GAIO SALLUSTIO CRISPO

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Notizie biografiche

Del primo storico di cui possediamo gran parte dell’opera, sappiamo poche cose certe di cui la prima è il luogo e la data di nascita: in Sabina ad Amiternum nell’86. Se dovessimo anche dare per certa la data di morte, 35 a.C., potremmo dire che la vita di Sallustio si situi completamente all’interno delle guerre civili.

Nasce quando infuria la guerra tra Silla e Mario in una famiglia, pur di origine plebea, molto ricca ma che mai aveva offerto un magistrato alla città di Roma. Decide, pertanto, d’inviare il giovane a Roma al fine di approfondire gli studi ed avviarsi alla corriera politica. Il momento in cui Sallustio s’affaccia a quelli che i romani chiamano negotia, e che lo porteranno a insidiarsi in Senato con la carica di pretore, Roma era travagliata dagli scontri tra le fazioni di Clodio e Milone, e quindi tra i cesariani ed i pompeiani. Era tribuno della plebe quando il primo venne ucciso e Sallustio prese parte anche con veemenza alle accuse contro Milone e contro chi lo difendeva, Cicerone. Tale scelta non fu senza conseguenze: terminata l’immunità che l’incarico gli permetteva, gli optimates l’accusarono d’immoralità e fu quindi espulso dal Senato (si dice con false accuse). Per poter riacquistare il suo posto non poteva che rivolgersi verso Cesare e i populares, che gli offrì incarichi militari proprio mentre s’accendeva la guerra civile. Qui, pur non senza difficoltà, portò a termine i suoi compiti e alla cessazione delle attività belliche ricevette da Cesare, vincitore su Pompeo, la provincia d’Africa. Come molti suoi “colleghi”, tornò a Roma ricchissimo, tanto da essere accusato de repetundis (ruberie) e con quel denaro d’essersi fatto costruire i famosi Horti Sallustiani, anche se oggi si crede che appartenessero non a lui, ma ai suoi discendenti in epoca augustea. Sembra si sia salvato dall’accusa proprio per mezzo di Cesare, che gli consigliò però d’allontanarsi dalla politica. E proprio in questo otium che il nostro compose le due famosissime monografie storiografiche: il De coniuratione Catilinae e il Bellum Iugurthinum. Sembra che dopo l’esperienza di tale opere abbracciasse anche l’idea di un’opera di più largo respiro, le Historiae, ma la morte lo colse all’improvviso lasciandole interrotte al V libro.

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La monografia 

Sallustio ci offre in entrambe le monografie una lunga introduzione in cui “giustifica” la scelta storiografica come sostitutiva di quella politica, perché le eccessive turbolenze politiche minavano la possibilità di adoperarsi in modo costruttivo per lo Stato. Ma proprio lo storico, in quanto esaminatore di una realtà sia pur passata, può individuare in momenti particolari i nodi che possono chiarire il disordine presente: nel De coniuratione Catilinae l’ambizione personale, il prevalere della brama di ricchezze del Senato e il disfacimento morale; nel Bellum Iugurthinum, periodo precedente a quello di Catilina, come tali sintomi erano stati già presenti nella società e avevano a loro volta costituito il germe della lotta tra Mario e Silla che a loro volta diedero inizio alle guerre civili. Da quanto detto risulta abbastanza chiaro come la storiografia venga intesa da Sallustio come un proseguimento dell’attività politica.

De coniuratione Catilinae

Passati vent’anni, Sallustio decide di rievocare una delle pagine più tragiche della storia romana. L’opera inizia con un lungo proemio in cui, dopo aver filosoficamente sostenuto la superiorità dell’ingegno rispetto al corpo sottolinea come sia degno di gloria giovare allo Stato, sia operando che scrivendo. Quindi descrive la sua delusione della vita politica e il suo allontanamento e il bisogno pertanto di scrivere:

L’ABBANDONO DELLA POLITICA E LA SCRITTURA DELLA STORIA
(4)

Igitur, ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere, neque vero agrum colundo aut venando, servilibus officiis, intentum aetatem agere: sed a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat eodem regressus, statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere; eo magis quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat, igitur de Catilinae coniuratione quam verissume potero paucis absolvam: nam id facinus in primis ego memorabile existumo sceleris atque periculi novitate.

