TRA CHIESA, IMPERO E COMUNI

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Miniatura di Firenze medievale 

La nostra letteratura nasce, al di là dei tentativi linguistici non legati propriamente alla cultura quale noi intendiamo, nel 1224 ad opera di San Francesco. Nella data in cui il Santo redige, in punto di morte, la sua lauda, l’Italia è già pienamente nel Basso Medioevo. E’ quindi necessario vedere tale periodo un po’ più da vicino, per cogliere, sin dalle nostre origini, la nostra frammentarietà culturale che si può cogliere appunto:

  • nella politica culturale della Chiesa, che si rinnova con la fondazione di nuovi ordini;
  • nell’idea imperiale, negata tuttavia dai Comuni, che si traduce in un forte stato centrale nel Meridione d’Italia;
  • nei Comuni che piano piano, attraverso lotte interne ed esterne per il predominio, ma primi in Europa per capacità commerciale, getteranno il seme per la grande poesia fiorentina del ’300.

Chiesa

La Chiesa, che per tutto l’Alto Medievo aveva conservato una posizione egemone, sia dal punto di vista politico che culturale, aveva subito, a cavallo tra l’XI e il XII un duro attacco dal mutato clima politico che stava attraversando l’intera Europa e principalmente la nostra penisola. Infatti, sin da Teodosio, che aveva fatto della Chiesa l’unica religione di Stato, e in seguito la fondazione di monasteri e abbazie, aveva reso la stessa sempre più ricca ed interessata alla questioni mondane. L’affermazione del feudalesimo aveva in qualche modo rafforzato tale posizione, con la figura dei vescovi-conti, dei veri e propri feudi gestiti dagli ecclesiastici.

Proprio a cavallo dell’anno Mille, un miglioramento delle condizioni di vita, la nascita della figura del mercante, il fallimento dell’idea universalistica imperiale (segnata dalla battaglia di Lepanto 1176, in cui l’esercito dell’imperatore Federico Barbarossa  veniva sconfitto dai comuni del nord Italia, capitanati da Milano) vedeva il tramonto anche della visione universalistica di tipo cattolico.

Già intorno all’anno 1000 la Chiesa cattolica non poteva non subire la “provocazione” ed il mutato modus vivendi delle corti medievali e della raffinata cultura cortese, che ne hanno messo in crisi le granitiche certezze, ora deve combattere le numerose critiche che tendono a sottolineare la sua mondanizzazione con la conseguente perdita del messaggio originario del Vangelo. (Ci piace ricordare il movimento dei Patarini, a Milano, che diede anche l’avvio alla nascita della rivendicazione dell’autonomia della città rispetto all’Impero). Di fronte al rischio per le stesse gerarchie ecclesiastiche di perdere l’egemonia culturale che sino ad allora avevano gelosamente conservato “estirpando” dal cattolicesimo ogni forma di messa in discussione dell’autorità della Chiesa di Roma, si cominciò dapprima a colpire l’eresia dove essa si annidava: ne è un esempio, come visto, la crociata contro gli Albigesi.

Ma le esigenze che si erano sviluppate e avevano portato l’intera società europea, a cavallo tra l’Alto e Basso Medioevo a creare un nuovo modo di vivere e prospettare la società, non possono essere estirpate con la sola forza: se ne rende conto Innocenzo III (1160 – 1216) che preferisce da una pare combattere l’eresia a livello teologico offrendo l’incarico a Domenico di Guzman che, per far ciò, prende coscienza che è necessaria una profonda dottrina cristiana che si ottiene con uno studio atto a preparare predicatori che con le parole e l’esempio, riescano a portare la “verità” della Santa Madre Chiesa, laddove essa è messa in discussione (nasce cosi l’ordine dei Domenicani);

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Beato Angelico: Domenico di Guzman

dall’altra combattere i “pauperismi” inserendoli all’interno della Chiesa stessa: a tale compito si serve della figura e ideologia di Francesco d’Assisi che propugna una vita “estrema”, basata sulla totale povertà e sulla parola di Dio e sull’imitazione della vita di Cristo. Ottenuta l’approvazione orale da Innocenzo III, il suo movimento, i Francescani, appunto, viene in seguito formalmente riconosciuto da Onorio III (1150 circa – 1227). Alla morte del fondatore tale movimento si divide a sua volta in spirituali e conventuali: i primi, volendo portare avanti in modo integrale gli insegnamenti di Francesco, cadono, in seguito, nell’eresia; i secondi, invece, si mostrano più inclini a provare un fruttuoso compromesso con la Chiesa.

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Giotto: Onorio III approva la Regola di Francesco

Cultura religiosa

FRANCESCO D’ASSISI

Come già detto la cultura italiana nasce proprio intorno a queste grandi questioni storiche riguardanti la Chiesa, con la figura e l’opera di San Francesco. Nasce nel 1181 da un ricco mercante, ma già nel 1204 rinuncia al suo patrimonio e, dopo un periodo di solitudine, inizia la sua predicazione elaborando due Regole, la prima approvata da Innocenzo III e la seconda da Onorio III. Capace d’entrare nel cuore della povera gente, già immediatamente dopo la sua morte la sua figura diviene leggendaria: anche Dante Alighieri farà di lui un santo protagonista di un canto del Paradiso. Di lui possediamo una serie di scritti in latino. Ma l’opera più importante, quella con cui facciamo iniziare la letteratura nella nostra lingua è una prosa ritmata o lauda, composta, secondo la tradizione, per l’ultima parte, in punto di morte.

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Francesco predica agli uccelli

LAUDES CREATURARUM

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.

Laudatu si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale ale tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ellu è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,

et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitade et tribulatione.
Beati quelli ke-l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
dala quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.

Laudate et benedicete mi’ Signore, et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

Altissimo, onnipotente e buon Signore / a te spettano la lode, la gloria e l’onore ed ogni benedizione. / A te solo altissimo, si confanno, / e nessun uomo è degno di pronunciare il tuo nome. // Che tu sia lodato, mio Signore, con tutte le tue creature, / specialmente fratello sole, / che rappresenta la luce del giorno e Tu ci illumini per mezzo suo. / Ed esso è bello, i suoi raggi sono molto splendenti: / simboleggia Te, o Altissimo. // Che tu sia lodato, mio Signore, per sorella luna e per le stelle / in cielo le hai create lucenti, preziose e belle. // Che tu sia lodato, mio Signore, per fratello Vento / e per l’aria sia quando è sereno che quando è nuvolo e in ogni tempo, / per mezzo della quale dai nutrimento alle creature. // Che tu sia lodato, mio signore, per sorella Acqua / la quale è molto utile e umile e preziosa e pura / Che tu sia lodato, mio Signore, per fratello fuoco, / con il quale illumini la notte: è bello, lieto, vigoroso e forte. // Che tu sia lodato, mio Signore, per nostra sorella la madre la Terra, / la quale ci nutre e alleva / e produce frutti diversi, fiori colorati ed erba. // Che tu sia lodato, mio Signore, per coloro che perdonano per amor tuo / e sopportano malattie e sofferenze. // Beati coloro che sopporteranno in pace / che da te, Altissimo, saranno salvati. // Che tu sia lodato, mio signore, per nostra sorella morte corporale, / alla quale nessun uomo vivo può sfuggire: / guai a coloro che morranno nel peccato mortale; / beati quelli che troverà nella tua santissima volontà / perché non saranno colpiti dalla condanna eterna. // Lodate e benedite il mio Signore, / ringraziatelo e servitelo con grande umiltà.

E’ questo un testo che ha presentato alcuni problemi critici sia riguardo il modo di “collocarlo” che il dettato vero e proprio. Per il primo punto, ad esempio, la differenza che vi è tra una preghiera e il testo di Francesco è nell’umanizzazione che qui si compie. Tutte le Creature ricordate da Francesco hanno senso non in sé ma in quanto utili all’uomo. E’ proprio sull’uomo si fondano le ultime strofe, ribadendo la sua libertà di scelta, ma che avrà conseguenze sul piano divino.

Ancora di difficile spiegazione è il per, che dal propter latino può assumere valore causale, o, dal par francese, valore d’agente. Ma oggi sembra prevalere il senso mediale, cioè porre l’uomo tra le creature e Dio e fare di esso un lodatore del Signore attraverso le creature, nella loro essenza che, come già detto, è utile all’uomo stesso.

  • Nonostante l’intento di Francesco sia di “comunicare” alle persone semplici l’amore di Dio, la sua laude rivela un tessuto colto dovuto:
  • ripresa dai Salmi e Cantici della Sacra Scrittura;
  • l’utilizzo dell’anafora Laudato sì, mi Signore in tutte le strofe del testo ad eccezione della prima e l’ultima;
  • Rime stelle / belle, rengratiate / humiltate… la cadenza ritmica ed i latinismi, grazie anche all’assonanza che permette alle parole poste alla fine di ogni verso di somigliarsi nel vocalismo e nella tonalità. 

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Gentile da Fabriano: Le stimmate di San Francesco (1420)

JACOPONE DA TODI 

Jacopone quando nasce (tra il 1230 e il 1235) quando Francesco è già morto. Si narra che egli abbia fatto da giovane vita spensierata e gaudente e che la sua repentina conversione sia dovuta alla moglie che, durante una festa, cadendo dal pavimento al piano sottostante, venne scoperta con il cilicio indosso. Entra, nel 1278, nei Francescani come frate minore e s’inserisce tra gli Spirituali, assumendone gli aspetti più forti e radicali. Capace osservatore della realtà “politica” della Chiesa, guarda con attenzione l’elezione di Celestino V, ma, alla sua abdicazione a favore di Bonifacio VIII, la cui elezione ritiene illegittima, dà sfogo a tutta la sua rabbia, ottenendone in cambio il carcere e la scomunica. Dopo aver trascorso anni durissimi in cella, ottiene il perdono da Benedetto XI nel 1303. Ritiratosi in monastero, dopo tre anni, muore.

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Ritratto di Jacopone

La poesia di Jacopone s’inserisce in quel filone, che prenderà appunto il nome di lauda, che si mostrava particolarmente diffuso in tutto il centro Italia. Essa prende la forma della ballata, come dice la parola stessa, lirica musicata, estremamente efficace per veicolare messaggi religiosi a livello popolare. Le laudi del poeta umbro differiscono notevolmente dalla preghiera/poesia di Francesco, pur condividendone i principi fondamentali: vi è in lui una forte radicalizzazione sia riguardante i temi politici, che quelli corporei e/o spirituali. Infatti, pur diverse nel contenuto, il suo laudario (abbiamo 96 opere di Jacopone) è tutto centrato intorno al purismo religioso. Quando troviamo infatti una lode politica, come ad esempio Che farai, Pier dal Morrone? (rivolta a Celestino V) o in Jubelo del core e ancora in O signor, per cortesia, troviamo in esse un unico motivo ispiratore: la purezza religiosa.

QUE FARAI, PIER DAL MORRONE?

Que farai, Pier dal Morrone?
Èi venuto al paragone.

Vederimo el lavorato,

ché en cella hai contemplato.
S’è ’l monno de te engannato,
séquita maledezzone.

La tua fama alta è salita
en molte parte n’è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon’ sirai confusïone.

Como segno a saietta,

tutto lo monno a te affitta:
se non ten’ belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.

Si se’ auro, ferro o rame,
provàrite en esto esame;
quign’ hai filo, lana o stame,
mustàrite en esta azzone.

Questa corte è una fucina
che ’l bon auro se ce affina:
s’ello tene altra ramina,
torna ’n cennere e ’n carbone.

Se l’ofizio te deletta,
nulla malsania è più enfetta,
e ben è vita maledetta
perder Dio per tal boccone.

Granne ho avuto en te cordoglio
como t’escìo de bocca: «Voglio»,
ché t’ hai posto iogo en coglio
che t’ è tua dannazïone.

Quanno l’omo vertüoso
è posto en loco tempestoso,
sempre ’l trovi vigoroso
a portar ritto el gonfalone.

Grann’ è la tua degnetate,
non è men la tempestate,
grann’ è la tua varïetate
che trovari en tua mascione.

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Ritratto di Celestino V

Che farai Pietro Angelieri da Isernia, eremita sul monte Morrone (futuro Celestino V) / è giunto per te il momento della prova. // Vedremo il tuo operato / che hai meditato nella cella del convento. / Se il mondo sarà ingannato da te / seguirà una maledizione. // La tua notorietà ti ha innalzato / è andata in tutti i luoghi: / se alla fine ti sporcherai / per i buoni creerai confusione. // Come bersaglio di una freccia / tutto il mondo ti guarda: / se non terrai dritta la bilancia  della giustizia / sarai chiamato in giudizio da Dio. // Se sei oro, ferro o rame / lo potrai mostrare con questo esame / che tipo di stoffa hai, di filo, di lana grezza o di lana pettinata, / lo mostrerai con questa azione. // Questa corte è una fucina / nella quale l’oro pregiato viene raffinato. / Se quello possiede un sovrappiù di rame / si trasforma in cenere e in carbone. // Se ti piace l’ufficio papale / nessuna lebbra è più infetta, / ed è veramente vita maledetta / perdere Dio a causa di tale cibo. // Grande dispiacere ho provato per te / quando t’uscì di bocca “Voglio” (ad indicare l’accettazione papale) / perché ti sei posto un giogo sul collo / che sarà la tua dannazione. // Quando l’uomo di valore / è posto nella tempesta / lo trovi sempre forte e virtuoso / nel sorreggere il gonfalone. // Grande è la tua dignità, non minore è la tempesta; / grande è la varietà di persone che troverai nella tua casa.

In questa ballata il primo passo quello che si nota è l’incalzare del discorso che si fa sempre più stringente nell’indicare a Celestino V che se si prende un impegno questo è da rispettare con tutta la vigoria di un uomo che, scegliendo un incarico, sceglie anche l’energia con cui lo deve svolgere. Da qui “il cordoglio” di Jacopone, che sa, forse, dell’incapacità di Pietro e di come il mondo papale sia pieno di corruzione e di arroganza. Da qui quella rabbia mista a pessimismo di questo testo.

O SEGNOR, PER CORTESIA

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Lebbroso con campanella (Miniatura)

O Segnor, per cortesia,
manname la malsania,

A me la freve quartana,

la contina e la terzana,
la doppia cotidïana
co la granne etropesia.

A me venga mal de denti,

mal de capo e mal de ventre,
a lo stomaco dolor pognenti,
e ’n canna la squinanzia.

Mal degli occhi e doglia de fianco
e l’apostema dal canto manco;
tiseco ma ionga en alco
e d’onne tempo la fernosia.

Aia ’l fecato rescaldato,
la milza grossa, el ventre enfiato,
lo polmone sia piagato
con gran tossa e parlasia.

A me vegna le fistelle

con migliaia de carvoncigli,
e li granchi siano quilli
che tutto repien ne sia.

A me vegna la podagra,
mal de ciglio sì m’agrava;
la disenteria sia piaga
e le morroite a me se dia.

A me venga el mal de l’asmo,
iongasece quel del pasmo,
como al can me venga el rasmo
ed en bocca la grancìa.

A me lo morbo caduco
de cadere en acqua e ’n fuoco,
e ià mai non trovi luoco
che io affritto non ce sia.

A me venga cechetate,

mutezza e sordetate,
la miseria e povertate,
e d’onne tempo en trapparia.

Tanto sia el fetor fetente,
che non sia null’om vivente
che non fugga da me dolente,
posto ’n tanta ipocondria.

En terrebele fossato,
ca Riguerci è nomenato,
loco sia abbandonato
da onne bona compagnia.

Gelo, granden, tempestate,
fulgur, troni, oscuritate,
e non sia nulla avversitate
che me non aia en sua bailia.

La demonia enfernali
sì me sian dati a ministrali,
che m’essercitin li mali
c’aio guadagnati a mia follia.

Enfin del mondo a la finita
sì me duri questa vita,
e poi, a la scivirita,
dura morte me se dia.

Aleggome en sepoltura

un ventre de lupo en voratura,
e l’arliquie en cacatura
en espineta e rogaria.

Li miracul’ po’ la morte:

chi ce viene aia le scorte
e le vessazione forte
con terrebel fantasia.

Onn’om che m’ode mentovare
sì se deia stupefare
e co la croce signare,
che rio scuntro no i sia en via.

Signor mio, non è vendetta
tutta la pena c’ho ditta:
ché me creasti en tua diletta
e io t’ho morto a villania.

O Signore, per cortesia, / mandami la lebbra. // Mandami la febbre quartana, / la febbre continua e quella terzana, / quella che provoca due attacchi al giorno, / con la grande idropisia. // Mi venga il mal di denti, / mal di testa e mal di pancia, / allo stomaco dolori acuti, / e nella gola l’angina. // Mal di occhi e dolori ai fianchi / e l’ascesso al fianco sinistro; / e mi sopraggiunga la tisi da qualche parte / e sempre la frenesia, il delirio. // Che io abbia il fegato infiammato, / la milza grossa, il ventre gonfio, / il polmone sia afflitto da piaghe / con grande tosse e paralisi. // Mi vengano le fistole / con migliaia di foruncoli, / e i tumori siano tanti / e che io ne sia tutto pieno. // Mi venga la gotta, / il male agli occhi mi metta in pericolo di vita; / la dissenteria sia una piaga / e le emorroidi si diano a me. // A me venga l’asma, / e vi si aggiunga l’angina pectoris, / come al cane anche a me venga la rabbia / e in bocca le ulcere. // Mi venga l’epilessia, / di cadere in acqua e in fuoco, / e io non trovi mai luogo / che io non sia afflitto. // Mi venga la cecità, / mutismo e sordità, / la miseria e la povertà, / e nel tempo il rattrappimento. // Sia tanto il fetore / che non ci sia nessun uomo vivente / che non fugga da me dolente, /posto di fronte a tanta infermità. // Nel terribile fossato, / come Riguerci, (località in cui venivano abbandonati i malati incurabili) / là io sia abbandonato / da tutte le persone. // Gelo, grandine, tempesta, / fulmini, tuoni, oscurità / e non ci sia nulla / che non mi abbia in sua balìa. / Le pene infernali / siano date a me come servitori, / che mi infliggano i mali /che mi sono meritato con la mia follia. // Che possa soffrire fino alla fine del mondo, / finché dura la mia vita, /e poi al momento della morte / questa mi sia data dura, / mi scelgo come tomba / un ventre di lupo che mi abbia divorato, / e le mie reliquie siano ciò che / dal lupo sarà stato defecato tra spine e rovi. // I miracoli da me compiuti dopo la morte siano: / chi viene sulla mia sepoltura / sia perseguitato da una schiera di spiriti maligni / con terribili visioni. // Chiunque mi oda menzionare / deve inorridire / e farsi il segno della croce, / in modo da non fare cattivi incontri. // Signore mio, non è una espiazione sufficiente questa / per tutta la pena e la colpa che ho: /perché Tu mi hai creato per amore, / ed io ti ho ucciso per la mia folle ingratitudine.

Da un uomo così radicale nei suoi temi, non potevamo aspettarci che un disprezzo del corpo, cioè una vera e propria voluptas dolendi che permetta all’uomo di ritrovare appieno la purezza di un’anima completamente rivolta al Signore. Da qui il profondo contemptus mundi tipico degli spirituali e soprattutto di quella frangia tra di essi che aderì, più o meno contemporaneamente, alla setta dei flagellanti. A caratterizzare tale testo sono soprattutto due peculiarità:

  • espressivismo linguistico: il nostro usa un linguaggio fortemente “realistico e ripugnante” a disegnare il suo discorso;
  • capovolgimento ideologico della coeva poesia cortese: O Segnor, per cortesia, dove al concetto di cortesia fa da contrasto e io t’ho morto a villania, il concetto di villania, significativamente al primo e all’ultimo verso.

O IUBELO DEL CORE

 O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!

 Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare;
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ’l dolzore.

 Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.

 Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’ha ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de che sente calore.

 O iubel, dolce gaudio
ched entri ne la mente,
lo cor deventa savio,
celar suo convenente;
non pò esser soffrente
che non faccia clamore.

 Chi non ha costumanza
te reputa ’mpazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito;
dentr’ha lo cor ferito,
non se sente da fore.

O grido di gioia del cuore, / che fai cantar d’amore! // Quando la gioia si scalda, / così fa cantare / e la lingua balbetta, / e non sa più cosa dire /dentro non può nascondere / quanto è intensa la dolcezza! // Quando la gioia si è accesa / così fa gridare, / il cuore è così infiammato d’amore, / che non si può più sopportare; / stridendo, lo fa gridare / e non si vergogna allora. // Quando il giubilo ha infiammato / il cuore innamorato, / la gente lo deride, / pensando al modo in cui si esprime, / poiché parla senza misura / di ciò di cui sente calore. // O giubilo, dolce piacere / che sei nella mia mente / il cuore diventa saggio / nel nascondere la sua condizione, / ma non può sopportare / di non gridare di gioia. // Chi non ha esperienza / ti reputa impazzito, / vedendo il tuo comportamento anomalo /come se si fosse impazziti. / Dentro ha il cuore ferito (lacerato dall’esperienza mistica) / non ha percezione di ciò che accade all’esterno.

Se la sofferenza del corpo deve portare all’annullamento di sé, lo stesso avviene per troppa gioia, che contiene in sé il concetto, che diventerà poi classico dell’inesprimibilità. Egli infatti procede attraverso un climax che contiene sempre in sé l’idea di non poter affermare la gioia: dapprima la lingua balbetta e non sa che dire, poi il gridare per infine provocare un vero e proprio clamore, il tutto vissuto in una sfera emozionale, al di là di ogni logica, arrivando così a dare la propria visione dell’amore mistico verso Dio.

Ma dove egli riesce a dare il meglio di sé è proprio quando esce di sé, per osservare il dolore di chi, perdendo Cristo, perde un figlio:

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La disperazione di Maria in un fotogramma del film “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini

IL PIANTO DELLA MADONNA

 Nunzio
Donna del paradiso,
lo tuo figliolo è priso,
Jesu Cristo beato.

Accurre, donna, e vide
che la gente l’allide!
credo che ’llo s’occide,
tanto l’on flagellato.

Madonna
Como esser porrìa
che non fece mai follia,
Cristo, la speme mia,
om’ l’avesse pigliato? 

Nunzio
Madonna, egli è traduto,
Juda sì l’ha venduto
trenta denar n’ha ’vuto,
fatto n’ha gran mercato.

Madonna
Succurri, Magdalena,
gionta m’è adosso piena!
Cristo figlio se mena,
como m’è annunziato.

Nunzio
Succurri, Donna, aiuta!
ch’al tuo figlio se sputa
e la gente lo muta,
hanlo dato a Pilato.

Madonna
O Pilato, non fare
lo figlio mio tormentare,
ch’io te posso mostrare
como a torto è accusato.

Popolo
Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege,
contradice al senato.

Madonna
Priego che ’entendàti,
nel mio dolor pensàti;
forsa mò ve mutati
de quel ch’avete pensato.

Popolo
Tragon fuor li ladroni
che sian suoi compagnoni.
De spine se coroni!
ché rege s’è chiamato.

Madonna
O figlio, figlio, figlio!
figlio, amoroso giglio,
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustiato?

Figlio, occhi giocondi,
figlio, co’ non respondi ?
figlio, perché t’ascondi
dal petto o’ se’ lattato ? 

Nunzio
Madonna, ecco la cruce,
che la gente l’aduce,
ove la vera luce
dèi essere levato.

Madonna
O croce, que farai?
el figlio mio torrai?
e che ce aponerai
ché non ha en sé peccato? 

Nunzio
Succurri, piena de doglia,
ché ’l tuo figliol se spoglia;
e la gente par che voglia
che sia en croce chiavato.

Madonna
Se glie tollete ’l vestire,
lassàtelme vedire
come ’l crudel ferire
tutto l’ha ’nsanguinato.

Nunzio
Donna, la man gli è presa
e nella croce è stesa,
con un bollon gli è fesa,
tanto ci l’on ficcato!

L’altra mano se prende,
nella croce se stende,
e lo dolor s’accende,
che più è multiplicato.

Donna, li piè se prenno
e chiavèllanse al lenno,
onne iontura aprenno
tutto l’han desnodato.

Madonna
Ed io comencio el corrotto.
Figliolo, mio deporto,
figlio, chi me t’ha morto,
figlio mio delicato?

meglio averìen fatto
che ’l cor m’avesser tratto,
che, nella croce tratto,
starce descilïato. 

Cristo
Mamma, o’ sei venuta ?
mortal me dài feruta,
ché ’l tuo pianger me stuta,
ché ’l veggio sì afferrato.

Madonna
Figlio, che m’agio anvito,
figlio, patre e marito,
figlio, chi t’ha ferito?
figlio, chi t’ha spogliato?

Cristo
Mamma, perché te lagni?
voglio che tu remagni,
che serve i miei compagni
ch’al mondo agio acquistato.

Madonna
Figlio, questo non dire,
voglio teco morire,
non me voglio partire,
fin che mò m’esce il fiato.

Ch’una agiam sepultura,
figlio de mamma scura,
trovarse en affrantura
mate e figlio affogato.

Cristo
Mamma col core affetto,
entro a le man te metto
de Joanne, mio eletto;
sia il tuo figlio appellato.

Joanne, esta mia mate

tollela en caritate
aggine pietate
ca lo core ha forato.

Madonna
Figlio, l’alma t’è uscita,
figlio de la smarrita,

figlio de la sparita,
figlio attossicato!

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio
figlio a chi m’appiglio ?
figlio, pur m’hai lassato.

Figlio bianco e biondo,
figlio, volto iocondo,
figlio, perché t’ha el mondo,
figlio, così sprezato?

Figlio, dolce e piacente,
figlio de la dolente,
figlio, hatte la gente
malamente treattato!

O Joanne, figlio novello,
morto è lo tuo fratello,
sentito aggio ’l coltello
che fo profetizzato.

Che morto ha figlio e mate
de dura morte afferrate,
trovarse abracciate
mate e figlio a un cruciato.

NUNZIO: Maria, Signora del Paradiso, tuo figlio, il beato Gesù Cristo è stato arrestato. Corri, donna, e guarda come lo maltrattano: credo l’uccideranno, tanto l’hanno flagellato! MADONNA: Come può essere stato arrestato Cristo, la mia speranza, dal momento che non ha fatto niente di male? NUNZIO: Madonna, è stato tradito: Giuda l’ha venduto e l’ha venduto a poco, in cambio di trenta denari. MADONNA: Aiutami, Maddalena, in questo terribile momento: conducono a morte mio figlio, come mi era stato profetizzato. NUNZIO: Corri, donna, a portare il tuo aiuto, perché sputano a tuo figlio e l’hanno portato via, l’hanno consegnato a Pilato. MADONNA: O Pilato, non fare tormentare mio figlio, perché ti posso dimostrare che è accusato a torto. POPOLO: Crocifiggetelo, crocifiggetelo! Chi si proclama re, secondo la nostra legge, si mette contro il Senato. MADONNA: Vi prego, ascoltatemi e pensate al mio dolore: forse allora cambierete opinione. POPOLO: Trasciniamo fuori i ladroni, che siano suoi compagni, sia incoronato di spine, perché si è chiamato re! MADONNA: O figlio, figlio, figlio, figlio, giglio d’amore, figlio, chi può consolare il mio cuore angosciato? Figlio dagli occhi ridenti, figlio perché non rispondi? Figlio, perché ti nascondi al petto che ti ha allattato? NUNZIO: Madonna, ecco che la gente lo porta alla croce, su cui la vera luce del mondo deve essere innalzata. MADONNA: O croce, che cosa farai? Prenderai mio figlio? Come potrai punire chi in sé non ha peccato? NUNZIO: Soccorri, piena di dolore, perché spogliano tuo figlio: pare che la gente voglia che sia crocifisso. MADONNA: Se gli togliete i vestiti, lasciatemi vedere come le crudeli ferite l’hanno tutto insanguinato. NUNZIO: Donna, gli hanno preso la mano e l’hanno stesa sulla croce, gliel’hanno trapassata con un chiodo, tanto l’hanno martellato. Ora prendono l’altra mano e la stendono sulla croce, il dolore si accende, moltiplicandosi ancora di più. Donna gli prendono i piedi e li inchiodano al legno, gli hanno spaccato ogni giuntura snodandogli tutte le ossa. MADONNA: Io comincio il lamento funebre: figlio, gioia mia, figlio, chi ti ha ucciso, figlio mio squisitamente bello? Avrebbe fatto meglio a strapparmi il cuore che è stato messo in croce e vi sta sopra lacerato. CRISTO: Mamma, perché sei venuta? Mi dai una ferita mortale, perché il tuo pianto, che vedo così lancinante, mi uccide. MADONNA: Figlio, ne ho buon motivo, figlio, padre, marito! Figlio, chi ti ha ferito? Figlio, chi ti ha spogliato? CRISTO: Mamma, perché ti lamenti? Voglio che tu resti viva e che aiuti i compagni che ho avuto in questo mondo. MADONNA: Figlio, non dire, queste parole, voglio morire con te, non voglio allontanarmi dalla croce finché avrò vita. Voglio che siamo sepolti insieme, figlio di mamma sventurata; che si trovino nello stesso tormento la madre e il figlio soffocato! CRISTO: Mamma, dal cuore afflitto, ti metto nelle mani del mio diletto Giovanni, che sia chiamato tuo figlio. Giovanni, eccoti mia madre, prendila in carità filiale, abbine pietà, perché ha il cuore così spezzato. MARIA: Figlio, l’anima ti è uscita, figlio di me smarrita, figlio di me disfatta, figlio avvelenato! Figlio che eri bianco e vermiglio, figlio senza uguali, figlio, a chi m’aggrappo? Figlio, mi hai lasciato completamente! Figlio, che eri bianco e biondo, dal volto sorridente, figlio, perché il mondo, figlio, ti ha così disprezzato? Figlio che eri dolce e bello, figlio di me addolorata, figlio, la gente ti ha trattato con crudeltà! Giovanni, mio nuovo figlio, è morto tuo fratello, ora sento la ferita che fu profetizzata. Vorrei che morissero figlio e madre afferrati da un’unica morte, vorrei che morissero abbracciati la madre e il figlio appeso a una croce.

E’ questa una lauda dramatica, cioè una vero e proprio prodotto scritto per essere rappresentato durante le sacre rappresentazioni. Esso si può dividere in due grandi macrosequenze: nella prima si ha, attraverso le voci del Nunzio e del popolo e della stessa Madonna la descrizione della crocifissione; nella seconda, con le voci del Nunzio, di Cristo e, soprattutto della Madonna, si dà vita al lamento funebre, vero e proprio genere letterario, che qui viene costruito attraverso l’anafora della parola figlio. E’ tale parola a costituire il vero proprio nucleo della lauda: infatti, sia pur involontariamente, Jacopone sembra quasi desacralizzare la figura della Madonna per presentarla come una madre il cui dolore per la crocifissione di Cristo non è nient’altro che la dolorosa e inconsolabile morte del figlio.

Tutti i testi fin qui presentati di Jacopone hanno forma di ballata: essi sono costituiti da un numero vario di strofe in versi settenari. E’ presente ad inizio testo una ripresa di due versi (tre per la lauda dramatica) cui segue la strofe di versi con rima baciata ad eccezione dell’ultimo che rima con tutti gli ultimi versi di ogni strofa.

La politica imperiale

Gli elementi fortemente caratterizzanti la cultura medievale erano stati, come si sa, l’universalismo ecclesiastico e quello imperiale, le cui lotte per il predominio furono anche aspre, ma ambedue indirizzate a considerare il mondo un’unica realtà. Ma a mettere in crisi tale visione furono:

  • la nascita, seppure in germe, di entità nazionali, nocciolo di quelle che in seguito diventeranno i moderni stati europei;
  • il fallimento dell’idea universalistica imperiale con la sconfitta di Federico Barbarossa nella battaglia di Legnano per mano della Lega Lombarda;
  • il contrasto, sul piano politico e culturale, nonché le eresie che ne minavano l’autorità, che portarono la Chiesa ad una situazione sempre più difensiva (di cui sono testimonianza, appunto, l’approvazione dei Domenicani e Francescani).

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Ritratto di Federico II (Miniatura del XIII sec.)

Tuttavia fu proprio in questo periodo che avvenne, se così si può dire, lo scontro tra queste due entità, soprattutto grazie alla figura straordinaria di Federico II. Quest’ultimo, infatti, figlio di Enrico VI (figlio del Barbarossa) e Costanza d’Altavilla (discendente del re di Sicilia), è lasciato, ancora piccolo, nelle mani del pontefice Innocenzo III, perché lo educhi. Morto il papa, a cui ha promesso di non riunire mai l’Impero con la Sicilia, viene meno all’impegno, entrando così in conflitto con i successori di Innocenzo III. Consapevole tuttavia che ormai l’Europa stessa rappresentasse un mondo completamente diverso a quello del suo avo Barbarossa, conduce in Italia meridionale una politica più o meno simile a quella dei grandi signori europei che, in lotta con la nobiltà, cercano di creare un vero e proprio nucleo statale. Federico attua questo progetto con le Costituzioni di Menfi (1231) in cui limita ogni forma particolaristica di potere, sia essa politica o ecclesiale. E’ evidente che tale presa di posizione lo mette in contrasto sia con la Chiesa che con i Comuni del Nord che, in quanto imperatore, voleva accettassero le sue Costituzioni. Tali attriti vengono inoltre rafforzati da atteggiamenti che sembrerebbero provocatori dell’imperatore: obbligato da Gregorio IX, successore di Onorio III a fare la crociata, dapprima vi disattende e poi la fa tramutandola in un vero e proprio viaggio diplomatico che gli permette di rinsaldare il suo potere in Oriente, d’essere nominato re di Gerusalemme e di avviare proficui scambi commerciali. Tale posizione lo mette proprio in urto con la Chiesa, che pensa bene di allearsi con i Comuni del Nord per deporlo. Si arriva così allo scontro: i Comuni avranno la meglio (di ciò accusa anche di tradimento il suo fidato consigliere Pier delle Vigne, episodio ricordato da Dante), catturando suo figlio Enzo; ma proprio mentre egli tenta di riprendere la lotta, si spegne per malattia nel 1250.

Scuola poetica siciliana

Sarà proprio Federico II a promuovere la produzione poetica nel regno di Sicilia: infatti a lui guardano gli intellettuali di quel periodo, come uomo che, profondamente innamorato della cultura, poteva in qualche modo farsi promotore di nuove esperienze che andassero al di là, anche per il conflitto che lo opponeva alla Chiesa, del predominio ecclesiastico su ogni processo intellettivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che la scelta di Federico d’importare nei territori del Sud d’Italia l’esperienza trobadorica, accogliendo nel suo regno i poeti cacciati per la crociata contro gli Albigesi, rispondesse anche a ragioni di tipo “conflittuale” con la politica culturale dei papi.

L’elaborazione poetica dei Siciliani riprende, adattandoli, i temi della lirica provenzale; ma se tale esperienza non fu del tutto nuova nel nostro territorio, del tutto nuova fu invece la scelta linguistica: non si poetava più in lingua d’oc, ma in siciliano illustre (cioè depurato da ogni forma “rozza e volgare”).

Inoltre la Magna Curia federiciana riprendeva e replicava lo splendore delle corti provenzali, per cui potevano ben adattarsi i motivi che tale poesia aveva già elaborato. A dimostrazione di ciò basti pensare che fu proprio l’Imperatore a spingere il suo entourage a misurarsi con la poesia. Furono proprio i funzionari di corte ad impegnarsi in tale attività, cioè la gente colta, esperta nell’ars dictandi.

L’unico tema di questa scuola fu l’amore, interpretato secondo gli schemi che la poesia trobadorica aveva elaborato. Vengono accuratamente scartati temi alieni a quelli erotici, che mal potevano coniugarsi con l’accentramento politico e culturale di Federico. L’amore dei siciliani è visto in modo chiaramente laico: nessuna idea di peccato o di angelizzazione dell’elemento femminile. Quello che maggiormente denota la scuola siciliana rispetto a quella trobadorica è la mancanza di una metafora di tipo “sociale”: infatti vi è una maggiore idealizzazione e quindi psicologizzazione del processo amoroso.

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Federico II con i poeti della sua scuola

JACOPO DA LENTINI

Vari sono i poeti di detta scuola: certamente uno dei più importanti è Jacopo da Lentini, di cui sappiamo solo che fu funzionario della corte e a cui s’iscrivono l’invenzione del sonetto e della canzone:

 AMOR E’ UN DESIO CHE VEN DA CORE

Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l’amore
e lo core li dà nutricamento.

Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so ’namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
da la vista de li occhi ha nas[ci]mento:

che li occhi rappresenta[n] a lo core
d’onni cosa che veden bono e rio,
com’è formata naturalmente;

e lo cor, che zo è concepitore,

imagina, e [li] piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.

L’amore è un desiderio che viene dal cuore / per l’intensità del piacere / e sono gli occhi per primi a dare origine all’amore / e poi il cuore gli dà nutrimento. // Può accadere, qualche volta, che l’uomo si innamori / senza vedere la persona amata / ma quell’amore che stringe con passione / nasce dagli occhi e dalla vista; // perché gli occhi rappresentano al cuore / di ogni cosa che vedono le qualità buone o cattive / e come essa è per natura formata; // e il cuore che intende tutto ciò / immagina e desidera quel che gli piace / e questo amore regna tra la gente.

Come detto, Jacopo da Lentini è (o viene ritenuto tale) l’inventore del sonetto: componimento poetico di 14 versi endecasillabi. La rima di questo sonetto è variamente suddivisa tra le due quartine, in cui è presente una rima alternata e le due terzine in cui vi è una rima ripetuta. In questo sonetto è chiaro l’intento “scientifico-fisiologico”: infatti fa parte di una “tenzone” in cui vari poeti dibattono dell’amore. Sappiamo che la poesia trobadorica aveva teorizzato l’amore da lontano, quindi il sentimento in sé, al di là dell’oggetto amato (quindi apparenza, secondo la distinzione aristotelica); Jacopo da Lentini invece sottolinea la fisiologia del sentimento amoroso e come questo venga vissuto da colui che ama, (quindi come sostanza, sempre secondo la definizione aristotelica): all’inizio infatti viene ribadito il concetto secondo cui l’amore nasce dalla visione dell’oggetto amato, la cui immagine quindi nutre il cuore (e fa nascere il sentimento). Seppur non nega l’“amore di lontano” afferma con decisione che soltanto quello che prende attraverso la visione può essere vissuto con passione. Infatti gli occhi trasmettono al cuore tutto ciò che la natura ha posto nell’oggetto e il cuore prova piacere nel desiderio. Soltanto questo è l’amore che vive tra la gente.

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Salvatore Fiume: Giacomo da Lentini (1985)

Importantissimo è anche il sonetto in cui vediamo, per la prima volta, la presenza della “donna angelicata”:

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Poeta con Madonna

IO M’AGGIO POSTO IN CORE

Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’ag[g]io audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi vorria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io pec[c]ato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veg[g]endo la mia donna in ghiora stare.

Io mi sono proposto di servire Dio, / affinché io possa andare in Paradiso / nel santo luogo dove, come ho sentito dire / durano eternamente il sollazzo, il gioco e il riso. // Ma senza la mia donna non ci vorrei andare / quella cha ha capelli biondi e volto luminoso / perché senza di lei non potrei gioire / stando diviso dalla mia donna. // Ma non lo dico con l’intenzione / perché io voglia fare peccato con lei / se non per vedere il suo portamento // il bel viso ed il dolce sguardo / che mi terrebbe in grande consolazione / vedendo la mia donna essere nella “gloria” di Dio.

L’intero sonetto è strutturato con rime alternate, secondo la schema ABAB ABAB CDC DCD. Si noti la rima siciliana tra il verso 5 e il 7. E’ questo un testo dove vediamo mescolarsi, forse in forma “blasfema”, la figura femminile e Dio. Infatti già nel primo verso il poeta afferma di voler “servire” Dio: ma “servire”, il “servaggio” appunto è un termine tratto dalla poesia cortese, con cui si voleva sottolineare la sottomissione dell’uomo a Dio. Ancora, il paradiso come luogo in cui si “mantiene sollazzo, gioco e riso” che è il modo in cui si disegna l’eleganza e l’edonismo che si vive nella corte federiciana. Date le premesse è evidente pertanto che la “blonda testa e claro viso” (terminologia cortese) non può essere quello della bellissima signora che, stando “in ghiora” (termine popolare), viene paragonata alle bellezze angeliche: straordinaria mescolanza di amor sacro e amor profano.

Ancora un rapporto, stavolta artistico, tra l’innamoramento e la pittura in una canzonetta tra le più celebrate di Jacopo da Lentini:

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Poeti della corte fridericiana

MERAVIGLIOSAMENTE

Meravigliosamente
un amor mi distringe,
e mi tene ad ogn’ora.
Com’om, che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo,
che ’nfra lo core meo
porto la tua figura.

In cor par ch’eo vi porti,
pinta come parete,
e non pare di fore.
O Deo, co’ mi par forte
non so se lo sapete,
con’ v’amo di bon core;
ch’eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso,
e non vi mostro amore.

Avendo gran disio,
dipinsi una pintura,
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo ’n quella figura,
e par ch’eo v’aggia avante;
sì com om che si crede
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.

Al cor m’arde una doglia,
com’om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso,
e quanto più lo ’nvoglia,
allora arde più loco,
non pò star incluso:
similemente eo ardo,
quando pass’e non guardo
a voi, vis’ amoroso.

S’eo guardo, quando passo,
inver’ voi no mi giro,
bella, per risguardare;
andando, ad ogni passo
getto un gran sospiro
ca facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.

Assai v’aggio laudato,
madonna, in tutte parti,
di bellezze c’avete.
Non so se v’è contato
ch’eo lo faccia per arti,
che voi pur v’ascondete:
sacciatelo per singa
zo ch’eo no dico a linga,
quando voi mi vedite.

Canzonetta novella,
va’ canta nuova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d’ogn’amorosa,
bionda più c’auro fino:
Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino”

In modo meraviglioso / un amore mi coinvolge / e mi possiede in ogni momento. / Come uno che osserva con attenzione / un modello e ne dipinge / la figura in modo conforme ad esso, / così, o bella donna, faccio io, / che nel mio cuore / porto la tua immagine. // Sembra che io vi porti nel cuore / dipinta come apparite / eppure ciò non si vede / all’esterno. / Oddio, come mi sembra crudele. / Non so se lo sapete / come io vi ami con cuore sincero / perché sono così timido / che vi guardo soltanto di nascosto / e non vi dimostro il mio amore. // Avendo un grande desiderio (di voi) / dipinsi un’immagine, / bella, che vi somiglia / e quando non vi vedo / guardo quell’immagine / e mi sembra di avervi davanti agli occhi / come chi crede / di salvarsi grazie alla sua fede / sebbene non veda nulla davanti a sé. // Nel cuore mi arde un intenso dolore, / come quello di chi tiene / il fuoco nascosto nel suo petto, / e quanto più lo avvolge / tanto più arde in quel punto / e non può stare rinchiuso, /allo stesso modo io ardo / quando passo e non guardo / voi, viso amoroso. // Se io guardo, quando passo / verso voi, non mi volto / o bella, per guardarvi di nuovo. / Mentre cammino, ad ogni passo / emetto un gran sospiro / che mi fa singhiozzare / e singhiozzo a ragione, / se stento a riconoscermi / tanto bella mi appari. // Vi ho lodato assai / o mia signora, in tutta / la bellezza che possedete. / Non so se vi è stato raccontato / che io faccia questo per finzione / dato che continuate a nascondervi. Apprendetelo per i gesti / quello che io non riesco a dirlo con le parole / quando voi mi vedrete. // O nuova canzonetta / va’ e canta il nuovo messaggio / alzati di mattino / davanti alla più bella / fiore di ogni donna amata / bionda più dell’oro prezioso: / «Il vostro amore, che è prezioso, donatelo al Notaio / che proviene da Lentini».

A livello retorico ci troviamo di fronte ad una canzonetta in settenari con rima abc abc per i primi 6 versi (la fronte). Come nel primo sonetto di Jacopo da Lentini, anche qui sembra si parli della “fenomenologia” dell’amore; tale fenomenologia si riflette, nonostante l’analisi dell’effetto dell’innamoramento, nella realizzazione di ciò che tale sentimento può produrre: l’immaginazione. Già nel primo verso, settenario, l’unica parola, “meravigliosamente”, non rimanda solamente al tema dello stupore per il sentimento che si prova, ma a quello di “guardare con meraviglia”, cioè dell’osservazione. Si badi, ad esempio, la sostituzione paritaria tra donna e immagine e quella tra innamoramento e gestualità; tutto sembra racchiudersi in un cerchio: il poeta innamorato vede la donna e si meraviglia; quindi non può guardarla più per timidezza e l’immagina e in questo “negare” lo sguardo, la donna deve cogliere l’amore di lui (lui guarda lei che guarda lui che non la guarda più per ritrosia e quindi ne è innamorato).

Ma la poesia siciliana, essendo una poesia di corte, non può esaurirsi nella perfezione formale con cui si tratteggia il sentimento dell’amore. Spesso lo stesso amore può assumere caratteristiche più “realistiche”, atte a spronare la corte stessa al riso e al divertimento, segnando il profondo distacco tra l’amore cortese ed una villanella, cioè l’amore tra un giullare ed una contadina:

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Busto marmoreo di Ciullo (Cielo) d’Alcamo a Palermo

CIELO D’ALCAMO

 ROSA FRESCA AULENTISSIMA

«Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia».

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,
l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare:
avere me non pòteri a esto monno;
avanti li cavelli m’aritonno».

«Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto,
ca’n is[s]i [sí] mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto.
Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,
bono conforto dónimi tut[t]ore:
poniamo che s’ajúnga il nostro amore».

«Che ’l nostro amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:

se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti,
guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.
Como ti seppe bona la venuta,
consiglio che ti guardi a la partuta».

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

Una difensa mèt[t]onci di dumili’ agostari:
non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.
Viva lo ‘mperadore, graz[i’] a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino.
Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino.
Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,
e per ajunta quant’ha lo soldano,
toc[c]are me non pòteri a la mano».

«Molte sono le femine c’hanno dura la testa,
e l’omo con parabole l’adímina e amonesta:
tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta.
Femina d’omo non si può tenere:
guàrdati, bella, pur de ripentere».

«K’eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse ripresa!
[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.
Aquístati riposa, canzonieri:
le tue parole a me non piac[c]ion gueri».

«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core,

e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!
Femina d’esto secolo tanto non amai ancore
quant’amo teve, rosa invidïata:
ben credo che mi fosti distinata».

«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,
ché male messe fòrano in teve mie bellezze.
Se tut[t]o adiveníssemi, tagliàrami le trezze,
e consore m’arenno a una magione,
avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone».

«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri,
a lo mostero vènoci e rènnomi confleri:
per tanta prova vencerti fàralo volontieri.
Conteco stao la sera e lo maitino:
Besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino».

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!
Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato:
concepístimi a abàttare in omo blestiemato.
Cerca la terra ch’este gran[n]e assai,
chiú bella donna di me troverai».

«Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te prese».

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,
e sposami davanti da la jente;
e poi farò le tuo comannamente».

«Di ciò che dici, vítama, neiente non ti bale,
ca de le tuo parabole fatto n’ho ponti e scale.
Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l’ale;
e dato t’ajo la bolta sot[t]ana.
Dunque, se po[t]i, tèniti villana».

«En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:

istòmi ’n esta grorïa d’esto forte castiello;
prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.
Se tu no levi e va’tine di quaci,
se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».

«Dunque vor[r]esti, vítama, ca per te fosse strutto?
Se morto essere déb[b]oci od intagliato tut[t]o,
di quaci non mi mòs[s]era se non ai’ de lo frutto
lo quale stäo ne lo tuo jardino:
disïolo la sera e lo matino».

«Di quel frutto non àb[b]ero conti né cabalieri;
molto lo disïa[ro]no marchesi e justizieri,
avere no’nde pòttero: gíro’nde molto feri.
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
Men’este di mill’onze lo tuo abere».

«Molti so’ li garofani, ma non che salma ’nd’ài:
bella, non dispregiàremi s’avanti non m’assai.
Se vento è in proda e gírasi e giungeti a le prai,
arimembrare t’ao [e]ste parole,
ca de[n]tr’a ’sta animella assai mi dole».

«Macara se dolés[s]eti che cadesse angosciato:
la gente ci cor[r]es[s]oro da traverso e da·llato;
tut[t]’a meve dicessono: ’Acor[r]i esto malnato’!
Non ti degnara porgere la mano
per quanto avere ha ’l papa e lo sodano».

«Deo lo volesse, vitama, te fosse morto in casa!
L’arma n’anderia cònsola, ca dí e notte pantasa.
La jente ti chiamàrono: ’Oi perjura malvasa,
c’ha’ morto l’omo in càsata, traíta!’
Sanz’on[n]i colpo lèvimi la vita».

«Se tu no levi e va’tine co la maladizione,
li frati miei ti trovano dentro chissa magione.
[…] be·llo mi sof[f]ero pèrdinci la persone,
ca meve se’ venuto a sormonare;
parente néd amico non t’ha aitare».

«A meve non aítano amici né parenti:
istrani’ mi so’, càrama, enfra esta bona jente.
Or fa un anno, vítama, che ’ntrata mi se’ [‘n] mente.
Di canno ti vististi lo maiuto,
bella, da quello jorno so’ feruto».

«Di tanno ’namoràstiti, [tu] Iuda lo traíto,
como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?
S’a le Va[n]gele júrimi che mi sï’ a marito,
avere me non pòter’a esto monno:
avanti in mare [j]ít[t]omi al perfonno».

Se tu nel mare gít[t]iti, donna cortese e fina,
dereto mi ti mísera per tut[t]a la marina,
[e da] poi c’anegàs[s]eti, trobàrati a la rena
solo per questa cosa adimpretare:
conteco m’ajo a[g]giungere a pec[c]are».

«Segnomi in Patre e ’n Filïo ed i[n] santo Mat[t]eo:
so ca non se’ tu retico [o] figlio di giudeo,
e cotale parabole non udi’ dire anch’eo.
Morta si [è] la femina a lo ’ntutto,
pèrdeci lo saboro e lo disdotto».

«Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.
Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.
Ancora tu no m’ami, molto t’amo,
sí m’hai preso come lo pesce a l’amo».

«Sazzo che m’ami, [e] àmoti di core paladino.
Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.
Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t’amo e fino.
Quisso t’[ad]imprometto sanza faglia:
te’ la mia fede che m’hai in tua baglia».

«Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.
Intanti pren[n]i e scànnami: tolli esto cortel novo.
Esto fatto far pòtesi intanti scalfi un uovo.
Arcompli mi’ talento, [a]mica bella,
ché l’arma co lo core mi si ’nfella».

«Ben sazzo, l’arma dòleti, com’omo ch’ave arsura.
Esto fatto non pòtesi per null’altra misura:
se non ha’ le Vangel[ï]e, che mo ti dico ’Jura’,
avere me non puoi in tua podesta;
intanti pren[n]i e tagliami la testa».

«Le Vangel[ï]e, càrama? ch’io le porto in seno:
a lo mostero présile (non ci era lo patrino).
Sovr’esto libro júroti mai non ti vegno meno.
Arcompli mi’ talento in caritate,
ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate».

«Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.
Sono a la tua presenz[ï]a, da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno.
A lo letto ne gimo a la bon’ora,
ché chissa cosa n’è data in ventura».

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Trovatore e donzella

Rosa fresca profumatissima che appari verso estate, le donne ti desiderano, giovani e maritate: tirami fuori da questi fuochi, se è tua volontà. Per te non ho pace notte e giorno, pensando sempre a voi, mia Signora. // Se ti tormenti per me, la follia te lo fa fare. Potresti rompere con l’aratro il mare, e seminare il vento, potresti riunire tutte le ricchezze del mondo: non mi potresti avere però in questo modo. Piuttosto mi taglio i capelli [mi faccio monaca]. //  Se ti tagli i capelli, prima io vorrei esser morto, perché con essi io perderei la mia consolazione e il mio diletto. Quando passo da casa tua e ti vedo, rosa fresca dell’orto, ogni volta mi dai un buon conforto: facciamo sì che il nostro amore si congiunga. // Che questo nostro amore si unisca non voglio che mi piaccia. Se qui ti trova mio padre con gli altri miei parenti, guarda che non ti colgano questi buoni corridori [perché t’inseguiranno]. Come ti fu facile venire qui, ti consiglio di stare attento alla partenza. // Se mi trovano i tuoi parenti, che mi posson fare? Ci metto una difesa di duemila augustali. Non mi toccherà tuo padre per quanta ricchezza c’è in Bari. Viva l’Imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quel che dico. // Tu non mi lasci vivere né di sera né di mattina. Sono donna di grande ricchezza [di bisanti d’oro bizantini e di monete arabe]. Se pur tu mi donassi tutto quanto ha il Saladino, e per aggiunta quanto ha il Soldano, tu non mi potresti toccare neppure con la mano. // Ci sono molte femmine che hanno la testa dura, e l’uomo con le parole le domina e le persuade; tanto intorno le dà la caccia finché non l’ha in suo potere. La femmina non si può difendere in alcun modo dall’uomo: guardati, bella, dal dovertene pentire. // Dovermene io pentire? Possa io morire, prima che qualche donna onesta possa essere rimproverata a causa mia! Ieri sera sei passato correndo a cavallo. Perciò riposati adesso, canterino; le tue parole non mi piacciono affatto. // Quanti sono gli schianti che m’hai messo nel cuore, e solo pensandoti, il giorno quando vado fuori! Nessuna femmina di questo mondo ho ancora mai amato quanto te, rosa invidiata; son certo che mi sei destinata dal cielo. // Se fossi destinata a te scenderei troppo dalla mia altezza, perché le mia bellezza sarebbe sprecata se data a te. Se mi dovesse avvenire una tal disgrazia, mi taglierò le trecce, e mi farò suora in un monastero, prima ancora che tu mi tocchi nella persona. // Se ti fai suora, donna dal viso chiaro, verrò al monastero e mi farò frate: per piacerti in questa prova lo farò volentieri. Starò con te la sera e il mattino: a tutti i costi dovrò farti mia. // Ohimè, misera tapina, com’è triste il mio destino! Gesù Cristo, l’Altissimo, del tutto è adirato con me; mi hai fatto nascere per darmi in mano a un tal bestemmiatore! Cerca nel mondo, che è assai grande; [certo] troverai una donna più bella di me. // Ho già cercato in Calabria, Toscana e Lombardia, in Puglia, Costantinopoli, Genova, Pisa e in Siria, in Germania, a Babilonia e in Africa del nord; mai ho trovato una donna tanto cortese: e per questo ti ho scelta come mia sovrana. // Poiché ti sei tanto affaticato [in questa ricerca] ti faccio una preghiera: che tu vada a domandarmi a mia madre e a mio padre. Se acconsentono a darmiti in sposa, portami al monastero, e sposami davanti alla gente, e poi farò ciò che vuoi. // Di ciò che dici, vita mia, niente ti vale, poiché delle tue storie non ne parlo nemmeno più. Pensasti di mettere le penne, ma ti son cadute le ali; e ti ho dato il colpo di grazia. Dunque, se puoi, continua a essere villana. //  Non mi far paura con i tuoi stratagemmi: me ne sto in gloria in questo forte castello; considero le tue parole meno di quelle di un fanciullo. Se tu non ti levi e te ne vai di qua, certo vorrei che fossi morto. // Dunque tu vorresti, vita mia, che per te io fossi distrutto? Anche se dovessi qui morire o sfregiato completamente, di qua non mi muoverei se non ho il frutto che sta nel tuo giardino: lo desidero dalla sera alla mattina. //  Quel frutto non l’hanno avuto né conti né cavalieri; molto l’hanno desiderato marchesi e giudici regionali, ma non hanno potuto averlo: se ne sono andati molto adirati. Capisci quello che voglio dire? Ciò che tu hai è meno di mille once. //  Molti sono i chiodi di garofano, ma non tanti da formare un gran peso: bella, non mi disprezzare se non provi prima. Se il vento è a prua e gira ti raggiungo sulla spiaggia, ti ricordo queste parole, poiché dentro queste animelle molto mi duole. //  Almeno [magari] ti dolessi da cadere privo di sensi: la gente correrebbe da tutte le parti; tutti mi direbbero: “Soccorri questo malnato!”. Non mi degnerei di porgerti la mano nemmeno per quanto ha il Papa e il Sultano. // Dio lo volesse, vita mia, che io morissi in casa tua! L’arma ne sarebbe consolata, poiché delira giorno e notte. La gente ti chiamerebbe: “O malvagia spergiura, ché hai ucciso l’uomo in casa, traditora!”. Invece mi togli la vita senz’alcun bisogno di ferita. //  Se non ti levi e te ne vai con la maledizione, i miei fratelli ti trovano dentro questa casa. Ammetto senza obiezione che tu perda la vita; [e] nessun parente o amico ti può aiutare. //  A me non m’aiutano né parenti né amici: io sono forestiero, cara mia, tra questa buona gente. Or fa un anno, vita mia, che mi sei entrata in mente. Da quando ti ho vista in maggio, bella, da quel giorno son ferito [innamorato]. //  Così tanto ti sei innamorato, tu Giuda traditore, come se fossi [io ?] porpora, o velluto scarlatto? Giurami sul Vangelo che vuoi sposarmi, non mi potrai avere in questo modo: prima mi getterei nel profondo del mare. //  Se tu ti getti nel mare, donna cortese e fine, mi getterò dietro a te attraverso tutto il mare, e dopo che sei annegata, ti troverò sulla spiaggia solo per compiere questa cosa: con te voglio congiungermi per peccare. // Mi segno nel nome del Padre del Figlio e in quello di San Matteo: so che non sei eretico o giudeo, e codeste parole finora non le hai sentite dire. Se la femmina è morta in tutto e per tutto, ci perdi il sapore e il piacere. // Questo lo so bene, cara mia: altro non posso fare. Se questo non fai per me, lasciami cantare. Ti piaccia farlo, mia donna, ché certo lo puoi fare. Ancora tu non m’ami, e molto io ti amo, m’hai preso all’amo come un pesce. //  So che m’ami, e io ti amo con cuore nobile. Alzati su e vattene, torna qui al mattino. Se fai ciò che dico, ti amo con cuore buono e prezioso. Questo ti prometto senza fallo: hai la mia promessa in tua balia. //  Per quello che dici, cara mia, non mi muovo affatto. Prima prendi e scannami: prendi questo coltello nuovo. Si può far questo prima che si cuocia un uovo. Esaudisci il mio desiderio, amica bella, perché l’arma mi si rattrista con il cuore. //  Questo lo so bene, l’arma ti duole, come l’uomo che arde. Questo non può essere fatto a nessun’altra condizione se non hai il Vangelo, affinché io ti dica “giura”, non puoi avermi in tuo potere; prima prendi e tagliami la testa. //  Il Vangelo, cara mia? io lo porto con me: l’ho preso in chiesa (non c’era il prete). Sopra questo libro giuro di non tradirti mai. Esaudisci il mio desiderio per carità, ché l’arma me ne se sta in consunzione. //  Mio signore, poiché hai giurato, io ardo tutta quanta. Sono alla tua presenza, da voi non mi difendo. Se io ti ho disprezzato, mercé, a voi mi arrendo. Andiamo a letto alla fine, perché questa cosa ci è per nostra buona sorte.

