuso in un’illustrazione nelle vetrine di librai: il libro che sta per leggere è severo e puro. Che il pubblico non si aspetti la fotografia licenziosa del Piacere: lo studio che segue è la clinica dell’Amore.
Il pubblico apprezza ancora le letture anodine e consolanti, le avventure che finiscono bene, le fantasie che non sconvolgono la sua digestione né la sua serenità: questo libro, con la sua triste e violenta novità, è fatto per contrariare le abitudini del pubblico, per nuocere alla sua igiene.
Perché mai dunque l’abbiamo scritto? Proprio solo per offendere il lettore e scandalizzare i suoi gusti? No.
Vivendo nel diciannovesimo secolo, in un’epoca di suffragio universale, di democrazia, di liberalismo, ci siamo chiesti se le cosiddette «classi inferiori» non abbiano diritto al Romanzo; se questo mondo sotto un mondo, il popolo, debba restare sotto il peso del «vietato» letterario e del disdegno degli autori che sino ad ora non hanno mai parlato dell’anima e del cuore che il popolo può avere. Ci siamo chiesti se possano ancora esistere, per lo scrittore e per il lettore, in questi anni d’uguaglianza che viviamo, classi indegne, infelicità troppo terrene, drammi troppo mal recitati, catastrofi d’un terrore troppo poco nobile. Ci ha presi la curiosità di sapere se questa forma convenzionale di una letteratura dimenticata e di una società scomparsa, la Tragedia, sia definitivamente morta; se, in un paese senza caste e senza aristocrazia legale, le miserie degli umili e dei poveri possano parlare all’interesse, all’emozione, alla pietà, tanto quanto le miserie dei grandi e dei ricchi; se, in una parola, le lacrime che si piangono in basso possano far piangere come quelle che si piangono in alto.
Queste meditazioni ci hanno indotto a tentare l’umile romanzo di “Suor Filomena”, nel 1861; e adesso ci inducono a pubblicare “Le due vite di Germinia Lacerteux”.
Ed ora, questo libro venga pure calunniato: poco c’importa. Oggi che il Romanzo si allarga e ingrandisce, e comincia ad essere la grande forma seria, appassionata, viva, dello studio letterario e della ricerca sociale, oggi che esso diventa, attraverso l’analisi e la ricerca psicologica, la Storia morale contemporanea, oggi che il Romanzo s’è imposto gli studi e i compiti della scienza, può rivendicarne la libertà e l’indipendenza. Ricerchi dunque l’Arte e la Verità; mostri miserie tali da imprimersi nella memoria dei benestanti di Parigi; faccia vedere alla gente della buona società quello che le dame di carità hanno il coraggio di vedere, quello che una volta le regine facevano sfiorare appena con gli occhi, negli ospizi, ai loro figli: la sofferenza umana, presente e viva, che insegna la carità; il Romanzo abbia quella religione, che il secolo scorso chiamava con il nome largo e vasto di Umanità; basterà questa coscienza: ecco il suo diritto.

Nello scrivere il romanzo i fratelli de Gouncourt si fondano su una ricerca rigorosa che vuole fare delle loro pagine un “documento umano”, cui le tecniche scientifiche di allora offrivano gli strumenti per renderlo, secondo le loro parole “vero”. Ma non è solo questo il loro intento. Si tratta, infatti, di trovare un nuovo soggetto per le classi popolari nel quale riflettersi. Sino ad allora esse erano state “abbindolate” da storie tardo romantiche dei feuilletons che apparivano sulle pagine dei giornali, creando falsi sogni (gli stessi di cui si era abbeverata Emma). Si trattava ora di prendere coscienza della loro triste condizione anche se gli argomenti, per tale scopo, dovevano essere degradati e brutti. Ciò fa del romanzo naturalista francese un’arma politica “progressista” legata alle lotte della popolazione sfruttata.

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Émile Zola

Émile Zola (1840 – 1902) è il più grande narratore rappresentante della narrativa naturalista francese e non solo. Egli, prima di diventare scrittore, visse nella miseria, conoscendo a fondo la “reale” difficoltà economica che i ceti popolari dovevano subire. Lavora dapprima nella casa editrice Hachette, all’inizio come fattorino, poi con sempre maggiori responsabilità. Quindi si dedica alla professione di giornalista, che continua, poi, per tutta la vita. La pubblicazione di Teresa Raquin (1867) gli reca una certa popolarità e progetta, sulla scorta di Balzac, di scrivere un ciclo di romanzi cui rappresentare l’intera società francese, dalla degradazione più abietta alla società ricca borghese: tale ciclo prende il nome di I Rougon-Macquart, storia naturale e sociale di una famiglia sotto il secondo impero, che iniziato nel 1871 termina nel 1893 e comprende venti volumi. Tra questi i più importanti sono:

  • Il ventre di Parigi (1873): descrizione della degradazione della popolazione povera parigina;
  • L’Assomair (L’ammazzatoio) (1877): romanzo in cui si affronta il tema dell’alcolismo;
  • Nanà (1880): rappresentazione della ricca e corrotta borghesia tramite la vita di una cortigiana;
  • Germinal (1885): grandioso affresco della vita dei minatori;
  • La bestia umana (1890): che ha per sfondo il mondo ferroviario.

Per esemplificare il “progressismo zoliano” e per sottolineare l’opera che è universalmente considerata come il capolavoro verista, scegliamo una pagina da Germinal:

La vicenda si svolge nel Nord della Francia tra il 1866 e il 1869. Stefano Lantier viene licenziato dall’officina meccanica in cui lavora per aver preso a schiaffi il suo principale. Arriva alla miniera del Voreux e viene assunto come minatore nella squadra di Maheu, di cui fanno parte anche tre dei suoi figli, Zaccaria, Caterina e il giovane Gianlino. Stefano subisce presto il fascino del “soffio di rivolta” che proviene dalla miniera, nonché della bella Caterina, ma essendo timido non riesce a esprimere i propri sentimenti alla ragazza, la quale inizia una relazione con il violento Chaval. A contatto con il miserabile mondo dei minatori, oppresso dallo sfruttamento e dalla miseria, Stefano si forma una propria coscienza politica. Le sue idee, vicine al socialismo riformista, si scontrano con quelle anarchico-rivoluzionarie dell’operaio russo Souvarine che, contrario a ogni forma di autorità, sogna l’abolizione dello Stato borghese e una nuova fratellanza tra gli uomini, da raggiungere anche attraverso la violenza. Quando la compagnia mineraria manifesta l’intenzione di ridurre i già magri salari, su incitamento di Stefano i minatori scendono in sciopero. Per vincere la resistenza degli operai, la compagnia assume manodopera dal Belgio e chiama l’esercito a difesa della miniera. Dopo due mesi la situazione precipita: i soldati sparano sulla folla dei minatori e delle loro famiglie, uccidendo tredici persone, tra le quali anche Maheu, il padre di Caterina. Sconfitti, gli operai sono costretti a tornare al lavoro. Chi non si arrende è l’anarchico Souvarine, che incurante del fatto che centinaia di operai stiano lavorando all’interno della miniera, sabota le impalcature; nel crollo muoiono molti minatori e tra essi anche Caterina. Stefano, rimasto illeso, decide di partire per Parigi per continuare lì la sua lotta politica, sicuro che un giorno le idee di giustizia e di uguaglianza possano trionfare.

I SOLDATI SPARANO SUGLI SCIOPERANTI

Allora, come a un segnale, la folla esplose in insulti, in imprecazioni. I pochi gridi che s’elevavano ancora di “Evviva i soldati! a morte l’ufficiale!” naufragarono presto nel clamore generale: “Abbasso le brache rosse!” 
Ma sotto la gragnuola degli insulti, la truppa, irrigidita nella consegna, manteneva la stessa impassibilità, lo stesso silenzio con cui aveva accolto gli inviti a fraternizzare, gli amichevoli tentativi di insubordinazione.
Alle sue spalle, il capitano aveva sguainato la spada; e siccome la folla premeva sempre di più addosso agli uomini, minacciando di schiacciarli contro il muro, ordinò di incrociare le baionette. Una doppia siepe di punte d’acciaio accolse i petti dei dimostranti.
Arrestata: «Ah i mangiapani a ufo!» imprecò l’Abbruciata. Ma già, dopo aver indietreggiato un istante la folla si ributtava avanti, sprezzante della morte e come esaltata dal rischio.
Più di tutti s’esponevano le donne, incitate dalla Maheu e dalla Levaque che strillavano: «Uccideteci, uccideteci dunque! Vogliamo i nostri diritti.»
Levaque, a rischio di tagliarsi, aveva abbrancato tre baionette in una volta e dava strattoni, tirava a sé per disinastarle; con una forza che l’ira moltiplicava, le storceva, per spezzarle, le lame; mentre, pentito d’essersi lasciato indurre a seguirlo, placido Bouteloup lo guardava fare, tenendosi a rispettosa distanza.
«Fate, che vediamo! fate un po’ se ne avete il coraggio!» li sfidava Maheu; e si sbottonava la giacca, tirava via la camicia, offriva nudo il petto villoso. E spaventoso di insolenza e di coraggio si spingeva contro le baionette obbligando, per non infilzarlo, i soldati ad arretrare. E siccome la punta di una l’aveva ferito, come pazzo proprio contro quella incalzava: gli entrasse dentro, gli si conficcasse nel costato.
«Vigliacchi, non osate, eh! Dietro a noi ce ne sono diecimila come noi. Uccideteci pure; ve ne resteranno sempre da uccidere! Siccome i soldati avevano l’ordine di non sparare se non in caso di assoluta necessità, la loro situazione si faceva critica».
(…)
Ormai i dimostranti erano oltre cinquecento; ma a quelli che facevano sul serio s’erano mescolati dei curiosi che si divertivano a stare a vedere. Tra questi Zaccaria e la moglie, venuti lì come a uno spettacolo, al punto che s’eran tirati dietro i figlioli. Con un nuovo gruppo proveniente da Réquillart, arrivò col fratello la Mouquette; lui, adocchiato l’amico Zaccaria, sogghignando venne a dargli una manata sulle spalle; mentre la sorella, accesissima, correva a mettersi in prima fila coi più scalmanati.
Il capitano intanto lanciava continue occhiate sulla strada di Montsou; prevedendo che si troverebbe presto a malpartito se i rinforzi non arrivavano, l’ufficiale, per intimorire la folla, ordinò ai soldati di caricare i fucili. Ma la coperta minaccia ottenne solo di esasperare maggiormente gli animi; i dimostranti risposero al gesto con parole di sfida e di dileggio.
«Vedi?» le donne sghignazzavano. «Partono per i tiri, questi conigli vestiti da soldati!» 
La Maheu si buttò avanti con tanto impeto che il sergente le chiese che ci venisse a fare lì con quel marmocchio in braccio; Estella infatti s’era svegliata e ora si aggrappava piangendo al seno della madre.
«Che te ne importa a te?» rispose lei. «Spara adesso, se n’hai il coraggio!» 
Sprezzanti, gli uomini scotevano il capo: macché, non un colpo partirebbe. «Hanno cartucce a salve,» asserì Levaque. E Maheu: «Vorrei vedere anche questa! Che siam mica cosacchi? Non si tira sui compatrioti, perdìo!»
Altri osservavano che comunque, non facevano soggezione le pallottole a chi tornava, come loro, dalla campagna di Crimea. Per cui tutti seguitavano a buttarsi sui fucili, così pigiati che se in quel momento una scarica fosse partita, ne sarebbe seguìto un macello.
Alla Mouquette l’idea, l’idea sola, che dei soldati potessero sparare su delle donne, faceva veder rosso.
(…)
Allora, per calmare l’evidente nervosismo dei suoi uomini, il capitano procedette all’arresto dei più scalmanati; ma la Mouquette si sottrasse, sgattaiolando fra le gambe dei compagni. Levaque e altri due vennero condotti nella stanza dei capisquadra e lì guardati a vista. Di lassù intanto si sporgevano Négrel e Danseart e invitavano il capitano a far rientrare la truppa e a chiudersi dentro; ma l’ufficiale si rifiutò di farlo: le porte d’accesso alla ricevitoria non presentavano alcuna garanzia di resistenza a un assalto e a lui toccherebbe l’onta di vedersi disarmare.
Gli stessi soldati, d’altronde, avrebbero sentito come un disonore ritirarsi davanti a dei poveracci calzati di zoccoli.
Questo gesto di forza fece alla prima una certa impressione; ma un’impressione che durò poco. Bentosto un clamore s’alzò: la folla protestava contro l’arresto, esigeva l’immediato rilascio dei prigionieri; ai quali – già qualche voce gridava – si stava facendo la pelle. E, come al segnale d’un’azione concertata in anticipo, tutti, a un tratto, obbedendo a un impulso collettivo, corsero ad armarsi, da un cumulo lì vicino, di mattoni; i bambini recandone uno alla volta, le donne riempiendosene la sottana. In breve ogni dimostrante n’ebbe ai suoi piedi una provvista e il tiro cominciò. In testa alle donne si piantò l’Abbruciata; la vecchia spezzava i mattoni sull’ossuto ginocchio, e con la destra e la sinistra a vicenda li lanciava. A tirare, la Levaque si sfiancava: grassa com’era, disponeva di così poca forza che, per non mancare tutti i colpi, doveva esporsi; invano, nella speranza di ricondurla a casa, ora che il marito era all’ombra, Bouteloup la tirava indietro. Alla sassaiola, tutte si eccitavano. La Mouquette che a spezzare i mattoni sulla ciccia delle cosce se le era insanguinate, adesso li lanciava interi. Anche i ragazzi s’erano uniti alle donne; e Berto insegnava a Lidia come si tirava meglio, lanciando di sotto in su a gomito piegato. E i proiettili fioccavano, grandinavano, abbattendosi con sordi tonfi. Trascinata dall’esempio, tutto a un tratto anche Caterina si trovò in prima fila, a lanciare anche lei tra quelle furie i suoi spezzoni con tutta la forza delle magre braccia.
(…)
Sotto il grandinare dei mattoni, la poca truppa spariva. Fortuna che i proiettili passavano quasi tutti sopra le teste; di colpi, lì dietro, il muro era sforacchiato. Un attimo l’idea di ritirarsi, fece salire il sangue al viso dell’ufficiale ma per farlo era tardi; al minimo cenno di ripiegamento, la folla gli avrebbe fatto gli uomini a pezzi. Lui perdeva sangue dalla fronte, per un mattone che gli aveva spaccato la visiera. Nelle file, parecchi erano i feriti; l’esasperazione era giunta al limite oltre il quale l’istinto di conservazione prende il sopravvento sul sentimento di disciplina. A una mazzata che quasi gli aveva slogato la spalla, il sergente aveva smozzicato una bestemmia. La recluta, col viso scorticato in due punti e un pollice stritolato, non poteva più reggersi su un ginocchio senza vedere le stelle; che ci si sarebbe prestati ancora un pezzo a fare i fantocci da tiro a segno? Un colpo di rimbalzo aveva raggiunto all’inguine il veterano, che, dallo spasimo, s’era quasi lasciato sfuggir di mano lo schioppo. Più di una volta già il capitano era stato lì per ordinare il fuoco e tutte le volte era riuscito sinora a dominarsi. E solo adesso, davanti all’infierire dei forsennati, apriva per farlo la bocca, quando i fucili spararono da sé: prima tre colpi; poi cinque; poi una scarica intera; infine, un colpo in ritardo, che echeggiò isolato nel sepolcrale silenzio.
Lo sbalordimento impietrò un attimo la folla. La truppa aveva dunque sparato? A bocca aperta, ne dubitava ancora, quando, con lo squillo di cessato fuoco, lacerarono l’aria le grida dei feriti. Allora, allo stupore, sottentrò il panico; fu un impazzito sbandarsi, un fuggi fuggi generale. Ai primi tre colpi, Berto e Lidia s’erano afflosciati uno sull’altro: la piccina, colpita al viso; lui, attraversato da una pallottola sotto la clavicola sinistra. Lidia, fulminata, non si moveva più; lui invece si trascinava, cercava, nelle convulsioni dell’agonia, di prendere fra le braccia l’altra, quasi a rinnovare il loro unico abbraccio. E Gianlino che, arrivato finalmente da Réquillart, sgambettava gonfio di sonno tra il fumo degli spari, capitò giusto in tempo per assistere a quell’abbraccio e veder Berto spirare. I cinque successivi colpi avevano abbattuto l’Abbruciata e Richomme. Questi, ferito al dorso e caduto in ginocchio, s’era rovesciato su un fianco; e ora rantolava per terra, col pianto ancora negli occhi. La vecchia, con la gola squarciata, era crollata da ritta con un sinistro scricchiolio di vecchia carcassa; uno sbocco di sangue le aveva strozzato in bocca l’ultima bestemmia A questo punto lo scroscio di fucileria aveva spazzato il terreno e falciato nel raggio di cento passi i capannelli di curiosi che ridevano alla battaglia. Una pallottola era entrata in bocca a Mouquet, che, stramazzando ai piedi di Zaccaria e Filomena, aveva spruzzato di sangue i due bambini. Nello stesso istante, la Mouquette riceveva due pallottole nel ventre. Vedendo i soldati spianare il fucile, istintivamente la ragazza, nel suo buoncuore, s’era buttata davanti a Caterina, gridandole di ripararsi; il colpo ricevuto in sua vece, con un urlo l’aveva fatta cadere lunga distesa sulle reni. Stefano accorse per rialzarla; ma lei d’un segno gli fece capire che non ne valeva la pena. E finché non ebbe finito di rantolare, seguitò a sorridere a lui e a Caterina, come se, andandosene, fosse felice di vederli insieme.
Tutto pareva finito, anche l’eco dello scroscio s’era perduto lassù contro la facciata delle case operaie, quando partì quell’ultimo sparo isolato. Colpito in pieno cuore, Maheu girò su se stesso e cadde bocconi con la faccia in una pozzanghera. Senza capire, la moglie si chinò: «Ehi, vecchio, che fai? Sta’ su! Non hai mica niente, eh?» Per voltargli la faccia, dovette mettersi Estella sotto il braccio: «Parla, dunque! hai male da qualche parte?» Maheu aveva lo sguardo vacuo; alla bocca, una schiuma sanguigna. Allora la donna capì. Si calò nel fango a sedere; e tenendo sotto il braccio la bambina come un involto, restò a guardare il suo uomo inebetita.
Lo spiazzo davanti alla miniera era sgombro. Livido, ma senza dare altrimenti a divedere turbamento per il disastro della sua vita, il capitano s’era tolto, poi rimesso d’un gesto secco il chepì sfondato; mentre con la stessa impassibilità i suoi uomini ricaricavano i fucili. Alla finestra della ricevitoria, s’erano sporte un attimo le facce sgomente di Négrel e di Danseart; e dietro di loro s’era intravisto Souvarine: una ruga gli sbarrava la fronte, come a ribadirvi il chiodo d’un’idea fissa. All’imbocco lassù del borgo operaio, Bonnemort pareva una statua; calava una mano sul bastone, con l’altra si faceva schermo agli occhi, come per non perdere nulla del massacro dei suoi.
I feriti urlavano; i morti si irrigidivano, marionette cui s’è rotto il filo tra le pozzanghere e le chiazze di carbone che il disgelo scopriva. E in mezzo a quei cadaveri d’uomini rattrappiti e come rimpiccioliti, magri dell’atroce magrezza della fame, – sinistro ammasso di carname, spiccava la carogna di Trombetta. A fianco di Caterina, Stefano, rimasto illeso, aspettava ancora che la ragazza, venuta meno per il dolore e la stanchezza, fosse in grado di alzarsi, quando il tonare d’una voce lo fece trasalire. Era il reverendo Ranvier che tornava da dir messa; e che, agitando le braccia in aria, invocava sugli assassini la punizione del Cielo. Come invaso da furore profetico, annunziava prossimo sulla terra l’avvento del regno della giustizia, la scomparsa della borghesia, sterminata dal fuoco celeste; di quella borghesia che metteva il colmo alla sua iniquità facendo massacrare i lavoratori e i diseredati di questo mondo.

Germinal, il cui titolo riprende il nome dato al mese di aprile dalla Rivoluzione Francese, descrive le brutali condizioni di sfruttamento nelle quali vivevano i minatori francesi a fine Ottocento. Per farlo, Zola si documenta sulla vita di miniera e su alcuni scioperi svoltisi nel 1869, sfociati in scontri tra minatori e soldati. Per poter descrivere in maniera oggettiva la vita dei minatori, Zola trascorre con loro alcuni giorni nelle baracche e scende perfino nei pozzi minerari.
Egli vede nei minatori la forza che potrà far sorgere una nuova epoca e una nuova forza, quella “proletaria”, con il compito di cambiare il mondo.

Il brano coglie i minatori del centro minerario di Montsou nel momento cruciale di uno sciopero che dura da due mesi: a difesa della miniera è stato schierato l’esercito, davanti al quale si agita una folla composita e urlante, piena d’odio nei confronti dei padroni della miniera e dei soldati posti lì a loro difesa. Prevale la descrizione dei comportamenti collettivi dei due gruppi che si fronteggiano. La massa dei minatori si infiamma in maniera compatta, a gara contrasta i soldati in un miscuglio incontenibile di voci, urla, spintoni. A loro volta i soldati si trovano di fronte a una situazione senza via d’uscita: non vogliono sparare su dei civili, ma non vogliono neanche subire la loro furia (molti militari sono rimasti feriti da un lancio di mattoni). Espressione di questa difficile scelta è il comportamento del capitano e dei suoi uomini: il primo non si decide a «ordinare il fuoco», ma quando sta per dare l’ordine «i fucili spararono da sé». La descrizione dell’eccidio, cruda e violenta, punteggiata di dettagli brutali, è particolarmente potente e realistica.

Anche qui troviamo applicate da Zola messe in pratica le teorie del Naturalismo: l’impersonalità, che prevede l’assenza di commenti da parte dell’autore, per non alterare l’oggettività della narrazione; le parole dei personaggi sono riportate per lo più attraverso il discorso diretto; mentre le parti narrative sono caratterizzate da un linguaggio analitico, preciso nelle descrizioni.

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Guy De Maupassant

Guy De Maupassant (1850 – 1893) è l’autore naturalista francese che sviluppò la sua capacità narrativa nel genere “racconto”, arrivando ad esiti straordinari che tanta fortuna hanno poi avuto nello sviluppo della narrazione breve.

Figlio di un padre violento e di una madre nevrotica ebbe una vita difficile, rattristata per di più dalla follia del fratello. Divenne amico di Flaubert che lo introdusse nei salotti letterati e trascorreva il tempo dividendosi tra giornalismo e le gite sulla Senna in compagnia di amici e canottieri. Le sue composizioni letterarie si esercitarono, come già detto, in più di trecento novelle, che divise in più raccolte; ma compose anche due famosi romanzi Una vita (1883) e Bel-Ami (1885). Morì nel 1893, dopo esser stato colpito da una crisi di follia, in una clinica psichiatrica. Il suo primo racconto Boule de suif, pubblicato nel 1800, è considerato, ancora oggi, il suo capolavoro:

La storia racconta la vicenda di una di quelle che vengon chiamate allegre, Palla di sego (questo il soprannome della protagonista), durante l’occupazione prussiana viaggia in diligenza verso Le Havre, con rispettabili signori borghesi, un “democratico”, due suore; il viaggio però viene interrotto da un ufficiale prussiano che minaccia di non far proseguire il convoglio se Palla di sego non gli si concede. Dopo un giorno intero di discussioni, i viaggiatori riescono a convincere la prostituta a sacrificarsi. Ma quando il viaggio riprende, si crea il vuoto intorno a lei: le suore pregano, le signore dell’alta società la osservano con occhi di condanna, il democratico fischietta la Marsigliese.

 PALLA DI SEGO

Finalmente, appena la diligenza fu attaccata, con sei cavalli al posto di quattro, a causa del tiro più faticoso, una voce dal di fuori chiese: «Son saliti tutti?» Una voce da dentro rispose: «Sì.» La diligenza partì.
Andavano avanti piano piano, di passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta l’ossatura gemeva tra sordi scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano, fumavano; e la gigantesca frusta del cocchiere schioccava incessantemente, volteggiando da ogni lato, e svolgendosi come un sottile serpente, d’improvviso attorcigliandosi sulle groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento.
A poco a poco la luce aumentava. I leggeri fiocchi, che un viaggiatore – autentico figlio di Rouen – aveva paragonato ad una pioggia di cotone, non cadevano più. Una sporca luce filtrava attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che facevano apparire più splendida la bianchezza della campagna dove ogni tanto appariva una fila di grandi alberi coperti di brina, o una capanna incappucciata di neve.
Nella diligenza i passeggeri si guardavano incuriositi al triste chiarore dell’alba.
In fondo, ai posti migliori, sonnecchiavano uno di fronte all’altro i coniugi Loiseau, venditori di vino all’ingrosso in via Grand-Pont.
Già commesso d’un mercante che s’era rovinato con gli affari, Loiseau ne aveva comprato il magazzino, e aveva fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo dei vini pessimi ai piccoli minutanti di campagna, ed era considerato, dai conoscenti e dagli amici, un furbo di tre cotte, un vero normanno astuto e gioviale.
La sua fama di mariolo era così salda, che una sera, alla Prefettura, il signor Tournel, rinomato autore di barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace, una celebrità locale, vedendo le signore un po’ insonnolite, aveva proposto di giocare a “Loiseau vole”: la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in quelli di città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.
Loiseau, inoltre, era famoso per i suoi scherzi d’ogni genere, per le sue spiritosaggini buone e cattive; e nessuno parlava di lui senza aggiungere: «Quel Loiseau, non ce n’è un altro come lui».
Basso di statura, aveva la pancia a pallone sormontata da un viso rubicondo tra le fedine brizzolate.
Sua moglie, alta, robusta, risoluta, forte di voce e rapida nel decidere, rappresentava l’ordine e la contabilità della ditta, che animava con la sua allegra attività.
Accanto ad essi, più dignitoso, perché appartenente ad una casta superiore, stava il signor Carré-Lamadon, persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni, proprietario di tre filande, ufficiale della Legion d’Onore e membro del Consiglio generale. Finché era durato l’Impero, era stato a capo dell’opposizione benevola, soltanto per farsi pagar più cara la sua adesione alla causa che egli – per usare la sua espressione – combatteva ad armi cortesi. La signora Carré-Lamadon, assai più giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati di guarnigione a Rouen. Stava di fronte al marito, molto vezzosa, molto carina, raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l’interno desolato della diligenza.
I suoi vicini, il conte e la contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi più antichi e più nobili di Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile, cercava di accentuare con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il re Enrico IV il quale, secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe ingravidato una signora di Bréville per cui il marito di quest’ultima fu fatto conte e governatore di una provincia.
Collega di Carré-Lamadon al Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava nel dipartimento il partito orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia d’un piccolo armatore di Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la contessa aveva gran tono, sapeva ricevere meglio di chiunque, – si diceva pure che fosse stata benvoluta da un figlio di Luigi Filippo – era ricercata dalla nobiltà e il suo salotto era il primo della regione, l’unico dove fosse sopravvissuta l’antica cortesia e dove fosse difficile entrare.
Si dice che il patrimonio dei Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse cinquecentomila lire di rendita.
Queste sei persone, che occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano la parte della società fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di Religione e di Principii.
Per una strana combinazione tutte le donne stavano sullo stesso sedile; le altre vicine della contessa erano due suore che sgranavano lunghi rosari biascicando paternostri e avemarie. La prima era vecchia, e aveva il viso butterato dal vaiolo, come se le avessero sparato una scarica di mitraglia a bruciapelo. L’altra, dall’aria molto patita, aveva una testina graziosa e malaticcia su un petto da tisica consumata dalla fede divorante che crea i martiri e gli esaltati.
Di fronte alle due suore, un uomo e una donna attiravano tutti gli sguardi.
L’uomo, assai noto, era Cornudet il democratico, il terrore delle persone perbene. Da vent’anni egli inzuppava il suo barbone fulvo nella birra di tutti i caffè democratici. S’era mangiato, insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo, ereditato dal padre pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della repubblica per ottenere finalmente il posto che s’era meritato con tante bevute rivoluzionarie.
Il quattro di settembre, forse in seguito a uno scherzo, credette d’essere stato nominato prefetto, ma quando tentò d’insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della situazione, si rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene. Buon compagnone, d’altronde, inoffensivo e servizievole, s’era incaricato, con ardore senza pari, d’organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure, aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato trappole su tutte le strade, e all’avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi preparativi, aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere più utile a Le Havre, dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.
La donna, una di quelle che vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua floridezza, che le aveva procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda, grassa grassa, con le dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di salsicciotti, aveva la pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito: pure, era appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza. Il suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte ciglia, e sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti e microscopici.
Ella aveva inoltre – si diceva – moltissime inestimabili qualità.
Appena la riconobbero, indignati bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le parole «prostituta», e «vergogna pubblica» furono pronunciate così forte ch’ella alzò il capo, e fece scorrere sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che subito si fece un gran silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il quale la guardava eccitato.

unnamed.jpgPaul Emile Boutigny: illustrazione per Boule de Suif (titolo originale della novella)

E’ la parte centrale, quella che qui viene riportata, in cui, con un tratto di penna l’autore ci descrive l’insensatezza e l’ipocrisia di ciò che quel piccolo microcosmo dentro la diligenza, ma che sembra rappresentare, agli occhi dell’autore, l’intera società, considera il bene ed il male. Nel brano su riportato è la posizione all’interno della diligenza a diventare sintomatica: i piccolo borghesi che abitano la carrozza si siedono prepotentemente dalla parte dei buoni e lasciano dal lato opposto la ragazza che per vivere usa il suo corpo, ma che ha energia, ideali e altruismo da vendere. L’iniziale illusione di poter entrare a far parte della schiera dei “giusti” (offre da mangiare ai compagni di viaggio che non vi avevano provveduto, acconsente a giare con l’ufficiale prussiano, per permettere loro un viaggio sicuro) è seguita da una brusca ricaduta, Palla di sego torna a essere una reietta. Guy De Maupassant lascia parlare i fatti: non è la posizione sociale, il lavoro che troppe volte – per necessità – ci si trova a svolgere…non è il privilegio di nascita, il conto in banca, la casa, gli abiti, gli oggetti…sono altre le cose che qualificano una persona! I cosiddetti “giusti”, spesso, sono più meschini e ipocriti, decisamente più deplorevoli e detestabili di coloro che sono costretti a viaggiare sulla corsia opposta.

Inghilterra

L’Ottocento inglese non vede trascolorare vari periodi culturali ben definiti, come abbiamo visto in Francia che, senza soluzione di continuità passa da un realista “romantico” come Stendhal ad un naturalista come Zola. Infatti tale periodo è quasi tutto interamente dominato dalla regina Vittoria, che permea di sé quasi l’intero secolo. Durante il suo regno, l’Inghilterra vede un incremento del già avviato processo industriale, ottenuto anche attraverso lo sfruttamento di un sempre crescente uso di manodopera infantile. Sarà proprio questo l’argomento che sarà materia del più grande ed esemplare narratore inglese, Charles Dickens.

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Charles Dickens

Charles Dickens (1812 – 1870), la cui infanzia e adolescenza passa da avide letture a lavori degradanti, non può non conservare che un vivido ricordo delle sue condizioni da bambino e di tutti gli altri minori occupati nelle fabbriche. Riscattatosi grazie alla sue capacità, farà di essi l’oggetto della sua narrativa, ma non riuscirà mai né radicalizzare i racconti, tanto da farli diventare grimaldelli con cui incentivare una lotta sociale, in quanto la sua cifra (e quella della stessa regina Vittoria) si ferma ad un umanitarismo riformistico, ben lontano dalle quelle che saranno le denunce zoliane. Tale caratteristica è forse anche dovuta al modo di fruizione dei romanzi di Dickens: quasi l’intera sua produzione uscì a puntate in riviste, dapprima di altrui proprietà, poi edite da lui stesso. Ciò fa sì che il suo pubblico non possa che essere piccolo-borghese, ben consapevole di un necessario aiuto alle classe inferiori, ma ben lontano da qualsiasi rigurgito ribellistico.

Uno dei suoi romanzi più famosi è certamente il David Copperfield, del 1849:

La storia ripercorre per intero la vita di David. Nel 1820 sei mesi dopo la morte del padre, David vive felicemente solo con la madre e la buona governante Peggotty. Quando ha ormai compiuto sette anni, la madre, sentendosi sola, si risposa con Mr. Murdstone, un uomo severo, freddo e inflessibile; ancora più intrattabile e crudele è sua sorella zitella Jane Murdstone, che viene a vivere con loro. Il bambino non prova alcuna simpatia né per il patrigno né per la sorella di lui, e costoro non accettano il suo atteggiamento. Murdstone, con la scusa che il figliastro non è abbastanza diligente negli studi, non esita a picchiarlo, affermando che ciò non può fargli altro che bene. Tuttavia, a seguito di una di queste frequenti punizioni corporali, David gli morde una mano e a quel punto, per infliggergli un ulteriore castigo, il patrigno allontana il bambino dalla madre mandandolo in un collegio privato gestito da un suo conoscente. Qui David fa la conoscenza di Steerforth, un ragazzo più grande ammirato dalla maggior parte degli alunni, e il compagno Traddles, che rimarrà uno dei suoi migliori amici. Il severo e spietato preside Creakle è autore di continue angherie contro i ragazzi e, spesso e volentieri, fa anch’egli ricorso alle punizioni corporali. Tornato a casa per le vacanze, David trova un nuovo fratellino e una madre completamente oppressa dal marito, succube e priva di volontà, che muoiono entrambi poco tempo dopo. Poco dopo inizia a subire pressioni e violenze psicologiche attuate nei suoi confronti da Mr. Murdstone e sua sorella. David è di conseguenza costretto a lasciare il collegio: viene mandato a lavorare come garzone in una fabbrica situata a Blackfriars, il cui proprietario è un commerciante di vini amico e socio d’affari di Mr. Murdstone. Intanto, la ex governante Peggotty si sposa con Mr. Barkis. In questo periodo, il giovane David alloggia presso la famiglia Micawber. Mr. Micawber (tanto buono e innocuo quanto finanziariamente inetto), non essendo in grado di badare alle spese di casa, è arrestato per debiti, dove rimane parecchi mesi prima d’essere rilasciato trasferendosi con l’intera famiglia a Plymouth. David decide di scappare da Londra per raggiungere la casa della zia a Dover.  Dopo mille avventure raggiunge l’abitazione di questa, l’unica parente che gli è rimasta, l’eccentrica e capricciosa ma affettuosa Betsey Trotwood (maritata, pur vivendo separata dal marito); costei ospita in casa uno strano coinquilino chiamato Mr. Dick e una giovane domestica, Janet. Nonostante il tentativo perpetrato da Murdstone di riottenere la custodia del figliastro, la vecchia zia lo accoglie con sé. Col prezioso aiuto di Mr. Dick, Mrs. Betsey riesce a pagare a David gli studi e l’affitto di una stanza presso l’avvocato Wickfield, dove il ragazzo diventa confidente della figlia di lui, Agnes. Rivede anche l’amico Steerforth, al quale, durante una visita compiuta insieme da Peggotty, presenta l’amica d’infanzia Emily, nipote adottata della sua ex governante. Il romantico ma egoista Steerforth seduce a insaputa dell’amico la giovane Emily: la ragazza era promessa al cugino Ham e poco tempo prima delle nozze i due amanti fuggono nella notte, portando la disperazione in casa Peggotty. Peggotty si dedica a lungo a ricercare le tracce della nipote, che alla fine viene ritrovata grazie ad un’amica (una prostituta di nome Martha Endell). Emigrano in Australia con i Micawber, ma Emily non si sposa più. Terminati gli studi, David incomincia il tirocinio presso lo studio legale “Spenlow e Jorkins” e conosce la figlia di Spenlow, Miss Dora, finendo per innamorarsene. Deve al contempo guardarsi dal subdolo, viscido, arrivista e fraudolento impiegato Uriah Heep, i cui misfatti vengono alla fine rivelati grazie all’aiuto del provvidenziale Micawber. David diventa cronista parlamentare e sposa la bella ma ingenua Dora. Dopo qualche anno la moglie muore a causa d’un aborto spontaneo, e David si ritrova da solo nei momenti più difficili. In questo frangente David scopre le virtù di Agnes e inizia a provare un intenso e sincero affetto per lei. Alla fine del libro David sposa Agnes, che da sempre era segretamente innamorata di lui. Troveranno così la felicità: avranno quattro figli, e alla bambina daranno il nome della zia Betsey.