Quindi, quando l’animo poté riaversi dopo molte traversie e rischi e decisi di mantenermi per il resto della vita lontano dallo stato, non mi proposi di sprecare il mio prezioso tempo libero nell’apatia e nella pigrizia, e neppure di condurre avanti la mia esistenza cacciando o coltivando i campi, lavori da schiavi; ma stabilii, ritornando allo stesso disegno ed inclinazione, dalla quale la funesta ambizione mi aveva distolto, di narrare a episodi le gesta del popolo romano, secondo che ciascun avvenimento mi sembrava degno di essere ricordato; tanto più che il mio animo era libero dall’attesa, dalla paura, dalla faziosità politica. Quindi tratterò brevemente con la maggior veridicità possibile riguardo alla congiura di Catilina; infatti quell’impresa nefasta sulle prime io stimo memorabile per l’eccezionalità della scelleratezza e del pericolo.
Gaio Sallustio Crispo, Sallustio (incisione)

Si coglie bene in questo testo il passaggio sallustiano dal facere allo scribere, legando i due processi ad una stessa volontà: operare per la rei publicae; ma lo storico non si ferma solo a questa constatazione; infatti aggiunge subito dopo che lui, in quanto libero a spe, metu, partibus rei publicae , cioè da qualsiasi influenza, poteva garantire il massimo dell’imparzialità. Il fatto poi che egli stimi la congiura di Catilina come atto di massima importanza, è perché vede in esso le turbolenze stesse che hanno portato all’uccisione di Cesare.

Dopo la giustificazione sulla sua scelta storiografica, Sallustio ci presenta il protagonista della vicenda:

RITRATTO DI CATILINA
(5)

Lucius Catilina, nobili genere natus, fuit magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque. Huic ab adulescentia bella intestina, caedes, rapinae, discordia civilis grata fuere, ibique iuventutem suam exercuit. Corpus patiens inediae, algoris, vigiliae, supra quam cuiquam credibile est. Animus audax, subdolus, varius, cuius rei lubet simulator ac dissimulator; alieni adpetens, sui profusus; ardens in cupiditatibus; satis eloquentiae, sapientiae parum. Vastus animus immoderata, incredibilia, nimis alta semper cupiebat. Hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae, neque id quibus modis adsequeretur, dum sibi regnum pararet, quicquam pensi habebat. Agitabatur magis magisque in dies animus ferox inopia rei familiaris et coscientia scelerum, quae utraque is artibus auxerat quas supra memoravi. Incitabant praeterea corrupti civitatis mores, quos pessuma ac divorsa inter se mala, luxuria atque avaritia, vexabant.

Lucio Catilina di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma d’animo perverso e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle violenze, alle rapine, alla discordia civile; in tali esercizi trascorse i suoi giovani anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie, uno spirito incredulo, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare. Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni; non privo d’eloquenza, ma di poco giudizio; un animo sfrenato, sempre teso a cose smisurate, incredibili, estreme. Finito il dispotismo di Silla, fu preso dalla smania d’impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli; quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. Lo spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale imperavano due vizi diversi ma parimente funesti, lusso e cupidigia.

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Joseph Marie Vien: La congiura di Catilina

E’ un passo famosissimo nel quale la figura di Catilina si erge nella sua contradditorietà: si guardi la prima espressione nella quale è disegnato come uno con magna vi et animi et corporis, sed ingenio malo pravoque, dove appunto alla forza del corpo e della mente si contrappone, con la particella avversativa, un ingegno malvagio e depravato. E ancora Catilina risulta essere avido delle cose altrui, ma generoso verso gli altri, eloquente, ma poco giudizioso: l’arte della contrapposizione infatti sembra scavare nel personaggio e a far sì che un uomo così non poteva non arrivare che alla sedizione. Ma un uomo è così, sembra dirci Sallustio, perché così è l’ambiente in cui egli è vissuto e si è formato.

