Breccia di Porta Pia
L’Italia all’indomani dell’unità è un paese che presenta delle contraddizioni interne che, nell’immediato danno voce a problemi di difficilissima soluzione:
- dal punto di vista politico si trattava di rendere effettiva una unità politica che presentava ancora differenze notevoli tra le popolazioni del paese;
- dal punto di vista culturale era necessario invece che gli intellettuali – che nell’età precedente avevano avuto un compito ben preciso che potremo riassumere con il termine di patriottismo, trovassero un nuovo ruolo e una nuova collocazione in un Italia che non rispecchiava i sogni che loro stessi e la generazione che li aveva preceduti avevano nutrito.
Il Regno d’Italia nasce nel 1861, sebbene termini completamente la sua annessione nel 1866 con il Veneto e nel 1870 con Roma. Sin da principio questo nuovo stato si mostrava al cospetto europeo come un paese fortemente arretrato, con un’economia ancora profondamente agricola, una limitatissima borghesia ed un livello culturale drammaticamente “basso”. Tutto ciò veniva aggravato dalla frattura esistente tra Nord e Sud e di come lo stesso re (che, pur dinanzi ad una nuova nazione, continuò a chiamarsi Vittorio Emanuele II) volle “conquistare” il Sud. Era questa la sensazione che molte popolazioni meridionali provarono ed infatti molti di loro, sentendosi estranei al processo risorgimentale, si ribellarono, dando vita al cosiddetto “brigantaggio”.
A tutto questo si aggiunge, dopo la presa di Roma, la frattura che si venne a creare tra laici e cattolici: frattura che comportò ufficialmente sino al ’19 (quando nacque il Partito Popolare di Don Sturzo) il divieto da parte dei credenti di partecipare alla vita civile e politica dello stato (quella che diventerà l’aristocrazia nera) con il non expedit (non conviene, non è opportuno). Ciò determinò nella costruzione di questa nuova realtà nazionale il mancato apporto di un’importante componente della società italiana, quale quella cattolica, nonché la difficoltà di instaurare un pur qualsivoglia dialogo a cui la Chiesa, almeno nei primi anni del nuovo regno, si mostrava completamente sorda.
Milano: Via Laghetto intorno al 1870, quando ancora c’era l’acqua del naviglio
La prima risposta culturale a questo stato di cose lo diede Milano, con un movimento che venne definito “Scapigliatura”.
Tranquillo Cremona: Ritratto di Cletto Arrighi
INTRODUZIONE A LA SCAPIGLIATURA E IL 6 FEBBRAIO
Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo mi trovai nella necessità o di coniare un neologismo o di andare a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo. Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perché s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dare a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricare parole nuove, per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente – e costui fu un letterato – una vita da débauché; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui mi ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo – ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica – e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatoio la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntare le cose un po’ difficili – confesso un mio debole – non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità d’individui d’ambo i sessi – v’è chi direbbe: una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo, indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per … mille e mille altre cause e mille altri affetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo – meritano di essere classificati in un nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe – che sarà meglio detto – vero pandemonio del secolo – personificazione della storditaggine e della follia, serbatoio del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
La Scapigliatura milanese è composta di individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili… Da un lato un profilo più italiano che Meneghino, pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioia la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizio e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori di una felicità inarrivabile e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.
Come già riportato nel titolo del brano, la Scapigliatura, come movimento letterario, trova il suo nome e il suo modo d’essere dall’introduzione di un romanzo del milanese Cletto Arrighi, giornalista e autore di feuilleton.
Cosa ci dice l’introduzione a La Scapigliatura e il 6 febbraio? In primo luogo l’identità tra il significato del termine e a chi lo vuole attribuire: se scapigliato vuol dire dai capelli disordinati attraverso una risemantizzazione (attribuzione di un nuovo significato) ora indicherà una certa razza di gente fra i venti e i trentacinque anni non più, pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo, indipendenti come l’aquila delle Alpi, e in seguito li ricollegherà a Milano, capitale allora di una incipiente industrializzazione e città meglio collegata alle novità culturali che allora provenivano soprattutto dalla Francia.
Detto chi sono l’Arrighi ci dice come sono e cosa fanno: inquieti, travagliati, turbolenti – i quali – e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere. In parole semplici sono “poveri”, emarginati e, come dice ancora l’autore fanno “gruppo” e li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili…
Sulla base di tale testo si così definire la scapigliatura:
- un fenomeno generazionale, che connota da subito la breve durata del loro movimento: 1860 – 1880. Molti muoiono in giovane età (per uso di alcol o di droghe) o abbandonano la scrittura; altri s’imborghesiscono (Arrigo Boito diventerà un celeberrimo librettista verdiano, dapprima tanto odiato);
- Milano: sebbene gli scapigliati non provengano tout court dalla città meneghina (anche il Piemonte avrà una parte importante) rappresenta pur sempre il centro più all’avanguardia dell’intera penisola, nel quale è presente la forte contraddizione tra l’Italia pre e post unitaria.