LA DURA SCUOLA DELLA VITA

Sono ora così esperto del mondo, che quasi non so più meravigliarmi di nulla; ma pure mi fa una certa sorpresa pensare che si potesse a quell’età così facilmente abbandonarmi. Ragazzo pieno d’intelligenza e dotato di acute facoltà d’osservazione, vivo, ardente, delicato, estremamente sensibile fisicamente e mentalmente, sembra strano che nessuno si scomodasse a muovere un dito per aiutarmi. Ma nessuno si scomodò; ed io diventai, a dieci anni, un piccolo lavorante, in servizio della ditta Murdstone e Grinby.
Il magazzino di Murdstone e Grinby era sulla riva del fiume, giù a Blackfriars. I moderni restauri hanno cambiato la faccia ai luoghi; ma era nell’ultima casa in fondo a una stradetta angusta, che s’incurvava e discendeva sino al fiume, con alcuni scalini all’estremità, per chi doveva pigliare una barca. Vecchia e decrepita costruzione, con una banchina propria che si sporgeva sull’acqua quando la marea era alta, e nel fango quando la marea era bassa, era tutta quanta invasa letteralmente dai topi. Le stanze coi pannelli scolorati dal sudiciume e dal fumo, forse, d’un centinaio d’anni; i pavimenti e le scale in rovina; le strida acute e le mischie dei vecchi topi grigi nei sotterranei, e il sudicio e il putridume di quel luogo son nel mio spirito cose non di molti anni fa, ma di questo momento. Mi son tutte presenti innanzi, come nella mala ora che le vidi la prima volta, con la mano tremante in quella del signor Quinion.
Il commercio della ditta Murdstone e Grinby comprendeva varie specie di traffici, ma il più importante era costituito dalla fornitura di vini e liquori a una certa Compagnia di battelli, che non so dove andassero principalmente, ma dei quali alcuni di certo approdavano alle Indie Orientali e Occidentali. So che un effetto di quel commercio era una gran quantità di bottiglie vuote, che certi uomini e certi ragazzi erano occupati ad esaminare contro luce e, dopo aver messe da parte le incrinate, a risciacquarle e lavarle. Quando non c’erano bottiglie vuote, c’era da incollar le etichette sulle piene, o da ficcare i turaccioli adatti, o da suggellare i turaccioli, o da schierare in cassette le bottiglie coi turaccioli già suggellati. Tutto questo io dovevo fare, e fui uno dei ragazzi così occupati. Ve n’erano tre o quattro, con me. Il mio posto di lavoro fu fissato in un angolo del magazzino, dove il signor Quinion poteva vedermi, se gli piaceva di salire sull’ultimo piolo del suo sgabello, attraverso una finestra a fianco del tavolino. Ed ivi fu chiamato, la prima mattina di quella mia nuova vita, che cominciava sotto così favorevoli auspici, il maggiore dei ragazzi, perché m’insegnasse il mestiere. Si chiamava Mick Walker, e portava un grembiule sbrindellato e un berretto di carta. Mi raccontò che suo padre era battelliere, e prendeva parte, con un berretto di velluto, alla processione del Lord Mayor. M’informò inoltre che noi avevamo come compagno un altro ragazzo, e me lo presentò col nome straordinario di Fecola di Patate. Scopersi, però, che quel nome non gli era stato dato a battesimo, ma appiccicato nel magazzino, per il color del suo viso, che era pallido d’un bianco di farina. Il padre di Fecola era barcaiuolo, ma anche pompiere in un gran teatro, dove una giovane parente di Fecola – forse la sorellina – rappresentava i folletti nelle pantomime. Non c’è parola che possa esprimere la mia segreta angoscia nell’ora che mi trovai precipitato fra quella gente. Confrontavo quelli che oramai sarebbero diventati i miei compagni d’ogni giorno con quelli della mia infanzia più felice – per non dire con Steerforth, Traddles, e gli altri; e sentivo crollar tutte le speranze che avevo vagheggiate, d’istruirmi e di segnalarmi un giorno.
(…)
La sera, all’ora stabilita, m’apparve il signor Micawber. Mi lavai le mani e la faccia, per far maggior onore alla sua dignità; e prendemmo insieme la via di casa, come credo debba ora chiamarla. Il signor Micawber s’occupò di farmi apprendere i nomi delle vie e notare l’aspetto delle case alle cantonate, mentre s’andava innanzi, perché potessi dirigermi facilmente la mattina appresso. Arrivati alla sua casa (la quale al pari di lui era frusta; ma, come lui anche, sfoggiava la maggior pompa possibile), egli mi presentò alla signora Micawber, una donna pallida e appassita, non più giovane, che sedeva nel salotto (il primo piano era assolutamente sfornito di mobili, e aveva le tendine abbassate per gli occhi dei vicini) con un bambino al petto. Il bambino era uno di due gemelli; e posso dire qui che non una volta, nel tempo della mia dimora colà, mi accadde di vedere entrambi i gemelli distaccati contemporaneamente dalla signora Micawber. Uno era sempre occupato a sorbire un rinfresco. V’erano altri due bambini; il signorino Micawber, di circa quattro anni, e la signorina Micawber di circa tre. Questi, e una servetta di color bruno, che aveva il vizio di sbuffar col naso, come i cavalli, e m’informò, dopo mezz’ora, che era orfana ed era uscita dal vicino ospizio di San Luca, completavano la famiglia. La mia camera era di sopra, al di dietro, piccola, molto poveramente arredata e parata di certa carta che rappresentava alla mia immaginazione infantile una gran quantità di ciambelle azzurre. – Non pensavo mai – disse la signora Micawber, dopo esser salita su, gemello e tutto, a mostrarmi la camera, e sedendosi per riprender fiato – non pensavo mai prima di maritarmi, quando ero con papà e mamma, che un giorno avrei dovuto appigionare delle camere in casa mia. Ma mio marito è adesso in condizioni difficili, e ogni considerazione del nostro sentimento intimo si deve far tacere.
Io dissi: «Sì, signora.»
(…)

Il centro del portone di casa era interamente coperto da una gran targa di ottone su cui era inciso: «Istituto per Signorine della signora Micawber»: ma non mi risultò che alcuna signorina avesse mai frequentato quel collegio, o lo frequentasse, o si proponesse di frequentarlo, né che fosse mai stato fatto il minimo preparativo per riceverne una. Gli unici visitatori che io vidi, o di cui udii parlare, erano i creditori. Quelli arrivavano a tutte le ore e alcuni di essi erano decisamente feroci. Un certo tale dalla faccia sporca, credo che fosse un calzolaio, era solito infilarsi nel corridoio già alle sette del mattino e gridare dalle scale al signor Micawber: «Venite fuori! Non siete ancora uscito, lo sapete bene. Volete pagarmi o no? Non nascondetevi; lo sapete che è una bassezza. Se fossi in voi non sarei così meschino. Mi pagate o no? Dovete pagarmi, mi sentite? Venite fuori!» Non ricevendo risposta a queste intimazioni, passava pieno di furia alle espressioni: «Imbroglioni» e «ladri»; e poiché anche queste rimanevano senza effetto, ricorreva a volte all’estremo espediente di attraversar la strada e tuonare verso le finestre del secondo piano, dove sapeva che c’era il signor Micawber. In queste occasioni il signor Micawber era trascinato dal dolore e dall’umiliazione (me ne accorsi una volta dalle strida di sua moglie) fino al punto di mostrar di agire contro se stesso con un rasoio; ma mezz’ora dopo si puliva con estrema cura le scarpe e usciva mugolando un motivetto con un’aria più aristocratica che mai. La signora Micawber possedeva una non minore elasticità. L’ho vista cadere in deliquio alle tre, davanti alla cartella delle tasse, e, alle quattro, mangiare cotolette di vitello impanate e bere birra calda, il tutto pagato con due cucchiai da tè portati al monte dei pegni.
(…)
In questa casa e con questa famiglia trascorrevo le mie ore di libertà. Provvedevo da solo alla mia colazione con una pagnottina da un penny e un penny di latte. Tenevo un’altra pagnottina e un pezzetto di formaggio su di un particolare scaffale di una particolare credenza per farne la mia cena quando tornavo la sera. Tutto ciò apriva un vuoto nei miei sei o sette scellini, lo so fin troppo; stavo nel magazzino tutto il giorno e dovevo mantenermi con questa somma per tutta la settimana. Dal lunedì mattina al sabato sera non avevo consigli, né guida, né incoraggiamento, né conforto, né assistenza, né aiuto di alcun genere né da parte di alcuno che possa ricordare, quanto è vero che spero di andare in paradiso!
(…)
So di non esagerare, inconsciamente e involontariamente, la scarsità delle mie risorse e le difficoltà della mia vita. So che, se mai il signor Quinion mi dava uno scellino, in qualsiasi momento, lo spendevo in un desinare o in una merenda. So che lavoravo dalla mattina alla sera, cencioso fanciullo, con uomini e ragazzi volgari. So che vagabondavo per le strade nutrito scarsamente e male. So che, se non fosse stato per la grazia divina, sarei potuto facilmente divenire, tanta era la cura che ci si prendeva di me, un ladroncello o un piccolo vagabondo.

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David Copperfield in fabbrica

E’ evidente la distanza di un brano come questo, non dico col romanzo zoliano, più tardo, ma anche col romanzo flaubertiano: in primo luogo la mozione degli affetti, ovvero sia il sentimentalismo (… mi abbiano cacciato via, nonostante gli anni che avevo), ciò non toglie alla pagine una certa attenzione al dato sociale, la vita della fabbrica, ma, ancora (ricordiamo che il romanzo uscì a puntate) un “dato” più leggero, che può spingere fino al sorriso (l’episodio del calzolaio). A tale proposito non mi sembra inopportuno ricordare che Dickens divenne famoso con un romanzo “comico” come Il Circolo Pickwick.

Un altro grande romanzo è Tempi difficili del 1854:

Thomas Gradgrind è un ricco mercante in pensione che vive nella città industriale di Coketown, in Inghilterra, che dedica la sua vita alla filosofia del razionalismo, dell’interesse personale e della realtà. Cresce i figli maggiori, Louisa e Tom, secondo questa filosofia e non permette loro di impegnarsi in attività di fantasia. Fonda una scuola e prende in simpatia uno degli studenti, il fantasioso Sissy Jupe che, dopo la scomparsa del padre, è diventato intrattenitore al circo. Ma i figli di Gradgrind, crescendo, diventano infelici: Tom è un egoista; Louisa ha una profonda confusione interiore e si sente come se mancasse qualcosa di importante nella sua vita. Alla fine Louisa sposa l’amico di Gradgrind, Josiah Bounderby, proprietario di una fabbrica e ricco e banchiere, anche se è molto più grande di lei. Tom diventa apprendista nella banca Bounderby, e Sissy rimane alla casa di Gradgrind per prendersi cura dei bambini più piccoli. Nel frattempo, Stephen Blackpool, un operaio povero degli stabilimenti di Coketown, lotta contro il suo amore per Rachael: lui è già sposato con un’orribile donna alcolizzata che sparisce per mesi almeno una volta all’anno. Consultando Bounderby per un parere legale, Stephen scopre che il divorzio è concesso solo ai ricchi. Fuori casa di Bounderby, incontra la signora Pegler, una strana vecchia con una devozione inspiegabile verso Bounderby. James Harthouse, un giovane ricco londinese, arriva a Coketown per intraprendere la carriera politica come discepolo di Gradgrind, che è anche membro del Parlamento. Il giovane mostra subito interesse per Louisa e decide di sedurla con l’aiuto della signora Sparsit, un’ex aristocratica che è caduta in disgrazia e che lavora per Bounderby. Gli operai, esortati da un portavoce, Slackbridge, cercano di formare un sindacato a cui solo Stephen rifiuta di aderire perché sente che uno sciopero sindacale non farebbe altro che aumentare le tensioni tra datori di lavoro e dipendenti. Ma, quando si rifiuta di spiare i suoi compagni, viene licenziato da Bounderby. Louisa, colpita dall’integrità di Stephen, va a trovarlo prima che lasci Coketown e lo aiuta dandogli dei soldi. Stephen lascia Coketown sperando di trovare lavoro agricolo nel paese ma dopo un po’ di tempo la banca dove era stato visto bighellonare viene derubata e lui viene accusato di rapina. La signora Sparsit, testimone dell’amore di Harthouse per Louisa, accetta di incontralo a Coketown in tarda notte. Louisa si rifugia in casa del padre e gli confida che la sua educazione l’ha portata a sposare un uomo che non ama, freddo e infelice e che lei, invece, ama Harthouse. La donna è disperata e Gradgrind, ammutolito, inizia ad avere dubbi sulla sua filosofia fondata sulla razionalità e l’interesse personale. Sissy, follemente innamorato di Louisa, convince Harthouse a lasciare Coketown per sempre. Bounderby, furioso perchè sua moglie lo ha lasciato, raddoppia gli sforzi per catturare Stephen. Quando Stephen cerca di ritornare in città, cade in un pozzo minerario chiamato Old Hell Shaft. Rachael e Louisa lo ritrovano ma lui muore dopo uno struggente addio a Rachael. Gradgrind e Louisa si rendono conto che è il vero responsabile della rapina in banca. Con l’aiuto di amici circensi, cercano di ritrovarlo ma vengono fermati da Bitzer, un giovane che ha frequentato la sua scuola e che incarna tutte le qualità del razionalismo indipendente che Gradgrind aveva sposato per anni. Sleary, il titolare del circo, aiuta Tom a fuggire dall’Inghilterra. La signora Sparsit, ansiosa di aiutare Bounderby a trovare i ladri, trascina la signora Pegler, nota socia di Stephen Blackpool, da Bounderby, pensando che possa essere una potenziale testimone. Dopo aver scoperto che la signora Pegler è la sua vera madre, con rabbia, Bounderby spara contro la signora Sparsit e la manda via. Cinque anni dopo, morirà da solo per le strade di Coketown.  Gradgrind abbandona la sua filosofia della razionalità e impiega il suo potere politico per aiutare i poveri. Tom capisce il suo errore ma muore senza mai vedere di nuovo la sua famiglia. Sissy si sposa e crea una grande e affettuosa famiglia. Louisa, invece, rimarrà tutta la vita senza marito né figli ma verrà accolta e amata dalla famiglia di Sissy, scoprendo finalmente l’affetto tra esseri umani.

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Illustrazione di Coketown

COKETOWN, LA CITTA’-FABBRICA

Coketown, verso la quale dirigevano i loro passi Gradgrind e Bounderby, era un trionfo di fatti; non c’era la benché minima traccia di fantasia lì, non più di quanto ce ne fosse nella signora Gradgrind. Prima di eseguire l’intera melodia, facciamo risuonare la nota dominante: Coketown. Era una città di mattoni rossi o, meglio, di mattoni che sarebbero stati rossi, se fumo e cenere lo avessero consentito. Così come stavano le cose, era una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un selvaggio; una città piena di macchinari e di alte ciminiere dalle quali uscivano, snodandosi ininterrottamente, senza mai svoltolarsi del tutto, interminabili serpenti di fumo. C’era un canale nero e c’era un fiume violaceo per le tinture maleodoranti che vi si riversavano; c’erano vasti agglomerati di edifici pieni di finestre che tintinnavano e tremavano tutto il giorno; a Coketown gli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano e si abbassavano con moto regolare e incessante come la testa di un elefante in preda a una follia malinconica. C’erano tante strade larghe, tutte uguali fra loro, e tante strade strette ancora più uguali fra loro; ci abitavano persone altrettanto uguali fra loro, che entravano e uscivano tutte alla stessa ora, facendo lo stesso scalpiccio sul selciato, per svolgere lo stesso lavoro; persone per le quali l’oggi era uguale all’ieri e al domani, e ogni anno era la replica di quello passato e di quello a venire.
Questi attributi di Coketown erano in gran parte inseparabili dall’industria che dava da vivere alla città; su questo sfondo, in contrasto, c’erano gli agi del vivere che si diffondevano in tutto il mondo; c’erano la raffinatezza e la grazia del vivere che contribuivano – non indaghiamo in quale misura – a creare quella gentildonna elegante che storceva il nasino al solo sentir nominare il luogo or ora descritto.
Non c’era nulla a Coketown che non stesse a indicare una industriosità indefessa. Se i seguaci di una setta religiosa decidevano di erigere una chiesa – cosa che avevano fatto i seguaci di diciotto sette – ne saltava fuori un pio magazzino di mattoni rossi, sormontato, a volte (ma soltanto negli esemplari più raffinati), da una campana racchiusa in una specie di gabbia per uccelli. Unica eccezione era la Chiesa Nuova: un edificio intonacato che, sopra alla porta principale, aveva un campanile quadrato con in cima quattro pinnacoli simili a robuste gambe di legno. In città tutte le insegne degli edifici pubblici erano negli stessi identici austeri caratteri bianchi e neri. La prigione avrebbe potuto essere l’ospedale, l’ospedale avrebbe potuto essere la prigione, il municipio avrebbe potuto essere o l’uno o l’altro oppure tutti e due, o anche qualsiasi altra cosa, perché nulla, nelle linee aggraziate di quegli edifici, serviva a identificarli. Fatti, fatti, fatti dappertutto nell’aspetto materiale della città; fatti, fatti, fatti dappertutto in quello immateriale. Era un fatto la scuola di M’Choakumchild, era un fatto la scuola di disegno, erano fatti i rapporti fra padrone e operaio; solo fatti si estendevano fra l’ospedale in cui si veniva alla luce e il cimitero, e quello che non si poteva esprimere in cifre, che non si poteva comperare al prezzo più basso e vendere a quello più alto, non esisteva, non sarebbe esistito mai, nei secoli dei secoli, Amen.
In una città così dedita al fatto, così trionfalmente sicura della sua supremazia, naturalmente tutto andava a gonfie vele, vero? Be’, non proprio. No? Povero me!
No. Dai suoi altiforni la città non usciva splendente e radiosa come un pezzo d’oro purificato dal fuoco. C’era innanzitutto un mistero imbarazzante: chi erano i seguaci delle diciotto sette religiose? Di chiunque si trattasse non erano certamente gli operai. Strana sensazione quella che si provava alla domenica mattina, quando, passeggiando per le strade, ci si rendeva conto quanto fossero pochi coloro che, rispondendo al barbaro richiamo della campana che faceva impazzire la gente con i nervi a pezzi o ammalata, lasciavano i loro alloggi, le loro anguste stanze, gli angoli delle strade dove indugiavano con aria svogliata, guardando quelli che si recavano in chiesa o alla cappella, come se la cosa non li riguardasse affatto. Non erano soltanto i forestieri a notare tanta indifferenza; a Coketown stessa era sorta un’associazione i cui membri, a ogni sessione della camera dei Comuni, inoltravano indignate petizioni, sollecitando l’emanazione di una legge che imponesse con la forza a quella gente di diventare religiosa. Veniva poi la Lega della Temperanza, la quale protestava perché quella stessa gente si ubriacava, – che si ubriacasse era certo, tanto di statistiche lo provavano – e dimostrava (durante l’ora del tè) che nessun argomento umano o divino (tranne una medaglia) l’avrebbe persuasa a non farlo. Veniva poi il chimico e farmacista il quale, statistiche alla mano, dimostrava che, quando quella gente non si ubriacava, si metteva a fumare oppio. Seguiva il cappellano della prigione, uomo di vasta esperienza, che con una mole di statistiche superiore a tutte le precedenti, dimostrava che quella stessa gente frequentava luoghi ignobili, nascosti ai più, dove ascoltava ignobili canzoni e guardava ignobili danze e, chissà?, magari anche ci partecipava.
(…)
Venivano poi i signori Gradgrind e Bounderby, i due gentiluomini che in quel momento attraversavano Coketown, entrambi eminentemente pratici, che, se necessario, avrebbero potuto fornire altre statistiche, frutto della loro personale esperienza e confermate da casi che loro stessi avevano visto e conosciuto; da tutto questo risultava chiaro – anzi era l’unica cosa chiara – che questa era tutta gentaglia, signori, che non sarebbe mai stata riconoscente per quello che si faceva per il loro bene; che era sempre in subbuglio, che non sapeva quello che voleva, che viveva di quanto c’era di meglio e comperava burro fresco; che insisteva nel volere vero caffè e non voleva sentirne parlare di carne che non fosse di prima scelta e che, nonostante tutto questo, era sempre scontenta e intrattabile. In breve era la morale della vecchia filastrocca:

C’era una vecchietta: sapete cosa faceva?
Da mangiar e da bere in tavola metteva;
Mangiare e bere erano tutta la sua dieta,
Eppur la vecchietta non se ne stava mai quieta.

Coketown è una tipica città industriale, una città moderna, efficiente, concreta, dove tutto è finalizzato al lavoro, alla produttività: è quindi uno dei luoghi dove l’Inghilterra costruisce la sua ricchezza e la sua potenza. Tutto ciò ha però dei costi: gli edifici di Coketown sono privi di colori, i vicoli sono angusti e bui e, inoltre, la città stessa è uniformità, tutta uguale (era un trionfo del fatto, poiché non si era lasciata corrompere dalla fantasia). Da notare è anche l’uniformità dei suoi abitanti, dei loro pensieri e comportamenti meccanicizzati: operosa, ordinata, è diventata come la merce che produce, anonima e sempre uguale.

I toni con cui Dickens ritrae questa realtà non hanno la crudezza e la violenza di quelli del naturalista francese Émile Zola, per cui provocare il lettore è parte del gioco: qui la realtà passa attraverso il filtro dell’umorismo, del sorriso sarcastico che deforma. (Barberi Squarotti).

Russia

La letteratura russa si era già affacciata in Europa con forza e capacità durante il primo Ottocento, grazie a personalità come Puškin e Lermontov. E saranno proprio costoro i “padri” della grandissima fioritura del secondo Ottocento che farà della narrativa russa, insieme alla francese, un punto di riferimento imprescindibile della cultura europea (non ci sembra inopportuno segnalare che sarà proprio il paese transalpino a fare da mediatore).

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Nikolaj Vasil’evič Gogol’

Alla base del realismo russo sta la “narrativa umanitaria” la cui attenzione è rivolta alle miserrime condizioni della servitù della gleba e la nascita del relativo movimento per la loro emancipazione. A tale narrativa parteciperà anche Nikolaj Vasil’evič Gogol’, che sebbene in modo non esaustivo, tocca tale tematica soprattutto nel romanzo Anime morte (1842).

Pavel Ivanovič Čičikov viaggia attraverso la Russia comprando a poco prezzo “anime morte”, cioè i nomi dei contadini (“anime” nella Russia zarista”) morti dopo l’ultimo censimento e sui quali i proprietari erano tenuti a pagare la tassa governativa sino al censimento successivo. Il suo piano è di servirsi di quelle “anime” (vive solo per la legge) per ottenere le assegnazioni di terre concesse a chi dimostrava di possedere un certo numero di servi della gleba. Il romanzo è un vasto affresco della Russia rurale e provinciale quale si offre agli occhi di Čičikov attraverso i proprietari, le case, le locande, i cocchieri, i contadini, i notabili di provincia. Spiccano tra i molti personaggi appunto i proprietari con cui conduce le trattative: lo sdolcinato Manilov, pigro e distratto; la vecchia Korobočka, avida e calcolatrice; l’invadente Nozdriov, mitomane e beone, l’unico che intravede la truffa e non gli vende “anime morte”; Sobakevič, l’uomo alla buona ma accorto negli affari; l’avarissimo Pliuškin. Čičikov a un certo punto riesce a passare per milionario nella piccola città dove ha preso dimora, viene adulato, vezzeggiato e ogni porta gli è aperta. Ma lentamente affiora la verità e Čičikov si affretta a partire.

LE ANIME MORTE 

«Permetta che le chieda di accomodarsi su questa poltrona» disse Manilov. «Qui starà più comodo.» «Permetta, mi siederò sulla sedia.» «Permetta che non glielo permetta» disse Manilov con un sorriso. «Quella poltrona è riservata ai miei ospiti: volente o nolente vi si deve sedere.» Čičikov si sedette. «Permetta che le offra una pipetta.» «Grazie, non fumo» rispose Čičikov teneramente e quasi con aria di rammarico. «Come mai?» chiese Manilov, pure teneramente e con aria di rammarico. «Non ho mai preso l’abitudine, ho paura; dicono che la pipa faccia male.» «Permetta che le faccia osservare che si tratta di un pregiudizio. Anzi ritengo che fumare la pipa sia molto più salutare che fiutare tabacco. Nel nostro reggimento c’era un tenente, ottima persona, di grande cultura, che non si toglieva mai la pipa di bocca non solo a tavola, ma anche, con licenza parlando, in qualsiasi altro posto. Ed ecco che ha già più di quarant’anni, ma, ringraziando Dio, finora è sano come un pesce.» Čičikov osservò che infatti eran cose che capitavano e che in natura si riscontravano molti fenomeni inspiegabili anche per una mente aperta. «Ma permetta prima una domanda…» disse con una voce in cui si sentiva un’espressione strana o quasi strana, e subito dopo chissà perché si guardò alle spalle. Anche Manilov chissà perché si guardò alle spalle. «Quanto tempo fa ha consegnato la lista per il censimento?» «Oh, è ormai molto tempo; o per meglio dire non ricordo.» «E quanti contadini le sono morti da allora?» «Non lo saprei dire; credo che occorra chiederlo al fattore. Ehi, ragazzo! chiama il fattore, oggi dovrebbe essere qui.» Comparve il fattore. Era un uomo sulla quarantina, sbarbato, che portava la finanziera ed evidentemente conduceva una vita assai pacifica, perché la sua faccia era di una grassezza soffice, mentre il colore giallastro della pelle e gli occhi piccini mostravano che sapeva fin troppo bene cosa fossero trapunte e piumini. Si vedeva subito che aveva fatto carriera come la fanno tutti i fattori dei signori; era stato prima semplicemente un ragazzetto di casa capace di leggere e scrivere, poi aveva sposato una qualche Agaška-dispensiera, favorita del padrone, era diventato lui stesso dispensiere, e poi anche fattore. E divenuto fattore agiva, chiaramente, come tutti i fattori; se la intendeva con i più ricchi del villaggio e oberava di tributi i più poveri, si svegliava dopo le otto del mattino, aspettava il samovar e beveva il tè. «Ascolta, mio caro, quanti contadini ci sono morti da quando abbiamo consegnato la lista?» «Come sarebbe a dire quanti? Ne son morti tanti da allora» disse il fattore con un colpo di singhiozzo, che cercò di dissimulare coprendosi un po’ la bocca con la mano. «Sì, confesso che lo pensavo anch’io» intervenne Manilov, «proprio così, ne sono morti moltissimi!» Qui si rivolse a Čičikov e aggiunse ancora: «Infatti, moltissimi.» «E pressappoco in che numero?» domandò Čičikov. «Sì, in che numero?» ripeté Manilov. «E come si fa a dire il numero? Non si sa mica quanti ne sono morti, nessuno li ha contati.» «Già, infatti» disse Manilov, rivolgendosi a Čičikov, «anch’io supponevo che ci fosse un’alta mortalità; non si sa proprio quanti ne siano morti.» «Per favore, contali» disse Čičikov, «e fa’ una bella lista dettagliata con tutti i nomi.» «Sì, con tutti i nomi» disse Manilov. Il fattore disse: «Sissignore!» e se ne andò. «E per quali motivi le occorre?» domandò Manilov quando fu uscito il fattore. Questa domanda sembrò mettere in difficoltà l’ospite, sul suo viso apparve una certa espressione tesa, che lo fece perfino arrossire: era la tensione per esprimere qualcosa che mal si piegava alle parole. E in effetti Manilov finì coll’udire cose così strane e insolite, quali orecchio umano non aveva mai sentito prima. «Lei domanda per quali motivi? Ecco quali: vorrei comprare dei contadini…» disse Čičikov, s’impappinò e non finì il discorso. «Ma permetta che le domandi» disse Manilov, «come desidera comprare i contadini: con la terra o semplicemente per trasferirli, cioè senza terra?» «No, non è che voglia proprio dei contadini» disse Čičikov, «voglio avere i morti…» «Come? Mi scusi… sono un po’ duro d’orecchio, mi è parso di sentire una parola alquanto strana…» «Intendo acquistare i morti che però sulla lista del censimento figurino come vivi» disse Čičikov. Manilov lasciò subito cadere a terra il cannello con la pipa turca, aprì la bocca, e così restò, a bocca aperta, per diversi minuti. I due amici, che avevano ragionato dei piaceri dell’amicizia, restarono immobili a fissarsi negli occhi, come quei ritratti che nei tempi andati si appendevano uno di fronte all’altro ai due lati di uno specchio. Finalmente Manilov raccolse la pipa col cannello e lo guardò in viso di sotto in su, cercando di scoprire se non ci fosse qualche sorrisetto sulle sue labbra, se non avesse scherzato; ma non si vedeva nulla di simile, anzi il suo viso sembrava perfino più serio del solito; poi si chiese se l’ospite non fosse per caso impazzito di colpo, e con terrore lo guardò intensamente; ma gli occhi dell’ospite erano perfettamente limpidi, in essi non c’era il fuoco selvaggio, inquieto, che guizza negli occhi di un pazzo, tutto era normale e a posto. Per quanto Manilov si scervellasse pensando a come doveva comportarsi e a cosa doveva fare, non trovò niente di meglio che soffiare dalla bocca il fumo che vi era rimasto, in un filo sottilissimo. «E così, desidererei sapere se lei mi può cedere, o vendere, o quel che riterrà più opportuno, questi soggetti che non sono vivi in realtà, ma lo sono formalmente per la legge.» Ma Manilov era così confuso e imbarazzato che lo guardava e basta. «Mi pare che lei faccia qualche difficoltà?…» osservò Èièikov. «Io?… no, non è questo» disse Manilov, «ma non riesco a capire… mi scusi… io, naturalmente, non ho potuto ricevere un’educazione così brillante come quella che, per così dire, trapela da ogni suo gesto; non sono maestro nell’arte di esprimermi… Forse qui… nella spiegazione da lei ora enunciata… si cela dell’altro… Forse ha voluto esprimersi così per amor del bello stile?» «No» riprese Èièikov, «no, intendo la cosa così com’è, cioè proprio le anime che sono già morte.» Manilov si smarrì completamente. Sentiva che doveva fare qualcosa, porre qualche domanda, ma quale domanda? Il diavolo lo sapeva. Andò a finire che soffiò nuovamente il fumo, però non più dalla bocca, bensì attraverso le narici. «E così, se non ci sono ostacoli, con l’aiuto di Dio si potrebbe passare a stipulare un contratto di compravendita» disse Èièikov. «Come, un contratto di vendita di anime morte?» «Ah, no!» disse Èièikov. «Scriveremo che sono vive, così come effettivamente risulta dalla lista del censimento. Sono abituato a non scostarmi in nulla dalle leggi civili, benché per questo abbia sofferto nella mia carriera, ma deve scusarmi: il dovere per me è cosa sacra, la legge… io ammutolisco dinanzi alla legge.» Queste ultime parole piacquero a Manilov, ma il senso della faccenda in sé continuava a sfuggirgli, e invece di rispondere si mise a succhiare così forte il suo cannello, che questo alla fine cominciò a gorgogliare come un fagotto. Sembrava che volesse tirarne fuori un parere rispetto a una circostanza così inaudita; ma il cannello gorgogliava e basta. «Forse lei ha dei dubbi?» «Oh! per carità, niente affatto. Non dico questo perché abbia, sì insomma, dei pregiudizi critici su di lei. Ma mi permetta di chiedere se questa transazione o, per meglio esprimersi, per così dire, questo negozio, se dunque questo negozio non sarà in contrasto con la legislazione civile e gli ulteriori intenti della Russia?» Qui Manilov, fatto un lieve cenno col capo, guardò in faccia Èièikov con aria molto significativa, mostrando in tutti i lineamenti del suo viso e nelle labbra serrate un’espressione così profonda che, forse, non si era mai vista su volto
umano, tranne forse nel caso di qualche ministro troppo intelligente, e anche lì solo di fronte alla questione più intricata. Ma Èièikov disse semplicemente che una tale transazione, o negozio, non sarebbe stata affatto in contrasto con la legislazione civile e gli ulteriori intenti della Russia, e un minuto dopo aggiunse che l’erario ne avrebbe tratto addirittura profitto, poiché avrebbe incassato l’imposta di registro prevista dalla legge. «Dunque lei ritiene?…» «Ritengo che sarà una buona cosa.» «Ah, se sarà buona, allora è un’altra faccenda: non ho nulla in contrario» disse Manilov e si tranquillizzò del tutto. «Ora non resta che accordarsi sul prezzo.» «Come sul prezzo?» disse nuovamente Manilov e si fermò. «Davvero lei crede che prenderò denaro per delle anime che in un certo senso hanno concluso la loro esistenza? Se le è venuto questo desiderio, per così dire, fantasioso, da parte mia gliele cedo gratis e mi assumo gli oneri del contratto di compravendita.» Sommamente riprovevole sarebbe lo storico degli avvenimenti qui presentati, se tralasciasse di dire che l’ospite fu invaso dalla contentezza dopo tali parole pronunciate da Manilov. Per quanto fosse posato e riflessivo, a questo punto per poco non fece un saltello a somiglianza di un caprone, il che, come è noto, avviene soltanto nei più forti accessi di gioia. Si voltò così impetuosamente sulla poltrona, che si squarciò il tessuto di lana che ricopriva il cuscino; perfino Manilov lo guardò con una certa perplessità. Mosso dalla riconoscenza, Èièikov si mise a snocciolare tanti ringraziamenti, che l’altro si confuse, arrossì tutto, fece un cenno di diniego col capo e solo alla fine riuscì a dire che era una cosa da nulla, che egli avrebbe voluto davvero dimostrare in qualche modo l’inclinazione del suo cuore, il magnetismo dell’anima, mentre le anime morte in un certo senso erano un’assoluta inezia.

La parte riportata dal romanzo ci descrive, in un quadretto, la tecnica con cui Čičikov circuisce i notabili cui si rivolge. E’ certamente una pagina che strappa il sorriso, ma il sorriso è amaro quando ci si accorge che ciò che di cui realmente parla è una società arcaica nella quale i servi, legati alla terra e al possidente, erano considerati alla stregua degli altri animali domestici, venduti, comprati e sfruttati. Un mondo in cui l’aristocrazia e la burocrazia zarista dominavano senza intralci un popolo che viveva nella miseria. Il sarcasmo che attraversa l’intero romanzo, denuncia una forte critica sociale e un rigoroso atto di accusa contro un sistema profondamente iniquo. Sotto il titolo Le Anime morte bisognava quindi riconoscere non i servi deceduti ma i gretti personaggi della buona società, incapaci di umanità.

Tutto questo Gogol’ lo affronta con un’accentuata volontà satirica che porta alla caricatura, all’accentuazione delle linee di carattere, spinte fino al grottesco. Cifra stilistica che conserva anche nell’altro suo capolavoro, I racconti di Pietroburgo, pubblicati dopo la sua morte, di cui ci piace ricordare perlomeno Il cappotto ed Il naso.

Il secondo grande autore russo su cui ci soffermiamo è Ivan Aleksandrovič Gončarov (1812 -1891), la cui fama è legata soprattutto al romanzo Oblomov (1859).