Proprio l’ambiente lo spinge a richiamare le antiche virtù, virtù che si sono perse dopo la guerra con Cartagine:

ORIGINI DELLA DECADENZA DELLA REPUBBLICA
(10)

Sed ubi labore atque iustitia res pubblica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Chartago aemula imperi Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere. Namque avaritia fidem probitatem ceterasque artis bonas subvortit; pro his superbiam, crudelitatem, deos neglegere, omnia venalia habere edocuit. Ambitio multos mortalis falsos fieri subegit, aliud clausum in pectore, aliud in lingua promptum habere, amicitias inimicitiasque non ex re, sed ex commodo aextumare, magisque voltum quam ingenium bonum habere. Haec primo paulatim crescere, interdum vindicari; post ubi contagio quasi pestilentia invasit, civitas inmutata, imperium ex iustissumo atque optumo crudele intolerandumque factum.

Ma quando la repubblica si fu ingrandita col lavoro e la giustizia, quando i grandi re furono domati con la guerra, quando le nazioni selvagge e tutti i popoli furono sottomessi con la forza, quando Cartagine rivale dell’Impero Romano fu distrutta alla radice e quando ormai erano aperti tutti i mari e le terre, la sorte cominciò a infuriare e a mettere sottosopra tutte le cose. Coloro i quali avevano tollerato facilmente lavori pesanti, pericoli, situazioni aspre e dubbie, proprio a loro in altri momenti l’ozio e le ricchezze furono di peso e di rovina. Dunque per prima cosa crebbe il desiderio di ricchezze e quindi quello del potere; queste cose per così dire furono l’origine di tutti i mali. Ed infatti l’avidità sovvertì la fiducia, l’onestà e tutte le altre qualità del comportamento; al posto di queste si insegnò la superbia, la crudeltà, a rinnegare gli dei e ad avere tutto come oggetto di prezzo. L’ambizione spinse molti mortali a diventare disonesti, ad avere una cosa chiusa nel cuore ed un’altra manifesta sulla lingua, a stimare amicizie ed inimicizie non dai fatti ma dai vantaggi e a reputare migliore l’aspetto esteriore dell’intelligenza. Queste cose sulle prime incominciarono a crescere a poco a poco e talora ad essere vendicate; ma dopo, quando la contaminazione si estese quasi come una pestilenza, la città mutò e l’impero da giustissimo e ottimo divenne crudele ed intollerante.

E’ in questo passo adombrata quella teoria, che verrà pienamente ripresa poi nel Bellum Iugurthinum del metus hostilis (paura dello straniero). Fintanto che il popolo poteva trovare unità in un nemico comune, alla cessazione di esso primo pecuniae deinde imperi cupido crevit, dapprima crebbe il desiderio del denaro, quindi del potere e in questo binomio perverso l’ambizione personale e quindi la tirannia di Silla con esiti spaventosi.

Si guarda quindi ai compagni di Catilina, molti giovani e persone insoddisfatte, scialacquatori, nobili decaduti. Con essi il nostro farà una riunione preparatoria. Quindi ci viene presentato, attraverso un excursus, un primo tentativo di colpo di Stato di Catilina e il suo fallimento. Si torna all’attualità con un drammatico discorso di Catilina ai suoi compagni, in cui si descrivono le condizioni miserevoli dei ceti impoveriti:

DAL DISCORSO DI CATILINA
( dal 20)

Nam postquam res publica in paucorum potentium ius atque dicionem concessit, semper illis reges tetrarchae vectigales esse, populi nationes stipendia pendere; ceteri omnes, strenui boni, nobiles atque ignobiles, volgus fuimus sine gratia, sine auctoritate, iis obnoxii, quibus, si res publica valeret, formidini essemus. Itaque omnis gratia potentia honos divitiae apud illos sunt aut ubi illi volunt; nobis reliquere pericula repulsas iudicia egestatem. Quae quo usque tandem patiemini, o fortissumi viri? Nonne emori per virtutem praestat quam vitam miseram atque inhonestam, ubi alienae superbiae ludibrio fueris, per dedecus amittere?