E’ questo un contrasto: per meglio dire una poesia dialogata in cui le strofe dispari corrispondono al discorso di lui, quelle pari a quello di lei. Ciò che colpisce non è tanto la narrazione (la donna passa dalla ritrosia all’intera accettazione dell’atto sessuale propostole dal giullare) quanto la forma, che è d’origine provenzale, e il linguaggio. Su quest’ultimo, infatti, dobbiamo notare che non abbiamo la differenza tra l’uomo e la donna (la cultura contro la semplicità), quanto la parità tra ambedue, che ha fatto dire, ad alcuni, che la lirica è realmente popolare. Ma parte del tessuto linguistico è mediato dalla poesia cortese, mescolata con detti e forme popolari: tutto ciò farebbe protendere più per una voluta parodia.

Comuni

Mentre in Europa sia pur formalmente si stanno formando gli Stati Nazionali, nell’Italia del Nord si rafforzano i Comuni, che riusciranno ad imporsi sia all’idea imperiale che papale. Sin dal ’200 i mercanti riescono a farsi promotori della vita cittadina, nominando un potestà e un capitano del popolo, che cercano di controllare anche le velleità aristocratiche della città stessa. Ciò determina una differenza di base all’interno della città:

  • il popolo minuto: è la classe che fa le attività più modeste e artigianali;
  • il popolo grasso: mercanti, banchieri e imprenditori, vera classe emergente che tende a porsi come guida sia economica che culturale;
  • aristocratici: vecchi proprietari terrieri, che cerca, sia pure con difficoltà, di mantenere il potere.

All’inizio il Comune è caratterizzato da una politica, nei modi, ancora feudale: come il vecchio signore, infatti, esso è teso ad acquisire territori per allargare il suo potere: quindi acquisire territori della campagna che fornisce le materie prime di cui la città usufruisce, sia a livello di trasformazione (gli artigiani) che di consumo. Ciò favorisce chi di questo scambio si fa promotore, colui che sposta, in cambio di un beneficio, i beni, nelle fiere, sempre più numerose, e in ogni occasione lo possa fare. E’ in questo modo che emerge la figura del mercante. Costui consegnerà tale bene nelle mani di chi dovrà trasformarlo in prodotto, l’imprenditore, che a sua volta lo darà al vero e proprio lavoratore, il lavoratore salariato nella sua bottega o, più fortunato, l’artigiano autonomo.

Questo segna la fine dell’economia chiusa e favorisce una nuova visione della società il cui scambio mercantile e la mobilità sociale diventano punti di riferimenti ideologici. Ma nel momento in cui una città, come detto, cerca un luogo in cui procurarsi le materie prime, esse diventano concorrenti fra loro, nel voler accaparrarsi i terreni migliori. Quindi finiranno per prevalere comuni come Milano nel Nord, posta al crocevia di un intenso traffico e, in Toscana, Lucca e Siena che contenderanno il potere alla sempre più forte Firenze, nel centro Italia Bologna, sede di un’importantissima università.

Poesia toscana-cortese

Da una parte l’arrivo dopo la crociata degli Albigesi di trovatori nel Nord Italia, che insegnarono ai poeti locali non solo la lingua, ma anche i temi; dall’altra la fine del ghibellinismo, con la morte dapprima di Manfredi e poi di Corradino di Svevia (figlio e nipote di Federico II), diedero vita alla nascita di una poesia nella regione più progredita d’Italia di allora, che prendesse spunto dalle esperienze occitaniche e siciliane.

Ciò è dimostrato dall’acquisizione di temi che i Toscani fecero, “toscanizzando” un grande numero di poesie della gran corte, facendole tuttavia “sposare” con il dinamismo culturale e politico delle città, con la lotta tra guelfi e ghibellini ed il predominio di una città sull’altra. Infatti la ripresa non può considerarsi totale: ne è un classico esempio ila canzone di carattere politico di Guittone d’Arezzo che riprende il sirventese provenzale che non aveva avuto spazio tra i poeti di Federico II:

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Immagine di Guittone d’Arezzo

AHI LASSO, OR E’ STAGION DE DOLER TANTO 

Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
a ciascun om che ben ama Ragione,
ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,
ca morto no l’ha già corrotto e pianto,
vedendo l’alta Fior sempre granata
e l’onorato antico uso romano
ch’a certo pèr, crudel forte villano,
s’avaccio ella no è ricoverata:
ché l’onorata sua ricca grandezza
e ’l pregio quasi è già tutto perito
e lo valor e ’l poder si desvia.
Oh lasso, or quale dia
fu mai tanto crudel dannaggio audito?
Deo, com’hailo sofrito,
deritto pèra e torto entri ’n altezza?

Altezza tanta êlla sfiorata Fiore
fo, mentre ver’ se stessa era leale,
che ritenea modo imperïale,
acquistando per suo alto valore
provinci’ e terre, press’o lunge, mante;
e sembrava che far volesse impero
sì como Roma già fece, e leggero
li era, c’alcun no i potea star avante.
E ciò li stava ben certo a ragione,
ché non se ne penava per pro tanto,
como per ritener giustizi’ e poso;
e poi folli amoroso
de fare ciò, si trasse avante tanto,
ch’al mondo no ha canto
u’ non sonasse il pregio del Leone.

Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo
tratto l’onghie e li denti e lo valore,
e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore,
ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo.
E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono
de la schiatta gentil sua stratti e nati,
che fun per lui cresciuti e avanzati
sovra tutti altri, e collocati a bono;
e per la grande altezza ove li mise
ennantir sì, che ’l piagãr quasi a morte;
ma Deo di guerigion feceli dono,
ed el fe’ lor perdono;
e anche el refedier poi, ma fu forte
e perdonò lor morte:
or hanno lui e soie membre conquise.

Conquis’è l’alto Comun fiorentino,
e col senese in tal modo ha cangiato,
che tutta l’onta e ’l danno che dato
li ha sempre, como sa ciascun latino,
li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto:
ché Montalcino av’abattuto a forza,
Montepulciano miso en sua forza,
e de Maremma ha la cervia e ’l frutto;
Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle
e Volterra e ’l paiese a suo tene;
e la campana, le ’nsegne e li arnesi
e li onor tutti presi
ave con ciò che seco avea di bene.
E tutto ciò li avene
per quella schiatta che più ch’altra è folle.

Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno,
e l’onor suo fa che vergogna i torna,
e di bona libertà, ove soggiorna
a gran piacer, s’aduce a suo gran danno
sotto signoria fella e malvagia,
e suo signor fa suo grand’ enemico.
A voi che siete ora in Fiorenza dico,
che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia;
e poi che li Alamanni in casa avete,
servite i bene, e faitevo mostrare
le spade lor, con che v’han fesso i visi,
padri e figliuoli aucisi;
e piacemi che lor dobiate dare,
perch’ebber en ciò fare
fatica assai, de vostre gran monete.

Monete mante e gran gioi’ presentate
ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti
ch’a tanto grande onor v’hano condutti,
che miso v’hano Sena in podestate;
Pistoia e Colle e Volterra fanno ora
guardar vostre castella a loro spese;
e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese,
Montalcin sta sigur senza le mura;
de Ripafratta temor ha ’l pisano,
e ’l perogin che ’l lago no i tolliate,
e Roma vol con voi far compagnia.
Onor e segnoria
adunque par e che ben tutto abbiate:
ciò che desïavate
potete far, cioè re del toscano.

Baron lombardi e romani e pugliesi
e toschi e romagnuoli e marchigiani,
Fiorenza, fior che sempre rinovella,
a sua corte v’apella,
che fare vol de sé rei dei Toscani,
dapoi che li Alamani
ave conquisi per forza e i Senesi.

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La battaglia di Montaperti

Ahimè, ora è il momento di soffrire molto / da parte di ciascuno che ama la Ragione / che io mi meraviglio dove trovi conforto / e che la disperazione e il pianto non lo abbiano già ucciso, / vedendo l’alto valore di Firenze sempre fiorito / ed la sua antica consuetudine Romana / che di certo stanno morendo, fatto crudele e assai vergognoso / se al più presto essa non è soccorsa / che l’onorevole sua ricca grandezza / ed il suo grande pregio è già quasi del tutto sparito / ed il valore ed il potere prendono altra via. / Ahimè, in quale giorno / si udì una così crudele sventura? / Dio, come hai potuto sopportare, / che muoia il diritto e s’innalzi il torto? //  Una grande altezza nella ora sfiorita Firenze / un tempo fu, mentre era leale verso se stessa / che manteneva un aspetto imperiale / acquistando, per la sua virtù / numerose province e terre, vicine e lontane / e sembrava volesse costituire un impero / così come fece Roma, e facile / le era, che non c’era nessuno che la potesse sopravanzare / E ciò le aspettava certamente di diritto / perché non si preoccupava soltanto per il proprio vantaggio / ma come per ottenere giustizia e riposo / e dal momento in cui fu semplice / fare ciò, avanzò talmente tanto / che al mondo non vi è un angolo / dove non risuonasse il valore del Leone (Firenze). //  Un Leone, ahimè, che ora non è più, che io lo vedo / con le unghie, i denti e la forza portati via, / e la sua nobile stirpe uccisa con dolore / e messa in prigione con grande ingiustizia /E chi ha fatto ciò? Quelli che sono / discesi e nati dalla sua stirpe / che furono, attraverso di lui, cresciuti e resi potenti / sopra ogni altro uomo, e collocati in posizioni di prestigio; / e per la grande altezza in cui li mise / inorgoglirono a tal punto che gli procurarono ferite quasi ad ucciderlo; (allusione alla cacciata dei guelfi nel 1248) / ma Dio gli fece il dono della guarigione e diede loro il perdono (allusione alla pace stipulata tra guelfi e ghibellini nel 1251) / e lo ferirono ancora una volta (allusione alla congiura ghibellina del 1258) ma (il Leone) fu forte e li risparmiò dalla morte / ed ora hanno lui e le sue membra conquistate (allusione alla sconfitta guelfa nella battaglia di Montaperti nel 1260). // E’ conquistato il prestigioso Comune fiorentino / e ha scambiato le sue sorti con quello senese / che tutta la vergogna ed il danno che Firenze gli ha dato / sempre, come sa ogni italiano / glielo restituisce, e gli toglie il vantaggio acquistato e tutto l’onore: / che Siena ha abbattuto con la forza Montalcino / ha conquistato Montepulciano / ed ha il tributo della Maremma; / San Gimignano, Poggibonsi e Colle Val d’Elsa / e Volterra e tutto il suo contado ha preso / e la campana, i vessilli, le armi / e tutti gli onori sono stati portati via /e tutto ciò che c’era di utile / per colpa di quella stirpe che sopra ogni altra è folle. //  Folle è chi fugge il suo vantaggio e cerca il proprio danno / e fa sì che il suo onore si trasformi in vergogna / e da una buona libertà, in cui si trova / con gran piacere, si riduce a suo danno / sotto una signoria malvagia e perfida / e sceglie come signore il suo grande nemico. / A voi che siete ora in Firenze dico / che ciò che è successo, pare, vi piaccia; / e poiché avete i Tedeschi in casa / serviteli bene, e fatevi mostrare / le loro spade, con cui hanno ferito i vostri volti / e ucciso i padri e i figli; / e mi piace che ora dobbiate dar loro /perché nel fare ciò / s’affaticarono molto, un gran numero di vostre monete. // Presentate una grande quantità di monete di gioielli / ai Conti e agli Uberti (potenti famiglie Ghibelline) e a tutti gli altri / che vi hanno condotti a così grande onore / che hanno messo Siena in vostro potere / Pistoia, Volterra e Colle Val d’Elsa, a loro spese, /ora difendono i vostri castelli / ed il conte rosso (Aldobrando Aldobrandini, signore di Siena) possiede la Maremma e Montalcino sta sicura, senza mura difensive; / e il pisano teme il castello di Ripafratta / e il perugino vi prega che non gli togliate il lago Trasimeno / e Roma vuole allearsi con voi / Dunque sembra che abbiate onore e tutti i beni / ciò che desideravate / potete fare, cioè diventare padroni di Firenze (in questa stanza viene utilizzata la tecnica dell’antifrasi). // Baroni lombardi, romani e pugliesi / toscani, romagnoli e marchigiani, Firenze, Fiore che sempre rifiorisce / vi chiama nella sua corte / che vuol proclamarsi signora della Toscana /dopo che i Tedeschi / ha sconfitto con la sua forza ed anche i Senesi. 

La canzone presenta alcune importanti caratteristiche che possiamo vedere sia a livello contenutistico che formale: essa parte dalla battaglia di Montaperti (1260) che segna la sconfitta di Firenze e quindi del guelfismo per mano di Siena e quindi del ghibellinismo. Lo sdegno per la disfatta della città toscana di cui i guelfi aretini erano alleati, permea l’intero componimento che va dal compianto al vero e proprio sarcasmo. Tutto questo è tessuto da un lessico arduo e di difficile comprensione, ripreso dal trobar clou provenzale, quasi volesse significare che lo sforzo lessicale con cui proclamava la sua realtà dovesse rispondere, infine, alla sua difficile posizione morale.

Interessante del poeta aretino è anche il modo con cui tratta il tema amoroso, dove prevale, in ottemperanza al trobar clou, un’esasperazione retorica:

TUTTOR CH’EO DIRO’ GIOI, GIOIVA COSA

Tuttor chʼeo dirò gioi, gioiva cosa,
intenderete che di voi favello,
che gioia sete di beltá gioiosa
e gioia di piacer gioioso e bello,

e gioia in cui gioioso avenir posa,
gioi d’adornezze e gioi di cor asnello;
gioia in cui viso è gioi tant’amorosa
ched è gioiosa gioi mirare in ello.

Gioi di volere e gioi di pensamento
e gioi di dire e gioi di far gioioso
e gioi d’onni gioioso movimento:

per ch’eo, gioiosa gioi, sí disioso
di voi mi trovo, che mai gioi non sento
se ’n vostra gioi il meo cor non riposo.

Ogni volta che io dirò gioia, (o) essere gioioso, capirete che parlo di voi, che siete gioia di bellezza gioiosa e gioia di piacere gioioso e bello, e (siete) gioia in cui risiede bellezza gioiosa, gioia di eleganza e gioia di corpo snello; gioia nel cui volto c’è gioia che innamora a tal punto che è una gioia gioiosa guardarlo. (siete) gioia della volontà e gioia di pensiero e gioia di dire e gioia del comportamento gioioso e gioia di ogni momento gioioso. Per cui io, (o) gioia gioiosa, sono così desideroso di voi, che non provo mai (nessuna) gioia se non placo il mio cuore nella gioia che voi date.

Interessante di questa scuola è soprattutto un’altra poesia, di Bonagiunta Orbicciani, un sonetto per la precisione, non tanto per il valore in sé, ma in quanto precisa la differenza tra questo gruppo di poeti e quello che animerà lo stilnovo:

VOI CH’AVETE MUTATA LA MANIERA

Voi ch’avete mutata la mainera
de li piagenti ditti de l’amore
de la forma dell’esser là dov’era,
per avansare ogn’altro trovatore,

avete fatto como la lumera
ch’a le scure partite dà sprendore,
ma non quine ove luce l’alta spera,
la quale avansa e passa di chiarore.

Così passate voi di sottigliansa,
e non si può trovar chi ben ispogna,
cotant’è iscura vostra parlatura.

Ed è tenuta grave ’nsomilliansa,
ancor che ’l senno vegna da Bologna,
traier canson per forsa di scritura.

Voi che avete cambiato lo stile / degli eleganti componimenti d’amore / della forma che essi avevano / per superare ogni altro poeta, // avete fatto come la luce / che illumina le parti scure, / ma non qui dove riluce l’alto sole / il quale avanza e supera ogni altro chiarore. // Così passate per intellettualismo / e non si trova chi spieghi con chiarezza, / tanto è scuro il vostro parlare. // Ed è considerata una grande stravaganza / sebbene la sapienza origini da Bologna /trarre una canzone estraendola a forza dai testi (delle auctoritates).

Infatti sarà proprio Bonagiunta, in un passo del Purgatorio a rendersi conto di ciò che aveva tenuto al di qua la poesia di Guittone e la sua dalla grande novità dello “stilnovo”, il movimento culturale che partirà tuttavia proprio grazie alla loro esperienza poetica.

Per concludere è bene ricordare che una delle opere più ricordate del nostro ’200 è il frutto di una mentalità prettamente mercantile; quest’opera è il Milione di Marco Polo. Era costui un mercante che, dopo un primo viaggio del padre e dello zio, si diresse, via terra, insieme a loro nell’estremo Oriente. Tornato a Venezia venne fatto prigioniero durante la guerra che contrapponeva la sua città con quella di Genova ed infine liberato. Durante la prigionia dettò le sue memorie di viaggio a Rustichello di Pisa le quale le scrisse in lingua d’oil. Durante il ’300 furono poi tradotte in volgare umbro.

 
 
 
 

BREVE STORIA DI LETTERATURA SARDA

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Raffinata piccola mappa della Sardegna orientata con il nord a sinistra. Tratta dall’opera “Tabularum geographicarum contractorum libri quinque” di P.Bertius stampato ad Amsterdam presso C. Nicolai.

Fino all’Ottocento la storia delle lettere non si configura come parte di una civiltà complessivamente in movimento, ma piuttosto come un pezzo della storia dei privilegiati. Le lettere e i letterati, fino al XIX secolo, sono marginali rispetto all’unica tragica dialettica che caratterizzò a lungo l’Isola: quella tra povertà diffusa e privilegio sempre più arroccato e esclusivo.
Fino a questo periodo, dunque, non si può assumere la letteratura come paradigma unitario della storia sarda.
Rimane, tuttavia, la necessità di superare l’immagine della Sardegna come isola inaccessibile, che spesso prevale nelle analisi e negli studi che riguardano la regione. Questa immagine tende a ignorare, tra le altre cose, il campo delle attività culturali.
Data la sua posizione decentrata e la sua peculiare storia, segnata dall’incontro con diverse culture, è molto difficile integrare la Sardegna in un discorso di storia letteraria rigorosamente italiana.
D’altra parte è impossibile concepire una storia dei sardi e della loro letteratura al di fuori del contesto europeo, per l’indiscutibile intreccio di atti diplomatici e di governo, di guerre e di accordi di pace, di correnti di idee, di generi letterari e di moduli stilistici che ha legato e lega la Sardegna all’Italia, alla Spagna, al bacino del Mediterraneo, all’intera Europa, a dispetto dei luoghi comuni sull’isolamento.

Le lingue in Sardegna

In Sardegna si sono sempre parlate molte lingue.

Prima della romanizzazione:

  • greco
  • cartaginese
  • altre lingue (berbere, mediterranee, di ceppo caucasico)

Dal 234 a.C.:

  • il latino dei romani
  • il sardo

L’utilizzo del sardo è un problema da tenere presente per comprendere la complessità del discorso sulla letteratura in Sardegna. Questa lingua antichissima, infatti, in apparenza così poco funzionale e poco presente nella tradizione scritta è però sostenuta dal fecondo rapporto di scambio che in Sardegna si è realizzato tra oralità e scrittura e dall’abitudine al confronto con lingue maggiormente diffuse ed espressione di culture dominanti.

Le lingue utilizzate

Queste le lingue utilizzate nell’isola:

  • Volgare sardo – soprattutto nelle cancellerie giudicali
  • Italiano – dei pisani e dei genovesi
  • Catalano – seguito dal castigliano
  • Italiano e francese – come lingue di cultura
  • Italiano – importato dai piemontesi
  • Latino – lingua scritta

Dal latino comune, ossia dal latino parlato e non da quello letterario, noto come latino volgare, derivano il sardo, l’italiano e le altre lingue neolatine o romanze: il portoghese, il castigliano, il catalano, il francese, il provenzale, il franco-provenzale, il ladino e il rumeno.

  • Queste lingue si formano in Europa nei regni cosiddetti romano-barbarici nel periodo di tempo compreso tra il 476 d.C., data della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e l’VIII-IX secolo, quando cominciano ad apparire le prime attestazioni scritte dei volgari neo-latini.
  • È difficile stabilire il grado di penetrazione della cultura bizantina, la diffusione del greco parlato e l’eventuale presenza e diffusione di un bilinguismo.
  • È certo che in Sardegna si parla il greco, che si ‘sovrappone’ al latino, senza soppiantarlo.
  • I documenti scritti dell’XI secolo sono in sardo, lingua neolatina.
  • Tuttavia il greco, come lingua del potere lascia le sue tracce: una carta, conservata a Marsiglia, è scritta in sardo ma con caratteri greci.

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Carta in lingua sarda con caratteri greci conservata a Marsiglia

Eventi storici

  • Divisione dell’Impero Romano
  • 456-534: breve dominio dei Vandali
  • 534-815: dominio bizantino – scorrerie saracene; la Sardegna è una delle province dell’Impero Bizantino nel quale si parlava il greco.
  • Intorno alla fine dell’VIII secolo Bisanzio abbandonò progressivamente la Sardegna.
  • Nel periodo tra il X e l’XI secolo l’isola fu divisa in zone che, nel tempo, divennero autonome rispetto al potere centrale bizantino e si diedero istituzioni amministrative e politiche proprie: nascevano così i quattro Giudicati di Cagliari, Torres, Arborea e Gallura, indipendenti e con una lingua propria.

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La Sardegna dei Giudicati

Caratteristiche dei Giudicati

Si presentano come dei piccoli regni indipendenti, fondati su una modesta economia agraria e commerciale, simili a tante altre realtà istituzionali diffuse nell’Europa del tempo.

  • Mostrano un notevole dinamismo sia nelle relazioni interne, sia in quelle esterne.
  • Sono in grado di assicurare una vita civile e ordinata alle popolazioni che crebbero di numero e tesero all’inurbamento, convergendo verso quelle città nelle quali si svolgevano i maggiori traffici.
  • Hanno una lingua propria.

A partire dall’XI secolo ha inizio l’interesse di Genova (soprattutto a Cagliari e in Gallura) e di Pisa (nel Logudoro e nell’Arborea) per l’isola. Anche la Santa Sede si interessa della Sardegna. Molteplici i contatti e le influenze esterne: famiglie liguri e toscane, viaggiatori, commercianti, ordini religiosi.

I primi documenti in sardo

In ambiente laico le cancellerie giudicali sono le uniche depositarie della scrittura.
Anche le cancellerie, però, si avvalgono dell’operato degli ecclesiastici.
Risalgono all’XI secolo i primi documenti scritti in sardo (o in latino) e redatti in Sardegna. Provengono dalle cancellerie dei Giudicati o dai conventi.

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Statuto sassarese del 1316

Le caratteristiche dei primi documenti in sardo sono:

  • la precocità e copiosità rispetto alle altre regioni italiane;
  • la diffusione generalizzata in tutte le zone dell’isola
  • la complessità e la maturità linguistica e stilistica;
  • l’alternanza con il latino (utilizzato in particolare per l’esterno).

Molto singolare l’assenza di un’attività poetica che, molto probabilmente, fu indirizzata in prevalenza verso la trasmissione orale. Difficile stabilire se, e in che misura, esistesse una consapevolezza della diversità tra il latino e il volgare.

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Libre del regiment, manoscritto in pergamena che contiene i privilegi concessi alla città di Oristano dal 1479 al 1578, Archivio comunale di Oristano

Le legendae e gli officia

Il perdurare di una vitalità della tradizione latina (e della cultura medioevale scritta) in epoca bizantina è testimoniata dalle legendae e dagli officia (vita e tradizione liturgica) dei santi e dei martiri sardi, databili a partire dall’XI secolo. I più importanti tra questi sono:

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Sant’Efisio

  • Sant’Efisio
  • San Lussorio
  • Sant’Antioco
  • San Giorgio di Suelli
  • Gavino, Proto e Gianuario, martiri turritani

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Dipinto del XVI secolo raffigurante San Lussorio Martire, dove appare la prima raffigurazione pittorica del costume sardo (Borore)

In Sardegna le prime testimonianze in sardo o in latino risalgono al periodo che va dall’ultimo quarto del secolo XII all’inizio del XII e provengono o dalle cancellerie dei Giudicati o da monasteri e basiliche.

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Chiesa di Saccargia (1116)

Nella lingua scritta il volgare sardo e il latino continuano ad alternarsi, mentre esistono testimonianze di una produzione agiografica autoctona intorno ai monasteri.
Questo repertorio documentario in lingua sarda è copioso e precoce, rispetto a quello di altre regioni italiane, e generalizzato, ossia non limitato ad una particolare area dell’Isola.
Sono testi su cui spesso i filologi e i paleografi si sono divisi. In realtà sono autentici, ma complessi.
Le grafie sono anacronistiche rispetto alla data della redazione e sono spesso una sintesi originale, ma inconsapevole, di diversi stili di scrittura (carolina, gotica, onciale e semionciale).
La lingua, invece, è prevalentemente sarda, nelle sue diverse varietà dialettali (logudorese, arborense e campidanese).
Il problema che essi pongono è l’accertamento di quale consapevolezza avessero gli scrivani di produrre in una lingua diversa dal latino e quindi di quale conoscenza avessero del latino. La coscienza di tale diversità sta alla base dell’uso consapevole del volgare rispetto al latino.

Agiografia e cronaca
Umberto Cardia ha definito la Sardegna giudicale come “il più complesso sforzo che i sardi abbiano prodotto, nella loro storia millenaria, per organizzarsi secondo il proprio genio, secondo consuetudini e leggi proprie”.
Fra gli influssi culturali destinati a incidere sul mondo giudicale, particolarmente significativi sono quelli con Pisa e Genova, le città marinare con le quali, dal 1016, era stato avviato un rapporto destinato a durare nel tempo.
Importanti anche quelli derivanti dalla presenza di ordini religiosi quali i Vittorini (di Marsiglia) o i Camaldolesi, che esercitarono non trascurabili effetti anche sulla circolazione dei libri.
Le poche opere di quel tempo giunte fino a noi, a cominciare da quelle di carattere agiografico, confermano l’impressione che l’ambiente in cui vennero composte condividesse le conoscenze letterarie proprie del tempo.
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Una certa capacità di elaborazione narrativa traspare anche in opere di carattere cronachistico, quale il Libellus Judicum Turritanorum.
Si tratta di una breve cronaca del XIII secolo dedicata ai Giudici di Torres che narra degli eventi politici e familiari dei diversi regoli succedutisi sul trono turritano dal 1065 circa al 1259, anno in cui morì Adelasia, moglie di Enzo di Hohenstaufen figlio dell’imperatore Federico II.
Ci è pervenuta attraverso una copia del XVII secolo conservata nell’Archivio di Stato di Torino.
L’autore, anonimo, era probabilmente un monaco. Sebbene risulti evidente il punto di vista filo-papale, la cronaca è preziosa per la ricostruzione delle genealogie medievali sarde, per la comprensione del clima politico del tempo e per la ricostruzione del profilo psicologico di alcune figure rilevanti, come Gonario II de Lacon-Gunale che regnò dal 1124-27 al 1154, quando si ritirò a Clairvaux dove morì e dove ancora è venerato come beato.

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Gonario II di Torres

È scritto in sardo logudorese, con una patina linguistica castigliana dovuta al lavoro del copista seicentesco. Presenta un’apprezzabile regolarità sintattica.

Eusebio e Lucifero

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Sant’Eusebio di Vercelli

Pur non avendo scritto versi né prose, i due vescovi sardi Eusebio e Lucifero possono essere collocati alle origini della letteratura sarda.
Vissuti entrambi nel IV secolo dopo Cristo, viaggiarono a lungo, soprattutto nel vicino Oriente. Combatterono l’eresia ariana e patirono l’esilio per questioni religiose. Morirono nello stesso anno, il 371: Lucifero nella sede cagliaritana; Eusebio, a Vercelli, città della quale era vescovo, per mano degli ariani che lo lapidarono.
Si ricorda Eusebio per le Epistole (d’argomento religioso) composte con passione evangelica.
A lui viene attribuito anche un Trattato sulla Trinità (secondo alcuni composto da san Atanasio) e un Evangelario latino, conservato nella cattedrale di Vercelli.

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San Lucifero

Lucifero anch’egli autore di Epistole, ha lasciato numerose opere scritte in latino, in difesa dell’ortodossia e in forte polemica con l’imperatore Costanzo.
Di lui disse Francesco Alziator: “La prosa di Lucifero non si fa mai arte, ma vibra di tanta passione, forza ed umanità da rappresentare nella storia letteraria, e non solo, dell’Isola, il più notevole esempio di fede nelle proprie idee”.
Lucifero traduce in vantaggio quello che potrebbe essere un non piccolo svantaggio: il suo essere pene barbarus lo pone nella condizione di precorrere i tempi, di antivedere ciò che ancora deve arrivare, di non averne paura. Egli si trova all’origine della tradizione letteraria sarda non solo per ragioni cronologiche ma anche perché si è fatto iniziatore di un modus scrittorio che ha accompagnato gli autori sardi fino all’età contemporanea.

I Condaghi

Sebbene non esista una letteratura medioevale in lingua sarda, se si esclude il Libellus iudicum turritanorum, esiste una copiosa produzione documentaria.
La Sardegna ha sempre mantenuto il senso pragmatico della scrittura, quello orientato alla tutela dei patrimoni. Sembrano semmai i monaci nuovi venuti ad adeguarsi alla lingua di questo sistema di testi scritti che riusciva a disci-plinare in modo efficace i rapporti di scambio e di proprietà.
In questo quadro di fortissimo valore pragmatico della scrittura vanno inseriti i Condaghi.

I Condaghi sono registri patrimoniali originariamente (in età bizantina) costituiti da singole schede cucite le une alle altre e arrotolate intorno ad un bastone (chiamato in greco comtacion da cui appunto il termine ‘condaghe’).
In età medievale, alla struttura a rotolo si sostituisce quella a libro che è giunta fino ai nostri giorni.

Tra i Condaghi giunti fino a noi:

  • Il Condaghe di S. Pietro di Silki
  • I Condaghi di San Nicola di Trullas
  • Il Condaghe di S. Maria di Bonarcado
  • Il Condaghe di S. Michele di Salvennor
  • Il Condaghe di S. Pietro di Sorres

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Condaghe di San Pietro di Silki (1065-1180) redatto in sardo

La Sardegna e i trovatori

La Sardegna del periodo giudicale presenta uno scenario politico non dissimile da quello del resto d’Italia. Le famiglie più illustri di Pisa (Donoratico, Visconti) e Genova (Doria) si erano imparentate con le famiglie regnanti sarde, le quali a loro volta, avevano attivato un’intensa politica matrimoniale con altre casate, non solo italiane, ma anche catalane. Tutto questo contribuì a trasformare il panorama geopolitico e linguistico isolano, rendendolo più articolato, non solo limitato alle corti giudicali, ma animato anche da piccole corti signorili.
I trovatori, che percorrevano la penisola italiana andando di corte in corte, registrarono la novità.
Peire de la Cavarana indirizza il sirventese D’un sirventes faire a un sardo designato con il senhal Malgrat de toz, identificabile con il giudice Barisone d’Arborea (1131-1184) che venne incoronato re di Sardegna a Pavia da Federico I Barbarossa il 10 agosto 1164 dietro compenso di quattromila marchi d’argento anticipati da Genova.
Peire Vidal dedica il sirventese Pos ubert ai mon ric tezaur a un Marques de Sardenha / Q’ab joi viu ab sen regna (al Marchese di Sardegna / che vive con gioia e con senno regna) che non può che essere Guglielmo I Salusio IV, giudice di Cagliari e Marchese di Massa (m.1214) del quale un altro trovatore Elias Cairel dice, con intenti tutt’altro che laudativi, que sa valors sembla febre (che il suo valore sembra febbre).
Albertet de Sisteron, verso il 1221, annovera Adelasia di Torres, figlia di Agnese di Massa, nipote del marchese Guglielmo, moglie prima di Ubaldo Visconti e poi di Enzo di Hoensthaufen, tra le donne più celebri e belle citate in En amor trob tanz de mal seignoratges.
Da notare che i trovatori non scrivevano per se stessi, ma affidavano i testi ai giullari perché li divulgassero.
Il sirventese era il genere proprio della propaganda politica, per cui vien difficile pensare che il pubblico signorile sardo non apprezzasse la tradizione trobadorica, né che il pubblico italiano non si sentisse coinvolto nelle vicende isolane.
Sotto il profilo linguistico è questo il periodo in cui l’italiano penetra in profondità in alcune zone dell’Isola. Una buona esemplificazione di quale italiano venisse parlato alla corte dei Doria ci è data da una lettera di Brancaleone Doria ai nobili siciliani in rivolta contro i catalano-aragonesi.
I trovatori ebbero dunque rapporti con le piccole corti sarde e con i loro signori, così come li ebbero con altre corti signorili d’Italia. Di tutto questo sistema di rapporti e di relazioni non resta nulla a livello dei testi scritti della cosiddetta cultura alta.

La poesia popolare

La poesia popolare isolana del periodo si caratterizza per il numero, per la straordinaria complessità dei generi e per la terminologia tecnica che ne designa le forme e i metri.
Dietro questo patrimonio si nota l’impronta della tradizione provenzale e una discendenza dalla letteratura trobadorica.
Infine va rilevato che, unitamente a quanto attesterebbero le forme e i nomi della poesia popolare sarda, una fonte quattro-cinquecentesca, la Memoria de las cosas que han acontecido en algunas partes del Reyno de Cerdeña, recentemente rivisitata, attesta inequivocabilmente che nell’Isola è esistita una tradizione, se si vuole para-letteraria, che aveva come argomento le origini delle casate giudicali, le fondazioni di chiese e di città nonché alcuni episodi della storia medievale isolana. Verità e mito si fondono in questo testo né più né meno di come si amalgamano in analoghi testi europei.

La Carta de Logu
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Durante il giudicato d’Arborea, tanto sotto il giudice Ugone II (1321-1335) quanto sotto Mariano IV (1347-1376), è documentato l’impiego delle lingue che accompagnano il volgare sardo: il latino e il catalano, in primo luogo, ma anche l’italiano e il francese.
In questo contesto Mariano IV emana, dopo il 1353, un Codice rurale che successivamente diviene il Codice di leggi civili e criminali (o penali) ripreso e promulgato da Eleonora, probabilmente nel 1392, nella formulazione nota come Carta de Logu. 
La Carta de Logu riveste un’importanza fondamentale nella storia sociale e linguistica della Sardegna. Estesa dal 1421 all’intero territorio isolano, fuorché alle città con statuto proprio, superando secolari e non lineari vicende storiche, rimane in vigore fino al 1827, quando fu sostituita dal Codice feliciano.
La storia della Carta de logu contiene ulteriori motivi di interesse che risiedono nella lingua in cui fu scritta e nel ruolo che svolse all’interno della società sarda.
La lingua in cui è redatta la carta è definita da Antonio Sanna “una varietà arborense”. È una lingua di confine che mantiene al suo interno i due tipi dialettali logudorese e campidanese.
Accanto alla sua funzione giuridica importantissima, la Carta assolse a due compiti di grande rilievo:

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  • ricordò in ogni momento ai sardi che, pur nella miriade di distinzioni interne e nella subalternità politica verso un dominatore esterno, appartenevano a un ethnos e che, anche sotto il profilo linguistico, potevano specchiarsi in un tratto comune, in quella “omogeneità primitiva” sulla quale si fondava la lingua della legge;
  • abituò i sardi a considerare come evento normale il fatto che quel supremo documento fosse scritto non in una lingua aulica e distante dall’uso ma nel “tipo dialettale di un’area di confine”

Antonio Cano

Ad Antonio Cano si deve il primo poemetto in volgare, Sa Vitta et sa Morte et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu.

Le notizie sulla sua vita sono scarse, si sa che è nato a Sassari alla fine del XIV secolo. Dopo essere stato rettore della villa di Giave, fu eletto abate di Saccargia e poi ordinato vescovo di Bisarcio prima di diventare arcivescovo di Sassari. Sa Vitta et sa Morte et Passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu è la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi cono-sciuta. È un poemetto di argomento agiografico che ripropone, attingendo da fonti narrative medievali, il modello martiriale.

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Edizione contemporanea del testo di Antonio Cano

Gavino, Proto e Gianuario, martiri turritani, vengono riproposti come modelli esemplari di coerenza contro i falsi miti e i falsi valori, in una Sardegna che, a distanza di tredici secoli dal martirio, intende fondare sulla tradizione cristiana e sulla lingua e la cultura sarda, la propria identità di popolo che prende coscienza della propria condizione in un clima di accese speranze di riforma morale.
Le scelte retoriche, la spiccata tendenza alla drammatizzazione, la forza espressiva e l’arditezza del dettato rimandano ad una intertestualità ampia e ad una tradizione che, a partire dalle origini dell’Europa cristiana, si muove nell’alveo della ricca e multiforme letteratura di argomento religioso.

Il Laudario lirico

Altro testo di rilievo del periodo è il Laudario lirico ritrovato da Damiano Filia a Borutta, che documenta anche per la Sardegna la presenza di tradizioni francescane paraliturgiche nutrite di musiche e canti.
L’Alziator ritiene che nelle laudi dalle quali è composto sia evidente “la derivazione dalla poesia italiana dei secoli precedenti”. Dello stesso Laudario fanno parte anche la Laude de Nostra Signora de sa Rosa e le Laudes de sa Santa Rughe, in volgare sardo, che ricalcano lo schema e l’andatura dei tradizionali gosos sardi. I gosos sono le laudi per i santi locali, composte per lo più da ecclesiastici.

Letteratura e lingue

È significativo che nella Sardegna della fine del XV secolo, dove già cominciava a brillare il prestigio del castigliano, lo stesso destino della tradizione isolana colpisce la letteratura in catalano.

Ci rimangono infatti solo tre testi:

  • il Cant de la Sibilla;
  • la Vida y miracles del benaventurat sant’Anthiogo, entrambi di ambito paraliturgico nel quale si iscrive anche la tradizione popolare di goigs;
  • le Cobles de la conquista des francesos, che celebrano il fallimento dell’invasione di Alghero da parte del Visconte Guglielmo di Narbona, nemico del re d’Aragona in quanto erede del titolo e dei beni dei Giudici di Arborea.

download.jpegXilografia del Sant Anthiogo pubblicata in Vida y Miracles del Benaventurat Sant Anthiogo (Barcellona, 1890)

La stabilità politica acquisita alla fine del Quattrocento, che iscrisse definitivamente la Sardegna nel sistema iberico, non si tradusse immediatamente in un’egemonia culturale e linguistica castigliana.

La storia linguistica della Sardegna dal Trecento ai primi del Cinquecento può essere così schematizzata:

  • il sardo, in posizione subalterna dopo la caduta dell’ultimo Giudicato, resistette alla riduzione a puro e semplice dialetto grazie alle disposizioni della Carta de Logu, che ne legittimarono l’uso notarile e giuridico, e all’azione di alcuni centri religiosi e culturali quali quelli francescani;
  • il catalano penetrò lentamente, specie nel secolo che va dal 1450 al 1550, anche in ambiti sociali non elevati e nelle zone dell’Isola da cui era rimasto in precedenza escluso;
  • il castigliano si affermò inizialmente per il prestigio di cui godeva, poi per un’azione autoritaria realizzata specialmente dalle strutture ecclesiastiche;
  • la tradizione italiana perdura fortemente fino al XVI secolo, dopo si indebolisce fortemente.

IL CINQUECENTO

Note introduttive

Nel 1566 Nicolò Canelles fonda a Cagliari la prima stamperia, che comincia a stampare con regolarità testi per lo più d’argomento religioso, anche se non mancano i titoli degli autori classici. A questa attività, a partire dal 1571, Canelles affianca quella della diffusione di libri pubblicati altrove. Il confronto con la cultura del tempo si mantiente nonostante le gravi difficoltà dell’isola quali:

  • pestilenze
  • scorrerie barbaresche
  • calo demografico
  • effetti devastanti della guerra franco spagnola
  • basso livello dell’istruzione pubblica.

La vivacità culturale del periodo è provata anche dal numero dei libri posseduti da alcuni illustri personaggi dell’epoca.

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Permane il pluralismo linguistico:

  • Il catalano è prevalentemente la lingua delle attività giuridiche e amministrative, a Cagliari in particolare. Nel periodo dal 1450 al 1550 penetra anche in ambiti sociali non elevati e nelle zone dell’isola da cui in precedenza era escluso.
  • Il sardo, pur in posizione subalterna, è vivo in tutte le parti dell’isola, soprattutto negli ambienti popolari. Il suo utilizzo in campo giuridico e notarile resistette grazie alle disposizioni della Carta de Logu e all’azione di alcuni centri religiosi.
  • L’italiano è marginale e diffuso soprattutto negli ambienti del commercio genovese.
  • Il castigliano comincia a diffondersi, non senza difficoltà.

Mappa di Cagliari elaborata dagli scritti dell’Alquer

La scelta della lingua
Il pluralismo linguistico si riflette anche nelle scelte linguistiche degli autori sardi.

  • L’algherese Antonio Lo Frasso (seconda metà del XVI secolo) scrive in castigliano e solo marginalmente in catalano e in sardo;
  • il canonico Gerolamo Araolla (1545 – fine del sec. XVI) scrive in castigliano, italiano e sardo;
  • il nobile bosano Pietro Delitala (1550 – 1592 circa) in italiano;
  • l’umanista Gian Francesco Fara scrive in latino;
  • Sigismondo Arquer in latino, italiano e castigliano.
  • Un cenacolo di studiosi sassaresi vive ed opera fra Sassari e le università di Pisa e di Bologna, scrivendo, dato l’ambito accademico in cui agiscono, prevalentemente in latino.

In questo quadro va intesa la caratteristica principale del Cinquecento isolano:

  • per la prima volta la Sardegna diviene oggetto di studio
  • il sardo viene utilizzato nella poesia amorosa e in quella celebrativa e encomiastica.

È da rimarcare, tuttavia, che gli autori non sono mossi da un forte sentimento di appartenenza, da un’identità sarda avvertita come culturalmente rilevante. Essi non scrivono di Sardegna o in sardo per inserirsi in un sistema isolano, ma per iscrivere la Sardegna e la sua lingua in un sistema europeo, per farla conoscere, dipingendola secondo le forme e i codici della cultura europea.

La letteratura celebrativa ed encomiastica

Elevare la Sardegna ad una dignità culturale pari a quella di altri paesi europei significava anche elevare ed integrare nel sistema europeo i sardi, e in particolare i sardi colti, che si sentivano privi di radici e di appartenenza nel sistema culturale continentale.

Anche quando scrissero in sardo (come fece l’Araolla), anziché in latino o in italiano, lo fecero sì per esigenze di comunicazione interna – forse è il caso di ricordare che non pochi di essi erano sacerdoti e dunque con una naturale inclinazione per i generi e i toni didascalico-moraleggianti – ma soprattutto per dotare la Sardegna di quella tradizione letteraria, e quindi di quel lustro e di quella nobiltà che, mancando, la rendeva negletta.

In pieno ’700 neoclassico il gesuita Matteo Madao tentò un’analoga operazione con una maggiore disponibilità a sostituire con l’invenzione ciò che la storia non forniva.

Nell’Ottocento, il canonico Giovanni Spano trovò che anche la lingua dovesse essere nobilitata e resa più illustre con l’inserimento di tanto lessico italiano, latino e ebraico.

È, insomma, una costante di alcuni autori sardi tentare una costruzione artificiale della lingua letteraria. I processi di imitazione ingenua delle lingue letterarie affermate svelano con chiarezza la debolezza del sistema letterario interno, dovuto a carenza di lettori, di istituzioni educative e culturali, alla reale natura sovrastrutturale dell’attività letteraria nel contesto di povertà e di privilegio.

mappa-di-Cagliari-elaborata-dallopera-di-S.-Arquer.jpgIl trilinguismo

I maggiori scrittori del Cinquecento utilizzano con intenti letterari più di una delle quattro lingue usate comunemente. Il sardo è la lingua che serve per raggiungere un pubblico che parla il sardo attraverso l’intermediazione di un lettore che con questo pubblico ha un rapporto strettissimo, di solito il clero. Lo spagnolo e l’italiano si rivolgono ad un ambito culturale più ampio e servono per comunicare con le istituzioni e con il potere.

Tra gli scrittori plurilingue meritano un rilievo particolare:

  • Antonio Lo Frasso
  • Gerolamo Araolla
  • Pietro Delitala

Antonio Lo Frasso

L’opera di Lo Frasso merita rilievo per il doppio e contemporaneo riferimento alle letterature italiana e spagnola e il gusto per la mescolanza dei generi e delle lingue. Egli scrisse prevalentemente in castigliano e, marginalmente, in sardo e in catalano.

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Poeta e militare, originario di Alghero, Lo Frasso lasciò l’isola per trasferirsi in Spagna, dove compose in lingua spagnola tre operette intitolate:

  • Los mil y dozientos consejios y avisos discretos, che contiene consigli e ammonimenti rivolti, in versi, ai figli rimasti ad Alghero;
  • El verdadero discurso de la gloriosa victoria, cronaca in ottave della battaglia di Lepanto;
  • Los diez libros de la fortuna d’amor. A quest’ultima, pubblicata nel 1573, deve l’attenzione di Cervantes, che lo menziona nel Don Chisciotte. Il suo successo fu dovuto proprio al giudizio di Cervantes, che conosce Lo Frasso, ne ha letto l’opera e può parlarne ai lettori del Don Chisciotte con tono ironico e ammiccante. Los diez libros è un romanzo pastorale con spunti autobiografici, articolato in una serie di vicende ad intreccio, a metà strada tra il mitologico e l’avventuroso. Egli si rivolge qui ad un pubblico urbano, mondano e un po’ frivolo.

Se da un lato città come Alghero e Cagliari erano forse gli ambienti più aperti dell’Isola verso la cultura iberica e verso l’apertura europea, da un altro però, essendo prive di una solida tradizione culturale locale, si autointerpretavano secondo uno spirito coloniale, nell’eterno confronto con il centro lontano del potere, egemone, ammirato, imitato, temuto, da dover replicare per sentirsi nella storia. Non a caso, Lo Frasso, seppure per ragioni meramente giudiziarie, si trasferì da Alghero a Barcellona.

Egli comunque inserisce ne Los diez libros due sonetti in sardo logudorese, uno di argomento amoroso Cando si det finire custu ardente fogu e l’altro dedicato a San Leonardo Supremu gloriosu excelsadu, ed una lunga composizione in ottave intitolata Glossa sarda. L’inserimento di questi testi è giustificato con il lettore ora con banali motivi mimetici (San Leonardo è sardo, quindi occorre rivolgersi a lui in sardo), ora dalla curiosità salottiera delle dame barcellonesi verso l’inconsueta e poco nota lingua montana della patria di origine del protagonista Frexano.

Resta il fatto che, pur con i limiti critici di questo recupero del sardo per esotismi da salotto, Cando si det finire custu ardente fogu è la prima lirica d’amore della letteratura sarda, e che il logudorese di Lo Frasso è, come quello di Araolla, di buona qualità e fortemente influenzato dall’italiano. Se a ciò si aggiunge che Lo Frasso dedica un sonetto in castigliano a Gerolamo Vidini di cui parla anche Araolla nel suo Capidulu de una visione, non si può non nutrire il sospetto che anche il poeta algherese sia stato influenzato dal cenacolo dei sassaresi e dal loro programma sardo-centrico.

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Gerolamo Araolla

Gerolamo Araolla (1545 – fine del XVI secolo) è l’autore che meglio di altri illumina tanto il clima del Cinquecento sardo, quanto l’eredità ricevuta dal XV secolo.

La sua prima opera è Sa vida su martiru et morte dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu e Gianuari (1582), argomento (l’epopea dei santi, abbastanza innocua politicamente e culturalmente) sopravvissuto alla catastrofe della guerra e già trattato, come si è visto, dal vescovo di Sassari Antonio Cano.
Il suo scopo era duplice:

  • dare dignità letteraria al logudorese
  • affrontare e recuperare un tema nazional-religioso molto noto e diffuso, e quindi vocato ad assumere funzioni edificanti.

Nel 1597 Araolla pubblica la raccolta di poesie in diversi metri intitolata Rimas diversas spirituales, nella quale include testi in sardo, in castigliano e in italiano. Il suo programma è cambiato: non più un orizzonte tutto interno di nobilitazione del sardo e della Sardegna, ma un inserimento di quell’obiettivo nel contesto culturale dell’Italia e della Spagna.

Araolla conosce la grande letteratura italiana, anche quella contemporanea; ha studiato, analizzato e riflettuto, riuscendo ed elaborare un programma acuto e moderno; a lui si deve la stesura del bando della nuova letteratura sarda.

Come la maggior parte degli autori sardi, anche Araolla confronta le proprie esigenze espressive con le opere realizzate da sos eccellentes et famosos Poetas Italianos et Spagnolos.

Sigismondo Arquer

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Sigismondo Arquer

La figura di Sigismondo Arquer (1530-1571) si presenta rispetto all’intero sistema sardo come dotata di requisiti di eccellenza e di originalità. Non tanto per la tragicità della sua esistenza, ma anche e soprattutto per l’originalità dei punti di vista e l’eleganza della lingua che caratterizzarono l’unica sua opera relativa alla Sardegna, la Sardiniae brevis historia et descriptio.

Avvocato, teologo e studioso cagliaritano, frequentò ambienti religiosi legati al luteranesimo. Nel 1563 venne accusato di eresia dall’Inquisizione, rinchiuso nel carcere di Toledo e sottoposto a giudizio. Condannato, morì sul rogo il 4 giugno 1571.

Nel 1549 collaborò a Basilea con Sebastian Münster alla stesura della Cosmographia Universalis, realizzando una monografia sulla Sardegna, Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata). Nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio Arquer assume la sua fede come fondamento dell’interpretazione della storia. Il suo rapporto diretto e personale con la Scrittura era animato da una notevole autonomia dottrinaria.
Anche il rapporto con i classici è caratterizzato da pari autonomia. Questi, anzi, vengono puntualmente smentiti attraverso argomentazioni fondate sull’esperienza personale. Il giudizio sulla società del suo tempo è netto: è una società malata perché priva di sani principi, non perché mal governata o ribelle.

Tuttavia questi giudizi che investono la sfera morale e dipingono l’Isola come un covo di ignoranti, si ritrovano concentrati nel capitolo intitolato De civitatibus. Il luogo dell’immoralità è la città, e specialmente l’unica vera città, cioè Cagliari, non a caso sede di quel potere locale che più di ogni altro odiò Arquer.

Egli fu l’unico intellettuale sardo a non essere ossessionato dall’ansia di integrazione e di riconoscimento da parte della cultura europea. Usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante.

Arquer conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.

La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane. È l’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

La personalità dell’Arquer si staglia nel panorama sardo, emblematica per la grandezza, contraddittoria col quadro generale e, nel contempo, del tutto coerente con le aspirazioni e le qualità migliori che quel contesto era in grado di produrre. La sua vicenda, poi, è come un sigillo che si è impresso nella coscienza di non pochi intellettuali sardi e ha determinato un’impronta, come un mito che non ha perso vitalità nel corso del tempo. Dottrina, dirittura morale, coraggio, libertà di pensiero, spirito critico, imparzialità, amore per la propria terra: tali le caratteristiche che, anche nel Novecento, vengono attribuite all’autore cinquecentesco da un’intellettualità colta e sardista per la quale la figura dell’Arquer ha rappresentato un modello ideale.

 Storici ed eruditi

Oltre a Sigismondo Arquer il contesto culturale isolano dell’epoca può vantare autori di opere storiche, esperti di diritto e raccoglitori di leggi, scienziati, teologi.

Tra questi Giovanni Francesco Fara, Giovanni Arca e Antioco Brondo, Francesco Bellit e Pietro Giovanni Arquer, Gavino Sambigucci e Gian Tommaso Porcell. Scrivono di storia, di geografia e di diritto, di filosofia, di medicina e, talora, verseggiano, utilizzando il latino e lo spagnolo.

Tratti caratteristici:

  • appartengono ai più diversi settori della vita civile: sacerdoti, giuristi, professori dell’Università, studiosi non inseriti in una struttura accademica, medici e filosofi;
  • mostrano un notevole dinamismo culturale (viaggiano, tengono conferenze, scambiano lettere, leggono opere letterarie, fanno circolare le proprie); rappresentano una notevole varietà di interessi, che si rivela nella qualità delle opere prodotte;
  • mostrano una doppia attenzione verso la cultura italiana e quella spagnola, la frequenza delle università italiane e di quelle iberiche, la scelta dell’una o dell’altra lingua, in alcuni casi di entrambe, per accompagnare le scritture in latino.

 Giovanni Francesco Fara

Giovanni Francesco Fara è considerato il padre della storiografia sarda, l’Erodoto di Sardegna. Nacque a Sassari nel 1543 da una delle più illustri casate della città. Nel 1567 pubblicò a Firenze il trattato De essentia infantis, unica opera della sua produzione giuridica giunta fino a noi.

La sua fama letteraria è legata soprattutto a due opere del genere erudito-storiografico tardo cinquecentesco:

  • De Rebus Sardois, opera annalistica in quattro libri, di cui il primo fu pubblicato nel 1580, gli altri nel 1835. Scritta in un latino che riprende i modi degli storici classici, costituisce un importante punto di riferimento per gli storici posteriori.
  • De chorographia Sardiniae, rimasta inedita sino al 1835, unisce all’informazione storica la descrizione geografica, secondo un modulo destinato a ritornare nel corso del tempo.

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Nel De corographia Sardiniae egli segue il canovaccio dell’opera di Sigismondo Arquer, inserendone anche alcuni passi senza citare l’autore, e censurando dell’Arquer l’impostazione ideologico-religiosa.

Fara condivise con Araolla il progetto di fondare una tradizione di studi sardi da realizzare secondo una prospettiva che ne garantisse l’inserimento nei più vasti circuiti italiani e spagnoli. Si laureò a Pisa nel 1567; il 6 dicembre del 1568 il vescovo di Sassari lo nominò arciprete. Il Capitolo turritano contestò la nomina ed egli dovette recarsi a Roma per perorare e difendere la sua causa. Qui risiedette probabilmente dal 1570 al 1578. Fu forse in questo periodo che ebbe modo di leggere un numero consistente di documenti custoditi negli archivi e nelle biblioteche vaticane. Fu lì che conobbe una Sardegna che gli era ignota e che entrò in contatto con la storiografia erudita e curiale romana che molto influì sulle sue scelte metodologiche. Il suo De rebus sardois – di cui riuscì a pubblicare solo il primo libro, essendo morto nel 1591 poco dopo essere stato nominato vescovo di Bosa – costituisce un corpus di citazioni e di notizie che tentano di restituire ai contemporanei il senso della memoria storica della Sardegna. 