- La scapigliatura rappresenta una casta o nuova classe, ma non una scuola: eterogenee sono le esperienze come diversi sono gli esiti. Nonostante questo tra di loro condividono ideali e modi di pensare.
- Se eterogenei sono gli esiti, non altrettanto si può dire contro chi e cosa si rivolgono: opposizione contro i modelli dominanti e l’autoritarismo paterno. Il loro faro è il ribellismo figlio della loro voglia di bruciare l’esperienza e di porsi come “altri”.
- Identità tra esperienza biografica, indole e pratica letteraria. E’ inscindibile il binomio tra “ciò che hanno in testa e ciò che hanno in tasca”. La contraddizione tra ideale e reale sarà quasi un loro leitmotiv.
- La loro esperienza si traduce in un fatto estetico e nella ricerca di un nuovo concetto di “bello”.
Quali sono i miti polemici contro cui si scagliano?
- sul piano sociale rifiutano il perbenismo e la grettezza spirituale, per meglio dire le convenzioni della classe liberal-borghese, uscita trionfatrice dal processo risorgimentale. Proprio perché è la classe dalla quale provengono essi vogliono mettere in atto una vita autentica, libera, miserabile ma sincera. Per questo i loro atteggiamenti “irregolari” sono spessi esibiti con fierezza, l’uso ed abuso di alcol e droghe, sessualità libera e spesso deviante.
- sul piano economico rifiutano il modello borghese fondato sul denaro e si pongono dalla parte degli sfruttati ed emarginati. Nella loro letteratura entra a far parte il proletario urbano, anche se tale presenza non riesce (come in Francia) a tradursi in una precisa scelta di classe né in progetto politico.
- sul piano politico denunciano il fallimento dell’ideale risorgimentale, del concetto di Patria e della libertà. Non è un caso che alcuni scapigliati dopo aver preso le armi per liberare l’Italia dall’oppressore straniero, vedono i loro ex compagni adesso rivolgerle contro masse inermi di contadini estranei al processo unitario.
- Sul piano religioso annunciano la morte di Dio, ormai ridotto ad una serie di ritualizzazioni prive di significato. In alcuni di loro appaiono anche temi che potremo ricondurre alla blasfemia. Si sente tuttavia a volte l’esigenza di una religiosità più interiore.
- Sul piano letterario sono contro il Romanticismo e i suoi stanchi epigoni (soprattutto Prati ed Aleardi). Ma il rapporto più complesso è certamente con Manzoni, il quale viene difeso da alcuni come modello di una letteratura universale e per la sua rivoluzione linguistica, chi lo avversa come reazionario. Non bisogna dimenticare che la loro avversione è per quel tipo di letteratura liberal cattolica romantica italiana; non rifiutano viceversa il senso del mistero e dell’irrazionale che invece è figlio della letteratura nordica, soprattutto tedesca.
Ci sembra necessario ora posare lo sguardo sulle più importanti personalità, soffermandoci sia su alcuni esiti poetici sia su quelli prosastici che, proprio in quanto caratteristici di questa età, ci danno la misura dei limiti che tale movimento ebbe, ma nel contempo di come, all’interno di tali limiti, essi siano riusciti a porsi come prima “avanguardia” nazionale e a far sì che proprio da loro partissero poi le esigenze per rinnovare la letteratura sul piano della realtà (verismo) e nel contempo su quello dell’irrazionalità (simbolismo/decadentismo).
Arrigo Boito
Il primo che incontriamo è Arrigo Boito (1842-1918). Passa gli anni ’60 viaggiando per l’intera Europa e, al ritorno a Milano, per mezzo di Emilio Praga s’avvicina alla Scapigliatura. Scrittore, sperimenta la fiaba di carattere nordico con il prosimetro Re Orso, con accenti satirici e grotteschi ed intanto scrive su giornali recensioni musicali. Musicista egli stesso dà in scena il Mefistofele (1868) cercando di ricreare l’atmosfera wagneriana. I suoi versi vengono pubblicati soprattutto su riviste. Partecipa alla terza guerra d’indipendenza e al ritorno si stacca dall’ideologia e dalla letteratura giovanile e si fa librettista delle ultime opere verdiane (Otello e Falstaff).
Di lui riportiamo quello che, insieme al testo di Emilio Praga, è considerato il manifesto poetico della Scapigliatura:
DUALISMO
Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto chèrubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l’ale,
verso un lontano ciel.
Ecco perché nell’intime
cogitazioni io sento
la bestemmia dell’angelo
che irride al suo tormento,
o l’umile orazione
dell’esule dimone
che riede a Dio, fedel.