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Ivan Aleksandrovič Gončarov

Oblomov è un uomo di non comuni qualità di cuore e di intelligenza, che vive nell’indolenza più assoluta. Il suo amico, Štol’c chiama il suo vivere di rendita, sonnecchiare, contemplare “oblomovismo”. Per Štol’c il lavoro è vita, energia; per Oblomov un impaccio. Servito dal fedele e rozzo Zachàr, Oblomov vegeta e sogna, ogni specie di sogni, nei quali domina Oblomovka, la proprietà dei suoi avi, che, per pigrizia, sta lasciando andare in rovina. Ama la giovane Ol’ga, si fidanza con lei, ma la lascia, atterrito dalla richiesta di lei di un radicale mutamento di vita, di una più attiva partecipazione alla gestione del patrimonio. Ol’ga sposerà poi Štol’c, Oblomov la sua padrona di casa, Agafja Matveena, semplice e rozza, ma brava massaia. Štol’c amministrando Oblomovka l’ha fatta rifiorire e ha salvato Oblomov da una truffa che rischiava di rovinarlo. Ma è troppo tardi per scuoterlo dal torpore in cui è caduto. Poco dopo Oblomov muore, lasciando un figlio, di cui si occuperà Štol’c, e un ricordo incancellabile quanto conturbante della sua mitezza d’animo.

OBLOMOV

Ma che cosa faceva in casa? Leggeva? Scriveva? Studiava?
Sì: se gli capitava fra le mani un libro o un giornale, lo leggeva.
Se sentiva parlare di una qualche opera degna di nota, gli veniva voglia di conoscerla; cercava, chiedeva il libro e, se glielo portavano presto, ci si buttava a capofitto, cominciava a farsi un’idea del soggetto… ma quando gli bastava ancora un passo per impadronirsene completamente, lo vedevi già sdraiato, con lo sguardo apatico fisso al soffitto e con il libro abbandonato, lasciato a mezzo, incompreso.
Il disinteresse si impadroniva di Il’ja Il’ič ancor più in fretta dell’entusiasmo, ed egli non tornava mai più al libro interrotto.
A suo tempo aveva studiato, come gli altri, come tutti, cioè fino a quindici anni in collegio; poi i genitori, dopo lunga lotta, avevano deciso di mandare Iljuša a Mosca, dove il giovane, volente o nolente, aveva seguito i corsi sino alla fine. Il carattere timido e apatico gli aveva impedito di manifestare appieno la sua ignavia e la sua incostanza nella scuola, dove non si facevano eccezioni per i figli viziati. Dacché era obbligato, in classe restava composto, ascoltava ciò che dicevano gli insegnanti perché non era possibile fare altrimenti, e con fatica, sudando e sospirando, imparava le lezioni.
Egli considerava tutto ciò come un castigo del cielo per i nostri peccati.
Non guardava al di là della riga sotto la quale l’insegnante, nell’assegnare il compito, aveva lasciato un segno con l’unghia; non faceva domande, non chiedeva spiegazioni.
Gli bastava ciò che era scritto nel quaderno, e non manifestava curiosità importune nemmeno quando non comprendeva quello che ascoltava e imparava. Se in qualche modo riusciva ad arrivare in fondo a un testo di statistica, di storia, di economia politica, era più che soddisfatto.
Ma quando Stolz gli portava dei libri che riteneva bisognasse leggere, oltre quelli di scuola, Oblomov lo guardava a lungo, in silenzio.
«Anche tu, Bruto, sei contro di me?», concludeva con un sospiro prendendo i libri. Queste eccessive letture gli sembravano gravose e contro natura.
A che servivano tutti quei quaderni, buoni solo a far sprecare carta, tempo e inchiostro? A che servivano i libri di scuola? A che servivano, infine, sei o sette anni di clausura, la severità, le punizioni, il tormento di assistere alle lezioni, il divieto di correre, di scatenarsi, di divertirsi prima di aver finito i compiti?
«Ma quando potrò vivere?», ripeteva a se stesso. «Quando farò finalmente fruttare questo capitale di conoscenze, la maggior parte delle quali, ci scommetto, non mi serviranno a niente nella vita? L’economia politica, per esempio, l’algebra, la geometria… a che mi serviranno nelle mie terre?».  
(…)  
Dopo la morte dei vecchi, l’economia del villaggio non solo non migliorò, ma, come è dato vedere dalla lettera dello starosta, andò peggiorando. Era chiaro che Il’ja Il’ič doveva andare di persona sul posto per ricercare le cause del calo progressivo del suo reddito.
Egli si proponeva di farlo, ma poi rimandava sempre, in parte perché un viaggio era per lui un’impresa quasi nuova e sconosciuta. In tutta la sua vita aveva fatto un solo viaggio, lentissimo, senza cambiar cavalli, in mezzo a piumini, cofani, valigie, prosciutti, panini, arrosti e bolliti di ogni genere, in compagnia di alcuni servitori.
Così aveva fatto il suo unico viaggio dal paese natio a Mosca, viaggio che considerava come il modello di tutti i viaggi.
E adesso aveva sentito dire che non si viaggiava più così: si galoppava a rotta di collo!
Il’ja Il’ič aveva rimandato il viaggio anche perché non era preparato ad occuparsi dei suoi affari.
Non era davvero come il padre e come il nonno, lui. Aveva studiato, conosceva il mondo: tutto ciò lo aveva portato a diverse considerazioni che a loro erano estranee. Comprendeva che non solo il profitto non era un peccato, ma che era dovere di ogni cittadino contribuire con un lavoro onesto al benessere generale. Per questo la maggior parte del disegno di vita che egli tracciava nella sua solitudine era dedicata a un progetto nuovo di zecca, aderente alle esigenze dei tempi, riguardante la riorganizzazione della proprietà e il governo dei suoi contadini.
Egli aveva ben chiara in testa l’idea fondamentale del progetto, le sue suddivisioni e parti principali: rimanevano solo i particolari, i preventivi e le cifre.
Già da alcuni anni lavora infaticabilmente al suo progetto, ci pensa, ci riflette quando è in piedi, quando è coricato, quando è fra la gente; ora completa, ora modifica diversi paragrafi, ora cerca di farsi tornare in mente ciò che aveva pensato il giorno prima e dimenticato durante la notte; ma a volte, improvvisamente, come una folgore, gli balena in testa un’idea nuova e inaspettata… e il lavoro ricomincia.
Egli non è un qualsiasi piccolo esecutore di un’idea altrui, già pronta: è il creatore e l’esecutore delle sue proprie idee. Non appena si alza dal letto la mattina, dopo aver preso il tè, si stende subito sul divano, appoggia il capo sulle mani, e medita, senza risparmio di forze, fino al momento in cui si sente il cervello pesante per l’eccessiva fatica e la coscienza gli dice: hai lavorato abbastanza, oggi per il bene comune. Solo allora egli decide di riposarsi e abbandona l’atteggiamento solerte per assumerne un altro sollecito e severo, e più consono alle fantasticherie e al piacere. Liberatosi dalle preoccupazioni degli affari, Oblomov amava ripiegarsi in se stesso e vivere nel mondo che si era creato.
Era in grado di apprezzare il godimento che procurano i pensieri elevati; non era estraneo alle afflizioni del genere umano. A volte piangeva amaramente, nel fondo del cuore, per le sventure dell’umanità, provava sofferenze sconosciute, pene indicibili, e anche lo struggimento e il desiderio di luoghi lontani, forse in quel mondo nel quale avrebbe voluto trascinarlo Stolz…
Dolci lacrime gli scorrevano sulle gote.
Gli capita anche di provare disprezzo per i vizi umani, per la calunnia, per il male di cui è pieno il mondo, e si infiamma del desiderio di spronare l’uomo a guardare le sue piaghe, e d’improvviso si accendono in lui vividi pensieri che si muovono e si accavallano come le onde del mare, poi si sviluppano in propositi, gli bruciano il sangue; i muscoli cominciano a guizzare, le vene si tendono, i propositi si trasformano in aspirazioni: mosso da una forza morale, cambia posizione due o tre volte in un minuto, con gli occhi scintillanti si alza a metà sul letto, tende una mano, gira attorno uno sguardo ispirato… Ecco, ecco che la sua aspirazione si realizza, diventa azione… e allora, Signore! Quali miracoli, quali felici conseguenze ci si potrebbero attendere da uno sforzo così grande!
Ma, attenzione, il mattino è passato in un baleno, il giorno già declina, e con esso declinano e tendono al riposo le forze esauste di Oblomov: tempeste ed emozioni si placano nell’anima, la testa si svuota dei pensieri, il sangue scorre più lento nelle vene. Assorto, Oblomov si gira adagio sulla schiena e, fissando afflitto la finestra e il cielo, segue tristemente con gli occhi il sole che si corica maestoso dietro un palazzo di quattro piani.
E quante, quante volte aveva accompagnato così il calar del sole!

L’inettitudine di Oblomov, che qui viene presentata attraverso l’“indifferenza” culturale e l’“incapacità” economica del protagonista, secondo un critico russo, Dobroljubov, è lo specchio di quella generazione, i russi colti della prima metà dell’Ottocento, che era stata forse la prima generazione di russi ad avere contatti frequenti con l’Occidente, avevano vinto Napoleone, si erano spinti fino a Parigi, avevano letto gli illuministi, avevano frequentato le lezioni dei filosofi tedeschi, e, le teste piene di libertà, uguaglianza, fratellanza e idealismo, la notte stellata sopra di loro, la forza morale dentro di loro, erano tornati in Russia, la loro patria, dove c’era ancora la servitù della gleba, e uno stato corrotto e arretrato e avevano scoperto infine che non potevano far niente. Tutto il loro sapere, tutta la loro scienza non serviva a niente, perché c’era un apparato statale piramidale, con a capo lo zar, che decideva lui, cosa bisognava fare, loro dovevano solo servire, si diceva così, vale a dire ubbidire, e, se non volevano servire, ritirarsi in campagna e non dare troppo fastidio.

Ma forse non è solo questo: possono leggersi in lui echi fatalistici, o nuovo Candide che rifiuta la brutalità del presente o forse ancora, un’attitudine innata (qui portata alle estreme conseguenze) dell’animo umano, a cui, guarda caso, è stato dato il nome di “oblomovismo”.

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Ivan Sergeevič Turgenev

Ivan Sergeevič Turgenev (1818-1883) è quello che forse meglio rappresenta la situazione della Russia dello zar Alessandro che, liberando i servi della gleba, mise in difficoltà i grandi proprietari terrieri, ma anche gli stessi contadini che si trovarono così liberi, ma, fuori dalla campagna, privi di qualsiasi possibilità. All’interno di questa situazione in movimento, nacquero vari gruppi di contestazione radicale, che cercavano di far recuperare alla Russia tutto quel tempo perduto in uno inamovibile sinora sistema feudale. Ma tale opposizione non sa ancora essere propositiva, forme d’anarchismo o di socialismo marxista si mescolavano in battagliere minoranze. Tra queste il nichilismo.

A descrivere tale movimento fu proprio Turgenev nel suo romanzo Padri e figli del 1862:

Quando nella casa di campagna del proprietario terriero Nikolaj Kirsànov arriva il figlio Arkadij, appena laureato, con l’amico Evvegnij Bazàrov, si delinea subito il conflitto fra le nuove e le vecchie generazioni. Bazàrov è un giovane medico, fiducioso nella sola realtà delle scienze sperimentali: un nichilista, come lo definisce l’autore, usando un termine che avrebbe poi avuto grande fortuna. Le sue idee hanno il potere di turbare il buon Kirsànov e di irritare suo fratello, lo scettico ed elegante Pavel. In una città vicina i due giovani incontrano la bella vedova Anna Odincova e Bazàrov prova per lei una passione che diventa disperata quando ella, pur attratta da lui, gli fa capire che non vuole imprevisti nella sua calma esistenza. Rifugiatosi, dopo un duello con Pavel, nella fattoria dei suoi genitori che lo ammirano devotamente, Bazàrov, poco dopo, facendo un’autopsia, contrae un’infezione mortale che non vuole curare, e decide di lasciarsi morire. La Odincova, accorsa, lo assiste nelle ultime ore con pietà, ma senza amore.

CONSERVATORI E NICHILISTI

Lo scontro avvenne quel giorno stesso al tè della sera. Pavel Petròvič venne in salotto, già pronto per la battaglia, irritato e risoluto. Aspettava soltanto un pretesto per slanciarsi sul nemico; ma il pretesto si fece aspettare a lungo. Bazàrov, in generale, parlava poco in presenza dei «vecchietti Kirsànov» (così egli chiamava i due fratelli) e quella sera non si sentiva in vena e beveva in silenzio una tazza dopo l’altra. Pavel Petròvič ardeva tutto d’impazienza; i suoi desideri furono alla fine appagati.
Il discorso cadde su uno dei possidenti vicini. «Porcheria, aristocratuccio», osservò tranquillamente Bazàrov, il quale lo aveva incontrato a Pietroburgo.
«Permettetemi di domandarvi» cominciò Pavel Petròvič e le labbra gli tremarono, «secondo le vostre convinzioni le parole “porcheria” e “aristocratico” indicano la stessa cosa?»
«Ho detto “aristocratuccio”», proferì Bazàrov, bevendo pigramente un sorso di tè.
«Precisamente; ma suppongo che siate dello stesso parere anche sugli aristocratici come sugli aristocratucci. Considero mio dovere dichiararvi che io non condivido codesta opinione. Oso dire che mi conoscono tutti come liberale e amante del progresso; ma è appunto per questo stimo gli aristocratici, quelli autentici. Ricordatevi, egregio signore» a queste parole Bazàrov alzò gli occhi su Pavel Petròvič «ricordatevi, egregio signore», ripeté egli con insistenza, «gli aristocratici inglesi. Essi non cedono un iota dei propri diritti, e perciò rispettano i diritti degli altri; esigono l’adempimento dei doveri verso di loro, e perciò compiono i propri doveri. L’aristocrazia ha dato la libertà all’Inghilterra e la sostiene.»
«Abbiamo sentito questo ritornello molte volte»; replicò Bazàrov; «ma cosa volete dimostrare?»
«Con “questo” voglio dimostrare, egregio signore» Pavel Petròvič, quando si arrabbiava, diceva con intenzione “questo” e “quello”, benché sapesse che la grammatica non ammette tali parole. In questa bizzarria si rivelava un residuo delle tradizioni dell’epoca di Alessandro. I pezzi grossi d’allora, in rare occasioni, quando parlavano la lingua materna, adoperavano alcuni “questo” altri “quello”; come a dire siamo russi di puro sangue, e nello stesso tempo siamo magnati, ai quali è concesso trascurare le regole scolastiche, «con “questo” voglio dimostrare che senza un sentimento della propria dignità, senza il rispetto di se stessi (ma nell’aristocratico tali sentimenti sono sviluppati) non c’è nessuna solida base per il… “bien public”… per l’edificio sociale. La personalità, egregio signore, ecco l’importante; la personalità umana dev’essere forte, poiché su di essa si costruisce tutto. So benissimo, ad esempio, che trovate ridicole le mie abitudini, il mio abbigliamento, la mia pulizia, infine; ma tutto ciò deriva dal sentimento del rispetto che ho per me stesso, dal sentimento del dovere, sissignore, sì, del dovere. Vivo in campagna, nella solitudine, ma non mi disprezzo, ma rispetto in me l’uomo».
«Permettete, Pavel Petròvič», profeì Bazarov, «voi rispettate voi stesso, e intanto ve ne state lì con le mani in mano; quale utili ne deriva per il «bien public»? Se non vi rispettate, fareste lo stesso».
Pavel Petròvič impallidì.
«Questa è un’altra questione. Non mi tocca affatto di spiegarvi ora perché me ne sto qui con le mani in mano, come vi siete espresso. Voglio solo dire che l’aristocricismo è un “principe”, e che senza “principes” ai nostri giorni possono vivere solo persone amorali e vuote. L’ho detto ad Arkadij il giorno dopo il suo arrivo e lo ripeto ora a voi. Non è così, Nikolaj? Nikolaj Petròvič annuì col capo.
«Aristocraticismo, liberalismo, progresso, principi», diceva intanto Bazàrov. «A pensarci bene, quante parole straniere e… inutili! A un uomo russo non occorrono neanche gratis».
«E che cosa allora gli occorre, secondo voi? A sentir voi, ci troviamo fuori dell’umanità, fuori delle sue leggi. Abbiate pazienza, la logica della storia esige… »
«Ma a che ci occorre questa logica? Noi possiamo benissimo farne a meno».
«Come?»
«Ma sì. Voi, spero, non avete bisogno della logica per mettervi in bocca un pezzo di pane, quando avete fame. A che ci servono queste astrazioni?» Pavel Petròvič agitò le mani.
«Non vi capisco proprio. Voi offendete il popolo russo. Io non capisco come si possa non riconoscere i “principes”, le regole! In forza di che cosa, dunque, agite voi?»
«Io vi ho già detto, zio, che noi non riconosciamo alcuna autorità.» s’intromise Arkadij.
«Agiamo in forza di ciò che riconosciamo utile», proferì Bazàrov. «Nell’epoca attuale, la cosa più utile è la negazione: e noi neghiamo.»
«Tutto?»
«Tutto.»
«Come! non solo l’arte, la poesia…. ma anche…. è pauroso dirlo….»
«Tutto» ripetè con inesprimibile calma Bazàrov.
Pavel Petròvič lo guardò fisso. Non si aspettava tanto, mentre Arkadij arrossiva addirittura per la soddisfazione.
«Tuttavia, permettete», disse Nikolaij Petròvič. «Voi negate tutto e, più esattamente, demolite tutto… Ma bisogna pure costruire.»
«Questo non è affar nostro…. Prima bisogna far piazza pulita.»
«La condizione attuale del popolo lo esige» soggiunse con sussiego Arcadij, «noi dobbiamo soddisfare queste esigenze, non abbiamo il diritto di abbandonarci all’esaurimento dell’egoismo personale.»
Quest’ultima frase, evidentemente, non piacque a Bazàrov; sapeva di filosofia, cioè, di romanticismo, poiché Bazarov chiamava romanticismo anche la filosofia; ma non trovò confutare il suo giovane discepolo.
«No, no» esclamò con uno slancio improvviso Pavel Petròvič, «non voglio credere che voi, signori, conosciate esattamente il popolo russo, che siate i rappresentanti delle sue esigenze, delle sue aspirazioni! No, il popolo russo non è quale lo immaginiate. Esso rispetta santamente le tradizioni, è patriarcale, non può vivere senza la fede…» 
«Non ho intenzione di discutere su questo argomento»: interruppe Bazàrov, «sono anzi pronto ad ammettere che in questo voi abbiate ragione».
«Ma se ho ragione…»
«Questo non dimostra niente lo stesso.»
«Non dimostra proprio niente» ripeté Arkadij con la sicurezza di un esperto giocatore di scacchi che abbia previsto una mossa, evidentemente pericolosa, dell’avversario e non sia perciò punto confuso.
«Come non dimostra niente?» borbottò Pavel Petròvič stupito. «Voi dunque andate contro il vostro stesso popolo?»
«E se fosse anche così?» esclamò Bazàrov. «Il popolo suppone che quando romba il tuono sia il profeta Elia che viaggia in cielo sul carro. E che? devo dargli ragione? E poi, s’egli è russo, non sono russo anch’io?» 
«No, non siete russo dopo tutto quello che avete detto ora! Io non posso riconoscervi come russo».
«Mio nonno arava la terra» rispose con altera fierezza Bazàrov. «Domandava a chiunque dei vostri stessi contadini: in chi di noi, in voi o in me, egli riconoscerebbe meglio il proprio connazionale. Voi non sapete nemmeno parlare con lui».
«Mentre voi gli parlate e lo disprezzate nel tempo stesso».
«E perché no, se merita disprezzo? Voi censurate la mia tendenza; ma chi vi ha detto che essa sia in me casuale, che non sia provocata dallo stesso spirito popolare, in nome del quale così vi battete?»
«E come no? Sono proprio indispensabili i nichilisti?»
«Se siamo indispensabili o no, non tocca a voi il decidere. Nemmeno voi vi considerate inutile.»
«Signori, signori, senza casi personali, vi prego!» esclamò Nikolàj Petròvič, e si alzò.
Pavel Petròvič sorrise, e messa una mano sulla spalla del fratello, lo costrinse a seder di nuovo.
«Non inquietarti» proferì. «Non mi lascerò trasportare, proprio in seguito a quel sentimento di dignità, che il signor… il signor dottore schernisce così crudelmente. Permettete», continuò rivolgendosi di nuovo a Bazàrov «voi, forse, pensate che la vostra dottrina sia una novità? Ve lo immagine inutilmente. Il materialismo, che voi predicate, è stato in circolazione più di una volta ed è sempre risultato inconsistente…»
«Un’altra parola straniera!» interruppe Bazàrov. Cominciava a stizzirsi e il suo viso aveva assunto un color rame, grossolano. «In primo luogo, noi non predichiamo nulla; non è nelle nostre abitudini».
«Che cosa fate allora?»
«Ecco quel che facciamo. Prima, in un’epoca abbastanza recente, noi dicevamo che i nostri funzionari si fanno corrompere col denaro, che non abbiamo né strade, né commercio, né una giusta magistratura…»
«Ma sì, sì, voi siete coloro che smascherano i colpevoli, dli accusatori; vi chiamate così, se non mi sbaglio. Con molte delle vostre accuse convengo anch’io, ma…»
«E poi ci siamo accorti che chiacchierare, chiacchierare sempre solo delle nostre piaghe non valeva la pena, che ciò conduce solo alla volgarità e al dottrinarismo; abbiamo visto che anche i nostri sapientoni, i cosiddetti uomini d’avanguardia e accusatori non sono buoni a nulla, che ci occupiamo delle sciocchezze, discutiamo di non so che arte, di creazione incosciente, di parlamentarismo, di avvocatura, e il diavolo sa di cos’altro, quando si tratta del pane quotidiano, quando la più grossolana superstizione ci soffoca, quando tutte le nostra società per azioni vanno a gambe all’aria, unicamente per assenza di uomini onesti, quando la libertà stessa, di cui si preoccupa il governo, difficilmente ci farà pro’, perché il nostro contadino si contenta di derubare se stesso, pur d’ubriacarsi in osteria».
«Così» proruppe Pavel Petròvič «così: vi siete persuasi di tutto ciò e avete deciso di non occuparvi seriamente di nulla nemmeno voi».
«E abbiamo deciso di non occuparci di nulla» – ripeté cupo Bazàrov. Provò a un tratto contro se stesso il dispetto di essersi tanto dilungato dinanzi a quel signore..
«Ma solo d’ingiuriare?»
«Anche d’ingiuriare».
«E’ questo si chiama nichilismo?»
«E questo si chiama nichilismo», – ripeté di nuovo Bazàrov stavolta con particolare insolenza.
(…)
«Noi demoliamo, perché siamo una forza» osservò Arkadij.
Pavel Petròvič guardò il nipote e sorrise.
«Sì, e la forza non è tenuta a render conto» proferì Arkadij e s’impettì.
«Disgraziato!» – strillò Pavel Petròvič, che, decisamente, non era più in grado di trattenersi oltre, «almeno tu pensassi che cosa tu sostieni in Russia con la tua sciocca e volgare sentenza! No, questo può far perdere la pazienza anche a un angelo! La forza! Anche nel selvaggio calmucco, anche nel mongolo, c’è la forza; ma che ci serve? A noi preme la civiltà, sissignore; sì, egregio signore; a noi ci premono i suoi frutti. E non ditemi che questi frutti sono meschini; l’ultimo imbrattatele, un “barbouilleur”, uno strimpellatore, a cui danno un soldo per sera, anche quelli sono più utili di voi, perché rappresentano la civiltà, e non la rozza forza mongola! Vi immaginate di essere uomini d’avanguardia, ma stareste bene in un carro calmucco! La forza! Ma ricordatevi alla fine, o forti signori, che siete quattro uomini e mezzo in tutto; mentre gli altri sono milioni, i quali non vi permetteranno di calpestare le proprie sacrosante credenze, i quali vi schiacceranno!
«Se ci schiacceranno, ne trarremo le conseguenze» proferì Bazàrov. «Solo non è detta l’ultima parola. Non siamo così pochi come voi supponete».

La pagina è costruita come un vero e proprio scontro generazionale, in cui si affrontano due modi differenti, per storia e per cultura, d’affrontare il mondo. Il vecchio Pavel Petròvič raffigura, oserei dire, quasi romanticamente, l’ideale in cui si concentra il concetto di patria, fatto di storia e tradizioni, che permettono di essere russi in quanto penetrato in esse; di fronte Bazàrov, colui che “materialisticamente” non crede più in nulla (nihil) e che costituisce quella intellighenzia giovanile, fortemente moralistica e ribellistica, che pur provenendo dalla piccola borghesia ne ripudiava completamente i valori.

Ma l’importanza del romanzo non sta solo nella precisione realistica, quasi “scientifica”, con cui si cercano d’individuare le motivazioni che stanno dietro i due mondi, ma nella capacità di dare spessore ai personaggi, facendo di essi non dei meri rappresentanti di una ideologia. Così vedremo in Bazàrov, il ribelle, il cui atteggiamento può apparire a volte supponente, quanta sofferenza nasconda.

Ma certamente i due narratori russi di questo periodo che diventeranno veri e propri punti di riferimento per tutti coloro che dovranno scrivere un romanzo, sono Lev Nikolaevič Tolstoj e Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

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Lev Nikolaevič Tolstoj

Lev Nikolaevič Tolstoj (1828 – 1910) fu un uomo dall’apparente vita tranquilla: nato da una antica famiglia nobiliare compì studi regolari, fece una brillante vita mondana, partecipò come ufficiale ad una guerra contro popolazioni ribelli, sposò la donna amata da cui ebbe 13 figli e si avviò verso una vecchiaia avendo creato una “bella” e “tradizionale” famiglia patriarcale. Tuttavia non fu un uomo sereno: sempre alla continua ricerca di qualcosa che riuscisse in qualche modo a placarlo, approdò ad una concezione cristiano-evangelica e mistico-populista che lo portarono a scelte radicali che gli misero contro la famiglia. Allontanatosi da casa, ormai vecchio, si ammala e muore. Scrisse numerose opere, ma qui si analizzeranno i romanzi Guerra e pace (1869) e Anna Karenina (1877).

Guerra e pace si apre con un quadro dell’alta società di Mosca nel 1805, alla vigilia della guerra contro Napoleone. In mezzo a una folla mondana, preoccupata da intrighi personali, emergono alcuni personaggi dall’anima inquieta e viva: Pierre Bezuchov, goffo e sensibile, appena tornato dall’estero dove lo ha mandato a istruirsi il padre naturale, il vecchio principe Bezuchov; il suo amico, il principe Andrej Bolkonskij, sarcastico, orgoglioso, intelligente, già deluso dal suo recente matrimonio con l’infantile Lisa; i giovanissimi ragazzi Rostov, cioè Vera, Nikolaj, Petja, e soprattutto la gaia, appassionata, tenera Nataša. Molto diversi dalla loro fredda e compassata sorella maggiore, i tre fratelli le preferiscono la cuginetta Sonja, che vive con loro e ama Nikolaj. Alla vita moscovita è contrapposta la vita in campagna, osservata dalla casa dei Bolkonslij (Lysye Gory), nella quale vive in volontario esilio il vecchio e dispotico padre di Andrej, che esercita il suo potere sulla figlia Marja, dolcissima e profondamente religiosa e su tutti gli abitanti della casa: dal vecchio cameriere Tichon a Mlle Bourienne, dama di compagnia di Marja, dall’intendente Alpatič, all’architetto Michail Ivanovič, ammesso per capriccio alla sua tavola. La guerra arriva, turbando quel mondo. Le battaglie si susseguono, e sembrano inutili. A Napoleone, che prepara piani secondo la logica bellica, si oppone Kutuzov, comandante delle armate russe, che preferisce adattare la sua strategia al mutare delle circostanze, passando a volte, agli occhi dei brillanti ufficiali, per debole. Andrej, arruolatosi, dimentica le vicende personali cercando un significato alla tempesta che lo trascina insieme a tanti. Pierre, rimasto a Mosca, è divenuto ricco alla morte del padre che lo ha nominato suo erede universale, e il bel mondo gli ha scoperto improvvisamente brillanti qualità. Il principe Vasilij Kuragin, con abili intrighi, riesce a fargli sposare la figlia Hélene, bellissima, presuntuosa e corrotta. Scoperte le indedeltà della moglie, Pierre si batte col rivale Dolochov, si separa da Hélene, e crede di trovare sollievo alla profonda inquietudine che lo tormenta nella massoneria, progettando l’emancipazione dei servi. Andrej, ferito ad Austerlitz, torna in licenza a Lysye Gory. La sera stessa la moglie muore dando alla luce un bambino. L’enigma di quella morte lo restituisce a un’angosciosa insoddisfazione, finché non incontra a un ballo Nataša, della quale si innamora profondamente. Ella accetta di sposarlo, ma le nozze vengono differite per l’opposizione del padre di Andrej. Questo ritardo offende e turba Nataša, e mentre Andrej è in viaggio, si lascia affascinare dal vanitoso e bello Anatolij Kuragin, fratello di Hélene. Fallito il progetto di venir rapita da lui, grazie all’intervento di un’energica zia, Marja Dmitrevna, rotto il fidanzamento con Andrej, Nataša è come spenta. Andrej, gravemente ferito a Borodino, riconoscerà nell’infermeria Anatolij, appena amputato di una gamba. Cade in quel momento il suo rancore verso di lui e Nataša, che ritroverà, più di prima, tenera, seria e innamorata, mentre lo trasportano ormai morente, durante la grande ritirata che precede l’incendio di Mosca. Andrej muore ormai rappacificato con se stesso, assistito da Nataša e da Marja, fuggita da Lysye Gory di fronte all’avanzare delle truppe, dopo la morte del padre. Vedovo, dopo la morte misteriosa di Hélene, Pierre è rimasto a Mosca, col vago progetto di uccidere Napoleone. Fatto prigioniero dai francesi, incontra tra gli altri prigionieri l’uomo che gli indica la via spirituale da seguire: il sorridente, paziente, pio soldato-contadino Platon Karataev. La vita dei Rostov ha subito mutamenti: Vera ha sposato Boris Berg; Petja è morto, appena arruolato; è finito l’idillio tra Sonja e Nikolaj. Alla fine della guerra Pierre rivede Nataša a Mosca: l’ama da tempo, ma esita a dichiararsi. Nataša accetterà con gioia di sposarlo. Si uniscono infine anche Nikolaj e Marja, ch’egli amava da quando l’aveva salvata da un ammutinamento di contadini a Lysye Gory durante la guerra. Le nuove famiglie vengono mostrate, nell’epilogo, nel 1820: i protagonisti sono invecchiati, Nataša, assorbita dai suoi compiti di madre e moglie, ha perso molto del fascino poetico di un tempo. Marja e Pierre sono i personaggi spiritualmente più forti. Simbolo delle generazioni future, fa una breve e significativa apparizione Nikolen’ka, il figlio del principe Andrej.

E’ questo testo uno dei più complessi e più importanti di tutta la letteratura europea. I temi presenti in esso non vogliono soltanto “raccontare” realisticamente un periodo storico ben definito, ma presentarcelo nella sua multiforme varietà. La sua caratteristica, infatti, è quella di offrirci un’epica rappresentazione della totalità della vita nei suoi vari aspetti, che va dall’alterigia dei generali di guerra alla semplice paura del soldato appena arruolato, dalle sale bellamente arredate alla povera casupola del contadino, e pur ruotando attorno alla nobiltà, ci mostra come essa possa essere ben influenzata da un pio contadino. Per meglio dire non esiste “realtà” che non sia in relazione con tutte le altre “realtà” e con la storia più in generale.

La concezione della storia tolstojana la possiamo leggere in una famosa pagina:

L’OCCUPAZIONE E L’INCENDIO DI MOSCA

Sebbene laceri, affamati, esausti, e ridotti alla metà degli effettivi iniziali, i soldati francesi che entrarono in Mosca formavano ancora un esercito ben ordinato. Era un esercito esausto, spossato, ma ancora combattivo e pericoloso. Ma fu tale solo fino al momento in cui i suoi soldati non si sistemarono negli appartamenti. Non appena gli uomini dei vari reggimenti cominciarono a sparpagliarsi nelle ricche case vuote, l’esercito, da allora, si dissolse per sempre e al suo posto si formò qualcosa cui non si poteva dare il nome né di abitanti né di soldati, qualcosa di mezzo fra i due: un’accozzaglia di saccheggiatori. Quando, dopo cinque settimane, quegli stessi uomini uscirono da Mosca, non esisteva più un esercito. C’era invece una moltitudine di saccheggiatori, ciascuno dei quali si portava via, sui veicoli o indosso, un mucchio di cose che gli sembravano preziose e necessarie. Lo scopo di tutti quegli uomini, nel lasciare Mosca, non consisteva più, come prima, nel conquistare con la forza delle armi, ma unicamente nel conservare quanto avevano arraffato. Come la scimmia che, ficcata la mano nella stretta imboccatura di una brocca e afferrata una manciata di noci, non apre più il pugno per non perdere ciò che ha agguantato e con ciò segna la propria rovina, così i francesi, nel lasciare Mosca, dovevano evidentemente andare incontro alla rovina poiché portavano via con sé ciò che avevano rubato; ma abbandonare quanto avevano rubato per loro era impossibile com’è impossibile per la scimmia aprire il pugno pieno di noci. Dieci minuti dopo l’entrata in città di tutti i reggimenti francesi, non restava più un solo soldato o un solo ufficiale. Dalle finestre delle case si scorgevano uomini in cappotto e ghette che, ridendo, passeggiavano all’interno degli appartamenti; nelle cantine, negli interrati, altri la facevano da padroni con le provviste; nei cortili, altri ancora aprivano o sfondavano le porte dei depositi e delle scuderie; nelle cucine accendevano fuochi, con le maniche rimboccate friggevano, impastavano; spaventavano, facevano ridere e vezzeggiavano le donne e i bambini. E dappertutto, nelle botteghe e nelle case, di quegli uomini ce n’era un gran numero: quello che non c’era più, ormai, era l’esercito.
In quella stessa prima giornata i comandanti francesi impartirono ordini su ordini vietando alle truppe di sparpagliarsi per la città, proibendo severamente ogni violenza contro gli abitanti e ogni saccheggio, convocando l’esercito, per quella sera stessa, a un appello generale; ma ad onta di qualsiasi provvedimento, quegli uomini che finora avevano costituito un esercito si disperdevano per la ricca città deserta, ricca di comodità e di provviste. Come una mandria affamata procede unita per una campagna spoglia, ma subito si sbanda e si disperde, irrefrenabilmente, non appena capita su ricchi pascoli, in modo altrettanto irrefrenabile si sparpagliava qua e là per la città opulenta quell’esercito.
Abitanti, a Mosca, non ce n’erano e i soldati venivano assorbiti dalla città come l’acqua dalla sabbia e, irraggiandosi a stella dal Cremlino dove erano dapprima entrati, si allontanavano, disperdendosi, in tutte le direzioni. I soldati di cavalleria, entrando in una casa di mercanti abbandonata con tutte le suppellettili, e trovandovi stalle sufficienti non solo per i loro cavalli, ma anche per altri, andavano comunque a occupare un’altra casa accanto perché sembrava loro migliore. Molti occupavano un certo numero di case, segnando col gesso sulla porta il nome di chi le aveva occupate, litigavano, e persino si azzuffavano con gli altri reparti. Ancora prima di essersi sistemati a dovere, i soldati correvano in strada a vedere la città e, sentendo dire che tutto era stato abbandonato, si precipitavano dove si poteva fare man bassa di cose preziose. I comandanti andavano in giro per fermare i soldati e senza volerlo erano trascinati anche loro nel saccheggio. Al Karetnyj Rjad erano rimaste intatte le botteghe dei carrozzai, e là si affollavano i generali per scegliersi carrozze e calessi. I pochi abitanti rimasti invitavano nelle loro case i comandanti sperando, in tal modo, di sottrarsi al saccheggio. Di ricchezze ce n’erano un’infinità e non se ne vedeva la fine; dappertutto, tutt’intorno ai luoghi occupati dai francesi, si stendevano altri luoghi non ancora esplorati, non ancora occupati, in cui ai francesi sembrava dovessero esserci ancor maggiori ricchezze. E così Mosca li attirava e li assorbiva sempre più lontano, sempre più lontano. Allo stesso modo in cui versando dell’acqua sulla terra arida, insieme all’acqua scompare anche la terra, così per il fatto che un esercito affamato era entrato in una città ricca e vuota, rimase distrutto l’esercito e andò distrutta la ricca città: ne nacque fango, ne nacquero incendi e saccheggi.
I francesi hanno attribuito l’incendio di Mosca “au patriotisme féroce de Rastopchine”; i russi al fanatismo dei francesi. In realtà, cause dell’incendio di Mosca – nel senso di poter attribuire le responsabilità di tale incendio a una o più persone – non c’erano e non ci potevano essere. Mosca bruciò perché era stata messa in condizioni tali in cui qualsiasi città di legno si sarebbe incendiata, a parte che in città vi siano o non vi siano centotrenta malconce pompe da incendio. Mosca doveva andare a fuoco a seguito del fatto che gli abitanti ne erano partiti, con la stessa necessità con cui deve prender fuoco un mucchio di trucioli sui quali, per parecchi giorni di fila, cadano scintille di fuoco. Una città tutta di legno, in cui, anche quando sono presenti i legittimi proprietari delle case e la polizia, quasi ogni giorno, d’estate, scoppiano degli incendi, non può non andare a fuoco quando in essa gli abitanti non ci sono, e al loro posto vivono soldati che fumano le pipe, accendono falò sulla Piazza del Senato con le sedie del Senato stesso e si cuociono da mangiare due volte al giorno. Basta che, anche in tempo di pace, delle truppe si accampino nei villaggi di una data contrada, perché il numero degli incendi di quella contrada diventi subito più alto. In che misura doveva allora aumentare la probabilità di incendi in una deserta città di legno in cui si era accampato un esercito straniero? Le patríotisme féroce de Rastopèin e il fanatismo dei francesi non hanno, qui, proprio nessuna colpa. Mosca prese fuoco per le pipe, per le cucine, per i falò, per la negligenza dei soldati nemici, che abitavano nelle case ma non ne erano i proprietari. Se pure vi furono degli incendi dolosi (cosa peraltro dubbia, perché nessuno aveva motivo di appiccare fuoco e, in ogni caso, si sarebbe trattato di azioni rischiose e complesse), non è possibile cercare in essi la causa di tutto, perché anche senza questi i fatti sarebbero andati nello stesso modo.
Per quanto attraente fosse per i francesi far ricadere la colpa sulla ferocia di Rastopèin, e, per i russi, accusare il criminale Bonaparte, per poi mettere, in un secondo momento, una fiaccola eroica nelle mani del loro popolo, non si può non vedere che una causa immediata di questo genere non poté esistere alle origini di questo incendio, perché Mosca doveva bruciare, come deve bruciare ogni villaggio, ogni fabbrica, ogni casa che i proprietari abbandonano e in cui entra gente estranea a farla da padrone a cucinarsi i pasti. Mosca fu incendiata dagli abitanti, è vero; ma non da quelli che vi erano restati, bensì da quelli che ne erano partiti. Mosca, occupata dal nemico, non restò intatta – come Berlino, Vienna e altre città – soltanto perché i suoi abitanti non avevano fatto gli onori di casa, non avevano consegnato le chiavi ai francesi, ma l’avevano abbandonata.