L’opera dei gesuiti

Fanno eccezione, rispetto a queste dinamiche di integrazione e legittimazione, i gesuiti del XVI secolo. Con una serie di missioni nei piccoli villaggi dell’interno inaugurarono un’opera di rievangelizzazione e di acculturazione che, per un brevissimo periodo – fino a quando non venne vietato dal re – prevedette anche l’insegnamento in sardo, secondo la pedagogia missionaria gesuitica che i padri ebbero modo di sperimentare anche in Sudamerica. Si intende cioè dire che, a differenza degli intellettuali sardi, l’interesse dei Gesuiti per la Sardegna, per quanto fosse in primo luogo pastorale, era più incardinato sull’urgenza di capire i processi isolani che non sulla necessità di ingentilirli o sublimarli per ottenere, attraverso questa finzione, l’integrazione non della Sardegna, ma dei suoi ceti egemoni, in un sistema più ampio.

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Pagina autografa

Ciò spiega perché si debba alla penna di un ex gesuita, il bittese Giovanni Arca (1562/63 ca – 1599), il De barbaricinorum libelli, che è un vero testo di fondazione di un mito e di un’ideologia. Arca ripropone per i Barbaricini appunto, le origini mitiche derivate da Iolao, compagno di Ercole, eponimo degli Ilienses, nome con cui venivano designate in diverse fonti antiche alcune popolazioni dell’interno dell’Isola.

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Il mito della Barbagia – e con essa di ogni roccaforte montana della Sardegna – come luogo incontaminato di un’antichità leggendaria, sede di fiere popolazioni resistenti agli invasori, luogo insomma della più schietta identità isolana, nobilitata nel Cinquecento con il richiamo alle origini classiche e nell’Ottocento romantico con i toni e i colori del primitivo, del fiero e del feroce, ha avuto un pendant ideologico non irrilevante che dura fino ai nostri giorni.
La narrazione è intessuta su un fitto reticolo di fonti che l’autore non esita a piegare pur di raggiungere l’obbiettivo di creare una vera e propria epopea dei Barbaricini. L’opera di Arca attesta che il localismo in Sardegna si radica, almeno nel suo riflesso letterario, contestualmente all’affermarsi di un’integrazione sovraregionale e pertanto è il segno di uno squilibrio interno, non di una chiusura verso l’esterno.

Pietro Delitala

1200px-Pietro_Delitala_-_Rime_DiverseForse il più integrato nel clima culturale italiano fu Pietro Delitala (1550 -1592 circa). Nato a Bosa, durante il suo lungo esilio in Italia, entra in contatto con gli ambienti letterari e, probabilmente, anche col Tasso, la cui opera, comunque, conosce e considera quale indispensabile punto di riferimento. E’ autore di un canzoniere in lingua italiana, Rime diverse, di chiara ispirazione petrarchesca, pubblicato a Cagliari nel 1596. Nell’opera Delitala si dimostra inserito negli sviluppi manieristici della tradizione lirica italiana, la materia delle poesie è ricca di interessanti riferimenti autobiografici e alla realtà sarda. E’ stata messa in dubbio la conoscenza personale del Tasso da parte del Delitala, ma il sonetto indirizzato all’autore della Gerusalemme liberata, sembra confermare questo rapporto. Nell’introduzione alla sua raccolta si scusa per avere scelto l’italiano al posto dello spagnolo o del sardo e chiede clementia per la sua prova poetica. La sua opera rappresenta al meglio la tendenza, da parte degli intellettuali sardi, a mantenere i tre filoni della sua tradizione letteraria: quello italiano, quello spagnolo e quello sardo.

IL SEICENTO

 Note introduttive

Durante il Seicento, tutti i testi in castigliano sono opera di esponenti del ceto feudale o della burocrazia del Regno; quelli in sardo sono opera di sacerdoti di periferia, parroci di piccoli paesi o religiosi di alcuni conventi dell’interno che praticano generi minori o si dedicano alla traduzione a fini didascalici della tradizione agiografica. La coesistenza dei due sistemi linguistici nei testi non marca solo un confine sociale, tra istruiti e ricchi da un lato, e incolti e poveri dall’altro, ma anche geografico, tra la città e la periferia. E’ emblematico in tal senso il contrasto tra il cittadino e il pastore nell’Alabanças de San George obispo Suelense Calaritano di Juan Francisco Carmona (giurato di Cagliari nel 1623), dove, oltre alla contrapposizione dei codici e degli stili (da una parte l’elaborato castigliano del cittadino, dall’altro il sardo elementare del pastore) si ha anche il topos del mondo rurale ignorante e credulone, esposto alla facile e compassionevole ironia del mondo della città e della sua cultura. Nel Seicento la Sardegna passa dall’integrazione subita a quella voluta.

processione-dei-misteri (1)Padri gesuiti che si preparano alla processione di origine secentesca dei Misteri

Eventi storici

Il secolo XVII si apre per l’isola con la convocazione del Parlamento che stabilisce misure in favore dell’agricoltura, del riordino delle strade e dell’erezione di nuove torri per la difesa costiera.

Su richiesta degli Stamenti sono istituite le Università a Cagliari (1626) e a Sassari (1632).

Nel corso del secolo la situazione dell’isola si fa via via più difficile con la fiscalità in progressivo aumento per contribuire alle spese militari della corona spagnola e, soprattutto, con la terribile pestilenza che dal 1652 al 1657 flagellò l’isola decimando la popolazione.

Si nota un quadro strutturale molto difficile, nel quale si innestano gli avvenimenti storici contingenti:

  1. gli aumenti dei donativi;
  2. la recrudescenza delle incursioni barbaresche;
  3. la guerra dei Trent’anni;
  4. la travagliata vita politica, che culmina negli assassinii di don Agostino Castelvì, marchese di Laconi, e del viceré, marchese di Camarassa.

IMG_20170312_100633Lapide che ricorda l’omicidio del marchese di Camarassa

Romanzieri e poeti

Nel Seicento lo spagnolo è adottato dagli intellettuali sardi come lingua letteraria, di cultura. La cultura sarda entra a far parte dell’universo della cultura barocca.
Ogni scrittore sceglie i propri modelli e alla fine produce un’opera originale, oppure una ricombinazione, un pastiche, destinato a rendere complesso il lavoro dei critici che vogliano descriverne le ascendenze letterarie.

Jacinto Arnal de Bolea è autore di un romanzo in stile culterano intitolato El Forastero. Il forestiero Carlo giunge a turbare la tranquilla esistenza di alcune nobili fanciulle, tra cui quella di Laura, moglie del suo persecutore, il duca Felisardo. Nell’intricatissima vicenda non mancano matrimoni e figli illegittimi, non ultimo quello avuto da Carlo e Laura. Il lieto fine compone ogni tensione: vengono riscoperte le origini nobili del protagonista e i due amanti, dopo la morte di Felisardo, possono finalmente sposarsi. Arnal de Bolea aveva già pubblicato nel 1627 gli Encomios al torneo, poema in ottave in cui descrive il torneo cavalleresco che si svolgeva ogni anno a Cagliari in occasione della festa di San Saturnino ed elogia alcuni nobili sardi. El forastero è scritto in un castigliano ricco di latinismi, italianismi, sardismi e francesismi e, mentre da un lato documenta il forte legame del de Bolea con la Sardegna e in particolare con Cagliari, “madre de forasteros”, dall’altro mostra chiaramente i rapporti che legano l’autore alla letteratura spagnola.

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Nel caso dell’opera del cagliaritano Giuseppe Zatrillas Vico, i pareri sono discordi sia sulla valutazione degli aspetti propriamente letterari, sia per quanto concerne il giudizio riguardante l’opera posta in relazione con la società e la cultura del suo tempo. Cagliaritano, di famiglia nobile, oltre che coltivare le lettere, Giuseppe Zatrillas svolse importanti incarichi politici. Nello svolgimento di questi fu accusato di tradimento, esiliato e imprigionato a Tolone. Il suo romanzo Engaños y desengaños del profano amor (1687-1688), che ebbe molta fortuna all’epoca, è incentrato sulla relazione amorosa tra il duca Don Federigo e Donna Elvira Peralta. La trama è fortemente intricata e appesantita dalla magniloquenza tipica dello stile barocco, mentre abbondano le sentenze morali (las moralidades) volte a scoraggiare i peccaminosi amori adulterini, secondo un gusto controriformistico che tanto favore incontrava nella cultura spagnola del tempo.

Engaños_y_desengaños_del_profano_amor_-_deducidos_de_la_amorosa_historia,_que_à_este_fin_se_refiere_del_ducque_D._Federico_de_Toledo_-_donde_se_disuade_lo_nocivo_de_esta_passion,_y_se_previene_su_(14764321954)
 Storici ed eruditi. Vico, Vidal e Aleo

Il Seicento è ricchissimo di storici. Il motivo di questa ricchezza si ritrova nel contesto politico. Il confronto tra Sassari e Cagliari, confronto di puro potere, si ammantò di cultura e di letteratura con la difesa, l’esaltazione e la riscoperta, per ognuna delle città, di una legione di martiri, esibiti come prove del primato del nord sul sud dell’isola e viceversa. Spesso questo localismo sfociò in opere storiografiche di intento propagandistico, ma con dei risvolti e delle motivazioni diverse rispetto a quelle che avevano caratterizzato il secolo precedente. Il localismo del XVII secolo è propaganda politica, assolutamente inutile rispetto all’integrazione della Sardegna nel mondo ispanico, ma rilevante co-me strumento della lotta tra diverse élites politiche per la conquista o il rafforzamento del poco potere interno e dei suoi processi di derivazione dalla corona spagnola. La produzione di un’estetica del localismo come supporto propagandistico dell’azione di un ceto politico aristocratico cittadino, o cantonale o territoriale, è una costante della contiguità tra intellettuali e potere che ha prodotto, fino ai nostri giorni, non poche deformazioni del sistema culturale isolano e dei suoi rapporti con il sistema europeo.

Rientra in questo quadro lHistoria general de la Isla y Reyno de Cerdeña dello storico sassarese Francisco de Vico, primo magistrato sardo eletto al Consiglio d’Aragona, il quale riprende la tradizione storiografica sarda e la usa come strumento di lotta politica.

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Si inseriscono in questo contesto anche le opere del grande rivale cagliaritano del De Vico, il cappuccino Salvatore Vidal (il cui vero nome era Giovanni Andrea Contini) che scrisse di storia profana e religiosa, di letteratura e poesia, utilizzando il latino, lo spagnolo e il sardo. La difesa che egli fa del sardo nella sua Urania Sulcitana (1638) va compresa all’interno di questi scontri campanilistici, e quindi non contraddice, e anzi conferma, il quadro di subordinazione del sardo.

È invece parzialmente diverso il caso di Jorge Aleo (1620 circa – 1684 ca) cappuccino, coinvolto nella lotta politica cagliaritana. La sua Historia cronológica y verdadera de todos los sucesos y casos particulares sucedidos en la Isla y Reyno de Serdeña del año 1637 al año 1672 è sì un’opera storica, ma soprattutto un’autodifesa. La sua opera manifesta il tentativo delle della classe intellettuale sarda di portare avanti le istanze autonomistiche.

 Il teatro

A differenza del carattere elitario, ideologico e artistico, del Rinascimento, il Barocco, com’è noto, recupera molti aspetti della cultura popolare e medievale: il gusto per il macabro, per lo spettacolare, per le grandi manifestazioni collettive di dolore o di gioia e per il carpe diem carnevalesco.

In un’area di confine tra la liturgia e la devozione popolare si collocano le sacre rappresentazioni, spesso veicolo di evangelizzazione e di educazione del popolo – secondo la regola dell’insegnare dilettando – spesso, specie quando non sono opera di ecclesiastici, luoghi di un sincretismo tra cultura alta e cultura popolare, tra cultura scritta e cultura orale, che lascia trasparire realtà più complesse di quelle ricavabili dalla lettera dei testi. E’ il pubblico a cui questi testi erano destinati che ci consente di comprendere e ben interpretare l’uso del sardo che vi troviamo largamente attestato.

Nel Seicento dunque assume un’importanza notevole il teatro, e soprattutto la rappresentazione drammatica. L’attività teatrale, che costituisce un elemento importante dell’educazione religiosa e letteraria, impiega molteplici lingue: il catalano, che comincia ad avere una presenza meno marcata, il castigliano, che invece si espande, il sardo e, in qualche caso, il latino.

L’ispanizzazione determinava un gusto per lo spettacolo e la festa barocca che in Sardegna trovava alimento negli aspetti drammatici della situazione sociale ed economica e nella tensione religiosa. Rientrano in questo quadro il genere drammatico delle sacre rappresentazioni e quello paralitugico dei gosos.

Gli autori di testi teatrali vivono nel Seicento l’esperienza di chi si trova in bilico fra universi culturali diversi, percepisce il fascino della propria, tradizione, ancorché modesta, raccoglie le suggestioni provenienti dalla grande cultura iberica e, contemporaneamente, non dimentica gli stimoli della cultura e della letteratura italiana.

Vanno citate a questo proposito quindi le opere di Juan Francisco Carmona, Alabanças de San George obispo Suelense Calaritano, e la Passión de Christo Nuestro Señor che descrivono le manifestazioni per il ritrovamento del corpo dei santi e contengono gosos in lingua catalana e castigliana.

Meritano di essere menzionati anche gli scritti di Antonio Maria de Esterzili, cappuccino (1644-1727), Comedia de la passion de Nuestro Señor Jesu Christo, Conçueta del nacimiento de Christo, Rapresentacion del desenclaimento de la cruz de Jesu Christo Nuestro Señor.

Un discorso a parte meritano le opere settecentesche di Giovanni Delogu Ibba, rettore di Villanova Monteleone, Tragedia in su isclavamentu de su sacrosantu corpus de nostru Sennore Iesu Christu, opera che occupa il settimo libro del suo Index libri vitae, zibaldone di versi in latino e in sardo di cui sono particolarmente interessanti i gosos del sesto libro; le opere del sarto di San Vero Milis Maurizio Carrus, Sa passione et morte de nostru Segnore Jesu Christu segundu sos battor evangelistas, e del bororese Gian Pietro Chessa Cappay, Historia de la vida y hechos de San Luxorio, dove interviene anche il personaggio comico, che parla in sardo, Barrilotu, mentre san Lussorio parla in castigliano.

Il testo drammatico più rilevante del periodo è una commedia in lingua castigliana intitolata El saco imaginado del gesuita algherese Antioco del Arca, rappresentata per la prima volta nel 1622, quando vennero riportati a Porto Torres i resti dei santi Gavino, Proto e Gianuario. L’autore si rivolge qui ad un pubblico non popolare e più esigente sotto il profilo estetico.
Si sviluppano in ambito sardo i gosos (goccius) che riprendono un modulo della poesia religiosa catalana finendo col divenire un’espressione tipica di una poesia sarda fortemente legata alle forme dell’oralità e della recitazione pubblica.

«Lo sviluppo del teatro nel Seicento sardo nasce dall’incontro di tre fattori: l’intensa vita religiosa locale; la preesistente tradizione teatrale a livello popolare e, infine, l’innesto sulle tradizioni indigene della cultura spagnola e italiana» Sergio Bullegas.

Degna di rilievo, per originalità e livello culturale, è la proposta per un uso letterario del sardo, presente nell’Introduzione al Legendariu de santas virgines de Jesu Christu (traduzione in sardo di una serie di vite di sante celebri datata 1627) di Gian Matteo Garipa. Il sacerdote orgolese, parroco di Baunei e Triei, sostiene la necessità dell’insegnamento del sardo nelle scuole come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue.

Sembrerebbe la difesa di una lingua sentita come propria, apprezzata per le sue qualità intrinseche e per il valore didattico che potrebbe assumere, eppure definita “limba latina sarda”. Consapevole di aver ricevuto quella lingua in eredità dal peggiore dei dominatori, Garipa mostra la serena consapevolezza di chi sa di appartenere a un corpo sociale fortificato da secoli di traversie, reso capace di metabolizzare qualunque elemento estraneo e di trasformarlo in nutrimento per la propria identità.

Egli ebbe da una parte la consapevolezza, di tipo linguistico, del carattere conservativo del sardo e dunque della sua maggiore prossimità al latino; dall’altra fu convinto dell’urgenza di dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale», ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.

IL SETTECENTO
I cambiamenti

Nel 1720 l’isola è assegnata al Piemonte, che avrebbe preferito mantenere la Sicilia. Termina così la dominazione spagnola cominciata nel 1323. La situazione dell’isola è grave per ragioni di diversa natura:

  • calo demografico
  • estrema miseria
  • agricoltura ridotta a un puro livello di sussistenza
  • difficoltà dei trasporti e commercio praticamente inesistente
  • condizioni igieniche e sanitarie assolutamente deficitarie
  • ignoranza diffusa
  • ordine pubblico precario: banditismo e scorrerie barbaresche.

Il Settecento è dunque per i sardi un secolo di importanti mutamenti. Dopo aver gravitato per secoli nell’orbita culturale del mondo ispanico, l’Isola fu ricondotta nell’area della cultura italiana.
La dinastia dei Savoia, per crearsi una base di consenso allargata, si preoccupò di formare una classe dirigente che rispondesse meglio alle esigenze di una società civile improntata a modelli, se non proprio illuministici, almeno più moderni.
Per contrastare l’uso del castigliano, che continuò ancora a lungo ad essere la lingua ufficiale del Regno, i Piemontesi, nonostante si fossero impegnati col trattato di Londra a non modificare lo stato di cose esistente, e cioè l’arretrata articolazione feudale del Regnum Sardiniae, promossero lo studio dell’italiano, istituendo nuove cattedre di grammatica e di eloquenza italiana che dovevano italianizzare le professioni.
D’altra parte, per trovare consenso nel popolo e per decastiglianizzare la Sardegna più in fretta, promossero anche l’uso della lingua sarda. Questo programma di doppio binario linguistico, rivolto a rimuovere le tracce del vecchio potere feudale spagnolo e a consolidare il nuovo ordine, continua per tutto il Settecento, e comincia a dare i suoi frutti, per quel che riguarda la comunicazione letteraria, alla fine del secolo con una larga produzione di versi scritti in sardo che merita già attenta considerazione, ma anche con buone opere di divulgazione “scientifica”.
 
Le riforme sabaude
L’economia sarda è arretrata: permangono strutture feudali superate e un sistema di sfruttamento della terra inefficace.
Le riforme sabaude, inizialmente molto lente, sono dettate dalla volontà di riordinare il possesso e razionalizzarne lo sfruttamento.
Il processo riformistico, che coinvolgerà anche le università di Sassari e Ca-gliari toglierà gli intellettuali sardi dalla sfera di immobilismo culturale nella quale erano caduti.
Con il passaggio dell’Isola sotto casa Savoia (1720), dunque, il sistema sar-do-ispanico progressivamente si sfalda.
Il castigliano sopravvive per altri quarant’anni come una lingua alla deriva, come una lingua ormai priva di ciò che le conferiva prestigio; l’aristocrazia sarda, dopo una fase di sbandamento, è la più interessata ad omologarsi rapi-damente agli usi linguistici e culturali della nuova Casa regnante, ma deve passare attraverso un rapido apprendistato linguistico e culturale che darà i suoi frutti ovviamente solo con le nuove generazioni.
Senza voler fare delle valutazioni sull’operato dei Savoia, si può comunque sostenere che la riforma delle università e della scuola in genere (1760-65), promossa dal paternalismo illuminato del conte Bogino, ebbe come esito po-sitivo la nascita di un autentico ceto professionale di intellettuali che si fece-ro interpreti in Sardegna delle idee e dei metodi dell’Illuminismo prima e del Romanticismo poi.
Dal punto di vista linguistico, nonostante l’iniziale atteggiamento cauto dei piemontesi, il passaggio imposto da un’influenza linguistica all’altra non è indolore.
Lo spagnolo continua ad essere parlato come prima: il primi atti del nuovo sovrano sono in quella lingua, essendo sconosciuto ai nuovi sudditi il fran-cese che nel Piemonte veniva impiegato nella vita pubblica e poco noto l’i-taliano che, per altro, anche a Torino non doveva essere adoperato con molta proprietà.
Con il tempo il sardo riacquista spazio e l’italiano viene nuovamente impie-gato dal ceto dirigente.
La riforma sabauda ha tra i suoi principali propositi quello di sostituire la lingua spagnola con quella italiana.

  • Nel 1726 viene commissionato al gesuita Antonio Faletti lo studio di un piano per l’adozione della nuova lingua.
  • Nel 1760 viene varato un nuovo ordinamento degli studi inferiori che precede di qualche anno la riforma delle università di Cagliari e di Sassari avviata nel biennio 1764-65.

Si determina, in tal modo, un innalzamento della qualità degli studi e la formazione di un giovane ceto intellettuale destinato a operare tanto nel campo della cultura quanto in quello della pubblica amministrazione e del-l’imprenditoria, attento allo sviluppo e alla circolazione delle idee la cui dif-fusione stava trasformando il volto dell’Europa e, sia pure con qualche ritar-do, anche quello dell’Italia. Da queste riforme prende un percorso che porte-rà alla riscoperta della storia sarda che condurrà ad una vasta produzione di romanzi storici nella seconda metà dell’Ottocento.
 
La poesia
Il pluralismo linguistico che caratterizza la produzione didascalica e quella drammaturgica si ritrova anche nell’attività poetica del Settecento, che si orienta prevalentemente verso la scelta dell’italiano o del sardo (anche se non mancano versi in castigliano e in latino) a seconda delle scelte culturali, degli orientamenti letterari o politici, dell’appartenenza a questo o a quel-l’altro ambito sociale, a un contesto urbano oppure a quello del paese, alla vicinanza rispetto alla corte e, quindi, al potere politico, delle personali vi-sioni del mondo e delle concezioni relative alle tematiche nazionali sarde.
I processi di italianizzazione incentivati dal governo sabaudo raccolgono il consenso dei letterati gravitanti nell’ambito dell’Arcadia e, più ampiamente, di coloro che partecipavano agli avvenimenti di corte, ai compleanni regali, alle nascite e alle morti, alle monacazioni e ai matrimoni, con un commento poetico.
Nell’ambito della letteratura encomiastica sono da segnalare l’opera di Luigi Soffi, autore di orazioni sacre e di versi raccolti sotto il titolo di Poe-sie (1784), e quella del teologo Giovanni Maria Dettori che si dedicò alla composizione di poesie d’occasione, tradusse in italiano il poemetto Il trion-fo della Sardegna di Raimondo Congiu e il salmo 79.
La figura di maggior spicco è certamente quella di Antonio Marcello (1730-1799) che rompendo la tradizione drammaturgica derivante dall’in-flusso ispanico, prese a modello il teatro italiano e, in particolare, il melo-dramma metastasiano componendo cinque drammi per musica, tre dei quali sono giunti fino a noi:

  • Il Marcello (1784)
  • La morte del giovane Marcello
  • Olimpia ovvero l’estinzione della stirpe di Alessandro il Grande (1785)

La sua produzione testimonia un’indipendenza di spirito che si manifesta anche nella scelta di premettere ai drammi scritti in italiano alcuni versi ca-stigliani che documentano il persistere del fascino esercitato dalla cultura spagnola.
 
La poesia. Berlendis e Carboni
Come detto, sul versante letterario, l’iscrizione della Sardegna nel sistema culturale italiano avviene sotto il segno iniziale dell’Arcadia e del Neoclas-sicismo. Un ruolo attivo svolgono, in questa operazione di costruzione di una nuova classe dirigente e di diffusione di una nuova estetica, i gesuiti.
Si pensi al vicentino Angelo Francesco Berlendis (1735-1794), professore di eloquenza italiana prima all’Università di Sassari e poi di Cagliari, autore di sonetti, madrigali, epigrammi, nei quali si rifece prevalentemente al Fru-goni – nonché di due tragedie la Sardi liberata e il San Saturnino.
Nel 1764 entrò a far parte della Compagnia di Gesù anche Francesco Car-boni (1746-1817), il maggiore poeta didascalico sardo che scrisse anche in latino, in italiano (Poesie italiane e latine (1774), Sonetti anacreontici (1774), Carmina nunc primum (edita nel 1776) ecc.) e in sardo (De corde Jesu. Sonetti in sardo logudorese sull’Eucarestia, (1842). Tra i suoi titoli tipicamente didascalici ricordiamo il De sardoa intemperie (1772), La sanità dei letterati (1774), La coltivazione della rosa (1776), De corallis (1779).
Carboni è il capostipite di una serie di poeti che si occuparono di agricol-tura, di pesca, di allevamento del baco da seta, rispondendo così da una par-te a una sincera esigenza di partecipazione alla modernizzazione dell’Isola, e dall’altra indulgendo al paternalismo dei Savoia che voleva l’Isola più ric-ca ma lasciava volutamente irrisolti diversi problemi inerenti la libertà dei sardi.
Egli padroneggiò la lingua letteraria latina e, al di là dei riecheggiamenti dei classici e degli umanisti, riuscì a lasciar trasparire costantemente l’amore per la bellezza ed i valori della propria terra senza per questo farsene lodato-re entusiasta, anzi guardandola con occhio critico, attento piuttosto alla solu-zione dei problemi che la affliggevano. In questo seguiva i dettami di una poetica illuministica che lo induceva a vestire di favole argomenti di carat-tere civile che valessero ad indicare le vie del progresso dell’Isola secondo una linea di sviluppo economico basata sulle risorse naturali. Certo la scelta della lingua limitava il suo pubblico, ma lo metteva anche al riparo da cen-sure.
 
Antonio Purqueddu
Anche Antonio Purqueddu è un significativo rappresentante della intellet-tualità sarda aperta alla cultura contemporanea.
Egli ben rappresenta l’orizzonte culturale e morale di questo gruppo di scrit-tori, prevalentemente ecclesiastici che aderirono sinceramente alla cultura dei Lumi ma mai fino ad abbracciarne gli aspetti politicamente più innovati-vi ed eversivi.
Il suo Tesoro della Sardegna nel coltivo dei bachi e gelsi fu pubblicato nel 1779 in una pregevole edizione della Reale Stamperia di Cagliari. Il poema, composto da 199 ottave divise in tre canti e scritto in sardo meridionale (con traduzione italiana) propone anche un ampio apparato di annotazioni espli-cative che contengono molteplici informazioni riguardanti gli usi, i costumi, le tradizioni popolari, i proverbi, la lingua, la fauna della Sardegna.
Significativa anche la concezione della lingua, per la quale fa una scelta che potrebbe essere definita antipurista: ponendosi in una posizione di assoluta indipendenza, egli ricorre di volta in volta agli apporti linguistici che ap-paiono funzionali rispetto al suo scopo.
E’ dello stesso periodo l’opera di Matteo Madau che introduce l’ipotesi di ripulimento della lingua sarda.
Purqueddu compie una scelta opposta a quella di Madau. Nel suo Tesoro si ritrovano sullo stesso piano lingue e dialetti diversi (sardo, prevalentemente ma non esclusivamente campidanese).
Madau si propone di sviluppare una riflessione sulla lingua sarda, giungen-do a un’ipotesi di tipo puristico. Compone versi e numerose opere, sia stori-che, sia, soprattutto, linguistiche in cui la questione della lingua sembra comprendere e rappresentare altre e più celate questioni, aspirazioni politiche, idealità riguardanti la Sardegna.
Nel Saggio d’un’opera intitolata «il ripulimento della lingua sarda» lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue la greca e la latina (1782), la sua ipotesi di ripulimento, che dovrebbe portare il logudorese quanto più possibile vicino alla “matrice lingua” latina, pur con tutti i suoi limiti, ha come obiettivo quello di dare al sardo maggiore dignità, come merita una lingua nazionale.
 
La poesia in sardo
Nel Settecento ebbe una notevole diffusione la poesia in sardo, soprattutto legata al mondo tradizionale delle poesia orale che veniva affidata alla me-moria degli ascoltatori.
Pietro Pisurzi (1724-1799), di umili origini, compiuti fra notevoli difficoltà economiche gli studi fino a divenire sacerdote e poi parroco di Tissi, elaborò un’ampia produzione poetica andata per lo più perduta.
Ciò che è giunto fino a noi è però sufficiente a farci apprezzare le qualità di un autore capace di mettere in relazione nei suoi versi le ascendenze lettera-rie con la freschezza derivante dal riferimento a un mondo della realtà dal quale era possibile attingere non solo tematiche ma anche modalità stilisti-che e linguistiche.
Godono di vasta notorietà due sue canzoni, S’abe e S’anzone, favole nelle quali le massime morali e i contenuti allegorici sono espressi con levità poe-tica.
Giovan Pietro Cubeddu (1748-1829), noto come Padre Luca, sacerdote scolopio, abbandonò l’ordine a causa di una malattia e si ritirò a vivere nelle campagne fra Buddusò e Bitti prima, e poi, come servo pastore capraro, in quelle fra Dorgali e la spiaggia di Cala Luna.
In questi anni, molto probabilmente, compose i versi migliori: canzoni di vario metro in dialetto logudorese, dove è rappresentato l’idilliaco mondo pastorale, secondo i gusti dominanti nella cultura letteraria italiana del Sette-cento.
Tra i componimenti del Cubeddu non incentrati sulla tematica amorosa o pastorale, emerge la favola Su leone e s’ainu. La sua poesia è ricca di echi della poesia moraleggiante classica e della tradizione cristiana degli exem-pla.
Anche Gavino Pes, di Tempio, apparteneva all’ordine degli Scolopi, ma ciò non gli impedì d’essere, un poeta principalmente attratto dalla tematica amorosa.
La sua opera manifesta una notevole abilità letteraria, peraltro riconosciuta dai suoi conterranei presso i quali godette di chiara fama. Significativo lo stretto rapporto fra il poeta e la società gallurese: Pes è considerato il capo-stipite della poesia colta in dialetto gallurese.
La sua lingua poetica è sorretta da una vasta cultura letteraria che spazia dai classici latini e greci ai classici della lirica italiana fino ai contemporanei Meli, Rolli, Zappi e Frugoni. Attraverso il magistero dell’Arcadia, la lingua poetica sarda, che allora andava rifondandosi per ciò che attiene al logudore-se, ma che aveva solo una tradizione autenticamente popolare per quel che riguarda il gallurese, riuscì ad acquisire profondità di analisi e di capacità evocative, sia sul versante emozionale che su quello morale, certamente inedite.
Cagliaritano era Efisio Pintor Sirigu, avvocato e autore di componimenti in sardo campidanese che lo presentano come poeta satirico. La sua poesia in sardo campidanese (scrisse anche versi in italiano, in latino) è un esercizio aristocratico, giocato sul versante di un umorismo caustico spesso a sfondo sessuale, svolto da un ricco professionista, quale egli era, in forme linguisticamente e tematicamente popolareggianti.
Sul valore letterario dei componimenti di Pintor Sirigu concordano praticamente tutti i critici.
Meno benevolo il giudizio sull’uomo, sul quale si stende un’ombra che ri-guarda il suo comportamento rispetto a Angioy, di cui fu prima seguace e poi nemico, incaricato della terribile repressione di Bono.
 
Francesco Ignazio Mannu
L’azione dei didascalici sardi, la loro riflessione e le opere che composero rappresentano il fecondo avvio di una prospettiva di scrittura, in italiano e in sardo, che racchiude speranze politiche e si alimenta nell’amore per la patria sarda.
La loro opera rappresenta lo sforzo compiuto per dare alla Sardegna l’op-portunità di liberarsi dall’arretratezza e dall’isolamento culturale e com-merciale.
L’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu si colloca fra quegli scritti di propaganda autonomistica e antifeudale che ebbero diffusione in Sardegna sul finire del secolo e particolarmente nel triennio rivoluzionario 1793-96.
L’inno fu pubblicato in Corsica nel 1794 e da lì si diffuse in Sardegna in-terpretando un sentimento che riuniva in una comune speranza le diverse classi sociali sarde.
Scritto in logudorese, l’inno si compone di 47 strofe formate da otto versi ottonari, e, sotto il profilo linguistico, si articola su due livelli, uno alto e uno popolare.
Variamente giudicato per le qualità stilistiche, Su patriottu sardu, che è stato chiamato la Marsigliese sarda, appartiene a quel vasto genere innografico ispirato dall’amore per la giustizia e il riscatto degli umili e degli oppressi che si nutre di ideali illuminati e umanitari.
Qui l’inno ha il ritmo di un canto popolare efficace e coinvolgente, la forza di una poesia popolare capace di attraversare il tempo e di rappresentare, nell’Ottocento, le aspirazioni di coloro che sognavano una patria sarda o, nel Novecento, le speranze di quanti combattevano battaglie politiche e sociali.
L’inno non è sardo solo nella lingua, ma anche nel repertorio concettuale e simbolico che utilizza, eppure è nel contempo un esplicito veicolo di cultura democratica d’oltralpe, è cioè un primo esempio di discorso altrui divenuto autenticamente discorso proprio. Forse per il peso sociale del suo pubblico – piccoli e medi proprietari, contadini, borghesi – Su patriotu sardu a sos feudatarios è rimasto un caso isolato di testo politico-propagandistico di successo. Quanto più la classe dirigente isolana si integrerà in quella italiana, tanto più il sardo perderà la sua capacità e possibilità di essere lin-gua della polemica e della competizione politica.
Particolarmente avanzata per il periodo è la posizione dell’opuscolo Achille della sarda liberazione, composto durante i moti del 1793-96, che mostra appieno l’influsso dell’esperienza francese e delle concezioni politiche europee più avanzate.
 
La letteratura didascalica
Nella seconda metà del Settecento, sulla scia dell’illuminismo europeo, prevale tra gli intellettuali sardi il sentimento della speranza e si sente forte la necessità di armarsi in nome del desiderio di rinascita.
Nell’isola come nel resto d’Europa prende avvio un periodo di profondo rin-novamento. La letteratura didascalica è quella che meglio ne rappresenta le idealità e cerca di trasferirle in prose e versi che si misurano con problemi stilistici e intenzionalità artistiche
Tra i poeti didascalici spiccano in particolare due figure: quelle dell’alghe-rese Domenico Simon (1758-1829) e del cagliaritano Giuseppe Cossu (1739-1811). Quest’ultimo divenne nel 1767 Segretario della Giunta dei monti frumentari, e nel 1770 Censore generale.
Nel 1783 nacquero contemporaneamente i Monti di Soccorso e l’Azienda delle strade e ponti, strumenti dell’innovazione della Sardegna, nei quali Cossu ebbe un ruolo notevole.
Domenico Simon, allievo di Francesco Gemelli (uno dei professori arrivati nell’Isola per innovare gli studi, autore di un discusso saggio sull’agricoltura sarda, il Rifiorimento della Sardegna a cui rispose il sassarese Andrea Manca dell’Arca (1716-1796) con la sua Agricoltura di Sardegna (1780), fu aiutante del Cossu come vice-censore generale dei Monti granatici.
Cossu e Simon sono forse coloro che più di altri aderirono anche politica-mente alle nuove idee illuministiche e all’esigenza di una razionalizzazione del sistema istituzionale, economico e sociale della Sardegna. Furono però fortemente inibiti dall’ottusità e dall’autoritarismo della corte sabauda.
 
Il tema della coltivazione della terra diviene centrale in molte opere del pe-riodo, che vede una notevole fioritura della letteratura didascalica.
Tra queste le opere del Carboni, del Purqueddu, del Simon, del Valle, del Cossu e del Manca dell’Arca.
Caratteristica comune era il desiderio di riscattare la Sardegna dall’infelice condizione nella quale versa, ricercando nella personale capacità progettuale la via del riscatto.
Il fenomeno si inserisce in un contesto sociale e culturale in cui si diffonde una produzione manualistica, vere e proprie istruzioni per l’uso, che costi-tuiscono il retroterra indispensabile per spiegare lo sviluppo della più elaborata scrittura didascalica.
Il fiorente filone didascalico, in prosa e in versi, testimonia l’adesione all’i-deale illuministico della pubblica felicità, che passa attraverso il fondamen-tale diritto alla conoscenza.
Per il raggiungimento di un simile obiettivo, sono chiamati ad operare tutti gli uomini di lettere. Si cerca di elaborare uno stile nuovo, che attragga il lettore per guidarlo alla totale conoscenza della materia.
Dallo studio e dalla riflessione sulla realtà sarda emergono le cause dei mali e i possibili rimedi: sono compilati saggi, memorie e relazioni.
Non manca il fondamentale contributo del clero, attraverso le omelie o le lettere pastorali tese ad informare la popolazione sulle nuove leggi o a spie-gare come applicarle.
Numerosi ecclesiastici, dal vescovo di Cagliari fino ad alcuni parroci di pic-coli villaggi, ebbero un ruolo fondamentale nell’informare le popolazioni sulle nuove leggi, nello spiegare come applicarle.
 
Andrea Manca dell’Arca
L’agricoltura era argomento privilegiato sia dagli intellettuali sardi che dai loro governanti piemontesi.
Il trattato Agricoltura di Sardegna di Andrea Manca dell’Arca è la prima opera che affronta in maniera compiuta la problematica relativa alla pratica agricola in Sardegna.
L’opera si distingue per:

  • l’informazione tecnica ampia e precisa
  • una visione globale dei problemi isolani
  • la formulazione di un progetto complessivo
  • L’Agricoltura di Sardegna si organizza in varie parti dedicate alle diverse specializzazioni dell’attività agraria:
  • il grano
  • la vite
  • gli alberi e gli arbusti
  • le colture orticole
  • l’allevamento del bestiame

L’intendimento dell’autore è quello di offrire uno strumento operativo, il frutto dell’esperienza che gli deriva dal lungo contatto con il mondo rurale sardo e dalla consuetudine con le teorie degli scrittori antichi e moderni che si sono occupati d’agricoltura.
 
Raimondo Valle e Pietro Leo
 
I tonni di Raimondo Valle non ha una vera finalità pedagogica, ma illustra i momenti più suggestivi della vita dei tonni (gli amori) e della loro morte (la mattanza).
Il suo inserimento fra gli autori didascalici non è comunque casuale: infatti, in alcune delle numerose note del testo poetico, il Valle identifica nella di-versificazione e nella specializzazione delle attività economiche la via di salvezza dell’economia sarda.
Nel quadro del rinnovamento degli studi in atto nel Settecento sardo assume una posizione di tutto rilievo la figura di Pietro Leo.
La sua opera Di alcuni antichi pregiudizi sulla così detta Sarda intemperie, e sulla malattia conosciuta con questo nome è una vera e propria lezione te-nuta agli studenti dell’università di Cagliari in cui l’autore utilizza tutti gli elementi professionali di cui dispone per disegnare un progetto di futuro per la sua terra, prodigandosi contro la più grave malattia che affligge l’isola e l’ignoranza medica che le consente di mietere un numero sempre maggiore di vittime.
L’opera sull’intemperie è la testimonianza del graduale affermarsi di un pensiero scientifico moderno, di un pensiero che trae sostanza dall’analisi scientifica e dalla riflessione filosofica.
L’intera biografia del Leo è una conferma di questa tensione di ricerca che non va disgiunta da una marcata passione civile: lo scienziato, il medico, l’educatore e il politico capace di disegnare, partendo dagli elementi pro-fessionali di cui dispone, un progetto di futuro per la sua terra. In lui con-temporaneamente coesistono e si integrano in una figura di scienziato an-cora in gran parte da scoprire ma che già si mostra inserita in quel mondo di cultura e di progettualità politica al quale appartengono i letterati dei quali ci stiamo occupando.
 
Francesco Carboni
Francesco Carboni, ritenuto il più grande poeta della letteratura sarda, parla invece di malaria nell’opera De Sardoa intemperie.
Sacerdote gesuita, dopo la soppressione dell’ordine fu docente dell’Uni-versità di Cagliari. Seguace dell’Angioy, conobbe la lingua e la letteratura latina come pochi altri nella sua epoca, e fu notevolmente apprezzato dal mondo culturale italiano.
La sua produzione comprende, diversi scritti didascalici, tra i quali La coltivazione della rosa (1776) e il De corallis (1779).
Certo, la sua attività di poeta didascalico non è comparabile, sul piano dei contenuti, con quella di Cossu o di Purqueddu. Né egli mira a un pubblico popolare da guidare nella progettazione di un futuro di riscatto.
Carboni è un letterato nel senso pieno dell’espressione, un dotto, un latinista conosciuto e stimato che intrattiene relazione con gli ambienti più esclusivi della cultura italiana.
La sua dottrina gli propone una visione del mondo alla quale è difficile sottrarsi, la concezione dell’attività letteraria come otium lo spinge a rinun-ciare a incarichi importanti e gli impedisce, del pari, di esprimere nella sua opera concezioni che pure sente di condividere e per le quali, sul piano poli-tico, è pronto a rischiare.
 
Gian Andrea Massala
Pur non essendo un poeta didascalico, Gian Andrea Massala si inserisce a pieno titolo nel clima dell’epoca perché con il suo Programma d’un gior-nale di varia letteratura ad uso de’ sardi (1807) porta avanti il suo propo-sito di dar vita ad un ulteriore elemento di crescita culturale, uno spazio appropriato al dibattito esistente in Sardegna.
I principi sui quali si fonda la letteratura didascalica sono richiamati da Mas-sala per proporre uno strumento nuovo e più duttile per la diffusione delle idee e delle moderne concezioni scientifiche: il giornale letterario. Con lui si manifesta l’esigenza di dar vita a un capace di offrire spazio appropriato al dibattito esistente in Sardegna.
 
Giuseppe Cossu
Funzionario del governo piemontese, Giuseppe Cossu dedicò ogni energia al piano di riorganizzazione dei Monti predisposto dal conte Bogino. Con quello strumento il governo piemontese intendeva porre rimedio alla miseria dei contadini privi di capitali e quindi oppressi dall’usura, oltre che dal fisco.
I Monti, dotati i propri terreni sui quali gli agricoltori avrebbero potuto lavo-rare gratuitamente, disponevano anche delle scorte granarie da anticipare per la semina.
Ogni azione di Giuseppe Cossu, funzionario sabaudo, venne sorvegliata e guidata da Torino, censurata e respinta quando non conforme agli orien-tamenti impressi al processo di rifiorimento della corte piemontese.
Cossu nutriva infinita fiducia nella possibilità di contribuire attraverso una seria pianificazione economica, al risollevamento delle sorti dell’isola e dei suoi abitanti. Quando si accorse che la coltura granaria non avrebbe potuto, da sola, determinare un radicale risanamento delle condizioni economiche dell’isola, egli pensò alla possibilità di rifiorire che veniva offerta a tutta l’Europa (quindi, anche alla Sardegna) dalla coltura del gelso, dall’alleva-mento dei bachi da seta e dalla sua produzione.
Per diffondere le sue idee scrive, in sardo campidanese, La coltivazione de’ gelsi e propagazione de’ filugelli in Sardegna, un vero e proprio manuale di istruzioni per gli agricoltori.
Cossu è il primo teorizzatore della sinergia: egli riteneva infatti che, per la creazione di una nuova società, il letterato, o comunque chiunque avesse avuto la possibilità di studiare o di viaggiare, dovesse collaborare con chi lavora i campi, aggiornandolo sulle nuove tecniche agricole per trarre così dalla terra il maggior rendimento possibile.
Della riflessione sui problemi economici della Sardegna, esercitata lungo tutto l’arco di un’esistenza operosa, rimangono molteplici documenti. In pri-mo luogo gli scritti d’ufficio, le relazioni, le istruzioni sempre precise, detta-gliate, non di rado ricche di riflessioni originali; e poi le numerose opere composte per la pubblicazione:

  • 1787, Discorso sopra i vantaggi che si possono trarre dalle pecore sarde
  • 1788-1789, La coltivazione dei gelsi
  • sempre nel 1789 la Istruzione olearia e i Pensieri sulla moneta papiracea, Del cotone arboreo e il Metodo per distruggere le caval-lette
  • 1790, Saggio sul commercio della Sardegna

Cossu scrisse anche opere di carattere geografico sulle città di Cagliari e di Sassari e una Descrizione geografica della Sardegna.
A differenza di Purqueddu, Cossu rinuncia a scrivere in versi. E’ una scelta importante: prosa, anziché poesia, significa chiaramente la volontà di rag-giungere, con uno strumento realmente accessibile, un pubblico non avvezzo alla lettura di componimenti letterari.
Al di là delle scarse qualità letterarie, il lavoro del Cossu si segnala per l’o-rizzonte ideale al cui interno si muove, per l’enorme fiducia nelle possibilità dell’educazione, della discussione che affronta tutti i problemi e dalla quale ogni dubbio viene sciolto; per la convinzione, tutta illuministica, che l’uma-nità sia giunta a una svolta: da quel punto in avanti i lumi rischiareranno la strada degli uomini che vanno verso la civiltà e il progresso.
Le opere del Cossu, come più in generale l’intera produzione didascalico-scientifica, testimoniano dello sforzo compiuto dalla classe dirigente e intel-lettuale sarda, nella seconda metà del Settecento, per strappare il paese al-l’arretratezza e all’isolamento.
 
Il pensiero filosofico e politico
Il nome di Giovanni Maria Dettori, teologo e scrittore, è legato ad un’ac-cesa disputa teologica. Sospettato di liberalismo, pagò con la perdita della cattedra la fedeltà alle sue convinzioni. Egli si meritò una lode del Gioberti nel Primato civile e morale degli italiani (VIII,5).
Un altro personaggio la cui fama varcò i confini della regione, è Domenico Alberto Azuni (1749-1827).
Egli è uno dei protagonisti del dibattito del periodo. Studioso di diritto, au-tore del Droit maritime de l’Europe (1805) e, tra l’altro, dell’Histoire géo-graphique, politique et naturelle de la Sardaigne, Azuni appartiene alla ge-nerazione cresciuta nell’università rinnovata e la sua opera mostra tracce evidenti sia della qualità degli studi compiuti sia della vastità dell’orizzonte indagato. Benché si mantenga su posizioni di condanna rispetto alle punte più avanzate della filosofia contemporanea, nella sua opera traspare la sua volontà riformatrice, che è espressa come necessità di inserire la Sardegna nel contesto europeo attraverso la razionalizzazione dei vari settori della vita dello stato e il miglioramento dei rapporti economici e culturale tra i diversi stati.
Il Settecento si chiude placidamente tra melodrammi, arcadi e sarcasmi cittadini; si chiude, invece, coi tragici strascici di una rivoluzione fallita, durata quasi tre anni (1793-1796).
Nell’epoca rivoluzionaria tanto il sardo quanto l’italiano escono dagli argini controllati delle gerarchie linguistiche e dei generi letterari, per irrompere con una rinnovata vitalità nell’agone politico. Sono infatti, in italiano e in sardo, rispettivamente L’Achille della sarda rivoluzione e l’inno Su patriotu sardu a sos feudatarios di Francesco Ignazio Mannu entrambi elaborati negli ambienti democratici isolani, influenzati dalla cultura francese e dallo spirito rivoluzionario d’oltralpe.
Ma in italiano è anche La storia de’ torbidi, analisi storico-politica della ri-voluzione sarda elaborata, a posteriori, negli ambienti reazionari vicini alla corte. A margine di queste opere, occorre citare l’Autobiografia di Vincenzo Sulis (1758-1834) – recentemente riedita da Giuseppe Marci – il capopopo-lo cagliaritano, protagonista degli anni 1793-1799, esiliato, dopo ventuno anni di carcere, nell’isola della Maddalena.
I testi riflettono ovviamente la diglossia vigente, ma anche mostrano quanto le strategie rivoluzionarie intendessero dirigere la propaganda sia verso le classi dirigenti – nessun mutamento in Sardegna è mai partito dal basso – sia verso i contadini e i piccoli proprietari dei centri rurali, ostili alla vigenza del sistema feudale.
 

LUCIO ANNEO SENECA

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Lucio Anneo Seneca

Notizie biografiche

Seneca è un intellettuale spagnolo, nato nella Spagna Betica, più precisamente a Cordova, forse nel 4 a. C. da una ricchissima familia d’antica nobiltà provinciale. Il padre, conosciuto come Seneca il retore, autore di una raccolta di declamationes, attraverso le quali voleva avviare i figli alle carriera politica, si formò a Roma, mentre la madre Elvia, si dedicò all’educazione dei tre figli maschi, uno dei quali, è il padre del poeta Lucano.Spagna romana - Wikipedia

La Spagna Romana

Lucio Anneo Seneca, giunto insieme ad una zia in giovane età a Roma per intraprendere l’attività politica, frequenta insegnanti di formazione neopitagorica e stoica, all’interno della cosiddetta scuola dei Sestii, che gli insegnarono a vivere in modo assolutamente austero. E’ ancora discusso se il suo viaggio in Egitto a seguito di una zia, il cui marito era lì come governatore, sia stato determinato da esclusivi problemi medici (aveva un’affezione cronica polmonare) o “opportunistici” (Tiberio aveva chiuso le scuole filosofiche, tra cui quella in cui si era formato). Al suo rientro inizia l’attività oratoria e politica, ricoprendo il ruolo di questore. E’ da subito considerato così bravo da essere salvato da un’amante di Caligola da morte certa per gelosia dell’imperatore (più probabile che abbia tenuto un discorso “troppo libertario”). Subisce tuttavia l’esilio (dal 41 al 48 d. C.) da parte di Claudio: sembra infatti che sua moglie, Messalina, lo avesse accusato di avere rapporti sessuali con Giulia Lavilla (sorella di Caligola).

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L’imperatore Claudio

Quando Claudio sposa Agrippina, cade l’accusa e il filosofo spagnolo può tornare nella capitale. Infatti la nuova moglie di Claudio lo vuole a fianco a sé nell’educare il giovane figlio Nerone.

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Nerone

Sembra infatti che alla morte “procurata” dell’imperatore, la donna abbia partecipato attivamente e, una volta messo sul trono il diciassettenne figlio, abbia messo in atto, insieme al filosofo e al prefetto del pretorio Afranio Burro, una vera e propria triade di potere. Inizia quello che la storiografia definisce quinquennium Neronis (51 – 58 d. C.) nella quale il governo neroniano viene seguito e guidato dal filosofo, che sembra anche “intellettualmente giustificare” l’uccisione di Britannico (figlio di Claudio e Messalina) motivandola secondo la regione di stato: d’altronde parte dei beni del figlio dell’imperatore vengono incamerati dal filosofo che inizia a possedere un ingente bottino.

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Agrippina

Tutto cambia nel 59: Nerone decide di far fuori la madre che s’oppone al suo matrimonio con Poppea; l’illusione di fare del giovane imperatore un sovrano illuminato cade. Nonostante tutto cerca di rimanergli a fianco ma, morto Burro e salito al potere Tigellino, per lui non c’è più niente da fare. Chiede e gli viene concesso di ritirarsi dalla vita politica: si allontana in un suo possedimento con sua moglie Paolina e si dà ad una profonda speculazione filosofica che troverà spazio in alcune opere fondamentali. Pur lontano da ogni attività pubblica viene accusato da Nerone, se non di far parte, d’aver saputo e non aver ostacolo il tentativo di colpo di stato del nobile Gaio Calpurnio Pisone (d’altra parte suo nipote Lucano sembra ne facesse parte attiva). Il 19 aprile del 65 gli viene ordinato d’uccidersi: senza porre alcun indugio, come pure lo stoicismo gli insegnava, si toglie la vita tagliandosi le vene. La moglie avrebbe voluto seguirlo, ma Nerone non vuole, sarebbe apparso agli occhi dell’opinione pubblica “troppo dispotico”.

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Manuel Domínguez Sánchez, Il suicidio di Seneca, 1871

Opere

La produzione senecana è piuttosto corposa e sembra comprendere vari ed importanti generi della letteratura latina:

  1. La prosa filosofica (in cui fa parte anche l’Epistolario), che aveva, come grande ed unico precedente Cicerone;
  2. La satira menippea, con l’Apokolokyntosis o Ludus de morte Claudii;
  3. Il teatro drammatico con le cothurnatae (le uniche pervenuteci della letteratura latina);
  4. La poesia lirica con gli Epigrammi (ancora dibattuta la loro attribuzione).

Ciò che invece suscita un vero e proprio problema critico è la loro datazione. Di fronte a tale difficoltà lo studio di tale opere pertanto si svolge o per generi o per temi. Cercheremo per quanto possibile di seguirli entrambi.

Opere filosofiche

Le opere filosofiche sono costituite da 10 Dialoghi in dodici libri; 3 trattati (di cui uno “scientifico”) e, la più importante di tutti le Epistulae ad Lucilium.

Dialoghi 

Il termine con cui ci sono pervenute un gruppo di opere monografiche, ad eccezione del De ira in tre libri, trae il suo titolo da coloro che volevano apparentarle al genere filosofico-morale d’origine greca. Tuttavia, pur non trattandosi di veri e propri dialoghi, l’utente, cui l’opera è rivolta, è ben presente in espressioni come “tu dirai”, “qualcuno potrà pensare” dove tale formulazioni servono a puntellare il monologo dell’autore. Pur avendo, non senza oscillazioni, una panoramica che ce ne indica la datazione le dividiamo al loro interno in Consolationes e in piccole trattazioni che pur non essendo prettamente dialogate, nascondono un “tu generico”.

Le Consolationes erano un genere assai praticato in Grecia il cui scopo era quello di “consolare”, sulla base di riflessioni morali, sorrette dalla filosofia, chi avesse subito un qualche evento negativo; nella letteratura latina tale genere era stato già svolto da Cicerone nel De consolatione per la morte della figlia Tullia. Nel corpus dei Dialogi ne troviamo tre:

Consolatio ad Marciam: probabilmente la prima opera senecana, scritta sotto il periodo di Caligola. Marcia, infatti, era la figlia di Cremuzio Cordo, storico la cui colpa fu quella di esaltare gli uccisori di Cesare, senza far menzione di Augusto. Messo a morte e bruciata la sua opera, sembra che sotto il regno del giovane imperatore fosse stata permessa la ripubblicazione dell’opera da qualche esemplare rimasto. Ciò ci offre la possibilità di considerare il fatto che Seneca non avrebbe certamente scritto in un inno alla libertà senza che il potere lo accettasse. Il tema fondamentale di questa consolatio è, appunto, consolare la giovane donna per la morte del figlio, suicidatosi giovanissimo. L’argomentazione è fondamentalmente stoica. La morte non è né bene né male, ma se concepita con ragione essa costituisce un perfetto accordo con il corso della natura, verso cui tutti dobbiamo attenerci.

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Morte di un bimbo

LA MORTE NON E’ MALE
19, 4-5

Quid igitur te, Marcia, movet? utrum quod filius tuus decessit an quod diu non vixit? Si quod decessit, semper debuisti dolere; semper enim scisti moriturum. Cogita nullis defunctum malis adfici, illa quae nobis inferos faciunt terribiles, fabulas esse, nullas imminere mortuis tenebras nec carcerem nec flumina igne flagrantia nec Oblivionem amnem nec tribunalia et reos et in illa libertate tam laxa ullos iterum tyrannos: luserunt ista poetae et vanis nos agitavere terroribus. Mors dolorum omnium exsolutio est et finis ultra quem mala nostra non exeunt, quae nos in illam tranquillitatem in qua antequam nasceremur iacuimus reponit. Si mortuorum aliquis miseretur, et non natorum misereatur. Mors nec bonum nec malum est: id enim potest aut bonum aut malum esse quod aliquid est; quod vero ipsum nihil est et omnia in nihilum redigit, nulli nos fortunae tradit. Mala enim bonaque circa aliquam versantur materiam: non potest id fortuna tenere quod natura dimisit, nec potest miser esse qui nullus est.

Cosa, dunque, ti sconvolge, o Marcia? che tuo figlio sia morto o che non visse a lungo? Se (è) per il fatto che è morto, sempre avresti dovuto soffrire; sempre, infatti, hai saputo (che lui) era destinato a morire. Pensa che il defunto non è toccato da alcun male, che quelle cose che a noi rendono terribili gli inferi, sono favole, che sui morti non incombe nessuna tenebra, né carcere, né fiumi ribollenti di fuoco, né il Lete né tribunali, né colpevoli e in quella libertà tanto ampia di nuovo alcun tiranno: i poeti inventarono per gioco queste cose e ci terrorizzarono con vani terrori. La morte è lo scioglimento di tutti i dolori ed (è) il confine oltre il quale i nostri mali non procedono, che ci ripone in quella tranquillità nella quale ci trovammo prima di nascere. Se qualcuno prova pietà per i morti, abbia pietà anche per i non nati. La morte non è né bene né male infatti può essere bene o male ciò che è qualcosa; ciò che in verità è esso stesso nulla e riconduce ogni cosa al nulla, non ci consegna ad alcun destino. I mali e i beni, infatti, si volgono intorno a qualche materia: non può il destino tenere ciò che la natura ha mandato via, né può esser misero colui che è nulla.

L’importanza di questo primo testo senecano sta nell’affrontare in modo deciso il concetto di morte, che all’inizio sembra, invece, legarsi al concetto epicureo dell’allontanamento delle passioni. In un altro paragrafo, invece, è bene messa in luce l’indifferenza della morte, in quanto essa non è, non potendo mutare/essere mutata. Ciò che non può accordarsi con ciò che è (la natura) non esiste come bene o male, ma come assente da qualsiasi giudizio, quindi da non temere.