Ecco perché m’affascina
l’ebbrezza di due canti,
ecco perché mi lacera
l’angoscia di due pianti,
ecco perché il sorriso
che mi contorce il viso
o che m’allarga il cuor.
Ecco perché la torbida
ridda de’ miei pensieri,
or mansüeti e rosei.
or violenti e neri;
ecco perché, con tetro
tedio, avvicendo il metro
de’ carmi animator.
O creature fragili
dal genio onnipossente!
forse noi siam l’homunculus
d’un chimico demente,
forse di fango e foco
per ozïoso gioco
un buio Iddio ci fé
E ci scagliò sull’umida
gleba che c’incatena,
poi dal suo ciel guatandoci
rise alla pazza scena,
e un dì a distrar la noia
della sua lunga gioia
ci schiaccerà col piè.
E noi viviam, famelici
di fede o d’altri inganni,
rigirando il rosario
monotono degli anni,
dove ogni gemma brilla
di pianto, acerba stilla
fatta d’acerbo duol.
Talor, se sono il dèmone
redento che s’indìa,
sento dall’alma effondersi
una speranza pia
e sul mio buio viso
del gaio paradiso
mi fulgureggia il sol.
L’illusïon – libellula
che bacia i fiorellini
L’illusïon – scoiattolo
Che danza in cima i pini
L’illusïon – fanciulla
che trama e si trastulla
colle fibre del cor,
Viene ancora a sorridermi
nei dì più mesti e soli
e mi sospinge l’anima
ai canti, ai carmi, ai voli;
e a turbinar m’attira
nella profonda spira
dell’estro idëator.
E sogno un’Arte eterea
che forse in cielo ha norma,
franca dai rudi vincoli
del metro e della forma,
piena dell’Ideale
che mi fa batter l’ale
e che seguir non so.
Ma poi, se avvien che l’angelo
fiaccato si ridesti,
i santi sogni fuggono
impäuriti e mesti;
allor, davanti al raggio
del mutato miraggio,
quasi rapito, sto.
E sogno allor la magica
Circe col suo corteo
d’alci e di pardi, attoniti
nel loro incanto reo.
e il cielo, altezza impervia.
derido e di protervia
mi pasco e di velen.
E sogno un’Arte reproba
che smaga il mio pensiero
dietro le basse imagini
d’un ver che mente al Vero
e in aspro carme immerso
sulle mie labbra il verso
bestemmïando vien.
Questa è la vita! l’ebete
vita che c’innamora,
lenta che pare un secolo,
breve che pare un’ora;
un agitarsi alterno
fra paradiso e inferno
che non s’accheta più!
Come istrïon, su cupida
plebe di rischio ingorda,
fa pompa d’equilibrio
sovra una tesa corda,
tale è l’uman, librato
fra un sogno di peccato
e un sogno di virtù.
La poesia del 1863 è composta da sette strofe di settenari con rima abcbdde. L’ultimo verso tronco di ogni strofa, rima con l’ultima della strofa seguente. In essa appare il tema dell’inconciliabilità degli opposti che nel poeta vuol dire aspirare verso l’assoluto e contemporaneamente cadere nel vizio. Tale dualità sembra riprendere sia da una parte temi baudelairiani che gli scapigliati mostrano di conoscere assai bene sia quello fondamentale della delusione tra l’ideale preunitario ed il reale borghese, negatore di ogni bellezza del presente. Per questo è necessario cantare ciò che risponde alla bellezza assoluta etera, ma, essendo negato dalla meschinità della realtà, non rimane che rivolgersi ad una verità (materiale) che mente ad una Verità (ideale).
In Boito il tutto è reso con un verseggiare “cantabile” (non per niente è un musicista” che ne attenua l’asprezza del dettato, ciò che tuttavia tiene il testo (e l’intera scapigliatura) al di qua di una novità letteraria (come in Francia Baudelaire), utilizzando un lessico e repertori retorici che si richiamano alla tradizione.
Tranquillo Cremona: Emilio Praga sul letto di morte
Il poeta più importante e una delle personalità più emblematiche della Scapigliatura milanese è Emilio Praga (1839-1875). Figlio di una ricca famiglia industriale anche lui trascorre la giovinezza nel viaggiare e conoscere i luoghi e le personalità più importanti della cultura europea. A Milano conosce Cletto Arrighi, di cui diventerà amicissimo fino ad un litigio violento che metterà fine alla loro relazione. Discreto pittore cercherà di mettere in atto quella fusione delle arti che è una delle mete più importanti dell’estetica scapigliata. Dopo la nascita del figlio Marco nel 1862 e la morte del padre cade in miseria si lascerà trascinare dall’abuso di alcol e droghe. Separatosi dalla moglie, impossibilitato di vedere il figlio, si spegnerà in miseria nel 1875.