Non è una vera e propria pagina di storia, ma di riflessione morale sulla stessa. Tolstoj infatti vuole qui riflettere sul perché di fronte alla presa francese della città, si siano sviluppati così tanti incendi e perché l’esercito vincitore risultasse, infine, così debole e vulnerabile. La motivazione è una sola: l’arrivo di un esercito affamato da giorni e giorni di digiuno e l’allontanamento dei moscoviti dalla città. L’esercito napoleonico un tempo forte e disciplinato, diventa rilassato e saccheggiatore. La ricchezza della città ha indebolito l’uomo: ecco la riflessione morale. Vi è infatti quasi un senso di giustizia che sovrasta l’episodio: il vincitore risulterà poi essere vinto dalla sua grettezza e avidità. Non manca un’ultima notazione, legata dall’imprescindibile legge della causalità: date determinate premesse (il vuoto della città e la prepotenza degli uomini) non ne può che derivare una sola ed inevitabile conseguenza, la distruzione, attraverso il fuoco, della città stessa.

Uno dei personaggi centrali dell’immensa epopea russa è certamente il principe Andrej:

LA MORTE DEL PRINCIPE ANDREJ

Il principe Andrej rimase in piedi, indeciso. La granata roteava fumando, come una trottola, fra di lui e l’aiutante disteso a terra, sull’orlo del campo e del prato, vicino a un cespuglio d’assenzio.
«Possibile che sia la morte?» pensò il principe Andrej guardando con uno sguardo assolutamente nuovo e invidioso l’erba, l’assenzio e la striscia di fumo che si avvolgeva uscendo dalla nera palla roteante. «lo non posso, non voglio morire, io amo la vita, amo questa erba, la terra, l’aria…» Pensava a questo e nello stesso tempo si ricordò che lo stavano guardando.
«Vergogna, signor ufficiale!» disse all’aiutante. «Che…» ma non terminò la frase.
Nello stesso istante si udì uno scoppio, come un tintinnio di vetri infranti, l’odore soffocante della polvere, e il principe Andrej fu proiettato da una parte; e, sollevando in aria un braccio, cadde bocconi.
Alcuni ufficiali corsero verso di lui. Dalla parte destra del ventre si allargava sull’erba una grande macchia di sangue.
Chiamati, i militi si fermarono con la barella dietro gli ufficiali. Il principe Andrej giaceva bocconi, il volto abbandonato fra l’erba, e respirava con un rantolo affannoso.
«Be’, perché state lì fermi, venite qui!»
I contadini si avvicinarono e lo presero per le spalle e per le gambe, ma egli emise un gemito doloroso e, guardandosi fra loro, i contadini lo deposero di nuovo a terra.
«Sollevatelo, adagiatelo, tanto è lo stesso!» gridò una voce.
Lo sollevarono per le spalle e lo deposero sulla barella.
«Ah, Dio mio! Dio mio! Che è?… Il ventre? E’ la fine! Ah, Dio mio!» si udirono delle voci fra gli ufficiali.
«Ha sibilato rasente il mio orecchio,» disse l’aiutante.
I contadini, caricatasi la barella sulle spalle, si avviarono in fretta verso il posto di medicazione lungo il sentiero calpestato dai loro stessi passi.
«Andate al passo… Eh!… zoticoni!» gridò un ufficiale, fermando per le spalle i contadini che camminavano in modo irregolare e facevano sussultare la barella.
«Mettiti al passo, su, Chvedor, oh Chvedor,» disse un contadino davanti.
«Ecco, così, bene,» disse con gioia il contadino che reggeva la barella da dietro, prendendo il passo.
«Eccellenza? Eh? Principe?» disse con una voce tremante Timochin che era accorso, guardando la barella.
Il principe Andrej aprì gli occhi e, dalla barella in cui la sua testa era sprofondata, guardò chi parlava, e poi abbassò di nuovo le palpebre.
I militi portarono il principe Andrej verso la foresta dove stavano i furgoni e dove si trovava il posto di medicazione. Il posto di medicazione consisteva in tre tende montate al margine d’un boschetto di betulle e con le cortine rialzate. Nel boschetto di betulle c’erano furgoni e cavalli. I cavalli mangiavano l’avena nei sacchi, e i passerotti svolazzavano intorno e beccavano i granelli che cadevano. I corvi, sentendo l’odore del sangue, svolazzavano fra le betulle, gracchiando impazienti. Intorno alla tenda, su un’estensione di terreno di più di due ettari, stavano sdraiati, seduti, in piedi, uomini insanguinati vestiti nei modi più disparati. Intorno ai feriti, con facce meste e attente, facevano cerchio gruppi di soldati-barellieri, che gli ufficiali addetti a mantenere l’ordine invano scacciavano da quel luogo. Senza dare ascolto agli ufficiali, i soldati stavano appoggiati alle barelle e guardavano attentamente ciò che succedeva davanti a loro, come se cercassero di comprendere il significato dello spettacolo. Dalle tende giungevano ora lamenti alti e rabbiosi, ora gemiti pietosi. Ogni tanto ne uscivano di corsa gli infermieri per cercare acqua e indicavano quei feriti che si dovevano portar dentro. Aspettando presso la tenda il loro turno, i feriti rantolavano, gemevano, piangevano, gridavano, imprecavano, chiedevano vodka. Alcuni deliravano.
Camminando fra i feriti non ancora medicati, i militi portarono il principe Andrej, in quanto comandante di reggimento, vicino a una delle tende, e quindi si fermarono in attesa di ordini. Il principe Andrej aprì gli occhi e per un pezzo non riuscì a capire che cosa succedesse intorno a lui. Si ricordò del prato, dell’assenzio, del campo, della nera palla roteante e del suo appassionato slancio d’amore per la vita. A due passi da lui, parlando forte e attirando su di sé l’attenzione generale, stava un bel sottufficiale, alto e scuro di capelli, con la testa fasciata, che si appoggiava a un ramo secco. Era stato ferito alla testa e a una gamba da pallottola di fucile. Intorno a lui si era raccolta una folla di feriti e di barellieri che ascoltavano avidamente ciò che egli diceva.
«Quando li abbiamo cacciati di là, quelli hanno piantato tutto, persino il re gli abbiamo preso!» gridava il militare, guardandosi attorno con gli occhi neri scintillanti. «Se soltanto le riserve fossero arrivate al momento giusto, fratello mio, non ne restava neanche il segno, perché te lo dico io…»
Come tutti gli altri che ascoltavano il racconto, anche il principe Andrej guardava il sottufficiale con uno sguardo scintillante e provava un senso di consolazione. «Ma non è forse tutto eguale ormai?» pensava. «E che cosa succederà di là e che cos’è successo qui? Perché mi dispiaceva tanto separarmi dalla vita? C’era qualcosa in questa vita che io non ho capito e non capisco.»
Uno dei medici, con il camice insanguinato, e con le piccole mani insanguinate, in una delle quali teneva un sigaro fra il mignolo e il pollice (per non insudiciarlo); questo medico, uscì dalla tenda, sollevò il capo e si mise a guardare intorno, ma al di sopra dei feriti. Evidentemente aveva voglia di riposarsi un po’. Dopo aver girato lo sguardo per un certo tempo, a destra e a sinistra, sospirò e abbassò gli occhi.
«Sì, subito,» rispose alle parole dell’infermiere che gli indicava il principe Andrej, e diede ordine di portarlo nella tenda.
Tra la folla dei feriti che aspettavano si levò un mormorio.
«Si vede che anche nell’altro mondo soltanto i signori hanno diritto di vivere,» proferì uno di loro.
Il principe Andrej fu portato dentro e deposto su un tavolo appena ripulito dal quale un infermiere faceva scolare via qualcosa. Il principe Andrej non poté distinguere in tutti i particolari ciò che c’era nella tenda. Lo distraevano i gemiti lamentosi che venivano da varie parti e un lancinante dolore alla coscia, al ventre e alla schiena. Tutto quello che vedeva intorno a sé si fondeva per lui in un’unica impressione generale di corpi umani nudi e insanguinati che sembravano riempire tutta la tenda bassa, come alcune settimane prima, in quella calda giornata d’agosto, gli stessi corpi riempivano lo stagno fangoso lungo la strada di Smolensk. Sì, erano quegli stessi corpi, quella stessa chair à canon, la cui vista già allora, come un presagio del presente, gli aveva suscitato orrore.
Nella tenda c’erano tre tavoli. Due erano occupati, sul terzo fu deposto il principe Andrej. Per un certo tempo lo lasciarono solo ed egli vedeva involontariamente ciò che si faceva sugli altri tavoli. Sul tavolo più vicino c’era un tartaro, probabilmente un cosacco a giudicare dalla divisa gettata lì accanto. Lo tenevano quattro soldati. Un medico con gli occhiali gli tagliava qualcosa nella schiena, bruna e muscolosa.
«Uh, uh!…» grugniva il tartaro, e a un tratto, sollevando in su la sua nera faccia camusa dai larghi zigomi, scoprendo i denti bianchi, cominciò a dibattersi, a contorcersi e a stridere con un urlo prolungato, lacerante e acuto. Su un altro tavolo, vicino al quale si affollavano molte persone, giaceva supino un uomo grande e robusto con la testa abbandonata indietro (i suoi capelli ricciuti, il loro colore e la forma stessa della testa parvero stranamente noti al principe Andrej). Alcuni infermieri facevano forza sul petto di quell’uomo e lo tenevano fermo. Un grande piede robusto, con movimenti rapidi e frequenti, si contraeva senza posa con febbrili trasalimenti. Quest’uomo singhiozzava in modo convulso e quasi soffocava. Due medici, uno dei quali era pallido, e tremava, facevano in silenzio qualcosa sull’altra gamba, rossa di sangue, di quell’uomo. Finito di operare il tartaro, sopra il quale fu gettato un cappotto, il dottore con gli occhiali si avvicinò al principe Andrej, pulendosi intanto le mani.
Gettò uno sguardo alla faccia del principe Andrej e si voltò in fretta.
«Svestitelo! Che cosa aspettate?» gridò con ira agli infermieri.
Quando l’infermiere gli sbottonò i bottoni e gli tolse gli abiti con mani frettolose dalle maniche rimboccate, il principe Andrej si ricordò della prima e più lontana infanzia. Il dottore si chinò proprio sopra la ferita, la tastò e sospirò profondamente. Poi fece un segno a qualcuno. E un dolore lancinante nelle viscere fece perdere i sensi al principe Andrej. Quando si riebbe, le ossa spezzate del femore erano state estratte, dei lembi di carne erano stati recisi e la ferita bendata. Gli spruzzarono dell’acqua in viso. Non appena il principe Andrej aprì gli occhi, il dottore si chinò su di lui, lo baciò senza dire una parola sulle labbra e si allontanò in fretta.
Dopo la sofferenza patita, il principe Andrej provava un senso di beatitudine che da tempo non provava. Alla sua immaginazione si presentavano, non come passato, ma come realtà presente, tutti i momenti migliori e più felici della sua vita, specialmente la più remota infanzia, quando lo spogliavano e lo mettevano sul lettino, quando la njanja lo cullava cantando, quando, coprendosi la testa col cuscino, egli si sentiva felice per il solo fatto di essere vivo.
Intorno a quel ferito, la forma della cui testa sembrava nota al principe Andrej, si davano da fare i dottori: lo sollevavano e lo calmavano.
«Fatemi vedere… Oooooh! Oh! Oooooh!» si sentiva il suo gemito rotto da singhiozzi, atterrito e rassegnato dalla sofferenza.
Ascoltando quei gemiti, al principe Andrej veniva voglia di piangere. Forse perché moriva senza gloria, forse perché gli dispiaceva lasciare la vita, quegli irrevocabili ricordi d’infanzia, forse perché soffriva, perché gli altri soffrivano e quell’uomo gemeva così pietosamente davanti a lui, gli veniva voglia di piangere lacrime infantili, buone, quasi liete.
Mostrarono al ferito la gamba amputata dentro uno stivale sporco di sangue raggrumato.
«Oh! Oooooh!» singhiozzò come una donna.
Il dottore che stava davanti al ferito, nascondendone la faccia, si allontanò.
«Dio mio! Che è questo? Perché è qui?» disse il principe Andrej.
Nell’uomo infelice, che singhiozzava privo di forze, a cui avevano appena amputato la gamba, egli riconobbe Anatole Kuragin. Sorreggevano a braccia Anatole e gli offrivano dell’acqua in un bicchiere di cui egli non riusciva ad afferrare l’orlo con le labbra tremanti e gonfie.
«Sì, è lui; sì, quell’uomo che è legato a me cosi intimamente da un qualche cosa,» pensò il principe Andrej senza capire ancora chiaramente chi fosse l’uomo che stava davanti a lui. «In che cosa consiste il legame di quest’uomo con la mia infanzia, con la mia vita?» Si domandava senza trovare risposta. E a un tratto al principe Andrej si presentò un nuovo, inaspettato ricordo che veniva dal mondo dell’infanzia, della purezza, dell’amore. Ricordò Nataša come l’aveva vista la prima volta a un ballo nel 1810, con l’esile collo e le braccia sottili, col suo viso pronto all’entusiasmo, spaventato, felice, e l’amore e la tenerezza per lei si risvegliarono nella sua anima più vivi e forti che mai. Adesso ricordava quale legame esistesse fra lui e quell’uomo che lo stava guardando attraverso le lacrime che riempivano i suoi occhi gonfi. Il principe Andrej ricordò tutto, e una compassione esultante e piena d’amore per tutti gli uomini riempirono il suo cuore felice.
Egli non seppe più contenersi e pianse lacrime tenere, d’amore per gli uomini, per se stesso e per i propri e i loro sbagli.
«La commiserazione, l’amore per i fratelli, per coloro che ci amano; l’amore per coloro che ci odiano, l’amore per i nemici, sì, quell’amore che Dio ha predicato sulla terra, che mi ha insegnato la principessina Mar’ja e che io non capivo; ecco perché mi dispiaceva di lasciare la vita, ecco quello che ancora mi restava, se fossi vissuto. Ma adesso è troppo tardi. Lo so!»

L’episodio della morte del principe Andrej ci porta verso la profonda religiosità che anima lo scrittore russo. Il momento in cui è strutturato il racconto è decisamente giocato tra l’eroismo di Andrej e l’incredibile felicità che prova nel percepire l’essere ancora in vita. Ha bisogno di sentire la morte, per apprezzare la vita, per amarla, per riviverla nel passato e nel presente. Il presente è Anatole Kuragin, personaggio decisamente negativo nel romanzo, ma che qui acquista un valore che va al di là della sua vita, strumento di un amore universale che trascende il contingente che rende l’uomo simile a Dio.

L’altro grande romanzo di Tolstoj è Anna Karenina:

Anna, moglie insoddisfatta dell’alto funzionario Karenin, si innamora del bell’ufficiale Vronskij. Il marito le impone il rispetto delle formalità sociali, ma Anna, rimasta incinta dell’amante, fugge con lui in Italia. La società pietroburghese mette al bando l’adultera, il marito non le concede il divorzio e le impedisce di vedere il figlio nato da loro matrimonio: disperata per l’isolamento in cui viene a trovarsi, per la crescente incomprensione con l’amante di cui è gelosa senza ragione, Anna si uccide buttandosi sotto il treno. Altro protagonista del romanzo è il potente Levin, ansioso di trovare una fede autentica e deciso a costruirsi una vita familiare e serena e austera con la moglie Kitty, lontano dalle fatue beghe della società moscovita. Troverà nelle semplici parole di un contadino la spinta verso un rinnovamento interiore di tipo evangelico.

IL SUICIDIO DI ANNA

«Sì, mi agita molto, e la ragione è data per liberarsene; perciò bisogna liberarsene. E perché non spegnere la candela, quando non c’è più nulla da guardare, quando fa ribrezzo guardare tutto? Ma come? Perché questo capotreno è passato di corsa sulla traversa? perché gridano quei giovani, in quello scompartimento? Perché parlano, perché ridono? Tutto è menzogna, tutto inganno, tutto malvagità…».
Quando il treno entrò in stazione, Anna uscì tra la folla degli altri passeggeri e, allontanandosi da loro come da lebbrosi, si fermò sulla banchina, cercando di ricordare perché era arrivata là e cosa avesse intenzione di fare. Tutto quello che prima le sembrava possibile, adesso era così difficile a considerarsi, specialmente tra la folla rumoreggiante di tutte quelle persone deformi, che non la lasciavano in pace. Ora i facchini accorrevano da lei, offrendole i loro servigi, ora dei giovani, battendo coi tacchi le assi della banchina e discorrendo forte, la esaminavano, ora quelli che venivano incontro si facevano di lato non dalla parte giusta. Ricordatasi che voleva proseguire, se non ci fosse stata risposta, fermò un facchino e domandò se era venuto un cocchiere con un biglietto per il conte Vronskij.
«Il conte Vronskij? Per incarico suo sono stati qui proprio ora. Venivano incontro alla principessa Sorokina con la figlia. E il cocchiere com’è?»
Mentre ella parlava col facchino, Michajla, rosso e allegro, con un elegante pastrano turchino e la catena, evidentemente orgoglioso d’avere eseguito così bene la commissione, le si avvicinò e le porse un biglietto. Ella aprì e il cuore le si strinse ancor prima di leggere.
«Mi dispiace molto che il biglietto non m’abbia trovato. Verrò alle dieci» scriveva Vronskij con una scrittura trascurata.
«Ecco! Me l’aspettavo!» si disse con un sorriso cattivo.
«Va bene, allora va’ a casa» disse piano, rivolta a Michajla. Ella parlava piano perché la rapidità dei battiti del cuore le impediva di respirare.
«No, non ti permetterò di tormentarmi» ella pensò, rivolta con minaccia, non a lui, né a se stessa, ma a chi le imponeva di tormentarsi, e si incamminò per la banchina lungo la stazione.
Due cameriere che camminavano sulla banchina si voltarono a guardarla, facendo ad alta voce qualche apprezzamento sul suo vestito: «sono veri» dissero dei pezzi ch’ella aveva addosso. I giovani non la lasciavano in pace. Di nuovo le passarono accanto, guardandola in viso e gridando fra le risa qualcosa con voce contraffatta. Il capostazione, passando, le domandò se partiva. Un ragazzo, venditore di kvas, non le toglieva gli occhi di dosso.
«Dio mio, dove andare?» ella pensava, allontanandosi sempre più sulla banchina.
Alla fine si fermò. Le signore e i bambini, che erano venuti a incontrare un signore con gli occhiali e che ridevano e parlavano forte, tacquero, esaminandola, quand’ella giunse alla loro altezza. Ella affrettò il passo e si allontanò da loro verso l’orlo della banchina. Si avvicinava un treno merci. La banchina si mise a tremare e a lei parve d’essere di nuovo in viaggio.
E a un tratto si ricordò dell’uomo schiacciato al suo primo incontro con Vronskij e capì quello che doveva fare. Dopo essere scesa con passo veloce, leggero, per i gradini che andavano verso le rotaie, si fermò accanto al treno che le passava vicinissimo. Guardava la parte sottostante dei carri, le viti e le catene e le ruote alte di ghisa del primo carro che scivolava lento, e cercava di stabilire con l’occhio il punto mediano fra le ruote anteriori e le posteriori e il momento in cui questo punto mediano sarebbe stato di fronte a lei.
«Là» si diceva, guardando nell’ombra del carro la sabbia mista a carbone di cui erano sparse le traverse «là, proprio nel mezzo, e lo punirò, e mi libererò da tutti e da me stessa».
Voleva cadere sotto il primo vagone che giungesse alla sua altezza nel punto mediano; ma il sacchetto rosso che aveva preso a togliere dal braccio, la trattenne, ed era già tardi; il punto mediano le era passato accanto. Bisognava aspettare il vagone seguente. Un sentimento simile a quello che provava quando, facendo il bagno, si preparava a entrar nell’acqua, la prese, ed ella si fece il segno della croce. Il gesto abituale della croce suscitò nell’anima sua tutta una serie di ricordi verginali e infantili, e a un tratto l’oscurità che per lei copriva tutto si lacerò, e la vita le apparve per un attimo con tutte le sue luminose gioie passate. Ma ella non staccava gli occhi dalle ruote del secondo vagone che si avvicinava. E proprio nel momento in cui il punto mediano fra le ruote giunse alla sua altezza, ella gettò indietro il sacchetto rosso, ritirò la testa fra le spalle, cadde sulle mani sotto il vagone e con movimento leggero, quasi preparandosi a rialzarsi subito, si lasciò andare in ginocchio. E in quell’attimo stesso inorridì di quello che faceva. «Dove sono? che faccio? perché?». Voleva sollevarsi, ripiegarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di inesorabile le dette un urto nel capo e la trascinò per la schiena. «Signore, perdonami tutto!» ella disse, sentendo l’impossibilità della lotta. Un contadino, dicendo qualcosa, lavorava su del ferro. E la candela, alla cui luce aveva letto il libro pieno di ansie e di inganni, di dolore e di male, avvampò di una luce più viva che mai, le schiarì tutto quello che prima era nelle tenebre, crepitò, prese ad oscurarsi e si spense per sempre.

Non diverso dal trapasso del principe Andrej è la morte di Anna. Qui il tutto è visto nei singoli istanti, come se l’occhio del narratore si soffermasse non solo sulle cose, ma sulle sensazioni “deformare” della protagonista. L’ambiente che la circonda è “uno schifo”, le altre persone, nella stazione, sono “come lebbrosi” e “deformi”. La realtà in cui si trova è straniata, tanto da portarla fuori da sé. Quindi Anna la cerca la morte, indaga il punto in cui lasciarsi andare, ma solo allora, nel momento di cadere, si sente invasa da un senso d’illuminazione sulla bellezza dell’esistere.

Nell’intero romanzo non troviamo una semplice storia d’amore e tradimento; vi è in esso l’intrecciarsi di vari filoni della narrazione, i differenti modi di vivere il ruolo di moglie o l’istituzione familiare, la contemporanea rappresentazione di ambienti sociali diversi tra loro trasformano la storia di un adulterio in una globale visione del mondo moscovita e dei problemi morali sul destino dell’uomo che il credente Tolstoj poneva come centrali nella sua riflessione.

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Fëdor Michajlovič Dostoevskij

Contemporaneo a Tolstoj, con cui condivide l’importanza letteraria, è Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 1881). Tuttavia i temperamenti, le tematiche e le strategie narrative sono molto differenti tra loro. Autore di numerosi romanzi, scritti per ottemperare i numerosi debiti, dovuti anche alla sua passione per il gioco, l’autore russo parte, in un primo momento, dalla descrizione degli ambienti degradati, mostrando pietà verso gli uomini subalterni ed emarginati dalla società. Un fatto biografico, piuttosto importante, oltre a minarlo psicologicamente, determinerà un profondo mutamento nella sua produzione. Nei romanzi della seconda fase, infatti, procede ad un’analitica e spietata analisi dell’uomo, che lo porta a superare il cosiddetto realismo per inaugurare il romanzo psicologico novecentesco e, in qualche modo, anticipare le teorie freudiane.

Tipico di questa seconda fase è il romanzo Memorie del sottosuolo (1865):

Il romanzo è diviso in due parti: la prima s’intitola “Il sottosuolo”, la seconda “A proposito della neve fradicia”. Tutto il romanzo ha la struttura di un lungo monologo. Nella prima parte il protagonista, rivolgendosi a un ipotetico interlocutore, parla di se stesso, dell’educazione ricevuta, della formazione del proprio carattere, del complesso di qualità e difetti da lui definito “sottosuolo”, che costituiscono la personalità nascosta, celata a tutti, affiorante solo a seguito di una dettagliata analisi. Nella seconda parte il narratore ripercorre alcuni episodi della sua vita, dove con più evidenza gli si è manifestato il “sottosuolo”. Solitudine, malinconia lo spingono a seguire, non invitato e non desiderato, alcuni compagni di studi a una cena. Umiliato dal loro atteggiamento, oltraggiato pubblicamente, vendica l’offesa subita su Liza, una prostituta incontrata in una casa di tolleranza: le fa un quadro del destino degradante e spaventoso che l’attende tra debiti, malattie e percosse. Dopo qualche giorno Liza ricompare, con la nostalgia di una vita pura. Accolta con volgarità e violenza, rimane ugualmente convinta della sofferenza profonda dell’uomo che la maltratta. Egli la caccia, mettendogli in mano un biglietto di cinque rubli per umiliarla. Ella fugge, e solo dopo la sua scomparsa il narratore scopre il biglietto sul tavolo, testimonianza della sua meschinità e della profonda dignità di Liza.

L’UOMO DEL SOTTOSUOLO

Sono un uomo malato… Sono un uomo cattivo. Un uomo sgradevole. Credo di avere mal di fegato. Del resto, non capisco un accidente del mio male e probabilmente non so di cosa soffro. Non mi curo e non mi sono mai curato, anche se rispetto la medicina e i dottori. Oltretutto sono anche estremamente superstizioso; be’, almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono abbastanza colto per non essere superstizioso, ma lo sono.) Nossignori, non voglio curarmi per cattiveria. Ecco, probabilmente voi questo non lo capirete. Be’, io invece lo capisco. Io, s’intende, non saprei spiegarvi a chi esattamente faccia dispetto in questo caso con la mia cattiveria; so perfettamente che neppure ai medici potrò farla non curandomi da loro; so meglio di chiunque altro che con tutto ciò nuocerò unicamente a me stesso e a nessun altro. E tuttavia, se non mi curo, è per cattiveria. Il fegato mi fa male, e allora avanti, che faccia ancor più male! È già da molto tempo che vivo così: una ventina d’anni. Ora ne ho quaranta. Prima lavoravo, ma adesso non lavoro. Ero un impiegato cattivo. Ero villano e ne ricavavo piacere. Infatti non prendevo bustarelle, dunque dovevo pur gratificarmi in qualche modo. (Pessima battuta; ma non la cancellerò. L’ho scritta pensando che sarebbe risultata molto arguta; ma ora che mi son reso conto che volevo soltanto pavoneggiarmi in modo disgustoso, apposta non la cancellerò!) Quando alla scrivania a cui lavoravo si avvicinavano dei postulanti per chiedere informazioni, io digrignavo i denti contro di loro e provavo un indicibile godimento, quando mi riusciva di dare un dispiacere a qualcuno. Mi riusciva quasi sempre. Per la maggior parte era gente timida; si sa: postulanti. Ma fra i bellimbusti non potevo sopportare soprattutto un ufficiale. Lui non voleva in nessun modo sottomettersi e faceva un abominevole baccano con la sciabola. Per un anno e mezzo fra me e lui ci fu una guerra per quella sciabola. Finalmente la spuntai. Egli smise di far baccano. Del resto, questo accadeva ancora nella mia giovinezza. Ma lo sapete, signori, in che consisteva il punto fondamentale della mia cattiveria? Proprio lì stava tutto il nocciolo, proprio lì era racchiusa l’infamia peggiore: che in ogni momento, perfino nel momento della rabbia più accesa, vergognosamente riconoscevo dentro di me che non solo non ero un uomo cattivo, ma neppure ero inasprito, che spaventavo soltanto inutilmente i passeri e così mi consolavo. Ho la schiuma alla bocca, ma portatemi un bambolotto, datemi una tazza di tè con un po’ di zucchero, e magari mi calmerò. Anzi, il mio animo s’intenerirà, anche se poi, probabilmente, digrignerò i denti contro me stesso e per la vergogna soffrirò d’insonnia per diversi mesi. Ormai ci ho fatto l’abitudine. Poco fa ho mentito sul mio conto, dicendo che ero un impiegato cattivo. Ho mentito per cattiveria. Facevo solo i capricci, tanto con i postulanti che con l’ufficiale, ma in realtà non ho mai potuto diventare cattivo. In ogni momento riconoscevo in me molti, moltissimi elementi quanto mai in contrasto con ciò. Sapevo che fermentavano in me, questi elementi contrastanti. Sapevo che per tutta la vita avevano fermentato in me e che cercavano di uscire all’esterno, ma io non lasciavo, non lasciavo, apposta non lasciavo che si sprigionassero. Mi torturavano fino a farmi vergognare; mi conducevano fino alle convulsioni e alla fine mi sono venuti in odio, come mi sono venuti in odio! Ora non vi sembra, signori, ch’io mi stia pentendo di qualcosa dinanzi a voi, che vi chieda perdono di qualcosa?… Sono certo che ne avete l’impressione… Ma, del resto, vi assicuro che per me fa lo stesso, se anche ne avete l’impressione… Non solo cattivo, ma proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente obbligato a essere una creatura essenzialmente priva di carattere; mentre l’uomo di carattere, l’uomo d’azione, dev’essere una creatura essenzialmente limitata. Questa è la mia quarantennale convinzione. Ora ho quarant’anni, e quarant’anni sono tutta una vita; sono la più decrepita vecchiezza. Vivere più di quarant’anni è indecente, volgare, immorale! Chi vive oltre i quarant’anni? Rispondete sinceramente, onestamente. Ve lo dirò io chi: gli sciocchi e i mascalzoni. Lo dirò in faccia a tutti i vecchi, a tutti quei vecchi venerandi, a tutti quei vegliardi profumati e dalle chiome d’argento! Lo dirò in faccia a tutto il mondo! Ho il diritto di dirlo, perché io stesso camperò fino a sessant’anni. Fino a settant’anni, vivrò! Fino a ottant’anni, vivrò!.. Aspettate! Lasciatemi riprender fiato… Probabilmente pensate, signori, che voglia farvi ridere? Vi siete sbagliati anche in questo. Non sono affatto l’uomo allegro che credete o che forse credete; del resto, se voi, irritati da tutte queste chiacchiere (io già lo sento, che siete irritati), avrete l’idea di domandarmi chi sono, in fin dei conti, allora vi risponderò: sono un assessore di collegio. Lavoravo per avere qualcosa da mangiare (ma unicamente per questo), e quando l’anno scorso un mio lontano parente mi lasciò seimila rubli per testamento, diedi subito le dimissioni e mi sistemai nel mio angolo. Anche prima vivevo in quest’angolo, ma adesso mi ci sono sistemato. La mia stanza è squallida, brutta, ai confini della città. La mia serva è una donna di campagna, vecchia, cattiva per stupidità, e per giunta sempre puzzolente. Mi dicono che il clima pietroburghese mi diventa nocivo e che con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi esperti e savissimi consiglieri dall’aria saccente. Ma resterò a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché… Uff! Ma è assolutamente indifferente che me ne vada oppure no. E del resto: di che può parlare un uomo perbene con il maggior piacere? Risposta: di sé. E dunque anch’io parlerò di me.

E’ evidente che tale passo è difficilmente inquadrabile nello sviluppo narrativo di un “realismo”: l’uso dell’io narrante, lo sguardo sulla psiche, sulla definizione e sulla negazione della cattiveria, lo scontrarsi con la malattia deformante, non un fisico (Fosca di Tarchetti) ma una mente, sembrano allontanare Dostoevskij dai canoni dell’oggettività: già la scelta del monologo, di per sé estremamente soggettivo, la nega. Ma a mutare radicalmente è l’oggetto della narrazione, non più una realtà esterna, ma l’animo umano, i cui meccanismi non sono, “scientificamente” determinabili. Eppure al di là della pagina la strutturazione può essere ancora inserita in un al di qua della scoperta freudiana dell’inconscio: si è che il comportamento è sempre causato da un qualcosa avvenuta nella sua giovinezza, riconfermando, forse anche in modo problematico, quel milieu che determina il personaggio. Ciò non toglie nulla alla sua grandissima capacità innovativa.

Passa un anno e Dostoevskij dà alle stampe Delitto e castigo (1866):

A Pietroburgo lo studente Raskolnikov cerca una via d’uscita dalla miseria, anche per aiutare la madre e la sorella Dunja che vivono poveramente in provincia e lo mantengono mandandogli quel che Dunja guadagna come istitutrice presso la famiglia Svidrigajlov. Egli è dominato dall’idea di libertà cui ha diritto l’uomo superiore: non esita quindi a uccidere, dopo aver progettato minuziosamente il delitto, una vecchia usuraia e la sua mite sorella Elisavjeta per derubarle. Ma benché un concorso di circostanze favorevoli svii le indagini, dal giorno del delitto Raskolnikov diventa l’implacabile giudice di se stesso. Combattuto tra il ricordo dell’uccisione e il timore ossessivo di venire scoperto, è assalito da eccessi di delirio: il suo ignaro amico Razumichin, onesto e ottimista, cerca invano di dargli sollievo. Nell’ansia di avere notizia sulle indagini, ma anche per provare la sua superiorità, gioca d’astuzia con la polizia, sfidandola: e il giudice Porfirij finisce per sospettare la sua colpevolezza, ma lo lascerà andare libero, ben calcolando che finirà lui stesso per consegnarsi alle sue mani. Nei suoi vagabondaggi Raskolnikov incontra molti relitti umani, come lui tesi a uscire dalla loro degradazione: l’impiegato ubriacone Marmeladov, la tisica Katerina Ivanovna, sua moglie, che per fame ha spinto la figliastra Sonja alla prostituzione, Sonja stessa, la cui dolcezza di vittima finirà per dominare Raskolnikov. Ma da loro, per cui prova amore e pietà, lo separa l’atto commesso. Sarà Sonja che riceverà la confessione di Raskolnikov, che gli indicherà il valore della vita umana secondo il Cristo, e che lo spingerà, anche se ancora ribelle in cuor suo, a costituirsi. Solo in Siberia, accanto a Sonja che lo ha seguito, Raskolnikov si libererà dal senso di sconfitta che gli grava addosso.