Consolatio ad Helviam matrem: è forse un’opera scritta nei primi anni dell’esilio in Corsica ed è rivolta a “consolare” la madre Elvia per la mancanza del figlio. Viene considerata dalla critica la più partecipata e, sebbene ripeta alcuni precetti tipici della filosofia stoica, in essa troviamo un sincero invito alla genitrice affinché non soffra. Infatti in questa piccola monografia la ricerca della virtù non possiede luogo, ma soltanto l’anima di chi vuole arrivare a possederla. Pertanto pur così lontano egli non cesserà di studiare e consiglia alla madre, appunto, di vincere la tristezza migliorando la conoscenza che sola può avvicinarla alla virtù.

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Immagine di due fratelli, liberti arricchiti, in un ritratto del Museo del Cairo

Consolatio ad Polybium: venne scritta durante la permanenza in esilio in Corsica, per volere dell’imperatore. Polibio era un potente liberto di Claudio al quale era morto un giovane fratello. Se il tema che sottintende il concetto di morte è lo stesso di quello rivolto a Marcia, ben diverso è l’atteggiamento di smaccata adulazione verso l’imperatore, dal quale sperava di poter essere richiamato:

ELOGIO DI CLAUDIO
12, 3

Non desinam totiens tibi offerre Caesarem: illo moderante terras et ostendente quanto melius beneficiis imperium custodiatur quam armis, illo rebus humanis praesidente non est periculum, ne quid perdidisse te sentias; in hoc uno tibi satis praesidi, solaci est. Attolle te et, quotiens lacrimae suboriuntur oculis tuis, totiens illos in Caesarem derige: siccabuntur maximi et clarissimi conspectu numinis; fulgor eius illos, ut nihil aliud possint aspicere, praestringet et in se haerentes detinebit.

lo non cesserò ogni volta di ricordarti Cesare. Finché egli continuerà a governare il mondo ed a dimostrare quanto i benefici contribuiscano più delle armi a mantenere uno Stato, finché egli continuerà a presiedere alle attività degli uomini, non c’è il pericolo che tu t’accorga di aver perduto qualche cosa. In lui solo, troverai la sufficiente difesa, il sufficiente conforto. Risollevati, ed ogni volta che ti sentirai salire le lacrime agli occhi, volgili a Cesare. Si asciugheranno alla vista di quel sommo e potentissimo nume; il suo splendore li abbacinerà talmente che non potranno vedere altro e li terrà avvinti a se stesso.

Il passo qui riportato ci serve soprattutto per mostrarci l’atteggiamento ambiguo di Seneca nei confronti del potere. Per ottenere il ritorno dalla Corsica il nostro non pone limiti ad una smaccata adulazione, per poi capovolgerla totalmente in un’altrettanto smaccata denigrazione dell’imperatore nell’Apokolokyntosis.

Possiamo raggruppare altre tre piccole monografie per la dedica ad Anneo Sereno, alto funzionario della corte imperiale. Di datazione incerta, esse tuttavia possono delineare un percorso ideale verso la saggezza. Esse sono:

De constantia sapientis: di difficile collocazione, mira a delineare la figura del saggio capace di sopportare le altrui offese, emulo della sapienza divina; tale capacità deve svolgersi nei rapporti con gli altri, in cui il saggio mostra tutta la pazienza e magnanimità.

De tranquillitate animi: è scritta probabilmente nell’immediatezza che segue il quinquennio neroniano per il tema che propone. Egli infatti conforta l’amico Sereno in un momento difficile che l’amico sta vivendo. Infatti anche egli condivide questa difficoltà, dettata da insicurezza per il futuro. Si tratta appunto di “disegnare”, nell’impellenza dei tempi, un piano per trascorrere con serenità il resto della vita. Si tratta cioè di coltivare la tranquillitas, che si deve esplicare nel giovamento degli altri fintantoché la politica lo permetta e quando, appunto, sarà preso dai negotia, dagli obblighi che deve allo stato; nello studio e nell’abbandono dei falsi piaceri, nel momento in cui questo impegno finirà. Ma i due momenti non devono essere separati: possono convivere in modo armonioso, raggiungendo quella tranquillitas che permette al saggio di vivere (o cercare di vivere) in accordo con la sua ratio.

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Immagine efficace per illustrare il libro di Seneca

INSTABILITA’ UMANA
(II, 6-7)

Innumerabiles deinceps proprietates sunt, sed unus effectus vitii, sibi displicere. Hoc oritur ab intemperie animi et cupiditatibus timidis aut parum prosperis, ubi aut non audent quantum concupiscunt, aut non consequuntur et in spem toti prominent; semper instabiles mobilesque sunt, quod necesse est accidere pendentibus. Ad vota sua omni via tendunt et inhonesta se ac difficilia docent coguntque, et ubi sine praemio labor est, torquet illos inritum dedecus, nec dolent prava se (sed) frustra voluisse. Tunc illos et paenitentia coepti tenet et incipienti timor subrepitque illa animi iactatio non invenientis exitum, quia nec imperare cupiditatibus suis nec obsequi possunt, et cunctatio vitae parum se explicantis et inter destituta vota torpentis animi situs.

Innumerevoli infine sono i casi, ma uno è l’effetto dell’errore, la scontentezza di sé. Questa nasce dalla mancanza d’equilibrio e da desideri troppo deboli oppure non appagati, quando gli uomini non osano fare ciò che desiderano oppure non lo conseguono, e si protendono interamente verso la speranza. Sono sempre instabili e mutevoli, come inevitabilmente accade a chi è in sospeso. Cercano con ogni mezzo di realizzare le loro aspirazioni, insegnano e impongono a se stessi azioni disoneste e difficili, e quando la fatica resta senza ricompensa, li tormenta l’essersi disonorati senza frutto, e soffrono non per aver voluto il male, ma per averlo voluto invano. Allora li prende il pentimento di ciò che hanno iniziato e la paura di ricominciare, e s’insinua in loro l’agitazione propria di chi non trova una via d’uscita perché non è in grado né di comandare né di obbedire ai propri desideri, e l’incertezza di una vita che non trova la sua strada e il torpore di un animo che s’infiacchisce tra ambizioni frustrate.

Il passo oltre a mostrarci l’instabilità umana che non permetterà mai il raggiungimento della tranquillitas, sembra alludere proprio all’impossibilità dello stesso di realizzarsi all’interno di un sistema in chi la “saggezza” stava per essere completamente bandita. Ma qui, quello cui dà prova e costituirà l’enorme sua fortuna per tanti secoli è la perfetta conoscenza dell’uomo e delle sue contraddizioni. 

De otio: siamo già probabilmente nel ritiro senecano dovuto all’allontanamento della corte. Di questa monografia non possediamo né la parte iniziale, né la finale. Prima d’addentrarci nel vero e proprio discorso del filosofo latino, sembra più opportuno ricordare che per la nobilitas romana l’otium è tutto ciò che accade al di fuori dell’attività per lo stato. Ora se in età tardo repubblicana l’ozio sallustiano e ciceroniano era servito ad entrambi per produrre opere utili alla società, per Seneca esso risponde invece all’allontanamento da qualsiasi interesse esterno, per indirizzarsi, attraverso una vita contemplativa, verso la saggezza interiore con cui poter giovare “individualmente” agli altri.

Altre due li dedica al fratello maggiore Novato (che, adottato aveva preso il nome del protettore Gallione), che sono:

De vita beata: si può considerare una monografica d’argomento teorico in cui Seneca confuta alcuni principi dell’epicureismo. La parte di maggior spicco riguarda la difesa che egli fa riguardo il suo stile di vita, criticata aspramente dai cinici (corrente filosofica dalla vita randagia e poverissima con cui cercavano di allontanarsi da qualsiasi bisogno):

LA CATTIVERIA DEI CRITICI
(XVIII, 2)

Nec malignitas me ista multo veneno tincta deterrebit ab optimis; ne virus quidem istud quo alios spargitis, quo vos necatis, me inpediet quo minus perseverem laudare vitam non quam ago sed quam agendam scio, quo minus virtutem adorem et ex intervallo ingenti reptabundus sequar.

Non mi allontanerà dalle ottime cose questa malignità, ricoperta con molto veleno; neppure questo virus con cui infettate gli altri, con cui vi uccidete, mi impedirà quanto meno di continuare ad amare la vita non quella che faccio, ma quella che so di dover fare, quanto meno di adorare la virtù e di seguirla da lontano strisciando.

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Forse non erano proprio di Sallustio: ma questo è quello che rimane degli Horti Sallustiani

De ira libri III: La composizione dell’opera è sicuramente posteriore alla morte di Caligola, se qui viene descritto come personaggio nefasto, preda di questo sentimento che ne ha ottenebrato la ragione. E’ un vero e proprio discorso stoico sui sentimenti e più precisamente su quello che più si allontana dalla vita armonica che il saggio deve perseguire.

Una fra le più importanti sembra l’abbia dedicata al suocero Paolino:
De brevitate vitae in cui il nostro affronta uno dei temi centrali dell’intera sua opera, quello del tempo. Infatti al padre della moglie, andato in riposo, insegna a “non sprecare” il tempo, ma ad investirlo in occupazioni proficue.
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 De brevitate vitae: immagine di copertina 

E’ DAVVERO BREVE IL TEMPO DELLA VITA?
Capitolo 1

Maior pars mortalium, Pauline, de naturae malignitate conqueritur, quod in exiguum aevi gignimur, quod haec tam velociter, tam rapide dati nobis temporis spatia decurrant, adeo ut exceptis admodum paucis ceteros in ipso vitae apparatu vita destituat. Nec huic publico, ut opinantur, malo turba tantum et imprudens vulgus ingemuit: clarorum quoque virorum hic adfectus querellas evocavit. Inde illa maximi medicorum exclamatio est, “vitam brevem esse, longam artem”; inde Aristotelis cum rerum natura exigentis minime conveniens sapienti viro lis est: “aetatis illam animalibus tantum indulsisse ut quina aut dena saecula educerent, homini in tam multa ac magna genito tanto citeriorem terminum stare”. Non exiguum temporis habemus, sed multum perdidimus. Satis longa vita et in maximarum rerum consummationem large data est, si tota bene conlocaretur; sed ubi per luxum ac negligentiam diffluit, ubi nulli bonae rei inpenditur, ultima demum necessitate cogente quam ire non intelleximus transisse sentimus. Ita est: non accipimus brevem vitam sed fecimus nec inopes eius sed prodigi sumus. Sicut amplae et regiae opes, ubi ad malum dominum pervenerunt, momento dissipantur, at quamvis modicae, si bono custodi traditae sunt, usu crescunt, ita aetas nostra bene disponenti multum patet.

Paolino, la maggior parte dei mortali si lamenta della ingenerosità della natura, perché siamo generati per un tempo breve, perché questi spazi di tempo concessoci scorrono tanto velocemente e tanto rapidamente, sicché, a parte molto pochi, la vita abbandona altri nella stessa preparazione della vita. Né soltanto la folla e il volgo ignorante si sono lamentati, come credo, per questo male comune, questo stato d’animo provoca lamentele anche di uomini famosi. Da qui nasce l’affermazione del più grande dei medici che “la vita è breve, lunga l’arte”; da qui la disputa di Aristotele, sconveniente ad un uomo saggio, che disputa con la natura: “quella ha offerto una così lunga età agli animali da condurla cinque o dieci generazioni l’una, all’uomo generato per molte e grandi imprese il termine sta molto al di qua”. Non abbiamo un tempo esiguo, ma molto lo consumiamo. La vita è lunga abbastanza e ci è stata affidata largamente per il compimento di grandi imprese, se fosse impiegata bene; ma quando si perde per il lusso e la trascuratezza, quando si spende per nessuna cosa buona, ed infine quando giunge l’ultimo momento, percepiamo che è trascorsa e non abbiamo capito che lei stava andando via. E’ così: non riceviamo una breve vita, ma la rendiamo breve, né siamo poveri di essa, ma ricchi. Come ricchezze ampie e regali, quando sono giunte ad un padrone maldestro, si disperdono in un momento, ma, sebbene modeste, sono affidate ad un buon custode, crescono con l’uso, così il nostro tempo è molto esteso per chi è ben disposto.

Quello qui proposto è un tema ossessivo, tanto da essere sviluppato, più volte nel capolavoro delle Epistulae. E’ chiaro l’atteggiamento contro chi ha una concezione “oggettiva” del tempo, per cui il tempo è “fuori di noi”; per il filosofo romano il tempo è soggettivo e diventa breve o lungo secondo l’utilizzo che noi ne facciamo: se lo sprechiamo è breve in quanto non dedicandoci alle cose fondamentali esse ci sfuggono, ma se ci dedicassimo con costanza e saggezza ad esse il tempo sarebbe certamente abbastanza.

Mentre una delle ultime la dedica all’amico Lucilio, destinatario del suo epistolario:

De providentia: viene in quest’operetta trattato il tema fondamentale dell’unità razionale del cosmo, che tende verso un fine naturale e quindi divino. Affronta quindi il tema del “male” e anch’esso rientra in questo piano, per rafforzarci e renderci degni di tale disegno.

Trattati

Di Seneca ci sono giunti tre trattati, uno scritto quando ancora era “maestro” di Nerone, il De clementia; un altro, di difficile collocazione cronologica è il De beneficiis di forte impostazione stoica e l’ultimo, scritto in ritiro, che è un vero e proprio trattato scientifico, Naturales questiones.

 
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Edoardo Barròn. Seneca e Nerone (1904)

Il più politico, e certamente il più importante dei tre è il De clementia, in tre libri, di cui ci sono pervenuti il primo e l’inizio del secondo:

CLEMENZA DI AUGUSTO
(I, 10)

Ignovit abavus tuus victis; nam si non ignovisset, quibus imperasset? Sallustium et Cocceios et Deillios et totam cohortem primae admissionis ex adversariorum castris conscripsit; iam Domitios, Messalas, Asinios, Cicerones, quidquid floris erat in civitate, clementiae suae debebat. Ipsum Lepidum quam diu mori passus est! Per multos annos tulit ornamenta principis retinentem et pontificatum maximum non nisi mortuo illo transferri in se passus est; maluit enim illum honorem vocari quam spolium. Haec eum clementia ad salutem securitatemque perduxit; haec gratum ac favorabilem reddidit, quamvis nondum subactis populi Romani cervicibus manum imposuisset; haec hodieque praestat illi famam, quae vix vivis principatibus servit.

Il tuo antenato perdonò ai vinti; infatti se non avesse perdonato, a chi avrebbe comandato? Arruolò Sallustio, i Coccei e i Delii e tutto il seguito di prima qualità (prendendoli) dagli avversari; anche i Domizi, i Messala, gli Asini, i Ciceroni, qualunque fiore fosse in città, lo doveva alla sua clemenza. Quanto a lungo aspettò la morte di Lepido! Per molti anni tollerò che lui mantenesse le insegne di principe e sopportò che il pontificato massimo non gli fosse trasferito se non dopo la sua morte; preferì infatti che quello fosse chiamato onore piuttosto che mancanza di esso. Questa clemenza gli garantì la salute e la sicurezza, gli diede la gratitudine e il favore popolare, nonostante avesse imposto la mano sul collo dei Romani non ancora sottomesso; questa clemenza oggi solleva la (sua) fama rispetto sugli altri, che appena serve agli attuali principati.

Come si vede in questo passo, certamente scritto per Nerone, egli in quest’opera riflette, da un punto di vista “politico”, ciò che deve guidare un monarca. Nessuna libertà rimpianta, nessuna repubblica da restaurare, ma l’accettazione incondizionata del principato come unica forma di governo attuale. Allora si tratta di buon governo: l’esempio augusteo è illuminante. Nulla dev’essere più dovuto, tutto quello che si può dev’essere elargito; aspettare con pazienza, farsi amici i nemici solo così – come dice nel passo – si può governare. Augusto c’è riuscito con un popolo non subiectus; se Nerone, visti anche i predecessori, lo sapesse imitare, non solo lo eguaglierebbe, ma lo supererebbe in virtù. D’altra la parte un monarca illuminato che guida con ragione il popolo è lo specchio del logos che guida l’universo.

Il De beneficiis risale al suo ozio forzato in sette libri. Si tratta appunto di analizzare la casistica attraverso la quale mettere in atto atteggiamenti e gesti legati alla filantropia; i tempi giusti in cui essa va esplicitata, il concetto di dono e di scambio. Rivolgendosi alle classi alte egli sembra voler dire loro di adoperarsi socialmente proprio sotto il segno del beneficio e della solidarietà, ma sarebbe un errore non leggere in questo testo un chiaro riferimento a Nerone che nei suoi confronti non ha mostrato alcuna gratitudine dopo tutti i benefici che lo stesso filosofo gli ha donato.

Le Naturales quaestiones, dedicate a Lucilio, è un’opera dossografica (raccolta di argomenti eruditi) il cui contenuto è scientifico, un unicum nel corpus delle opere senecane. é composta da otto libri indipendenti tra loro in quanto ognuno tratta di un singolare fenomeno naturale. Il suo fine è pedagogico e vuole insegnare a non temere più i fenomeni atmosferici e a liberarli dalla superstizione da cui sono circondati per colpa dell’ignoranza. Essi fanno parte, infatti, di quell’unico principio regolatore che attraverso la ratio governa l’unicità della natura.

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             Manoscritto delle Naturales questiones per la corona catalano aragonese

SCIENZA E PROGRESSO
(VII, 3-5)

Quid ergo miramur cometas, tam rarum mundi spectaculum, nondum teneri legibus certis nec initia illorum finesque notecere, quorum ex ingentibus intervallis recursus est? Nondum sunt anni mille quingenti ex quo Graecia stellis numeros et nomina fecit, multaeque hodie sunt gentes quae facie tantum noverunt caelum, quae nondum sciunt cur luna deficiat, quare obumbretur. Haec apud nos quoque nuper ratio ad certum perduxit. Veniet tempus quo ista quae nunc latent in lucem dies extrahat et longioris aevi diligentia. Ad inquisitionem tantorum aetas una non sufficit, ut tota caelo vacet; quid quod tam paucos annos inter studia ac vitia non aequa portione dividimus? Itaque per successiones ista longas explicabuntur. Veniet tempus quo posteri nostri tam aperta nos nescisse mirentur. Harum quinque stellarum, quae se ingerunt nobis, quae alio atque alio occurrentes loco curiosos nos esse cogunt, qui matutini vespertinique ortus sint, quae stationes, quando in rectum ferantur, quare agantur retro, modo coepimus scire; utrum mergeretur Iupiter an occideret an retrogradus esset, – nam hoc illi nomen imposuere cedenti, – ante paucos annos didicimus. 

Perché, dunque, ci meravigliamo che le comete, spettacolo che il mondo ci offre così raramente, non siano ancora ricondotte a leggi fisse e che non ci sia ancora noto il corso di questi fenomeni che si ripresentano a distanza di moltissimo tempo? Non sono ancora passati millecinquecento anni da quando la Grecia contò e diede un nome alle stelle, e ancor oggi esistono molti popoli che conoscono il cielo soltanto nel suo aspetto, che non sanno ancora perché la luna si eclissi, perché si oscuri: anche presso di noi solo recentemente la scienza ha raggiunto delle certezze su questi argomenti. Verrà il giorno in cui il tempo e lo studio attento da parte di molte generazioni porteranno alla luce queste conoscenze che per ora rimangono nascoste; una sola vita, anche se consacrata interamente allo studio del cielo, non sarebbe sufficiente per completare una ricerca così sterminata: che dire del fatto che noi dividiamo in parti ineguali fra lo studio e il vizio quei pochi anni che abbiamo? Pertanto, questi fenomeni verranno spiegati attraverso lunghe successioni di studiosi. Verrà il giorno in cui i nostri discendenti si meraviglieranno che noi abbiamo ignorato cose tanto evidenti. Per quanto concerne questi cinque pianeti che attirano il nostro interesse, che stimolano la nostra curiosità apparendo ora in un punto ora in un altro, abbiamo da poco cominciato a sapere come sorgono al mattino e alla sera, dove si fermano, quando si muovono in avanti, perché ritornano indietro; se Giove si immerga o tramonti o sia retrogrado (questo è, infatti, il nome che gli è stato assegnato quando si ritira), l’abbiamo appreso pochissimi anni fa.

Interessante è il discorso, in questo VII libro sulle comete, che Seneca fa riguardo la “limitatezza” della conoscenza; il non sapere ora con certezza la verità su di esse, non deve intaccare la validità del sapere scientifico; la nostra vita non basta, ci vorranno molte generazioni affinché si giunga ad una verità: insomma il sapere scientifico, oggi come ieri, è sempre in continuo divenire.

Epistulae ad Lucilium

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Codice delle Epistulae ad Lucilium

Le Epistulae ad Lucilium o più esattamente le Epistulae morales ad Lucilium costituiscono il capolavoro letterario di Seneca. Scritte nell’ultima parte della sua vita esse sono 124, suddivise in venti libri, ma sappiamo, per una testimonianza indiretta di Aulo Gellio, scritta quindi dopo un secolo, che lui aveva citato una lettera tratta dal XXII libro; da ciò si arguisce che l’opera fosse più ampia. Il destinatario delle sue opere è Lucilio, giovane equestre, all’epoca procuratore imperiale in Sicilia, a cui il nostro aveva già dedicato il dialogo De providentia ed il trattato Naturales quaestiones. Si tratta di lettere realmente scritte e ricevute, ma, sebbene il lettore fosse ben individualizzato nella figura del giovane amico, sembrano siano destinate ad una più ampia cerchia di lettori, se lo stesso Seneca afferma che il suo lavoro è finalizzato ai posteri. Si può notare, a livello di struttura, come l’opera, insieme al suo lettore, cresca: nei primi tre libri egli “impara” dal maestro; in seguito il rapporto fra i due diventa sempre più paritario. Per ciò che riguarda i temi, essi non si discostano da quelli già da trattati:

  • in due lettere si ritrova il genere delle consolationes (la morte di un amico di Lucilio e la morte di un comune amico);
  • il tema della morte e dell’uguaglianza di tutti di fronte ad essa;
  • la concezione del tempo;
  • la centralità dell’anima;
  • il rapporto tra l’anima e la ratio;
  • la virtù e la contemplazione del divino;
  • la frugalità antica.

Come si può notare non vi è una diversa riflessione tra quanto già elaborato e le lettere; ciò che le rende caratteristiche sono proprio il modo in cui egli affronta i vari argomenti: la forza persuasiva infatti, la ottiene maggiormente sia attraverso la quotidianità, sia attraverso gli exempla tratti da i personaggi famosi. Ma il tema che sottende tutta l’opera è il modo in cui egli la scrive: lo stile costituisce un continuo pensiero, tanto da fargli affermare, nella lettera 115 oratio cultus animi est, “lo stile è espressione dell’anima”. Eppure lo stile senecano non è affatto semplice, ricco com’è, per semplificare, di anafore, parallelismi, nonché di “frasi ad effetto”. Ma se solo pensassimo a qual era la tendenza dell’oratoria del tempo, così ben raffigurata nel Satyricon di Petronio, potremo ben definire, lo stile senecano, fluido ed elegante.

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Schiavi romani

COME TRATTARE GLI SCHIAVI
Epistola n. 47 (par. 1-3)

Libenter ex iis qui a te veniunt cognovi familiariter te cum servis tuis vivere: hoc prudentiam tuam, hoc eruditionem decet. “Servi sunt”. Immo homines. “Servi sunt”. Immo contubernales. “Servi sunt”. Immo humiles amici. “Servi sunt”. Immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunae. Itaque rideo istos qui turpe existimant cum servo suo cenare: quare, nisi quia superbissima consuetudo cenanti domino stantium servorum turbam circumdedit? Est ille plus quam capit, et ingenti aviditate onerat distentum ventrem ac desuetum iam ventris officio, ut maiore opera omnia egerat quam ingessit. At infelicibus servis movere labra ne in hoc quidem, ut loquantur, licet; virga murmur omne conpescitur, et ne fortuita quidem verberibus excepta sunt, tussis, sternumenta, singultus; magno malo ulla voce interpellatum silentium luitur; nocte tota ieiuni mutique perstant. Sic fit ut isti de domino loquantur, quibus coram domino loqui non licet. At illi, quibus non tantum coram dominis sed cum ipsis erat sermo, quorum os non consuebatur, parati erant pro domino porrigere cervicem, periculum inminens in caput suum avertere; in conviviis loquebantur, sed in tormentis tacebant.

Felicemente ho appreso da coloro che giungevano da te che tu vivi con familiarità con i tuoi servi. Ciò è conveniente alla tua prudenza e alla tua cultura. “Sono servi”, ma anche uomini”. “Sono servi”, ma anche compagni di casa. “Sono servi”, ma anche umili amici. “Sono servi”, ma anche compagni di schiavitù, se penserai che lo stesso modo alla fortuna è concesso per entrambi. E perciò rido di quelli che reputano vergognoso cenare con i propri servi, per qual motivo, se non perché la superbissima consuetudine fa mettere attorno al padrone che cena una folla di servi che stanno in piedi? Quello mangia più di quanto può contenere e con grande avidità riempie il ventre disteso e disabituato ormai al compito di ventre tanto da gettar fuori con più fatica di quanta l’ha ingerita. Ma agli infelici schiavi non è permesso muovere le labbra neppure in questo, per parlare; ogni mormorio è punito con la frusta e neppure (i mormorii) fortuiti, tosse, starnuti, singulti, sono esclusi dalle frustate; il silenzio interrotto da qualche voce è punito in malo modo; rimangono durante tutta la notte muti ed in piedi. Così accade che quelli che non possono parlare di fronte al padrone, la cui bocca era cucita, parlino del padrone (di nascosto). Ma quelli che parlavano non solo di fronte ai padroni ma anche con loro stessi, la cui bocca non era cucita, erano pronti ad offrire il collo per il padrone, rivolgendo verso loro stessi i pericoli imminenti; parlavano nei conviti, tacevano nelle torture.

La sottolineatura che Seneca qui fa dell’“umanità” dello schiavo, se è stata da noi introiettata grazie anche all’insegnamento cristiano, non così naturale doveva apparire al mondo romano. Si insiste qui nel concetto “stoico” di fortuna come provvidenza razionale del mondo: la schiavitù, infatti, è una condizione toccataci. Egli infatti sottolinea, con il termine conservi, come tale condizione sia da addebitare all’eventualità storica: oggi liberi, domani servi, se il paese in cui vivi sarà conquistato. Tuttavia Seneca non arriva all’abolizione della schiavitù: avrebbe significato mettere in discussione tutto il sistema economico del mondo romano. Egli invece tende a sottolineare il modo con cui comportarsi e ad additare le storture e le prepotenze con cui uomini arroganti esercitavano il loro potere su di loro.

DIO ABITA DENTRO DI NOI

Facis rem optimam et tibi salutarem si, ut scribis, perseveras ire ad bonam mentem, quam stultum est optare cum possis a te impetrare. Non sunt ad caelum elevandae manus nec exorandus aedituus ut nos ad aurem simulacri, quasi magis exaudiri possimus, admittat: prope est a te deus, tecum est, intus est. Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat. Bonus vero vir sine deo nemo est: an potest aliquis supra fortunam nisi ab illo adiutus exsurgere? Ille dat consilia magnifica et erecta. In unoquoque virorum bonorum

(quis deus incertum est) habitat deus

Tu fai una cosa assai saggia e per te salutare se, come mi scrivi, persisti nell’indirizzarti verso la saggezza ed è cosa sciocca implorare la saggezza dal momento che potresti ottenerla da te stesso. Non si devono levare le mani al cielo né invocare i custodi dei templi per poterci meglio accostare alle orecchie delle statue, quasi potessimo essere ascoltati meglio: dio è preso di te, è con te, è dentro di te. È così come ti dico, Lucilio in noi c’è uno spirito divino che osserva e controlla il male ed il bene delle nostre azioni; egli ci tratta così come è stato trattato da noi. In verità un uomo buono non è nessuno senza dio: forse che alcuno potrebbe assurgere al di sopra della sorte se non fosse aiutato da lui? Quello ci da consigli splendidi ed eroici. In ciascuno degli uomini buoni abita un dio:
quale dio è incerto ma c’è

Questa lettera, apparentemente, è quella che sembra più avvicinarsi a quella visione cristiana che alimenterà, nel corso del medioevo, la leggenda dell’incontro tra Seneca e San Paolo. Eppure leggendola con attenzione avvertiamo la differenza che intercorre tra la visione stoica profondamente pagana di Seneca e quella prettamente “metafisica” di tipo cristiano. Il filosofo infatti invita Lucilio a cercare il dio che è dentro di lui che si esplica nella capacità razionale dello stesso di andare in comunione con la natura. E’ infatti un cerchio che potremo definire perfetto: dalla natura all’uomo e al suo ritorno, concependo pertanto il discorso senecano come profondamente “immanente” e non “trascendente”.

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Carteggio apocrifo tra San Paolo e Seneca

Apokolokýntosis o Ludus de morte Claudii

E’ questa un’opera che si distacca completamente dal percorso filosofico senecano. E’ stata composta e declamata nel 54 in occasione della morte dell’imperatore e reca in sé tutto il sarcasmo e la cattiveria di chi, per sua volontà, era stato costretto all’esilio. Ma tale operetta sembra anche racchiudere, per volere della corte, una forte linea di discontinuità con il passato regime. Essa è importante perché è l’unica satira menippea romana giuntaci pressoché integrale.

Per satira menippea s’intende infatti un genere in cui fossero fusi tra loro parti in prosa e parti in poesia (prosimetro). Essa era stata introdotta a Roma da Varrone Reatino che utilizzò tale genere per descrivere elementi diatribici. Il titolo dell’opera senecana, visto il significato dei termini greci di cui è composto, sembrerebbe alludere alla “deificazione di una zucca”, ma non essendoci alcuna zucca nell’opera è più probabile che il filosofo intendesse dire “deificazione di uno zuccone”, Claudio, appunto. Eccone la trama:

Mercurio, visto l’anniversario con cui è salita al cielo Drusilla, amante e moglie di Caligola, chiede alle Parche di affrettare la morte di Claudio, perché avvenga lo stesso giorno. Il dio viene esaudito e mentre a Roma si fa gran festa per la notizia, l’imperatore arriva in cielo zoppicando, scuotendo la testa e pronunciando parole incomprensibili. Ercole, un po’ tonto, dopo averlo visto, pensa sia un mostro e si appresta a compiere la sua tredicesima fatica. (Lacuna nel testo). Gli dei sono a concilio per decidere della sorte di Claudio; ma si alza irato Augusto e ricorda a tutti le malefatte dell’uomo. Pertanto viene trascinato da Mercurio negli inferi e durante il tragitto vede il suo funerale, capendo infine che è morto. All’inferno ritrova moltissimi liberti e schiavi (da lui fatti ingiustamente uccidere). Quindi subisce un nuovo processo da Eaco (uomo profondamente giusto) che di fronte ad un uomo iniquo si comporterà di conseguenza: lo condannerà a giocare a dadi in un con un bossolo bucato.

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Pietro Francesco Guala: L’imperatore Claudio

L’ARRIVO DI CLAUDIO IN CIELO

Nuntiatur Iovi venisse quendam bonae staturae, bene canum; nescio quid illum minari, assidue enim caput movere; pedem dextrum trahere. Quaesisse se, cuius nationis esset: respondisse nescio quid perturbato sono et voce confusa; non intellegere se linguam eius, nec Graecum esse nec Romanum nec ullius gentis notae. Tum Iuppiter Herculem, qui totum orbem terrarum pererraverat et nosse videbatur omnes nationes, iubet ire et explorare, quorum hominum esset. Tum Hercules primo aspectu sane perturbatus est, ut qui etiam non omnia monstra timuerit. Ut vidit novi generis faciem, insolitum incessum, vocem nullius terrestris animalis sed qualis esse marinis beluis solet, raucam et implicatam, putavit sii tertium decimum laborem venisse. Diligentius intuenti visus est quasi homo.

Viene annunciato a Giove che è arrivato un tale, alto di statura, assai canuto, minaccia non so che, muove infatti continuamente la testa, trascina il piede destro. Gli era stato chiesto di che gente fosse: aveva risposto non so che cosa con suono confuso e voce perturbata; non si era capito di che lingua fosse, né se fosse greco o romano né di altra popolazione nota. A questo punto Giove comanda ad Ercole, che aveva percorso in lungo e in largo tutto il mondo e pareva che conoscesse tutte le genti, di andare ad esplorare che uomo fosse. Ercole a prima vista rimase veramente sconcertato, come uno che non tutte le mostruosità abbia ancora provato. Come vide quella figura di nuovo genere, l’andatura insolita, la voce di nessun animale terrestre, ma quale di solito hanno gli animali del mare, roca e ingarbugliata, credette che fosse arrivata la sua tredicesima fatica. Guardando poi con più attenzione gli parve in certo senso un uomo.

Il passo è posto sotto il segno del grottesco. Claudio è talmente dinoccolato e claudicante, che neppure Giove riesce a riconoscerlo, tanto da affidare tale compito a Ercole. Ma anche costui non appare al meglio delle sue facoltà mentali, se soltanto alla fine riesce a vederlo quasi come un uomo. Ad essere satireggiati quindi appare da una parte l’ex imperatore, di cui si vendica per il mancato rientro dell’esilio, facendone un ritratto impetuoso (ma la vendetta non è un sentimento antistoico?) e contraddicendo tutto ciò che di lui aveva scritto nella Consolatio ad Polybium (illo moderante terras et ostendente quanto melius beneficiis imperium custodiatur quam armis: con lui che governa il mondo e che mostra quanto sia meglio il beneficio delle le armi per custodirlo); ma anche il mondo divino di cui fa quasi un divertito circo. Il mondo per Seneca è presieduto da una ratio, come si è detto. La pletora degli dei sono fabulae inventate dai poeti per terrorizzarci, come ci ricorda nella Consolatio ad Marciam.

Tragedie

Le tragedie senecane sono dieci di cui una, l’Hercules Oetus, di dubbia attribuzione ed un’altra l’Octavia (l’unica praetexta) sicuramente posteriore. Le altre sono tutte d’argomento greco (cothurnatae) e riprendono la tragedia classica del V secolo di Eschilo, Sofocle ed Euripide e sono:

  1. Agamemnon (Agamennone): Agamennone torna da Troia con Cassandra; quest’ultima predirà la sua morte e quella del re. La moglie Clitemnestra, con l’amante Egisto ucciderà entrambi, mentre riuscirà a scappare Oreste, il figlio del re.

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Pierre Narcisse Guerin: Egisto  e Clitemnestra si preparano ad uccidere Agamennone

  1. Hercules furens (Ercole furioso): Mentre Ercole è lontano, Lico ne usurpa il trono, assediando le virtù della moglie Megara. Tornato con Teseo, Ercole uccide il rivale. Ma Giunone, per questo delitto, lo farà impazzire e proprio in preda alla follia ucciderà la moglie e i figli. Risvegliatosi dal sonno profondo in cui era caduto, per il gesto compiuto vuole suicidarsi, ma sarà impedito da Teseo e dal padre.

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Antonio Canova: Ercole furente che getta il bambino Lica

  1. Medea (Medea): Innamorata di Giàsone, Medea lo aiuta a prendre il “vello d’oro”, tradendo il padre e i suoi familiari. Ma Giàsone la tradisce e si reca a Corinto dal re Creonte per sposare Crusa. Quindi Medea prepara l’atroce vendetta: provoca con un falso mantello la morte della sposa e di suo padre. Quindi per vendicarsi del fedifrago Giàsone uccide i figli avuti con lui e fugge su un carro alato verso il sole.

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Giasone e Medea

  1. Oedipus (Edipo): La peste miete vittime a Tebe. Affinché possa cessare l’oracolo di Apollo afferma che la città si deve liberare dalla presenza di un parricida. Appare l’ombra di Laio, evocato dall’indovino che indica in suo figlio Edipo chi lo ha ucciso e ha sposato sua madre. Saputo ciò, Edipo per la disperazione, si acceca, mentre Giocasta, la madre, si uccide.

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Franco Citti: Edipo cieco (dal film “Edipo re” di Pier Paolo Pasolini)

  1. Phaedra (Fedra): Teseo è agli inferi per rapire Persefone. Fedra, sua moglie, è perdutamente innamorata di suo figliastro, Ippolito. Dopo essersi rivelata e ripudiata dal giovane, per vendetta, al ritorno del marito, lo accusa di tentata violenza. Teseo allora maledice il figlio e invoca Poseidone affinché lo uccida. Fedra, per i sensi di colpa, si suicida. 

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La morte di Ippolito

  1. Phoenissae (Le Fenicie): e’ una tragedia incompleta (una serie di scene scollegate fra loro). La vicenda segue quella già raccontata nell’Oedipus. Edipo, dopo essersi accecato, s’allontana da Tebe con la figlia Antigone che lo convince a non suicidarsi. In seguito Giocasta e Antigone riescono a scongiurare la guerra, ma non ad ottenere la pace tra i fratelli Eteocle e Polonice, anch’essi figli di Edipo.

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Carle van Loo: Edipo di fronte ai cadaveri della moglie e dei figli

  1. Thyestes (Tieste): Tantalo, trascinato da una Furia, si rivolge a suo nipote Atreo per vendicasi del fratello Tieste che gli ha sottratto il trono e la moglie. Fingendo una riconciliazione lo invita quindi nella sua dimora insieme con i nipoti. Ma li uccide ne bandisce le carni e le offre in pasto a Tieste. Ne segue la maledizione di quest’ultimo verso Atreo.

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Tieste: disegno animato di Silje Aure

  1. Troades (Troiane): I Greci per poter partire da Troia, da cui non riescono a partite, decidono di sacrificare Polissena, figlia di Priamo e Astianatte, figlio di Ettore. Mentre Ecuba, l’anziana moglie di Priamo, piange la morte della figlia sulla tomba di Achille, Astianatte viene scagliato in mare da una rupe.

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Astianatte gettato giù da una rupe

  1. Hercules Oetaeus (Ercole sul monte Eta): Ercole, dopo aver conquistato Ecalia, invia alla moglie Deianira come schiava Iole, figlia del re sconfitto. Gelosa, per riconquistarlo, invia al marito una tunica che le aveva regalato il centauro Nesso in cui credeva ci fosse un filtro d’amore, ma in realtà è intrisa di un potente veleno. Quando Ercole indossa il mantello, brucia tra incredibili tormenti e, dopo aver ordinato al figlio di sposare Iole, sale sul monte Eta e viene assunto in cielo.
  1. Octavia (Ottavia): l’unica d’ambientazione romana. Nerone ha ripudiato Ottavia per sposare Poppea. Ma il popolo, affezionato alla moglie dell’imperatore, invita Seneca a dissuaderlo, ma le nuove nozze sono già decise. Appare sulla scena quindi l’ombra di Agrippina che predice la morte violenta di Nerone. Intanto Ottavia viene relegata in un’isola e qui uccisa.

Cominciamo con il dire il perché le ultime due non sono considerate autentiche. Per la prima a destare perplessità è la lunghezza inusitata, mostra uno stile troppo prolisso, rispetto a quello senecano, e termina in modo “positivo” (l’assunzione di Ercole fra gli dei). La seconda, invece, è sicuramente di un seguace senecano ed è da datare a seguito della morte sia di Seneca che dell’imperatore: infatti pare piuttosto strano che Seneca citi se stesso come personaggio e che lo stesso possa averne intuito la morte, descritta troppo precisamente.

Come per l’Apokolokyntosis anche le tragedie senecane sono di un’importanza straordinaria per la letteratura latina perché sono le uniche pervenuteci. Il primo problema che esse offrono riguarda la datazione: nessun elemento interno ci fa capire se esse possono essere state elaborate nel quinquennio felice o in seguito all’allontanamento della corte e questo influisce sulla finalità delle stesse: infatti, se le avesse scritte prima, avrebbe avuto un fine didattico, mostrando al giovane imperatore l’emergere del furor per chi non fosse andato alla ricerca della virtus. Se viceversa appartengono al secondo periodo senecano esse mostrerebbero tutta la profonda delusione del consigliere inascoltato e delle pieghe, dopo l’uccisione di Agrippina, che stava prendendo l’impero di Nerone. Infatti quello che qui colpisce è il capovolgimento, quasi metodico, di ogni virtù descritta nelle sue opere morali. L’indugiare ossessivo, in ognuna di esse, dei peggiori vizi sono tutti legati alla mancanza della capacità dell’uomo di andare in accordo colla provvidenza razionale della natura: sono tutti “in-naturali”: omicidio, parricidio, uxoricidio, uccisione dei figli, cannibalismo, incesto. Tutto ciò che appartiene al nefas, al sacrilego dunque, viene analizzato con un innegabile gusto del “macabro” da parte dell’autore. Eppure vediamo che in tali descrizioni presenti nelle tragedie non vi è compiacimento, ma un vero e proprio approfondimento sulla psiche dei personaggi. Egli infatti, prendendo dal modello greco i miti, che tutti parevano offrirgli esempi probanti, toglie loro il deus ex machina che in qualche maniera risolveva il caso inquadrandolo in un disegno più generale. Qui nulla di tutto questo: è come se quella piccola luce che possiede l’animo umano si rivolgesse all’improvviso, all’interno del personaggio, verso il più profondo male e catastrofico destino.

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Medea prima dell’uccisione dei figli

IL FOLLE MONOLOGO DI MEDEA
(926-957)

Cor pepulit horror, membra torpescunt gelu
pectusque tremuit. Ira discessit loco
materque tota coniuge expulsa redit.
Egone ut meorum liberum ac prolis meae
fundam cruorem?
Melius, a, demens furor!
Incognitum istud facinus ac dirum nefas
a me quoque absit; quod scelus miseri luent?
scelus est Iason genitor et maius scelus
Medea mater
occidant, non sunt mei;
pereant, mei sunt. crimine et culpa carent,
sunt innocentes, fateor: et frater fuit.
Q
uid, anime, titubas? Ora quid lacrimae rigant
v
ariamque nunc huc ira, nunc illuc amor
diducit? Anceps aestus incertam rapit;
ut saeva rapidi bella cum venti gerunt,
utrimque fluctus maria discordes agunt
dubiumque fervet pelagus, haut aliter meum
cor fluctuatur: ira pietatem fugat
iramque pietas – cede pietati, dolor.
Huc, cara proles, unicum afflictae domus
solamen, huc vos ferte et infusos mihi
coniungite artus. Habeat incolumes pater,
dum et mater habeat – urguet exilium ac fuga:
iam iam meo rapientur avulsi e sinu,
flentes, gementes: osculis pereant patris,
periere matris. rursus increscit dolor
et fervet odium, repetit invitam manum
antiqua Erinys – ira, qua ducis, sequor.
Utinam superbae turba Tantalidos meo
exisset utero bisque septenos parens
natos tulissem! sterilis in poenas fui –
fratri patrique quod sat est, peperi duos.

L’orrore si insinua nel mio petto, un gelido torpore mi paralizza le membra, ed il mio cuore trema. L’ira mi ha abbandonato. La madre, scacciata la sposa, non è più che madre. Versare io il sangue dei miei figli? Il sangue del mio sangue? O pazzo furore! Via da me questo delitto, via quest’infamia, anche il pensiero, via! Per quale delitto pagheranno, loro? Il delitto è Giasone, il padre, e delitto peggiore è Medea, la madre. Muoiano, non sono miei. Muoiano, sono miei. Non hanno colpa, loro, lo confesso. Sono innocenti. Anche mio fratello era innocente. Perché esiti, anima mia? Queste lacrime, perché mi bagnano il volto? Di qua l’odio, di là l’amore, mi strappano, mi dividono, perché? Opposte correnti mi rapiscono, nella mia incertezza. Rabbiosi venti si fanno guerra spietata, flutto contro flutto si scatena, il mare ribolle e non ha sbocco: è così, proprio così, che il mio cuore è sconvolto. L’ira dà il bando alla pietà, la pietà all’ira. Rancore, cedi alla pietà. Venite qui, cari bambini miei, sola dolcezza della mia famiglia distrutta, venite qui e stringetevi a me, forte forte. Siate di vostro padre, sani e salvi, purché siate anche della madre. M’incalza l’esilio, la fuga. In un attimo, tra lacrime e grida, li strapperanno dal mio seno di proscritta… Muoiano dunque per il padre, poiché per la madre sono morti. Ecco, il rancore si fa grande, l’odio si accende. Tu la rivuoi, questa mia mano che si ribella, antica Erinni. Ti seguo, ira, dove mi conduci. La tua prole, superba Niobe, ah perché non è uscita dal mio grembo? Perché non li ho generati io due volte sette figli? Fui sterile, io, per la mia vendetta. Due soltanto ne ho partorito. Bastano per mio padre e mio fratello.

Il monologo di Medea, di cui è riportata la prima parte, avviene quando già ella ha ucciso Creonte e sua figlia Criseide. Si tratta ora di decidere se porre fine alla vita dei suoi figli. Ella, costretta all’esilio dal re, ora, più che mai, dopo il delitto, costretta alla fuga non vuole e non può lasciare i figli all’odiato e traditore amante. Si tratta di un vero e proprio urlo interiore che oscilla tra l’amore di madre e l’odio verso il marito di cui misura la felicità attraverso l’esistenza dei figli. Seneca, attraverso un discorso prevalente paratattico, ma nel contempo fitto di antitesi, riesce a darci in modo mirabile la concitazione del pensiero di Medea.

Epigrammi

La tradizione assegna a Seneca anche una serie di testi lirici sulla cui attribuzione ancora non si è giunti ad una certezza. Siano autentici o no, tale opera non aggiunge nulla, né a livello formale, né contenutistico a quanto, a livello poetico, si era già sino a quel momento, prodotto.

MARCO TULLIO CICERONE

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Marco Tullio Cicerone

Avvicinarsi all’uomo e al letterato Cicerone significa affrontare uno degli uomini più prolifici dell’intera letteratura latina e uno dei maggiori protagonisti della storia politica, tale da diventare, certamente in modo consapevole, un vero e proprio magister con cui confrontarsi (accettandolo o rifiutandolo). Lo studio di Cicerone è imprescindibile per comprendere i difficili avvenimenti che si susseguirono in modo caotico in quel periodo, ma anche e soprattutto per spiegarci come mai sia diventato un modello stilistico e retorico per le generazioni successive e non parlo solo di quella latina. A tal proposito basti pensare al Proemio boccacciano del Decameron per comprenderlo.

Notizie biografiche

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La città di Arpino con la statua di Cicerone

Cicerone nasce nel 106 ad Arpino nel Lazio da un’agiata famiglia equestre. Per volere del padre, insieme al fratello minore Quinto, riceve a Roma un’elevata educazione sia retorica che filosofica presso i più grandi maestri, che gli permetterà sin dall’adolescenza di frequentare un tirocinium fori presso il suo maestro di diritto. Sempre in questo periodo bisogna anche far risalire la profonda amicizia con Tito Pomponio Attico che, in seguito, divenne il suo principale “editore”. La sua formazione, fin qui semplicemente tratteggiata, avvenne in anni politicamente convulsi, dove ormai si era giunti ad uno scontro militare tra sillani e mariani. Nell’81 a.C. inizia la sua attività giuridica con ottimo successo: la prima orazione di cui abbiamo notizia è la Pro Quinctio, nella quale difese Publio Quinzio contro il sillano (che aveva l’appoggio della nobilitas) Sesto Nevio, per una questione d’eredità e la Pro Sexto Roscio Amerino nella quale fece assolvere l’indiziato dall’incriminazione di parricidio da accusatori legati ad un potente liberto dello stesso dittatore romano, Crisogono.

Non dobbiamo dimenticare che in questi anni Roma è retta dalla dittatura del potente Silla (81-79) e sia per motivi di perfezionamento culturale, di salute e, non ultimo, politico – si era messo contro il suo entourage – tra il 79 e il 77 a. C., si reca in Grecia e in Asia Minore. Qui entra in più profondo contatto con la filosofia di Antioco di Ascalona che seppe intrecciare elementi filosofici platonici, aristotelici e stoici, dando vita ad una forma speculativa che prenderà il nome di eclettismo, in quando capace di armonizzare varie teorie filosofiche di diversa provenienza, e con il retore Apollonio Molone, che placò in lui la sua iniziale ampollosità.

Rientrato a Roma nel 79 sposa Terenzia, della nobile famiglia Flavia, avendone due figli: l’amatissima Tullia e Marco. In quegli stessi anni entra in politica: tra il 75 e il 65 a.C. inizia il cursus honorum come questore in Sicilia, la cui conoscenza gli permetterà di pronunciare una delle sue orazioni più importanti sia a livello letterario che politico, passate alla storia come le Verrinae, accusando Verre de repetundis; nel 69 è edile, quindi nel 66 pretore per poi giungere nel 63 al consolato. Se l’accusa contro il propretore Verre sembra avvicinarlo verso i populares, nelle orazioni Pro lege Manilia e Pro Cluentio, ambedue del 66, si mostra invece un uomo moderato, più vicino a posizioni conservatrici e a Gneo Pompeo.

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Canephora di Policleto: una delle statue rubate da Verre in Sicilia

Il consolato del 63 si apre per Cicerone con atto un giudiziario, testimoniato dalle Catilinarie, che lo segnarono per tutta la vita; infatti si mostra inflessibile nella difesa della res publica contro Lucio Sergio Catilina, che condanna a morte per congiura.

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Cicerone contro Catilina: affresco di Maccari

Quando nel 60 Cesare, Pompeo e Crasso stringono il primo triumvirato, è costretto all’esilio in Grecia per sedici mesi, grazie ad una legge fatta approvare da Clodio, amico di Cesare e nemico di Cicerone. Nel 57 torna a Roma, ma la sua posizione politica si fa marginale. Difende due amici dalle accuse del suo nemico Clodio, nelle Pro Sestio e Pro Caelio (dove vi è un ritratto a tinte fosche di Clodia, la Lesbia cantata da Catullo); perde invece nella Pro Milone, personaggio pagato dagli aristocratici per far fuori Clodio, svolto in un clima violento e intimidatorio.

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Catilina solo: affresco di Maccari

Fuori dalle logiche politiche, emarginato da uomini che si mostrano più potenti del Senato, Cicerone comincia la sua attività di pensatore: sono di questi anni due opere importantissime: il De oratore (55-54) e il De Republica (55-51). Per rientrare nel gioco politico, cerca di avvicinarsi a Cesare, facendo approvare una legge che ne promulgava il consolato nelle Gallie, ma quando scoppia la guerra civile si schiera con Pompeo; la sconfitta di quest’ultimo lo emargina completamente, ma tenta ugualmente di salvare ciò che rimane della repubblica cercando un contatto con il dictator. Gli anni della dittatura cesariana furono quelli in cui l’arpinate non poté esercitare alcuna influenza politica essendo ormai tramontata la sua visione su come strutturare Roma. Sul piano personale sono anni assai difficili: divorzia da Terenzia, si sposa con la giovane Publiola, ma il matrimonio fallisce subito, inoltre muore di parto l’amata figlia. Si consola scrivendo opere retoriche come il Brutus e l’Orator, ma soprattutto di carattere filosofico come il De finibus bonorum et malorum, Tusculanae disputationes, Cato maior de senectute, Laelius de amicitia

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La morte di Cesare in un disegno di Camuccini

Nel 44 Cesare viene ucciso da Bruto e Cassio, che eliminando il dictator avevano in mente il disegno politico di Cicerone, che rappresenta per loro l’ideale punto di riferimento; quando Marco Antonio, con un colpo di mano fa promuovere lo scambio delle provincie, Cicerone promulga con violenza inaudita le Philippicae, così denominate perché richiamavano quelle di Demostene contro il macedone. Con questo atto vuole rientrare in gioco, avvicinandosi al giovane Ottaviano. Ma Ottaviano forma il secondo triumvirato con Lepido e con il suo ex nemico Antonio. Quest’ultimo chiede al futuro Augusto la testa di Cicerone, che fu il primo nome nelle liste di proscrizione. Affronta la morte con dignità, che Antonio non vuole avere con il suo corpo. Ordina che la testa e le sue mani di Cicerone siano esposte al foro, luogo di tante battaglie dell’arpinate.

Opere

La produzione ciceroniana è molto corposa e comprende soprattutto opere prosastiche (quasi nulla possediamo dei suoi versi e sembra non fossero, già per i critici antichi, particolarmente importanti). Possiamo dividere, per comodità didattica, il lavoro ciceroniano in orazioni, opere retoriche, politiche e filosofiche. Fra di esse inseriamo anche l’Epistolario, considerato uno dei più importanti della letteratura latina.

Orazioni

Come abbiamo visto i tipi di orazione previsti nella Rethorica ad Herennium sono il dimostrativo o epidittico (atto a commemorare o elogiare un personaggio), il deliberativo (atto a far approvare un progetto) ed il giudiziario (tipicamente giuridico). Cicerone scrive orazioni soprattutto degli ultimi due generi, ma determinare a quale tipologia essi appartengano è a volte complesso, come vedremo. Il fatto che egli le scrivesse deriva dalla volontà di rendere palesi al suo pubblico ciò che aveva pronunciato di fronte ai senatori nel Foro. Infatti, grazie anche all’aiuto del suo fedele servo Tirone, le orazioni venivano riviste e corrette, quindi affidate ad Attico, il quale le “editava”  e quindi raggiungevano il pubblico di lettori. Citiamo le più importanti:

Pro Sexto Roscio Amerino è una delle prime orazioni cicerionane: Roscio Amerino era stato accusato di parricidio da potenti figure del partito sillano. Sembra infatti che invece il padre dell’accusato fosse stato ucciso da due suoi parenti in accordo con Crisogono, liberto di Silla, il quale mise il nome dell’ucciso nelle liste di proscrizione per riscattare a prezzo irrisorio i suoi beni e facendo fuori il figlio accusandolo appunto di parricidio. Banco di prova difficile per il giovane avvocato, egli riuscì a liberare il cliente senza mai attaccare in modo diretto Silla, ma mostrando le storture di una classe che ormai non riusciva più a rispettare una forma di “moralità”.

Le Verrinae sono considerate le orazioni più importanti della giovinezza dell’avvocato di Arpino, nelle quali, dopo l’esperienza in Grecia, abbandona la moda dell’asianesimo allora imperante per una prosa più elegante. Dopo aver esercitato il ruolo di questore in una città della Sicilia, venne interpellato da quelle popolazioni per poter accusare il senatore Verre di malversazioni e ruberie che, come propretore, aveva compiuto nella loro terra. L’occasione offerta a Cicerone era molto “pericolosa”: si trattava di mettersi in modo molto più diretto contro il potere dei senatori, i quali, proprio secondo la nuova legge sillana, costituivano, nella loro totalità, il corpo giudicante. Secondo la legge di allora, presentata un’accusa da parte di una o più persone, un magistrato, in una seduta preliminare, doveva indovinare (divinatio) chi dovesse esser scelto per fare la parte dell’accusatore (actor). Non si trattava di una scelta obiettiva, ma discrezionale da parte del magistrato, di chi meglio, fra coloro che avanzavano la loro candidatura, potesse interpretare tale ruolo. L’entourage di Verre era riuscito a proporre come accusatore un certo Cecilio Nigro, che, in quanto complice dell’accusato in loschi affari, garantiva l’impunità. Cicerone propose la sua candidatura al magistrato dichiarando che l’accusatore dovesse essere scelto dalla parte lesa e che avrebbe dovuto mostrare serietà morale e professionale. Il riuscire ad ottenere l’incarico non fu una vincita di poco conto. Tutto ciò viene riportato nella prima parte delle Verrine dette Divinatio in Caecilium. Verre aveva chiamato come difensore il più grande avvocato del tempo un certo Ortensio, la cui tecnica difensiva non sfuggiva all’arpinate: dilungare il processo per far passare un anno in cui, dichiarati i nuovi consoli, tutti e due favorevoli a Verre, avrebbero fatto pressione per scagionarlo. Cicerone quindi cercò di prevenire l’avversario e raccolse in soli cinquanta giorni prove e testimonianze schiaccianti. Dopo altri tentativi falliti dalla parte avversa per insabbiare e procrastinare le prove, l’accusatore rinunciò all’esposizione dei fatti ed introdusse e mostrò ai giudici tutto ciò che egli aveva raccolto. Ortensio, schiacciato da tale tecnica rinunciò alla difesa e Verre, messo ormai alle strette, preferì il volontario esilio a Marsiglia (Actio prima in Verrem). Il processo era ormai concluso: ma il successo di Cicerone ottenuto al foro, fece sì che egli scrivesse ciò che avrebbe pronunciato se il dibattimento fosse continuato. Esso costituisce l’Actio secunda in Verrem e si divide in:

  • De praetura urbana: si parla delle malversazioni di Verre in Gallia e in Cilicia prima dell’incarico siciliano;
  • De iurisdictione siciliensi: si parla di come Verre avesse lucrato nell’amministrare la giustizia nell’isola;
  • De re frumentaria: si parla di come l’avidità di Verre nel riscuotere tributi avesse portato alla rovina l’isola;
  • De signis: è la rassegna di tutte le ruberie di Verre;
  • De suppliciis: vi si racconta come Verre avesse messo ingiustamente a morte o costretti ai più aberranti supplizi cittadini romani.