La poesia che vi presentiamo è nella raccolta poetica Penombre (1864) :
PRELUDIO
Noi siamo i figli dei padri ammalati;
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati,
sull’agonia di un nume.
Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già dall’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;
s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario…
Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visïoni assorto,
tu puoi morir!… degli anticristi è l’ora!
Cristo è rimorto!
O nemico lettor, canto la Noja,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boja,
il tuo cielo, e il tuo loto!
Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango…
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango,
giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!
Questa poesia è stata composta un anno dopo rispetto a quella di Boito e rappresenta, come già detto, un’altra lirica manifesto. E’ composta da 7 strofe di quattro versi, di cui tre endecasillabi e in modo alternato un settenario ed un quinario. Lo schema delle rime è ABAb.
Tale testo si può dividere nettamente in due parti: nelle prime 4 strofe si rappresenta tutto ciò che il poeta rifiuta, la religione cristiana – abbastanza ricco è il vocabolario che si riferisce a quest’area semantica, arca dell’Alleanza, il vitello d’oro, il Calvario, il Sudario – e il più alto rappresentante che della religione fa il suo fulcro letterario, Manzoni. Nella seconda viene invece sottolineato il vuoto e la noia, e la figura del “nemico lettore” che bisogna scandalizzare (temi ripresi dalla poesia di Baudelaire, ben conosciuta dal Praga). La verità non può quindi far altro che svelare la degradazione che la noia tende a ricoprire. Anche qui, come nella precedente poesia di Boito, il dualismo tipico della lirica scapigliata si inscrive in uno sperimentalismo letterario che gioca sull’eccesso, ma che non sdegna di misurarsi anche nell’elegiaco, quando il nemico lettore nella settima strofe diventa fratello.
Iginio Ugo Tarchetti
Sul piano della prosa l’autore più rappresentativo è certamente Iginio Ugo Tarchetti (1839 – 1869). Partecipa alla carriera militare fino al 1965, per poi dedicarsi alla letteratura. I suoi autori, dai quali trasse ispirazione per la sua opera, sono il tedesco Hoffmann e l’americano Poe. Da essi prese spunto per i suoi Racconti fantastici. Srisse anche un romanzo-pamphlet antimilitarista, intitolato Una lucida follia. Ma il suo capolavoro, rimasto incompiuto e terminato (l’ultimo capitolo) dal suo amico Salvatore Farina, è certamente Fosca.
A cinque anni dall’avvenimento, il militare Giorgio, vuole rievocare nella carta un periodo particolarmente doloroso della sua vita, caratterizzato dall’amore per due donne completamente antitetiche: Clara e Fosca. I ricordi iniziano quando il giovane militare, in congedo per malattia, decide di abbandonare il suo paese per recarsi a Milano, a far visita ad un amico. Qui Giorgio incontra Clara, una giovane donna ricca di bellezza e virtù con la quale intrattiene una tenera relazione amorosa, nonostante Clara sia sposata con un impiegato di un’amministrazione governativa. La relazione dura solo due mesi, quando Giorgio, viene richiamato e trasferito a nuova destinazione. Di stanza in un piccolo villaggio, Giorgio è spesso ospite nella casa del colonnello, comandante della guarnigione. E’ qui che il giovane fa conoscenza con la cugina di questo, Fosca, descritta dal proprio medico come «la malattia personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema nervoso». Fosca è una donna di rara bruttezza affetta da una grave malattia, ma allo stesso tempo dotata di un’acuta sensibilità e di una raffinata cultura: Giorgio presto inizia a subirne l’oscuro fascino, tanto da non riuscire ad evitarla e da essere costretto ad instaurare con la donna un morboso legame sentimentale. Da questa relazione Fosca sembra trarre nuovo vigore e quasi guarire dalla sua malattia, a scapito però di Giorgio, che si sente deperire e avvicinare alla morte. Con la complicità del medico, il giovane riesce a ottenere un trasferimento provvisorio a Milano, che in seguito dovrà diventare definitivo. Tuttavia, negli ultimi giorni di soggiorno in casa del colonnello succede l’irreparabile: Fosca, alla fine del romanzo, muore logorata dalla malattia in seguito ad una morbosa nottata trascorsa con l’amato, mentre Giorgio, sfidato a duello dal colonnello, è colto da un malore e si rende conto di essere vittima della stessa malattia della donna. Sopravvissuto al duello, Giorgio apprenderà solo dopo quattro mesi di malattia della morte di Fosca, avvenuta tre giorni dopo il duello. Il romanzo si chiude con una lettera del medico, che consiglia a Giorgio di viaggiare e distrarsi, in modo da poter guarire completamente.
FOSCA
Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca.
Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, cosí vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora cosí giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione. Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi, grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta; v’era ancora qualcosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso.
Certo ella aveva coscienza della sua bruttezza, e sapeva che era tale da difendere la sua reputazione da ogni calunnia possibile; aveva d’altronde troppo spirito per dissimularlo, e per non rinunziare a quegli artifici, a quelle finzioni, a quel ritegno convenzionale a cui si appigliano ordinariamente tutte le donne in presenza d’un uomo.
Me le era presentato da me stesso nell’entrare. Allorché fui seduto a tavola, ella venne a prender posto vicino a me, e mi disse con dolcezza:
«Vi vedo solo, e mi permetto di farvi un poco di compagnia. Desiderava di conoscervi, e di ringraziarvi personalmente dei libri che mi avete mandato. Mio cugino mi aveva parlato di voi, e avrei voluto vedervi un po’ prima. Ma come fare? Sono sempre cosí malata!»
Fui colpito dalla soavità della sua voce, piú ancora di quanto nol fossi stato dalla sua bruttezza.
«Ora mi sembrate però guarita» risposi io.
«Guarita! – esclamò ella sorridendo – mi pare di no. L’infermità è in me uno stato normale, come lo è in voi la salute. Vi ho detto che ero malata? Fu un abuso di parole. Ne faccio sempre. Per esserlo converrebbe che io uscissi dalla normalità di questo stato, che avessi un intervallo di sanità. Ho voluto tenermi chiusa parecchi giorni nella mia stanza, ecco tutto; ne aveva le mie ragioni; ho attraversato un periodo di profonda malinconia.»
Vedendo che la conversazione minacciava sì presto di trascinarci nel campo delle confidenze, mi astenni dal risponderle.
«Non sapete — ella riprese dopo un istante di silenzio e con tuono diverso di voce – che quel romanzo di Rousseau mi ha entusiasmata? Ne conosceva il soggetto, e ne aveva avuto sott’occhi alcuni sunti, ma non l’aveva mai letto.»
«Avete avuto troppo premura di restituirmelo, è libro che vuol essere meditato.»
«E’ vero, se il meditarvi sopra non fosse cosa pericolosa.»
«Parmi anzi utile.»
«Utile sí, certamente. Voleva dire pericolosa per la nostra pace, per noi donne, per… me. Vi sono delle letture che mi fanno male.»
«Voi sapete – io dissi per tenermi da capo sulle generali – che Rousseau, così virtuoso nei suoi libri, ha esposto cinque figliuoli alla ruota di Parigi?»
Essa mostrò di non aver compreso quell’artificio; accennò del capo come avesse voluto dire: “Altro è l’uomo, altro le sue opere”, e riprese: «Credo che il meditare sui libri e il rileggerli sia cosa sommamente inutile, anzi sommamente nociva; a meno che in tutta la vita non se ne leggesse che uno solo, e questo fosse tale da instillarci principi retti e da fortificarvici. Di libri educativi non ve ne può essere che uno, pena la contraddizione, giacché ogni uomo ha vedute opposte, o per lo meno diverse. Il leggere molti libri, il meditare su molti non ha altro effetto che quello di renderci dubbiosi sulle nostre idee, incerti nei nostri pensamenti; non si sa più a che cosa credere, e spesso si finisce col non credere più a nulla. Sono convinta che ogni libro che non diverte, fallisce il suo scopo; che ogni libro che fa pensare, nuoce. L’obiettivo d’ogni lavoro letterario dovrebbe essere la fantasia – non la testa che si guasta, non il cuore che sanguina – ma l’immaginazione che si esalta e gioisce. Non avete mai provato l’ebbrezza dell’immaginazione?»
«Qualche volta. Ma credete che i suoi piaceri siano innocenti?»
«O non vi è innocenza, o lo sono. Credo che possiamo non commettere una colpa, ma non possiamo non immaginarla. Non vi è azione senza idea di azione; bisognerebbe escludere il merito di fare o non fare. I traviamenti dell’immaginazione sono naturali, spontanei, direi quasi obbligatori; son essi che costituiscono il valore morale delle nostre azioni.»
«Queste teorie hanno tanto di specioso quanto hanno poco di vero; – io dissi – ma, se non sono in errore, vostro cugino vi ha accusata con me di far un abuso della lettura.»
«Sorvolo sui libri – rispose ella mestamente – come sarei sorvolata sulla vita, se la vita fosse stata per me. Ho letto una volta di un fiore la sommità del cui calice è sparsa di un polline dolce e salutare, e il fondo di un polline amaro e velenoso; le farfalle che vi si fermano troppo, vi muoiono; così è di tutte le cose; così è della vita. Non leggo né per imparare, né per pensare – abborro i libri di morale e di metafisica – leggo per dimenticare, per conoscere quali sono le gioie che il mondo dispensa ai felici e per goderne quasi di un eco. E’ tutto ciò che io posso fruire dell’esistenza; fuggire dalla realtà, dimenticare molto, sognare molto. Voi comprendete – aggiunse ella con aria di mesta ironia – il bisogno che io ho di attenermi a questo sistema, non avete che a guardarmi.