Infatti, dopo che la Repubblica è caduta nel pieno potere di pochi potenti, è a loro che re e tetrarchi pagano i loro tributi, popoli e nazioni pagano l’imposta; tutti noialtri, valorosi, prodi, nobili e non nobili, siamo stati volgo, senza credito, senza autorità, asservito a padroni ai quali, se lo Stato valesse, avremmo incusso paura. Così tutto il credito, la potenza, l’onore, le ricchezze, sono presso di loro o dove essi desiderano; a noi hanno lasciato le ripulse, i pericoli, i processi, gli stenti. Fino a che punto, o valorosi, sopporterete ciò? Non è preferibile morire coraggiosamente, piuttosto che perdere una vita misera e senza onore, dopo essere stati ludibrio dell’altrui potenza?

E’ chiaro che qui si tratta di un piccolo estratto di un bel più ampio discorso di Catilina rivolto ai suoi seguaci: attenzione, non di un vero e proprio discorso del rivoluzionario, ma oratio huiusce modi (un discorso di questo tenore). Tuttavia che il discorso di Catilina adombri anche l’ideologia di Sallustio è fuor di dubbio: quando lo storico parla di una concentrazione in poche mani delle ricchezze e di quell’ambizione che ha ucciso il mos maiorum, portando all’individualismo. In altre parti del discorso, infatti, viene toccato anche il tema dei debiti: anche Cesare tentò, in modo estremamente moderato di risolverlo (Catilina voleva, invece, scrivere tabulae novae, ripartire da zero nei registri). Ma non fu ascoltato e si ebbe paura del suo piccolo passo. La responsabilità del disordine è proprio nelle mani paucorum potentium.

L’opera prosegue con la delazione di Fulvia, amante di un congiurato. Gli aristocratici, tramite Cicerone, riescono a sconfiggerlo e a farlo fuggire. Catilina cerca di radunare a sé più uomini possibili ed anche donne nobili, come Sempronia:

SEMPRONIA
(25)

Sed in iis erat Sempronia, quae multa saepe virilis audaciae facinora commiserat. Haec mulier genere atque forma, praeterea viro atque liberis satis fortunata fuit; litteris Graecis et Latinis docta, psallere, saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt. Sed ei cariora semper omnia quam decus atque pudicitia fuit; pecuniae an famae minus parceret, haud facile discerneres; lubido sic accensa, ut saepius peteret viros quam peteretur. Sed ea saepe antehac fidem prodiderat, creditum abiuraverat, caedis conscia fuerat; luxuria atque inopia praeceps abierat. Verum ingenium eius haud absurdum; posse versus facere, iocum movere, sermone uti vel modesto vel molli vel procaci; prorsus multae facetiae multusque lepos inerat.

Faceva parte del gruppo Sempronia, una donna: ma aveva compiuto più volte azioni temerarie più di un uomo. La fortuna le aveva dato tutto: la nascita, la bellezza, il marito, i figli; era istruita in letteratura greca e latina, cantava e suonava con grazia, più che non sia necessario a una donna onesta; e sapeva fare molte altre cose che sono incentivi alla lussuria. Il pudore, la dignità erano l’ultima cosa per lei; non avresti potuto dire a che cosa tenesse di meno, se al denaro o al buon nome; lussuriosa tanto da sollecitare gli uomini prima d’esser richiesta; di regola mancava di parola, non pagava i debiti e le era accaduto persino di esser complice di delitti; la depravazione, il bisogno, l’avevano fatta scendere sempre più in basso. Eppure non mancava d’intelligenza, componeva versi e battute di spirito, sapeva esprimersi con modestia, con garbo o con sfrontatezza; possedeva, infine, una buona dose d’umorismo.

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Il busto di una Sempronia romana

Che Sempronia non sia un personaggio di spicco nella congiura ce lo dice il fatto che nessun’altra fonte la nomini; che attraverso lei Sallustio mostri il grado d’indipendenza delle donne romane e la loro versatilità culturale viene rivelato da come lo storico inquadri il vizio in mezzo alle virtù; che Sempronia, come la Clodia catulliana, presentataci in modo negativo da Cicerone, appartenga alla femme fatale della Roma tardo repubblicana ce lo afferma quel po’ di “livore” con cui lo storico sottolinea le sue azioni “temerarie più di un uomo”. Ma ad emergere è sempre l’arte del ritratto, che, come quello di Catilina, è giocato sulle contrapposizioni e fanno di questa figura femminile un personaggio estremamente vivo.