SEI TU L’ASSASSINO

Se ne stava lì soprappensiero, e un sorriso strano, contrito, quasi insensato, gli errava sulle labbra. Alla fine prese il berretto e uscì piano dalla stanza. Aveva le idee confuse. Tutto assorto, scese fino al portone.
«Eccolo, in persona!» esclamò una voce forte; egli sollevò il capo.
Il portinaio stava accanto alla porta del suo stambugio e lo indicava a un uomo piuttosto basso, simile nell’aspetto a un artigiano, che indossava una specie di camice e un panciotto e somigliava moltissimo, da lontano, a una donna. La sua testa, sotto il berretto unto e bisunto, pendeva in avanti, e tutta la sua figura appariva curva. Il volto floscio e rugoso faceva supporre che avesse passato la cinquantina; gli occhietti minuscoli, affondati nel grasso, avevano uno sguardo arcigno, scontento e severo.
«Che c’è?» domandò Raskòlnikov, avvicinandosi al portinaio.
L’artigiano lo guardò di sottecchi esaminandolo con insistente attenzione, senza fretta; poi si volse adagio e, senza dire una sola parola, uscì nella strada.
«Ma che significa tutto ciò?» esclamò Raskòlnikov.
«È venuto un tizio a chiedere se abita qui un certo studente, cioè voi; ha chiesto da chi abitate. Intanto siete sceso, io vi ho indicato, e lui se n’è andato via. Che roba, però…»
Anche il portinaio era un po’ perplesso; non troppo, però: e dopo averci pensato su ancora qualche istante, si voltò e si infilò di nuovo nel suo bugigattolo.
Raskòlnikov corse dietro all’artigiano e subito lo vide che camminava dal lato opposto della via, col passo regolare e lento di prima, lo sguardo fisso a terra come se stesse meditando qualcosa. Ben presto lo raggiunse, ma per un po’ gli rimase alle calcagna; infine, giunto alla sua altezza, gli gettò uno sguardo di fianco, proprio in viso. L’altro si accorse subito di lui, lo squadrò rapidamente, ma tornò ad abbassare gli occhi, e così procedettero per circa un minuto, l’uno accanto all’altro, senza spiccicar parola.
«Avete chiesto di me… al portinaio?» riuscì finalmente a dire Raskòlnikov, ma, chissà perché, a voce molto bassa.
L’artigiano non gli diede risposta, e nemmeno lo guardò. Seguì un altro silenzio.
«Ma perché… venite a chiedere… e poi non parlate? Che state cercando, insomma?» La voce di Raskòlnikov continuava a spezzarsi, sembrava che le parole non volessero uscirgli chiare di bocca.
Questa volta l’artigiano alzò gli occhi, e fissò Raskòlnikov con uno sguardo sinistro e cupo.
«Assassino!» disse a un tratto con voce sommessa, ma ben distinta…
Raskòlnikov stava camminando al suo fianco. Di colpo sentì che gli si piegavano le gambe, mentre un brivido freddo gli correva giù per la schiena. Per un istante, fu come se il suo cuore cessasse di pulsare; ma poi prese a battere come impazzito. Fecero così un centinaio di passi, l’uno accanto all’altro, di nuovo in perfetto silenzio. L’artigiano non lo guardava.
«Ma che dite?… Che cosa…? Chi è un assassino?» mormorò Raskòlnikov con voce appena percettibile.
«Tu sei l’assassino,» fece l’altro, pronunciando le parole ancor più distintamente e in tono più grave; e con un sorriso come di odio e di trionfo tornò a guardar dritto Raskòlnikov nel volto esangue e negli occhi vitrei. Insieme, nel frattempo, erano giunti a un crocicchio. L’artigiano scantonò in una strada a sinistra e proseguì senza più voltarsi.
Raskòlnikov, rimasto immobile, lo seguì a lungo con lo sguardo. Vide che l’altro, dopo aver fatto una cinquantina di passi, si voltava a guardare verso di lui, sempre inchiodato allo stesso posto. Non era possibile vederlo bene in viso, ma Raskòlnikov ebbe l’impressione di scorgervi ancora quel sorrisetto freddo, spirante odio e trionfo.
A passo lento e fiacco, con le ginocchia tremanti, e sentendosi come intorpidito, Raskòlnikov tornò indietro e salì nella sua topaia. Si tolse il berretto e lo depose sul tavolino; poi rimase una decina di minuti senza fare un gesto, immobile. Alla fine, sfinito e indolenzito si coricò sul divano, stendendosi con un gemito fioco. Aveva gli occhi chiusi; e così rimase per circa mezz’ora.
Non pensava a niente. Gli passavano per il capo certi pensieri, o meglio brandelli di pensieri, certe immagini disordinate e sconnesse: volti di persone viste nell’infanzia, o incontrate chissà dove una sola volta e delle quali non si era mai ricordato prima; il campanile della chiesa di V.; il biliardo di una taverna e, accanto ad esso, un ufficiale sconosciuto; l’odore di sigari in una tabaccheria situata in un sotterraneo, una bettola, una scala di servizio completamente buia, tutta cosparsa di rifiuti e gusci d’uovo, mentre chissà da dove giungeva un suono di campane a festa… queste visioni si alternavano vorticando come un turbine. Certe gli piacevano perfino, ed egli vi si aggrappava, ma ben presto svanivano; in generale c’era qualcosa che l’opprimeva da dentro, ma neanche tanto, e a momenti si sentiva addirittura bene. Un lieve brivido di febbre lo scuoteva di continuo, e anche questo gli dava una sensazione quasi piacevole.
A un tratto udì i passi precipitosi di Razumìchin e la sua voce; chiuse gli occhi e finse di dormire. Razumìchin aprì la porta e rimase per qualche tempo sulla soglia come meditando sul da farsi. Poi entrò pian piano, avvicinandosi a passi felpati al divano. Sentì Nastàsja bisbigliare:
«Non disturbarlo; lascialo dormire finché vuole; mangerà dopo.»
«Hai ragione,» rispose Razumìchin.
Entrambi uscirono senza far rumore e si richiusero la porta alle spalle. Trascorse un’altra mezz’ora. Aperti gli occhi, Raskòlnikov si mise di nuovo supino, con le mani incrociate dietro la testa…
«Chi è quello? Chi è quel tipo sbucato di sottoterra? Dove si trovava, e che cosa ha visto? Ha visto tutto, questo è fuori discussione. Ma dove sarà stato in quel momento, da dove guardava? Perché salta fuori soltanto adesso? E come ha fatto a vedere? Com’è possibile? Mmh…» seguitò Raskòlnikov rabbrividendo. «E l’astuccio che Nikolàj ha trovato dietro la porta, allora? Anche questo, com’era possibile?… Indizi?… Ma basta trascurare un particolare insignificante, ed eccoti un indizio grande come una piramide d’Egitto! C’era una mosca che volava, e ha veduto. Ma com’è possibile?»
A un tratto, sentì con ribrezzo fino a qual punto fosse indebolito, fisicamente indebolito.
«Dovevo saperlo,» pensava con un sorriso amaro. «Come ho osato, conoscendomi, presentendo me stesso, brandire la scure e sporcarmi di sangue? Dovevo saperlo in anticipo…! E, del resto, lo sapevo in anticipo!…» mormorò disperato.
A tratti un pensiero lo colpiva, tratteneva per qualche istante la sua attenzione.
«No, quegli uomini sono d’un’altra pasta; quegli uomini non sono fatti così. Un vero distruttore, al quale tutto è lecito, mette a sacco Tolone, compie una strage a Parigi, dimentica l’esercito in Egitto, spreca mezzo milione di uomini nella spedizione di Mosca, se la cava con un gioco di parole a Vilna; e dopo che è morto gli innalzano statue; tutto gli è lecito, dunque. Si vede proprio che uomini così non sono fatti di carne, ma di bronzo!»
Un pensiero improvviso, diverso, lo fece quasi ridere:
«Napoleone, le piramidi, Waterloo… e la grama, sordida vedova di un impiegato del registro, una vecchietta, un’usuraia, con un forziere rosso sotto il letto… Come potrebbe, anche un Porfìrij Petròvič, ingoiare un rospo del genere?… Come potrebbero?… L’estetica non lo consente, Napoleone, andarsi a ficcare sotto il letto di quella vecchietta! Eh, che schifo!…»
A momenti gli sembrava quasi di delirare; era in uno stato di esaltazione febbrile.
«Ma la vecchietta è ancora niente!» pensava in modo eccitato, frammentario. «La vecchia, magari, è stata uno sbaglio, ma non è lei che conta! La vecchia è stata solo una malattia… Io volevo superare al più presto l’ostacolo… non è una persona, quella che ho ucciso, ma un principio! Già: il principio l’ho ucciso però l’ostacolo non l’ho superato, sono rimasto al di qua… Soltanto di uccidere sono stato capace, e, a quanto pare, nemmeno questo mi è riuscito molto bene… Un principio? Perché mai, poco fa, quel balordo di Razumìchin se la prendeva con i socialisti? Gente laboriosa, industriosa; si interessano della felicità generale… No, la vita mi vien data una volta sola, e non me la restituiranno mai più: non voglio aspettare la felicità universale, io… Voglio vivere davvero se no è meglio non vivere affatto. E allora? Semplicemente, non ho voluto più passare davanti a mia madre affamata stringendo in tasca il mio rublo, in attesa della felicità universale. Porto, dicono quelli, il mio granello di sabbia alla costruzione della felicità universale, e perciò mi sento la coscienza a posto. Ah, ah! Ma perché mi lasciate da parte? Ho una vita sola da vivere, e anch’io vorrei… Ba’! sono un pidocchio estetizzante, e basta,» aggiunse, scoppiando a ridere di colpo, come un matto. «Sì, sono davvero un pidocchio,» ripeté, aggrappandosi con acre gioia a quell’idea, frugandovi dentro e compiacendosene, «e questo, in primo luogo, già per il semplice fatto che sto dicendomi che sono un pidocchio; in secondo luogo, perché ho stancato la divina Provvidenza per un mese intero, chiamandola a testimonio che non per la mia carne o per la mia lussuria mi cacciavo in questa faccenda, ma in vista di uno scopo grandioso e piacevole, ah, ah!; in terzo luogo, perché mi ero prefisso di procedere, nell’esecuzione, con la maggiore giustizia possibile, un solo peso e una sola misura, una questione matematica: fra tutti i pidocchi avevo scelto il più inutile; e, dopo averlo ucciso, volevo portargli via giusto quel che mi serviva per il primo passo, ne più né meno, e il resto, quindi, sarebbe andato a un monastero, per testamento, ah ah!… Per questo, per questo sono irrimediabilmente un pidocchio!» aggiunse digrignando i denti. «Io stesso, forse, sono peggiore e più sordido del pidocchio che ho ucciso, e presentivo perfino che mi sarei dette queste cose dopo aver ucciso! C’è forse qualcosa di paragonabile a questo orrore? Che volgarità, che cosa ignobile!… Oh, come capisco il profeta a cavallo, con la scimitarra in pugno: è Allah che lo vuole, e a te, tremante creatura, non resta che obbedire! Ha ragione, ha ragione il profeta, quando piazza in mezzo alla strada una buo-o-ona batteria di cannoni e ci dà dentro su innocenti e su colpevoli, senza degnarsi nemmeno di dare una spiegazione! Obbedisci, tremante creatura, e non aver desideri, perché queste non sono cose per te!… Oh, per niente al mondo perdonerò a quella vecchia…»
Aveva i capelli zuppi di sudore, le labbra tremanti e riarse, lo sguardo inchiodato al soffitto.
«Mia madre, mia sorella, quanto le amavo! Perché adesso le odio? Sì, le odio, le odio fisicamente, non me le posso sentire vicino… Poco fa mi sono avvicinato a mia madre e l’ho baciata, e ricordo… Abbracciarla e, intanto, pensare che se sapesse… Ma allora… non sarà meglio che glielo dica? Uno come me ne sarebbe capace… Mmh… Lei dev’essere fatta come me,» aggiunse pensando a fatica, quasi lottando col delirio che a poco a poco si impadroniva di lui. «Oh, come odio, adesso, quella vecchietta! Non ci penserei due volte a ucciderla di nuovo, se tornasse in vita! Povera Lizavèta! Perché me la sono trovata fra i piedi?… Strano, però, che il pensiero di lei mi sfiori appena, come se neanche l’avessi uccisa! … Lizavèta! Sònja! Povere, dolci creature dagli occhi mansueti… Care! Perché non piangono? Perché non gemono ? … Danno via tutto ciò che possiedono… Hanno lo sguardo mite e placido… Sònja, Sònja! Dolce Sònja!…»

La pagina ci offre la straordinaria possibilità di analizzare come Dostoevskij riesca con mirabile capacità ad anticipare il monologo interiore. In questo caso, modernamente, lo spazio viene dilatato e all’interno di esso si confrontino una pluralità di voci che a volte sembrano contraddirsi. E’ il concetto che il critico russo Bachtin chiama “polifonia” che egli stesso individua nella struttura romanzesca di Dostoevskij.
Raskolnikov (come se volesse riprendere il concetto di “nichilismo” di Bazànov in Padri e figli di Turgenev) parte dal concetto d’impunità per l’uomo superiore, e per questo uccide. Ma matura un incredibile senso di colpa, che è frutto di una scissione dell’animo: lui “innocente”, in quanto superiore; lui “colpevole” in quanto essere reietto: questa duplice natura lo porterà alla sfida con la polizia, modo direi quasi “psicoanalitico” di consegnarsi ad essa, per espiare il peccato.

Non possiamo tacere l’ultimo, e forse più importante, romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov (1880):

Fedor Karamazov ha tre figli: Dmitrj, Ivan e Aleša. Ha anche un figlio illegittimo, l’epilettico Smerdiakov, che tiene in casa come servo. Fedor è un vecchio libertino, cinico e dissoluto, poco amato dai figli: in particolare Dmitrj, detto Mitja, lo odia perché è innamorato di Grušenka, una bella mantenuta che il vecchio, forte del suo denaro, vuole fare sua. L’altro fratello Ivan è un raffinato intellettuale e filosofo dell’ateismo; il più giovane, Aleša, è novizio nel convento di padre Zosima, che lo guida sulla via del perfezionamento spirituale ma lo obbliga a ritornare nel mondo, che ha bisogno della sua carità cristiana. Infatti, poco dopo, il vecchio Karamazov viene trovato ucciso. Tutti i sospetti cadono su Mitja, difeso solo dalla generosa Grušenka. Anche Ivan crede nella colpevolezza del fratello, fino al giorno in cui Smerdiakov gli confessa di essere lui l’assassino, plagiato dalle teorie atee di Ivan. Subito dopo la confessione Smerdiakov si impicca e Ivan non può provare al processo la verità delle sue rivelazioni. Così Mitja viene condannato ai lavori forzati, Ivan cade in preda ad una febbre cerebrale, mentre Aleša con la sua purezza, purtroppo impotente, guida un gruppo di ragazzi, raccolti in fraterna solidarietà, verso una vita migliore.

LA LEGGENDA DEL GRANDE INQUISITORE

La mia azione si svolge in Spagna, a Siviglia, al tempo più pauroso dell’inquisizione quando ogni giorno nel paese ardevano i roghi per la gloria di Dio e con grandiosi autodafè si bruciavano gli eretici.
Oh, certo, non è cosi che Egli scenderà, secondo la Sua promessa, alla fine dei tempi, in tutta la gloria celeste, improvviso “come folgore che splende dall’Oriente all’Occidente”. No, Egli volle almeno per un istante visitare i Suoi figli proprio là dove avevano cominciato a crepitar i roghi degli eretici. Nell’immensa Sua misericordia, Egli passa ancora una volta fra gli uomini in quel medesimo aspetto umano col quale era passato per tre anni in mezzo agli uomini quindici secoli addietro.
Egli scende verso le “vie roventi” della città meridionale, in cui appunto la vigilia soltanto, in un “grandioso autodafé”, alla presenza del re, della corte, dei cavalieri, dei cardinali e delle più leggiadre dame di corte, davanti a tutto il popolo di Siviglia, il cardinale grande inquisitore aveva fatto bruciare in una volta, ad majorem Dei gloriam, quasi un centinaio di eretici. Egli è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco – cosa strana – tutti Lo riconoscono. Spiegare perché Lo riconoscano, potrebbe esser questo uno dei più bei passi del poema. Il popolo è attratto verso di Lui da una forza irresistibile, Lo circonda, Gli cresce intorno, Lo segue. Egli passa in mezzo a loro silenzioso, con un dolce sorriso d’infinita compassione. Il sole dell’amore arde nel Suo cuore, i raggi della Luce, del Sapere e della Forza si sprigionano dai Suoi occhi e, inondando gli uomini, ne fanno tremare i cuori in una rispondenza d’amore. Egli tende loro le braccia, li benedice e dal contatto di Lui, e perfino dalle Sue vesti, emana una forza salutare.
Ecco che un vecchio, cieco dall’infanzia, grida dalla folla: «Signore, risanami, e io Ti vedrò», ed ecco che cade dai suoi occhi come una scaglia, e il cieco Lo vede.
Il popolo piange e bacia la terra dove Egli passa..
Il popolo si agita, grida, singhiozza; ed ecco in questo stesso momento passare accanto alla cattedrale, sulla piazza, il cardinale grande inquisitore in persona. E’ un vecchio quasi novantenne, alto e diritto, dal viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come una scintilla di fuoco, splende ancora una luce… Ha visto tutto… Aggrotta le sue folte sopracciglia bianche e il suo sguardo brilla di una luce sinistra. Egli allunga un dito e ordina alle sue guardie di afferrarlo.
Le guardie conducono il Prigioniero sotto le volte di un angusto e cupo carcere nel vecchio edificio del Santo Uffizio e ve Lo rinchiudono. Passa il giorno, sopravviene la scura, calda, “afosa” notte di Siviglia. L’aria “odora di lauri e di limoni”. In mezzo alla tenebra profonda si apre a un tratto la ferrea porta del carcere, e il grande inquisitore in persona con una fiaccola in mano lentamente si avvicina alla prigione. E’ solo, la porta si richiude subito alle sue spalle. Egli si ferma sulla soglia e considera a lungo, per uno o due minuti, il volto di Lui. Infine si accosta in silenzio, posa la fiaccola sulla tavola e Gli dice:
«Sei Tu, sei Tu?» Ma, non ricevendo risposta, aggiunge rapidamente: «Non rispondere, taci. E che potresti dire? So troppo bene quel che puoi dire. Del resto, non hai il diritto di aggiunger nulla a quello che Tu già dicesti una volta. Perché sei venuto a disturbarci? Sei infatti venuto a disturbarci, lo sai anche Tu. Ma sai che cosa succederà domani? lo non so chi Tu sia, e non voglio sapere se Tu sia Lui o soltanto una Sua apparenza, ma domani stesso io Ti condannerò e Ti farò ardere sul rogo, come il peggiore degli eretici, e quello stesso popolo che oggi baciava i Tuoi piedi si slancerà domani, a un mio cenno, ad attizzare il Tuo rogo, lo sai? Si, forse Tu lo sai», aggiunse, profondamente pensoso, senza staccare per un attimo lo sguardo dal suo Prigioniero.
Non dicevi Tu allora spesso: «Voglio rendervi liberi?». Ebbene, adesso Tu li ha veduti, questi uomini “liberi”, – aggiunge il vecchio con un pensoso sorriso. «Sì, questa faccenda ci è costata cara», continua, guardandolo severo, «ma noi l’abbiamo finalmente condotta a termine, in nome Tuo. Per quindici secoli ci siamo tormentati con questa libertà, ma adesso l’opera è compiuta e saldamente compiuta. Non credi che sia saldamente compiuta? Tu mi guardi con dolcezza e non mi degni neppure della Tua indignazione? Ma sappi che adesso, proprio oggi, questi uomini sono più che mai convinti di essere perfettamente liberi, e tuttavia ci hanno essi stessi recato la propria libertà, e l’hanno deposta umilmente ai nostri piedi. Questo siamo stati noi ad ottenerlo, ma è questo che Tu desideravi, è una simile libertà?».
«lo torno a non comprendere», interruppe Aljòsa, egli fa dell’ironia, scherza?»
«Niente affatto. Egli fa un merito a sé ed ai suoi precisamente di avere infine soppresso la libertà e di averlo fatto per rendere felici gli uomini. “Ora infatti per la prima volta (egli parla, naturalmente, dell’inquisizione) è diventato possibile pensare alla felicità umana. L’uomo fu creato ribelle; possono forse dei ribelli essere felici? Tu eri stato avvertito, – Gli dice, – avvertimenti e consigli non Ti erano mancati, ma Tu non ascoltasti gli avvertimenti. Tu ricusasti l’unica via per la quale si potevano render felici gli uomini, ma per fortuna, andandotene, rimettesti la cosa nelle nostre mani. Tu ci hai promesso, Tu ci hai con la Tua parola confermato, Tu ci hai dato il diritto di legare e di slegare, e certo non puoi ora nemmeno pensare a ritoglierci questo diritto. Perché dunque sei venuto? Sai Tu che passeranno i secoli e l’umanità proclamerà per bocca della sua sapienza e della sua scienza che non esiste il delitto, e quindi nemmeno il peccato, ma che ci sono soltanto degli affamati? “Nutrili e poi chiedi loro la virtù!”. Oh, mai, mai essi potrebbero sfamarsi senza di noi! Nessuna scienza darà loro il pane, finché rimarranno liberi, ma essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: «Riduceteci piuttosto in schiavitù ma sfamateci». Comprenderanno infine essi stessi che libertà e pane terreno a discrezione per tutti sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno esser liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli.
Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno per diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dèi per avere acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi! Ma noi diremo che obbediamo a Te e che dominiamo in nome Tuo. Li inganneremo di nuovo, perché allora non Ti lasceremo più avvicinare a noi. E in quest’inganno starà la nostra sofferenza, poiché saremo costretti a mentire. Ecco ciò che significa quella domanda che Ti fu fatta nel deserto, ed ecco ciò che Tu ricusasti in nome della libertà, da Te collocata più in alto di tutto. In quella domanda tuttavia si racchiudeva un grande segreto di questo mondo. Acconsentendo al miracolo dei pani, Tu avresti dato una risposta all’universale ed eterna ansia umana, dell’uomo singolo come dell’intera umanità: “Davanti a chi inchinarsi?”. Non c’è per l’uomo rimasto libero più assidua e più tormentosa cura di quella di cercare un essere dinanzi a cui inchinarsi. Ma l’uomo cerca di inchinarsi a ciò che già è incontestabile, tanto incontestabile, che tutti gli uomini ad un tempo siano disposti a venerarlo universalmente. Perché la preoccupazione di queste misere creature non è soltanto di trovare un essere a cui questo o quell’uomo si inchini, ma di trovarne uno tale che tutti credano in lui e lo adorino, e precisamente tutti insieme. E questo bisogno di comunione nell’adorazione è anche il più grande tormento di ogni singolo, come dell’intera umanità, fin dal principio dei secoli. E’ per ottenere questa adorazione universale che si sono con la spada sterminati a vicenda. Essi hanno creato degli dèi e si sono sfidati l’un l’altro: «Abbandonate i vostri dèi e venite ad adorare i nostri, se no guai a voi e ai vostri dèi!». E cosi sarà fino alla fine del mondo, anche quando gli dèi saranno scomparsi dalla terra: non importa, cadranno allora in ginocchio davanti agli idoli. Tu conoscevi, Tu non potevi non conoscere questo fondamentale segreto della natura umana, ma Tu rifiutasti l’unica irrefragabile bandiera che Ti si offrisse per indurre tutti a inchinarsi senza discussione dinanzi a Te;…
Tu volesti il libero amore dell’uomo, perché Ti seguisse liberamente, attratto e conquistato da Te. In luogo di seguire la salda legge antica, l’uomo doveva per l’avvenire decidere da sé liberamente, che cosa fosse bene che cosa fosse male, avendo dinanzi come guida la sola Tua immagine; ma non avevi Tu pensato che, se lo si fosse oppresso con un cosi terribile fardello come la libertà di scelta, egli avrebbe finito per respingere e contestare perfino la Tua immagine e la Tua verità?…
Sappi che io non Ti temo. Sappi che anch’io fui nel deserto, che anch’io mi nutrivo di cavallette e di radici, che anch’io benedicevo la libertà di cui Tu letificasti gli uomini, che anch’io mi ero preparato ad entrare nel numero dei Tuoi eletti, nel numero dei potenti e dei forti, con la brama di “completare il numero”. Ma mi ricredetti e non volli servire la causa della follia. Tornai indietro e mi unii alla schiera di quelli che hanno corretto l’opera Tua. Lasciai gli orgogliosi e tornai agli umili per la felicità di questi umili. Ciò che Ti dico si compirà e sorgerà il regno nostro. Ti ripeto che domani stesso Tu vedrai questo docile gregge gettarsi al primo mio cenno ad attizzare i carboni ardenti del rogo sul quale Ti brucerò per essere venuto a disturbarci. Perché se qualcuno più di tutti ha meritato il nostro rogo, sei Tu. Domani Ti arderò. Dixi».
Ivàn, si fermò. Egli si era accalorato e aveva parlato con fervore; quando poi ebbe finito, fece improvvisamente un sorriso.
Aljòsa, che l’aveva sempre ascoltato in silenzio e verso la fine, in preda a straordinaria agitazione, molte volte aveva voluto interrompere il discorso del fratello, ma si era visibilmente trattenuto, si mise d’un tratto a parlare, come scattando: «Ma… è un assurdo!» esclamò, arrossendo. «Il tuo poema è l’elogio di Gesù e non la condanna… come tu volevi. E come termina il tuo poema?…»
«lo volevo finirlo cosi: l’inquisitore, dopo aver taciuto, aspetta per qualche tempo che il suo Prigioniero gli risponda. Il Suo silenzio gli pesa. Ha visto che il Prigioniero l’ha sempre ascoltato, fissandolo negli occhi col suo sguardo calmo e penetrante e non volendo evidentemente obiettar nulla. Il vecchio vorrebbe che dicesse qualcosa, sia pure di amaro, di terribile. Ma Egli tutt’a un tratto si avvicina al vecchio in silenzio e lo bacia piano sulle esangui labbra novantenni. Ed ecco tutta la Sua risposta. Il vecchio sussulta. Gli angoli delle labbra hanno avuto un fremito; egli va verso la porta, la spalanca e Gli dice: «Vattene e non venir più… non venire mai più… mai più!». E Lo lascia andare per “le vie oscure della città”. Il Prigioniero si allontana.
«E il vecchio?»
«Il bacio gli arde nel cuore, ma il vecchio persiste nella sua idea.»

Ivan Karamazov, seduto al tavolo di una locanda, di fronte al fratello Alëša, decide di narrargli l’unica opera da lui concepita (e mai messa per iscritto) che ha intitolato La Leggenda del Grande Inquisitore. E’ una storia ambientata nel XVI secolo in Spagna, a Siviglia, nel periodo più terribile dell’Inquisizione. In quell’epoca e in quel luogo, Gesù ritorna ancora una volta tra gli uomini. Tutti lo riconoscono, tutti sono attratti da Lui. Anche il cardinale Grande Inquisitore, un vecchio novantenne dagli occhi infossati, lo riconosce e subito lo fa arrestare per mandarlo al rogo il giorno dopo, come il peggiore degli eretici. Il suo peccato, il più grave che si potesse compiere, è quello di essersene andato senza fare in modo che gli uomini avessero delle regole sicure e fossero obbligati a seguirle. L’umanità sarebbe stata ben felice d’essere schiava e servire un Dio. Il grave peccato di questo Dio è di averla lasciata libera, trattandola alla pari, con la dignità di un figlio. Per questo, loro, i custodi di quel lascito, hanno dovuto provvedere a fare ciò che Lui non aveva fatto. Il finale di questa storia, con il confronto nella cella tra Il Grande Inquisitore e Cristo, è ancora più sorprendente; così come la replica di Alëša a fine racconto.

Ma quello che a noi interessa di più è l’argomento religioso-filosofico di Dostoevskij, l’“insopportabile libertà” dell’uomo, accordatagli da Colui che l’uomo stesso voleva suo padrone, da servire alla maniera degli schiavi. Nei Karamazov Dostoevskij studia il destino dell’uomo lasciato in libertà. Lo interessa solo l’uomo che incede sulla via della libertà, il destino dell’uomo sulla libertà e della libertà sull’uomo.

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Anton Pavlovič Čechov

Non possiamo concludere il nostro discorso se non con un grande novellista, un letterato russo che, insieme al francese Guy De Maupassant e al nostro Giovanni Verga, portano l’arte del racconto breve ad altissimi livelli. Anton Pavlovič Čechov, (1960 – 1904) d’origine umile, medico non assiduo, passerà gran parte della sua breve vita a scrivere racconti. Grande è anche la sua straordinaria arte che riuscirà ad esprimere nelle opere teatrali. Riportiamo qui un breve racconto:

UNO SCHERZETTO

E’ un sereno meriggio d’inverno… Il gelo è rigido, la neve scricchiola e a Nàden’ka, che mi ha preso per il braccio, si coprono di una brina argentea i riccioli sulle tempie e la lanugine sul labbro superiore. Siamo sulla cima di una montagnola. Dai nostri piedi fino al piano si stende una superficie levigata, in cui il sole si mira come in uno specchio. Accanto a noi è una piccola slitta foderata di panno vermiglio.
«Andiamo giù, Nadeˇzda Petrovna!» imploro io. «Una sola volta! Vi assicuro, arriveremo sani e salvi». Ma Nàden’ka ha paura. Lo spazio che corre dalle sue piccole calosce fino ai piedi della montagnola di ghiaccio le sembra spaventoso, un abisso d’insondabile profondità. Quando guarda in giù, si sente morire e le si mozza il respiro, non appena le propongo di sedersi nella slitta: e che cosa accadrà quando si arrischierà di volare in quell’abisso! Morirà, impazzirà. «Vi supplico!» dico io. «Non dovete aver paura! Non capite che è debolezza, viltà?» Finalmente Nàden’ka cede, e dal suo volto vedo che cede con la paura di rischiare la vita. L’aiuto, pallida, tremante a sedersi nella slitta; le cingo con il braccio la vita, e con lei mi precipito nell’abisso. La slitta vola come un proiettile. L’aria tagliata frusta i nostri visi, ulula, fischia nelle orecchie, tira, punge dolorosamente di rabbia, sembra voglia strappare la testa dalle spalle. La violenza del vento non dà forza di respirare. Pare che il diavolo stesso ci abbia afferrati con le sue zampe e urlando ci trascini all’inferno. Gli oggetti intorno si confondono in una unica striscia lunga che corre vertiginosamente… Ecco, ecco, ancora un istante, e sarà, sembra, la nostra rovina! «Vi amo, Nadja!» dico sottovoce.
La slitta comincia a scivolare sempre più lentamente, e l’urlo del vento e il ronzio dei pattini non sono più così spaventosi, il respiro non è più mozzato, e finalmente, siamo arrivati in basso. Nàden’ka non è né viva né morta. E’ pallida, respira appena… L’aiuto ad alzarsi. «Per nulla al mondo ci tornerei un’altra volta» dice guardandomi con occhi sbarrati, pieni di terrore. «Per nulla al mondo! Per poco non morivo». Poco tempo dopo si è rimessa e già comincia a guardarmi negli occhi con una espressione interrogativa, come volesse accertarsi, se ho detto quelle tre parole veramente, o se le è sembrato soltanto di udirle nel frastuono del turbine. Ed io me ne sto accanto a lei, fumo e osservo attentamente il mio guanto. Mi prende sottobraccio, e a lungo passeggiamo accanto alla montagnola. L’enigma, evidentemente, non le dà requie. Sono state pronunciate quelle parole, oppure no? Sì o no? Sì o no? E’ una questione d’amor proprio, d’onore, di vita, di felicità, una questione molto importante, la più importante del mondo. Nàden’ka mi guarda in viso impaziente, triste, con uno sguardo scrutatore, non risponde a tono, aspetta che io mi metta a parlare. O come variano le espressioni su quel volto caro, come variano! Vedo che essa lotta con se stessa, che ha bisogno di dirmi qualcosa, di chiedermi qualcosa, ma non trova le parole, si sente impacciata, atterrita, la gioia la turba… «Sapete che cosa?» dice senza guardarmi in viso. «Che cosa?» domando io. «Facciamolo ancora una volta… scendiamo in slitta». Ci arrampichiamo per la scala sulla vetta del pendio. Di nuovo aiuto Nàden’ka pallida, tremante ad accomodarsi nella slitta, di nuovo voliamo nel terribile abisso, di nuovo urla il vento e ronzano i pattini, e di nuovo quando la slitta ha raggiunto la sua massima velocità io dico sottovoce nel frastuono: «Vi amo, Nàden’ka!» Quando la slitta si ferma, Nàden’ka abbraccia con uno sguardo la montagnola sul dorso della quale siamo or ora discesi, poi scruta a lungo il mio viso, ascolta la mia voce indifferente e spassionata, e tutta, tutta, perfino il suo manicotto e il cappuccio, tutta la sua figurina esprime una estrema perplessità. Sul suo viso sta scritto: “Che succede? Chi ha pronunciato quelle parole? Lui, oppure mi è parso soltanto sentirle?” Questa incertezza la rende inquieta, la impazientisce. La povera fanciulla non risponde alle domande, si fa scura in viso. E’ sul punto di scoppiare in lacrime. «Dobbiamo forse tornare a casa?» domando io. «Ma, a me… a me piace questo scendere in slitta» dice arrossendo. «Non potremmo forse scendere un’altra volta?» Le “piace” questo scendere, e tuttavia, mentre si siede nella slitta, è pallida come le prime volte, respira appena dal terrore, trema. Facciamo la discesa una terza volta, e mi accorgo, come mi guarda in viso, fissa le mie labbra. Ma io accosto alle labbra un fazzoletto, tossisco e, quando raggiungiamo la metà della discesa, faccio in tempo a sussurrare: «Vi amo, Nadja!» L’enigma rimane tale! Nàden’ka tace, pensa a qualcosa… La riaccompagno a casa, essa cerca di camminare più adagio, rallenta i passi e aspetta sempre che le dica di nuovo quelle parole. E vedo, quanto soffre la sua anima, come sta facendo uno sforzo su se stessa, per non dire: «Non può essere che le abbia dette il vento! E non voglio che le abbia dette il vento!» Il giorno dopo ricevo la mattina un biglietto: “Se oggi andate alla pista delle slitte, passate a prendermi. N.” E da quel giorno comincio ad andare quotidianamente con Nadja alla pista e, mentre voliamo giù sulla slitta, pronuncio ogni volta sottovoce quelle stesse parole: «Vi amo, Nadja!» Ben presto Nàden’ka s’avvezza a questa frase, come ci si avvezza al vino o alla morfina. Non può più vivere senza di essa. E’ vero che le fa sempre molta paura volar giù dalla cima della montagna, ma ormai il terrore e il pericolo conferiscono un fascino speciale alle parole d’amore, alle parole che come prima formano un enigma e fanno languire l’anima. Il sospetto cade sempre sugli stessi due: su me e sul vento… Chi dei due le faccia la dichiarazione d’amore, essa non sa, ma ormai evidentemente per lei è lo stesso; non importa da quale recipiente si beva, basta che ci si inebrii. Un pomeriggio mi recai da solo alla pista; mescolatomi con la folla, vedo che Nàden’ka si avvicina alla montagnola, che mi cerca con gli occhi… Poi timidamente si arrampica su per la scaletta… E’ terribile far la discesa da sola, oh com’è terribile. E’ pallida come la neve, trema, cammina come se andasse al patibolo, ma cammina, cammina senza guardare indietro, decisamente. Ha deciso, si vede, di provare finalmente se sarà possibile udire quelle parole dolci, stupefacenti, quando non ci sono io. Vedo come pallida, la bocca aperta per lo spavento, si siede nella slitta, chiude gli occhi e, detto per sempre addio alla terra, si mette in moto… “ssss”… ronzano i pattini. Ode Nàden’ka quelle parole? Non lo so… Vedo soltanto come si alza debole, sfinita, dalla slitta. E dal suo volto si capisce che essa stessa non sa se abbia o no udito qualcosa. Il terrore, mentre scivolava, le ha tolto la facoltà di udire, di distinguere i suoni, di capire… Ma ecco che viene il mese primaverile di marzo… il sole si fa più carezzevole. La nostra montagnola di ghiaccio diventa più scura, smette di luccicare e finalmente si scioglie. Smettiamo di andare in slitta. Per la povera Nàden’ka non c’è più possibilità di sentire quelle parole, eppoi chi le può ormai pronunciare? Il vento non si ode più e io mi accingo a partire per Pietroburgo, per lungo tempo, probabilmente per sempre. Una volta, due o tre giorni prima della partenza, me ne sto seduto, al crepuscolo, nel giardino, che uno steccato alto sormontato da chiodi separa dal cortile, dove vive Nàden’ka… Fa ancora piuttosto freddo, sotto il concime c’è ancora la neve, gli alberi sono morti, ma c’è già odor di primavera e, mentre si preparano a dormire, le cornacchie gracchiano rumorosamente. Mi avvicino allo steccato e guardo a lungo attraverso una fessura. Vedo Nadja che esce sulla soglia e volge uno sguardo mesto, nostalgico al cielo… Il vento primaverile le soffia diritto nel viso pallido, abbattuto… Le ricorda quell’altro vento, che allora ci urlava in viso sulla montagna, quando udiva quelle parole, e il suo volto si fa triste, triste, e lungo la guancia scende lenta una lacrima… E la povera fanciulla protende tutte e due le braccia, come volesse pregare il vento di recarle ancora una volta quelle parole. Ed io, dopo avere atteso che il vento soffi di nuovo, dico sottovoce: «Vi amo, Nadja!» Dio mio, che succede ora! Lancia un grido, sorride con tutto il viso e protende incontro al vento le braccia, beata, felice, così bella. E io torno a far le valigie… Questo è accaduto molto tempo fa. Ora Nàden’ka è già maritata; l’hanno data in sposa, o s’è data lei stessa, non importa, al segretario della Camera di tutela nobiliare, e ormai ha già tre bambini. Ma il ricordo di quando andavamo in slitta e il vento le recava le parole “vi amo, Nàden’ka”, non si è spento; per lei è il ricordo più felice, più commovente e splendido della sua vita… Mentre io ora che mi sono fatto più vecchio, non riesco più a capire perché dicessi quelle parole, a che scopo scherzassi…

 I racconti Di Checov hanno una sostanziale povertà di intreccio e scarsità d’azione e lasciano spazio all’interesse dello scrittore russo nel tratteggiare esperienze psicologiche o stati d’animo fatti di poco (un ricordo, un gesto, un’atmosfera). Una visione pessimistica della realtà, destinata a diventare sempre più amara con il passare degli anni, traspare nei suoi racconti, popolati da uomini e donne qualunque, che potremmo incontrare ogni giorno, delusi e frustrati nei desideri più intimi, incapaci di comunicare e di vivere con pienezza grandi sentimenti.