La presentazione di Fosca sembra ripercorre l’intento scapigliato di épater le bourgeois, descrivendo l’iperbolica bruttezza della protagonista, come personaggio principale di una “storia d’amore”. Tale bruttezza non è data da una deformità particolare, ma dalla sua eccessiva magrezza che ne lascia intravedere lo scheletro. Ecco allora che possiamo vederla come raffigurazione della morte stessa, come se Tarchetti abbia voluto rendere, all’interno di una storia contemporanea, il vecchio mito di eros e thanatos. Ma Fosca non è solo una malata (di cosa non è dato sapere, sembra più un dato esistenziale): in lei si agitano forti passioni, una vita intensa dettata da uno sguardo penetrante che invita di più all’ideale di una vita (i suoi grandi occhi). Tale ideale non può che vivificarsi nella letteratura che rifiuta ogni forma di pragmatismo e perbenismo, proprio come la scuola scapigliata insegna. Ella pertanto piena di sogni trascina verso di sé il militare, in uno scambio di vita/morte, trasmettendo l’inutilità del vivere, quando questo è realizzato nelle forme ormai desuete del romanticismo, Chiara.
Forse Tarchetti sentiva già dentro di sé la malattia (morirà di tisi), se sentirà l’esigenza di portarla dentro una pagina scritta. L’episodio che racconta, inoltre, le occorse veramente (s’innamora a Parma di un’epilettica, non bella, e la sua malattia sembra attrarlo) e suscitò, nella società d’allora, grande scandalo;
L’attrazione morbosa verso la morte sembra essere per lui un leit motiv, come si dimostra in un’altra celeberrima poesia:
MEMENTO!
Quando bacio il tuo labbro profumato,
cara fanciulla, non posso obbliare
che un bianco teschio vi è sotto celato.
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
obbliar non poss’io, cara fanciulla,
che vi è sotto uno scheletro nascosto.
E nell’orrenda visïone assorto,
dovunque o tocchi, o baci, o la man posi,
sento sporgere le fredda ossa di morto.
Gli esiti più alti, a parte il caso di Fosca, vennero tuttavia da due scrittori che potremmo dire “a latere” dell’esperienza scapigliata, di cui non condivisero a volte né il modus vivendi, né l’ideologia socialista/anarchica.
Carlo Dossi
Il primo di loro è Carlo Dossi (1849 – 1910), di nobile famiglia lombarda. Diverrà un eccellente ambasciatore diplomatico, dapprima a Bogotà, quindi ad Atene e sarà a capo della segretaria di Crispi. Alla morte di quest’ultimo si ritira a vita privata. Ingegno precocissimo dà alle stampe il suo capolavoro L’altrieri a soli diciotto anni:
INTRODUZIONE
I mièi dolci ricordi! Allorchè mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza – rotta solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna sull’ammattonato i circolari piombi della destra – mentre la gatta pìsola accovacciata sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolìo, sonnecchia; oppure quando, seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l’ànima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in segni di un lontano avvenire e stanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, strìngesi ad un intenso melancònico desiderio per ciò che fu. Io li evòco allora i mièi amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co’ suòi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tìrano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stùzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi comìnciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante aqua dal borbottino. Ed èccomi – a un tratto – bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala è calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidìssima mappa, dai lucenti cristalli, quà e là arrubinati, dalla scintillante argenterìa, vi ha molti visi – di chi, non sovvengo – visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lì, due mani in bianchi guanti, pòsano nel mezzo, su un piatto turchino, quel dolce che è la vera imàgine dell’inverno, che così bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e… Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso… E tutto rovina. Segue una tenebrìa: a mè par d’èssere solo, solìssimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto bìbì… Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’una e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d’un azzurro smagliante; l’àura, fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sè un cerchio. Com’ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringèndomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che làsciano il succio. E il cerchio intanto, abbandonato, traballa, disvìa… giravoltando, cade. Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. E’ la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire. E tò, in un salone (che stanzettina mi sembra adesso! ) entro una màchina di una sèggiola, mia nonna, ammagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscìo metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo, un cuffìone a nastri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lùcido intavolato, rùzzola, da mè lanciata, una trottola. Strìduli suoni d’un ansante organetto sàlgono dalla strada. Io, sùbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo al poggiuolo, arràmpico sul balaustrata e giù vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterèllano convulsi sullo sfiatato istrumento. – Oh i belli! i belli! – grido applaudendo… e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia civica, del padre, cerca d’impietosire impannate e vetriere, il mio più lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. E’ Nencia, la bambinaja: sobbràcciami d’improvviso, mi porta via – mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove stà un tepido bagno. E lì, essa e mamma, mi svèstono, mi attùffano, m’insapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia… Giuochiamo a chi fà il bacio più pìccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segreto fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispìgliano. E babbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! – Cattivo babbino – dico io schermèndomi – tu punci, tu… – Oh, i mièi amati ricordi, èccovi. Mentre di fuori, ai lunghi sospiri del vento, frèmono, piègansi le pelate cime degli àlberi e batte i vetri la pioggia – qui vampeggia il più allegro fuoco del mondo, scoppietta, trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschìssimi; quì, un mucchio di crepitanti marroni, or or spadellati, forma il centro del cìrcolo… Amici mièi, novelliamo.