L’opera prosegue con la prima accusa pubblica di Cicerone e la fuga di Catilina, che lascia in città i suoi luogotenenti, mentre si finge, attraverso una lettera, innocente e in volontario esilio a Marsiglia. Ma in realtà si dirige in Etruria, dove lo aspettano altri congiurati. Quindi Sallustio apre una parentesi sulla ricerca del favore popolare che l’azione rivoluzionaria stava mietendo e riprende la narrazione con il tentativo d’accordo fra i congiurati e i Galli. Questi ultimi, tuttavia, rivelano tutto a Cicerone, che fa arrestare i maggiori catilinari rimasti in città. Si procede al processo: si propone la pena di morte: Cesare dichiara di essere contrario e invita ad attenersi alla più stretta legalità, ricordando le persecuzioni sillane; Catone propone invece l’uccisione per la pericolosità che essi presentano per la sopravvivenza della repubblica:

CESARE E CATONE
(dal 54)

Igitur iis genus aetas eloquentia prope aequalia fuere, magnitudo animi par, item gloria, sed alia alii. Caesar beneficiis ac munificentia magnus habebatur, integritate vitae Cato. Ille mansuetudine et misericordia clarus factus, huic severitas dignitatem addiderat. Caesar dando sublevando ignoscundo, Cato nihil largiundo gloriam adeptus est. In altero miseris perfugium erat, in altero malis pernicies. Illius facilitas, huius constantia laudabatur.

Dunque essi furono quasi uguali per nascita, per età, per eloquenza; pari la grandezza d’animo, e anche la gloria, ma di qualità differente. Cesare era stimato grande per liberalità e magnificenza, Catone per integrità di vita. Il primo si era fatto illustre con l’umanità e l’inclinazione alla pietà, al secondo aveva aggiunto dignità il rigore. Cesare aveva acquistato gloria con il denaro, con il soccorrere, con il perdonare, Catone con il nulla concedere. L’uno era il rifugio degli sventurati, l’altro la rovina dei malvagi. Del primo era lodata l’indulgenza, del secondo la fermezza.

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Catone l’Uticense

Ci troviamo ancora nell’arte del ritratto, questa volta doppio, dove questo è naturalmente derivato dalla presenza di ben due personaggi: ma se il primo è connotato da sostantivi che rimandano all’estrinsecazione di sé, l’altro ci viene presentato con un vocabolario attento a sottolinearne la chiusura, che non vuol dire negazione, ma pudore. Sallustio ancora una volta si mostra gran maestro nel saper elaborare ritratti con una perfetta rispondenza stilistica.

L’opera volge alla fine: i congiurati vengono strangolati, mentre Catilina dispone il suo esercito presso Pistoia. Ha inizio lo scontro, con la vittoria dell’esercito romano: Ma i congiurati e Catilina stesso riscattano la loro vita con una morte eroica.

LA MORTE DI CATILINA
(dal 60)

Interea Catilina cum expeditis in prima acie vorsari, laborantibus succurrere, integros pro sauciis arcessere, omnia providere, multum ipse pugnare, saepe hostem ferire: strenui militis et boni imperatoris officia simul ex equebatur. Petreius ubi videt Catilinam, contra ac ratus erat, magna vi tendere, cohortem praetoriam in medios hostis inducit eosque perturbatos atque alios alibi resistentis interficit. Deinde utrimque ex lateribus ceteros adgreditur. Manlius et Faesulanus in primis pugnantes cadunt. Catilina postquam fusas copias seque cum paucis relictum videt, memor generis atque pristinae suae dignitatis in confertissumos hostis incurrit ibique pugnans confoditur.