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Cicerone a Enna: pittura di S. Frangiamore

NIENTE HA LASCIATO IN SICILIA
(IV, 1-2)

Venio nunc ad istius, quem ad modum ipse appellat, studium, ut amici eius, morbum et insaniam, ut Siculi, latrocinium; ego quo nomine appellem nescio; rem vobis proponam, vos eam suo non nominis pondere penditote. Genus ipsum prius cognoscite, iudices; deinde fortasse non magno opere quaeretis quo id nomine appellandum putetis. Nego in Sicilia tota, tam locupleti, tam vetere provincia, tot oppidis, tot familiis tam copiosis, ullum argenteum vas, ullum Corinthium aut Deliacum fuisse, ullam gemmam aut margaritam, quicquam ex auro aut ebore factum, signum ullum aeneum, marmoreum, eburneum, nego ullam picturam neque in tabula neque in textili quin conquisierit, inspexerit, quod placitum sit abstulerit. Magnum videor dicere: attendite etiam quem ad modum dicam. Non enim verbi neque criminis augendi causa complector omnia: cum dico nihil istum eius modi rerum in tota provincia reliquisse, Latine me scitote, non accusatorie loqui. Etiam planius: nihil in aedibus cuiusquam, ne in hospitis quidem, nihil in locis communibus, ne in fanis quidem, nihil apud Siculum, nihil apud civem Romanum, denique nihil istum, quod ad oculos animumque acciderit, neque privati neque publici neque profani neque sacri tota in Sicilia reliquisse.

Passo ora a parlare di quella che Verre, stando alla sua personale definizione, chiama passione, mentre i suoi amici la chiamano mania morbosa e i Siciliani ladroneria. Io non so proprio con che nome chiamarla. Vi esporrò i fatti: voi valutateli in base alla loro gravità, senza tener conto del nome con cui li si può designare. State prima a sentire, o giudici, di che razza di azioni si tratti; poi forse non durerete molta fatica a sapere con che nome, secondo voi, si debbano chiamare. Io sostengo che in tutta quanta la Sicilia, che è una provincia così ricca e di così antica costituzione, con tante città e tante famiglie che vivono nell’abbondanza, non vi era nessun vaso d’argento, nessun vaso di Corinto o di Delo, nessuna pietra preziosa o perla, nessun oggetto d’oro e d’avorio, nessuna statua di bronzo, di marmo o d’avorio; sostengo, ripeto, che non c’era nessun quadro, nessun arazzo, che il nostro imputato non abbia ricercato con cura, non abbia esaminato con attenzione e non abbia poi sottratto, nel caso fosse di suo gradimento. Sembra che io dica un’enormità; ma fate attenzione anche al modo come mi esprimo; perché quando uso la parola “tutto” non lo faccio così, tanto per dire, o per accrescere la gravità di una colpa: quando sostengo che costui in tutta quanta la provincia non ha lasciato nessuna di tali opere d’arte, sappiate che uso le parole nel loro significato proprio e normale e non carico le tinte, com’è abitudine di chi accusa. Voglio essere anche più esplicito: in tutta quanta la Sicilia costui non ha lasciato nulla in casa di nessuno, neppure in quella degli ospiti, neppure nei santuari, nulla che appartenesse ai Siciliani o a cittadini romani; in una parola nulla che cadesse sotto i suoi occhi o che risvegliasse la sua cupidigia, nulla di privato o di pubblico, nulla di profano o sacro.
(Laura Fiocchi e Dionigi Vottero)

In questo primo passo dell’oratoria di Cicerone, ci troviamo già di fronte alla sua maturità stilistica. Infatti stiamo nell’Actio secunda, nell’incipit del quarto libro in cui il nostro descrive le ruberie di Verre in Sicilia. Egli vuole colpire i lettori non descrivendo i vari momenti dei ladrocini del proconsole, ma partendo ex abrupto per suscitare stupore: Verre non ha rubato opere in Sicilia, ma tutto ciò che era rubabile.

Dopo questo enorme successo che egli ricevette grazie alla sua capacità oratoria, Cicerone correva veramente il rischio di essere considerato come un antioligarca, capace di fustigare i senatori e di batterli, facendo finta di blandirli. Tale pericolo il nostro lo evitò con un’orazione deliberativa, la Pro lege Manilia, in cui si appoggiava la proposta del tribuno Manilio per far ottenere a Gaio Pompeo i pieni poteri sull’Oriente. Chiaramente appoggiando il grande generale egli difende la sua classe, gli equites, che si vedono minacciati dalla politica di Mitridate: è questa la posizione politica dell’arpinate, far blocco comune tra i senatori e gli equites, (concordia ordinum) contro le forze che egli reputava disgregratici per lo stato. 

L’aver capito che il pensiero di Cicerone non era demagogicamente popolare, ma legato ad interessi della classe degli equites che potevano anche coincidere con quelli dei senatori, aprì al nostro le porte del consolato. Il popolo, non ancora nato l’astro di Cesare, oberato da povertà e debiti, trovò in Catilina, nobile decaduto, l’uomo capace di rappresentarlo. Costui aveva già provato, con promesse demagogiche alla plebe, ad essere eletto senatore: nel 65 non poté presentarsi perché accusato de repetundis; l’anno successivo venne battuto da Cicerone; ripresentandosi ancora per la terza volta e promettendo la “remissione dei debiti”, fece in modo che tutto il mondo “possidente”, di terreni o di denaro, gli si mettesse contro. Capendo che non sarebbe mai riuscito ad ottenere legalmente il consolato, tramò per ottenerlo con un colpo di stato; ma pare che un’amante di un congiurato riferisse tutto a Cicerone (che l’abbia pagata lui?) che, Catilina presente, gli urlò, di fronte agi altri senatori:

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La congiura

CATILINARIAE: INCIPIT
(I, 1-2) 

Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra? Quam diu etiam furor iste tuus nos eludet? Quem ad finem sese effrenata iactabit audacia? Nihilne te nocturnum praesidium Palati, nihil urbis vigiliae, nihil timor populi, nihil concursus bonorum omnium, nihil hic munitissimus habendi senatus locus, nihil horum ora voltusque moverunt? Patere tua consilia non sentis? Constrictam iam horum omnium scientia teneri coniurationem tuam non vides? Quid proxima, quid superiore nocte egeris, ubi fuerit, quos convocaveris, quid consili ceperis, quem nostrum ignorare arbitraris? O tempora! o mores! Senatus haec intellegit, consul videt; hic tamen vivit. Vivit? Immo vero etiam in senatus venit, fit publici consili particeps, notat et designat oculis ad caedem unumquemque nostrum: nos autem, fortes viri, satis facere rei publicae videmur, si istius furorem ac tela vitamus. Ad mortem te, Catilina, duci iussu consulis iam pridem oportebat, in te conferri pestem, quam tu in nos omnis iam diu machinaris.

Fino a quando abuserai, Catilina, della nostra pazienza? per quanto tempo ancora codesta tua condotta temeraria riuscirà a sfuggirci? a quali oserà spingersi il tuo sfrenato ardire? Né il presidio notturno sul Palatino né le ronde per la città né il panico del popolo né l’opposizione unanime di tutti i cittadini onesti né il fatto che la seduta si tenga in questo edificio, il più sicuro, ti hanno sgomentato e neppure i volti, il contegno dei presenti? Le tue trame sono scoperte, non te ne accorgi? Non vedi che il tuo complotto è noto a tutti e ormai sotto controllo? Ciò che facesti la notte scorsa e la precedente, dove ti recasti, quali complici convocasti, quali decisioni prendesti, credi tu ci sia uno solo tra noi che non ne sia informato? Oh tempi! oh costumi! di tutto questo il senato è a conoscenza, al console non sfugge e tuttavia costui vive. Vive?! Che dico! si presenta in senato, partecipa alle sedute, prende nota di ciascuno di noi, lo designa con lo sguardo all’assassinio; e noi! i potenti!, riteniamo d’aver fatto abbastanza per la patria se riusciamo a sottrarci all’odio, ai pugnali di costui. A morte te, Catilina, da tempo si doveva condannare per ordine del console; su te doveva ricadere tutto il male che da tempo vai tramando a nostro danno.
(Lidia Storoni Mazzolani)

E’ questo uno dei passi più famosi di tutta l’oratoria ciceroniana: in essa, infatti, si può misurare da una parte la sua straordinaria bravura, dall’altra il suo altrettanto stupefacente formalismo attraverso cui “stupire”, con la sua veemenza verbale, il suo uditorio. Egli infatti procede qui con una serie d’incalzanti interrogative retoriche, in cui mostrare l’incredulità che, da una parte egli stesso, dall’altra lo stato, dovrebbe provare nel trovarsi di fronte ad un assassino. D’altra parte l’exordium in medias res era necessario per il console: il non aver prove certe di colpevolezza, se non le illazioni di un’amante di un possibile congiurato, non poteva che portarlo ad una tattica “aggressiva” che si risolve con l’uso insistito di domande retoriche e da un lessico fortemente icastico verso l’avversario.

Sempre nella prima oratio delle Catilinariae, troviamo, per la prima volta nella letteratura latina, una tecnica retorica che otterrà grande successo, la prosopopea (dare la parola ad un assente o ad un’entità personificata). Infatti qui a parlare è la patria stessa:

LA VOCE DELLA PATRIA
(I, 17)

Servi mehercule mei si me isto pacto metuerent, ut te metuunt omnes cives tui, domum meam relinquendam putarem; tu tibi urbem non arbitraris? et, si me meis civibus iniuria suspectum tam graviter atque offensum viderem, carere me aspectu civium quam infestis omnium oculis conspici mallem; tu cum conscientia scelerum tuorum agnoscas odium omnium iustum et iam diu tibi debitum, dubitas, quorum mentes sensusque voneras, eorum aspectum praesentiamque vitare? Si te parentes timerent atque odissent tui neque eos ulla ratione placare posses, ut opinor, ab eorum oculis aliquo concederes. Nunc te patria, quae communis est parens omnium nostrum, odit ac metuit et iam diu nihil te iudicat nisi de parricidio suo cogitare; huius tu neque auctoritatem verebere nec iudicium sequere nec vim pertimesces?

Se, per Ercole, i miei servi avessero tanta paura quanta tu ne incuti alla cittadinanza intera, riterrei inevitabile lasciare la mia casa. E tu non pensi di dover lasciare la città? Se poi mi accorgessi di essere, anche a torto, gravemente sospettato e disprezzato dai miei concittadini, preferirei sottrarmi alla loro vista piuttosto che essere oggetto di sguardi di disapprovazione. Tu, invece, che sei consapevole dei tuoi crimini e riconosci che l’odio di tutti è giusto e meritato da tempo, esiti a sottrarti alla vista, alla presenza di chi ferisci nella mente e nel cuore? Se i tuoi genitori provassero paura di te e ti odiassero, se tu non potessi in alcun modo riconciliarti con loro, scompariresti dalla loro vista, immagino. Ora a odiarti e ad aver paura di te è la patria, madre comune di tutti noi, e già da tempo ritiene che tu non mediti altro che la sua morte. E tu non rispetterai la sua autorità, non seguirai il suo giudizio, non avrai paura della sua forza?

E’ ancora nella prima orazione che si può cogliere il progetto “politico” in nuce di Cicerone:

IMPROBI E BONI
(1, 32.33)

Qua re secedant inprobi, secernant se a bonis, unum in locum congregentur, muro denique, quod saepe iam dixi, secernantur a nobis; desinant insidiari domi suae consuli, circumstare tribunal praetoris urbani, obsidere cum gladiis curiam, malleolos et faces ad inflammandam urbem comparare; sit denique inscriptum in fronte unius cuiusque, quid de re publica sentiat. Polliceor hoc vobis, patres conscripti, tantam in nobis consulibus fore diligentiam, tantam in vobis auctoritatem, tantam in equitibus Romanis virtutem, tantam in omnibus bonis consensionem, ut Catilinae profectione omnia patefacta, inlustrata, oppressa, vindicata esse videatis. Hisce ominibus, Catilina, cum summa rei publicae salute, cum tua peste ac pernicie cumque eorum exitio, qui se tecum omni scelere parricidioque iunxerunt, proficiscere ad impium bellum ac nefarium. Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperii vere nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac moenibus, a vita fortunisque civium arcebis et homines bonorum inimicos, hostis patriae, latrones Italiae scelerum foedere inter se ac nefaria societate coniunctos aeternis suppliciis vivos mortuosque mactabis.

Perciò se ne vadano i colpevoli! Si separino gli onesti! Si raccolgano in uno stesso luogo! Un muro, infine, li divida da noi, come ho detto più volte! Smettano di attentare alla vita del console nella sua casa, di accalcarsi intorno al palco del pretore urbano, di assediare, armi in pugno, la Curia, di preparare proiettili e torce per incendiare la città! Insomma, ciascuno porti scritta in fronte la sua idea politica! Questo vi prometto, padri coscritti: ci sarà tanto impegno in noi consoli, tanta autorità, in voi senatori, tanto valore nei cavalieri, tanta unanimità in tutti i cittadini onesti che, con la partenza di Catilina, vedrete ogni cosa svelata, messa in luce, repressa, punita. Con questi presagi, per la salvezza suprema dello Stato, perché tu e coloro che si sono legati a te in ogni crimine e omicidio andiate incontro alla morte più orrenda, parti per la tua guerra empia e nefasta! Tu, Giove, il cui culto fu istituito da Romolo con gli stessi auspici con cui fondò Roma, tu, che a ragione sei chiamato protettore di questa città e dell’impero, difendi da questo individuo e dai suoi complici i templi tuoi e degli altri dei, le case e le mura della città, la vita e le mura della città, la vita e i beni di tutti i cittadini! Punisci con supplizi eterni, nella vita e nella morte, questi uomini avversari degli onesti, nemici della patria, predoni dell’Italia, che un patto criminoso e una complicità di morte hanno legato insieme!

Si osservi come egli richiami “alle armi” gli oppositori catilinari: patres conscripti, cioè i senatores, consules, equites, boni cives. Sembra si riferisca solamente ai gruppi “di potere”, giustificando uno status quo che non ammette né spiegazioni né tentativi di risoluzione dei problemi. Nessuna parola per i proscritti sillani, niente per gli oberati dai tassi esorbitanti dell’usura: se hanno perso una guerra civile e/o politica, se non sono riusciti a risalire (non se nessuno ha dato loro la possibilità di farlo) la colpa è loro.

Nella seconda orazione, pronunciata di fronte al popolo, dopo la fuga di Catilina stesso, egli descrive la sua pericolosità e quella dei suoi seguaci; nella terza, sempre rivolta al popolo, egli descrive come entrato in possesso di lettere che dimostravano che i catilinari avessero cercato di coinvolgere gli Allobrogi, popolazione gallica non ancora pacificata,  nella congiura contro la res pubblica. Arrestati i congiurati, Cicerone chiede di esser definito “salvatore della patria”. Nella quarta, pur non esprimendosi direttamente, chiede ai senatori di dare ai catilinari la punizione che essi meritano. Verranno giustiziati.

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La morte di Catilina dipinto di Alcide Segoni

Tra la prima e la seconda orazione delle Catilinariae Cicerone pronuncia la Pro Murena, difendendo tale personaggio dall’accusa di corruzione elettorale. Essendo tale accusa mossa da un rigorista morale, Catone il Giovane, discendente del famosissimo Censore, con l’uso dell’ironia egli smonta il “purismo” dell’avversario, mostrando, attraverso l’ironia e scherzo e con uno stile lieve e brioso, come lo stato sia mosso da diverse esigenze, che contemperino sia i valori del mos maiorum sia l’esigenza del ben vivere .

Appartiene alle orazioni “consolari” (cioè quelle scritte durante il suo consolato) anche la Pro Archia poëta. Essa è estremamente importante perché, al di là del motivo per cui Cicerone assunse la difesa del poeta greco (chiedeva in cambio un poema in cui lo si gloriasse per aver salvato la res publica dall’attacco di Catilina, che il poeta non scrisse) contiene sia pure in “nuce” un vero e proprio elogio della cultura e più specificatamente della poesia:

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Aulo Licinio Archia in “Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli” edita a partire dal 1814 da Nicola Gervasi.

TUTTE LE ARTI HANNO QUALCOSA IN COMUNE
(Dal cap. 1, 2 )

Ac ne quis a nobis hoc ita dici forte miretur quod alia quaedam in hoc facultas sit ingeni neque haec dicendi ratio aut disciplina ne nos quidem huic uni studio penitus umquam dediti fuimus. Etenim omnes artes quae ad humanitatem pertinent habent quoddam commune vinclum et quasi cognatione quadam inter se continentur.

E – lo sottolineo perché nessuno si meravigli di quanto sto dicendo – è ben vero che il mio cliente (Archia) possiede una diversa disposizione d’ingegno ed è privo della pratica metodica dell’eloquenza: ma neppure io mi sono mai applicato esclusivamente a questo solo interesse. Infatti tutte le arti che riguardano la formazione culturale dell’uomo hanno in un certo qual modo un legame comune e sono tra loro unite, per così dire, da un vincolo di parentela.

In questo piccolo passo il nostro sottolinea, nel discorso generale rivolto ai giudici il principio della “cultura generale” che dev’essere posseduta dall’oratore, affinchè possa affrontare qualsiasi argomento debba affrontare: D’altra oparte così sottolinea, con quel plurale maiestatis “nos”, che anche lui ha coltivato sin da giovane età la poesia. Ma ancora la Pro Archia contiene un sincero elogio della poesia: 

IL POETA E’ PERVASO DA UN AFFLATO DIVINO
(dal cap. 8)

Quotiens ego hunc Archiam vidi, iudices, – utar enim vestra benignitate, quoniam me in hoc novo genere dicendi tam diligenter attenditis – quotiens ego hunc vidi, cum litteram scripsisset nullam, magnum numerum optimorum versuum de eis ipsis rebus quae tum agerentur dicere ex tempore, quotiens revocatum eandem rem dicere commutatis verbis atque sententiis! Quae vero accurate cogitateque scripsisset, ea sic vidi probari ut ad veterum scriptorum laudem pervenirent. Hunc ego non diligam, non admirer, non omni ratione defendendum putem? Atque sic a summis hominibus eruditissimisque accepimus, ceterarum rerum studia ex doctrina et praeceptis et arte constare, poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino quodam spiritu inflari. Qua re suo iure noster ille Ennius “sanctos” appellat poetas, quod quasi deorum aliquo dono atque munere commendati nobis esse videantur.

Quante volte io vidi questo Archia, o giudici, – approfitterò della vostra benevolenza, poiché tanto diligentemente mi prestate attenzione in questo nuovo genere di eloquenza – quante volte io lo vidi, sebbene non avesse scritto nemmeno una lettera, recitare un grande numero di ottimi versi su quegli stessi fatti che allora accadevano in quel momento, quante volte invitato a ripetere dire la stessa cosa con parole e pensieri diversi! Quelle cose che scrisse con meditazione e buona preparazione, le vidi così essere apprezzate da raggiungere la gloria degli antichi scrittori. Non lo dovrei amare, non ammirare, non dovrei credere che dev’essere difeso in ogni modo? Apprendiamo anche da sommi e sapientissimi uomini che gli studi delle altre discipline constino di dottrina, di precetti e di cognizioni, il poeta vale per la sua stessa natura ed è spinto dalla forza della mente ed è pervaso quasi da un certo spirito divino. Per questo a buon diritto quel nostro Ennio chiama i poeti “santi”, poiché sembra che ci siano affidati quasi come qualche dono e offerta.

L’importanza di questo brano è soprattutto nella fortuna che esso ebbe in moltissime epoche successive: definire, infatti, che il poeta ha in sé qualcosa di divino, oltre a darle un aspetto fortemente sacrale (il dio Apollo ispira il “soffio” divino nel petto degli oracoli, per poter profetizzare il futuro) ne disegna anche l’aspetto immortale. Ciò si può cogliere in due momenti:

  • Archia recita ex tempore un gran numero di ottimi versi (appunto come un dio che s’insinua nel petto di in vaticinante);
  • In seguito, Archia scrive con meditazione e passione ciò che aveva “recitato”, dando dunque forma “corporea” (pergamena) a ciò che prima era incorporeo (vox), assicurando così un destino imperituro.

Ed è per questo che, non ricevendo neanche da lui il sospirato poema sulla sua grande impresa, ci penserà da solo con il De consolatu meo, (composto intorno al 60 a.C.) ma, contrariamente alla sue aspettative si perderà come una delle opere “peggiori” di Cicerone, basterà ricordare l’incidit Cedant arma togae, concedant laurea laudi (Lascino il passo le armi alla toga, l’allori militari alla lode del dire), riportato dallo stesso Cicerone nel De officiis.

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Crasso, Cesare, Pompeo

In seguito, con la formazione del primo triumvirato, nel 60 tra Cesare, Pompeo e Crasso, Cicerone si vede “scavalcato” dall’intraprendenza dei tre privati cittadini. Inoltre, nel 58 un certo Clodio, rappresentante dei popolari e nemico per motivi personali dell’oratore, propone una legge in cui, per coloro che avessero promulgato la morte di cittadini senza un regolare processo, vengano mandati in esilio. E’ evidente che si tratta di una lex ad personam, che tuttavia ebbe il suo effetto se Cicerone fu costretto ad allontanarsi dalla città per un intero anno. Al ritorno dell’oratore, Roma era completamente nell’anarchia più completa in cui si fronteggiavano e s’intersecavano interessi privati mescolati con quelli politici. A farla da padrona sono due “campioni” scelti dai contendenti: come già detto Clodio, per i populares, Milone, per gli optimates.

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Publio Clodio Pulcher

Le orazioni ciceroniane di questo periodo vedono il nostro difendere persone attaccate dal suo grande nemico Clodio: il primo di queste è Sesto, accusato di atti di violenza. Infatti, l’orazione Pro Sestio, assume un’enorme importanza sul piano politico: infatti qui, alla luce della situazione creatasi, il nostro supera il concetto già espresso nella Pro Manilia della concordia ordinum per passare a quella più vasta della consensio omnium bonorum, cioè di un progressivo allargamento verso tutti coloro che vedevano in pericolo le sorti della repubblica:

LA RAZZA DEI MIGLIORI
(96/98)

Nimium hoc illud est quod de me potissimum tu in accusatione quaesisti, quae esset nostra ‘natio optimatium’; sic enim dixisti. rem quaeris praeclaram iuventuti ad discendum nec mihi difficilem ad perdocendum; de qua pauca, iudices, dicam, et, ut arbitror, nec ab utilitate eorum qui audient, nec ab officio vestro, nec ab ipsa causa P. Sesti abhorrebit oratio mea. Duo genera semper in hac civitate fuerunt eorum qui versari in re publica atque in ea se excellentius gerere studuerunt; quibus ex generibus alteri se popularis, alteri optimates et haberi et esse voluerunt. qui ea quae faciebant quaeque dicebant multitudini iucunda volebant esse, populares, qui autem ita se gerebant ut sua consilia optimo cuique probarent, optimates habebantur.
Quis ergo iste optimus quisque? numero, si quaeris, innumerabiles, neque enim aliter stare possemus; sunt principes consili publici, sunt qui eorum sectam sequuntur, sunt maximorum ordinum homines, quibus patet curia, sunt municipales rusticique Romani, sunt negoti gerentes, sunt etiam libertini optimates. numerus, ut dixi, huius generis late et varie diffusus est; sed genus universum, ut tollatur error, brevi circumscribi et definiri potest. omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt nec natura improbi nec furiosi nec malis domesticis impediti. esto igitur ut ii sint, quam tu ‘nationem’ appellasti, qui et integri sunt et sani et bene de rebus domesticis constituti. Horum qui voluntati, commodis, opinionibus in gubernanda re publica serviunt, defensores optimatium ipsique optimates gravissimi et clarissimi cives numerantur et principes civitatis.
Quid est igitur propositum his rei publicae gubernatoribus quod intueri et quo cursum suum derigere debeant? id quod est praestantissimum maximeque optabile omnibus sanis et bonis et beatis, cum dignitate otium. hoc qui volunt, omnes optimates, qui efficiunt, summi viri et conservatores civitatis putantur; neque enim rerum gerendarum dignitate homines ecferri ita convenit ut otio non prospiciant, neque ullum amplexari otium quod abhorreat a dignitate. Huius autem otiosae dignitatis haec fundamenta sunt, haec membra, quae tuenda principibus et vel capitis periculo defendenda sunt: religiones, auspicia, potestates magistratuum, senatus auctoritas, leges, mos maiorum, iudicia, iuris dictio, fides, provinciae, socii, imperi laus, res militaris, aerarium.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è campitelli_-_campidoglio_tabularium_-_lacus_curtius_1020814_-_cropped-1.jpgCavaliere romano con armatura (Musei capitolini)

Davvero sorprendente codesta “razza degli ottimati” (così tu stesso hai detto), della quale con particolare insistenza, nella tua accusa, mi hai chiesto che cosa sia! Tu mi chiedi una cosa che è preziosa a sapersi per i giovani, facile per me a spiegare. Brevi parole dirò a riguardo dunque, o giudici: e credo che non saranno fuori luogo, né pel vantaggio di chi ascolta, né per l’ufficio vostro, né per la causa di Sestio. Sempre in Roma ci furono due categorie di persone, fra coloro che si son dati alla vita politica con il proposito di condurvisi nel modo migliore: l’una fu, e volle essere qualificata popolare; l’altra, degli ottimati. Popolari, quelli che attuavano predicavano cose che sapevano gradite alla moltitudine; ottimati, quelli che agivano in modo da provocare sulla propria condotta l’approvazione dei cittadini migliori.
Ma chi sono questi cittadini migliori? Sono, se vuoi saperlo, innumerevoli (senza di che non ci reggeremo in piedi): sono i più autorevoli membri del senato, son coloro che ne seguono l’indirizzo, coloro che appartengono agli ordini maggiori e ai quali è aperto l’accesso alla curia; abbondano tra i cittadini romani dei municipi e delle campagne, tra gli uomini di affari, tra i figli stessi dei liberti. Per la quantità, come dissi, dei suoi appartenenti, questa categoria è ampia e diffusa; qualitativamente, per togliere di mezzo ogni equivoco, può essere rapidamente circoscritta e definita. Sono ottimati tutti coloro che non fanno del male, che non sono per natura disonesti o squilibrati, né impacciati da domestiche difficoltà. Son questi, dunque, coloro che formano quella che tu chiamasti “una razza”; uomini integri, moralmente sani, di benestante famiglia. E coloro che nel governo dello stato secondano la volontà, gli interessi e le opinioni di quelli fautori degli ottimati e ottimati essi stessi, sono considerati fra i cittadini più autorevoli e illustri, e come i maggiorenti della città.
Qual è il fine a cui devono tendere i reggitori della cosa pubblica, qual è l’indirizzo del loro cammino? È quello che appare il più nobile, il più desiderabile per ogni uomo di buon senso, probo, fortunato: una vita tranquilla e dignitosa. Quanti vogliono ciò, sono da considerarsi ottimati; quanti lo realizzano, uomini di primo piano e protettori della città. Non conviene, infatti, esser trascinati, nel gestire gli affari, da un senso tale dell’autorità propria che escluda la quiete dello spirito, né aggrapparsi a un amor di quiete siffatto che ripugni alla dignità.Di questa dignità serena, ecco le fondamenta, ecco gli elementi costitutivi, che le persone più elevate debbono difendere anche con il rischio della vita: i principi religiosi, gli auspici, la funzione dei magistrati, l’autorità del senato, le leggi, la tradizione, i tribunali, la giustizia, la fedeltà agli impegni, le province, gli alleati, il prestigio nazionale, l’esercito, l’erario.

Questo atteggiamento teso ad allargare il consenso a tutti i cittadini di buona volontà, fa sì che egli, tuttavia, assuma posizioni tra loro contrastanti: tra il 57 e il 53 pronunciò una serie di orazioni che se in parte attaccavano Clodio e i suoi amici, dall’altra difendevano i triumviri appoggiando le loro scelte: così In Pisonem arriva ad attaccare il suocero di Cesare, nella De provinciis consularibus o nella Pro Balbo, ad esempio, difende i triumviri e gli amici dello stesso Cesare.

Ma l’orazione più importante, e per alcuni la più briosa, fra queste è la Pro Caelio (56 a.C.): Celio era un bel giovane, affidato per l’educazione dal ricco padre provinciale alle cure di Cicerone. Affascinante e ambizioso era diventato un vero e proprio oggetto del desiderio per le aristocratiche matrone del tempo. Fra queste la famosa Clodia (la Lesbia cantata da Catullo) che lo accusa di aver tentato di avvelenarla. Su questo si basa la difesa di Cicerone. Ma noi sappiamo ben altro: le ambizioni di costui lo avevano avvicinato a suo tempo a Catilina; aveva poi tentato, grazie proprio alla protezione che egli vantava, di farsi spazio nella politica, senza tuttavia riuscirvi. Ma questa orazione è apparsa ai più importante perché qui Cicerone espone un vero e proprio “trattato” pedagogico sulla educazione dei giovani in questo tempo. Egli si dimostra molto favorevole ai divertimenti giovanili, purché, poi, non perdano di vista il fine ultimo, che è l’onore e la virtus. Non si tratta di abbandonare il mos maiorum ma di “sperimentare la vita” per poi, in età adulta, tornare ad esso.

L’AMANTE DI CATULLO?
(XLIX)

Si quae non nupta mulier domum suam patefecerit omnium cupiditati palamque sese in meretricia vita conlocarit, virorum alienissimorum conviviis uti instituerit, si hoc in urbe, si in ortis, si in Baiarum illa celebritate faciat, si denique ita sese gerat non incessu solum, sed ornatu atque comitatu, non flagrantia oculorum, non libertate sermonum, sed etiam compluxu, osculatione, actis, navigatione, conviviis, ut non solum meretrix, sed etiam proterva meretrix procaxque videatur: cum hac si qui adulescens forte fuerit, utrum hic tibi, L. Herenni, adulter an amator, expugnare pudicitiam an explere libidinem voluisse videatur?

Se questa donna non sposata avesse aperto la sua casa alla passione di tutti, se si fosse posta apertamente a una vita da puttana, se avesse stabilito di frequentare banchetti di uomini assai sconvenienti, se facesse ciò nella città, nei giardini, nella folla di Baia, se infine si comportasse così non solo nel portamento ma anche nell’abbigliamento e nella compagnia, non solo nel trucco, nella libertà di parola, ma nei baci, nei gesti, nei viaggi in mare, nei banchetti, così da sembrare non solo una puttana ma anche una puttana sfrontata e insolente, se qualche giovane per caso fosse stato con questa, questo (giovane), Lucio Erennio, ti sembrerebbe adultero o amatore che abbia voluto espugnare la pudicizia (della donna) o saziare una passione?

La descrizione di questa donna, pur non rivolgendosi direttamente Clodia, fa sì che i giudici possano identificarla con lei. Ma dipingerla in così forti tinte vuole colpire, soprattutto suo fratello e la sua famiglia, il famigerato Clodio. Ma non lo distrugge lui. Ci pensa il suo avversario, Milone, uccidendolo.

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La prostituzione a Roma

La Pro Milone, scritta proprio per difendere il campione degli optimates, è certamente uno dei capolavori ciceroniani. Ma non si tratta dell’orazione da lui pronunciata e poi riscritta. Egli non è proprio riuscito a sviscerare la sua capacità oratoria. Gli eventi non lo hanno permesso. Infatti quest’orazione è scritta proprio post eventum e si basa sulla teoria della legittima difesa e della liceità del tirannicidio.

Allo scoppio della guerra civile Cicerone aderisce con entusiasmo alla causa di Pompeo, ma dopo la vittoria di Cesare, è da quest’ultimo perdonato. Conduce al foro alcune cause di pompeiani pentiti, come la Pro Marcello, la quale, oltre alla difesa dell’uomo, tenta di mostrare a Cesare un programma che, pur riformato, rispetti le forme della res publica. Probabilmente Cicerone ci spera ancora, ma il suo progetto politico fa acqua da tutte le parti.

Ciò si dimostra quando, dopo l’uccisione di Cesare, lui torna con gioia e prepotenza, alla vita politica. I pericoli per la repubblica sono ora più vivi che mai: lo dimostra Antonio, che con la legge sulla permutatio provinciarum tenta di controllare e farsi padrone di Roma. Cicerone, con tutte le forze in corpo, lo accusa con estrema violenza nelle Philippicae:

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Busto di Marco Antonio

QUELL’UBRIACONE DI ANTONIO
(II, 63)

Sed haec, quae robustioris improbitatis sunt, omittamus; loquamur potius de nequissimo genere levitatis. Tu istis faucibus, istis lateribus, ista gladiatoria totius corporis firmitate tantum vini in Hippiae nuptiis exhauseras, ut tibi necesse esset in populi Romani conspectu vomere postridie. O rem non modo visu foedam, sed etiam auditu! Si inter cenam in ipsis tuis immanibus illis poculis hoc tibi accidisset, quis non turpe duceret? In coetu vero populi Romani negotium publicum gerens, magister equitum, cui ructare turpe esset, is vomens frustis esculentis vinum redolentibus gremium suum et totum tribunal inplevit! Sed haec ipse fatetur esse in suis sordibus; veniamus ad splendidiora.

Ma lasciamo da parte azioni come queste che sia pure nel male esprimono una certa energia. Parliamo piuttosto di qualcosa che rileva una depravazione della peggiore specie. Con una gola ampia come la tua, un petto così vasto, una corporatura così soda da sembrare un gladiatore tu alle nozze di Ippia avevi tracannato così tanto di vino, che il giorno dopo sei stato costretto a vomitare in pubblico, mentre parlavi al popolo romano. Scena stomachevole non solo a vedersi, ma anche a sentirsi. Chi non l’avrebbe trovata disgustosa, anche se ti fosse accaduto a tavola, fra quelle smisurate coppe che tu usi? Ma no è stato in un adunanza del popolo romano, mentre trattava di pubblici affari che il nostro comandante di cavalleria, cui il ruttare sarebbe già vergogna, ha dato di stomaco imbrattando di cibo puzzolente di vino la propria toga e il palco tutt’intorno. Ma riconosce lui stesso come una delle sue sozzure; passiamo allora alle azioni che costituiscono il suo vanto.

Basta questo brano per far sì che Cicerone mostri, con un sarcasmo straordinariamente cattivo, l’odio verso Antonio. La sproporzione che Cicerone usa tra la stazza fisica del personaggio e il modo in cui si comporta crea un contrasto che spinge il pubblico ad una vera e propria riprovazione per il personaggio, che appunto Cicerone dichiarerà “nemico della Patria”.

Questo è un passo della seconda orazione, la più dura: infatti le Philippicae sono composte da otto orazioni, pronunciate di fronte al Senato e di fronte al popolo tra il 44 ed il 43. Per tali orazioni Antonio chiederà la testa dell’avvocato arpinate.

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La morte di Cicerone

Opere retoriche

Le opere retoriche sono state scritte tutte, ad eccezione del De inventione, dopo l’esilio ad indicare, nel periodo in cui vive, una forte necessità d’intervento. Infatti esse, al contrario della Rhetorica ad Erennium, vogliono dare, pur nella loro specificità, una vera e propria risposta politica. Esse sono: De inventione, De oratore, Orator, Brutus, De optimo genere oratorum, Topica.

De invenzione è un’opera giovanile di Cicerone, in cui egli riversa gli insegnamenti che i suoi magistri nell’ars dicendi gli avevano impartito arrivato a Roma: si tratta di Marco Antonio (nonno del politico del secondo triumvirato) e di Lucio Licinio Crasso.

De oratore: l’opera viene composta durante il difficile periodo in cui Roma era percorsa dalle bande armate di Clodio e Milone, ed è ambientata nel periodo della sua giovinezza, che egli disegna in modo nostalgico, perché le ricorda la concordia prima dello scoppio delle guerre civili. La prima grande novità di Cicerone è quella di far uscire la retorica dallo stretto ambito “tecnico” e di farla aderire, almeno stilisticamente (ma non solo) alla struttura dialogica di tipo filosofico. Infatti si tratta di mettere a confronto posizioni differenti: Marco Antonio e Lucio Licino Crasso, uomo politico protagonista dell’età precedente. Le posizioni che si confrontano sono quelle che si riferiscono da una parte alla profonda preparazione culturale che deve possedere un oratore, dall’altra la disposizione naturale alla parola. Per Antonio, infatti, l’essere oratore è frutto di una “disposizione naturale”, rafforzata dalla capacità tecnica nell’uso della parola; per Crasso, invece, portavoce di Cicerone, è soprattutto la conoscenza di filosofia morale che deve sostenere un buon oratore: infatti non può bastare la sua capacità retorica per sostenere pro o contra un argomento che, invece, può avere gravi ripercussioni politiche, se lo stesso oratore non sia dotato di una buona conoscenza che stia a fondamento della sua probitas e prudentia, altrimenti si cadrebbe nella pericolosa demagogia.

Si veda in questo brano quale grande importanza dia Cicerone alla cultura, alla parola:

IL PRIMATO DELLA PAROLA
(1, 30-32)

Neque vero mihi quicquam praestabilius videtur, quam posse dicendo tenere hominum mentis, adlicere voluntates, impellere quo velit, unde autem velit deducere (…) (Quid enim est) Aut tam potens tamque magnificum, quam populi motus, iudicum religiones, senatus gravitatem unius oratione converti?  Quid tam porro regium, tam liberale, tam munificum, quam opem ferre supplicibus, excitare adflictos, dare salutem, liberare periculis, retinere homines in civitate? Quid autem tam necessarium, quam tenere semper arma, quibus vel tectus ipse esse possis vel provocare integer vel te ulcisci lacessitus? (…) Hoc enim uno praestamus vel maxime feris, quod conloquimur inter nos et quod exprimere dicendo sensa possumus.

Nulla a mio parere è più insigne della capacità di avvincere con la parola l’attenzione degli uomini, guadagnarne il consenso, spingerli a piacimento dovunque e dovunque a piacimento distoglierli (….).  (Che cosa)  ancora oppure  di così possente e tanto splendido quanto il fatto che il discorso di un solo uomo riesca a modificare le passioni del popolo, gli scrupoli dei giudici, l’inflessibilità del senato? Che cosa c’è inoltre di altrettanto regale, nobile, generoso del prestare soccorso ai supplici, del risollevare gli afflitti, del salvare  delle vite, dell’affrancare dai pericoli, del sottrarre all’esilio i concittadini? E che c’è di altrettanto indispensabile del disporre costantemente di armi con cui poter proteggersi, o sfidare i malvagi o vendicarsi se provocati? (…) Perché proprio per questa ragione noi siamo incomparabilmente superiori alle bestie: in quanto discorriamo tra di noi e possiamo esprimere a parole i nostri pensieri.
(M. Martina, M. Ogrin, I. Torzi, G. Gettuzzi)
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Un oratore

Un’altra opera importante è certamente il Brutus, del 46 (in cui appare come protagonista insieme a Marco Bruto, che rappresenta le ragioni dell’atticismo e al suo amico Attico). L’opera nasce dopo le polemiche che il De Oratore aveva suscitato: infatti alcuni criticavano Cicerone perché lo ritenevano eccessivo, ricercato, come appunto la scuola asiana, contro cui loro, da atticisti, si oppongono. Cicerone risponde dapprima mostrando una conoscenza vasta e approfondita dell’arte retorica, descrivendone la storia da quella greca ad Ortalo e a lui stesso, quindi analizza gli stili oratori presenti a Roma: 

  • Atticismo: a questa scuola si rifacevano tutti coloro che ricercavano uno stile semplice e puro, lontano dall’artificiosità: in un’altra parola uno stile che faceva prevalere i fatti rispetto al modo di presentarli;
  • Asianesimo: stile ricco e artificioso, pieno di parole ricercate e figure di suono, che alla fine si compiaceva troppo di se stessa, si ascoltava prima d’essere ascoltata.

Cicerone, che si considera il vertice dell’eloquenza, rifiuta e non rifiuta ambedue: la prima gli sembra assolutamente priva di verve, piatta, che poteva esercitare un certo effetto, nel momento in cui veniva pronunciata, ma non certo adatta per essere conservata al fine di farne un’opera letteraria; la seconda era troppo tesa a piacere, a riflettere se stessa, a ricercare l’effetto, facendo quasi perdere il ruolo, come abbiamo visto precedentemente, della probitas dell’oratore. Egli pertanto si fa fautore di un terzo stile:

  • Rodiese: lo definisce così perché appreso a Rodi, nel suo viaggio d’istruzione in Grecia. In esso convergono i primi due. Consapevole che l’oratoria ha fra i suoi compiti quello di portare la verità, ma anche quello della piacevolezza dell’essere ascoltata, egli abbandona gli eccessi degli attici e degli asiani, cercando una via tra l’uno e l’altro ed utilizzandoli in modo vario all’interno di una stessa orazione o tra orazioni diverse (anche se non accetta la piattezza asiana) a seconda del fine che vuole ottenere. Inoltre per Cicerone l’ oratoria che deve anche essere consapevole della suo essere opera letteraria.

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L’Orator, contemporanea al Brutus, è un trattato in forma di epistola. Nel proemio sottolinea l’importanza della filosofia: 

LA NECESSITA’ DELLA FILOSOFIA
(14-16) 

Positum sit igitur in primis, quod post magis intellegetur, sine philosophia non posse effici quem quaerimus eloquentem, non ut in ea tamen omnia sint, sed ut sic adiuvet ut palaestra histrionem; parva enim magnis saepe rectissime conferuntur. Nam nec latius atque copiosius de magnis variisque rebus sine philosophia potest quisquam dicere.

Innanzi tutto sia stabilito, come si capirà maggiormente dopo, che senza la filosofia non può formarsi quell’uomo eloquente (il perfetto oratore) che cerchiamo, non perché in essa, tuttavia, ci sia ogni cosa, ma perché giovi (all’oratore) così come la ginnastica (giova) al danzatore; infatti le piccole cose spesso sono paragonate in modo assai conveniente alle grandi. Infatti nessuno può parlare in modo molto vasto e abbondante su vari e importanti argomenti senza filosofia.

quindi riprende gli stessi temi del De Oratore, in modo più agile. Sottolineando i fini cui si deve dedicare un oratore, Cicerone li individua nel probare (prospettare tesi con argomenti validi), delectare (produrre una piacevole attenzione) e flectere (muovere attenzione):

PROBARE, DELECTARE, FLECTERE
(69-70)

Erit igitur eloquens is qui in foro causisque civilibus ita dicet, ut probet, ut delectet, ut flectat. Probare necessitatis est, delectare suavitatis, flectere victoriae: nam id unum ex omnibus ad obtinendas causas potest plurimum. Sed quot officia oratoris, tot sunt genera dicendi: subtile in probando, modicum in delectando, vehemens in flectendo; in quo uno vis omnis oratoris est. Magni igitur iudici, summae etiam facultatis esse debebit moderator ille et quasi temperator huius tripertitae varietatis; nam et iudicabit quid cuique opus sit et poterit quocumque modo postulabit causa dicere. Sed est eloquentiae sicut reliquarum rerum fundamentum sapientia. Ut enim in vita sic in oratione nihil est difficilius quam quid deceat videre. Πρέπον appellant hoc Graeci, noi dicamus sane decorum. De quo praeclare  et multa praecipiuntur et res est cognitione dignissima. Huius ignoratione non modo in vita sed saepissime et in poematis et in oratione peccatur.

Sarà dunque oratore perfetto – è questo infatti ciò che noi ricerchiamo sulla traccia di Antonio – colui che saprà, tanto nei discorsi del foro quanto in quelli dei tribunali, dimostrare, dilettare, commuovere. Il dimostrare è richiesto dalla necessità, il dilettare dal piacere, il commuovere dall’esigenza del successo: questa infatti è la cosa più importante tra tutte per vincere la causa. Quanti sono i compiti dell’oratore, tante saranno le sue maniere di parlare: egli sarà acuto nel dimostrare, moderato nel dilettare, travolgente nel commuovere: è qui veramente che si rivela tutta la potenza dell’oratore. Dovrà essere di acuto giudizio e di grande abilità pratica colui che vorrà dominare e, per così dire, contemperare una tale triplice varietà: dovrà essere in grado di valutare ciò che occorrerà in ciascuna occasione e parlare nel modo richiesto dalla causa. Ma il fondamento dell’eloquenza, così come di ogni altra attività umana, resta sempre il buon senso. In un discorso, come in ogni circostanza della vita, non c’è nulla di più difficile che saper vedere la cosa che si addice. I Greci chiamano ciò Πρέπον, noi potremo chiamarlo “decorum”. Su di esso vengono dati molti e brillanti precetti; e veramente si tratta di una cosa assai degna di essere conosciuta, per la cui ignoranza si commettono degli errori non solo nella vita, ma molto spesso anche in opere di poesia e di prosa.

Ad ogni compito Cicerone assegna uno stile (genus dicendi): subtile (chiaro e semplice) nel probare; modicum (medio) nel delectare; vehemens (alto ed energico) nel flectere.

Un’altro scritto è il De optimo genere oratorum che, più che essere un vero e proprio trattato organico, voleva essere l’introduzione di sue traduzioni di due orazioni greche contrapposte tra loro in uno stesso processo, attraverso le quali voleva mostrare l’ottimo stile. Non sappiamo, in quanto non ci sono pervenute, se tali opere le abbia pubblicate o no.

Topica: operetta scritta nel 44 in cui Cicerone descrive i topoi cui gli oratori possono attingere.

Opere politiche 

E’ difficile separare, nella cospicua messe delle opere ciceroniane, i temi toccati, in quanto essi passano da un testo all’altro, confluendo così in tutti i generi toccati, come le orazioni, le retoriche e le filosofiche. Questo è soprattutto evidente nelle due opere cosiddette politiche, il De re publica e il De legibus.

La prima si rifà esplicitamente, sin dal titolo, all’omonima opera di Platone, (Πολιτεία) anche se, al confronto con il filosofo greco, egli non si lancerà verso l’idea di una repubblica, ma l’ancorerà, viceversa, alla realtà del passato, il tempo di Scipione Emiliano. Come il De oratore, scritto più o meno contemporaneamente, il De re publica è un’opera dialogica tra cui i maggiori protagonisti sono il grande uomo politico del II secolo e Gaio Lelio. Non è possibile tuttavia ricostruire con esattezza il suo percorso, perché l’opera ci si presenta in modo estremamente frammentario. Curiosa, infatti, è la sua trasmissione: l’ultima parte dell’opera il Somnium Scipionis ci è giunta, vista la sua “venatura” religiosa, in modo separato ed integro sin dal Medioevo. Viceversa parte della prima è stata riscoperta in un palinsesto dal cardinale Angelo Mai all’inizio del XIX secolo, da meritarsi, per questo, una famosa canzone di Giacomo Leopardi.

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Angelo Mai

Vediamo i tre tipi di stato:

I TRE TIPI DI STATO
(I, 42)

Deinde (consilium) aut uni tribuendum est, aut delectis quibusdam, aut suscipiendum est multitudini atque omnibus. Quare cum penes unum est omnium summa rerum, regem illum unum vocamus, et regnum eius rei publicae statum. Cum autem est penes delectos, tum illa civitas optimatium arbitrio regi dicitur. Illa autem est civitas popularis – sic enim appellant -, in qua in populo sunt omnia. Atque horum trium generum quodvis, si teneat illud vinculum quod primum homines inter se rei publicae societate devinxit, non perfectum illud quidem neque mea sententia optimum, sed tolerabile tamen, et aliud ut alio possit esse praestantius. Nam vel rex aequus ac sapiens, vel delecti ac principes cives, vel ipse populus, quamquam id est minime probandum, tamen nullis interiectis iniquitatibus aut cupiditatibus posse videtur aliquo esse non incerto statu.

Il governo dev’essere quindi affidato o ad uno solo o ad una scelta di cittadini o a tutta la moltitudine: per cui, quando tutto il potere si riassume in un uomo solo, quell’unico governante noi chiamiamo “re” e chiamiamo “regno” il suo Stato. Quando, invece, ci sia una scelta di governanti, allora si dice che quello è retto da un’aristocrazia. Ed è, infine, uno Stato democratico – come si suol dire – quello in cui tutto il potere è nelle mani del popolo. E ognuna di questi tre generi di costituzione, purché sappia mantenere il vincolo che primo riunì gli uomini in una società politica, per quanto imperfetto esso genere sia e mai del tutto buono a mio parere, può esser tuttavia tollerabile; e, a seconda dei tempi, una di queste costituzioni può anche essere preferibile ad un’altra. Si tratti d’un re giusto e saggio d’una oligarchia o dello stesso popolo (benché di quest’ultimo ci sia da fidarsi meno che d’ogni altro), purché non ci siano né ingiustizie né passioni, lo Stato può sempre continuare a reggersi.

Questi tre tipi di Stato possono modificarsi negativamente:

  • Monarchia     →         degenerazione             →       tirannia
  • Aristocrazia   →        degenerazione              →       oligarchia/plutocrazia
  • Democrazia   →         degenerazione             →       anarchia/oclocrazia

La grandezza dello Stato Romano (ed è chiaro che qui Cicerone si richiami al passato, riprendendo una teoria di Polibio, ma riprenda altresì l’età presente ed il modo di uscire dalla crisi politica) sta nell’aver contemperato le tre forme:

  • Monarchia       →        uguale                      →        consolato
  • Aristocrazia    →        uguale                       →        senato
  • Democrazia     →        uguale                      →        comizi

Infatti egli, pur dichiarando la “unicità” e la “perfezione” del modello romano, mostra palese fastidio per la “democrazia” e adombra la figura di un princeps, come primus inter pares nella classe oligarchica. Non essendo ancora in uso tale termine per indicare il capo dello Stato se non nell’età augustea, essa sembrerebbe piuttosto adombrare alla sua figura, capace di aggregare i boni della repubblica romana.

Come è stato detto prima, grande importanza ha l’ultima parte dell’opera, arrivataci con il nome di Somnium Sciopionis. Infatti in questa parte si narra del sogno di Scipione Emiliano che, giunto all’Ade, conosce dal nonno Scipione l’Africano e dal padre per via elettiva Lucio Emilio Paolo, la futura potenza di Roma grazie alla conquista definitiva di Cartagine. Ma, ancor più, egli chiede quale sarà il futuro per le anime che tanto hanno fatto per la gloria della città:

LA VIA LATTEA
(VI, 16)

“Sed sic, Scipio, ut avus hic tuus, ut ego, qui te genui, iustitiam cole et pietatem, quae cum magna in parentibus et propinquis, tum in patria maxima est. Ea vita via est in caelum et in hunc coetum eorum, qui iam vixerunt et corpore laxati illum incolunt locum, quem vides – erat autem is splendidissimo candore inter flammas circus elucens -, quem vos, ut a Graiis accepistis, orbem lacteum nuncupatis”. Ex quo omnia mihi contemplanti praeclara cetera et mirabilia videbantur. Erant autem eae stellae, quas numquam ex hoc loco vidimus, et eae magnitudines omnium, quas esse numquam suspicati sumus, ex quibus erat ea minima, quae, ultima a caelo, citima a terris, luce lucebat aliena. Stellarum autem globi terrae magnitudinem facile vincebant. Iam ipsa terra ita mihi parva visa est, ut me imperii nostri, quo quasi punctum eius attingimus, paeniteret.

Ma allo stesso modo, Scipione, sull’esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» – si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l’universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C’erano, tra l’altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l’astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.

E’ questa una delle pagine giustamente più famose dell’opera ciceroniana, soprattutto per gli echi che essa ha avuto nell’ideologia cristiana (non è un caso, infatti, che essa sia stata l’unica trasmessa in età medievale): infatti i “giusti” per la patria abiteranno in cielo. Se ne deduce, pertanto, che gli “ingiusti” abiteranno sotto terra: cosa c’è di diverso nell’Inferno e nel Paradiso dantesco?

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L’Universo, con al centro la Terra, sorretto dai giganti, in un codice dei Commentarii in Somnium Scipionis di Macrobio

L’altra grande opera ciceroniana di contenuto politico è il De legibus, modellata anch’esso nel titolo all’omonima opera di Platone (Νόμοι),  giuntaci non completa. Si struttura come la precedente in un dialogo, che tuttavia si svolge nella sua età contemporanea: uno dei protagonisti, pertanto, è proprio lui. Qui il nostro espone la teoria, d’origine stoica, che le leggi sono innate nell’uomo e pertanto esistono nella mente degli uomini prima della regione. Se ne deduce che la loro origine è divina (idea stoica).

Opere filosofiche

Cicerone s’interessa di filosofia quando ormai la sua capacità politica non riesce più a incidere all’interno della società. Ciò non vuol dire che essa si situi in un ambito completamente estraneo alla situazione romana in cui vigeva la “dittatura cesariana”, ma interviene su essa cercando di capire e d’individuare le virtutes che dovevano appartenere a quelli che egli chiamava i boni. Ma non bisogna dimenticare che all’avvicinamento ad una meditazione e quindi ad una produzione filosofica contribuì anche la morte dell’amatissima figlia Tulliola e il conseguente divorzio dalla giovane e sposata da poco Terenzia. Si può dire pertanto che queste opere abbiano una duplice funzione:

  • meditazione sulla realtà e quali prospettive ora essa gli riserva;
  • consolazione per una duplice morte: la sua di grande oratore e protagonista della vita politica e quella della perdita dei familiari.

In che modo Cicerone si approccia al metodo filosofico? Da quanto detto egli si astiene dalla formulazione di una teoria propria ed esclusiva, condotta con forza e vis polemica, ma, con buona capacità, egli abbraccia tutte le scuole e con un metodo cortese e non alieno dalla dialettica le confronta trovando in ciascuna di esse una “verità” e un “insegnamento” per l’uomo. Questo tipo d’approccio prenderà il nome di “eclettismo”, intendendo con esso una vera e propria apertura e tolleranza verso le scuole greche che egli conosce perfettamente. Tale tolleranza e il conseguente metodo espositivo, piano, chiaro e certamente “elegante” (mi verrebbe da dire del migliore Cicerone oratore) ci dice a quale pubblico egli si rivolse: al romano colto, ma non esperto di filosofia greca. Tutto questo, chiaramente, ci riporta al punto iniziale: il nuovo civis all’interno della nuova e ormai perduta res publica.

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Minerva, simbolo della sapienza, con la civetta in mano che rappresenta la filosofia

La prima opera filosofica ciceroniana è i Paradoxa stoicorum, “lusus“, come dice Cicerone, del 46 in cui cerca di rendere plausibili sei affermazioni stoiche che sembrano andare contro il senso comune: tale opera venne esclusa dal computo di opere filosofiche ciceroniane in quanto lo stesso non la citò nell’elenco di tali opere nel De divinatione.

Contemporanea ad essa ma purtroppo perduta e la Consolatio per la morte della figlia perduta. Frammentaria ma certamente importante è l’Hortensius, di cui possediamo qualche frammento conservatoci da Sant’Agostino che afferma avvicinarsi alla filosofia grazie a quest’opera.

Incompleta è anche l’opera in cui l’arpinate affronta il problema gnoseologico (della conoscenza) che affronta con gli Academica che si dividono in due parti: i Priora, in due libri, ed i Posteriora in quattro (giuntici frammentari). Qui, anche in ottemperanza al suo “eclettismo” egli si richiama alla teoria del probabilismo, che non accetta proposizioni certe, ma opinioni più o meno plausibili, probabili e verosimili. Ma già da ciò notiamo, nella filosofia ciceroniana una forte posizione antidogmatica.

Il problema filosofico etico Cicerone lo affronta in due opere, considerate veri e propri capolavori. Si tratta del De finis bonorum et malorum, e delle Tusculanae disputationes composte ambedue nel 45 a.C. circa.

Nella prima, il cui titolo nella nostra lingua corrisponde a “I termini estremi del bene e del male”, composto in cinque libri, il nostro, attraverso la forma dialogica affronta tutti i metodi filosofici, riguardanti il problema morale. E’ formato da tre libri: nel primo affronta la teoria del piacere secondo la teoria epicurea; il secondo la teoria stoica secondo cui il bene risiede nella virtù, il terzo la teoria accademica secondo cui il sommo bene risiede nella perfezione dello spirito non disgiunto dal bene materiale. Affrontando le tre scuole filosofiche Cicerone mostra di rifiutare la rigidità del pensiero epicureo e stoico e, pur mostrando più simpatia di questo rispetto al pensiero materialista accetta l’“eclettismo”, e ci mostra il suo appartenere a tale scuola filosofica.

Nella seconda che prende il nome dalla villa in Tuscolo dello stesso scrittore, lo stile dell’autore appare più appassionato, avvicinandosi alle teorie più rigorosamente stoiche. Anch’essa è in cinque libri e la mancanza di un vero e proprio interlocutore dialogico, fa apparire l’opera come un lungo monologo in cui si trattano temi fondamentali per la vita di un uomo come la morte, il dolore, la tristezza, la malinconia ed infine la virtù come garanzia di felicità.