Anche in Uno scherzetto possiamo ritrovare questi temi: dalla mancata realizzazione di sé all’amore vissuto come amaro e doloroso rimpianto, fino all’impossibilità di giungere a certezze definitive. La realtà, anzi, sembra farsi sempre più labile e sfuggente per i due personaggi: travolti dallo scorrere del tempo e dall’inafferrabilità della vita, né il narratore-protagonista né Nadja, sua compagna di giochi in un pomeriggio invernale, riusciranno a realizzare pienamente se stessi, capaci solo di fissare per sempre nella memoria l’attimo di un’avventura in slitta, contemplata con nostalgia come un’occasione perduta.

 
 
 

IL POSITIVISMO

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Le fasi costruttive della Torre Eiffel, simbolo di progresso

A dominare la cultura nell’Europa di fine ’800 è il Positivismo, movimento filosofico, figlio della borghesia al potere e del grande progresso industriale. Alla sua base vi è la scienza, intesa non come campo limitato del sapere, ma come un vero e proprio atteggiamento mentale che riduce la realtà in una serie di rapporti meccanicistici capaci d’interpretare ogni forma culturale. Si leggono in questo modo sia la storia che le scienze umane e si tende ad applicare il metodo scientifico anche alla letteratura.

Il Positivismo è un movimento culturale in senso lato che si sviluppa in Europa e se dovessimo indicare generalmente una data d’inizio (con le opportune cautele) partiremo dal 1848, anno che viene indicato come un vero e proprio spartiacque nella cultura sociale e politica dell’intero continente. E’ infatti l’anno che segna il punto di conflitto più alto fra le vecchie gerarchie, rappresentate in Inghilterra dall’instaurazione del governo dei Tories, in Francia da Napoleone III e in Prussia da Otto von Bismarck e l’ascesa inarrestabile della borghesia, che si vedeva riflessa nell’ideologia liberale. In questo conflitto s’inserisce, a sua volta, la cosiddetta “massa”, sfruttata sia in campo industriale che agrario e che, pur non essendo un vero e proprio gruppo omogeneo, cominciava a far sentire la sua voce attraverso intellettuali più attenti e sensibili ai suoi problemi, si pensi solo a Marx ed Engels e al loro Manifesto, proprio del 1848.

Dopo questo anno le strutture sociali e politiche vedranno delle modifiche sostanziali sia sul piano della geografia europea che fra i rapporti tra le classi:

  • nei paesi avanzati, si assisterà ad una saldatura fra le vecchie classi e la classe imprenditoriale a difesa degli interessi comuni e, nello stesso tempo, ma sulla sponda opposta, l’inizio di organizzazioni che, mutuando il termine da Marx, potremo definire “proletarie”;
  • il compimento “liberal-borghese” di stampo cavouriano dell’unità d’Italia (1960 – 1970) e quello della Confederazione germanica sotto la guida della Prussia nel 1871 (a cui corrisponde il forte ridimensionamento della potenza austro-ungarica).

E’ proprio da questa nuova geografia e da diverse situazioni sociali ed economiche che si comprende la differenza che tale movimento culturale subisce a seconda del luogo in cui si sviluppa: in Francia si inserisce all’interno del razionalismo che va da Cartesio all’Illuminismo; in Inghilterra si sviluppa sulla tradizione empiristica ed utilitaristica, e si intreccia in seguito, con la teoria dell’evoluzione darwiniana; in Germania assume la forma di un rigido scientismo; in Italia affonda le radici nel naturalismo rinascimentale, anche se dà i suoi frutti maggiori, data la situazione sociale della nazione allora unificata, nella pedagogia e nell’antropologia criminale di Cesare Lombroso.

Pur nella sua ramificazione il Positivismo si poggia su dei punti qualificanti; la nascita della sociologia di Auguste Comte e la teoria evoluzionistica di Charles Darwin.

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Ritratto di Auguste Comte

Auguste Comte (1798 – 1857) è il padre riconosciuto del positivismo, colui che si dedicò più di ogni altro alla definizione di un nuovo sistema di pensiero che partisse dalle basi certe della fisica e del metodo sperimentale.

Le leggi che regolano lo sviluppo dell’uomo e della realtà obbediscono alle stesse leggi delle scienze fisiche e sono, pertanto, determinate: lo scienziato deve svelare queste leggi in modo da poter, attraverso il metodo sperimentale, agire sulla realtà in modo concreto. Ciò darà vita a quella scienza positiva (da cui il nome del movimento filosofico) che è, per Comte, il culmine di uno sviluppo storico ininterrotto verso la vera conoscenza delle cose.

L’uomo, nel passato, si è accostato alla conoscenza attraverso tre momenti:

  • Il primo stato è quello teologico, ovvero lo stato in cui l’uomo spiega l’ignota origine dei fenomeni attribuendone le cause a forze divine superiori (“il fulmine è un dardo scagliato da Zeus”), è il periodo dell’infanzia dell’umanità;
  • Il secondo è lo stato metafisico, ovvero lo stato in cui l’uomo rifiuta la spiegazione divina e cerca nell’essenza astratta dei fenomeni la spiegazione di tutto (“il fuoco brucia perché possiede l’essenza del calore, la virtù calorifica”), è il periodo dell’adolescenza dell’uomo;
  • Il terzo stato è quello positivo, ovvero lo stato in cui si trova a vivere l’uomo moderno, il quale spiega i fenomeni studiandone le leggi empiriche (“il fulmine è una scarica elettrica”), è la fase della maturità dell’uomo.

I tre stati di conoscenza possono essere applicati ad ogni forma di sapere, che parte dai grandi interrogativi dell’uomo sino al singolo agire dell’individuo. Per meglio dire il positivismo rinuncia alla ricerca dei perché delle cose per concentrarsi sul come accadono. Tale nuova prospettiva è propria di tutta la scienza moderna e di larga parte della filosofia contemporanea.

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Charles Darwin

Il darwinismo, invece, sviluppa le teorie del naturalista francese Lamarck, il quale afferma che la diversità delle specie animali è dettata dall’adattabilità degli esseri viventi all’ambiente. Darwin specifica il concetto sopra esposto, aggiungendo ad esso quello della “lotta per la vita”: le specie, cioè, sviluppano quelle variazioni atte a risultare vantaggiose rispetto ad un cambiamento e ad eliminare le nocive. Queste diventavano poi ereditarie e quindi proprie di una specie. Chi non fosse riuscito a questo sarebbe stato “naturalmente” espulso, cancellato durante il corso evolutivo, (concetto di selezione naturale). Ma quello che più rende efficace tale teoria è la sua dimostrabilità: ciò che da secoli fa l’uomo attraverso le selezione di piante e animali, fa da sempre la natura, e se non sempre è possibile verificarlo attraverso lo studio della paleontologia, secondo il filosofo inglese, è dovuto alla scomparsa di alcune specie.

Come si vede ambedue le teorie esposte si basano sulla sperimentazione scientifica, che copre, in questa fase, anche l’antropologia.

Si è detto in precedenza come il positivismo ricopra, al di là degli aspetti particolaristici dei paesi in cui diventa la cultura dominante, sia in quanto propulsiva di essa (come in Francia) o ricettiva di essa, l’intera Europa.

Pur nelle differenze potremmo affermare che:

  • si rivendica il primato della scienza: si conosce solo quello che ci mostrano le scienze, e l’unico metodo scientifico è quello delle scienze naturali;
  • il metodo delle scienze naturali non vale solo per lo studio della natura ma anche per lo studio dell’uomo e della società;
  • la sociologia, intesa come scienza di quei “fatti naturali” che sono i rapporti umani e sociali, è un frutto qualificante del programma filosofico positivistico;
  • nel Positivismo non si ha soltanto l’affermazione dell’unità del metodo scientifico e del primato di questo metodo come strumento conoscitivo, ma la scienza viene esaltata come l’unico mezzo in grado di risolvere, nel corso del tempo, tutti i problemi umani e sociali che fino ad allora avevano tormentato l’umanità;
  • conseguentemente a ciò, l’era del Positivismo è pervasa da un ottimismo generale, che scaturisce dalla certezza in un progresso inarrestabile verso condizioni di benessere generalizzato in una società pacifica e pervasa da umana solidarietà.

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Gustave Caillebotte: Una strada di Parigi, tempo di pioggia (1877)

Questa mentalità dà vita ad una serie di “invenzioni” che mutano, fondamentalmente, il modus vivendi della società europea. La capacità dell’uomo di trasformare la natura fa nascere il mito del self made man, cioè dell’uomo che, pur partendo da classi sociali umili, può, attraverso la propria intraprendenza e la capacità competitiva, imporsi di fronte alla realtà. Questa spinta propulsiva è data dall’idea del progresso che, grazie ad un forte sviluppo durante la seconda metà del secolo, stava cambiando i parametri del vivere: la capacità del mercato di offrire prodotti ad un sempre maggior numero di utenti, le grandi scoperte mediche che debellano malattie fino ad allora letali (nasce la diagnostica, l’anestesia, l’anepsi), la sensazione di vivere in un nuovo mondo dominato dall’illuminazione delle strade cittadine (dai primi tentativi alla piena affermazione nella seconda metà dell’Ottocento), da comunicazioni sempre meno distanti grazie al telefono (Meucci, 1871), dall’essere immortalati per l’eternità attraverso la fotografia, che s’impose proprio tra il ’50 e la fine del secolo. Nasce in questo periodo, con una sola parola, la modernità, che stravolge il modo di vita millenario dominato dalla cultura contadina e porta alla ribalta della storia la borghesia nelle sue interne articolazioni: non solo i grandi industriali, ma anche i piccoli borghesi delle città, dediti ad attività terziarie, che diventano massa da educare ai valori dominanti attraverso i giornali ed i modi di vita imposti dal mercato (la belle époque).

Si sviluppano, infatti, anche nuove forme di trasmissione del sapere. Grande importanza assume, in questo senso, la nascita del giornale, cui dedicheranno tempo non solo i cronisti politici ed economici, ma anche letterati, incapaci di vivere con il loro solo lavoro. Essi saranno i protagonisti delle Terze pagine, contenenti i maggiori eventi e riflessioni culturali del periodo.

Ma il giornale è anche il promotore della nascita della letteratura di consumo (feuilleton o romanzo d’appendice, poesie celebrative) che elabora proprie strutture, tali da poter essere fruite dal maggior numero possibile di alfabetizzati. Tipici di questa letteratura sono i romanzi sentimentali e d’avventura (pubblicati a puntate nell’ultima pagina del giornale, e costruiti in modo da attirare l’attenzione del lettore che così ne avrebbe continuato l’acquisto); i primi hanno come punto di riferimento il pubblico femminile educato a valori morali e al rispetto del perbenismo ristretto della mentalità borghese; i secondi hanno invece come utenti il pubblico dei lavoratori degli uffici, desiderosi d’evadere dalla noia d’un mestiere ripetitivo. Essi sono portatori di ideologie vetero-romantiche, d’un nazionalismo esasperato, di una vita fondata sul buonismo ed altruismo, ma soprattutto, con il loro preteso fine di far “sognare”, si pongono in antitesi con l’alta cultura letteraria del momento, che in Europa prende il nome di naturalismo.

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Un’ultima cosa ci sembra corretto analizzare: tale movimento sembra collegarsi in modo netto, tanto da sembrare uno sviluppo, all’Illuminismo: anche lì si dà importanza al sapere, “meccanico”, si pensi all’Encyclopedie. Ciò che li differenzia è l’approccio. Tanto il movimento settecentesco è teorico quanto il Positivismo è “pratico”; quanto il primo mitizza la figura del philosophe, quanto il secondo quello dello scienziato, medico o ingegnere; quanto l’emblema del primo è un’opera monumentale, tanto nel secondo è la Torre Eiffel.

GAIO SALLUSTIO CRISPO

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Notizie biografiche

Del primo storico di cui possediamo gran parte dell’opera, sappiamo poche cose certe di cui la prima è il luogo e la data di nascita: in Sabina ad Amiternum nell’86. Se dovessimo anche dare per certa la data di morte, 35 a.C., potremmo dire che la vita di Sallustio si situi completamente all’interno delle guerre civili.

Nasce quando infuria la guerra tra Silla e Mario in una famiglia, pur di origine plebea, molto ricca ma che mai aveva offerto un magistrato alla città di Roma. Decide, pertanto, d’inviare il giovane a Roma al fine di approfondire gli studi ed avviarsi alla corriera politica. Il momento in cui Sallustio s’affaccia a quelli che i romani chiamano negotia, e che lo porteranno a insidiarsi in Senato con la carica di pretore, Roma era travagliata dagli scontri tra le fazioni di Clodio e Milone, e quindi tra i cesariani ed i pompeiani. Era tribuno della plebe quando il primo venne ucciso e Sallustio prese parte anche con veemenza alle accuse contro Milone e contro chi lo difendeva, Cicerone. Tale scelta non fu senza conseguenze: terminata l’immunità che l’incarico gli permetteva, gli optimates l’accusarono d’immoralità e fu quindi espulso dal Senato (si dice con false accuse). Per poter riacquistare il suo posto non poteva che rivolgersi verso Cesare e i populares, che gli offrì incarichi militari proprio mentre s’accendeva la guerra civile. Qui, pur non senza difficoltà, portò a termine i suoi compiti e alla cessazione delle attività belliche ricevette da Cesare, vincitore su Pompeo, la provincia d’Africa. Come molti suoi “colleghi”, tornò a Roma ricchissimo, tanto da essere accusato de repetundis (ruberie) e con quel denaro d’essersi fatto costruire i famosi Horti Sallustiani, anche se oggi si crede che appartenessero non a lui, ma ai suoi discendenti in epoca augustea. Sembra si sia salvato dall’accusa proprio per mezzo di Cesare, che gli consigliò però d’allontanarsi dalla politica. E proprio in questo otium che il nostro compose le due famosissime monografie storiografiche: il De coniuratione Catilinae e il Bellum Iugurthinum. Sembra che dopo l’esperienza di tale opere abbracciasse anche l’idea di un’opera di più largo respiro, le Historiae, ma la morte lo colse all’improvviso lasciandole interrotte al V libro.

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La monografia 

Sallustio ci offre in entrambe le monografie una lunga introduzione in cui “giustifica” la scelta storiografica come sostitutiva di quella politica, perché le eccessive turbolenze politiche minavano la possibilità di adoperarsi in modo costruttivo per lo Stato. Ma proprio lo storico, in quanto esaminatore di una realtà sia pur passata, può individuare in momenti particolari i nodi che possono chiarire il disordine presente: nel De coniuratione Catilinae l’ambizione personale, il prevalere della brama di ricchezze del Senato e il disfacimento morale; nel Bellum Iugurthinum, periodo precedente a quello di Catilina, come tali sintomi erano stati già presenti nella società e avevano a loro volta costituito il germe della lotta tra Mario e Silla che a loro volta diedero inizio alle guerre civili. Da quanto detto risulta abbastanza chiaro come la storiografia venga intesa da Sallustio come un proseguimento dell’attività politica.

De coniuratione Catilinae

Passati vent’anni, Sallustio decide di rievocare una delle pagine più tragiche della storia romana. L’opera inizia con un lungo proemio in cui, dopo aver filosoficamente sostenuto la superiorità dell’ingegno rispetto al corpo sottolinea come sia degno di gloria giovare allo Stato, sia operando che scrivendo. Quindi descrive la sua delusione della vita politica e il suo allontanamento e il bisogno pertanto di scrivere:

L’ABBANDONO DELLA POLITICA E LA SCRITTURA DELLA STORIA
(4)

Igitur, ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, neque vero agrum colundo aut venando, servilibus officiis, intentum aetatem agere: sed a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat eodem regressus, statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere; eo magis quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat, igitur de Catilinae coniuratione quam verissume potero paucis absolvam: nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate.

Quindi, quando l’animo poté riaversi dopo molte traversie e rischi e decisi di mantenermi per il resto della vita lontano dallo stato, non mi proposi di sprecare il mio prezioso tempo libero nell’apatia e nella pigrizia, e neppure di condurre avanti la mia esistenza cacciando o coltivando i campi, lavori da schiavi; ma stabilii, ritornando allo stesso disegno ed inclinazione, dalla quale la funesta ambizione mi aveva distolto, di narrare a episodi le gesta del popolo romano, secondo che ciascun avvenimento mi sembrava degno di essere ricordato; tanto più che il mio animo era libero dall’attesa, dalla paura, dalla faziosità politica. Quindi tratterò brevemente con la maggior veridicità possibile riguardo alla congiura di Catilina; infatti quell’impresa nefasta sulle prime io stimo memorabile per l’eccezionalità della scelleratezza e del pericolo.
Gaio Sallustio Crispo, Sallustio (incisione)

Si coglie bene in questo testo il passaggio sallustiano dal facere allo scribere, legando i due processi ad una stessa volontà: operare per la rei publicae; ma lo storico non si ferma solo a questa constatazione; infatti aggiunge subito dopo che lui, in quanto libero a spe, metu, partibus rei publicae , cioè da qualsiasi influenza, poteva garantire il massimo dell’imparzialità. Il fatto poi che egli stimi la congiura di Catilina come atto di massima importanza, è perché vede in esso le turbolenze stesse che hanno portato all’uccisione di Cesare.

Dopo la giustificazione sulla sua scelta storiografica, Sallustio ci presenta il protagonista della vicenda:

RITRATTO DI CATILINA
(5)

Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator; alieni adpetens, sui profusus; ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae, neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et coscientia scelerum, quae utraque is artibus auxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Lucio Catilina di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi giovani anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito incredulo, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni; non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. Finito il dispotismo di Silla, fu preso dalla smania d’impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli; quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano due vizi diversi ma parimente funesti, lusso e cupidigia.

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Joseph Marie Vien: La congiura di Catilina

E’ un passo famosissimo nel quale la figura di Catilina si erge nella sua contradditorietà: si guardi la prima espressione nella quale è disegnato come uno con magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque, dove appunto alla forza del corpo e della mente si contrappone, con la particella avversativa, un ingegno malvagio e depravato. E ancora Catilina risulta essere avido delle cose altrui, ma generoso verso gli altri, eloquente, ma poco giudizioso: l’arte della contrapposizione infatti sembra scavare nel personaggio e a far sì che un uomo così non poteva non arrivare che alla sedizione. Ma un uomo è così, sembra dirci Sallustio, perché così è l’ambiente in cui egli è vissuto e si è formato.

Proprio l’ambiente lo spinge a richiamare le antiche virtù, virtù che si sono perse dopo la guerra con Cartagine:

ORIGINI DELLA DECADENZA DELLA REPUBBLICA
(10)

Sed ubi labore atque iustitia res pubblica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Chartago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. Namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aextumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

Ma quando la repubblica si fu ingrandita col lavoro e la giustizia, quando i grandi re furono domati con la guerra, quando le nazioni selvagge e tutti i popoli furono sottomessi con la forza, quando Cartagine rivale dell’Impero Romano fu distrutta alla radice e quando ormai erano aperti tutti i mari e le terre, la sorte cominciò a infuriare e a mettere sottosopra tutte le cose. Coloro i quali avevano tollerato facilmente lavori pesanti, pericoli, situazioni aspre e dubbie, proprio a loro in altri momenti l’ozio e le ricchezze furono di peso e di rovina. Dunque per prima cosa crebbe il desiderio di ricchezze e quindi quello del potere; queste cose per così dire furono l’origine di tutti i mali. Ed infatti l’avidità sovvertì la fiducia, l’onestà e tutte le altre qualità del comportamento; al posto di queste si insegnò la superbia, la crudeltà, a rinnegare gli dei e ad avere tutto come oggetto di prezzo. L’ambizione spinse molti mortali a diventare disonesti, ad avere una cosa chiusa nel cuore ed un’altra manifesta sulla lingua, a stimare amicizie ed inimicizie non dai fatti ma dai vantaggi e a reputare migliore l’aspetto esteriore dell’intelligenza. Queste cose sulle prime incominciarono a crescere a poco a poco e talora ad essere vendicate; ma dopo, quando la contaminazione si estese quasi come una pestilenza, la città mutò e l’impero da giustissimo e ottimo divenne crudele ed intollerante.

E’ in questo passo adombrata quella teoria, che verrà pienamente ripresa poi nel Bellum Iugurthinum del metus hostilis (paura dello straniero). Fintanto che il popolo poteva trovare unità in un nemico comune, alla cessazione di esso primo pecuniae deinde imperi cupido crevit, dapprima crebbe il desiderio del denaro, quindi del potere e in questo binomio perverso l’ambizione personale e quindi la tirannia di Silla con esiti spaventosi.

Si guarda quindi ai compagni di Catilina, molti giovani e persone insoddisfatte, scialacquatori, nobili decaduti. Con essi il nostro farà una riunione preparatoria. Quindi ci viene presentato, attraverso un excursus, un primo tentativo di colpo di Stato di Catilina e il suo fallimento. Si torna all’attualità con un drammatico discorso di Catilina ai suoi compagni, in cui si descrivono le condizioni miserevoli dei ceti impoveriti:

DAL DISCORSO DI CATILINA
( dal 20)

Nam postquam res publica in paucorum potentium ius atque dicionem concessit, semper illis reges tetrarchae vectigales esse, populi nationes stipendia pendere; ceteri omnes, strenui boni, nobiles atque ignobiles, volgus fuimus sine gratia, sine auctoritate, iis obnoxii, quibus, si res publica valeret, formidini essemus. Itaque omnis gratia potentia honos divitiae apud illos sunt aut ubi illi volunt; nobis reliquere pericula repulsas iudicia egestatem. Quae quo usque tandem patiemini, o fortissumi viri? Nonne emori per virtutem praestat quam vitam miseram atque inhonestam, ubi alienae superbiae ludibrio fueris, per dedecus amittere?

Infatti, dopo che la Repubblica è caduta nel pieno potere di pochi potenti, è a loro che re e tetrarchi pagano i loro tributi, popoli e nazioni pagano l’imposta; tutti noialtri, valorosi, prodi, nobili e non nobili, siamo stati volgo, senza credito, senza autorità, asservito a padroni ai quali, se lo Stato valesse, avremmo incusso paura. Così tutto il credito, la potenza, l’onore, le ricchezze, sono presso di loro o dove essi desiderano; a noi hanno lasciato le ripulse, i pericoli, i processi, gli stenti. Fino a che punto, o valorosi, sopporterete ciò? Non è preferibile morire coraggiosamente, piuttosto che perdere una vita misera e senza onore, dopo essere stati ludibrio dell’altrui potenza?

E’ chiaro che qui si tratta di un piccolo estratto di un bel più ampio discorso di Catilina rivolto ai suoi seguaci: attenzione, non di un vero e proprio discorso del rivoluzionario, ma oratio huiusce modi (un discorso di questo tenore). Tuttavia che il discorso di Catilina adombri anche l’ideologia di Sallustio è fuor di dubbio: quando lo storico parla di una concentrazione in poche mani delle ricchezze e di quell’ambizione che ha ucciso il mos maiorum, portando all’individualismo. In altre parti del discorso, infatti, viene toccato anche il tema dei debiti: anche Cesare tentò, in modo estremamente moderato di risolverlo (Catilina voleva, invece, scrivere tabulae novae, ripartire da zero nei registri). Ma non fu ascoltato e si ebbe paura del suo piccolo passo. La responsabilità del disordine è proprio nelle mani paucorum potentium.

L’opera prosegue con la delazione di Fulvia, amante di un congiurato. Gli aristocratici, tramite Cicerone, riescono a sconfiggerlo e a farlo fuggire. Catilina cerca di radunare a sé più uomini possibili ed anche donne nobili, come Sempronia:

SEMPRONIA
(25)

Sed in iis erat Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora commiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro atque liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis et Latinis docta, psallere, saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret, haud facile discerneres; lubido sic accensa, ut saepius peteret viros quam peteretur. Sed ea saepe antehac fidem prodiderat, creditum abiuraverat, caedis conscia fuerat; luxuria atque inopia praeceps abierat. Verum ingenium eius haud absurdum; posse versus facere, iocum movere, sermone uti vel modesto vel molli vel procaci; prorsus multae facetiae multusque lepos inerat.

Faceva parte del gruppo Sempronia, una donna: ma aveva compiuto più volte azioni temerarie più di un uomo. La fortuna le aveva dato tutto: la nascita, la bellezza, il marito, i figli; era istruita in letteratura greca e latina, cantava e suonava con grazia, più che non sia necessario a una donna onesta; e sapeva fare molte altre cose che sono incentivi alla lussuria. Il pudore, la dignità erano l’ultima cosa per lei; non avresti potuto dire a che cosa tenesse di meno, se al denaro o al buon nome; lussuriosa tanto da sollecitare gli uomini prima d’esser richiesta; di regola mancava di parola, non pagava i debiti e le era accaduto persino di esser complice di delitti; la depravazione, il bisogno, l’avevano fatta scendere sempre più in basso. Eppure non mancava d’intelligenza, componeva versi e battute di spirito, sapeva esprimersi con modestia, con garbo o con sfrontatezza; possedeva, infine, una buona dose d’umorismo.

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Il busto di una Sempronia romana

Che Sempronia non sia un personaggio di spicco nella congiura ce lo dice il fatto che nessun’altra fonte la nomini; che attraverso lei Sallustio mostri il grado d’indipendenza delle donne romane e la loro versatilità culturale viene rivelato da come lo storico inquadri il vizio in mezzo alle virtù; che Sempronia, come la Clodia catulliana, presentataci in modo negativo da Cicerone, appartenga alla femme fatale della Roma tardo repubblicana ce lo afferma quel po’ di “livore” con cui lo storico sottolinea le sue azioni “temerarie più di un uomo”. Ma ad emergere è sempre l’arte del ritratto, che, come quello di Catilina, è giocato sulle contrapposizioni e fanno di questa figura femminile un personaggio estremamente vivo.

L’opera prosegue con la prima accusa pubblica di Cicerone e la fuga di Catilina, che lascia in città i suoi luogotenenti, mentre si finge, attraverso una lettera, innocente e in volontario esilio a Marsiglia. Ma in realtà si dirige in Etruria, dove lo aspettano altri congiurati. Quindi Sallustio apre una parentesi sulla ricerca del favore popolare che l’azione rivoluzionaria stava mietendo e riprende la narrazione con il tentativo d’accordo fra i congiurati e i Galli. Questi ultimi, tuttavia, rivelano tutto a Cicerone, che fa arrestare i maggiori catilinari rimasti in città. Si procede al processo: si propone la pena di morte: Cesare dichiara di essere contrario e invita ad attenersi alla più stretta legalità, ricordando le persecuzioni sillane; Catone propone invece l’uccisione per la pericolosità che essi presentano per la sopravvivenza della repubblica:

CESARE E CATONE
(dal 54)

Igitur iis genus aetas eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic severitas dignitatem addiderat. Caesar dando sublevando ignoscundo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur.

Dunque essi furono quasi uguali per nascita, per età, per eloquenza; pari la grandezza d’animo, e anche la gloria, ma di qualità differente. Cesare era stimato grande per liberalità e magnificenza, Catone per integrità di vita. Il primo si era fatto illustre con l’umanità e l’inclinazione alla pietà, al secondo aveva aggiunto dignità il rigore. Cesare aveva acquistato gloria con il denaro, con il soccorrere, con il perdonare, Catone con il nulla concedere. L’uno era il rifugio degli sventurati, l’altro la rovina dei malvagi. Del primo era lodata l’indulgenza, del secondo la fermezza.

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Catone l’Uticense

Ci troviamo ancora nell’arte del ritratto, questa volta doppio, dove questo è naturalmente derivato dalla presenza di ben due personaggi: ma se il primo è connotato da sostantivi che rimandano all’estrinsecazione di sé, l’altro ci viene presentato con un vocabolario attento a sottolinearne la chiusura, che non vuol dire negazione, ma pudore. Sallustio ancora una volta si mostra gran maestro nel saper elaborare ritratti con una perfetta rispondenza stilistica.

L’opera volge alla fine: i congiurati vengono strangolati, mentre Catilina dispone il suo esercito presso Pistoia. Ha inizio lo scontro, con la vittoria dell’esercito romano: Ma i congiurati e Catilina stesso riscattano la loro vita con una morte eroica.

LA MORTE DI CATILINA
(dal 60)

Interea Catilina cum expeditis in prima acie vorsari, laborantibus succurrere, integros pro sauciis arcessere, omnia providere, multum ipse pugnare, saepe hostem ferire: strenui militis et boni imperatoris officia simul ex equebatur. Petreius ubi videt Catilinam, contra ac ratus erat, magna vi tendere, cohortem praetoriam in medios hostis inducit eosque perturbatos atque alios alibi resistentis interficit. Deinde utrimque ex lateribus ceteros adgreditur. Manlius et Faesulanus in primis pugnantes cadunt. Catilina postquam fusas copias seque cum paucis relictum videt, memor generis atque pristinae suae dignitatis in confertissumos hostis incurrit ibique pugnans confoditur.

Catilina nel frattempo, con la truppa leggera, imperversa in prima linea, soccorre quelli in difficoltà, rimpiazza i feriti con truppe fresche, provvede a tutto, si batte egli stesso con vigore, spesso colpisce il nemico; eseguiva insieme il dovere di un soldato coraggioso e di un buon condottiero. Petreio, quando vede che Catilina, contrariamente a quel che aveva creduto, combatteva con grande energia, lancia la coorte pretoria contro il centro dei nemici, e massacra quelli che riesce a scompigliare e che cercavano di resistere altrove; poi attacca gli altri da entrambi le parti. Manlio e il Fiesolano cadono tra i primi combattendo. Catilina, quando vide le sue truppe in rotta e se stesso rimasto con pochi uomini, memore della sua stirpe e della passata dignità, si getta dove i nemici erano più folti e ivi lottando è trafitto.

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Alcide Segoni: Il ritrovamento del corpo di Catilina

La fine della lettura dell’opera ci permette di cogliere alcuni aspetti fondamentali, sia ideologici che stilistici:

  • per il primo ci sembra corretto dire che, benché venga sottolineata l’ingiustizia “politica” della scelta catilinaria, ciò non può essere isolata dal contesto altrettanto ingiusto di una classe politica chiusa in se stessa a difesa dei suoi privilegi. Sallustio, è qui sta il suo esser stato cesariano, si mostra un “moderato riformista”;
  • la ripresa, anch’essa ideologica, della tradizione del mos maiorum che l’avidità aristocratica e la demagogia cui si rivolgeva al popolo aveva ucciso; ciò vuol dire riprendere lo stile di chi si era fatto di questa tradizione paladino, Catone il Censore. Per questo l’opera cerca d’imitarne lo stile, riprendendone vocaboli che, al tempo di Sallustio, erano ormai considerati arcaici (arcaismo).

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Youcef Koudil: Giugurta, combattente per la libertà

Bellum Iugurthinum

La seconda monografia di Sallustio ci presenta un passato storico meno recente rispetto alla congiura di Catilina. Sembra quasi che l’autore, una volta comprese le ragioni di una conflittualità sociale il cui atto sedizioso del nobile romano era stato il frutto, volesse maggiormente scavare nell’incipit di questa conflittualità tra gli Ottimati e i Popolari, e tale inizio non poteva che essere visto all’origine della lotta tra Mario e Silla. Infatti la guerra numidica permette al nostro di mettere a nudo la crisi morale e il decadimento della classe nobiliare romana.

Anche quest’opera inizia con un introduzione in cui Sallustio analizza la grandezza e l’atrocità della guerra, ma anche come essa sia diventata cruciale per le lotte sociali dell’ultimo secolo della repubblica romana. All’introduzione segue il ritratto di Giugurta:

RITRATTO DI GIUGURTA
(6)

Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio validus, non se luxu neque inertiae corrumpendum dedit, sed, uti mos gentis illius est, equitare, iaculari; cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; ad hoc pleraque tempora in venando agere, leonem atque alias feras primus aut in primis ferire: plurimum facere, minimum ipse de se loqui. Quibus rebus Micipsa tametsi initio laetus fuerat, existimans virtutem Iugurthae regno suo gloriae fore, tamen, postquam hominem adulescentem exacta sua aetate et parvis liberis magis magisque crescere intellegit, vehementer eo negotio permotus multa cum animo suo volvebat. Terrebat eum natura mortalium avida imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem, praeterea opportunitas suae liberorumque aetatis, quae etiam mediocris viros spe praedae transversos agit, ad hoc studia Numidarum in Iugurtham accensa, ex quibus, si talem virum dolis interfecisset, ne qua seditio aut bellum oriretur, anxius erat.