Catilina nel frattempo, con la truppa leggera, imperversa in prima linea, soccorre quelli in difficoltà, rimpiazza i feriti con truppe fresche, provvede a tutto, si batte egli stesso con vigore, spesso colpisce il nemico; eseguiva insieme il dovere di un soldato coraggioso e di un buon condottiero. Petreio, quando vede che Catilina, contrariamente a quel che aveva creduto, combatteva con grande energia, lancia la coorte pretoria contro il centro dei nemici, e massacra quelli che riesce a scompigliare e che cercavano di resistere altrove; poi attacca gli altri da entrambi le parti. Manlio e il Fiesolano cadono tra i primi combattendo. Catilina, quando vide le sue truppe in rotta e se stesso rimasto con pochi uomini, memore della sua stirpe e della passata dignità, si getta dove i nemici erano più folti e ivi lottando è trafitto.

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Alcide Segoni: Il ritrovamento del corpo di Catilina

La fine della lettura dell’opera ci permette di cogliere alcuni aspetti fondamentali, sia ideologici che stilistici:

  • per il primo ci sembra corretto dire che, benché venga sottolineata l’ingiustizia “politica” della scelta catilinaria, ciò non può essere isolata dal contesto altrettanto ingiusto di una classe politica chiusa in se stessa a difesa dei suoi privilegi. Sallustio, è qui sta il suo esser stato cesariano, si mostra un “moderato riformista”;
  • la ripresa, anch’essa ideologica, della tradizione del mos maiorum che l’avidità aristocratica e la demagogia cui si rivolgeva al popolo aveva ucciso; ciò vuol dire riprendere lo stile di chi si era fatto di questa tradizione paladino, Catone il Censore. Per questo l’opera cerca d’imitarne lo stile, riprendendone vocaboli che, al tempo di Sallustio, erano ormai considerati arcaici (arcaismo).

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Youcef Koudil: Giugurta, combattente per la libertà

Bellum Iugurthinum

La seconda monografia di Sallustio ci presenta un passato storico meno recente rispetto alla congiura di Catilina. Sembra quasi che l’autore, una volta comprese le ragioni di una conflittualità sociale il cui atto sedizioso del nobile romano era stato il frutto, volesse maggiormente scavare nell’incipit di questa conflittualità tra gli Ottimati e i Popolari, e tale inizio non poteva che essere visto all’origine della lotta tra Mario e Silla. Infatti la guerra numidica permette al nostro di mettere a nudo la crisi morale e il decadimento della classe nobiliare romana.

Anche quest’opera inizia con un introduzione in cui Sallustio analizza la grandezza e l’atrocità della guerra, ma anche come essa sia diventata cruciale per le lotte sociali dell’ultimo secolo della repubblica romana. All’introduzione segue il ritratto di Giugurta:

RITRATTO DI GIUGURTA
(6)

Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio validus, non se luxu neque inertiae corrumpendum dedit, sed, uti mos gentis illius est, equitare, iaculari; cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; ad hoc pleraque tempora in venando agere, leonem atque alias feras primus aut in primis ferire: plurimum facere, minimum ipse de se loqui. Quibus rebus Micipsa tametsi initio laetus fuerat, existimans virtutem Iugurthae regno suo gloriae fore, tamen, postquam hominem adulescentem exacta sua aetate et parvis liberis magis magisque crescere intellegit, vehementer eo negotio permotus multa cum animo suo volvebat. Terrebat eum natura mortalium avida imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem, praeterea opportunitas suae liberorumque aetatis, quae etiam mediocris viros spe praedae transversos agit, ad hoc studia Numidarum in Iugurtham accensa, ex quibus, si talem virum dolis interfecisset, ne qua seditio aut bellum oriretur, anxius erat.

Costui, divenuto un giovane prestante e di bell’aspetto, ma soprattutto ragguardevole per intelligenza, non si lasciò corrompere dai piaceri e dall’ozio, ma, secondo gli usi della sua gente, cavalcava, lanciava il giavellotto, gareggiava con i coetanei nella corsa: e, benché eccellesse su tutti, a tutti, nondimeno, era caro. Dedicava, inoltre, la maggior parte del suo tempo alla caccia, era il primo o fra i primi a colpire il leone e simili fiere: quanto più agiva, tanto meno parlava di sé. Dapprima Micipsa era stato lieto di tutto questo, pensando che dal valore di Giugurta sarebbe venuta gloria al suo regno; tuttavia, vedendo il prestigio di quel giovane aumentare sempre più, mentre lui era già anziano e i suoi figli ancora piccoli, cominciò a preoccuparsi gravemente di tale fatto, rivolgendo in sé mille pensieri. Lo atterriva la natura umana, avida di potere e pronta a soddisfare le proprie passioni, e inoltre l’opportunità della sua età e di quella dei suoi figli, adatta a traviare, con la speranza di un facile successo, anche gli uomini meno ambiziosi; lo atterriva, infine, il forte affetto dei Numidi per Giugurta, che gli faceva temere l’insorgere di una rivolta o di una guerra civile, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo.