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Resti della villa di Cicerone a Tuscolo

LA SCELTA DI DEDICARSI ALLA FILOSOFIA
(I, 1-2)

Cum defensionum laboribus senatoriisque muneribus aut omnino aut magna ex parte essem aliquando liberatus, rettuli me, Brute, te hortante maxime, ad ea studia, quae retenta animo, remissa temporibus, longo intervallo intermissa revocavi, et cum omnium artium, quae ad rectam vivendi viam pertinerent, ratio et disciplina studio sapientiae, quae “philosophia” dicitur, contineretur, hoc mihi Latinis litteris inlustrandum putavi, non quia philosophia Graecis et litteris et doctoribus percipi non posset, sed meum semper iudicium fuit omnia nostros aut invenisse per se sapientius quam Graecos aut, accepta ab illis, fecisse meliora, quae quidem digna statuissent, in quibus elaborarent. Nam mores et instituta vitae resque domesticas ac familiaris nos profecto et melius tuemur et lautius, rem vero publicam nostri maiores certe melioribus temperaverunt et institutis et legibus. Quid loquar de re militari? In qua cum virtute nostri multum valuerunt, tum plus etiam disciplina. Iam illa, quae natura, non litteris adsecuti sunt, neque cum Graecia neque ulla cum gente sunt conferenda. Quae enim tanta gravitas, quae tanta constantia, magnitudo animi, probitas, fides, quae tam excel-lens in omni genere virtus in ullis fuit, ut sit cum maioribus nostris comparanda?

Poiché ero stato liberato una buona volta dalle fatiche delle difese e dagli oneri senatori o del tutto o in gran parte, indirizzai me, o Bruto, poiché tu soprattutto esortavi, a quegli studi, i quali, trattenuti nell’animo, tralasciati per le circostanze, interrotti da lungo tempo, ho ripresi; e poiché la ragione e l’apprendimento di tutte le arti, che si riferiscono alla giusta via del vivere, sono contenute nello studio della sapienza, che è detto “filosofia”, questo reputai che dovesse essere illustrato in lingua latina; non perché non possa essere appresa dalle opere e dai professori greci: ma fu sempre un mio pensiero che i nostri fossero venuti a conoscenza di tutte le cose più sapientemente dei greci o, le cose prese da loro, le avessero rese migliori, le quali stabilirono essere degne, nelle quali s’applicarono. Infatti i costumi e le istituzioni della vita, le cose domestiche e familiari noi certamente conserviamo sia meglio che più eccellentemente; e in verità i nostri antenati organizzarono la repubblica con istituzioni e leggi certamente migliori. Che dire dell’arte militare? Nella quale i nostri rifulsero molto con la virtù, tanto più anche per disciplina. D’altra parte quelle cose, che per natura, non per la letteratura hanno raggiunto, non sono da paragonare con i Greci né con nessun altro popolo. Quale mai grande dignità, quale così tanta costanza, grandezza d’animo, onestà, fedeltà, quale virtù in qualunque genere così tanto eccellente fu mai ad alcuno, che sia da paragonare con i nostri avi?

Ad osservare con attenzione questo passo, si può notare una specie di ascesi personale, con la quale il nostro dapprima parla di come, abbandonata l’attività pubblica, egli abbia sentito l’urgenza di esternare ciò che egli aveva già dentro di sé, ratio et disciplina ottenute con studio sapientiae, cioè con quella che è detta filosofia. Poi passa alla sua necessità di far diventare questa sua “sapienza” latina, e quindi inserirla in un discorso in cui essa possa eccellere, come tutte le altri arti, proprio perché diventata Romana e possa, di conseguenza eccellere colui che lo ha proposto.

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Il codice del IX secolo, composito , conserva una silloge di opuscoli di Cicerone tra i quali il De natura deorum, De divinatione, De fato

Un posto estremamente particolare nella filosofia di Cicerone occupano due operette, scritte in modo dialogico, dedicate a due grandi personaggi romani: Cato maior de senectute e Laelius de amicitia, dedicate appunto a questi due sentimenti umani, scritte nel ’50 ed entrambe dedicate all’amico Attico.

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Marco Porcio Catone in un disegno

Nella prima protagonista è il famoso Catone il censore ed è ambientata nel 150, anno precedente la sua morte. Egli proiettandosi in quest’uomo, si concede molte libertà, facendo del rude agricoltore che la tradizione ci ha conservato, un uomo estremamente dolce e ammansito, cultore dell’humanitas. Infatti vuole lasciare di se stesso l’immagine di un uomo a cui piacerebbe armonizzare l’otium con l’impegno politico, così come aveva disegnato l’antico uomo politico romano.

Più problematica la seconda opera che prende vita all’indomani dell’uccisione di Cesare e dal tentativo di rientro nella vita politica di Cicerone. Anche il personaggio Lelio viene immaginato dallo scrittore nel periodo immediatamente successivo alla morte dello Scipione. Parlando del suo amico Lelio quindi può soffermarsi sul valore di questo sentimento umano, cercando di differenziare il concetto di amicitia inteso a livello politico, e quello, invece, inteso a livello etico. Non esiste pertanto l’amicizia all’interno di un ristretto gruppo sociale, ma essa va allargata grazie alla virtus e probitas.

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De amicizia, Biblioteca Palatina

L’ESSENZA DELL’AMICIZIA
(20)

Quanta autem vis amicitiae sit, ex hoc intellegi maxima potest, quod ex infinita societate generis humani, quam conciliavit ipsa natura, ita contracta res est et adducta in augustum, ut omnis caritas aut inter duos aut inter paucos iungeretur. Est enim amicitia nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio; qua quidem haud scio an, excepta sapientia, nihil melius homini sit a dis immortalibus datum.

Quanta invece sia forte l’amicizia si può capire da questo che dall’infinita unione del genere umano, che la stessa natura ha riunito, come questo rapporto è stretto e ridotto in piccolo spazio, che tutto l’affetto si raccoglie fra due o poche persone. E infatti l’amicizia non è altro se non un pieno accordo di tutte le cose divine ed umane con l’affetto e la stima, della quale non so con certezza se, eccetto la sapienza, niente di meglio sia stato dato all’uomo dagli dei immortali.

Il De officiis, certamente l’opera più importante filosofica del nostro, è stata scritta in un momento drammatico della storia romana, nel 44 circa, e corrisponde al periodo in cui egli, tornato prepotentemente a far sentire la sua voce, stava elaborando, con estremo furor le Filippiche. Se queste ultime rappresentano una vera e propria ribellione contro la demagogia antoniana, il De officiis si proponeva, viceversa, come la ricerca di quei doveri (esatta traduzione del termine latino che indica il titolo dell’opera) che il nuovo uomo politico romano, d’ascendenza aristocratica, deve possedere per guidare la città. Per questo l’opera si presenta come un trattato indirizzato al figlio Marco, a cui si rivolge in modo pedagogico, insegnandogli la filosofia stoica di Panezio che aveva caratterizzato la gioventù romana durante il II° secolo a. C., al tempo degli Scipioni. Cicerone, rivolgendosi ai giovani, affronta il tema dell’honestum e dell’utile. Che cosa è onesto e cosa utile? In primis la socialità, che, al tradizionale accompagnamento della giustizia affianca il concetto di beneficenza: la prima dà a ciascuno il suo; la seconda, invece, collabora al benessere comune. Bisogna stare tuttavia attenti che tale beneficenza non diventi strumento di corruzione politica, come già avveniva ai tempi di Cicerone, in cui la largitio significava esattamente l’acquisizione di un successo politico e di potere, ma doveva esser posta al di fuori da ogni ambizione personale. Altra concezione fondamentale (altro “dovere” ci viene da dire), è quella della magnanimità, capace di far emergere l’uomo, che ha dato buona prova di sé, sul popolo romano. Tale sentimento, tuttavia non dev’essere accompagnato dalla smisuratezza del possesso, ma da una vera e propria temperanza che mostri disinteresse verso le cose che possono renderci schiavi del possesso. E’ questo che poi fa l’uomo portatore di quella dignitas, che si ottiene attraverso l’equabilità, che permette di essere definiti tali dagli altri. Se si viene meno a tale virtù, come Antonio, appunto, si va verso il disordine e l’anarchia.

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Edizione del 1560 del De officiis

LODE DELL’UOMO ONESTO
(II,76)

Laudat Africanum Panaetius, quod fuerit abstinens. Quidni laudet? Sed in illo alia maiora. Laus abstinentiae non hominis est solum, sed etiam temporum illorum. Omni Macedonum gaza, quae fuit maxima, potitus est Paulus; tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributerum. At hic nihil domum suam intulit praeter memoriam nominis sempiternam. Imitatus patrem Africanus nihilo locupletior Carthagine eversa. Quid? qui eius collega fuit in censura, L. Mummius, num quid copiosior, cum copiosissimam urbem funditus sustulisset? Italiam ornare quam domum suam maluit; quamquam Italia ornata domus ipsa mihi videtur ornatior.

Panezio loda l’Africano per il fatto che fu disinteressato. Ma perché mai? In lui ci furono altre doti maggiori. La lode di integrità non è solo propria di quell’uomo, ma anche di quei tempi. Paolo s’impadronì di tutto il tesoro dei Macedoni, che era enorme, e versò nell’erario tanto denaro che il bottino di un solo generale permise di mettere fine alle tasse; ma egli non portò niente a casa sua, tranne il ricordo eterno del nome. L’Africano imitò il padre, e, abbattuta Cartagine, non fu per niente più ricco. E che? Colui che fu suo collega nella pretura, Lucio Mummio, forse che diventò più ricco dopo aver distrutto sin dalle fondamenta una città ricchissima? Preferì abbellire l’Italia piuttosto che la sua casa; benché, abbellita l’Italia, la sua stessa casa mi sembra più ornata.
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Altare con bassorilievo della fondazione di Roma

Cicerone e la religione

Un altro aspetto toccato nel percorso filosofico ciceroniano riguarda la teologia. Di questo argomento possediamo tre opere: il De natura deorum in tre libri, il De divinatione in due, e il De fato, giunto incompleto.

Nel De natura deorum, dialogo in tre libri Cicerone mette a confronto le teorie sugli dei degli epicurei, che li vedevano lontani ed indifferenti, la teoria provvidenzialistica degli stoici e quindi la teoria razionale che vede la religio come strumento della politica.
La posizione di Cicerone, pur non negando l’esistenza degli dei, come l’estremismo della terza teoria, cerca tuttavia di conciliare il disegno provvidenzialistico e l’utilità della religione per la pace sociale.

Nel De divinatione,  dialogo in due libri, Cicerone cerca di mettere i rischi che si possono creare tra la legittima l’arte divinatoria e il suo degenerare in semplice superstizione, pur sottolineando l’importanza sociale del rito

Il De fato, l’unico che ci è giunto mutilato, mette di fronte il concetto provvidenzialistico dello stoicismo con il libero arbitrio.

Mettendo insieme le conclusioni delle tre opere, potremmo dire come, soprattutto nella prima Cicerone neghi recisamente la linea epicurea di una indifferenza degli dei riguardo l’esistenza umana e si mostri probabilista circa l’esistenza di un dio ordinatore, così come proclama lo stoicismo. Molto interessante, ci pare, da uomo pragmatico qual è, il fatto che egli reputi la religione tradizionale in qualche modo superficiale, ma nel contempo la ritenga fondamentale, come un vero e proprio instrumentum regni, per il mantenimento della pace sociale.

NESSUNO DUBITEREBBE DELLA RAGIONE DIVINA
(De natura deorum, II,39)

Ac principio terra universa cernatur, locata in media sede mundi, solida et globosa et undique ipsa in sese nutibus suis conglobata, vestita floribus, herbis, arboribus, frugibus, quorum omnium incredibilis multitudo insatiabili varietate distinguitur. Adde huc fontium gelidas perennitates, liquores perlucidos amnium, riparum vestitus viridissimos, speluncarum concavas altitudines, saxorum asperitates, inpendentium montium altitudines inmensitatesque camporum; adde etiam reconditas auri argentique venas infinitamque vim marmoris. Quae vero et quam varia genera bestiarum vel cicurum vel ferarum! qui volucrium lapsus atque cantus! qui pecudum pastus! quae vita silvestrium! Quid iam de hominum genere dicam? qui quasi cultores terrae constituti non patiuntur eam nec inmanitate beluarum efferari nec stirpium asperitate vastari, quorumque operibus agri, insulae litoraque collucent distincta tectis et urbibus. Quae si, ut animis, sic oculis videre possemus, nemo cunctam intuens terram de divina ratione dubitaret.

E in primo luogo si guardi la terra nel suo insieme, collocata al centro del mondo, compatta, sferica, e interamente riunita in una sola massa dalla sua stessa gravitazione, vestita di fiori, erbe, alberi, frutti, tutti esseri viventi la cui incredibile moltitudine è differenziata da un’inesauribile varietà. Aggiungi le fonti gelide e perenni, l’acqua trasparente dei fiumi, le rive rivestite di un manto verdissimo, le profonde cavità delle caverne, l’asprezza delle rocce, l’altezza dei monti scoscesi, l’immensità delle pianure; aggiungi inoltre i giacimenti nascosti di oro e di argento e il marmo in quantità infinita. Quali e quanto varie sono le specie di animali sia domestici che selvatici, quali il volo e il canto degli uccelli, quali i pascoli del bestiame, quale la vita delle selve! Che dire poi del genere umano, che, posto per cosi dire come coltivatore della terra, non lascia che essa sia inselvatichita dalla bestialità delle fiere e sia isterilita da una crescita selvaggia delle erbe, e le cui opere ornano e fanno risplendere di case e di città le terre, le isole, i litorali? Se potessimo vedere tutto questo con gli occhi cosi come lo vediamo con la mente, nessuno, alla vista della terra intera, dubiterebbe dell’esistenza dell’intelligenza divina.

E’ chiaro come in questo piccolo brano, scelto anche perché strutturalmente semplice, giocato con un’accumulazione nominale, in cui, prima di Francesco, egli sottolinea tutte le bellezze dell’universo e, come il santo umbro le fa risalire alla presenza divina: ma è qui che si coglie una profonda differenza. Cicerone infatti non parla di esistenza ma di capacità ragionativa: per lui la mente divina, come per gli stoici, non può che essere, appunto, una mente ordinatrice che organizza l’intera varietà del creato.

Opere letterarie

Cicerone si occupò di poesia sia come traduttore, che come compositore di brani alla stregua dei suoi contemporanei neoterici, sia di poemi epici. Il fatto che egli si credesse, oltre che grande oratore, grande poeta, non toglie che tale sua produzione sia considerata dai contemporanei minore. Ma a darci realmente l’esatta misura di come essa sia stata giudicata, ci basti qui il pensiero di Plutarco nella sua Vita di Cicerone: “Coll’andare del tempo egli credette di essere non solo il più grande oratore, ma anche il più grande poeta di Roma (…) ma, quanto alla sua poesia, essendo venuti dopo di lui molti grandi talenti, è rimasta completamente ignorata, completamente spregiata”.

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Locuzioni dalle Epistulae di Cicerone 1585

Epistolario

L’Epistolario di Cicerone venne scoperto soprattutto da Francesco Petrarca nella seconda metà del Trecento, e ci offre uno spaccato interessantissimo di vita “reale” dell’autore arpinate in quanto le lettere, che qui compaiono, circa 900, non sono state destinate alla pubblicazione e ci offrono un ritratto “vivo”, “diretto”, non solo dei veri (non ufficiali) pensieri, ma anche dello stile in cui vennero espressi: abbonda la paratassi, il sermo familiaris, i grecismi e veri e propri “modi di dire”. Per quanto riguarda gli argomenti trattati essi sono i più vari: dalla felicità per la nascita di un figlio, a vere e proprie riflessioni politiche, a foglietti “telegrammatici” in cui esprime incredibile gioia, o lettere in cui si dispera per il dolore dell’esilio. Tutto vi è qui dentro, ad eccezione delle lettere scritte durante il consolato, di cui si lamenta la perdita.

L’Epistolario si divide in:

  • Ad familiares (parenti e amici);
  • Ad Atticum (l’amico di una vita, fino alla vecchiaia);
  • Ad Quintum fratrem (al fratello Quinto);
  • Ad Marcum Brutum (d’autenticità controversa).

PREOCCUPAZIONE PER TULLIA
(Ad familiares, 14) 

In maximis meis doloribus excruciat me valetudo Tulliae nostrae, de qua nihil est quod ad te plura scribam; tibi enim aeque magnae curae esse certo scio. Quod me proprius vultis accedere, video ita esse faciendum: etiam ante fecissem, sed me multa impediverunt, quae ne nunc quidem expedita sunt. Sed a Pomponio exspecto litteras, quas ad me quam primum perferendas cures velim. Da operam, ut valeas.

Tra i miei grandi dolori mi preoccupa la salute della nostra Tullia, sulla quale non c’è nulla che di più ti scriverò; so infatti che ti è ugualmente di grande preoccupazione. Quanto al fatto che volete incontrarmi da vicino, vedrò come si potrà fare: anche prima l’avrei fatto, ma molte cose me l’hanno impedito, le quali non sono ancora oggi state terminate. Ma attendo una lettera da Pomponio, che spero si impegni a inviarmi quanto prima. Cerca di star bene.

E’ una lettera che ci testimonia, pur nella sua brevità, il Cicerone uomo, preoccupatissimo per le sorti dell’amata figlia Tullia. Non troviamo qui, infatti l’uomo politico, ma il padre, lontano da casa, che mostra l’intero suo affetto per la moglie e la figlia.

LO SCHIAVO MALATO
(Ad familiares, 19)

Andricus postridie ad me venit, quam exspectaram; itaque habui noctem plenam timoris ac miseriae. Tuis litteris nihilo sum factus certior, quomodo te haberes, sed tamen sum recreatus. Ego omni delectatione litterisque omnibus careo, quas antequam te videro, attingere non possum. Medico mercedis quantum poscet promitti iubeto: id scripsi ad Ummium. Audio te animo angi et medicum dicere ex eo te laborare: si me diligis, excita ex somno tuas litteras humanitatemque, propter quam mihi es carissimus; nunc opus est te animo valere, ut corpore possis: id cum tua, tum mea causa facias, a te peto. Acastum retine, quo commodius tibi ministretur. Conserva te mihi: dies promissorum adest, quem etiam repraesentabo, si adveneris.

Andrico è giunto il giorno dopo rispetto a quando l’aspettavo; pertanto ho trascorso una notte piena di timore e di angoscia. Dalle tue lettere non sono affatto rassicurato sulla tua salute, ma sollevato sì. Per parte mia sono privo di ogni piacere che mi viene dagli studi letterari a cui non sono in grado di dedicarmi prima di averti visto. Fa’ promettere al medico quanto onorario chieda. L’ho scritto a Ummio. Sento dire che ti tormenti nell’animo e che il medico dice che questa è la causa del tuo malanno. Se mi vuoi bene, scuoti dal torpore la tua cultura letteraria e la tua sensibilità, perché mi sei molto caro. Ora è necessario che tu stia bene nell’animo per poterlo essere anche nel corpo. Ti chiedo di farlo sia per te che per me. Trattieni Acasto, per essere meglio servito. Riguardati per me. Il giorno della promessa è vicino, che anzi anticiperò se verrai. Ancora una volta (tanti saluti) (e) stammi bene. 2 aprile, verso mezzogiorno.

Come la prima lettera anche questa vuol offrire l’esempio di Cicerone uomo, preocupatissimo per le sorti dei suoi familiari malati, fossero pure schiavi, come Tirone.

Ma non possiamo affatto dimenticarci un Cicerone più “cattivo”, beffardo quasi, rivolgendosi, in modo epigrammatico, ad un cesaricida: 

LA MORTE DI CESARE
(Ad familiares, 14,19)

Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.

Mi congratulo con te e mi rallegro: ti voglio bene, vigilo con attenzione su tutte le tue cose; voglio esser voluto bene da te ed essere informato su ciò che fai e quello che accade.

GIOVANNI VERGA

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Giovanni Verga

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da Giovan Battista, nobile e agiato proprietario agrario di cultura liberale e da Caterina di Mauro, di famiglia borghese. La sua prima formazione avviene nella scuola privata di Antonino Abate che lo avvicina ai valori patriottici rafforzati in parte da letture sulla poesia risorgimentale e dal valore civile. Non ottiene una forte formazione filologica, quanto piuttosto sulla letteratura contemporanea: tra queste predilige quella francese diventando un appassionato lettore di Eugéne Sue e di Alexander Dumas père e fils (tutti riconducibili al romanzo storico e popolare). Questa cultura viene riportata nei suoi primi tentativi letterati come Amore e patria (scritto tra i 16 e i 17 anni, rimasto inedito), I carbonari della montagna pubblicato a proprie spese nel 1861; Sulle lagune, pubblicato in rivista nel 1863. Più che opere minori si potrebbe parlare di una prima esperienza verghiana, che quasi nulla ci dice dell’autore futuro, ma che mostra sin da giovane la voglia d’esprimersi, pur richiamandosi ad autori dei feuilletons francesi, e da altri facenti parte di un romanticismo minore mescolato a tentativi di letteratura popolare (ci viene in mente Francesco Domenico Guerrazzi, prolifico autori di racconti e romanzi apparsi sia in volume che nei giornali dell’epoca). Nel 1858 si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che poi abbandona per far parte della Guardia Nazionale, sorta per evitare disordini dopo l’arrivo di Garibaldi in città. Sempre a Catania, fonda, insieme ad alcuni amici, la rivista “Roma degli italiani”.

Nel 1865 decide di trasferirsi a Firenze, allora capitale d’Italia: di questa città sente l’attrazione per la vita mondana che vi si conduce, per gli intellettuali che vi risiedono e che comincia a frequentare, tra i quali ci piace ricordare l’eccentrico Vittorio Imbriani e, amicizia più determinante, Luigi Capuana. Scrive Una peccatrice (1866), in cui, dietro la storia di Pietro Brusio si nasconde in realtà Verga stesso, e Storia di una capinera, uscito dapprima a puntate su una rivista e poi definitivamente in volume nel 1871, che ottiene un clamoroso successo e gli apre le porte a prospettive più ampie.

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Romanzo epistolare in cui la protagonista scrive ad una amica. All’inizio Maria accetta senza reticenze la scelta della matrigna di entrare in convento; ma un’epidemia di colera la costringe ad uscire e a tornare, per un certo periodo di tempo, in famiglia. Qui assapora le gioie della casa, la libertà e il sentimento d’amore per un giovane che frequenta la sua casa. Passato il colera, Maria deve rientrare in convento. Qui verrà a sapere che l’uomo di cui era innamorata sposerà la sorella. Ciò la getta in indicibile strazio e dolore che non riesce a reprimere e che la porterà in breve alla morte. 

IL VOTO MONACALE

M’avevano abbigliata da sposa, col velo, la corona, i fiori; m’avevano detto ch’ero bella. Dio mel perdoni!… io ne fui contenta soltanto per lui che mi avrebbe veduta così!… M’affacciarono alla grata della chiesa. Tu mi vedesti; io non vidi nessuno; vidi una nube di incenso, un brulichìo, molte torce che ardevano; udii l’organo che suonava. Poi chiusero la cortina, mi spogliarono di quei begli abiti, mi tolsero il velo, i fiori, mi vestirono della tonaca senza che me ne avvedessi. Io non udivo, non vedevo nulla… lasciavo fare, ma tremavo talmente che i miei denti scricchiolavano gli uni contro gli altri. Pensavo alla bella veste da sposa di mia sorella, alla cerimonia cui ella aveva dovuto assistere senza provare lo sgomento che allora m’invadeva. La cortina fu riaperta. Tutta quella gente era ancora lì, guardava, ascoltava, con un’avida curiosità che mi agghiacciava di inesplicabile terrore. Mi sciolsero i capelli e me li sentii cadere fin sulle mani che tenevo giunte; li raccolsero tutti in pugno… e allora si udì uno stridere d’acciario… mi parve che mi cogliesse il ribrezzo della febbre, ma era quella sensazione di fresco che provai sul collo allorché quella cosa fredda s’introdusse fra il volume delle mie chiome; del resto non aveva che un’idea confusa di quanto accadeva. Vidi mio padre che piangeva. Perché piangeva? Vidi mia madre, Giuditta, Gigi… Accanto a Giuditta c’era un’altra persona ch’era pallida pallida e mi guardava cogli occhi spalancati. In quel punto lo stridere di quel a cosa agghiacciata mi parve che superasse il canto dei preti, il suono dell’organo, i singhiozzi di mio padre. I capelli mi cadevano da tutte le parti a ricci, a treccie intere… e le lagrime mi cadevano dagli occhi… Allora l’organo si fece mesto, le campane parvemi che piangessero. Mi stesero sul cataletto, mi coprirono colla coltre dei trapassati. Tutte quelle figure nere mi circondarono; mi guardavano, pallide, impassibili come spettri, salmodiando, colle torcie in mano. La cortina si rinchiuse. In chiesa si udì lo scalpiccìo di tutta quella gente che se ne andava… Tutti mi abbandonavano… anche mio padre… Gli spettri mi abbracciavano, mi baciavano, avevano le labbra fredde e sorridevano senza far rumore. 

La lettera descrive all’amica Marianna il momento in cui Maria si veste della tonaca monacale. Ed è normale, per un lettore, richiamare alla memoria la figura di Gertrude, di manzoniana memoria. E’ evidente che se lo scrittore lombardo è interessato non solo al gesto riprovevole in sé, ma alla situazione politica e sociale del Seicento che lo avevano determinato, Verga rimanga ancorato a stilemi tardo romantici o per meglio dire scapigliati proprio nell’uso dell’io narrante. L’insistenza dei puntini di sospensione, la ricerca del patetico nella lentezza gestuale della protagonista, la turba che l’osserva che sembra costituire un’aurea sepolcrale e l’ultima frase che sembra ripresa da un romanzo di Tarchetti, pone Verga tra gli scrittori “popolari” al pubblico femminile, ma non sappiamo dire quanto consapevolmente. D’altra parte è lui stesso che non vuole dare una lettura sociologica al suo romanzo.

Il successo di Storia di una capinera, lo spinge a trasferirsi a Milano, dove frequenta gli ambienti della Scapigliatura. Testimonianza dell’adesione alla critica sociale del movimento milanese ce la offre l’introduzione al romanzo Eva, edito a Milano nel (1873):

Enrico Lanti è un giovane pittore che si innamora di Eva, una bellissima ballerina, ricca di fascino e di mistero, pur essendo consapevole che il suo sogno d’amore è irrealizzabile. Il sogno viceversa si avvera: Eva, conosciutolo, si innamora e abbandona il teatro per andare a vivere con lui. La monotona vita quotidiana, sulla quale pesano tra l’altro le difficoltà economiche, logora però l’iniziale passione: i due si separano ed Eva diventa l’amante del facoltoso conte Silvani. Enrico non si rassegna alla realtà e una sera, durante un veglione a teatro, abbraccia e bacia Eva. Nell’inevitabile duello che ne deriva il conte perde la vita. Enrico torna presso la famiglia in Sicilia e dopo pochi mesi, logorato da questo inestinguibile e fatale amore, muore.

INTRODUZIONE AD “EVA”

Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualche cosa di voi che vi appartiene, ch’è il frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia – voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell’applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l’ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche cosa. Però non maledite l’arte ch’è la manifestazione dei vostri gusti. I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il cancan litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi un lusso da scioperati. La civiltà è il benessere, e in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la “serietà” di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure l’arte scioperata – non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è l’esuberanza di tal vita. Non accusate l’arte, che ha il solo torto di aver più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa, – voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia.

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Toulouse Lautrec: Manifesto

Ma a tale Introduzione non succede il romanzo. Non sappiamo quali precise letture lo abbiano preceduto, ma sentiamo “spruzzati” qua e là riferimenti alla contemporanea letteratura francese (torna in mente la Nanà di Zola). Certo è che, come nel primo romanzo, anche qui il protagonista è un artista. Lì un romanziere, qui un pittore, il cui oggetto è sempre una donna “impossibile” che s’uccide per amore o fa morire per amore e chiudono ambedue con il ritorno in Sicilia, terra che non conosce la “corruzione” della civiltà e in cui rifugiarsi, scappare dalla “modernità”. Ma nel patetico racconto le Banche e di Imprese industriali dove sono? la febbre dei piaceri è l’esuberanza di tal vita più che criticata sembra agognata. Tuttavia qualcosa di nuovo nell’animo di Verga c’è e lo riprende proprio dallo spirito scapigliato: la ricerca della verità. Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocrisie.

Gli altri due romanzi scritti nel periodo milanese sono Tigre reale ed Eros, ambedue del 1875. Il primo continua ad insistere su ambienti mondani e storie d’amore patetiche.

Nella prima un diplomatico e una contessa russa, cui sembra che il narratore, moralisticamente, prenda la distanza; nel secondo un marchese, di cui si racconta la fallimentare vita, fatta di amori e tradimenti (anche se in quest’ultimo percepiamo una maggiore capacità artistica, certamente non ancora matura, ma migliore rispetto alle opere precedenti).

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Raccoglitrice di olive pittura di Roberto Rimini

Nedda del 1874 sembra rappresenti una “conversione” letteraria: racconta infatti la storia di una povera raccoglitrice di olive, che ha una madre gravemente malata e che s’innamora di Janu, un giovane del suo paese che è stato a lavorare a Catania. La madre muore e fra Nedda e Janu nasce un rapporto passionale e gioioso, ma che non porta alla felicità. La giovane infatti mostra presto i segni infamanti di una gravidanza prematrimoniale e, come se non bastasse, Janu si ammala di malaria e tuttavia, per affrettare le nozze, non rinuncia a lavorare. Cade  però da un ulivo e muore tra le braccia di Nedda. La fanciulla rimane sola: abbandonata, disprezzata, sfruttata; presto le muore anche la figlioletta che ha avuto da Janu e in cui Nedda aveva riposto tutte le speranze per raggiungere una felicità che, ovviamente,  non arriva.

NEDDA

Era una ragazza bruna, vestita miseramente; aveva quell’attitudine timida e ruvida che danno la miseria e l’isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull’ultimo gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi inferiori al còmpito dell’uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una fatica. E’ vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva da manovale, la quale dava bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza muliebre. L’immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle mani costrette ad un’aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l’aveva schiacciata da bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l’anima e l’intelligenza. – Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. – E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più umili, i più duri servigi.

Se il racconto mostra una realtà non più alto borghese, non cambia lo stile. La descrizione della protagonista ce ne offre un piccolo esempio: la narrazione è di uno scrittore onnisciente che osserva la figura e l’autore emerge nella scelta dello sguardo: si osservi il commento Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma direi anche la forma umana, dove si sottolinea il giudizio “morale” dello sfruttamento; Gli occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, descrizione ancora abituata alle fattezze di una femme fatale, più che di una raccoglitrice d’olive. Tuttavia non bisogna tralasciare il nuovo interesse di Verga per il motivo economico dello sfruttamento, per il reale stato di abbandono delle classi povere del sud, e per l’affacciarsi del tema “positivistico” dell’ereditarietà Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe stato di sua figlia. 

Nedda fa parte di una raccolta Primavera del 1877, in cui sono inserite novelle che ondeggiano tra temi antichi di amori impossibili, motivi etnografici, come in La coda del diavolo, e storie patetiche, come nel caso, appunto della povera ragazza siciliana.

Ma la vera svolta verghiana avviene nel 1880 con la raccolta di novelle Vita dei campi. Quest’opera presenta otto racconti, tutti d’ambiente siciliano, nel quale Verga s’immerge nel mondo contadino, non attraverso i singoli personaggi, ma in una più generale “contadinità”, cioè nel carattere “elementare” dei sentimenti che assume valore archetipico in una società preindustriale. Il sentimento che vi domina è l’amore come sentimento universale, che cancella ogni forma di sovrastruttura o patetismo, come era presentato, appunto, nei cosiddetti “romanzi mondani”. Si veda Fantasticheria, in cui all’amore patetico di una gentildonna della nobiltà si contrappone l’amore per la terra dei poveri marinai siciliani:

FANTASTICHERIA

Una volta, mentre il treno passava vicino ad Aci-Trezza, voi, affacciandovi allo sportello del vagone, esclamaste: «Vorrei starci un mese laggiù!»
Noi vi ritornammo, e vi passammo non un mese, ma quarantott’ore; i terrazzani che spalancavano gli occhi vedendo i vostri grossi bauli avranno creduto che ci sareste rimasta un par d’anni. La mattina del terzo giorno, stanca di vedere eternamente del verde e dell’azzurro, e di contare i carri che passavano per via, eravate alla stazione, e gingillandovi impaziente colla catenella della vostra boccettina da odore, allungavate il collo per scorgere un convoglio che non spuntava mai. In quelle quarantott’ore facemmo tutto ciò che si può fare ad Aci-Trezza: passeggiammo nella polvere della strada, e ci arrampicammo sugli scogli; col pretesto di imparare a remare vi faceste sotto il guanto delle bollicine che rubavano i baci; passammo sul mare una notte romanticissima, gettando le reti tanto per far qualche cosa che a’ barcaiuoli potesse parer meritevole di buscarsi dei reumatismi, e l’alba ci sorprese in cima al fariglione – un’alba modesta e pallida, che ho ancora dinanzi agli occhi, striata di larghi riflessi violetti, sul mare di un verde cupo, raccolta come una carezza su quel gruppetto di casucce che dormivano quasi raggomitolate sulla riva, mentre in cima allo scoglio, sul cielo trasparente e limpido, si stampava netta la vostra figurina, colle linee sapienti che vi metteva la vostra sarta, e il profilo fine ed elegante che ci mettevate voi. – Avevate un vestitino grigio che sembrava fatto apposta per intonare coi colori dell’alba. – Un bel quadretto davvero! e si indovinava che lo sapeste anche voi, dal modo in cui vi modellaste nel vostro scialletto, e sorrideste coi grandi occhioni sbarrati e stanchi a quello strano spettacolo, e a quell’altra stranezza di trovarvici anche voi presente. Che cosa avveniva nella vostra testolina allora, di faccia al sole nascente? Gli domandaste forse in qual altro emisfero vi avrebbe ritrovata fra un mese? Diceste soltanto ingenuamente: «Non capisco come si possa vivere qui tutta la vita».
Eppure, vedete, la cosa è più facile che non sembri: basta non possedere centomila lire di entrata, prima di tutto; e in compenso patire un po’ di tutti gli stenti fra quegli scogli giganteschi, incastonati nell’azzurro, che vi facevano batter le mani per ammirazione. Così poco basta, perché quei poveri diavoli che ci aspettavano sonnecchiando nella barca, trovino fra quelle loro casipole sgangherate e pittoresche, che viste da lontano vi sembravano avessero il mal di mare anch’esse, tutto ciò che vi affannate a cercare a Parigi, a Nizza ed a Napoli.
E’ una cosa singolare; ma forse non è male che sia così – per voi, e per tutti gli altri come voi. Quel mucchio di casipole è abitato da pescatori, “gente di mare”, dicono essi, come altri direbbe “gente di toga”, i quali hanno la pelle più dura del pane che mangiano – quando ne mangiano – giacché il mare non è sempre gentile, come allora che baciava i vostri guanti… Nelle sue giornate nere, in cui brontola e sbuffa, bisogna contentarsi di stare a guardarlo dalla riva, colle mani in mano, o sdraiati bocconi, il che è meglio per chi non ha desinato. In quei giorni c’è folla sull’uscio dell’osteria, ma suonano pochi soldoni sulla latta del banco, e i monelli che pullulano nel paese, come se la miseria fosse un buon ingrasso, strillano e si graffiano quasi abbiano il diavolo in corpo.
Di tanto in tanto il tifo, il colèra, la malannata, la burrasca, vengono a dare una buona spazzata in quel brulicame, che davvero si crederebbe non dovesse desiderar di meglio che esser spazzato, e scomparire; eppure ripullula sempre nello stesso luogo; non so dirvi come, né perché.
Vi siete mai trovata, dopo una pioggia di autunno, a sbaragliare un esercito di formiche, tracciando sbadatamente il nome del vostro ultimo ballerino sulla sabbia del viale? Qualcuna di quelle povere bestioline sarà rimasta attaccata alla ghiera del vostro ombrellino, torcendosi di spasimo; ma tutte le altre, dopo cinque minuti di pànico e di viavai, saranno tornate ad aggrapparsi disperatamente al loro monticello bruno. Voi non ci tornereste davvero, e nemmen io; ma per poter comprendere siffatta caparbietà, che è per certi aspetti eroica, bisogna farci piccini anche noi, chiudere tutto l’orizzonte fra due zolle, e guardare col microscopio le piccole cause che fanno battere i piccoli cuori. Volete metterci un occhio anche voi, a cotesta lente? voi che guardate la vita dall’altro lato del cannocchiale? Lo spettacolo vi parrà strano, e perciò forse vi divertirà.
Noi siamo stati amicissimi, ve ne rammentate? e mi avete chiesto di dedicarvi qualche pagina. Perché? à quoi bon? come dite voi. Che cosa potrà valere quel che scrivo per chi vi conosce? e per chi non vi conosce che cosa siete voi? Tant’è, mi son rammentato del vostro capriccio, un giorno che ho rivisto quella povera donna cui solevate far l’elemosina col pretesto di comperar le sue arance messe in fila sul panchettino dinanzi all’uscio. Ora il panchettino non c’è più; hanno tagliato il nespolo del cortile, e la casa ha una finestra nuova. La donna sola non aveva mutato, stava un po’ più in là a stender la mano ai carrettieri, accoccolata sul mucchietto di sassi che barricano il vecchio Posto della guardia nazionale; ed io, girellando, col sigaro in bocca, ho pensato che anche lei, così povera com’è, vi aveva vista passare, bianca e superba.
Non andate in collera se mi son rammentato di voi in tal modo, e a questo proposito. Oltre i lieti ricordi che mi avete lasciati, ne ho cento altri, vaghi, confusi, disparati, raccolti qua e là, non so più dove; -forse alcuni son ricordi di sogni fatti ad occhi aperti; e nel guazzabuglio che facevano nella mia mente, mentre io passava per quella viuzza dove son passate tante cose liete e dolorose, la mantellina di quella donnicciola freddolosa, accoccolata, poneva un non so che di triste, e mi faceva pensare a voi, sazia di tutto, perfino dell’adulazione che getta ai vostri piedi il giornale di moda, citandovi spesso in capo alla cronaca elegante – sazia così, da inventare il capriccio di vedere il vostro nome sulle pagine di un libro.
Quando scriverò il libro, forse non ci penserete più; intanto i ricordi che vi mando, così lontani da voi, in ogni senso, da voi inebbriata di feste e di fiori, vi faranno l’effetto di una brezza deliziosa, in mezzo alle veglie ardenti del vostro eterno carnevale. Il giorno in cui ritornerete laggiù, se pur vi ritornerete, e siederemo accanto un’altra volta, a spinger sassi col piede, e fantasie col pensiero, parleremo forse di quelle altre ebbrezze che ha la vita altrove. Potete anche immaginare che il mio pensiero siasi raccolto in quel cantuccio ignorato del mondo, perché il vostro piede vi si è posato, – o per distogliere i miei occhi dal luccichìo che vi segue dappertutto, sia di gemme o di febbri – oppure perché vi ho cercata inutilmente per tutti i luoghi che la moda fa lieti. Vedete quindi che siete sempre al primo posto, qui come al teatro!
Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza, perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù, all’ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.
Ma se avesse potuto desiderare qualche cosa, egli avrebbe voluto morire in quel cantuccio nero, vicino al focolare, dove tanti anni era stata la sua cuccia “sotto le sue tegole”, tanto che quando lo portarono via piangeva, guaiolando come fanno i vecchi. Egli era vissuto sempre fra quei quattro sassi, e di faccia a quel mare bello e traditore, col quale dové lottare ogni giorno per trarre da esso tanto da campare la vita e non lasciargli le ossa; eppure in quei momenti in cui si godeva cheto cheto la sua “occhiata di sole” accoccolato sulla pedagna della barca, coi ginocchi fra le braccia, non avrebbe voltato la testa per vedervi, ed avreste cercato invano in quelli occhi attoniti il riflesso più superbo della vostra bellezza; come quando tante fronti altere s’inchinano a farvi ala nei saloni splendenti, e vi specchiate negli occhi invidiosi delle vostre migliori amiche.
La vita è ricca, come vedete, nella sua inesauribile varietà; e voi potete godervi senza scrupoli quella parte di ricchezza che è toccata a voi, a modo vostro. Quella ragazza, per esempio, che faceva capolino dietro i vasi di basilico, quando il fruscìo della vostra veste metteva in rivoluzione la viuzza, se vedeva un altro viso notissimo alla finestra di faccia, sorrideva come se fosse stata vestita di seta anch’essa. Chi sa quali povere gioie sognava su quel davanzale, dietro quel basilico odoroso, cogli occhi intenti in quell’altra casa coronata di tralci di vite? E il riso dei suoi occhi non sarebbe andato a finire in lagrime amare, là, nella città grande, lontana dai sassi che l’avevano vista nascere e la conoscevano, se il suo nonno non fosse morto all’ospedale, e suo padre non si fosse annegato, e tutta la sua famiglia non fosse stata dispersa da un colpo di vento che vi aveva soffiato sopra – un colpo di vento funesto, che avea trasportato uno dei suoi fratelli fin nelle carceri di Pantelleria – “nei guai!” come dicono laggiù.
Miglior sorte toccò a quelli che morirono; a Lissa l’uno, il più grande, quello che vi sembrava un David di rame, ritto colla sua fiocina in pugno, e illuminato bruscamente dalla fiamma dell’ellera. Grande e grosso com’era, si faceva di brace anch’esso quando gli fissaste in volto i vostri occhi arditi; nondimeno è morto da buon marinaio, sulla verga di trinchetto, fermo al sartiame, levando in alto il berretto, e salutando un’ultima volta la bandiera col suo maschio e selvaggio grido d’isolano; l’altro, quell’uomo che sull’isolotto non osava toccarvi il piede per liberarlo dal lacciuolo teso ai conigli, nel quale v’eravate impigliata da stordita che siete, si perdé in una fosca notte d’inverno, solo, fra i cavalloni scatenati, quando fra la barca e il lido, dove stavano ad aspettarlo i suoi, andando di qua e di là come pazzi, c’erano sessanta miglia di tenebre e di tempesta. Voi non avreste potuto immaginare di qual disperato e tetro coraggio fosse capace per lottare contro tal morte quell’uomo che lasciavasi intimidire dal capolavoro del vostro calzolaio.
Meglio per loro che son morti, e non “mangiano il pane del re”, come quel poveretto che è rimasto a Pantelleria, o quell’altro pane che mangia la sorella, e non vanno attorno come la donna delle arance, a viver della grazia di Dio – una grazia assai magra ad Aci-Trezza. Quelli almeno non hanno più bisogno di nulla! lo disse anche il ragazzo dell’ostessa, l’ultima volta che andò all’ospedale per chieder del vecchio e portargli di nascosto di quelle chiocciole stufate che son così buone a succiare per chi non ha più denti, e trovò il letto vuoto, colle coperte belle e distese, sicché sgattaiolando nella corte, andò a piantarsi dinanzi a una porta tutta brandelli di cartacce, sbirciando dal buco della chiave una gran sala vuota, sonora e fredda anche di estate, e l’estremità di una lunga tavola di marmo, su cui era buttato un lenzuolo, greve e rigido. E pensando che quelli là almeno non avevano più bisogno di nulla, si mise a succiare ad una ad una le chiocciole che non servivano più, per passare il tempo. Voi, stringendovi al petto il manicotto di volpe azzurra, vi rammenterete con piacere che gli avete dato cento lire, al povero vecchio.
Ora rimangono quei monellucci che vi scortavano come sciacalli e assediavano le arance; rimangono a ronzare attorno alla mendica, e brancicarle le vesti come se ci avesse sotto del pane, a raccattar torsi di cavolo, bucce d’arance e mozziconi di sigari, tutte quelle cose che si lasciano cadere per via, ma che pure devono avere ancora qualche valore, poiché c’è della povera gente che ci campa su; ci campa anzi così bene, che quei pezzentelli paffuti e affamati cresceranno in mezzo al fango e alla polvere della strada, e si faranno grandi e grossi come il loro babbo e come il loro nonno, e popoleranno Aci-Trezza di altri pezzentelli, i quali tireranno allegramente la vita coi denti più a lungo che potranno, come il vecchio nonno, senza desiderare altro, solo pregando Iddio di chiudere gli occhi là dove li hanno aperti, in mano del medico del paese che viene tutti i giorni sull’asinello, come Gesù, ad aiutare la buona gente che se ne va.
«Insomma l’ideale dell’ostrica!» direte voi. – Proprio l’ideale dell’ostrica! e noi non abbiamo altro motivo di trovarlo ridicolo, che quello di non esser nati ostriche anche noi. Per altro il tenace attaccamento di quella povera gente allo scoglio sul quale la fortuna li ha lasciati cadere, mentre seminava principi di qua e duchesse di là, questa rassegnazione coraggiosa ad una vita di stenti, questa religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano, mi sembrano – forse pel quarto d’ora – cose serissime e rispettabilissime anch’esse. Sembrami che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione. – Sembrami che potrei vedervi passare, al gran trotto dei vostri cavalli, col tintinnìo allegro dei loro finimenti e salutarvi tranquillamente.
Forse perché ho troppo cercato di scorgere entro al turbine che vi circonda e vi segue, mi è parso ora di leggere una fatale necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell’istinto che hanno i piccoli di stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e ho cercato di decifrare il dramma modesto e ignoto che deve aver sgominati gli attori plebei che conoscemmo insieme. Un dramma che qualche volta forse vi racconterò, e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: – che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui. – E sotto questo aspetto vedrete che il dramma non manca d’interesse. Per le ostriche l’argomento più interessante deve esser quello che tratta delle insidie del gambero, o del coltello del palombaro che le stacca dallo scoglio.

Eppure non è soltanto l’amore per la terra il centro ideologico della novella che, non a caso, è posta come prima dell’intera raccolta, acquisendo così il valore di racconto programmatico. In primo luogo, ancora non vi è la cancellazione dell’autore ed il personaggio della gentildonna è ripreso fortemente dalle opere precedenti. La contrapposizione, tuttavia, tra lei ed il mondo dei pescatori è netta e si struttura come incapacità di qualsiasi forma di dialogo, quasi a configurarsi come “pittoresco” per la dama e “quotidiano” per la popolazione. L’intervento economico è chiarito sin dall’inizio basta non possedere centomila lire di entrata, di contro alla miseria, che rende appetibile ciò che “normalmente” si getta per strada. Le spiegazioni che ci offre Verga sono:

  1. sociologica e potrebbe riassumersi nel concetto di ciclicità dell’esistenza;
  2. filosofica con il darwinismo, che fa sì che il più forte vinca sul più debole che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dai suoi per vaghezza dell’ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo; il mondo, da pesce vorace ch’egli è, se lo ingoiò, e i suoi più prossimi con lui;
  3. letteraria, coll’esigenza dell’immedesimazione che toglie la visione superiore dello scrittore onnisciente e si fa piccola fino a cancellarsi all’interno della comunità descritta.

L’elemento forte, quello che distingue ideologicamente l’intera novella, è l’“ideale dell’ostrica”, rafforzato dal darwinismo sopra accennato; questo concetto sembra tuttavia caratterizzare in Verga una visione pessimistica della realtà che, politicamente, andrà a strutturarsi in un conservatorismo politico. Qui sembra quasi dirci che qualsiasi cambiamento sociale porterà ad una sconfitta personale e questa ideologia sarà rafforzata soprattutto nei suoi due romanzi maggiori. Per ultimo Fantasticheria ci presenta, anche se in filigrana, i personaggi principali de I Malavoglia.

Un’altra pagina programmatica ne Vita dei campi la troviamo nella novella L’amante di Gramigna che presenta, in un quadretto siciliano, un innamoramento per fama; ma estremamente importante, per la poetica di Verga è l’Introduzione che l’autore stesso vi inserisce, indirizzata allo scrittore e amico Salvatore Farina:

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Scena del film di Carlo Lizzani “L’amante di Gramigna”

INTRODUZIONE A “L’AMANTE DI GRAMIGNA” 

A Salvatore Farina

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico – un documento umano, come dicono oggi – interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditorî, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, – e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno “i fatti diversi”?
Intanto io credo che il trionfo del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, si raggiungerà allorché l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e che l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore; che essa non serbi nelle sue forme viventi alcuna impronta della mente in cui germogliò, alcuna ombra dell’occhio che la intravvide, alcuna traccia delle labbra che ne mormorarono le prime parole come il “fiat” creatore; ch’essa stia per ragion propria, pel solo fatto che è come dev’essere, ed è necessario che sia, palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l’autore abbia avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale.

Pagina fondamentale, in cui quello che emerge è l’ottica attraverso la quale l’autore deve sviluppare il racconto o, per dirla “positivisticamente”, il documento umano. Se bisogna fare del romanzo, la più completa e la più umana delle opere d’arte, è necessario che lo scrittore e l’elaborazione narrativa scompaiano creando una specie di fusione mimetica tra il processo creativo e le passioni raccontate. Ciò comporta un duplice processo che riguarda dapprima il lettore, che non deve rendersi conto della presenza dell’autore, quindi di quest’ultimo che, pur essendoci, deve far di tutto per scomparire.

Dall’intera introduzione possiamo isolare tre essenziali concetti:

  • l’essenzialità del racconto che deve ritrarre avvenimenti e meccanismi psicologici all’interno di esso;
  • abolizione dello scrittore onnisciente e affermazione del principio dell’impersonalità;
  • consonanza tra stile e materia;

Tuttavia percepiamo anche una distanza dal naturalismo francese, infatti Verga parla ancora del mistero con cui le passioni umane si sviluppano. Compito del narratore è registrarle fedelmente, regredendo in esse (assumendo la mentalità, il linguaggio, la società che circonda il personaggio); non vi è l’intento, come quello dello scienziato/scrittore teorizzato da Zola, che descrive per elaborare una diagnosi e quindi  dar la possibilità di guarigione, ma solo quella di riportare fedelmente il “fatto umano”. 

Il capolavoro di Vita dei campi è Rosso Malpelo:

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Lavoratori in miniera

ROSSO MALPELO

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.
Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.
Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro.
Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane bigio, come fanno le bestie sue pari, e ciascuno gli diceva la sua, motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo che pensare a rupulirlo la domenica. Nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Caverna, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la cava di Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto in quella stessa cava.
Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno dell’ingrottato, e dacché non serviva più, e s’era calcolato, così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire, e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio, come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: «Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre».
Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericoloso nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato.
Dunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattar la rena per amor del padrone, o raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli «ah! ah!» dei suoi bei colpi di zappa in pieno, e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata!» e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante!
Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! ohi anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro» oppure: «Sta’ attento! Sta’ attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa, e scappa!» Tutt’a un tratto, punf! Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché fa pancia e si sventra tutta in una volta, ed il lume si spense.
L’ingegnere che dirigeva i lavori della cava si trovava a teatro quella sera, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, quando vennero a cercarlo per il babbo di Malpelo, che aveva fatto la morte del sorcio. Tutte le femminucce di Monserrato strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti come avesse la terzana. L’ingegnere, quando gli ebbero detto il come e il quando, che la disgrazia era accaduta da circa tre ore, e Misciu Bestia doveva già essere bell’e arrivato in Paradiso, andò quasi pewr scarico di coscienza con scale e corde, a fare il buco nella rena. Altro che quaranta carra! Lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva almeno una settimana.
Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani, e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!
Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia e urlava, come una bestia davvero.
«To’!» – disse infine uno. «E’ Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? Se non fosse stato Malpelo non sarebbe passata liscia…» 
Malpelo, non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.
Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, alle volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Lui non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Spesso, mentre scavava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane e le botte, magari. Ma l’asino, povera bestia, sbilenco e macilento, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: «Così creperai più presto!»
Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!» E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «E’ stato lui, per trentacinque tarì! – E un’altra volta, dietro allo Sciancato: – E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»
Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.
Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, dicendogli: «To’, Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!»
O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici: «Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu!» Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze, non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe. Malpelo soleva dire a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi».
Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così gli altri ti terranno da conto, e ne avrai tanti di meno addosso».
Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora», diceva a Ranocchio sottovoce; «somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui».
Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e il ragazzo piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: «Taci, pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo».
Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliel’aveva levata mai, il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi, anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta, come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità, e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.
Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si scoprendolo sull’uscio in quell’arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.
La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e lercio com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.
Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena, – o il carrettiere, come compare Gaspare, che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna; – o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino, che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei pensava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi all’infinito, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.
Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo al mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.
Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa, gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria, e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva sepolto vivo: si poteva persino vedere tutt’ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!» ripeteva lo sciancato «ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.
Il carrettiere si portò via il cadavere di mastro Misciu al modo istesso che caricava la rena caduta e gli asini morti, ché stavolta, oltre al lezzo del carcame, trattavasi di un compagno e “di carne battezzata”. La vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.
Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.
Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li ha resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.
In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa,» brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono più, si buttano lontano». Egli andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa, bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera,» gli diceva, «che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole!» Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo, colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: “Non più! Non più!”. Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.
La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che venisse a cantarci. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. «Egli solo ode le sue stesse grida!» diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.
«Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà».
Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la lava, ma Malpelo, stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente – perché allora la sciara sembra più bella e desolata. “Per noi che siamo fatti per vivere sotterra,” pensava Malpelo, “dovrebbe essere buio sempre e dapertutto”. La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: “Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perché non può andare a trovarli”.
Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.
«Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti» gli diceva «e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali; quelli ci stanno volentieri in compagnia dei morti».
Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni, e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.
Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella».
E dopo averci pensato un po’: «Mio padre era buono, e non faceva male a nessuno, tanto che lo chiamavano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri, le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io».
Da lì a poco, Ranocchio, il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo “non ne avrebbe fatto osso duro” a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle, bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue; allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena, con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle: un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!»
Intanto Ranocchio non guariva, e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo prese dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera poi non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile, chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: «E’ meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire a quel modo, è meglio che tu crepi!» E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.
Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.
Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perché sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non aveva mai avuto timore di perderlo.
Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui la notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, ché quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.
Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva. Gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.
Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e ne era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa, e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un paradiso, e preferiva tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione?» domandò Malpelo.
«Perché non sono malpelo come te!» rispose lo Sciancato. «Ma non temere, che tu ci andrai! E ci lascerai le ossa!»
Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa andava bene, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, né avrebbe permesso che si arrischiasse il sangue suo, per tutto l’oro del mondo.
Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo: sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta di casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio, gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui.
Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

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Bimbo in miniera

L’analisi del racconto può procedere attraverso la divisione dello stesso in sequenze:

  • Presentazione di Malpelo: il racconto inizia con la regressione dell’autore e la conseguente cancellazione dello scrittore onnisciente; la voce che ci presenta Malpelo è quella popolare così come popolare è il rapporto di causa effetto che si istituisce: Malpelo = colore dei capelli = cattiveria del personaggio; il fatto che egli sia conosciuto soltanto con il soprannome significa che egli è un isolato da se stesso e dalla stessa comunità che non ne conosce il vero nome. Tale isolamento è rafforzato dal fatto che anche la madre lo indichi col nome di Malpelo. D’altra parte il rapporto del ragazzo con la famiglia è inesistente; esce dalla miniera il sabato sera e, se lo aspettano, lo fanno per ricevere la paga settimanale. Di Malpelo ci viene detto che è sempre cencioso e sporco, ma anche l’aspetto ha un so che di zoomorfo (non per niente è figlio mastro Misciu Bestia); il fatto che abbia i capelli rossi, lo mette subito in relazione con la rena rossa della miniera. E’ talmente forte l’identificazione che la miniera prende il suo nome, a dispetto della rabbia del padrone.
  • Morte del padre: come detto precedentemente Malpelo e mastro Misciu Bestia sono associati a immagini zoomorfe: il papà infatti è un buon asino da basto, che lavora per impiegare il denaro guadagnato per gli acquisti della famiglia; quando anche a Malpelo verrà affidato un lavoro straordinario lo farà per la ricerca. Importante in questa sequenza la figura del direttore: egli sta vedendo l’Amleto. L’episodio e la citazione sembrano marginali, ma così non sono; ambedue dopo la morte del padre cercano la loro identità. Malpelo, nell’uscire illeso e nello scavare a mani nude, sanguinolente, viene definito dalla pelle dura come i gatti, ed i gatti, nella tradizione popolare sono associati ai diavoli.
  • Il ritorno nell’inferno della cava: qui Malpelo (il diavolo) si mette in contatto con l’inferno (la cava); è talmente spinto nella ricerca che rifiuta il cibo, gettandolo ai cani.
  • Il rapporto con Ranocchio: il rapporto con il povero ragazzino, apprendista minatore, si profila subito come pedagogico; egli gli insegna che la natura e la storia rispondono solo alla legge del più forte, a tale scopo basti l’esempio dell’asino con gli uomini e della cava con suo padre. Ma tale rapporto pedagogico si configura anche come rapporto paterno: Malpelo offre protezione a Malocchio, si leva il pane dalla bocca per lui e lo chiama “bestia” (Bestia che non sei altro!) come il nome di suo padre.
  • La vita fuori della cava: Malpelo esce dalla cava il sabato e trascorre il tempo fuori da essa fino a domenica sera. Ma questo periodo non è caratterizzato da un ritorno in famiglia. Il parallelismo che si instaura tra il cane cacciato a sassate dal paese e lui mandato via di casa ci fa capire il senso d’isolamento che caratterizza entrambi; nel rapporto zoomorfo che Malpelo instaura con altri animali il passo è illuminante: cane che sembra un lupo, occhi da gattaccio; ma all’interno della miniera è un asino, è la miniera rimane il solo suo ambiente.
  • Il ritrovamento di Mastro Misciu: al ritrovamento del corpo il microcosmo minerario risponde in maniera opposta: i compagni di lavoro pensano alla sua sistemazione, Malpelo non vi partecipa perché non accetta la sua morte. Si concentra, simbolicamente, sugli oggetti che sono appartenuti al genitore, facendo dei pantaloni paterni, sentiti al tatto, una metafora delle carezze paterne. Il pensiero della morte si riaffaccia in lui quando muore il “grigio”: la vita è solo sopravvivenza, intorno alla quale ogni bisogno primario ruota; la morte come fatto positivo e cancellazione di ogni sofferenza (sembra riprendere Leopardi).
  • La sciara: la sciara è la distesa di detriti lavici e quindi il magma sotterraneo riapparso sulla terra. Se è quindi il sotterraneo che riemerge, non ha alcuna differenza con quello che c’è sotto, la cava. Il suo essere nera, rimanda al colore infernale, vissuto come assoluto, cui fanno compagnia i pipistrelli, topi con le ali, come di Malpelo a Ranocchio. La vita nella sciara è una non vita, isolamento e morte, il corpo del grigio ed è la memoria di chi si è perso nelle gallerie e non è più tornato. La sequenza si chiude con una riflessione filosofica: il paradiso è non esiste, come dice Ranocchio; se raccoglie i buoni ed il padre, ch’era buono, non c’è, ma sta sotto terra, vuol dire negare qualsiasi forma d’esistenza dopo la morte ed una concezione meccanicistica della vita, sebbene totalmente inconsapevole.
  • La malattia di Ranocchio: Quando muore Ranocchio cessa anche quella funzione paterna che Malpelo aveva assunto con lui. Viene pertanto richiamata la sua solitudine che lo porta alla considerazione che la vita e sofferenza, la morte lo scioglimento di essa. Considerazione già fatta, ma ora esplicitata dalla morte dell’amico e dalla visione del “grigio” nella sciara.
  • Epilogo: la sequenza inizia con una prolessi, anticipando la morte di Malpelo nella cava; ma la sua morte è diversa da quella di Mastro Misciu: quest’ultima avviene per motivi economici, per Malpelo si struttura come esplorazione, che nel suo animo semplice sembra indicare ricerca della propria identità. Riprendendo l’episodio dell’Amleto, anche quest’ultimo sente la Danimarca come una prigione, anch’esso vuole ricercare se stesso, anche se questo potrebbe significare la morte. Questo fa sì che il personaggio esca dalla storia e tale uscita è testimoniata dalla presenza all’interno della cava “immaginata” dai minatori, che lo trasformano, da personaggio miserrimo, in un vero e proprio mito. 