Costui, divenuto un giovane prestante e di bell’aspetto, ma soprattutto ragguardevole per intelligenza, non si lasciò corrompere dai piaceri e dall’ozio, ma, secondo gli usi della sua gente, cavalcava, lanciava il giavellotto, gareggiava con i coetanei nella corsa: e, benché eccellesse su tutti, a tutti, nondimeno, era caro. Dedicava, inoltre, la maggior parte del suo tempo alla caccia, era il primo o fra i primi a colpire il leone e simili fiere: quanto più agiva, tanto meno parlava di sé. Dapprima Micipsa era stato lieto di tutto questo, pensando che dal valore di Giugurta sarebbe venuta gloria al suo regno; tuttavia, vedendo il prestigio di quel giovane aumentare sempre più, mentre lui era già anziano e i suoi figli ancora piccoli, cominciò a preoccuparsi gravemente di tale fatto, rivolgendo in sé mille pensieri. Lo atterriva la natura umana, avida di potere e pronta a soddisfare le proprie passioni, e inoltre l’opportunità della sua età e di quella dei suoi figli, adatta a traviare, con la speranza di un facile successo, anche gli uomini meno ambiziosi; lo atterriva, infine, il forte affetto dei Numidi per Giugurta, che gli faceva temere l’insorgere di una rivolta o di una guerra civile, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo.

Sallustio con il ritratto di Giugurta ci presenta un altro grande personaggio, anch’esso votato, come il suo predecessore Catilina, al male. Tuttavia è forte la differenza tra lui e il romano: quest’ultimo infatti veniva costruito attraverso una opposizione che ne rivelava la duplicità; in Giugurta invece l’autore ne mette in luce l’evoluzione. Infatti il giovane è escluso dalla successione perché figlio di una concubina; ma gli atti, che egli svolge in modo così naturale, ne fanno già un capo: la forza e la riservatezza. Sarà facile per i romani, per cui omnia venalia esse, corromperlo.

Quindi il racconto prosegue con la morte di Iempsale e la fuga di Aderbale, figli di Micipsa con cui Giugurta avrebbe dovuto condividere il regno. Il legittimo erede si rivolge ai Romani per chiedere giustizia, che rispondono con una soluzione compromissoria: la divisione in due del regno. Ma Giugurta vuole l’intero potere e cerca di conquistarselo con il denaro; corrompe alcuni nobili, assedia Aderbale nella suo parte di territorio e uccide alcuni cittadini italici che lì si trovavano e ne avevano preso le difese. Il Senato, temendo la reazione popolare, manda dapprima Lucio Calpurnio Bestia, che si lascia tuttavia corrompere. Ciò provoca ancora una forte indignazione presso il popolo romano: viene quindi convocato Giugurta a dare ragione del suo comportamento, ma ancora comprandosi alcuni nobili, riesce a non essere accusato e uccide anche un Numida presente al processo, nipote di Massinissa e quindi pretendente il trono. Viene mandato un altro console in Africa, ma questi preferisce farsi sostituire dal fratello. All’inconcludenza della classe nobiliare, alla fine si risponde con un atto che dovrebbe risolvere la situazione. Viene mandato adesso un uomo integerrimo, tale Metello. Al suo fianco un provinciale Mario, che aspira al consolato.

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Busto di Gaio Mario

MARIO
(63, 2)

At illum iam antea consulatus ingens cupido exagitabat, ad quem capiendum praeter vetustatem familiae alia omnia abunde erant: industria, probitas, militiae magna scientia, animus belli ingens domi modicus, libidinis et divitiarum victor, tantummodo gloriae avidus. 

Da tempo un’ambizione divorava Mario, quella di diventare console. Possedeva largamente tutte le doti necessarie all’infuori di una, l’antico lignaggio; aveva solerzia, rettitudine, grande preparazione militare, spirito indomito in guerra, moderato in pace; dominava le tentazioni dei sensi e della ricchezza, ed era avido di una sola cosa: la gloria.

In questo brevissimo frammento cogliamo un fatto di per sé significativo, di cui ci dicono il sostantivo cupido (ambizione, ma anche bramosia) e l’aggettivo avidus (avido, desideroso ma anche bramoso), ambedue riferiti a Mario. Qui Sallustio dimostra come anche lo sfrenato desiderio del potere politico e, collegato ad esso la gloria, può veramente dare due esiti: o quello catilinario (ambitio sine lege) o quello di Mario, che tuttavia non sarà risparmiato dalla sconfitta.

L’opera continua con Mario che vorrebbe rientrare a Roma per la sua candidatura, ma ciò provoca un forte deterioramento tra Metello e Mario stesso. Giugurta risponde alleandosi con un altro re africano, Bocco. Intanto il senato affida l’intero compito della guerra a Mario. Le vittorie di quest’ultimo spingono il re della Mauritania Bocco a staccarsi da Giugurta. Intanto arrivano i rinforzi da Roma, guidati da Silla.

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Ritratto di Lucio Silla

SILLA
(95, 3-4)

Igitur Sulla gentis patriciae nobilis fuit, familia prope iam extincta maiorum ignavia, litteris Graecis atque Latinis iuxta atque doctissimi eruditus, animo ingenti, cupidus voluptatum, sed gloriae cupidior; otio luxurioso esse, tamen ab negotiis numquam voluptas remorata, nisi quod de uxore potuit honestius consuli; facundus, callidus et amicitia facilis, ad simulanda negotia altitudo ingeni incredibilis, multarum rerum ac maxime pecuniae largitor. Atque felicissumo omnium ante civilem victoriam numquam super industriam fortuna fuit, multique dubitavere, fortior an felicior esset. Nam postea quae fecerit, incertum habeo pudeat an pigeat magis disserere.

Silla apparteneva a nobile stipe patrizia, d’un ramo però quasi estinto per la mediocrità dei suoi. Di letteratura greca e latina ne sapeva quanto un erudito; era un uomo ambiziosissimo, avido di piacere ma ancor più di gloria; dedicava il tempo libero alla lussuria, ma pure la voluttà non gli fece mai trascurare i suoi impegni: soltanto il suo comportamento verso la moglie avrebbe potuto essere più onesto. Eloquente, astuto, amabile, d’una capacità di simulazione incredibile addirittura, era prodigo di molte cose, ma soprattutto di denaro. Pure essendo stato il più fortunato di tutti, prima delle sue vittorie nelle guerre civili, non è che abbia avuto maggior fortuna di quanta ne abbia meritata: si sono chiesti in molti s’egli fosse più forte o più favorito dalla sorte: quanto alle azioni che compì poi, non so se a parlarne si provi più vergogna o disgusto.

Ancora un ritratto significativo, dove sempre troviamo le solite parole chiave, come cupidus, desideroso. Tuttavia, in un’opera in cui a essere colpevolizzati, più che Giugurta, sono i nobili romani, veri responsabili, egoisticamente chiusi nel loro privilegio, un uomo che da lì discendeva non poteva, anche da Sallustio, essere giustificato. Infatti ricomincia qui una certa ambiguità descrittiva: Silla è doctissimus, prodigus, ma anche luxuriosissimus e non honestus de uxorem, cioè difetti che minano in profondità il mos maiorum da cui è cominciata la decadenza della repubblica.

L’opera si conclude con Giugurta che, accordatosi segretamente con Bocco, attacca all’improvviso, ma viene respinto. Sarà l’atteggiamento assolutamente opportunistico dell’alleato di Giugurta a consegnare, infine quest’ultimo, ai Romani.

Quest’opera, rispetto alla precedente si presenta in modo più complesso, proprio perché se, pur con differenze anche notevoli, equanime poteva essere il giudizio negativo su Catilina, diverso è il discorso quando tale giudizio riguarda una parte della società romana: se infatti non ha torto nel criticare la nobiltà corrotta, ha altrettanto torto nel non nominare mai quella parte di nobiltà che corrotta non era, e lo stesso dicasi del popolari. Per meglio dire il suo giudizio politico, pur essendo l’episodio databile una cinquantina d’anni successivo, ancora risente del ribollente clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare.

Historiae

L’ultima grande opera di Sallustio avrebbe dovuto essere, appunto, un libro ben più ampio dei precedenti, in cui l’autore si sarebbe proposto di analizzare con più vasto respiro le cause della sua contemporaneità. La morte ne impedì il completamento, ma di essa ci rimangono alcuni stralci, fra i quali alcuni discorsi diretti. Ciò che è pervenuto ci offre una visione piuttosto cupa, in cui ci rendiamo conto come l’intero discorso sallustiano si basi proprio su una concezione pessimistica dell’uomo, le cui pulsioni, siano esse alte o basse, hanno sempre il predominio sulla ragione. Ma saranno proprio esse a fare, nel bene o nel male, la storia, secondo una concezione sempre eroica.

 

PUBLIO OVIDIO NASONE

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Publio Ovidio Nasone

Ovidio, pur non essendo nato a Roma, rappresenta nell’imbrunire della cultura augustea, meglio di qualsiasi altro autore, ciò che Roma era diventata per eleganza e modus vivendi. Egli infatti si può definire come il portavoce di quell’urbanitas che si era imposta tra la società ricca e che, nonostante i divieti imperiali, fa bella mostra di sé nella Capitale dell’Impero e del Mondo. Egli può farlo perché a sopraintendere la sua capacità descrittiva vi è soprattutto la sua straordinaria perizia retorica che gli permette di versificare su tutto con estrema semplicità. Nemmeno la sua relegazione verso Tomi sul mar Rosso lo fermerà: continuerà a scrivere versi in qualsiasi situazione e, se cambierà dai toni leggeri a quelli più profondi, non cambierà il suo atteggiamento che fa della poesia l’unica vera forma di realtà.

Biografia

Publio Ovidio Nasone nasce nel 43 a. C. da una famiglia equestre a Sulmona, in Abruzzo. Educato dai migliori maestri, studia a Roma dove sin da giovanissimo si dedica all’attività letteraria. Legatosi all’ambiente di Messalla Corvino, raggiunse una vastissima notorietà dapprima con la tragedia Medea e quindi con i primi componenti di poesia elegiaca: gli Amores.

Con l’Ars amatoria il suo successo raggiunse l’apice, tanto da far sì che egli si considerasse al di là delle attenzioni etiche e culturali di Augusto. Con molta probabilità proprio mentre stava lavorando ad opere d’impianto maggiormente elevato e quando, finalmente, aveva raggiunto una certa quiete psicologica con la sua terza moglie, nell’8 a. C. gli fu ingiunto di lasciare Roma per Tomi, luogo sperduto, sulle rive del Mar Nero. Non sappiamo perché venne relegato (non esiliato: infatti l’essere relegato non includeva l’espropriazione dei beni); egli ci dice per carmina et error: probabilmente per carmina allude all’Ars amatoria la cui “licenziosità” poteva risultare sgradita alla politica moralizzatrice di Augusto; per error probabilmente perché aveva aiutato la nipote di Augusto, Giulia minore, a realizzare una tresca amorosa contro il marito, motivo per cui venne anch’ella relegata dal nonno (relegatio avvenuta nello stesso anno). Inutili furono i tentativi di rientrare a Roma. Neppure con l’avvento di Tiberio il suo tentativo ottenne l’esito sperato. Morì, appunto, a Tomi, il 17 d. C.

Il corpus delle opere
Ovidio fu un autore alquanto prolifico.

Tra le poesia elegiache ricordiamo:

  • Amores: elegia amorosa;
  • Heroides: lettere di donne del mito ai loro amanti lontani; a queste si aggiungono, scritte in età posteriore, tre epistole doppie (scritte da uomini a donne amate, con relativa risposta):
  • Ars amatoria: tecnica dell’amore, i primi due dedicati agli uomini e l’ultimo alle donne;
  • Remedia amoris: gli antidoti all’amore (rivolto ai delusi d’amore)
  • Medicamenta faciei feminae: i segreti della cosmesi femminile

Poesia epica:

  • Le Metamorfosi

Poesia eziologica:

  • I Fasti (interrotti per via dell’esilio)

Poesia dell’esilio:

  • Tristia: poesia elegiaca in forma epistolare in cui l’autore esprime la sua tristezza e angoscia per l’allontanamento da Roma;
  • Epistulae ex Ponto: segue lo schema dell’opera precedente;
  • Ibis: poemetto ingiurioso attraverso cui si scaglia contro un personaggio di cui non conosciamo il nome che sparge nuove accuse nei suoi confronti.

Amores

Ovidio esordisce sulla scena letteraria con una raccolta di poesie di genere elegiaco in cinque libri; tale opera sarà quindi rivista dall’autore stesso molto più tardi, nell’1 circa d. C., che la ridurrà in tre libri ed è in questa versione che è giunta sino a noi.

Egli riprende i temi tipici che ormai erano diventati classici della poesia elegiaca: l’amore verso una donna (qui Corinna), i tradimenti e la gelosia, il servitium amoris, e via dicendo. In Ovidio, tuttavia, tale repertorio appare estremamente più sfumato e virato decisamente verso l’ironia; si pensi all’episodio in cui, secondo il costume del tempo, esprime la sua recusatio per una poesia più impegnata:

INSOLITA RECUSATIO
(I, 1 , 1-4)

Arma gravi numero violentaque bella parabam
edere, materia conveniente modis.
Par erat inferior versus; risisse Cupido
dicitur atque unum surripuisse padem.

Mi accingevo a cantare con ritmo solenne le armi e le violente / guerre, argomento adattatato alla cadenza del metro. / Uguale il secondo verso al primo; si dice che Cupido / abbia sorriso e sottratto ad esso un piede.

Il poeta si trova quindi di fronte ad un distico elegiaco e pertanto non può che seguire la poesia elegiaca, caratterizzata per l’appunto da questo verso.

Vari sono gli elementi che conducono a pensare la poesia degli Amores ovidiani più come un frutto letterario col quale giocare più che come il rispecchiamento (pur con i limiti che abbiamo visto) di una storia possibilmente reale. La figura della donna è piuttosto eterea, non riusciamo a coglierla né fisicamente né psicologicamente; le contraddizioni del poeta che una volta dichiara di amare solo lei e poi afferma che gli piacciono tutte le donne; il dolore per il tradimento di lei e, nell’elegia successiva, raccomandazione alla serva che è stata con lui di non farsene accorgere, ci dice che tale poesia è un divertissement giocato all’interno del genere.

Tale aspetto ci fa godere un’elegia come questa, che avrà così tanta fortuna che ci ricorda un po’ l’aria del Don Giovanni di Mozart, Il catalogo è questo e perché no, una vecchia canzone battistiana, Dieci ragazze:

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Donne romane dalla Villa dei Misteri a Pompei

OGNI DONNA MI FA SOSPIRAR
(II, 4, 9-32)

Non est certa meos quae forma invitet amores?
centum sunt causae, cur ego semper amem.
sive aliqua est oculos in humum deiecta modestos,
uror, et insidiae sunt pudor ille meae;
sive procax aliqua est, capior, quia rustica non est,
spemque dat in molli mobilis esse toro.
aspera si visa est rigidasque imitata Sabinas,
velle, sed ex alto dissimulare puto.
sive es docta, places raras dotata per artes;
sive rudis, placita es simplicitate tua.
est, quae Callimachi prae nostris rustica dicat
carmina?cui placeo, protinus ipsa placet.
est etiam, quae me vatem et mea carmina culpet?
culpantis cupiam sustinuisse femur.
molliter incedit?motu capit; altera dura est?
at poterit tacto mollior esse viro.
haec quia dulce canit flectitque facillima vocem,
oscula cantanti rapta dedisse velim;
haec querulas habili percurrit pollice chordas?
tam doctas quis non possit amare manus?
illa placet gestu numerosaque bracchia ducit
et tenerum molli torquet ab arte latus?
ut taceam de me, qui causa tangor ab omni,
illic Hippolytum pone, Priapus erit!

Non una bellezza stabilita eccita i miei amori: / cento le cause del mio amore ininterrotto. / Se una ha gli occhi modesti rivolti a terra, / ne brucio: è quel suo pudore che m’insidia. / Se un’altra è provocante, mi affascina perché non è ingenua, / e promette di sapersi muovere nel morbido letto. / Se è parsa intrattabile e rigida, somigliante alle Sabine, penso / che provi desiderio ma dissimuli nel profondo del cuore. / Se sei istruita, mi piaci per questa dote di rare qualità; / grezza, mi sei piaciuta per la tua semplicità. / V’è quella che dice rozzi i carmi di Callimaco / al confronto dei miei: subito mi piace quella cui piaccio. / Un’altra mi riprova come poeta, e critica i miei versi: / di chi mi critica ardo sostenere la coscia sulla mia. / Se incede mollemente, m’innamora del suo passo. / Un’altra è dura, potrà ammorbidirsi al contatto dell’uomo. / A quella che canta dolcemente e con facilità gorgheggia, / vorrei strappare baci mentre canta. / Questa percorre con abile pollice le risonanti corde / Chi potrebbe non amare mani così esperte? / Quella mi piace per i suoi gesti e muove ritmicamente le braccia / e curva con molle arte il tenero fianco; / per tacere di me che stimolano tutte le cause, / metti lì Ippolito, subito diventerà Priamo!

Il passo ovidiano, posto nel secondo libro dell’opera gli Amores, mostra come, di fronte a tale testo, siano completamente “bugiardi” i pretesi turbamenti amorosi verso Corinna. Egli qui si fa sbandieratore dei suoi mendaces mores, (corrotti costumi), ma più che provare per essi rabbia e risentimento, sembra sbandierarli con divertita ironia offrendoci un quadro assai variegato delle capacità seduttive femminili. Ma a maggior conferma di tale discorso, non possiamo esimerci dal sottolineare il riferimento mitico: Ippolito, infatti, è il protagonista di una tragedia euripidea, dove la castità del protagonista lo condurrà all’ingiusta morte. A contrapporsi a lui, Ovidio evoca Priapo e, naturalmente, non c’è alcun bisogno che si sottolinei quale sia la sua caratteristica.

D’altra parte la vis ironica si misura anche nel rovesciamento un po’ blasfemo tra il massimo del negotium per un uomo romano (bellum) al peggiore dell’otium (Amor, in Ovidio, spesso, licentia). Il tema non è nuovo, ma Ovidio lo sviluppa per l’intera elegia, nobilitandolo con esempi mitici:

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Trasmissione manoscritta dell’opera ovidiana degli “Amores”

L’AMANTE E’ UN SOLDATO
(I, 9, vv. 1-20)

Militat omnis amans, et habet sua castra Cupido;
Attice, crede mihi, militat omnis amans.
Quae bello est habilis, Veneri quoque convenit aetas.
turpe senex miles, turpe senilis amor.
Quos petiere duces annos in milite forti,
hos petit in socio bella puella viro.
Pervigilant ambo; terra requiescit uterque:
ille fores dominae servat, at ille ducis.
Militis officium longa est via; mitte puellam,
strenuus exempto fine sequetur amans.
ibit in adversos montes duplicataque nimbo
flumina, congestas exteret ille nives,
nec freta pressurus tumidos causabitur Euros
aptave verrendis sidera quaeret aquis.
Quis nisi vel miles vel amans et frigora noctis
et denso mixtas perferet imbre nives?
Mittitur infestos alter speculator in hostes;
in rivale oculos alter, ut hoste, tenet.
Ille graves urbes, hic durae limen amicae
obsidet; hic portas frangit, at ille fores.

Ogni amante è un soldato e Cupido ha i suoi accampamenti; / Attico, credimi, ogni amante è un soldato. / L’età adatta alla guerra, conviene anche all’amore; / turpe un soldato vecchio, turpe un amore senile. / Gli anni che richiedono i comandanti in un forte soldato, / li chiede una donna bella nell’uomo che le si accompagna. / Vegliano entrambi; l’uno e l’altro riposano in terra: / l’uno è a guardia della porta della donna, l’altro / del comandante. Ufficio del soldato i lunghi viaggi: allontana / la donna, l’irriducibile amante la seguirà dovunque, / attraverserà i moti che gli si oppongono, i fiumi gonfiati / dalle piogge burrascose, calpesterà i cumuli di neve. / E nel mettersi in mare non prenderà a scusa gli Euri impetuosi, / non aspetterà le stelle favorevoli al solcare le acque. / Chi se non un soldato o un amante sopporterà i geli / della notte e le nevi miste a pioggia? / L’uno si manda a spiare il minaccioso nemico, / l’altro tiene lo sguardo sul rivale come su un nemico. / Quello assedia le grandi città, questo la porta / dell’amica ostinata. Quello infrange la porta delle mura, / questo la porta di una casa.

Il rovesciamento attuato dal poeta è divertito: se il soldato deve mostrare tutte le sue doti di coraggio, sprezzo del pericolo, volontà indomita nel vincere il nemico, le stesse virtù deve possedere l’amante. Se anche precedentemente la poesia elegiaca aveva parlato della militia amoris, Ovidio porta alle estreme conseguenze lo stesso concetto, con spirito fortemente divertito e anticonformista.

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Rubens: Schizzo preparatorio per il suo Cupido

Ars amatoria, Remedia amoris, Medicamenta faciei femineae

Nell’ottava elegia del primo libro degli Amores, vi è una vecchia ruffiana, Dipsas, che dispensa consigli d’amore ad una pulchra puella, su come affrontare i suoi affabili spasimanti.

Si può considerare quest’elegia come il passaggio tra la prima opera elegiaca e le cosiddette opere precettistiche, in cui, al contrario di Tibullo e Properzio che si scagliano con veemenza contro le ruffiane, si fa egli stesso “maestro” e dispensatore di consigli su temi squisitamente erotici.

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Coppia romana

Nel primo, e più famoso, di essi, Ars amatoria (o Ars amandi), Ovidio insegna nel primo libro agli uomini dove ed in che modo conquistare le donne, nel secondo come conservare l’amore; il terzo, aggiunto posticipatamente per risarcire il sesso femminile, insegna alle donne come conquistare gli uomini.

DOVE “RIMORCHIARE” LE DONNE
(I, 89-99; 135-152)

Sed tu praecipue curvis venare theatris:
haec loca sunt voto fertiliora tuo.
Illic invenies quod ames, quod ludere possis,
quodque semel tangas, quodque tenere velis.
Ut redit itque frequens longum formica per agmen,
granifero solitum cum vehit ore cibum,
aut ut apes saltusque suos et olentia nactae
pascua per flores et thyma summa volant,
sic ruit ad celebres cultissima femina ludos:
copia iudicium saepe morata meum est.
Spectatum veniunt, veniunt spectentur ut ipsae
….
Nec te nobilium fugiat certamen equorum.
multa capax populi commoda Circus habet.
Nil opus est digitis, per quos arcana loquaris,
nec tibi per nutus accipienda nota est:
proximus a domina, nullo prohibente, sedeto,
Iunge tuum lateri qua potes usque latus.
Et bene, quod cogit, si nolis, linea iungi,
quod tibi tangenda est lege puella loci.
Hic tibi quaeratur socii sermonis origo,
et moveant primos publica verba sonos:
«Cuius equi veniant», facito studiose requiras:
nec mora, quisquis erit, cui favet illa, fave.
At cum pompa frequens caelestibus ibit eburnis,
tu Veneri dominae plaude favente manu.
Utque fit, in gremium pulvis si forte puellae
deciderit, digitis excutiendus erit.
Etsi nullus erit pulvis, tamen excute nullum:
quaelibet officio causa sit apta tuo.

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La corsa dei cavalli

Ma tu andrai a caccia soprattutto a teatro, sulle ricurve gradinate: /  il raccolto, in quei luoghi, è superiore a ogni speranza. / Potrai trovare amori ed avventure, / conquiste passeggere o più durevoli legami. / Come le formiche vanno avanti e indietro gremite in lunga fila, / quando col grano in bocca portano il loro cibo / o come le api, sparse sui declivi o sui campi profumati, / volano di fiore in fiore o sopra il timo, / così tutte eleganti corrono le donne in frotta agli spettacoli affollati: / e l’abbondanza ha imbarazzato spesso la mia scelta. / Vanno a teatro per guardare, certo, ma anche per essere guardate. /….. / E non dimenticare le corse dei cavalli di razza: / il Circo, con tutta la sua folla, offre molti vantaggi. / Non c’è bisogno di far segni con le dita per mandare segreti messaggi, / né di attendere un cenno d’intesa. / Siederai vicino alla donna prescelta e nessuno avrà niente da ridire: / stringiti ben bene fianco a fianco, più che puoi. / Il bello è che la linea divisoria, si voglia o no, impone di star stretti / e che proprio le regole del luogo ti fanno toccare la ragazza. / A questo punto dovrai cercare d’attaccar discorso / E una frase banale sarà l’avvio della conversazione: /  “Di chi sono quei cavalli, laggiù”, domanderai da buon tifoso; / e se lei fa il tifo per qualcuno, fallo subito anche tu. /  E quando sfilerà la grande processione con gli dei d’avorio, / Venere, tua signora, applaudirai con calorosi battimani; /  se poi, come succede, un po’ di polvere le cade sul vestito, / subito devi scuoterla via con le dita, / e se la polvere proprio non c’è, scuoti via quella che non c’è: /ogni occasione è buona per le tue attenzioni.

Se l’amore è ars, tale ars richiede tecnica; l’ars retorica, infatti, ha bisogno dell’inventio per trovare le argomentazioni; qui l’inventio sono le ragazze e compito del precettore è “insegnare” dove trovarle e come “catturarle”.

E’ un gioco estremamente sopraffino quello che mette in atto Ovidio che, non si sa quanto inconsapevolmente, descrive il modus vivendi della buona società romana, soprattutto sul piano della amoralità: infatti quello che qui il poeta sottolinea è veramente l’arte della conquista fine a se stessa, che si conclude nel possesso fisico, dimentico, come ancora era negli elegiaci precedenti, del sentimento. Non è un caso sarà proprio quest’opera a “dar fastidio” ad Augusto, che tentava di “moralizzare”, con la riscoperta dei valori antichi, la sua Roma. Che tale operetta, inoltre, segni una differenza con l’esperienza elegiaca precedente si misura anche dal passaggio dal soggettivismo all’oggettivismo realizzato attraverso un insegnamento verso un tu generico. Infatti se negli Amores leggiamo che ad Ovidio gli piacciono tutte, nell’Ars, viceversa, deve insegnare ai suoi discepoli a “farsi piacere tutte le donne”. Affinché ciò avvenga egli utilizza la metafora della caccia, in cui le donne sono le prede di cacciatori che devono utilizzare tutte le trappole e tutte le tecniche venatorie atte a conquistarle. La conquista si disegna pertanto non come l’affermazione di un “rapporto” che, da Catullo a Properzio è visto come foedus, ma solo come il raggiungimento di un piacere sessuale al quale le femmine devono cedere.

E’ evidente che tale situazione si presti più ad un gioco delle parti che ad una vera e propria rappresentazione di un amans complesso, tanto più che egli stesso appare più un attore all’interno di una piéce in cui tutti conoscono le loro parti. Il problema è che il palcoscenico reale è Roma, e questo ad Augusto non va giù.

Nei Remedia amoris, Ovidio capovolge la sua funzione: se nell’Ars egli si professava come magister, qui egli si fa medico, che prescrive i rimedi necessari per guarire dalla passione contratta. Infatti così si rivolge a Cupido, nell’incipit della sua operetta, appena poco più di 800 versi:

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William Bouguereau: Cupido

Il NUOVO COMPITO DI GUARITORE DELLE FERITE D’AMORE
(vv. 11-22)

Nec te, blande puer, nec nostra prodimus artes,
nec nova praeteritum Musa retexit opus.
Si quis, amans quod amare iuvat, feliciter ardet,
gaudeat et vento naviget ille suo;
at si quis male fert indignae regna puellae,
ne pereat, nostrae sentiat artis opem.
Cur aliquis laqueo collum nodatus amator
a trabe sublimi triste pependit onus?
Cur aliquis rigidfo fodit sua pectora ferro?
Invidiam caedis pacis amator habes.
Qui, nisi desierit, misero periturus amores est,
desinat, et nulli funeris auctor eris.

Non tradisco te, sedicente fanciullo, né l’arte che è mia, /  e una nuova Musa non ha disfatto la trama del mio precedente lavoro. / Se c’è chi ama e questo amore gli provoca piacere, felice della sua passione / goda e navighi col favore del vento, / ma se qualcuno mal sopporta la tirannia di una fanciulla ingrata, / per non soccombere, provi l’efficacia della mia arte. / Come mai c’è chi, per amore, stretto il collo in un laccio, / s’è impiccato a un’altissima trave, triste fardello? / Perché un altro si è trafitto il petto col duro ferro? / Tu che ami la pace ti rendi odioso col puro sangue. / Chi, se non smette di amare, è destinato a morire di un amore infelice, / smetta, tu non sarai causa di un amore infelice.

Qui il poeta si rivolge direttamente a Cupido, che lo aveva ispirato nelle opere precedenti: e lo istruisce, ricordandogli che, se egli è il dio dell’amore, non può esserlo della morte che a volte tale sentimento può provocare. La finzione dell’Ars si applica anche ai Remedia: se nella prima Ovidio individua le tecniche, nella seconda le rovescia: se per conquistare si va a teatro, per guarire d’amore si sta solo, se per portarsi una donna a letto bisogna farcela piacere, adesso dobbiamo solo guardare i difetti ecc. ecc. Ma non è questo il vero interesse del testo, quanto la difesa della sua poesia, considerata dai lettori, lasciva e diseducativa. Il suo attacco non è sull’oggetto poesia, ma sull’invidia che il suo straordinario successo ha provocato; d’altra parte afferma che il genere dell’elegia richiede solo argomenti bassi, mentre è dell’epica la descrizione di personaggi complessi e profondi.

I Medicamenta faciei s’inseriscono a loro volta tra i libri didascalici: è un operetta, di cui ci è giunta soltanto la prima parte, che insegna alle donne la cura del corpo. Questi appartengono più al lusus tipicamente letterario, in cui il nostro mette in luce la sua versatilità di poeta al servizio delle donne, discettando sui loro cosmetici e sul modo di diventare belle; egli individua la vera bellezza femminile nella cura di sé che si allontanano tanto dalla disardorna semplicità delle matrone, quanto dallo sfarzo eccessivo. Per lui “essere belle” equivale aver cura di sé e a tale scopo offre alle donne alcune ricette di creme di bellezza.

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Museo Archeologico Di Napoli: Teca con oggetti di cosmesi

UNA CREMA DI BELLEZZA
(vv. 52-68)

“Dic age, cum teneros somnus dimiserit artus
candida quo possint ora nitere modo.”
Hordea, quae Libyci ratibus misere coloni
exue de palea tegminibusque suis;
par ervi mensura decem madefiat ab ovis:
(sed cumulent libras hordea nuda duas)
haec, ubi ventosas fuerint siccata per auras
lenta iube scabra frangat asella mola.
Et quae prima cadent vivaci cornua cervo
contere (in haec solidi sexta fac assis eat),
iamque, ubi pulvereae fuerint confusa farinae,
protinus innumeris omnia cerne cavis.
Adice narcissi bis sex sine cortice bulbos,
strenua quos puro marmore dextra terat,
sextantemque trahat cummi cum semine Tusco;
huc novies tanto plus tibi mellis eat.
Quaecumque afficiet tali medicamine vultum,
fulgebit speculo levior illa suo.

«Suvvia, spiega in che modo, dopo che il sonno ha abbandonato /  le tenere membra, il viso possa risplendere candido. / All’orzo, che inviano per mare i coloni africani, / togli via paglia e pula; una misura uguale di ervi sia fatta macerare / in dieci uova (che l’orzo mondato ammonti a due libbre / quando il tutto si sarà asciugato al soffio del vento, fallo, / macinare con ruvida mola da un’asina lenta. Trita anche / corna che cadranno per prime ad un cervo longevo (ce ne / vada una sesta parte di libbra), e poi, quando si saranno / mescolate a questa polvere farinosa, setaccia subito il tutto / nei fitti fori di un vaglio. / Aggiungi dodici bulbi di narciso sbucciati, / da pestare con mano instancabile in un mortaio / ben pulito; la gomma insieme a sementa d’Etruria / pesi un sestante; a questo si aggiunga nove volte tanto di miele. / Qualunque donna curerà il volto con questo cosmetico / risplenderà più liscia del suo specchio.

Con queste tre opere, che possiamo considerare un unicum, Ovidio fonde il genere didascalico con il genere elegiaco; specchio ne è la scelta metrica: se infatti l’opera didascalica in versi utilizza l’esametro (si pensi al De rerum natura di Lucrezio) Ovidio opta per il distico tipico della poesia erotica.

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Edizione delle Heroides del 1732

Heroides

L’ultima opera di carattere elegiaco, prima del suo forzato allontanamento da Roma, sono le Heroides, con cui il nostro offre un nuova forma letteraria all’interno dell’elegia: si tratta infatti di lettere di donne del mito (solo Saffo sarà una donna reale, ma l’attribuzione di tale elegia è ancora oggi discussa) rivolte verso l’uomo, allontanatosi o per motivi di guerra o per tradimento: le Heroides, quindi, si strutturano come epistole poetiche.

Anche di quest’opera esiste una duplice redazione: ad una prima raccolta contenente quattordici elegie, se ne aggiunge un’altra (scritta, presumibilmente poco prima dell’esilio): composta da tre lettere doppie in cui alla missiva della donna segue, in risposta, quella dell’uomo.

Le Heroides, nella mente di Ovidio, sono un’opera di nuova concezione: nessuno, infatti, prima di lui, aveva scritto, sotto forma di epistola poetica, un intero libro; è pur vero che di tale “tecnica” narrativa ne aveva offerto un saggio Properzio (lettera di Aretusa al marito lontano, IV, 3), ma si tratta di un caso isolato, non di un intero progetto che è quindi da ascrivere completamente al poeta abruzzese.

Cosa fa di queste lettere un esempio di poesia elegiaca? Il fatto stesso che a scriverle siano donne innamorate che si rivolgono a uomini che, per un motivo o per un altro, le hanno abbandonate: esse, infatti, vogliono tutte rivendicare il loro diritto d’amore, che per volontà o per destino, è stato infranto.

DIDONE AD ENEA
(VII, 91-113) 

Fluctibus eiectum tuta statione recepi
vixque bene audito nomine regna dedi.
His tamen officiis utinam contenta fuissem,
et mihi concubitus fama sepulta foret!
Illa dies nocuit, qua nos declive sub antrum
caeruleus subitis compulit imber aquis.
Audieram vocem; nymphas ululasse putavi;
Eumenides fatis signa dedere meis.
Exige, laese pudor, poenam et violate Sychaeu
ad quem, me miseram, plena pudoris eo.
Est mihi marmorea sacratus in aede Sychaeus
(oppositae frondes velleraque alba tegunt);
hinc ego me sensi noto quater ore citari;
ipse sono tenui dixit: “Elissa, veni.”
Nulla mora est, venio, venio tibi dedita coniunx;
sum tamen admissi tarda pudore mei.
Da veniam culpae; decepit idoneus auctor;
invidiam noxae detrahit ille meae.
Diva parens seniorque pater, pia sarcina nati,
spem mihi mansuri rite dedere viri;
si fuit errandum, causas habet error honestas;
adde fidem, nulla parte pigendus erit.
Durat in extremum vitaeque novissima nostrae
prosequitur fati, qui fuit ante, tenor.

Sfuggito ai flutti, ti accolsi in un porto sicuro / e avevo a malapena udito il tuo nome che ti concessi il mio regno. / Magari mi fossi accontentata di questi favori / e il mio buon nome non fosse stato sepolto dalla nostra unione! / O quel giorno in cui un oscuro temporale con i suoi scrosci improvvisi / ci spinse nell’antro di una grotta. / Avevo udito una voce, pensai che avessero ululato le ninfe: / invece furono le Eumenidi a dare il segnale al mio destino. / Chiedi, pudore offeso, la punizione, e voi, leggi coniugali / violate e tu, mio buon nome, che non ho conservato fino alla morte / e voi, miei mani e ombre e cenere di Sicheo, da cui vado, / o me infelice, piena di vergogna. / C’è una immagine di Sicheo che ho consacrato in un tempio di marmo: / lo coprono sul davanti fronde e bende di lana bianche. / Da lì per quattro volte mi sono sentita chiamare / da una voce conosciuta: era lui che in un sussurro / mi disse: «Elissa, vieni». Nessun indugio: vengo, vengo a te, / sposa legittima, ma sono trattenuta dalla vergogna del mio peccato. / Perdona la mia colpa: mi ha ingannato una persona degna / e questo limita l’odiosità del mio errore. / Sua madre, che è una dea e il vecchio padre, pietoso fardello del figlio / mi illusero che sarebbe stato un marito fedele. / Se ero destinata a sbagliare, l’errore ha cause oneste. / e fosse stato fedele, sarebbe stato del tutto irreprensibile. / Il destino che è stato mio in passato perdura identico / fino alla fine, fino agli ultimi istanti della mia vita.