Sallustio con il ritratto di Giugurta ci presenta un altro grande personaggio, anch’esso votato, come il suo predecessore Catilina, al male. Tuttavia è forte la differenza tra lui e il romano: quest’ultimo infatti veniva costruito attraverso una opposizione che ne rivelava la duplicità; in Giugurta invece l’autore ne mette in luce l’evoluzione. Infatti il giovane è escluso dalla successione perché figlio di una concubina; ma gli atti, che egli svolge in modo così naturale, ne fanno già un capo: la forza e la riservatezza. Sarà facile per i romani, per cui omnia venalia esse, corromperlo.

Quindi il racconto prosegue con la morte di Iempsale e la fuga di Aderbale, figli di Micipsa con cui Giugurta avrebbe dovuto condividere il regno. Il legittimo erede si rivolge ai Romani per chiedere giustizia, che rispondono con una soluzione compromissoria: la divisione in due del regno. Ma Giugurta vuole l’intero potere e cerca di conquistarselo con il denaro; corrompe alcuni nobili, assedia Aderbale nella suo parte di territorio e uccide alcuni cittadini italici che lì si trovavano e ne avevano preso le difese. Il Senato, temendo la reazione popolare, manda dapprima Lucio Calpurnio Bestia, che si lascia tuttavia corrompere. Ciò provoca ancora una forte indignazione presso il popolo romano: viene quindi convocato Giugurta a dare ragione del suo comportamento, ma ancora comprandosi alcuni nobili, riesce a non essere accusato e uccide anche un Numida presente al processo, nipote di Massinissa e quindi pretendente il trono. Viene mandato un altro console in Africa, ma questi preferisce farsi sostituire dal fratello. All’inconcludenza della classe nobiliare, alla fine si risponde con un atto che dovrebbe risolvere la situazione. Viene mandato adesso un uomo integerrimo, tale Metello. Al suo fianco un provinciale Mario, che aspira al consolato.

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Busto di Gaio Mario

MARIO
(63, 2)

At illum iam antea consulatus ingens cupido exagitabat, ad quem capiendum praeter vetustatem familiae alia omnia abunde erant: industria, probitas, militiae magna scientia, animus belli ingens domi modicus, libidinis et divitiarum victor, tantummodo gloriae avidus. 

Da tempo un’ambizione divorava Mario, quella di diventare console. Possedeva largamente tutte le doti necessarie all’infuori di una, l’antico lignaggio; aveva solerzia, rettitudine, grande preparazione militare, spirito indomito in guerra, moderato in pace; dominava le tentazioni dei sensi e della ricchezza, ed era avido di una sola cosa: la gloria.

In questo brevissimo frammento cogliamo un fatto di per sé significativo, di cui ci dicono il sostantivo cupido (ambizione, ma anche bramosia) e l’aggettivo avidus (avido, desideroso ma anche bramoso), ambedue riferiti a Mario. Qui Sallustio dimostra come anche lo sfrenato desiderio del potere politico e, collegato ad esso la gloria, può veramente dare due esiti: o quello catilinario (ambitio sine lege) o quello di Mario, che tuttavia non sarà risparmiato dalla sconfitta.

L’opera continua con Mario che vorrebbe rientrare a Roma per la sua candidatura, ma ciò provoca un forte deterioramento tra Metello e Mario stesso. Giugurta risponde alleandosi con un altro re africano, Bocco. Intanto il senato affida l’intero compito della guerra a Mario. Le vittorie di quest’ultimo spingono il re della Mauritania Bocco a staccarsi da Giugurta. Intanto arrivano i rinforzi da Roma, guidati da Silla.