LA LUPA

Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano.
Al villaggio la chiamavano “la Lupa” perché non era sazia giammai – di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all’altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. – Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l’anima per lei.
Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l’avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio.
Una volta la Lupa si innamorò di un bel ragazzo che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro, ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma colui seguitava a mietere tranquillamente col naso sui manipoli, e le diceva: «O che avete, gnà Pina?»
Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: «Che volete, gnà Pina?»
Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell’aia, stanchi della lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna
nera: «Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te!»
«Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella, rispose Nanni ridendo». La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò, né più comparve nell’aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l’olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolìo del torchio non la faceva dormire tutta notte.
«Prendi il sacco delle ulive», disse alla figliuola, «e vieni con me».
Nanni spingeva colla pala le ulive sotto la macina, e gridava ohi! alla mula perché non si arrestasse. «La vuoi mia figlia Maricchia?» gli domandò la gnà Pina. «Cosa gli date a vostra figlia Maricchia?» rispose Nanni. «Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le dò la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po’ di pagliericcio». «Se è così se ne può parlare a Natale, disse Nanni» Nanni era tutto unto e sudicio dell’olio e delle ulive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: «Se non lo pigli ti ammazzo!»
La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più in qua e in là; non si metteva più sull’uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni,
e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. “In quell’ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona”, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell’afa, lontan lontano, verso l’Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull’orizzonte.
«Svegliati!» disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. «Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola».
Nanni spalancò gli occhi imbambolati, fra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani.
«No! non ne va in volta femmina buona nell’ora fra vespero e nona!» singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l’erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. «Andatevene! Andatevene! non ci venite più nell’aia!»
Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone.
Ma nell’aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla; e quando
tardava a venire, nell’ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in
cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte; – e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: «Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell’aia!»
Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa, quando la vedeva tornare da’ campi pallida e muta ogni volta. «Scellerata! le diceva. «Mamma scellerata!»
«Taci!»
«Ladra! ladra!»
«Taci!»
«Andrò dal brigadiere, andrò!»
«Vacci!»
E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l’amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio dalle ulive messe a fermentare.
Il brigadiere fece chiamare Nanni, e lo minacciò della galera, e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò scolparsi. È la tentazione! diceva; è la tentazione dell’inferno! si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.
«Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! fatemi ammazzare, mandatemi in prigione; non me la lasciate veder più, mai! mai!»
«No! rispose però la Lupa al brigadiere. Io mi son riserbato un cantuccio
della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia. Non voglio andarmene!»
Poco dopo, Nanni s’ebbe nel petto un calcio dal mulo e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si poté preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel tempo, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell’anima e nel corpo quando fu guarito. «Lasciatemi stare!» diceva alla Lupa; «per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me…»
Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall’incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza, e poi, come la Lupa tornava a tentarlo:
«Sentite! le disse, non ci venite più nell’aia, perché se tornate a cercarmi,
com’è vero Iddio, vi ammazzo!»
«Ammazzami», rispose la Lupa, «ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci».
Ei come la scorse da lontano, in mezzo a’ seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall’olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri.
«Ah! malanno all’anima vostra!» balbettò Nanni.

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Scena del film di Alberto Lattuada “La lupa” con Anna Magnani e Osaldo Parenti 

Anche la Lupa come Malpelo ha qualcosa di ferino e quindi è un’isolata all’interno del consorzio sociale; la sua animalità tuttavia è tutta nella sessualità, la quale viene vissuta al di là di qualsiasi convenzione, rispondendo solo ad un appetito che non conosce né regole né relazioni. Non solo ha rovinato molti uomini, tra cui quel santo del parroco, ma addirittura ruba il marito alla figlia, a cui l’aveva dato proprio per averlo vicino. E’ talmente assatanata da essere, come dice il nome stesso, associata al diavolo ed è per questo che intorno a lei girano superstizioni, a volte riferite con detti popolari (l’uso della lingua è più vicino al parlato di quanto fosse in Malpelo). A livello stilistico il ritmo narrativo si presenta veloce, ellittico. Anche questa storia ha qualcosa di mitico: in Malpelo si dà il mito nel non ritrovamento, nel perdersi all’interno della cava, in la Lupa nell’assenza di ambiente: terra, natura, ciclicità del raccolto, ma non vi è altro, non vi è paese, non vi sono persone. Ed è un mito che resiste anche nella morte: ad essere sconfitto è Nanni, che di fronte a lei non può che emettere un debole borbottio.

I Malavoglia

Ad un anno dalla pubblicazione delle novelle Vita dai campi, Verga dà vita al suo capolavoro:

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Gente di Acitrezza

I Toscano, detti “Malavoglia”, pescatori di Aci Trezza, posseggono una casa e una barca, la “Provvidenza”. Padron ‘Ntoni, il vecchio capofamiglia, padre di Bastianazzo che a sua volta ha cinque figli, compra un carico di lupini da vendere altrove; ma la barca fa naufragio, Bastianazzo muore e i lupini vanno perduti; per i Malavoglia è l’inizio di una lunga serie di sventure. Per pagare il debito bisogna vendere la casa (“la casa del nespolo”); Luca, il secondo genito di Bastianazzo, cade nella battaglia di Lissa e anche la vedova, Maruzza, muore vittima del colera. Sotto i colpi della sorte avversa, i giovani non resistono: ‘Ntoni, il figlio maggiore di Bastianazzo, comincia a frequentare cattive compagnie, si da’ al contrabbando e finisce in galera, e anche la sorella più piccola, Lia, compromessa per le voci che circolano su una sua presunta relazione con don Michele, il brigadiere delle guardie doganali, fugge di casa e scompare (si saprà poi che è diventata una prostituta); mentre la sorella maggiore, Mena, a causa delle difficoltà economiche non potrà sposarsi con compare Alfio. Con la morte di padron ‘Ntoni la famiglia è smembrata; ‘Ntoni lascerà il paese per andare lontano. Resterà, per riscattare la casa del nespolo e continuare il mestiere del nonno, il più giovane dei fratelli, Alessi.

PREFAZIONE AI MALAVOGLIA

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei “Malavoglia” non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, “Mastro-don Gesualdo”, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella “Duchessa de Leyra”; e ambizione nell’“Onorevole Scipioni”, per arrivare all’“Uomo di lusso”, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e  febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
“I Malavoglia”, “Mastro-don Gesualdo”, la “Duchessa de Leyra”, l’“Onorevole Scipioni”, l’ “Uomo di lusso”, sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione – dall’umile pescatore al nuovo arricchito – alla intrusa nelle alte classi – all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge – all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Milano, 19 gennaio, 1881 

Il passo rivela un elemento non toccato dalle novelle: potremo dire che la riflessione verghiana in questo progetto narrativo, è concentrata sul divenire storico, su quel “progresso”, perno su cui ruota la filosofia positivista; qui egli definisce il “progresso” come una “fiumana”, termine che indica una forza che travolge ogni cosa, contro la quale non ci si può opporre. E’ per questo che il suo impeto abbatte ogni forma umana, dalla più semplice alla più elevata. Anzi, il nostro sembra quasi dirci che pur nella disperazione, forse la condizione più felice sia quella miserrima dei pescatori di Aci Trezza. Potremo dire, come in Fantasticheria, che essi, come l’ostrica, hanno avuto ancora la possibilità di starsene attaccati sullo scoglio, come farà Alessi, ma non appena gli si offre la possibilità di superare il limite loro concesso dalla “storia”, si perdono; non per niente estremamente più tragico è l’esito del Mastro, dove domina la più nera solitudine e lo scherno.

Non è da tacere il tentativo da parte di Verga di fare un ciclo, secondo la moda dapprima balzacchiana poi confermata da Zola; il titolo che voleva dare ad esso era I Vinti, a confermare che non c’era, nel suo disegno, alcuno che potesse scampare al determinismo della storia e a rafforzare la sua idea sul progresso antitetica rispetto al naturalismo francese.

LA FAMIGLIA MALAVOGLIA
(cap. 1)

Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro. Diceva pure: – Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «soffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ‘Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ‘Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron ‘Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto».

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Mena e Lia

Sin dall’inizio Verga ci immerge all’interno della storia narrata attraverso la scomparsa dello scrittore onnisciente. I Malavoglia si presentano da sé senza bisogno di alcuna introduzione. La “veridicità” del racconto viene poi amplificata dal parlare formulario di Padron ‘Ntoni: l’uso ripetuto dei proverbi, che rappresentano per lui la saggezza popolare, ci rimandano ad un tempo mitico, immutabile, come immutabile è il perno attorno al quale ruota l’intera famiglia: “la casa del nespolo” che viene a simboleggiare l’unità familiare, sottolineata dalla metafora delle dita della mano. Si affaccia in questa pagina, inoltre, l’uso dell’indiretto libero: quando nell’ultimo periodo l’autore fa proprio il pensiero del personaggio. Tale circolarità mitica verrà interrotta dall’arrivo della storia: il servizio militare all’indomani dell’unità d’Italia.

MENA
(cap. 2)

Maruzza udendo suonare un’ora di notte era rientrata in casa lesta lesta, per stendere la tovaglia sul deschetto; le comari a poco a poco si erano diradate, e come il paese stesso andava addormentandosi, si udiva il mare che russava lì vicino, in fondo alla straduccia, e ogni tanto sbuffava, come uno che si volti e rivolti pel letto. Soltanto laggiù all’osteria, dove si vedeva il lumicino rosso, continuava il baccano, e si udiva il vociare di Rocco Spatu il quale faceva festa tutti i giorni.
«Compare Rocco ha il cuore contento», disse dopo un pezzetto dalla sua finestra Alfio Mosca, che pareva non ci fosse più nessuno.
«Oh siete ancora là, compare Alfio!» rispose Mena, la quale era rimasta sul ballatoio ad aspettare il nonno.
«Sì, sono qua, comare Mena; sto qua a mangiarmi la minestra; perché quando vi vedo tutti a tavola, col lume, mi pare di non esser tanto solo, che va via anche l’appetito».
«Non ce l’avete il cuore contento voi?»
«Eh! ci vogliono tante cose per avere il cuore contento!»
Mena non rispose nulla, e dopo un altro po’ di silenzio compare Alfio soggiunse: «Domani vado alla città per un carico di sale».
«Che ci andate poi per i Morti?» domandò Mena.
«Dio lo sa, quest’anno quelle quattro noci son tutte fradicie.
«Compare Alfio ci va per cercarsi la moglie alla città», rispose la Nunziata dall’uscio dirimpetto.
«Che è vero?» domandò Mena.
«Eh, comare Mena, se non dovessi far altro, al mio paese ce n’è delle ragazze come dico io, senza andare a cercarle lontano»
«Guardate quante stelle che ammiccano lassù!» rispose Mena dopo un pezzetto. «Ei dicono che sono le anime del Purgatorio che se ne vanno in Paradiso».
«Sentite», le disse Alfio dopo che ebbe guardate le stelle anche lui; «voi che siete sant’Agata, se vi sognate un terno buono, ditelo a me, che ci giuocherò la camicia, e allora potrò pensarci a prender moglie…»
«Buona sera!» rispose Mena.
Le stelle ammiccavano più forte, quasi s’accendessero, e i tre re scintillavano sui fariglioni colle braccia in croce, come Sant’Andrea. Il mare russava in fondo alla stradicciuola, adagio adagio, e a lunghi intervalli si udiva il rumore di qualche carro che passava nel buio, sobbalzando sui sassi, e andava pel mondo il quale è tanto grande che se uno potesse camminare e camminare sempre, giorno e notte, non arriverebbe mai, e c’era pure della gente che andava pel mondo a quell’ora, e non sapeva nulla di compar Alfio, né della Provvidenza che era in mare, né della festa dei Morti; – così pensava Mena sul ballatoio aspettando il nonno.

Nel II capitolo del romanzo vengono presentati i vari componenti del paese, i piccoli proprietari, che si riuniscono in piazza sui gradini della chiesa, i notabili, che si ritrovano nella farmacia, dove discutono di politica, e quello dei paesani e degli uomini, il cui punto di ritrovo è l’osteria. Le donne sono in strada. Il capitolo si chiude col momento lirico di Mena ed Alfio. Quest’ultimo fa capire a Mena che al ritorno dal paese la vorrebbe sposare, ma Mena lo invita a contemplare il paesaggio. Tutto viene antropomorfizzato: le stelle ammiccano, il mare russa. Il divagare di Mena è figlio dell’ansia per il padre in mare: sembra quasi presagire la forza della natura sulla piccolezza dell’uomo e sul suo agire e quindi sulla storia; e sarà proprio la natura a sopraffare l’azione di Bastianazzo:

LA TRAGEDIA
(cap. 3)

Dopo la mezzanotte il vento s’era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese, e a scuotere le imposte. Il mare si udiva muggire attorno ai fariglioni che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant’Alfio, e il giorno era apparso nero peggio dell’anima di Giuda. Insomma una brutta domenica di settembre, di quel settembre traditore che vi lascia andare un colpo di mare fra capo e collo, come una schioppettata fra i fichidindia. Le barche del villaggio erano tirate sulla spiaggia, e bene ammarrate alle grosse pietre sotto il lavatoio; perciò i monelli si divertivano a vociare e fischiare quando si vedeva passare in lontananza qualche vela sbrindellata, in mezzo al vento e alla nebbia, che pareva ci avesse il diavolo in poppa; le donne invece si facevano la croce, quasi vedessero cogli occhi la povera gente che vi era dentro.
Maruzza la Longa non diceva nulla, com’era giusto, ma non poteva star ferma un momento, e andava sempre di qua e di là, per la casa e pel cortile, che pareva una gallina quando sta per far l’uovo. Gli uomini erano all’osteria, e nella bottega di Pizzuto, o sotto la tettoia del beccaio, a veder piovere, col naso in aria. Sulla riva c’era soltanto padron ‘Ntoni, per quel carico di lupini che vi aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini. Padron Fortunato Cipolla, mentre gli facevano la barba, nella bottega di Pizzuto, diceva che non avrebbe dato due baiocchi di Bastianazzo e di Menico della Locca, colla Provvidenza e il carico dei lupini.
«Adesso tutti vogliono fare i negozianti, per arricchire!» diceva stringendosi nelle spalle; «e poi quando hanno perso la mula vanno cercando la cavezza.»
Nella bottega di suor Mariangela la Santuzza c’era folla: quell’ubbriacone di Rocco Spatu, il quale vociava e sputava per dieci; compare Tino Piedipapera, mastro Turi Zuppiddu, compare Mangiacarrubbe, don Michele il brigadiere delle guardie doganali, coi calzoni dentro gli stivali, e la pistola appesa sul ventre, quasi dovesse andare a caccia di contrabbandieri con quel tempaccio, e compare Mariano Cinghialenta. Quell’elefante di mastro Turi Zuppiddu andava distribuendo per ischerzo agli amici dei pugni che avrebbero accoppato un bue, come se ci avesse ancora in mano la malabestia di calafato, e allora compare Cinghialenta si metteva a gridare e bestemmiare, per far vedere che era uomo di fegato e carrettiere.
Lo zio Santoro, raggomitolato sotto quel po’ di tettoia, davanti all’uscio, aspettava colla mano stesa che passasse qualcheduno per chiedere la carità. «Tra tutte e due, padre e figlia», disse compare Turi Zuppiddu, «devono buscarne dei bei soldi, con una giornata come questa, e tanta gente che viene all’osteria.»
«Bastianazzo Malavoglia sta peggio di lui, a quest’ora», rispose Piedipapera, «e mastro Cirino ha un bel suonare la messa; ma i Malavoglia non ci vanno oggi in chiesa; sono in collera con Domeneddio, per quel carico di lupini che ci hanno in mare.»
Il vento faceva volare le gonnelle e le foglie secche, sicché Vanni Pizzuto col rasoio in aria, teneva pel naso quelli a cui faceva la barba, per voltarsi a guardare chi passava, e si metteva il pugno sul fianco, coi capelli arricciati e lustri come la seta; e lo speziale se ne stava sull’uscio della sua bottega, sotto quel cappellaccio che sembrava avesse il paracqua in testa, fingendo aver discorsi grossi con don Silvestro il segretario, perché sua moglie non lo mandasse in chiesa per forza; e rideva del sotterfugio, fra i peli della barbona, ammiccando alle ragazze che sgambettavano nelle pozzanghere.
(…)
Ciascuno non poteva a meno di pensare che quell’acqua e quel vento erano tutt’oro per i Cipolla; così vanno le cose di questo mondo, che i Cipolla, adesso che avevano la paranza bene ammarrata, si fregavano le mani vedendo la burrasca; mentre i Malavoglia diventavano bianchi e si strappavano i capelli, per quel carico di lupini che avevano preso a credenza dallo zio Crocifisso Campana di legno.
«Volete che ve la dica?» saltò su la Vespa; «la vera disgrazia è toccata allo zio Crocifisso che ha dato i lupini a credenza. “Chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno”.
Lo zio Crocifisso se ne stava ginocchioni a piè dell’altare dell’Addolorata, con tanto di rosario in mano, e intuonava le strofette con una voce di naso che avrebbe toccato il cuore a satanasso in persona. Fra un’avemaria e l’altra si parlava del negozio dei lupini, e della Provvidenza che era in mare, e della Longa che rimaneva con cinque figliuoli. «Al giorno d’oggi», disse padron Cipolla, stringendosi nelle spalle, «nessuno è contento del suo stato e vuol pigliare il cielo a pugni.»
«Il fatto è», conchiuse compare Zuppiddu, «che sarà una brutta giornata pei Malavoglia».
(…)
Sull’imbrunire comare Maruzza coi suoi figlioletti era andata ad aspettare sulla sciara, d’onde si scopriva un bel pezzo di mare, e udendolo urlare a quel modo trasaliva e si grattava il capo senza dir nulla. La piccina piangeva, e quei poveretti, dimenticati sulla sciara, a quell’ora, parevano le anime del purgatorio. Il piangere della bambina le faceva male allo stomaco, alla povera donna, le sembrava quasi un malaugurio; non sapeva che inventare per tranquillarla, e le cantava le canzonette colla voce tremola che sapeva di lagrime anche essa. Le comari, mentre tornavano dall’osteria coll’orciolino dell’olio, o col fiaschetto del vino, si fermavano a barattare qualche parola con la Longa senza aver l’aria di nulla, e qualche amico di suo marito Bastianazzo, compar Cipolla, per esempio, o compare Mangiacarrubbe, passando dalla sciara per dare un’occhiata verso il mare, e vedere di che umore si addormentasse il vecchio brontolone, andavano a domandare a comare la Longa di suo marito, e stavano un tantino a farle compagnia, fumandole in silenzio la pipa sotto il naso, o parlando sottovoce fra di loro. La poveretta, sgomenta da quelle attenzioni insolite, li guardava in faccia sbigottita, e si stringeva al petto la bimba, come se volessero rubargliela. Finalmente il più duro o il più compassionevole la prese per un braccio e la condusse a casa. Ella si lasciava condurre, e badava a ripetere: «Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!» I figliuoli la seguivano aggrappandosi alla gonnella, quasi avessero paura che rubassero qualcosa anche a loro. Mentre passavano dinanzi all’osteria, tutti gli avventori si affacciarono sulla porta, in mezzo al gran fumo, e tacquero per vederla passare come fosse già una cosa curiosa.
«Requiem eternam», biascicava sottovoce lo zio Santoro, quel povero Bastianazzo mi faceva sempre la carità, quando padron ‘Ntoni gli lasciava qualche soldo in tasca.
La poveretta che non sapeva di essere vedova, balbettava: «Oh! Vergine Maria! Oh! Vergine Maria!» Dinanzi al ballatoio della sua casa c’era un gruppo di vicine che l’aspettavano, e cicalavano a voce bassa fra di loro. Come la videro da lontano, comare Piedipapera e la cugina Anna le vennero incontro, colle mani sul ventre, senza dir nulla. Allora ella si cacciò le unghie nei capelli con uno strido disperato e corse a rintanarsi in casa.
«Che disgrazia!» dicevano sulla via. «E la barca era carica! Più di quarant’onze di lupini!»

In questi passi del terzo capitolo si coglie la dinamica che intercorre il mondo dei Malavoglia e quello del paese. Il primo appare un mondo legato ai valori antichi dell’onestà e della dedizione al lavoro; il secondo, i paesani, vedono il mondo solo solo l’ottica del profitto: si percepisce, grazie anche al discorso indiretto libero, che per loro la disgrazia è nel “naufragio” dell’affare: sia per frate Cipolla, che ha prestato ad usura il carico di lupini, sia per padron ’Ntoni che aveva fatto un investimento a questo punto fallimentare. Il problema è che i mondi non si incontrano e, da parte dei più, c’è fraintendimento, per cui ogni azione dei Malavoglia, fosse questa legata alla loro concezione della vita, viene travisata e vista con l’unica ottica che il paese conosce. Circonda l’intero passo il concetto di fatalità, tipico, come già visto, della cultura siciliana. Il paese sembra guardare con estremo distacco all’evento in sé, quello che accade è destino che accada, l’uomo non ha la forza d’opporsi, ci dicono i personaggi del paese; ma lo stesso diceva Mena alla fine del capitolo precedente.

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Mena e Lia sugli scogli scrutano il mare

RITRATTO DELLO ZIO CROCIFISSO
(cap. 4)

Il peggio era che i lupini li avevano presi a credenza, e lo zio Crocifisso non si contentava di “buone parole e mele fradicie”, per questo lo chiamavano Campana di legno, perché non ci sentiva di quell’orecchio, quando lo volevano pagare con delle chiacchiere, e’ diceva che “alla credenza ci si pensa”.
Egli era un buon diavolaccio, e viveva imprestando agli amici, non faceva altro mestiere, che per questo stava in piazza tutto il giorno, colle mani nelle tasche, o addossato al muro della chiesa, con quel giubbone tutto lacero che non gli avreste dato un baiocco; ma aveva denari sin che ne volevano, e se qualcheduno andava a chiedergli dodici tarì glieli prestava subito, col pegno, perché “chi fa credenza senza pegno, perde l’amico, la roba e l’ingegno” a patto di averli restituiti la domenica, d’argento e colle colonne, che ci era un carlino dippiù, com’era giusto, perché “coll’interesse non c’è amicizia”. Comprava anche la pesca tutta in una volta, con ribasso, e quando il povero diavolo che l’aveva fatta aveva bisogno subito di denari, ma dovevano pesargliela colle sue bilancie, le quali erano false come Giuda, dicevano quelli che non erano mai contenti, ed hanno un braccio lungo e l’altro corto, come san Francesco; e anticipava anche la spesa per la ciurma, se volevano, e prendeva soltanto il denaro anticipato, e un rotolo di pane a testa, e mezzo quartuccio di vino, e non voleva altro, ché era cristiano e di quel che faceva in questo mondo avrebbe dovuto dar conto a Dio. Insomma era la provvidenza per quelli che erano in angustie, e aveva anche inventato cento modi di render servigio al prossimo, e senza essere uomo di mare aveva barche, e attrezzi, e ogni cosa, per quelli che non ne avevano, e li prestava, contentandosi di prendere un terzo della pesca, più la parte della barca, che contava come un uomo della ciurma, e quella degli attrezzi, se volevano prestati anche gli attrezzi, e finiva che la barca si mangiava tutto il guadagno, tanto che la chiamavano la barca del diavolo – e quando gli dicevano perché non ci andasse lui a rischiare la pelle come tutti gli altri, che si pappava il meglio della pesca senza pericolo, rispondeva: «Bravo! e se in mare mi capita una disgrazia, Dio liberi, che ci lascio le ossa, chi me li fa gli affari miei?» Egli badava agli affari suoi, ed avrebbe prestato anche la camicia; ma poi voleva esser pagato, senza tanti cristi; ed era inutile stargli a contare ragioni, perché era sordo, e per di più era scarso di cervello, e non sapeva dir altro che “Quel che è di patto non è d’inganno”, oppure “Al giorno che promise si conosce il buon pagatore”.
Ora i suoi nemici gli ridevano sotto il naso, a motivo di quei lupini che se l’era mangiati il diavolo; e gli toccava anche recitare il deprofundis per l’anima di Bastianazzo, quando si facevano le esequie, insieme con gli altri confratelli della Buona Morte, colla testa nel sacco.
I vetri della chiesetta scintillavano, e il mare era liscio e lucente, talché non pareva più quello che gli aveva rubato il marito alla Longa; perciò i confratelli avevano fretta di spicciarsi, e di andarsene ognuno pei propri affari, ora che il tempo s’era rimesso al buono.
Stavolta i Malavoglia erano là, seduti sulle calcagna, davanti al cataletto, e lavavano il pavimento dal gran piangere, come se il morto fosse davvero fra quelle quattro tavole, coi suoi lupini al collo, che lo zio Crocifisso gli aveva dati a credenza, perché aveva sempre conosciuto padron ‘Ntoni per galantuomo; ma se volevano truffargli la sua roba, col pretesto che Bastianazzo s’era annegato, la truffavano a Cristo, com’è vero Dio! ché quello era un credito sacrosanto come l’ostia consacrata, e quelle cinquecento lire ei l’appendeva ai piedi di Gesù crocifisso; ma santo diavolone! padron ‘Ntoni sarebbe andato in galera! La legge c’era anche a Trezza!

La descrizione della figura dell’usuraio rappresenta un chiaro atteggiamento verghiano di “eclissi dell’autore”: a leggerlo è la concezione del paese; nel giro di un paragrafo dapprima lo chiama “campana di legno” perché non vuol sentirci per quanto riguarda il riscatto dei debiti; dall’altro “buon diavolaccio, viveva imprestando agli amici”; mano mano che la descrizione va avanti tali contraddizioni continuano ad emergere notiamo che da una parte il paese sottolinea la sua avidità nel commercio marino, dall’altra ne testimonia la necessità per chi vive in angustie. E’, come già detto, tutto ridotto all’economicità. Ce ne rendiamo conto anche all’interno della chiesa durante le esequie di Bastianazzo: il pensiero di un possibile rifiuto di resa del credito da parte dei Malavoglia viene visto come una bestemmia fatta al Signore, non rendendosi conto che a bestemmiare è proprio lui che “sacralizza” l’usura . Il suo nome, poi, cos’ legato al messaggio cristiano è, come spesso in Verga, usato in antifrasi: Crocifisso allo stesso modo in cui lui crocifigge i suoi creditori.

L’ABBANDONO DELLA CASA DEL NESPOLO
(cap. 9)

Il povero vecchio non aveva il coraggio di dire alla nuora che dovevano andarsene colle buone dalla casa del nespolo, dopo tanto tempo che ci erano stati, e pareva che fosse come andarsene dal paese, espatriare, o come quelli che erano partiti per ritornare, e non erano tornati più, che ancora c’era lì il letto di Luca, e il chiodo dove Bastianazzo appendeva il giubbone. Ma infine bisognava sgomberare con tutte quelle povere masserizie, e levarle dal loro posto, che ognuna lasciava il segno dov’era stata, e la casa senza di esse non sembrava più quella. La roba la trasportarono di notte, nella casuccia del beccaio che avevano presa in affitto, come se non si sapesse in paese che la casa del nespolo oramai era di Piedipapera, e loro dovevano sgomberarla, ma almeno nessuno li vedeva colla roba in collo. Quando il vecchio staccava un chiodo, o toglieva da un cantuccio un deschetto che soleva star lì di casa, faceva una scrollatina di capo. Poi si misero a sedere sui pagliericci ch’erano ammonticchiati nel mezzo della camera, per riposarsi un po’, e guardavano di qua e di là se avessero dimenticato qualche cosa; però il nonno si alzò tosto ed uscì nel cortile, all’aria aperta. Ma anche lì c’era della paglia sparsa per ogni dove, dei cocci di stoviglie, delle nasse sfasciate, e in un canto il nespolo, e la vite in pampini sull’uscio. «Andiamo via! diceva egli. Andiamo via, ragazzi. Tanto, oggi o domani!…» e non si muoveva. Maruzza guardava la porta del cortile dalla quale erano usciti Luca e Bastianazzo, e la stradicciuola per la quale il figlio suo se ne era andato coi calzoni rimboccati, mentre pioveva, e non l’aveva visto più sotto il paracqua d’incerata. Anche la finestra di compare Alfio Mosca era chiusa, e la vite pendeva dal muro del cortile che ognuno passando ci dava una strappata. Ciascuno aveva qualche cosa da guardare in quella casa, e il vecchio, nell’andarsene posò di nascosto la mano sulla porta sconquassata, dove lo zio Crocifisso aveva detto che ci sarebbero voluti due chiodi e un bel pezzo di legno.

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La casa del nespolo

Lo zio Crocifisso era venuto a dare un’occhiata insieme a Piedipapera, e parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa. Compare Tino non aveva potuto durarla a campare d’aria sino a quel giorno, e aveva dovuto rivendere ogni cosa allo zio Crocifisso, per riavere i suoi denari.
«Che volete, compare Malavoglia?» gli diceva passandogli il braccio attorno al collo. «Lo sapete che sono un povero diavolo, e cinquecento lire mi fanno! Se voi foste stato ricco ve l’avrei venduta a voi». Ma padron ‘Ntoni non poteva soffrire di andare così per la casa, col braccio di Piedipapera al collo. Ora lo zio Crocifisso ci era venuto col falegname e col muratore, e ogni sorta di gente che scorrazzavano di qua e di là per le stanze come fossero in piazza, e dicevano: «Qui ci vogliono dei mattoni, qui ci vuole un travicello nuovo, qui c’è da rifare l’imposta», come se fossero i padroni; e dicevano anche che si doveva imbiancarla per farla sembrare tutt’altra.
Lo zio Crocifisso andava scopando coi piedi la paglia e i cocci, e raccolse anche da terra un pezzo di cappello che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell’orto, dove avrebbe servito all’ingrasso. Il nespolo intanto stormiva ancora, adagio adagio, e le ghirlande di margherite, ormai vizze, erano tuttora appese all’uscio e le finestre, come ce le avevano messe a Pasqua delle Rose.
La Vespa era venuta a vedere anche lei, colla calzetta al collo, e frugava per ogni dove, ora che era roba di suo zio. Il “sangue non è acqua” andava dicendo forte, perché udisse anche il sordo. A me mi sta nel cuore la roba di mio zio, come a lui deve stare a cuore la mia chiusa. Lo zio Crocifisso lasciava dire e non udiva, ora che dirimpetto si vedeva la porta di compare Alfio con tanto di catenaccio. «Adesso che alla porta di compare Alfio c’è il catenaccio, vi metterete il cuore in pace, e lo crederete che non penso a lui!» diceva la Vespa all’orecchio dello zio Crocifisso. «Io ci ho il cuore in pace! rispondeva lui: sta tranquilla».
D’allora in poi i Malavoglia non osarono mostrarsi per le strade né in chiesa la domenica, e andavano sino ad Aci Castello per la messa, e nessuno li salutava più, nemmeno padron Cipolla, il quale andava dicendo: «Questa partaccia a me non la doveva fare padron ‘Ntoni. Questo si chiama gabbare il prossimo, se ci aveva fatto mettere la mano di sua nuora nel debito dei lupini!» «Tale e quale come dice mia moglie!» aggiungeva mastro Zuppiddu. «Dice che dei Malavoglia adesso non ne vogliono nemmeno i cani»

L’abbandono della casa del nespolo viene vissuta dai Malavoglia come fatto vergognoso, di notte senza che li veda nessuno. I gesti del vecchio, che ad ogni atto di sgombero scrolla il capo e infine, come se il peso della “sventura” gli pesasse all’improvviso, ordina, quasi, di andarsene via al più presto è l’unico momento lirico, incastonato così ad una vera profanazione di ciò che per padron ’Ntoni era un luogo sacro. La legge dell’economia pervade ancora, in modo prepotente, le azioni. Zio Crocifisso vi entra da padrone, la desacralizza letteralmente (parlavano a voce alta nelle stanze vuote, dove le parole si udivano come se fossero in chiesa), e cancella la storia, i ricordi, i sentimenti con un gesto brutale, definitivo (raccolse anche da terra un pezzo di cappello che era stato di Bastianazzo, e lo buttò nell’orto, dove avrebbe servito all’ingrasso).

IL VECCHIO ED IL NUOVO
(cap. 11)

Ma d’allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva sull’uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell’asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto gonfiava la schiena aspettando che lo bardassero! «Carne d’asino!» borbottava; «ecco cosa siamo! Carne da lavoro!» E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l’accarezzava sulle spalle, e l’accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell’uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.
«Orsù, che c’è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo!»
‘Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole.
«Sì, sì, qualcosa ce l’hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c’era prima. “Chi va coi zoppi, all’anno zoppica”.
«C’è che sono un povero diavolo! ecco cosa c’è!»
«Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel ch’è stato tuo nonno! “Più ricco è in terra chi meno desidera”. “Meglio contentarsi che lamentarsi”.
«Bella consolazione!»
Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra: «Almeno non lo dire davanti a tua madre»
«Mia madre… Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre!»
«Sì», accennava padron ‘Ntoni, «sì! meglio che non t’avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo».
‘Ntoni per un po’ non seppe che dire: «Ebbene!» esclamò poi, «lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po’ che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiar stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti». Padron ‘Ntoni spalancò tanto d’occhi, e andava ruminando quelle parole, come per poterle mandar giù. «Ricchi!» diceva, «ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?»
‘Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercare anche lui cosa avrebbero fatto. «Faremo quel che fanno gli altri… Non faremo nulla, non faremo!… Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni».
«Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato»; e pensando alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto.
«Tu sei un ragazzo, e non lo sai!… non lo sai!… Vedrai cos’è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!… Lo vedrai! te lo dico io che son vecchio!» Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: «“Ad ogni uccello, suo nido è bello”. Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene».
«Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro!» rispondeva ‘Ntoni. «Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l’asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani».
«Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova”. Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! “Il buon pilota si prova alle burrasche”. Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos’hai! Quando la buon’anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io era più giovane di te, e non aveva paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l’ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l’ha fatto anche lei il suo dovere, povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato, e si è aiutata come una povera formica anche lei; non ha fatto altro, tutta la sua vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quando non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro».
In conclusione ‘Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l’aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo. La mattina si lasciava caricare svogliatamente degli arnesi, e se ne andava al mare brontolando: «Tale e quale l’asino di compare Alfio! come fa giorno allungo il collo per vedere se vengono a mettermi il basto».

Fino adesso nel romanzo abbiamo incontrato due tipologie romanzesche: da un lato i paesani, legati al profitto, umanamente disinteressati alle vicende altrui, gretti e meschini; dall’altra l’onestà di padron ‘Ntoni. Ora, nella narrazione, appare in modo ancor più violento del primo la storia. Essa dapprima aveva portato ‘Ntoni fuori dal paese, nella grande città, a Napoli, a fare il soldato, e, nel bene o nel male, aveva installato in lui, la “malattia” del cambiamento; poi Luca, che invece la storia se l’è preso, morendo per una guerra per lui lontana e senza senso. Ora la “malattia” di ‘Ntoni esplode, come una metastasi impazzita: è bastato l’arrivo in paese di due contrabbandieri, soldi facili si direbbe, per gravare su di lui l’insopportabilità di una vita sempre uguale e la voglia di fuggire. Ecco allora che si mettono in campo due visioni del mondo antitetiche: il conservatorismo del nonno e il ribellismo del nipote, il mondo statico di padron ‘Ntoni e il mondo dinamico di ‘Ntoni.

Se ci fossimo trovati di fronte ad un romanzo zoliano, molto probabilmente l’idea di uno sviluppo positivo, il tentativo di uscire da una condizione per migliorare la propria vita, sarebbe stato positivo. Per il conservatore Verga no: il ribellismo di ‘Ntoni non ha prospettive; la ricchezza è uguale alla scioperatezza, ad una condizione malata di essa; si è che Verga non vede prospettive, la sua storia è storia di fallimenti, non di progresso. Ma ciò non vuol dire che sia possibile ripristinare il passato:

IL RITORNO DI ALFIO
(cap. 15)

Alfio Mosca, mentre guidava il mulo, andava raccontando alla Nunziata come e dove avesse vista la Lia, ch’era tutta Sant’Agata, e ancora non gli pareva vero a lui stesso che l’avesse vista coi suoi occhi, tanto che la voce gli mancava nella gola, mentre ne parlava per ingannare la noia, lungo la strada polverosa. – Ah Nunziata! chi l’avrebbe detto, quando stavamo a chiacchierare da un uscio all’altro, e c’era la luna, e i vicini discorrevano lì davanti, e si udiva colpettare tutto il giorno quel telaio di Sant’Agata, e quelle galline che la conoscevano soltanto all’aprire che faceva il rastrello, e la Longa che la chiamava pel cortile, che ogni cosa si udiva da casa mia come se fosse stato proprio là dentro! Povera Longa! Adesso, vedi, che ci ho il mulo, e ogni cosa come desideravo, che se fosse venuto a dirmelo l’angelo del cielo non ci avrei creduto, adesso penso sempre a quelle sere là, quando udivo la voce di voialtre, mentre governavo l’asino, e vedevo il lume nella casa del nespolo, che ora è chiusa, e quando son tornato non ho trovato più niente di quel che avevo lasciato, e comare Mena non mi è parsa più quella. Uno che se ne va dal paese è meglio non ci torni più. Vedi, ora penso pure a quel povero asino che ha lavorato con me tanto tempo, e andava sempre, sole o pioggia, col capo basso e le orecchie larghe. Adesso chissà dove lo cacciano, e con quali carichi, e per quali strade, colle orecchie più basse ancora, ché anch’egli fiuta col naso la terra che deve raccoglierlo, come si fa vecchio, povera bestia! Padron ‘Ntoni, disteso sulla materassa, non udiva nulla, e ci avevano messo sul carro una coperta colle canne, sicché sembrava che portassero un morto. «Per lui è meglio che non oda più nulla», seguitava compare Alfio. «L’angustia di ‘Ntoni già l’ha sentita, e un giorno o l’altro gli toccherebbe anche di sentire come è andata a finire la Lia.»
(…)
Giacché tutti si maritavano, Alfio Mosca avrebbe voluto prendersi comare Mena, che nessuno la voleva più, dacché la casa dei Malavoglia s’era sfasciata, e compar Alfio avrebbe potuto dirsi un bel partito per lei, col mulo che ci aveva; così la domenica ruminava fra di sé tutte le ragioni per farsi animo, mentre stava accanto a lei, seduto davanti alla casa, colle spalle al muro, a sminuzzare gli sterpolini della siepe per ingannare il tempo. Anche lei guardava la gente che passava, e così facevano festa la domenica: «Se voi mi volete ancora, comare Mena», disse finalmente, «io per me son qua.»
La povera Mena non si fece neppur rossa, sentendo che compare Alfio aveva indovinato che ella lo voleva, quando stavano per darla a Brasi Cipolla, tanto le pareva che quel tempo fosse lontano, ed ella stessa non si sentiva più quella.«Ora sono vecchia, compare Alfio», rispose, «e non mi marito più.»
«Se voi siete vecchia, anch’io sono vecchio, ché avevo degli anni più di voi, quando stavamo a chiacchierare dalla finestra, e mi pare che sia stato ieri, tanto m’è rimasto in cuore. Ma devono esser passati più di otto anni. E ora quando si sarà maritato vostro fratello Alessi, voi restate in mezzo alla strada.»
Mena si strinse nelle spalle, perché era avvezza a fare la volontà di Dio, come la cugina Anna; e compare Alfio, vedendo così, riprese: «Allora vuol dire che non mi volete bene, comare Mena, e scusatemi se vi ho detto che vi avrei sposata. Lo so che voi siete nata meglio di me, e siete figlia di padroni; ma ora non avete più nulla, e se si marita vostro fratello Alessi, rimarrete in mezzo alla strada. Io ci ho il mulo e il mio carro, e il pane non ve lo farei mancare giammai, comare Mena. Ora perdonatemi la libertà!»
«Non mi avete offesa, no, compare Alfio; e vi avrei detto di sì anche quando avevamo la Provvidenza e la casa del nespolo, se i miei parenti avessero voluto, che Dio sa quel che ci avevo in cuore quando ve ne siete andato alla Bicocca col carro dell’asino, e mi pare ancora di vedere quel lume nella stalla, e voi che mettevate tutta la vostra roba sul carretto, nel cortile; vi rammentate?»
«Sì, che mi rammento! Allora perché non mi dite di sì, ora che non avete più nulla, e ci ho il mulo invece dell’asino al carretto, e i vostri parenti non potrebbero dir di no?»
«Ora non son più da maritare;» tornava a dire Mena col viso basso, e sminuzzando gli sterpolini della siepe anche lei. «Ho 26 anni, ed è passato il tempo di maritarmi.»
«No, che non è questo il motivo per cui non volete dirmi di sì!» ripeteva compar Alfio col viso basso come lei. «Il motivo non volete dirmelo!»
E così rimanevano in silenzio a sminuzzare sterpolini senza guardarsi in faccia. Dopo egli si alzava per andarsene, colle spalle grosse e il mento sul petto. Mena lo accompagnava cogli occhi finché poteva vederlo, e poi guardava al muro dirimpetto e sospirava. Come aveva detto Alfio Mosca, Alessi s’era tolta in moglie la Nunziata, e aveva riscattata la casa del nespolo.
«Io non son da maritare», aveva tornato a dire la Mena; «maritati tu che sei da maritare ancora;» e così ella era salita nella soffitta della casa del nespolo, come le casseruole vecchie, e s’era messo il cuore in pace, aspettando i figliuoli della Nunziata per far la mamma. Ci avevano pure le galline nel pollaio, e il vitello nella stalla, e la legna e il mangime sotto la tettoia, e le reti e ogni sorta di attrezzi appesi, il tutto come aveva detto padron ‘Ntoni; e la Nunziata aveva ripiantato nell’orto i broccoli ed i cavoli, con quelle braccia delicate che non si sapeva come ci fosse passata tanta tela da imbiancare, e come avesse fatti quei marmocchi grassi e rossi che la Mena si portava in collo pel vicinato, quasi li avesse messi al mondo lei, quando faceva la mamma. Compare Mosca scrollava il capo, mentre la vedeva passare, e si voltava dall’altra parte, colle spalle grosse. «A me non mi avete creduto degno di quest’onore!» le disse alfine quando non ne poté più, col cuore più grosso delle spalle. «Io non ero degno di sentirmi dir di sì!»
«No, compar Alfio!» rispose Mena la quale si sentiva spuntare le lagrime. «Per quest’anima pura che tengo sulle braccia! Non è per questo motivo. Ma io non son più da maritare.»
«Perché non siete più da maritare, comare Mena?»
«No! no!» – ripeteva comare Mena, che quasi piangeva. «Non me lo fate dire, compar Alfio! Non mi fate parlare! Ora se io mi maritassi, la gente tornerebbe a parlare di mia sorella Lia, giacché nessuno oserebbe prendersela una Malavoglia, dopo quello che è successo. Voi pel primo ve ne pentireste. Lasciatemi stare, che non sono da maritare, e mettetevi il cuore in pace.
«Avete ragione, comare Mena!» rispose compare Mosca; «a questo non ci avevo mai pensato. Maledetta la sorte che ha fatto nascere tanti guai! Così compare Alfio si mise il cuore in pace, e Mena seguitò a portare in braccio i suoi nipoti, quasi ci avesse il cuore in pace anche lei, e a spazzare la soffitta, per quando fossero tornati gli altri, che c’erano nati anche loro, – come se fossero stati in viaggio per tornare! – diceva Piedipapera.

Il ritorno di Alfio è giocato sul ricordo: il piano del ricordo che vuole rimettere in gioco nel presente, la Mena di ieri e la Mena di oggi. Anche qui, come nel passo precedente, le loro figure rimandano ad una sorte di pudore sentimentale, che può diventare “sfacciataggine” di compare Alfio, una “sfacciataggine” tuttavia che non offende, determinata dal sentimento che non è mai cambiato nei confronti della nipote di padron ‘Ntoni. Ma il passato non può tornare. Uno che se ne va dal paese è meglio che non torni più, dice Alfio; le cose cambiano ed anche i sentimenti escono sconfitti. La storia ha cambiato le situazioni, non esiste più circolarità.

IL RITORNO DI ‘NTONI
(cap. 15)

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ‘Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato, e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ‘Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene. Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si sentì balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: «Te ne vai?»
«Sì!» rispose ‘Ntoni.
«E dove vai?» chiese Alessi.
«Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.»
Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli faceva bene a dir così. ‘Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non sapeva risolversi ad andarsene.
«Ve lo farò sapere dove sarò;» disse infine, e come fu nel cortile, sotto il nespolo, che era scuro, disse anche: «E il nonno?»
Alessi non rispose; ‘Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto: «E la Lia che non l’ho vista?»
E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo: «E’ morta anche lei?» Alessi non rispose nemmeno; allora ‘Ntoni che era sotto il nespolo, colla sporta in mano, fece per sedersi, poiché le gambe gli tremavano, ma si rizzò di botto, balbettando: «Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?»
Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ‘Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: «Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c’erano le chioccie, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra…»
Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ‘Ntoni disse: «Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa.»
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: «Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te.»
«No!» rispose ‘Ntoni. «Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene.»
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo. «Addio,» ripeté ‘Ntoni. «Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti.»
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico. Allora ‘Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo. Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. «Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta, pensò ‘Ntoni, e si accoccolerà sull’uscio a cominciare la sua giornata anche lui.» Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: «Ora è tempo d’andarmene, perché fra poco comincierà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.»

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‘Ntoni

Dopo il ritorno di Alfio, il ritorno di ‘Ntoni. Poche righe separano le due azioni: poche righe lo stesso concetto. C’è sconfitta, ma questa volta non è sentimentale, e di un’intera vita. Se per Alfio la sconfitta è un dire addio a Mena, ma è un ritorno diverso, in cui lui è più ricco, sia dentro che fuori e comprende le leggi che sovrintendono alla comunità, ‘Ntoni è totalmente sconfitto. La galera lo ha escluso definitivamente, lo ha reso “inaccettabile” soprattutto a lui stesso, gli ha fatto capire l’errore di un sogno e il duro prezzo che è costretto a pagare. Il ricordo non lo aiuta, anzi esacerba il suo rimpianto e lo porta alla considerazione della vanità delle cose. Solo la natura, sempre uguale a se stessa, sembra resistere agli effetti della storia: il mare che brontola, l’alba, i Tre Re; gli altri, come Rocco Spatu che è il primo a svegliarsi, ricominceranno a lavorare e a arrabbattarsi, comunque inutilmente. Quanta tristezza nell’addio di ‘Ntoni, quanta verità, e quanta poesia nella scarsezza lessicale verghiana!

I Malavoglia, come detto, è un romanzo pubblicato nel 1881, ad un anno di distanza dalle novelle di Vita dei campi. La genesi ci porta nel 1874, dove al suo editore Treves prospetta un “bozzetto marinaresco” dal titolo Padron ‘Ntoni. Tuttavia bisogna aspettare ancora sei anni, con il passaggio al mondo rurale in Nedda, perché Verga trovasse infine l’intero materiale per dar vita al romanzo.
Non c’è differenza stilistica, né diversità ideologica tra le novelle ed I Malavoglia: ne è testimonianza Fantasticheria, che apre Vita dei campi: vengono qui descritti personaggi che faranno parte del romanzo. Ciò vuol dire che la composizione delle due opere avviene contemporaneamente.

Per l’analisi dell’opera partiamo dalla presentazione dei personaggi: questa non è mai analitica e descrittiva, ma statica, dettata dalle stesse azioni degli stessi e registrata da un narratore interno.
I personaggi vengono distribuiti in due categorie in modo parallelo ed antitetico:

  • i Malavoglia ed il paese: i primi legati ai valori della laboriosità ed onestà; i secondi rappresentano invece un mondo dominato dal denaro e l’affermazione sociale; Verga nella descrizione dei due non prende alcuna parte. La grettezza rimane tale, dall’inizio alla fine. Ma anche padron ‘Ntoni non è salvato, con la sua cocciutaggine per la “religione della famiglia” porta quest’ultima alla rovina;
  • All’interno della famiglia: padron ‘Ntoni con Mena e Alessi e, dall’altra parte ‘Ntoni e Lia. I primi agiscono all’interno di un conflitto tra loro ed il destino e ciò che esso prepara loro (tempeste, morte); i secondi un conflitto con se stessi che si esplica attraverso l’insofferenza e i limiti imposti dalla famiglia e la voglia di scappare di realizzare se stessi in un futuro nebuloso dai contorni indefiniti. Anche qui Verga non si schiera; ancora padron ‘Ntoni che non sa che opporre al nipote stanco proverbi “immobili”, che non riesce a capire il movimento storico e rimane abbrancato a qualcosa che non esiste più. Ma anche ‘Ntoni ci offre soltanto la sua negatività: non è “progresso sociale” il suo, vuole portare l’idea del paese nel mondo col mito del denaro, per diventar ricco e non fare niente.

In Verga nulla si muove ed il suo pessimismo è totale.

Lo spazio dei Malavoglia è uno spazio limitato: i gradini della chiesa, la bottega, la farmacia e l’osteria; per le donne la strada. dove s’incontrano per pettegolare. Al di là di questo tutto è lontano, fosse Lissa, Napoli, oppure Catania. Più che lontano è più esatto dire che sia esterno. Qui Verga pone un’altra volta l’antinomia: l’interno il paese è il luogo dove i meccanismi sono conosciuti e quindi sicuri; l’esterno rappresenta invece il pericolo, l’ignoto (dove appunto finiscono sia ‘Ntoni che Lia).

Un ultimo discorso lo merita lo stile e la lingua usata per I Malavoglia: si è già parlato della scomparsa dello scrittore onnisciente, ora si tratta di sottolineare la distanza che vi è tra il purismo linguistico manzoniano e la scelta verghiana: si tratta infatti di una scelta nuova, quella di un italiano parlato dai siciliani colti con influenze del parlato (si può citare ad esempio l’uso del che subordinante che traduce il ca siciliano).
Per quanto attiene al discorso indiretto libero si tratta di una tecnica in cui spariscono i verba dicendi con l’infinitiva e si assume, nella narrazione, senza soluzione di continuità, il pensiero del personaggio che si assimila a quello dell’autore.
Ancora l’uso insistito dei proverbi, che vogliono rendere una saggezza popolare, mitica e senza tempo (ricordiamo la ricerca scrupolosa su di essi fatto su testi di studio di folclore siciliano).

*le immagini poste per “I Malavoglia” sono tratte dal film di Luchino Visconti La terra trema del 1948 ispirato al romanzo verghiano.

Anche il secondo romanzo verghiano viene preceduta da una raccolta di 12 racconti, a cui l’autore siciliano dà il titolo di Novelle rusticane (1883): in questa si fa più cupo il suo pessimismo. I protagonisti, infatti, non sono più i miseri pescatori o icontadini di Vita dei campi, ma reverendi, proprietari terrieri amministratori, chi, in qualche modo, stava arrancando attraverso la scala sociale. Qualcuno di essi, pur diventando ricchissimo, non muta affatto pelle, come Mazzarò:

LA ROBA

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell’ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell’immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: «Qui di chi è?» sentiva rispondersi: «Di Mazzarò.» E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembravano chiese, e le galline a stormi accoccolate all’ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: «E qui?» «Di Mazzarò.» E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all’improvviso l’abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo6 , accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: «Di Mazzarò.» Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l’erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell’acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandrie di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. «Tutta roba di Mazzarò». Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell’assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. – Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch’era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch’era un brillante, quell’uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll’acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell’eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga – dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all’impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto.
Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva quattordici ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l’arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d’occhio uno solo, e badava a ripetere: «Curviamoci, ragazzi!» Egli era tutto l’anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre ogni volta.
Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il danaro tutto di 12 tarì d’argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte doveva mutar strada, e cedere il passo.
Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba.
Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. “Costui vuol essere rubato per forza!” diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: “Chi è minchione, se ne stia a casa”; – “la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare”. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la mèsse, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe.
In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te».
Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più i calci nel di dietro.
«Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!» diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina di mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, o voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini41, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sicché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se la chiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo e l’asinello, che non avevano da mangiare.
«Lo vedete, quel che mangio io?» rispondeva lui, «pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba.» E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?» E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro, diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed essere meglio del re, ché il re non può né venderla, né dire ch’è sua.
Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, con il mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: “Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!” Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!»

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Illustrazione della novella “La roba”

La novella si struttura intorno al dato economico: è la roba, nuova dea cui Mazzarò è devoto sacerdote. Sembra che tale novella esemplifichi un po’ il personaggio descritto nei Malavoglia, quello di Zio Crocefisso (non è un caso che essa appaia in rivista nel 1880); ma è altrettanto indice della volontà dello scrittore nel descrivere una tipologia umana realmente esistente. Si tratta di rendere visibile il concetto del possesso, e qui Verga lo renda esplicito attraverso non solo la descrizione di Mazzarò, la sua pancia e il suo cappello, ma nei lenti gesti che scandiscono un lavorio tutto teso all’accumulo, tanto da diventare compulsivo. E’ per questo che la novella da “tragedia” umana, alla fine vira sul grottesco; Mazzarò per rincorrere la roba, diventa pazzo.