Conosciamo l’episodio per averlo letto in Virgilio: l’abbandono di Enea, costretto dal fato, costringe al suicidio, Didone. Quello che qui manca è proprio la forte motivazione, il dubbioso, alfine anche un po’ vigliacco, atteggiamento dell’eroe troiano, la rabbia e la preghiera, il senso dell’inutilità come donna e come madre: gli insegnamenti virgiliani sono tutti ripresi dalla grande tragedia greca; per Ovidio, il dolore è sopito, si sente in lui quasi l’incapacità di far emergere quell’orgoglio di donna ferita che la Didone virgiliana possiede. Osserviamo, infatti la tecnica: Ovidio s’inserisce nel momento in cui la Didone del poema è più fragile; il momento in cui si rivolge piangente alla sorella Anna. E da lì, che Ovidio la riprende, facendo di lei una donna umile, disposta a piegarsi di fronte all’uomo e da offrirgli i commoda che una vita nella reggia gli avrebbe procurato.

ERO A LEANDRO
(XIX, 1,18)

Quam mihi misisti verbis, Leandre, salutem
ut possim missam rebus habere, veni!
longa mora est nobis omnis, quae gaudia differt.
da veniam fassae; non patienter amo.
urimur igne pari, sed sum tibi viribus impar:
fortius ingenium suspicor esse viris.
ut corpus, teneris ita mens infirma puellis;
deficiam, parvi temporis adde moram.
vos modo venando, modo rus geniale colendo
ponitis in varia tempora longa mora.
aut fora vos retinent aut unctae dona palaestrae
flectitis aut freno colla sequacis equi;
nunc volucrem laqueo, nunc piscem ducitis hamo,
diluitur posito serior hora mero.
his mihi summotae, vel si minus acriter urar,
quod faciam, superest praeter amare nihil.
quod superest facio, teque, o mea sola voluptas,
plus quoque, quam reddi quod mihi possit, amo.

Christopher Williams: Ero e Leandro (1915)

Perché io possa godere del bene che mi hai mandato a parole, vieni, o Leandro, tu stesso. E’ lungo per me ogni indugio che ritarda la nostra gioia. Perdona la mia confessione: il mio amore è impaziente. Bruciamo di uguale fiamma, ma non sono uguale a te nella forza: gli uomini suppongo che abbiano un carattere più forte. Come il corpo, anche l’anima è fragile nelle tenere fanciulle; aggiungi solo un breve ritardo, ed io morirò. Voi uomini, ora nella caccia, ora coltivando i campi fecondi, consumate lungo tempo in varie attività. Vi trattiene il foro o gli esercizi della lucente palestra o piegate col morso il collo del cavallo rendendolo docile; ora prendete col laccio gli uccelli, ora i pesci con l’amo; e col vino davanti fate passare le ore tarde. A me, cui tutto questo è negato, non resta altro da farte, anche se la mia passione fosse meno ardente, se non amare. Faccio ciò che mi resta, e amo te, o mio solo piacere, anche più di quanto mi possa esser ricambiato.

Anche in questo episodio manca il supporto tragico del mito, come dice Giampero Rosati “le eroine ovidiane soffrono insomma non solo in quanto innamorate tradite o non corrisposte, ma anche – direi soprattutto – in quanto donne: (…) è questa la condizione comune che le condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione, dalla paura, dalla violenza”

Ciò fa di queste eroine un personaggio che, pur richiamandosi alla tragedia greca, alla novellistica, alla commedia nuova, alla poesia tragica, rimandino principalmente alle matronae o puellae romane del suo periodo: non è un caso che il passo di Ero a Leandro ci fa ripensare al Proemio del Decameron: sono le stesse donne, forse nel ‘300 maggiormente “borghesi “a cui lo scrittore di Certaldo  dedica la sua opera, per dire che le eroine ovidiane sono più da tragedia borghese, che tragica, mancando in loro quel respiro epico/tragico che ha reso grande le donne del mito.

Eppure tale difetto percorre l’intera opera. E che l’artificio della lettera, fa sì che la donna prenda subito parola, al di là dell’inserimento in un fatto narrativo ben preciso: sono lamenti ad un “tu” lontano nello spazio e a volte nel tempo in cui si riversa il lamento della donna abbandonata: il fatto che esse siano, infine, quattordici non fa che rendere a volte un po’ tediosa la lettura in cui situazioni ed atteggiamenti risultano essere per lo più ripetitivi: che sia Penelope ad Ulisse, o Elena a Paride, per nominare le più conosciute, il sottofondo non cambia: si tratta sempre di rivendicare il loro diritto di non rimanere sole e abbandonate.

Metamorfosi

E’ certamente l’opera più importante di Ovidio, il suo poema, quello che, come per l’elegia, ne sancisce il cambiamento:

PROEMIO
(1, vv. 1-4)

In nova fert animus mutatas dicere formas
corpora; di, coeptis (nam vos mutastis in illa)
adspirate meis primaque ab origine mundi
ad mea perpetuum deducite tempora carmen.

La mia mente mi porta a raccontare delle forme mutate in nuovi / corpi; la mia impresa, o dei, (perché anche quella voi l’avete mutata) / sostenetela e guidate il mio poema e guidate il mio poema /  dalla prima origine del mondo ai nostri giorni.

Ad Ovidio occorrono solo quattro versi del proemio per introdurre la sua opera più imponente in 15 libri che aspira a raccontare ben più di duecento storie (247) di trasformazione dall’origine del mondo a oggi. A dire il vero il disegno è appena accennato: nel primo libro, infatti si parlerà della nascita del mondo e delle prime fasi dell’umanità; soltanto negli ultimi si accennerà alla storia di Roma sino alla divinizzazione di Cesare per opera del figliastro Augusto.

E’ che l’opera che egli si accinge a scrivere non si rifà ad Omero, ma alla Teogonia di Esiodo, come antecedente più tardo, e si confronta inoltre con la cultura erudita del tempo, quella alessandrina o più precisamente di Callimaco e dei suoi Aitìa, ma è anche vero che egli, con la sua grande capacità versificatoria lo supera: se infatti è colmo di ricercatezza e d’estrema bravura nel raccogliere in pochi versi elegantissimi miti sconosciuti, egli si accinge a farne, invece un lungo poema dove tutto il passato mitologico venga raccolto in unicum narrativo che trova la sua ragione d’essere, come dice negli ultimi versi, dalla teoria della filosofia pitagorica.

Ma, sebbene impossibile, raccogliamo almeno, in ordine di “apparizione” i miti più noti, quelli che, proprio grazie ad Ovidio, hanno ricevuto da parte di poeti e pittori, fama imperitura. Si parte da Deucaliane e Pirra, che, unici viventi dopo il “diluvio universale” chiedono a Giove di avere altre persone intorno a loro, e vengono accontentati e ordina loro di lanciare delle pietre: quelle lanciate da Deucalione si trasformano in uomini, da Pirra, donne. Si passa quindi al racconto dell’amore di un dio per una donna. Qui si inserisce la celeberrima vicenda di Apollo e Dafne:

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Gianlorenzo Bernini (1624)

APOLLO E DAFNE
(1, 452- 567)

Primus amor Phoebi Daphne Peneia: quem non
fors ignara dedit, sed saeva Cupidinis ira.
Delius hunc nuper, victo serpente superbus,
viderat adducto flectentem cornua nervo
«Quid» que «tibi, lascive puer, cum fortibus armis?»
Dixerat, «ista decent umeros gestamina nostros,
qui dare certa ferae, dare vulnera possumus hosti,
qui modo pestifero tot iugera ventre prementem
stravimus innumeris tumidum Pythona sagittis.
Tu face nescio quos esto contentus amores
inritare tua nec laudes adsere nostras.»
Filius huic Veneris: «Figat tuus omnia, Phoebe,
Te meus arcus» ait, «quantoque animalia cedunt
cuncta deo, tanto minor est tua gloria nostra».
Dixit et, eliso percussis aere pennis,
inpiger umbrosa Parnasi constitit arce
eque sagittifera prompsit duo tela pharetra
diversorum operum: fugat hoc, facit illud amorem;
quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta,
quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum.
Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo
laesit Apollineas traiecta per ossa medullas:
protinus alter amat, fugit altera nomen amantis
silvarum latebris captivarumque ferarum
exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes;
vitta coercebat positos sine lege capillos.
Multi illam petiere, illa aversata petentes
inpatiens expersque viri nemora avia lustrat
nec, quid Hymen, quid Amor, quid sint conubia, curat.
Saepe pater dixit «generum mihi, filia, debes»,
saepe pater dixit «debes mihi, nata, nepotes»:
illa velut crimen taedas exosa iugales
pulchra verecundo subfuderat ora rubore
inque patris blandis haerens cervice lacertis
«Da mihi perpetua, genitor carissime,» dixit
«virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae.»
Ille quidem obsequitur; sed te decor iste, quod optas,
esse vetat, votoque tuo tua forma repugnat.
Phoebus amat visaeque cupit conubia Daphnes,
quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt;
utque leves stipulae demptis adolentur aristis,
ut facibus saepes ardent, quas forte viator
vel nimis admouit vel iam sub luce reliquit,
sic deus in flammas abiit, sic pectore toto
uritur et sterilem sperando nutrit amorem.
Spectat inornatos collo pendere capillos
et «Quid, si comantur?» ait; videt igne micantes
sideribus similes oculos, videt oscula, quae non
est vidisse satis; laudat digitosque manusque
bracchiaque et nudos media plus parte lacertos;
siqua latent, meliora putat. Fugit ocior aura
illa levi neque ad haec revocantis verba resistit:
«Nympha, precor, Penei, mane! non insequor hostis;
Nympha, mane! sic agna lupum, sic cerva leonem,
sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae,
hostes quaeque suos; amor est mihi causa sequendi.
Me miserum! ne prona cadas indignave laedi
crura notent sentes, et sim tibi causa doloris.
Aspera, qua properas, loca sunt: moderatius, oro,
curre fugamque inhibe: moderatius insequar ipse.
Cui placeas, inquire tamen; non incola montis,
non ego sum pastor, non hic armenta gregesque
horridus obseruo. Nescis, temeraria, nescis
quem fugias, ideoque fugis. Mihi Delphica tellus
et Claros et Tenedos Patareaque regia servit;
Iuppiter est genitor; per me, quod eritque fuitque
estque, patet; per me concordant carmina nervis.
Certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta
certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit.
Inventum medicina meum est, opiferque per orbem
dicor, et herbarum subiecta potentia nobis:
ei mihi, quod nullis amor est sanabilis herbis,
nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes!»
Plura locuturum timido Peneia cursu
fugit cumque ipso verba inperfecta reliquit,
tum quoque visa decens; nudabant corpora venti,
obviaque adversas vibrabant flamina vestes,
et levis inpulsos retro dabat aura capillos,
auctaque forma fuga est. Sed enim non sustinet ultra
perdere blanditias iuvenis deus, utque monebat
ipse amor, admisso sequitur vestigia passu.
Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo
vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem;
alter inhaesuro similis iam iamque tenere
sperat et extento stringit vestigia rostro;
alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis
morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit:
sic deus et virgo; est hic spe celer, illa timore.
Qui tamen insequitur, pennis adiutus amoris
ocior est requiemque negat tergoque fugacis
inminet et crinem sparsum cervicibus adflat.
Viribus absumptis expalluit illa citaeque
victa labore fugae, spectans Peneidas undas
«Fer, pater,» inquit «opem, si flumina numen habetis!
Qua nimium placui, mutando perde figuram!»
Vix prece finita torpor gravis occupat artus:
mollia cinguntur tenui praecordia libro,
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt;
pes modo tam velox pigris radicibus haeret,
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus
conplexusque suis ramos, ut membra, lacertis
oscula dat ligno: refugit tamen oscula lignum.
Cui deus «At quoniam coniunx mea non potest esse
arbor eris certe» dixit «mea. Semper habebunt
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae.
Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
vox canet et visent longas Capitolia pompas.
Postibus Augustis eadem fidissima custos
ante fores stabis mediamque tuebere quercum,
utque meum intonsis caput est iuvenale capillis,
tu quoque perpetuos semper gere frondis honores».
Finierat Paean: factis modo laurea ramis
adnuit utque caput visa est agitasse cacumen.

Il primo amore di Febo fu Dafne, figlia di Peneo, / e non fu dovuto al caso, ma all’ira implacabile di Cupido. / Ancora insuperbito per aver vinto il serpente, il dio di Delo, / vedendolo che piegava l’arco per tendere la corda: / «Che vuoi fare, fanciullo arrogante, con armi così impegnative?» / gli disse. «Questo è peso che s’addice alle mie spalle, / a me che so assestare colpi infallibili alle fiere e ai nemici, / a me che con un nugolo di frecce ho appena abbattuto Pitone, / infossato col suo ventre gonfio e pestifero per tante miglia. / Tu accontèntati di fomentare con la tua fiaccola, / non so, qualche amore e non arrogarti le mie lodi». / E il figlio di Venere: «Il tuo arco, Febo, tutto trafiggerà, / ma il mio trafigge te, e quanto tutti i viventi a un dio / sono inferiori, tanto minore è la tua gloria alla mia». / Disse, e come un lampo solcò l’aria ad ali battenti, / fermandosi nell’ombra sulla cima del Parnaso, / e dalla faretra estrasse due frecce / d’opposto potere: l’una scaccia, l’altra suscita amore. / La seconda è dorata e la sua punta aguzza sfolgora, / la prima è spuntata e il suo stelo ha l’anima di piombo. / Con questa il dio trafisse la ninfa penea, con l’altra / colpì Apollo trapassandogli le ossa sino al midollo. / Subito lui s’innamora, mentre lei nemmeno il nome d’amore / vuol sentire e, come la vergine Diana, gode nella penombra / dei boschi per le spoglie della selvaggina catturata: / solo una benda raccoglie i suoi capelli scomposti. / Molti la chiedono, ma lei respinge i pretendenti / e, decisa a non subire un marito, vaga nel folto dei boschi / indifferente a cosa siano nozze, amore e amplessi. / Il padre le ripete: «Figliola, mi devi un genero»; / le ripete: «Bambina mia, mi devi dei nipoti»; / ma lei, odiando come una colpa la fiaccola nuziale, / il bel volto soffuso da un rossore di vergogna, / con tenerezza si aggrappa al collo del padre: / «Concedimi, genitore carissimo, ch’io goda», dice, / «di verginità perpetua: a Diana suo padre l’ha concesso». / E in verità lui acconsentirebbe; ma la tua bellezza vieta /  che tu rimanga come vorresti, al voto s’oppone il tuo aspetto. / E Febo l’ama; ha visto Dafne e vuole unirsi a lei, /  e in ciò che vuole spera, ma i suoi presagi l’ingannano. /  Come, mietute le spighe, bruciano in un soffio le stoppie, / come s’incendiano le siepi se per ventura un viandante / accosta troppo una torcia o la getta quando si fa luce, / così il dio prende fuoco, così in tutto il petto / divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore. / Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo, / pensa: ‘Se poi li pettinasse?’; guarda gli occhi che sfavillano / come stelle; guarda le labbra e mai si stanca /  di guardarle; decanta le dita, le mani, / le braccia e la loro pelle in gran parte nuda; / e ciò che è nascosto, l’immagina migliore. Ma lei fugge / più rapida d’un alito di vento e non s’arresta al suo richiamo: / «Ninfa penea, férmati, ti prego: non t’insegue un nemico; / férmati! Così davanti al lupo l’agnella, al leone la cerva, / all’aquila le colombe fuggono in un turbinio d’ali, / così tutte davanti al nemico; ma io t’inseguo per amore! / Ahimè, che tu non cada distesa, che i rovi non ti graffino / le gambe indifese, ch’io non sia causa del tuo male! / Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego, / rallenta la tua fuga e anch’io t’inseguirò più piano. / Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro, / non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi / come uno zotico. Non sai, impudente, non sai / chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi, / di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara. / Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato / e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra. / Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia / è stata quella che m’ha ferito il cuore indifeso. / La medicina l’ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore / mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe. / Ma, ahimè, non c’è erba che guarisca l’amore, / e l’arte che giova a tutti non giova al suo signore!». / Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire / impaurita, lasciandolo a metà del discorso. / E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo, / spirandole contro gonfiava intorno la sua veste / e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli / rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino / non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore / lo sprona, l’incalza inseguendola di passo in passo. / Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto / una lepre, e scattano l’uno per ghermire, l’altra per salvarsi; / questo, sul punto d’afferrarla e ormai convinto / d’averla presa, che la stringe col muso proteso, / quella che, nell’incertezza d’essere presa, sfugge ai morsi / evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla, / un fulmine lui per la voglia, lei per il timore. / Ma lui che l’insegue, con le ali d’amore in aiuto, / corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle / della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento. / Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa / allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e: / «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere, / dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui». / Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra, / il petto morbido si fascia di fibre sottili, / i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; / i piedi, così veloci un tempo, s’inchiodano in pigre radici, / il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva. / Anche così Febo l’ama e, poggiata la mano sul tronco, / sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia / e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo, / ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae. / E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia, / sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno, / o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra; / e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante / intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei. / Fedelissimo custode della porta d’Augusto, / starai appeso ai suoi battenti per difendere la quercia in mezzo. / E come il mio capo si mantiene giovane con la chioma intonsa, / anche tu porterai il vanto perpetuo delle fronde!». / Qui Febo tacque; e l’alloro annuì con i suoi rami.

E’ questo uno degli episodi più celebrati dell’intero poema, posto quasi all’incipit dell’opera stessa. Esso ci dà infatti la misura di come costruisce Ovidio la sua ars “narrativa”: si tratta infatti di un vero e proprio epillio, o meglio un breve passo epico (cioè scritto in esametri), in sé conchiuso. Il passo è costruito secondo il seguente schema:

  • gelosia del dispettoso Cupido verso il fratello maggiore;
  • il lancio della freccia verso il dio che s’innamora perdutamente della ninfa Dafne;
  • il lancio della freccia verso la donna che da quel momento proverà repulsione verso il dio;
  • l’inseguimento e la fuga dei due amanti e nemici;
  • richiesta di aiuto da parte di Dafne a Peleo, fiume, suo padre;
  • trasformazione di Dafne in alloro attraverso la tecnica dell’omologia; ogni parte del corpo corrisponde all’albero in cui si trasforma: piedi, radici; rami, braccia; capelli, fronde; volto , chioma vegetale; corpo, tronco).

Il motivo per cui si parla di questa trasformazione è eziologico: il nome della dea corrisponde al nome greco della pianta; non solo; il dio Apollo, è dio anche della poesia e dell’arte militare: venivano cinti d’alloro le fronti sia dei poeti che dei generali portati in trionfo.

Continuando ad esaminare il I canto dove avviene un’altra trasformazione (Io trasformata in giovenca e poi tornata donna) inizia l’episodio di Fetonte (figura mitologica che vuole, pur inesperto, guidare i carri del sole; i cavalli s’imbizzarrirono e volano troppo in alto, bruciando un tratto di cielo che diviene la via lattea, quindi scendono in picchiata verso terra, bruciando la vegetazione, dando così vita al deserto della Libia; Giove, adirato contro di lui, lo uccide con un fulmine. Le sorelle lo piangono a lungo, venendo trasformate in pioppi biancheggianti.)

Le trasformazioni ovidiane offrono un mare d’immagini alcune delle quali potremo ritrovarle in Dante, nel primo canto del Purgatorio:

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Tintoretto: Gara tra le Muse e le Pieridi (1540)

LA GARA TRA LE MUSE E LE PIERIDI
(V, 662 – 676)

Finierat doctos e nobis maxima cantus;
at nymphae vicisse deas Helicona colentes
concordi dixere sono. Convicia victae
cum iacerent, «Quoniam – dixit – certamine vobis
supplicium meruisse parum est, maledictaque culpae
additis, et non est patientia libera nobis,
ibimus in poenas et, qua vocat ira , sequemur.»
Rident Emathides spernuntque minacia verba;
conataeque loqui et magno clamore protervas
intentare manus, pennas exire per ungues
adspexere suos, operiri bracchia plumis,
alteraque alterius rigido concrescere rostro
ora videt volucresque  novas accedere silvis.
Dumque volunt plangi, per bracchia mota levatae
aëre pendebant, nemorum convicia picae.

La maggiore tra di noi aveva finito i dotti carmi; / ed ecco che le Ninfe, con voci concordi, proclamarono / che le abitatrici d’Elicona avevano vinto. Ma poiché le vinte / attaccarono contesa : «Giacchè è poco per voi» essa disse « l’aver meritato un castigo a causa della tenzone, e alla colpa / aggiungete la tracotanza, né senza confini è la nostra sopportazione, / provvederemo al castigo e arriveremo là dove ci trascina lo sdegno». /Le fanciulle di Emazia si mettono a ridere, beffeggiano le minacciose parole; / ma mentre tentano di parlare e di avventare, con grandi grida, / le mani audaci, videro dalle proprie unghie / spuntare penne, coprirsi le braccia di piume; / l’una scorge il volto dell’altra prolungarsi con un duro becco / e aggiungersi nei boschi quali nuovi uccelli. / Mentre volevano percuotersi di dolore il petto, per aver agitato le braccia / Si trovano sospese nell’aria, quali piche, schiamazzanti nei boschi.

 e nel primo canto del Paradiso:

unnamed.jpgJusepe De Ribera: Apollo e il satiro Marsia

IL SATIRO MARSIA
(VI, 385 – 391)

Sic ubi nescio quis Lycia de gente virorum
rettulit exitium, satyri reminiscitur alter,
quem Tritoniaca Latous harundine victum
affecit poena. «Quid me mihi detrahis?» inquit;
«A! piget, a! non est» clamabat «tibia tanti».
Clamanti cutis est summos direpta per artus
nec quicquam nisi vulnus erat; cruor undique manat
detectique patent nervi trepidaeque sine ulla
pelle micant venae; salientia viscera possis
et perlucentes numerare in pectore fibras.»

Quando così ebbe riferito, né so chi sia stato, la miserabile fine / di quegli uomini della gente di Licia, un altro si rammenta del satiro, / che il figlio di Latona punì, dopo vinto col suono del flauto, sacro alla dea / Tritonide. «Perché mi strappi a me stesso?» egli diceva; / «Ahimè mi pento! Ahimè! Un flauto non vale tanto strazio!» / Ma mentre egli urlava, a fior delle membra gli fu strappata la pelle / né altro era se non una sola ferita; da ogni parte scorre sangue, affiorano scoperti i muscoli e senza alcuna protezione / guizzano pulsando le vene. Potresti contargli le viscere palpitanti / e il brillio delle fibre sul petto.

Tutti gli episodi proseguono nel poema senza soluzione di continuità. Perché tale scelta? Se la vita è un continuo tramutarsi da un oggetto all’altro, anche l’opera sarà un continuo trasformarsi da un corpo ad un altro:

L’INSEGNAMENTO DI PITAGORA
(XV, 153-159; 165-168)

O genus attonitum gelidae formidine mortis,
quid Styga, quid tenebras et nomina vana timetis,
materiem vatum, falsi terricula mundi?
Corpora, sive rogus flamma seu tabe vetustas
abstulerit, mala posse pati non ulla putetis.
Morte carent animae semperque priore relicta
sede novis domibus vivunt habitantque receptae.

Omnia mutantur, nihil interit: errat et illinc
huc venit, hinc illuc, et quoslibet occupat artus
spiritus eque feris humana in corpora transit
inque feras noster nec tempore deperit ullo.

… animam sic semper eandem
esse, sed in varias doceo migrare figuras.

O razza spaurita dall’incubo della gelida morte, / perché temete lo Stige, perché le tenebre e i nomi senza consistenza, / argomenti di poeti e minacce di un mondo irreale? / Sia che il rogo con le fiamme, sia che il lungo tempo con la consunzione, / ci abbiano sottratto i nostri corpi, state certi che essi non possono subire alcun danno. / Libere da morte sono le anime; lasciata la precedente sede, esse sempre vivono in nuove / dimore e, quivi accolte, stanno come nella propria casa. / …. / Tutto si muta, nulla perisce: libero si muove lo spirito: / da là viene qua e, da qua, là; occupa indifferenti membra; / da corpi ferini esso trasmigra in corpi umani, / così come da noi in quelli ferini, né in alcun tempo viene meno. / …. / … così io vii insegno che l’anima è sempre la stessa, / ma trasmigra in vari aspetti.

E’ che per Ovidio la natura e ciò che è stato creato (il costruito) ha in sé uno spirito vitale che mai non muore e che pertanto “passa” da uno spirito all’altro, continuamente; per questo la sua opera non ha fratture, ma non ha neanche cronologia; il nostro ci ha tentato nei primi canti e negli ultimi; ma lo spirito non ha tempo: è un morire e rinascere che non si esaurisce mai.

Quindi quello che permane sono le storie della trasformazione, alcune delle quali sono diventate, anche grazie a lui, delle vere e proprie storie eterne, come quelle di Orfeo ed Euridice, o storie in cui lui si riconosce, non senza una punta di orgoglio, come quella di Aracne, trasformata dall’invidiosa Latona, in ragno a tessere, per tutta la vita (come fa Ovidio stesso nel suo poema), e Narciso: ed è proprio in quest’ultimo esempio che traiamo la straordinaria capacità versificatoria e lessicale: Se cupit imprudens et qui probat ipse probatur, / dumque petit petitur pariterque accendit et ardet (ignaro brama se stesso; mentre loda è da se stesso lodato; mentre desidera è desiderato: parimenti causa e scopo della sua passione.)

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Caravaggio: il mito di Narciso (1597/1599)

Fasti

Con i Fasti Ovidio torna allo stile elegiaco e, così come con le Heroides aveva preso a modello un’elegia di Properzio, lo stesso fa con quest’opera: infatti nella sua opera il nostro aveva trovato, nel IV libro, 5 poesie “eziologiche” in cui il venivano descritte l’origine delle località e dei riti di Roma.

Lo stesso fa Ovidio, ma, allo stesso modo dell’Heroides, un exemplum properziano, diventa l’occasione per scrivere un intero libro. Questa volta si tratta di spiegare l’origine dei dodici mesi, il perché del loro nome e delle feste che in essi si svolgono.

Dall’argomento sopra descritto è evidente che tale opera doveva, in qualche modo, avvicinare, forse ancor più delle Metamorfosi, il poeta all’entourage augusteo. Ma questo non avviene; infatti nel bel mezzo della composizione dell’opera giunge l’ordine dell’imperatore di lasciare Roma e di esser stato relegato nell’incivile città di Tomi.

E’ un fulmine a ciel sereno per Ovidio. L’opera che doveva ingraziarlo ad Augusto, viene abbandonata al VI libro, poi ripresa nella città straniera, dove ci giunge la notizia che il poeta avesse corretto la prima parte e l’avesse portata a termine, cambiandone il destinatario, non più Augusto e nemmeno Tiberio, da cui ormai non aspettava alcuna grazia ma a Germanico, nipote di Tiberio, come estrema speranza, semmai avesse raggiunto il soglio imperiale, di poter rivedere l’amata Roma.

Quest’ultima parte, di cui si discute l’esistenza (ma è reale la correzione della prima e il cambio del destinatario, effettuato alla morte di Augusto), non ci è pervenuta, e ci restano appunto i primi sei libri corrispondenti ad altrettanti sei mesi.

PROEMIO
(vv. 1-12)

Tempora cum causis Latium digesta per annum
lapsaque sub terras ortaque signa canam.
Excipe pacato, Caesar Germanice, voltu
hoc opus et timidae derige navis iter,
officioque, levem non aversatus honorem,
en tibi devoto numine dexter ades.
Sacra recognosces annalibus eruta priscis
et quo sit merito quaeque notata dies.
invenies illic et festa domestica vobis;
saepe tibi pater est, saepe legendus avus,
quaeque ferunt illi, pictos signantia fastos,
tu quoque cum Druso praemia fratre feres.

Canterà i tempi distinti per anno Latino / con i loro motivi, quali stelle nascano e quali tramontino. / O Cesare Germanico, accogli con volto sereno / quest’opera, e guida il corso della mia timida nave / e non disdegnare un così piccolo dono del mio ossequioso dovere, / assisti a quest’opera con i tuoi Auguri, che a te consacro. / Qui troverai le feste tratte dagli antichi Annali, / gli eventi straordinari di cui sono riportati ogni giorno. / Qui troverai i giorni festivi della tua famiglia, / spesso dovrai leggere il nome di tuo padre o di un tuo avo, / e riporterai ancora gli onori insieme a tuo fratello Druso / che segnano i Fasti dipinti.

Certo per l’irridente Ovidio i tempi erano cambiati e, quando li aveva cominciati a Roma, non si respirava più quell’aria “frizzante” degli amori leggeri: era ora il tempo di un’opera seria, in linea con la volontà di Augusto e il suo spirito di “restaurazione”. Allora cosa non ha funzionato? Perché nel bel mezzo di un’opera per lui celebrativa l’ha voluto allontanare da Roma.

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Copia del ‘700 dei Fasti

A leggere il proemio ci sono tutti i temi dei sei Fasti rimastoci: l’unica differenza tra quelli scritti a Roma e la correzione fatta a Tomi è nel nome di Germanico. Vi è in essi tutta la conoscenza della storia di Roma attraverso la consultazione degli “Annali”, vi è, come già nelle Metamorfosi, la profonda erudizione storica e mitologica; vi è ancora l’attenzione ossessiva della forma che si richiama all’alessandrinismo; vi è inoltre una conoscenza non certo banale delle stelle e del loro movimento celeste, che cosa mancava, per essere accettata?

E’ che manca l’adesione, ed un lettore attento se ne accorge: Ovidio sceglie questo argomento perché gli permette, come nel poema epico, di raccontare, siano esse leggende o miti e di scegliere il momento straordinario, quello che colpisce il lettore (per esempio per la divinizzazione di Romolo, la poesia ovidiana si sofferma più sull’occhio esterrefatto di chi osserva il fenomeno che per il significato in sé).

Può anche “piacerci” l’ironia con cui dipinge certi rituali, ma può accadere a noi moderni: non inganna chi vuole una poesia che si richiami ai vecchi valori e non che li giudichi sotto l’egida dell’estetica.

Tristia

I Tristia sono la prima opera scritta fuori di Roma. In essi Ovidio riprende il significato letterale greco di tale genere e dà vita, pertanto, ad una vera e propria “poesia del lamento”. Sono divisi in cinque libri:

  • Nel primo (composto da 11 elegie) ci racconta del viaggio compiuto verso Tomi;
  • Il secondo presenta una sola lunga elegia indirizzata ad Augusto a cui impetra il ritorno;
  • il terzo, il quarto e il quinto ci narrano della sua permanenza a Tomi.

L’ULTIMO SGUARDO
(1, 3, vv.27-40)

Iamque quiescebant voces hominumque canumque,  
lunaque nocturnos alta regebat equos.
Hanc ego suspiciens et ad hanc Capitolia cernens,  
quae nostro frustra iuncta fuere Lari,  
«numina vicinis habitantia sedibus» inquam,  
«iamque oculis numquam templa videnda meis,
dique relinquendi, quos urbs tenet alta Quirini,  
este salutati tempus in omne mihi,
et quamquam sero clipeum post vulnera sumo,
attamen hanc odiis exonerate fugam,
caelestique viro, quis me deceperit error,  
dicite. pro culpa ne scelus esse putet,
ut, quod vos scitis, poenae quoque sentiat auctor:  
placato possum non miser esse deo»

Si spegnevano ormai le voci e l’abbaiare dei cani, / e la luna alta nel cielo guidava i il carro nella notte. / A essa, alzando gli occhi, e al suo chiarore distinguendo / il Campidoglio, che era inutilmente contiguo alla mia casa: / «Dei che vivete in questa dimora», dissi / «templi che i miei occhi ormai più non vedranno, / dei che albergate nell’alta città di Quirino, / e che vi devo lasciare, vi saluto per sempre; / e anche se troppo tardi, dopo che già sono ferito, prendo lo scudo, / togliete però al mio esilio il fardello dell’odio, / e dite al sovrano qual è l’errore in cui sono incorso, / perché egli non ritenga un atto deliberato quella che è solo una colpa, / e perché quanto voi sapete giunga all’orecchio di chi ha emanato la pena: / se quel dio si placa io ho la possibilità di non essere sventurato».

Da come si può notare il tono è completamente cambiato e all’immagine un po’ virgiliana del silenzio degli animali risponde lo sguardo non certo adirato, ma oserei dire quasi sorpreso della scelta augustea di relegarlo. Qui si nota, infatti, come il poeta non neghi la colpa (lo fa perché non confessarla equivarrebbe ad un inasprimento della pena?) ma come essa si configuri come non volontaria.

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Ion Theodorescu-Sion: Ovidio in esilio (1915)

E’ un tema che riprenderà più volte e che svilupperà in modo più articolato nella lunga egloga indirizzata ad Augusto. Anche qui egli parla di error, cioè quasi volesse indicare uno sbaglio morale, senza volontà di dolo, ma ci dirà anche che non potrà renderlo noto e quindi il tentativo di ricostruire nell’esattezza il comportamento che lo ha condotto fuori da Roma è un’operazione inutile.

Più importante è l’associare oltre il danno morale, la “colpa” poetica, cioè quell’Ars amatoria che sembra non sia proprio andata giù ad Augusto. Egli, invece, ne rivendica la liceità distinguendo il comportamento reo di personaggi letterari da quelli di chi le scrive. E’ proprio dell’elegia esser gioiosa, è proprio dell’elegia esser “erotica”; d’altra parte, ci dice Ovidio, quando egli descriveva personaggi di sesso femminile, non erano mai matrone, ma “accompagnatrici”, per meglio dire prostitute, il cui gioco d’amore descritto non recava alcun danno alla loro onorabilità.

D’altra parte il libro è ricco della poesia del malinconia per la città lasciata e per gli affetti familiari spezzati, dell’insistenza nella richiesta di ritorno, dell’impossibilità di vivere in mezzo all’inciviltà: è una poesia in cui Ovidio mostra di aver perso l’amore per la vita.

Epistulae ex Ponto

Come le Heroides anche queste sono Epistulae poetiche in versi elegiaci. Il nostro ne scrive quattro libri, che ripetono stancamente temi già presenti nei Tristia. Il fatto è che Ovidio non sa più scrivere: laddove c’è troppo dolore, la sola Musa capace ad ispirarlo non può essere che malinconica. Ecco allora che qui, rivolgendosi ad amici intellettuali e lamentandosi della sua sorte, egli cerchi in qual modo di crearsi una sorta di rete epistolare in cui non si senta completamente escluso. In queste lettere, infatti, viene ribadito con forza il concetto dell’amicizia, di cui adesso ha estrema difficoltà. E’ per questo che continua a scrivere, ripetendo sempre gli stessi temi. Ma se non lo facesse , rimarrebbe muto, essendo la parola scritta, capace di sostituire l’orale. Negli ultimi libri, sembra infine, parlare anche in modo “positivo” degli incivili Geti, di cui ci dice della loro gentilezza ed accoglienza nei suoi confronti, tanto da averlo indotto a scrivere versi in getico (sarà vero?) e di essere stato, per questo, apprezzato da loro.

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Eugène Delacroix: Ovidio tra gli Sciti (1862) 

Ibis

Anche quest’unica elegia di 642 versi viene scritta in esilio ed è rivolta contro una malalingua che non faceva che spargere notizie irriverenti verso il poeta, anche quando questo è in esilio. Il titolo dell’opera viene ripreso da un omonima opera callimachea, che lo aveva intitolato col nome dell’uccello noto per nutrirsi di escrementi. Ovidio dichiara di rimanere ora nello stile del poeta greco, non nominando il suo avversario, ma maledicendolo per le infamie da lui compiute, ma se dovesse dar seguito al suo comportamento la sua poesia diverrebbe giambica e quindi piena di invettive, naturalmente dopo averne svelato il nome.