Pagina esemplare, che mostra la distanza dalla narrazione per farsi quasi lirica, in cui nulla succede se non il liberarsi di pensieri senza alcuna casualità. Lo distanzia dalla grande prosa Novecentesca l’atto volontaristico della riesumazione memoriale, ma lo riscatta dalla produzione contemporanea un modernissimo uso della lingua, che mescola registri (dagli altissimi termini boccacciani “arrubinare” ai balbettii infantili (bibì, punci). Lo apparenta alla scapigliatura non certo la vita, ma il suo anticonformismo letterario, che lo farà riscoprire da grandissimi intellettuali del secolo scorso come grande maestro.
Vittorio Imbriani
Stessa sorte toccherà al napoletano, pur essendo vissuto a lungo nel Nord, Vittorio Imbriani (1840 – 1886), lontanissimo da qualsiasi accesso anarcoide, ma tutore rigorosissimo ed anche conservatore della tradizione. Fu considerato vicino alla scapigliatura per la ricerca di una scrittura irregolare, fortemente anticlassica. Ciò si può evincere dalla pagina tratta da uno dei suoi romanzi più famosi Dio ci scampi dagli Orsenigo (1887):
UOMINI AL CLUBBE
Maurizio, frattanto, ito al circolo, al clubbe, trovò, che alquanti scapestrati, pari suoi, giocavano al lanzichenecco, ch’è, press’a poco, il nostro zecchinetto; e le poste eran grosse. Si fermò, a guardare. Lo invitarono, a sedere al tavolino, ma se ne scusò. Il marchese Barberinucci, (cui, se vi ricorda, egli doveva diecimila lire, per le quali aveva firmata una cambiale,) il contino Capecchiacci, il cavalier Bacherini, il maggior De Cristoforis, il tenente Vermaleone ed alcuni altri astanti, a motteggiarlo, sulla sua prudenza, sul suo rinsavimento: e che brutto vizio era il giuoco! e’ farebbe, pur, bene, a guarirsene! Maurizio s’arrovellava, internamente; ma, pure, si schermiva, barzellettando, spiritoseggiando, con disinvoltura, deplorando la soppressione de’ conventi, che non gli permetteva di ritirarsi, in uno asilo romito, dal tumulto del mondo. «In un convento?» disse il Bacherini. «In un convento un mi ci ritirerei: piuttosto, in un monistero, sì,» Esaurito l’incidente, quando l’attenzione di tutti era, ben, rivolta, al giuoco, Maurizio, che vi assisteva, con gli occhi intenti e sbarrati, sentì mettere un braccio, sotto al suo. Si voltò. Gli era il marchese Barberinucci, che il trasse, nel vano d’una finestra. Questo marchese, bisogna figurarselo un uomo sulla cinquantina; tutto ritinto e ripicchiato; col naso e le gote, corrosi dal salso; un po’ guercio; frequentatore della piú alta società; ghiottone matricolato; fortunatissimo giocatore; donnajuolo esimio. Non isbarcava, in Fìrenze, ondechessia, una nuova… ehm ehm! c’intendiamo! ch’ei non fosse de’ primi, a spingere una ricognizione su quel terreno! Veramente, lo spendere, che faceva, era sproporzionato, a’ mezzi suoi confessabili; veramente, nessuno avrebbe saputo indicare, in quale angolo di Toscana, d’Italia o del mondo, fossero i feudi antichi suoi, le proprietà sue presenti; nondimeno, tutti il qualificavano di perfetto gentiluomo. Così, neppure gli ammiratori piú sfegatati (ne avea. Chi non ne ha? Un sot trouve, toujours, un plus sot, qui ‘l admire!) avrebber potuto specificare, quali meriti intrinseci, quali servigi, resi alla patria, gli avessero fruttata la nomina, a grand’uffiziale di non so quale ordine. Mah! nell’Italia nostra, i meriti ed i servigi vengono, così, stranamente, valutati! si ha un’idea, così, incomprensibile della parola gentiluomo! Gentiluomo non è l’uomo di prosapia illustre; non è l’uomo di nobili costumi e gentili; non è il gentleman inglese. E… guardatevi intorno; e vedrete, quante villane carogne pretendono e ricevono del gentiluomo, a tutto pasto. Il Barberinucci prese, come dicevamo, il Della-Morte, per sotto al braccio; ed il trasse, nel vano di una finestra: «Fai bene, a ‘un giocare; ecco! Chi ha fortuna in amore ‘un giôchi a carte». ‘Un giochi, goffaggine fiorentina delle piú sconce, per non giuochi. Fortunato in amore, Maurizio! lui, che aveva perduta quell’Almerinda, tanto cara! lui, oppresso, infeliciato, da quest’esosa Radegonda! Agli orecchi suoi, le parole del Barberinucci, di Bista Barberinucci, sonavano, con un senso ironico, che non era, nell’intenzione di chi le pronunziava. Balbettò qualche parola di diniego. «Non istare a sciorinarmi frottole, ecco!» replicò il marchese. «Ma sai, che, te, sei un gran porco, di horrer drietro, a tante femminacce, aendo in casa quer pezzo di donna, che nascondi, agli amici?» «Aaahn! capisco, adesso, cosa vuoi dire. Ma t’assicuro, che è una fortuna d’amore, onde io mi sbrigherei, piú che volentieri». Il Barberinucci sorrise, come chi trova, alla bella prima, quella carta, che s’era accinto a cercare, fra un mucchio enorme di scritture, senza alcuna lusinga di rinvenirla od, almeno, di potervi metter su la mano, presto. «Intendo! Toujours perdrix!» E proseguì «O chi è? O come si chiama? O da quando hai preso, a mantenerla, te? O con chi la staa, prima? Ti hosta molto, eh? O perché la un si ede, mai, alle Hascine? Ecco, una bella donna è!» Dapprima, il Della-Morte tacque, imbarazzato. Gli si affollarono, innanzi alla mente, i sacrificî, fatti, per lui, dalla Radegonda; qual donna la si fosse: e fin le diecimila lire, offertegli, la mattina: e, da lui, condizionatamente, accettate; e sulle quali contava, per pagare, appunto, l’interlocutore. Stette, quindi, per contraddirgli, per disingannarlo, dal supporre, nella signora Salmojraghi-Orsenigo, una femmina da conio. Ma perché prendersi tanto incomodo? ma che gliene importava? Sorrise, adunque, di quel fatuo riso, che può valer, per un’affermazione, e che suol farsi, trattandosi di femmine, quando vogliamo far credere ciò, che si reputa malfatto il divulgare, e che, spesso, non è vero. Non s’è spifferato un esplicito sì, quindi, niuno ha il dritto di chiamarci ned indiscreti né menzogneri. Con quel sorriso, Maurizio si scostò, dal Barberinucci, sclamando: «Ah! se sapessi! Non tutto quel, che luce, è oro. Darei qualunque cosa, per esser liberato, da quella pittima! Maledetto il momento, in cui la presi! La trovi bella tanto? A me, piace, neppure». E prese a camminar, su e giú, per salotto, soffermandosi, però, in ogni giravolta, presso il tavolino da giuoco.
Dio ne scampi dagli Orsenigo è una sfottitura delle istanze sentimentali dei romanzi, con una satira dove ogni ingenuità cade sotto la sferza della coscienza ironica. E’ uno dei romanzi più arditi del suo tempo, ma segnato da una pedagogia castigatoria, come se qualcuno ci dicesse: «Adesso vi faccio vedere io come vanno a finire tutte le favole sull’amore, con le belle fantasie romantiche!» Ovvero, come termina il capitolo XVI: «Cosa vuol dire fare i conti senza l’oste!».
Ma la pagina presentata è un ardito esempio di anti manzonismo proprio laddove l’autore milanese era più celebrato, la lingua. Se infatti nei Promessi sposi Manzoni si fa garante di una lingua media che egli trova nel fiorentino parlato dai colti, Imbriani utilizza lo stesso fiorentino capovolgendolo in maniera sarcastica ed indicando, senza alcuna remora, come l’operazione dello scrittore romantico fosse falsa e fuorviante. Ed è proprio nel suo sarcasmo contro il grande maestro, sia nella trama del romanzo che nella lingua, possiamo avvicinare Imbriani alla scapigliatura.
Ma è come voler dire che ogni autore, che all’indomani dell’Unità abbia sentito l’esigenza di allontanarsi dal passato per dare una nuova prospettiva culturale, sia lui appartenuto o no al movimento scapigliato, si debba ascrivere a quel sentimento “ribellistico” che animava i discorsi sul fare letterario.