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Ritratto di Lucio Silla

SILLA
(95, 3-4)

Igitur Sulla gentis patriciae nobilis fuit, familia prope iam extincta maiorum ignavia, litteris Graecis atque Latinis iuxta atque doctissimi eruditus, animo ingenti, cupidus voluptatum, sed gloriae cupidior; otio luxurioso esse, tamen ab negotiis numquam voluptas remorata, nisi quod de uxore potuit honestius consuli; facundus, callidus et amicitia facilis, ad simulanda negotia altitudo ingeni incredibilis, multarum rerum ac maxime pecuniae largitor. Atque felicissumo omnium ante civilem victoriam numquam super industriam fortuna fuit, multique dubitavere, fortior an felicior esset. Nam postea quae fecerit, incertum habeo pudeat an pigeat magis disserere.

Silla apparteneva a nobile stipe patrizia, d’un ramo però quasi estinto per la mediocrità dei suoi. Di letteratura greca e latina ne sapeva quanto un erudito; era un uomo ambiziosissimo, avido di piacere ma ancor più di gloria; dedicava il tempo libero alla lussuria, ma pure la voluttà non gli fece mai trascurare i suoi impegni: soltanto il suo comportamento verso la moglie avrebbe potuto essere più onesto. Eloquente, astuto, amabile, d’una capacità di simulazione incredibile addirittura, era prodigo di molte cose, ma soprattutto di denaro. Pure essendo stato il più fortunato di tutti, prima delle sue vittorie nelle guerre civili, non è che abbia avuto maggior fortuna di quanta ne abbia meritata: si sono chiesti in molti s’egli fosse più forte o più favorito dalla sorte: quanto alle azioni che compì poi, non so se a parlarne si provi più vergogna o disgusto.

Ancora un ritratto significativo, dove sempre troviamo le solite parole chiave, come cupidus, desideroso. Tuttavia, in un’opera in cui a essere colpevolizzati, più che Giugurta, sono i nobili romani, veri responsabili, egoisticamente chiusi nel loro privilegio, un uomo che da lì discendeva non poteva, anche da Sallustio, essere giustificato. Infatti ricomincia qui una certa ambiguità descrittiva: Silla è doctissimus, prodigus, ma anche luxuriosissimus e non honestus de uxorem, cioè difetti che minano in profondità il mos maiorum da cui è cominciata la decadenza della repubblica.

L’opera si conclude con Giugurta che, accordatosi segretamente con Bocco, attacca all’improvviso, ma viene respinto. Sarà l’atteggiamento assolutamente opportunistico dell’alleato di Giugurta a consegnare, infine quest’ultimo, ai Romani.

Quest’opera, rispetto alla precedente si presenta in modo più complesso, proprio perché se, pur con differenze anche notevoli, equanime poteva essere il giudizio negativo su Catilina, diverso è il discorso quando tale giudizio riguarda una parte della società romana: se infatti non ha torto nel criticare la nobiltà corrotta, ha altrettanto torto nel non nominare mai quella parte di nobiltà che corrotta non era, e lo stesso dicasi del popolari. Per meglio dire il suo giudizio politico, pur essendo l’episodio databile una cinquantina d’anni successivo, ancora risente del ribollente clima politico all’indomani dell’uccisione di Cesare.

Historiae

L’ultima grande opera di Sallustio avrebbe dovuto essere, appunto, un libro ben più ampio dei precedenti, in cui l’autore si sarebbe proposto di analizzare con più vasto respiro le cause della sua contemporaneità. La morte ne impedì il completamento, ma di essa ci rimangono alcuni stralci, fra i quali alcuni discorsi diretti. Ciò che è pervenuto ci offre una visione piuttosto cupa, in cui ci rendiamo conto come l’intero discorso sallustiano si basi proprio su una concezione pessimistica dell’uomo, le cui pulsioni, siano esse alte o basse, hanno sempre il predominio sulla ragione. Ma saranno proprio esse a fare, nel bene o nel male, la storia, secondo una concezione sempre eroica.

 

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