LIBERTA’

Sciorinarono dal campanile un fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a gridare in piazza: «Viva la libertà!»
Come il mare in tempesta. La folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei “galantuomini”, davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche; le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
«A te prima, barone! che hai fatto nerbare la gente dai tuoi campieri!» Innanzi a tutti gli altri una strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. «A te, prete del diavolo! che ci hai succhiato l’anima!» «A te, ricco epulone, che non puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero!» «A te, sbirro! che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente!» «A te, guardaboschi! che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno!»
E il sangue che fumava ed ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! «Ai galantuomini! Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli!»
Don Antonio sgattaiolava a casa per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata contro il marciapiede. «Perché? perché mi ammazzate?» «Anche tu! al diavolo!» Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. «Abbasso i cappelli! Viva la libertà!» «Te’! tu pure!» Al reverendo che predicava l’inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll’ostia consacrata nel pancione. «Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale!» La gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14 anni, l’inverno della fame, e riempiva la Ruota e le strade di monelli affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. – Il figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse – lo speziale, nel mentre chiudeva in fretta e in furia – don Paolo, il quale tornava dalla vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa, quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra che era nelle bisacce del marito. «Paolo! Paolo!» Il primo lo colse nella spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello. Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: «Neddu! Neddu!» Neddu fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo rovesciarono; si rizzò anch’esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie l’aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. – Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; – strappava il cuore! – Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant’anni – e tremava come una foglia. – Un altro gridò: «Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui!»
Non importa! Ora che si avevano le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli! – Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le braccia scarne, strillando l’ira in falsetto, colle carni tenere sotto i brindelli delle vesti. – «Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di seta!» «Tu che avevi a schifo d’inginocchiarti accanto alla povera gente!» «Te’! Te’!» Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure! La baronessa aveva fatto barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima c’era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. «Viva la libertà!» E sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti. Lasciarono stare i campieri. «I campieri dopo!» «I campieri dopo!» Prima volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono. Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata – e le stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni, avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora colle carni bianche anch’esso, puntellava l’uscio colle sue mani tremanti, gridando: «Mamà! mamà!» Al primo urto gli rovesciarono l’uscio addosso. Egli si afferrava alle gambe che lo capestavano. Non gridava più. Sua madre s’era rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca colla mano perché non gridasse, pazza. L’altro figliolo voleva difenderla col suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L’altro fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano, gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza avemaria, come in paese di turchi.
Cominciavano a sbandarsi, stanchi della carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s’era rintanato; di preti non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare. – Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! – Il casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l’ombra s’impiccioliva lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio, si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi dell’Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in cagnesco il vicino. – Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! – Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le prepotenze dei cappelli! – Se non c’era più il perito per misurare la terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a raffa! – E se tu ti mangi la tua parte all’osteria, dopo bisogna tornare a spartire da capo? – Ladro tu e ladro io -. Ora che c’era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini! – Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall’alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.
Il generale fece portare della paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina, prima dell’alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l’uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo «ahi!» ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle vigne, in mezzo alle biade color d’oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani, dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in quell’ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare una notte sull’uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L’orfano dello speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia, all’uscire dal carcere, egli ripeteva: «Sta tranquilla che non ne esce più». Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini, dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che all’aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni, parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo, stipati nella capponaia – ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s’era imparentato a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. «Voi come vi chiamate?» E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore. Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l’avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell’uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: «Sul mio onore e sulla mia coscienza!…»
Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: «Dove mi conducete? In galera? O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la liberta!…»

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Illustrazione per la novella “Libertà”

I fatti raccontati in questa novella sono veri e si riferiscono alle vicende risorgimentali accadute dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia. Ci troviamo, nella realtà storica a Bronte, paese sull’Etna, dove il generale, appena sbarcato, fece promessa ai contadini di una divisione delle terre demaniali e di un generale miglioramento della condizione di vita dei contadini. Nella realtà tale miglioramento non si ebbe e scoppiarono delle rivolte in varie località, ma soprattutto a Bronte, dove vi era riconosciuto un avvocato socialista, Niccolò Lombardini. Tuttavia la rivolta sfuggì di mano ai vari partiti politici, trasformandosi in un eccidio. Nino Bixio, comandato dallo stesso Garibaldi, intervenne, riportando l’ordine in modo cruento: fece fucilare, tra cui lo stesso Lombardo, i più “facinorosi”, negando loro qualsiasi forma di regolare processo.

La novella si riferisce a questo episodio, ma ci dice anche qualcosa di più: l’eliminazione di una qualsiasi guida nel racconto verghiano, induce lo stesso a raccontarci una folla irrazionale, che uccide, quasi, per il solo gusto d’ammazzare. A descrivere il sommossa popolare, Verga indugia in una lunga macrosequenza, isolando le azioni più efferate. Diverso l’atteggiamento dello scrittore verso Ninio Bixio, a disegnarci quasi un buon padre, che rimbocca le coperte ai suoi soldati, ma che si rivela, anche un determinato, nonché spietato esecutore di morte. E’ che in Verga non c’è pietà per nessuno, la storia stritola, al di là della voglia di cambiarla.

D’altra parte tutto nasce da un’incomprensione: la libertà garibaldina era una libertà politica; quella contadina una libertà da millenni di soprusi: i due linguaggi non si parlano, così come ci viene chiarito dall’ultima riga del racconto.

Mastro-don Gesualdo è il secondo romanzo “verista” verghiano, cui il nostro lavorò dal 1882 al 1889.

L’azione si svolge a Vizzini, centro agricolo del catanese, tra il 1820 e il 1848, un periodo segnato da rivolte politiche e sociali. Il manovale “Mastro” Gesualdo è diventato “don” a forza di lavoro e sacrifici. Dopo la ricchezza, la sua promozione sociale dovrebbe essere sancita dal matrimonio che lo imparenta a una famiglia nobile seppure economicamente rovinata: sposa Bianca Trao, ma non per questo è accolto nel suo mondo. La moglie, del resto, non lo ama e quando lo ha sposato era già incinta, i seguito a una relazione col ricco cugino Ninì Rubiera, che la madre di questi aveva impedito si concludesse il matrimonio. Nasce Isabella, che da grande si vergognerà delle umili origini del padre putativo e sposerà, anche lei come la madre, per “riparare”, un duca squattrinato e dissipatore della dote e dei beni del suocero. Il romanzo si conclude con la scena della morte in solitudine del protagonista, relegato in una stanza del palazzo ducale a Palermo, abbandonato dalla figlia e irriso dai servitori.

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Immagine di Copertina per il “Mastro don Gesualdo”

L’INCENDIO
(I, 1)

Suonava la messa dell’alba a San Giovanni; ma il paesetto dormiva ancora della grossa, perché era piovuto da tre giorni, e nei seminati ci si affondava fino a mezza gamba. Tutt’a un tratto, nel silenzio, s’udì un rovinìo, la campanella squillante di Sant’Agata che chiamava aiuto, usci e finestre che sbattevano, la gente che scappava fuori in camicia, gridando:
«Terremoto! San Gregorio Magno!»
Era ancora buio. Lontano, nell’ampia distesa nera dell’Alìa, ammiccava soltanto un lume di carbonai, e più a sinistra la stella del mattino, sopra un nuvolone basso che tagliava l’alba nel lungo altipiano del Paradiso. Per tutta la campagna diffondevasi un uggiolare lugubre di cani. E subito, dal quartiere basso, giunse il suono grave del campanone di San Giovanni che dava l’allarme anch’esso; poi la campana fessa di San Vito; l’altra della chiesa madre, più lontano; quella di Sant’Agata che parve addirittura cascar sul capo agli abitanti della piazzetta. Una dopo l’altra s’erano svegliate pure le campanelle dei monasteri, il Collegio, Santa Maria, San Sebastiano, Santa Teresa: uno scampanìo generale che correva sui tetti spaventato, nelle tenebre.
«No! no! È il fuoco!… Fuoco in casa Trao!… San Giovanni Battista!»
Gli uomini accorrevano vociando, colle brache in mano. Le donne mettevano il lume alla finestra: tutto il paese, sulla collina, che formicolava di lumi, come fosse il giovedì sera, quando suonano le due ore di notte: una cosa da far rizzare i capelli in testa, chi avesse visto da lontano.
«Don Diego! Don Ferdinando!» si udiva chiamare in fondo alla piazzetta; e uno che bussava al portone con un sasso.
Dalla salita verso la Piazza Grande, e dagli altri vicoletti, arrivava sempre gente: un calpestìo continuo di scarponi grossi sull’acciottolato; di tanto in tanto un nome gridato da lontano; e insieme quel bussare insistente al portone in fondo alla piazzetta di Sant’Agata, e quella voce che chiamava:
«Don Diego! Don Ferdinando! Che siete tutti morti?»
Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville. E pioveva dall’alto un riverbero rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria. Tutt’a un tratto si udì sbatacchiare una finestra, e una vocetta stridula che gridava di lassù:
«Aiuto!… ladri!… Cristiani, aiuto!»
«Il fuoco! Avete il fuoco in casa! Aprite, don Ferdinando!»
«Diego! Diego!»
Dietro alla faccia stralunata di don Ferdinando Trao apparve allora alla finestra il berretto da notte sudicio e i capelli grigi svolazzanti di don Diego. Si udì la voce rauca del tisico che strillava anch’esso:
«Aiuto!… Abbiamo i ladri in casa! Aiuto!»
«Ma che ladri!… Cosa verrebbero a fare lassù?» sghignazzò uno nella folla.
«Bianca! Bianca! Aiuto! aiuto!»
Giunse in quel punto trafelato Nanni l’Orbo, giurando d’averli visti lui i ladri, in casa Trao.
«Con questi occhi!… Uno che voleva scappare dalla finestra di donna Bianca, e s’è cacciato dentro un’altra volta, al vedere accorrer gente!…»
«Brucia il palazzo, capite? Se ne va in fiamme tutto il quartiere! Ci ho accanto la mia casa, perdio!» Si mise a vociare mastro-don Gesualdo Motta. Gli altri intanto, spingendo, facendo leva al portone, riuscirono a penetrare nel cortile, ad uno ad uno, coll’erba sino a mezza gamba, vociando, schiamazzando, armati di secchie, di brocche piene d’acqua; compare Cosimo colla scure da far legna; don Luca il sagrestano che voleva dar di mano alle campane un’altra volta, per chiamare all’armi; Pelagatti così com’era corso, al primo allarme, col pistolone arrugginito ch’era andato a scavar di sotto allo strame.
Dal cortile non si vedeva ancora il fuoco. Soltanto, di tratto in tratto, come spirava il maestrale, passavano al di sopra delle gronde ondate di fumo, che si sperdevano dietro il muro a secco del giardinetto, fra i rami dei mandorli in fiore. Sotto la tettoia cadente erano accatastate delle fascine; e in fondo, ritta contro la casa del vicino Motta, dell’altra legna grossa: assi d’impalcati, correntoni fradici, una trave di palmento che non si era mai potuta vendere.
«Peggio dell’esca, vedete!» sbraitava mastro-don Gesualdo.» «Roba da fare andare in aria tutto il quartiere!… santo e santissimo!… E me la mettono poi contro il mio muro; perché loro non hanno nulla da perdere, santo e santissimo!…»
In cima alla scala, don Ferdinando, infagottato in una vecchia palandrana, con un fazzolettaccio legato in testa, la barba lunga di otto giorni, gli occhi grigiastri e stralunati, che sembravano quelli di un pazzo in quella faccia incartapecorita di asmatico, ripeteva come un’anatra:
«Di qua! di qua!»
Ma nessuno osava avventurarsi su per la scala che traballava. Una vera bicocca quella casa: i muri rotti, scalcinati, corrosi; delle fenditure che scendevano dal cornicione sino a terra; le finestre sgangherate e senza vetri; lo stemma logoro, scantonato, appeso ad un uncino arrugginito, al di sopra della porta. Mastro-don Gesualdo voleva prima buttar fuori sulla piazza tutta quella legna accatastata nel cortile.
«Ci vorrà un mese!» rispose Pelagatti il quale stava a guardare sbadigliando, col pistolone in mano.
«Santo e santissimo! Contro il mio muro è accatastata!… Volete sentirla, sì o no?»
Giacalone diceva piuttosto di abbattere la tettoia; don Luca il sagrestano assicurò che pel momento non c’era pericolo: una torre di Babele!
Erano accorsi anche altri vicini. Santo Motta colle mani in tasca, il faccione gioviale e la barzelletta sempre pronta. Speranza, sua sorella, verde dalla bile, strizzando il seno vizzo in bocca al lattante, sputando veleno contro i Trao: «Signori miei… guardate un po’!… Ci abbiamo i magazzini qui accanto!» E se la prendeva anche con suo marito Burgio, ch’era lì in maniche di camicia: «Voi non dite nulla! State lì come un allocco! Cosa siete venuto a fare dunque?»
Mastro-don Gesualdo si slanciò il primo urlando su per la scala. Gli altri dietro come tanti leoni per gli stanzoni scuri e vuoti. A ogni passo un esercito di topi che spaventavano la gente. «Badate! badate! Ora sta per rovinare il solaio!» Nanni l’Orbo che ce l’aveva sempre con quello della finestra, vociando ogni volta: «Eccolo! eccolo!» E nella biblioteca, la quale cascava a pezzi, fu a un pelo d’ammazzare il sagrestano col pistolone di Pelagatti. Si udiva sempre nel buio la voce chioccia di don Ferdinando il quale chiamava: «Bianca! Bianca!» E don Diego che bussava e tempestava dietro un uscio, fermando pel vestito ognuno che passava strillando anche lui: «Bianca! mia sorella!..»
«Che scherzate?» rispose mastro-don Gesualdo rosso come un pomodoro, liberandosi con una strappata. «Ci ho la mia casa accanto, capite: Se ne va in fiamme tutto il quartiere!»
Era un correre a precipizio nel palazzo smantellato; donne che portavano acqua; ragazzi che si rincorrevano schiamazzando in mezzo a quella confusione, come fosse una festa; curiosi che girandolavano a bocca aperta, strappando i brandelli di stoffa che pendevano ancora dalle pareti, toccando gli intagli degli stipiti, vociando per udir l’eco degli stanzoni vuoti, levando il naso in aria ad osservare le dorature degli stucchi, e i ritratti di famiglia: tutti quei Trao affumicati che sembravano sgranare gli occhi al vedere tanta marmaglia in casa loro. Un va e vieni che faceva ballare il pavimento.

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Casa di Mastro don Gesualdo a Vizzini

Anche questo romanzo, come I Malavoglia, comincia in medias res: un incendio in casa Trao, due vecchi nobili, morti di fame, cui è scoppiato un incendio dentro casa, un’inesistente Bianca, (nel balcone con l’amante, che viene scambiato per ladro) e soprattutto Gesualdo, citato con nome e cognome. In pochi tratti, con un’ottima costruzione narrativa, ci viene detto l’essenziale: soprattutto riguardo Gesualdo: il sottolineare la sua “proprietà” a rischio incendio ci fa intravedere come stia attento alle sua “roba” e come al contempo, già appaiano ben delinate le figure di contorno, Sante e Speranza, fratelli di Gesualdo.

GESUALDO E DIODATA
(I,4)

Allorché finalmente Gesualdo arrivò alla Canziria, erano circa due ore di notte. La porta della fattoria era aperta. Diodata aspettava dormicchiando sulla soglia. Massaro Carmine, il camparo, era steso bocconi sull’aia, collo schioppo fra le gambe; Brasi Camauro e Nanni l’Orbo erano spulezzati di qua e di là, come fanno i cani la notte, quando sentono la femmina nelle vicinanze; e i cani soltanto davano il benvenuto al padrone, abbaiando intorno alla fattoria.
«Ehi? non c’è nessuno? Roba senza padrone, quando manco io!»
Diodata, svegliata all’improvviso, andava cercando il lume tastoni, ancora assonnata. Lo zio Carmine, fregandosi gli occhi, colla bocca contratta dai sbadigli, cercava delle scuse.
«Ah!… sia lodato Dio! Voi ve la dormite da un canto, Diodata dall’altro, al buio!… Cosa facevi al buio?… aspettavi qualcheduno?… Brasi Camauro oppure Nanni l’Orbo?…»
La ragazza ricevette la sfuriata a capo chino, e intanto accendeva lesta lesta il fuoco, mentre il suo padrone continuava a sfogarsi, lì fuori, all’oscuro, e passava in rivista i buoi legati ai pioli intorno all’aia. Il camparo mogio mogio gli andava dietro per rispondere al caso: «Gnorsì, Pelorosso sta un po’ meglio; gli ho dato la gramigna per rinfrescarlo. La Bianchetta ora mi fa la svogliata anch’essa… Bisognerebbe mutar di pascolo… tutto il bestiame… Il mal d’occhio, sissignore! Io dico ch’è passato di qui qualcheduno che portava il malocchio!… Ho seminato perfino i pani di San Giovanni nel pascolo… Le pecore stanno bene, grazie a Dio… e il raccolto pure… Nanni l’Orbo? Laggiù a Passanitello, dietro le gonnelle di quella strega… Un giorno o l’altro se ne torna a casa colle gambe rotte, com’è vero Dio!… e Brasi Camauro anch’esso, per amor di quattro spighe… »
Diodata gridò dall’uscio ch’era pronto. «Se non avete altro da comandarmi, vossignoria, vado a buttarmi giù un momento…»
Come Dio volle finalmente, dopo un digiuno di ventiquattr’ore, don Gesualdo poté mettersi a tavola, seduto di faccia all’uscio, in maniche di camicia, le maniche rimboccate al disopra dei gomiti, coi piedi indolenziti nelle vecchie ciabatte ch’erano anch’esse una grazia di Dio. La ragazza gli aveva apparecchiata una minestra di fave novelle, con una cipolla in mezzo, quattr’ova fresche, e due pomidori ch’era andata a cogliere tastoni dietro la casa. Le ova friggevano nel tegame, il fiasco pieno davanti; dall’uscio entrava un venticello fresco ch’era un piacere, insieme al trillare dei grilli, e all’odore dei covoni nell’aia: – il suo raccolto lì, sotto gli occhi, la mula che abboccava anch’essa avidamente nella bica dell’orzo, povera bestia – un manipolo ogni strappata! Giù per la china, di tanto in tanto, si udiva nel chiuso il campanaccio della mandra; e i buoi accovacciati attorno all’aia, legati ai cestoni colmi di fieno, sollevavano allora il capo pigro, soffiando, e si vedeva correre nel buio il luccichìo dei loro occhi sonnolenti, come una processione di lucciole che dileguava.Gesualdo posando il fiasco mise un sospirone, e appoggiò i gomiti sul deschetto:
«Tu non mangi?… Cos’hai?»
Diodata stava zitta in un cantuccio, seduta su di un barile, e le passò negli occhi, a quelle parole, un sorriso di cane accarezzato.
«Devi aver fame anche tu. Mangia! mangia!»
Essa mise la scodella sulle ginocchia, e si fece il segno della croce prima di cominciare, poi disse: «Benedicite a vossignoria!»
Mangiava adagio adagio, colla persona curva e il capo chino. Aveva una massa di capelli morbidi e fini, malgrado le brinate ed il vento aspro della montagna: dei capelli di gente ricca, e degli occhi castagni, al pari dei capelli, timidi e dolci: de’ begli occhi di cane carezzevoli e pazienti, che si ostinavano a farsi voler bene, come tutto il viso supplichevole anch’esso. Un viso su cui erano passati gli stenti, la fame, le percosse, le carezze brutali; limandolo, solcandolo, rodendolo; lasciandovi l’arsura del solleone, le rughe precoci dei giorni senza pane, il lividore delle notti stanche – gli occhi soli ancora giovani, in fondo a quelle occhiaie livide. Così raggomitolata sembrava proprio una ragazzetta, al busto esile e svelto, alla nuca che mostrava la pelle bianca dove il sole non aveva bruciato. Le mani, annerite, erano piccole e scarne: delle povere mani pel suo duro mestiere!…
«Mangia, mangia. Devi essere stanca tu pure!…»
Ella sorrise, tutta contenta, senza alzare gli occhi. Il padrone le porse anche il fiasco: «Te’, bevi! non aver suggezione!»
Diodata, ancora un po’ esitante, si pulì la bocca col dorso della mano, e s’attaccò al fiasco arrovesciando il capo all’indietro. Il vino, generoso e caldo, le si vedeva scendere quasi a ogni sorso nella gola color d’ambra; il seno ancora giovane e fermo sembrava gonfiarsi. Il padrone allora si mise a ridere.
«Brava, brava! Come suoni bene la trombetta!…»
Sorrise anch’essa, pulendosi la bocca un’altra volta col dorso della mano, tutta rossa.
«Tanta salute a vossignoria!»
Egli uscì fuori a prendere il fresco. Si mise a sedere su di un covone, accanto all’uscio, colle spalle al muro, le mani penzoloni fra le gambe. La luna doveva essere già alta, dietro il monte, verso Francofonte. Tutta la pianura di Passanitello, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco, al dilagar di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si movevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Di tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente, e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi. Nell’aia la bica alta e ancora scura sembrava coronata d’argento, e nell’ombra si accennavano confusamente altri covoni in mucchi; ruminava altro bestiame; un’altra striscia d’argento lunga si posava in cima al tetto del magazzino, che diventava immenso nel buio.
«Eh? Diodata? Dormi, marmotta?…»
«Nossignore, no!…»
Essa comparve tutta arruffata e spalancando a forza gli occhi assonnati. Si mise a scopare colle mani dinanzi all’uscio, buttando via le frasche, carponi, fregandosi gli occhi di tanto in tanto per non lasciarsi vincere dal sonno, col mento rilassato, le gambe fiacche.
«Dormivi!… Se te l’ho detto che dormivi!…»
E le assestò uno scapaccione come carezza.
Egli invece non aveva sonno. Si sentiva allargare il cuore. Gli venivano tanti ricordi piacevoli. Ne aveva portate delle pietre sulle spalle, prima di fabbricare quel magazzino! E ne aveva passati dei giorni senza pane, prima di possedere tutta quella roba! Ragazzetto… gli sembrava di tornarci ancora, quando portava il gesso dalla fornace di suo padre, a Donferrante! Quante volte l’aveva fatta quella strada di Licodia, dietro gli asinelli che cascavano per via e morivano alle volte sotto il carico! Quanto piangere e chiamar santi e cristiani in aiuto! Mastro Nunzio allora suonava il deprofundis sulla schiena del figliuolo, con la funicella stessa della soma… Erano dieci o dodici tarì che gli cascavano di tasca ogni asino morto al poveruomo! – Carico di famiglia! Santo che gli faceva mangiare i gomiti sin d’allora; Speranza che cominciava a voler marito; la mamma con le febbri, tredici mesi dell’anno!… – Più colpi di funicella che pane! – Poi quando il Mascalise, suo zio, lo condusse seco manovale, a cercar fortuna… Il padre non voleva, perché aveva la sua superbia anche lui, come uno che era stato sempre padrone, alla fornace, e gli cuoceva di vedere il sangue suo al comando altrui. – Ci vollero sette anni prima che gli perdonasse, e fu quando finalmente Gesualdo arrivò a pigliare il primo appalto per conto suo… la fabbrica del Molinazzo… Circa duecento salme di gesso che andarono via dalla fornace al prezzo che volle mastro Nunzio… e la dote di Speranza anche, perché la ragazza non poteva più stare in casa… – E le dispute allorché cominciò a speculare sulla campagna!… – Mastro Nunzio non voleva saperne… Diceva che non era il mestiere in cui erano nati. “Fa l’arte che sai!” – Ma poi, quando il figliuolo lo condusse a veder le terre che aveva comprato, lì proprio, alla Canziria, non finiva di misurarle in lungo e in largo, povero vecchio, a gran passi, come avesse nelle gambe la canna dell’agrimensore… E ordinava “bisogna far questo e quest’altro” per usare del suo diritto, e non confessare che suo figlio potesse aver la testa più fine della sua. – La madre non ci arrivò a provare quella consolazione, poveretta. Morì raccomandando a tutti Santo, che era stato sempre il suo prediletto e Speranza carica di famiglia com’era stata lei… – un figliuolo ogni anno… – Tutti sulle spalle di Gesualdo, giacché lui guadagnava per tutti. Ne aveva guadagnati dei denari! Ne aveva fatta della roba! Ne aveva passate delle giornate dure e delle notti senza chiuder occhio! Vent’anni che non andava a letto una sola volta senza prima guardare il cielo per vedere come si mettesse. – Quante avemarie, e di quelle proprio che devono andar lassù, per la pioggia e pel bel tempo! – Tanta carne al fuoco! tanti pensieri, tante inquietudini, tante fatiche!… La coltura dei fondi, il commercio delle derrate, il rischio delle terre prese in affitto, le speculazioni del cognato Burgio che non ne indovinava una e rovesciava tutto il danno sulle spalle di lui!… – Mastro Nunzio che si ostinava ad arrischiare cogli appalti il denaro del figliuolo, per provare che era il padrone in casa sua!… – Sempre in moto, sempre affaticato, sempre in piedi, di qua e di là, al vento, al sole, alla pioggia; colla testa grave di pensieri, il cuore grosso d’inquietudini, le ossa rotte di stanchezza; dormendo due ore quando capitava, come capitava, in un cantuccio della stalla, dietro una siepe, nell’aia, coi sassi sotto la schiena; mangiando un pezzo di pane nero e duro dove si trovava, sul basto della mula, all’ombra di un ulivo, lungo il margine di un fosso, nella malaria, in mezzo a un nugolo di zanzare. – Non feste, non domeniche, mai una risata allegra, tutti che volevano da lui qualche cosa, il suo tempo, il suo lavoro, o il suo denaro; mai un’ora come quelle che suo fratello Santo regalavasi in barba sua all’osteria! – trovando a casa poi ogni volta il viso arcigno di Speranza, o le querimonie del cognato, o il piagnucolìo dei ragazzi – le liti fra tutti loro quando gli affari non andavano bene. – Costretto a difendere la sua roba contro tutti, per fare il suo interesse. – Nel paese non un solo che non gli fosse nemico, o alleato pericoloso e temuto. – Dover celare sempre la febbre dei guadagni, la botta di una mala notizia, l’impeto di una contentezza; e aver sempre la faccia chiusa, l’occhio vigilante, la bocca seria! Le astuzie di ogni giorno; le ambagi per dire soltanto “vi saluto”; le strette di mano inquiete, coll’orecchio teso; la lotta coi sorrisi falsi, o coi visi arrossati dall’ira, spumanti bava e minacce – la notte sempre inquieta, il domani sempre grave di speranza o di timore…
«Ci hai lavorato, anche tu, nella roba del tuo padrone!… Hai le spalle grosse anche tu… povera Diodata!…»
Essa, vedendosi rivolta la parola, si accostò tutta contenta e gli si accovacciò ai piedi, su di un sasso, col viso bianco di luna, il mento sui ginocchi, in un gomitolo. Passava il tintinnìo dei campanacci, il calpestìo greve e lento per la distesa del bestiame che scendeva al torrente, dei muggiti gravi e come sonnolenti, le voci dei guardiani che lo guidavano e si spandevano lontane, nell’aria sonora. La luna ora discesa sino all’aia, stampava delle ombre nere in un albore freddo; disegnava l’ombra vagante dei cani di guardia che avevano fiutato il bestiame; la massa inerte del camparo, steso bocconi «Nanni l’Orbo, eh?… o Brasi Camauro? Chi dei due ti sta dietro la gonnella?» riprese don Gesualdo che era in vena di scherzare.
Diodata sorrise: «Nossignore!… nessuno!…»
Ma il padrone ci si divertiva: «Sì, sì!… l’uno o l’altro… o tutti e due insieme!… Lo saprò!… Ti sorprenderò con loro nel vallone, qualche volta!…»
Essa sorrideva sempre allo stesso modo, di quel sorriso dolce e contento, allo scherzo del padrone che sembrava le illuminasse il viso, affinato dal chiarore molle: gli occhi come due stelle; le belle trecce allentate sul collo; la bocca un po’ larga e tumida, ma giovane e fresca.
Il padrone stette un momento a guardarla così, sorridendo anch’esso, e le diede un altro scapaccione affettuoso.
«Questa non è roba per quel briccone di Brasi, o per Nanni l’Orbo! no!…»
«Oh, gesummaria!…» esclamò essa facendosi la croce.
«Lo so, lo so. Dico per ischerzo, bestia!…»
Tacque un altro po’ ancora, e poi soggiunse: «Sei una buona ragazza!… buona e fedele! vigilante sugli interessi del padrone, sei stata sempre…
«Il padrone mi ha dato il pane», rispose essa semplicemente. «Sarei una birbona…»
«Lo so! lo so!… poveretta!… per questo t’ho voluto bene!»
A poco a poco, seduto al fresco, dopo cena, con quel bel chiaro di luna, si lasciava andare alla tenerezza dei ricordi. «Povera Diodata! Ci hai lavorato anche tu!… Ne abbiamo passati dei brutti giorni!… Sempre all’erta, come il tuo padrone! Sempre colle mani attorno… a far qualche cosa! Sempre l’occhio attento sulla mia roba!… Fedele come un cane!… Ce n’è voluto, sì, a far questa roba!..».
Tacque un momento intenerito. Poi riprese, dopo un pezzetto, cambiando tono:
«Sai? Vogliono che prenda moglie.»
La ragazza non rispose; egli non badandoci, seguitò:
«Per avere un appoggio… Per far lega coi pezzi grossi del paese… Senza di loro non si fa nulla!… Vogliono farmi imparentare con loro… per l’appoggio del parentado, capisci?… Per non averli tutti contro, all’occasione… Eh? che te ne pare?»
Ella tacque ancora un momento col viso nelle mani. Poi rispose, con un tono di voce che andò a rimescolargli il sangue a lui pure:
«Vossignoria siete il padrone…»
«Lo so, lo so… Ne discorro adesso per chiacchierare… perché mi sei affezionata… Ancora non ci penso… ma un giorno o l’altro bisogna pure andarci a cascare… Per chi ho lavorato infine?… Non ho figliuoli…»
Allora le vide il viso, rivolto a terra, pallido pallido e tutto bagnato.
«Perché piangi, bestia?»
«Niente, vossignoria!… Così!… Non ci badate…»
«Cosa t’eri messa in capo, di’?»
«Niente, niente, don Gesualdo…»
«Santo e santissimo! Santo e santissimo!» prese a gridare lui sbuffando per l’aia. Il camparo al rumore levò il capo sonnacchioso e domandò:
«Che c’è?… S’è slegata la mula? Devo alzarmi?…»
«No, no, dormite, zio Carmine.»
Diodata gli andava dietro passo passo, con voce umile e sottomessa:
«Perché v’arrabbiate, vossignoria?… Cosa vi ho detto?..».
«M’arrabbio colla mia sorte!… Guai e seccature da per tutto… dove vado!… Anche tu, adesso!… col piagnisteo!… Bestia!… Credi che, se mai, ti lascerei in mezzo a una strada… senza soccorsi?…»
«Nossignore… non è per me… Pensavo a quei poveri innocenti…»
«Anche quest’altra?… Che ci vuoi fare! Così va il mondo!… Poiché v’è il comune che ci pensa!… Deve mantenerli il comune a spese sue… coi denari di tutti!… Pago anch’io!… So io ogni volta che vo dall’esattore!…»
Si grattò il capo un istante, e riprese:
«Vedi, ciascuno viene al mondo colla sua stella… Tu stessa hai forse avuto il padre o la madre ad aiutarti? Sei venuta al mondo da te, come Dio manda l’erba e le piante che nessuno ha seminato. Sei venuta al mondo come dice il tuo nome… Diodata! Vuol dire di nessuno!… E magari sei forse figlia di barone, e i tuoi fratelli adesso mangiano galline e piccioni! Il Signore c’è per tutti! Hai trovato da vivere anche tu!… E la mia roba?… me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!… Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla…»
In tal modo seguitava a brontolare, passeggiando per l’aia, su e giù dinanzi la porta. Poscia vedendo che la ragazza piangeva ancora, cheta cheta per non infastidirlo, le tornò a sedere allato di nuovo, rabbonito.
«Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone… come quando ero un povero diavolo senza nulla… Ora ci ho tanta roba da lasciare… Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada… o negli ospizi dei trovatelli. Vuol dire che i figliuoli che avrò poi, se Dio m’aiuta, saranno nati sotto la buona stella!…»
«Vossignoria siete il padrone…»
Egli ci pensò un po’ su, perché quel discorso lo punzecchiava ancora peggio di una vespa, e tornò a dire:
«Anche tu… non hai avuto né padre né madre… Eppure cosa t’è mancato, di’?»
«Nulla, grazie a Dio!»
«Il Signore c’è per tutti… Non ti lascerei in mezzo a una strada, ti dico!… La coscienza mi dice di no… Ti cercherei un marito..».
«Oh… quanto a me… don Gesualdo!..».
«Sì, sì, bisogna maritarti!… Sei giovane, non puoi rimaner così… Non ti lascerei senza un appoggio… Ti troverei un buon giovane, un galantuomo… Nanni l’Orbo, guarda! Ti darei la dote…»
«Il Signore ve lo renda…»
«Son cristiano! son galantuomo! Poi te lo meriti. Dove andresti a finire altrimenti?… Penserò a tutto io. Ho tanti pensieri pel capo!… e questo cogli altri!… Sai che ti voglio bene. Il marito si trova subito. Sei giovane… una bella giovane… Sì, sì, bella!… lascia dire a me che lo so! Roba fine!… sangue di barone sei, di certo!…»
Ora la pigliava su di un altro tono, col risolino furbo e le mani che gli pizzicavano. Le stringeva con due dita il ganascino. Le sollevava a forza il capo, che ella si ostinava a tener basso per nascondere le lagrime.
«Già per ora son discorsi in aria… Il bene che voglio a te non lo voglio a nessuno, guarda!… Su quel capo adesso, sciocca!… sciocca che sei!…»
Come vide che seguitava a piangere, testarda, scappò a bestemmiare di nuovo, simile a un vitello infuriato.
«Santo e santissimo! Sorte maledetta!… Sempre guai e piagnistei!…»

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Riduzione teatrale del Mastro don-Gesualdo: qui una scena tra il protagonista e Diodata

Il passo si può dividere in tre sequenze:

  • Gesualdo in fattoria: dopo una faticosa giornata, Gesualdo torna al suo nido, dove vi è un vecchio, che gli controlla la roba e una contadina, la sua serva-amante. Sin dall’inizio si comprende come solo questo sia il “nido” degli affetti, in quel guardare, insieme al vecchio fattore, la quotidianità dello svolgersi della natura, che pure gli offre la “roba”, senza rabbia, senza ansia; così come lo sguardo pieno d’amore che le rivolge, sentendola vicina nel sentimento; la condivisione del pasto lo sancisce, la fatica condivisa per lui lo conferma;
  • I ricordi di Gesualdo che lo disegnano come un “self made man”;: fiuto degli affari, accettazione del rischio, operosità, sopportazione dei disagi. Tutta questa è stata la vita di Gesualdo, scandita continuamente da una corsa affannosa, dal mettere toppe da una famiglia che dipendeva (vista l’insipienza del fratello e del cognato) da lui, la gelosia paterna e, per di più, il subire un amore di secondo grado da parte della povera madre, che stravedeva per il figlio piccolo. Interessante di questo passo è la tecnica: tutto viene visto attraverso una focalizzazione interna, un, potrebbe anche dirsi, discorso indiretto libero interiore o anticipazione del monologo interiore;
  • Il rimpianto di non poter scegliersi la vita: anche qui si sancisce una sconfitta, sottolineata dalle lacrime di Diodata. Il pessimismo verghiano è all’origine della vita: si nasce dove vuole il destino e si cresce, chi più o chi meno fortunato, senza possibilità di scelta. Ma lui il destino se lo è costruito, contro tutti, ma è solo e sarà solo: il suo bestemmiare finale rassomiglia proprio a una non accettazione di ciò che è diventato.

L’ASTA
(II,1)

«Tre onze e quindici!… Uno!… due!…»
«Quattr’onze!» replicò don Gesualdo impassibile.
Il barone Zacco si alzò, rosso come se gli pigliasse un accidente. Annaspò alquanto per cercare il cappello, e fece per andarsene. Ma giunto sulla soglia tornò indietro a precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sé, gridando:
«Quattro e quindici!…»
E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giurati, fulminando il suo contradittore cogli occhi accesi. Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del Municipio che presiedevano all’asta delle terre comunali, si parlarono all’orecchio fra di loro. Don Gesualdo tirò su una presa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capo, e ribatté con voce calma:
«Cinque onze!»
Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato. Si soffiò il naso; calcò il cappello in testa, e poi infilò l’uscio, sbraitando:
«Ah!… quand’è così!… giacch’è un puntiglio!… una personalità!… Buon giorno a chi resta!»
I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il canonico Lupi si alzò di botto, e corse a dire una parola all’orecchio di don Gesualdo, passandogli un braccio al collo.
«Nossignore», rispose ad alta voce costui. «Non ho di queste sciocchezze… Fo i miei interessi, e nulla più.»
Nel pubblico che assisteva all’asta corse un mormorìo. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll’aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro:
«Cinque onze e sei!… Dico io!…»
«Per l’amor di Dio», gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. «Signor barone, non facciamo pazzie!…»
«Cinque onze e sei!» replicò il baronello senza dar retta, guardando in giro trionfante.
«Cinque e quindici.»
Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l’aria presidenziale.
«Don Gesualdo!… Qui non stiamo per scherzare!… Avrete denari… non dico di no… ma è una bella somma… per uno che sino a ieri l’altro portava i sassi sulle spalle… sia detto senza offendervi… Onestamente… “Guardami quel che sono, e non quello che fui” dice il proverbio… Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!… Sono circa cinquecento salme… Fanno… fanno…» E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra cifre.
«So quello che fanno», rispose ridendo mastro-don Gesualdo. «Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle… Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse!»
Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un’occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all’uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni costo, e andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio.
«Va bene!… va benissimo!… Ma intanto la legge dice…»
Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso.
«Sicuro!… Chi garantisce per voi?… La legge dice…»
«Mi garantisco da me», rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora.
A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì.
«Signori miei!…» strillò il barone Zacco rientrando infuriato. «Signori miei!… guardate un po’! a che siam giunti!…»
«Cinque e quindici!» replicò don Gesualdo tirando un’altra presa. «Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate l’asta, signor don Filippo.»
Il baronello Rubiera scattò su come una molla, con tutto il sangue al viso. Non l’avrebbero tenuto neppure le catene.
«A sei onze!» balbettò fuori di sé. «Fo l’offerta di sei onze a salma.»
«Portatelo fuori! Portatelo via!» strillò don Filippo alzandosi a metà. Alcuni battevano le mani. Ma don Ninì ostinavasi, pallido come la sua camicia adesso.
«Sissignore! a sei onze la salma! Scrivete la mia offerta, segretario!»
«Alto!» gridò il notaro levando tutte e due le mani in aria. «Per la legalità dell’offerta!… fo le mie riserve!…»
E si precipitò sul baronello, come s’accapigliassero. Lì, nel vano del balcone, faccia a faccia, cogli occhi fuori dell’orbita, soffiandogli in viso l’alito infuocato:
«Signor barone!… quando volete buttare il denaro dalla finestra!… andate a giuocare a carte!… giuocatevi il denaro di tasca vostra soltanto!…»

L’accaparramento delle terre comunali da parte dei notabili, con la complicità dei funzionari, era una prassi che si svolgeva da tempi immemorabili: il loro possesso voleva poi dire poi subaffittarle e quindi guadagnarci. Gesualdo vuole acquistarle tutte ed imporre invece un vero e proprio monopolio. E’ certo che tale mossa risponde a fini economici, ma nell’economia del romanzo essa va inserirsi in un episodio fondamentale: precedentemente i notabili avevano palesemente snobbato il suo matrimonio con Bianca Trao; vincerli sul piano economico, buttando loro in faccia la sua ricchezza diventa una vera e propria rivalsa e sottolineare che, d’ora in poi, dovranno fare i conti con lui. Tutto ciò e anche sottolineato dal ritmo narrativo con cui Verga descrive la scena: da una parte gli atteggiamenti sconnessi della nobiltà, che si vede sfidata, ma non sembra possedere un’efficace risposta, dall’altra, la calma serafica di Gesualdo, che col suo atteggiamento distaccato, sembra li irrida profondamente.

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Mastro don Gesualdo in una vecchia riduzione televisiva (1964)

LA MORTE DI GESUALDO
(IV,5)

Un giorno venne a fargli visita l’amministratore del duca, officioso, tutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta. S’informò della salute; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva bene, lui, un uomo d’affari come don Gesualdo… che dissesto… quanti danni… le conseguenze… un’azienda così vasta… senza nessuno che potesse occuparsene sul serio… Infine offrì d’incaricarsene lui… per l’interesse che portava alla casa… alla signora duchessa… Del signor duca era buon servo da tanti anni… Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d’alleggerirlo d’ogni carico… finché si sarebbe guarito… se credeva… investendolo per procura…
A misura che colui sputava fuori il veleno, don Gesualdo andava scomponendosi in viso. Non fiatava, stava ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e intanto ruminava come trarsi d’impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colica, quasi fosse giunta l’ultima sua ora, e non udisse e non potesse più parlare. Balbettò solo, smaniando:
«Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia!»
Ma appena accorse lei, spaventata egli non aggiunse altro. Si chiuse in sé stesso a pensare come uscire dal malo passo, torvo, diffidente, voltandosi in là per non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito. Infine, a poco a poco, finse di calmarsi. Bisognava giuocar d’astuzia per uscire da quelle grinfie. Cominciò a far segno di sì e di sì col capo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola allibbita, col sorriso paterno, il fare bonario;
«Sì… voglio darvi in mano tutto il fatto mio… per alleggerirmi il carico… Mi farete piacere anzi… nello stato in cui sono… Voglio spogliarmi di tutto… Già ho poco da vivere… Rimandatemi a casa mia per fare la procura… la donazione… tutto ciò che vorrete… Lì conosco il notaro… so dove metter le mani… Ma prima rimandatemi a casa mia… Tutto quello che vorrete, poi!…»
«Ah, babbo, babbo!» esclamò Isabella colle lagrime agli occhi.
Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero le forze d’alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero. Sbuffava, smaniava, urlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, colla schiuma alla bocca, sospettando di tutto, spiando prima le mani del cameriere se beveva un bicchiere d’acqua, guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità, per leggervi la sua sentenza, costretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa di quel che gli premeva.
«Chiamatemi quell’uomo dell’altra volta… Portatemi le carte da firmare… E’ giusto, ci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finchè guarisco…»
Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempre, dall’oggi al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrore più grande, più vicino, della morte lo colse a quell’indifferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d’energia e di volontà. Voleva far testamento, per dimostrare a sé stesso ch’era tuttora il padrone. Il duca finalmente, per chetarlo, gli disse che non occorreva, poiché non c’erano altri eredi… Isabella era figlia unica…
«Ah?…» rispose lui. «Non occorre… è figlia unica?…»
E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce n’erano ancora, degli eredi nati prima di lei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsi, colla bile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide e irose gli apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lo facevano svegliare di soprassalto, in un mare di sudore, col cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adesso, tanti ricordi, tante persone gli sfilavano dinanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora: quelli non l’avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consulto, i migliori medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il denaro l’aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gli avevano fatto credere che rassegnandosi a lasciarsi aprire il ventre… Ebbene, sì, sì!
Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla mattina, raso e pettinato, seduto nel letto, colla faccia color di terra, ma fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro nei fatti suoi. «Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciò che si deve fare si farà!»
Gli batteva un po’ il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo anticipato tra i capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventre, perchè si servissero pure. Se un albero ha la cancrena addosso, cos’è infine? Si taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità; un altro osservò che non era più il caso… oramai… Il più vecchio, una faccia di malaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com’è vero Dio, s’era messo già a confortare la famiglia, dicendo che sarebbe stato inutile anche prima, con un male di quella sorta…
«Ah…» rispose don Gesualdo, fattosi rauco a un tratto. «Ah… Ho inteso…»
E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto, trafelato. Non aggiunse altro, per allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s’era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c’era più da scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati… «Taci! taci!» borbottò rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica, cogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livide, aspettava la risposta che gli dovevano, infine. Non c’era da scherzare!
«No, no… C’è tempo. Simili malattie durano anni e anni… Però… certo… premunirsi… sistemare gli affari a tempo… non sarebbe male…»
«Ho inteso», ripeté don Gesualdo col naso fra le coperte. «Vi ringrazio, signori miei.»
Un nuvolo gli calò sulla faccia e vi rimase. Una specie di rancore, qualcosa che gli faceva tremare le mani e la voce, e trapelava dagli occhi socchiusi. Fece segno al genero di fermarsi; lo chiamò dinanzi al letto, a quattr’occhi, da solo a solo.
«Finalmente… questo notaro… verrà, sì o no? Devo far testamento… Ho degli scrupoli di coscienza… Sissignore!… Sono il padrone, sì o no?… Ah… ah… stai ad ascoltare anche tu?…»
Isabella andò a buttarsi ginocchioni ai piedi del letto, col viso fra le materasse, singhiozzando e disperandosi. Il genero lo chetava dall’altra parte. «Ma sì, ma sì, quando vorrete, come vorrete. Non c’è bisogno di far delle scene… Ecco in che stato avete messo la vostra figliuola!…»
«Va bene!» seguitò a borbottare lui. «Va bene! Ho capito!»
E volse le spalle, tal quale suo padre, buon’anima. Appena fu solo cominciò a muggire come un bue, col naso al muro. Ma poi se veniva gente, stava zitto. Covava dentro di sé il male e l’amarezza. Lasciava passare i giorni. Pensava ad allungarseli piuttosto, a guadagnare almeno quelli, uno dopo l’altro, così come venivano, pazienza! Finché c’è fiato c’è vita. A misura che il fiato gli andava mancando, a poco a poco, acconciavasi pure ai suoi guai; ci faceva il callo. Lui aveva le spalle grosse, e avrebbe tirato in lungo, mercé la sua pelle dura. Alle volte provava anche una certa soddisfazione, fra sé e sé, sotto il lenzuolo, pensando al viso che avrebbero fatto il signor duca e tutti quanti, al vedere che lui aveva la pelle dura. Era arrivato ad affezionarsi ai suoi malanni, li ascoltava, li accarezzava, voleva sentirseli lì, con lui, per tirare innanzi. I parenti ci avevano fatto il callo anch’essi; avevano saputo che quella malattia durava anni ed anni, e s’erano acchetati. Così va il mondo, pur troppo, che passato il primo bollore, ciascuno tira innanzi per la sua via e bada agli affari propri. Non si lamentava neppure; non diceva nulla, da villano malizioso, per non sprecare il fiato, per non lasciarsi sfuggire quel che non voleva dire; solamente gli scappavano di tanto in tanto delle occhiate che significavano assai, al veder la figliuola che gli veniva dinanzi con quella faccia desolata, e poi teneva il sacco al marito, e lo incarcerava lì, sotto i suoi occhi, col pretesto dell’affezione, per covarselo, pel timore che non gli giuocasse qualche tiro nel testamento. Indovinava che teneva degli altri guai nascosti, lei, e alle volte aveva la testa altrove, mentre suo padre stava colla morte sul capo. Si rodeva dentro, a misura che peggiorava; il sangue era diventato tutto un veleno; ostinavasi sempre più, taciturno, implacabile, col viso al muro, rispondendo solo coi grugniti, come una bestia.
Finalmente si persuase ch’era giunta l’ora, e s’apparecchiò a morire da buon cristiano. Isabella era venuta subito a tenergli compagnia. Egli fece forza coi gomiti, e si rizzò a sedere sul letto. «Senti», le disse, «ascolta…»
Era turbato in viso, ma parlava calmo. Teneva gli occhi fissi sulla figliuola, e accennava col capo. Essa gli prese la mano e scoppiò a singhiozzare.
«Taci», riprese, finiscila. Se cominciamo così non si fa nulla.
Ansimava perchè aveva il fiato corto, ed anche per l’emozione. Guardava intorno, sospettoso, e seguitava ad accennare del capo, in silenzio, col respiro affannato. Ella pure volse verso l’uscio gli occhi pieni di lagrime. Don Gesualdo alzò la mano scarna, e trinciò una croce in aria, per significare ch’era finita, e perdonava a tutti, prima d’andarsene.
«Senti… Ho da parlarti… intanto che siamo soli…»
Ella gli si buttò addosso, disperata, piangendo, singhiozzando di no, di no, colle mani erranti che l’accarezzavano. L’accarezzò anche lui sui capelli, lentamente, senza dire una parola. Di lì a un po’ riprese:
«Ti dico di sì. Non sono un ragazzo… Non perdiamo tempo inutilmente.» Poi gli venne una tenerezza. «Ti dispiace, eh?… ti dispiace a te pure?…»
La voce gli si era intenerita anch’essa, gli occhi, tristi, s’erano fatti più dolci, e qualcosa gli tremava sulle labbra. «Ti ho voluto bene… anch’io… quanto ho potuto… come ho potuto… Quando uno fa quello che può…»
Allora l’attirò a sé lentamente, quasi esitando, guardandola fissa per vedere se voleva lei pure, e l’abbracciò stretta stretta, posando la guancia ispida su quei bei capelli fini.
«Non ti fo male, di’?… come quand’eri bambina?…»
Gli vennero insieme delle altre cose sulle labbra, delle ondate di amarezza e di passione, quei sospetti odiosi che dei bricconi, nelle questioni d’interessi, avevano cercato di mettergli in capo. Si passò la mano sulla fronte, per ricacciarli indietro, e cambiò discorso.
«Parliamo dei nostri affari. Non ci perdiamo in chiacchiere, adesso…»
Essa non voleva, smaniava per la stanza, si cacciava le mani nei capelli, diceva che gli lacerava il cuore, che gli pareva un malaugurio, quasi suo padre stesse per chiudere gli occhi.
«Ma no, parliamone!» insisteva lui. «Sono discorsi serii. Non ho tempo da perdere adesso». Il viso gli si andava oscurando, il rancore antico gli corruscava negli occhi. «Allora vuol dire che non te ne importa nulla… come a tuo marito…»
Vedendola poi rassegnata ad ascoltare, seduta a capo chino accanto al letto, cominciò a sfogarsi dei tanti crepacuori che gli avevano dati, lei e suo marito, con tutti quei debiti… Le raccomandava la sua roba, di proteggerla, di difenderla: «Piuttosto farti tagliare la mano, vedi!… quando tuo marito torna a proporti di firmare delle carte!… Lui non sa cosa vuol dire!» Spiegava quel che gli erano costati, quei poderi, l’Alìa, la Canziria, li passava tutti in rassegna amorosamente; rammentava come erano venuti a lui, uno dopo l’altro, a poco a poco, le terre seminative, i pascoli, le vigne; li descriveva minutamente, zolla per zolla, colle qualità buone o cattive. Gli tremava la voce, gli tremavano le mani, gli si accendeva tuttora il sangue in viso, gli spuntavano le lagrime agli occhi:
«Mangalavite, sai… la conosci anche tu… ci sei stata con tua madre… Quaranta salme di terreni, tutti alberati!… ti rammenti… i belli aranci?… anche tua madre, poveretta, ci si rinfrescava la bocca, negli ultimi giorni!… 300 migliaia l’anno, ne davano! Circa 300 onze! E la Salonia… dei seminati d’oro… della terra che fa miracoli… benedetto sia tuo nonno che vi lasciò le ossa!…»
Infine, per la tenerezza, si mise a piangere come un bambino.
«Basta», – disse poi. «Ho da dirti un’altra cosa… Senti…»
La guardò fissamente negli occhi pieni di lagrime per vedere l’effetto che avrebbe fatto la sua volontà. Le fece segno di accostarsi ancora, di chinarsi su lui supino che esitava e cercava le parole.
«Senti!… Ho degli scrupoli di coscienza… Vorrei lasciare qualche legato a delle persone verso cui ho degli obblighi… Poca cosa… Non sarà molto per te che sei ricca… Farai conto di essere una regalìa che tuo padre ti domanda… in punto di morte… se ho fatto qualcosa anch’io per te…»
«Ah, babbo, babbo!… che parole!» singhiozzò Isabella.
«Lo farai, eh? lo farai?… anche se tuo marito non volesse…»
Le prese le tempie fra le mani, e le sollevò il viso per leggerle negli occhi se l’avrebbe ubbidito, per farle intendere che gli premeva proprio, e che ci aveva quel segreto in cuore. E mentre la guardava, a quel modo, gli parve di scorgere anche lui quell’altro segreto, quell’altro cruccio nascosto, in fondo agli occhi della figliuola. E voleva dirle delle altre cose, voleva farle altre domande, in quel punto, aprirle il cuore come al confessore, e leggere nel suo. Ma ella chinava il capo, quasi avesse indovinato, colla ruga ostinata dei Trao fra le ciglia, tirandosi indietro, chiudendosi in sè, superba, coi suoi guai e il suo segreto. E lui allora sentì di tornare Motta, com’essa era Trao, diffidente, ostile, di un’altra pasta. Allentò le braccia, e non aggiunse altro.
«Ora fammi chiamare un prete», terminò con un altro tono di voce. «Voglio fare i miei conti con Domeneddio.»
Durò ancora qualche altro giorno così, fra alternative di meglio e di peggio. Sembrava anzi che cominciasse a riaversi un poco, quando a un tratto, una notte, peggiorò rapidamente. Il servitore che gli avevano messo a dormire nella stanza accanto l’udì agitarsi e smaniare prima dell’alba. Ma siccome era avvezzo a quei capricci, si voltò dall’altra parte, fingendo di non udire. Infine, seccato da quella canzone che non finiva più, andò sonnacchioso a vedere che c’era.
«Mia figlia!» borbottò don Gesualdo con una voce che non sembrava più la sua. «Chiamatemi mia figlia!»
«Ah, sissignore. Ora vado a chiamarla», rispose il domestico, e tornò a coricarsi.
Ma non lo lasciava dormire quell’accidente! Un po’ erano sibili, e un po’ faceva peggio di un contrabbasso, nel russare. Appena il domestico chiudeva gli occhi udiva un rumore strano che lo faceva destare di soprassalto, dei guaiti rauchi, come uno che sbuffasse ed ansimasse, una specie di rantolo che dava noia e vi accapponava la pelle. Tanto che infine dovette tornare ad alzarsi, furibondo, masticando delle bestemmie e delle parolacce.
«Cos’è? Gli è venuto l’uzzolo adesso? Vuol passar mattana! Che cerca?»
Don Gesualdo non rispondeva; continuava a sbuffare supino. Il servitore tolse il paralume, per vederlo in faccia. Allora si fregò bene gli occhi, e la voglia di tornare a dormire gli andò via a un tratto.
«Ohi! ohi! Che facciamo adesso?» balbettò grattandosi il capo.
Stette un momento a guardarlo così, col lume in mano, pensando se era meglio aspettare un po’, o scendere subito a svegliare la padrona e mettere la casa sottosopra. Don Gesualdo intanto andavasi calmando, col respiro più corto, preso da un tremito, facendo solo di tanto in tanto qualche boccaccia, cogli occhi sempre fissi e spalancati. A un tratto s’irrigidì e si chetò del tutto. La finestra cominciava a imbiancare. Suonavano le prime campane. Nella corte udivasi scalpitare dei cavalli, e picchiare di striglie sul selciato. Il domestico andò a vestirsi, e poi tornò a rassettare la camera. Tirò le cortine del letto, spalancò le vetrate, e s’affacciò a prendere una boccata d’aria, fumando.
Lo stalliere, che faceva passeggiare un cavallo malato, alzò il capo verso la finestra.
«Mattinata, eh, don Leopoldo?»
«E nottata pure!» rispose il cameriere sbadigliando. «M’è toccato a me questo regalo!»
L’altro scosse il capo, come a chiedere che c’era di nuovo, e don Leopoldo fece segno che il vecchio se n’era andato, grazie a Dio.
«Ah… così… alla chetichella?…» osservò il portinaio che strascicava la scopa e le ciabatte per l’androne.
Degli altri domestici s’erano affacciati intanto, e vollero andare a vedere. Di lì a un po’ la camera del morto si riempì di gente in manica di camicia e colla pipa in bocca. La guardarobiera vedendo tutti quegli uomini alla finestra dirimpetto venne anche lei a far capolino nella stanza accanto.
«Quanto onore, donna Carmelina! Entrate pure; non vi mangiamo mica… E neanche lui… non vi mette più le mani addosso di sicuro…»
«Zitto, scomunicato!… No, ho paura, poveretto…» Ha cessato di penare.
«Ed io pure», soggiunse don Leopoldo.
Così, nel crocchio, narrava le noie che gli aveva date quel cristiano – uno che faceva della notte giorno, e non si sapeva come pigliarlo, e non era contento mai. – Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi… Basta, dei morti non si parla.
«Si vede com’era nato…» osservò gravemente il cocchiere maggiore. «Guardate che mani!»
«Già, son le mani che hanno fatto la pappa!… Vedete cos’è nascer fortunati… Intanto vi muore nella battista come un principe!…»
«Allora», disse il portinaio, «devo andare a chiudere il portone?»
«Sicuro, eh! E’ roba di famiglia. Adesso bisogna avvertire la cameriera della signora duchessa.»

Abbiamo già parlato della similarità tra Mazzarò e Gesualdo: per ambedue esiste solo la “religione della roba” e la separazione da essa è qualcosa che prima o poi i due personaggi dovevano affrontare; il primo lo fa in modo grottesco, nel secondo, invece, Verga utilizza un vero e proprio stile tragico. Gesualdo è estraneo in casa della figlia, come è estraneo alla figlia stessa. Il genero vuole soltanto profittare dei suoi beni. L’accumulo della “roba” gli ha estraniato qualsiasi affetto e da vecchio, sul punto di morte, questo senso di colpa sembra quasi voglia espiarlo. Ma è un attimo: il pensiero torna alla roba e alla paura ce il genero gliela porti via per pagare i suoi immensi debiti. E’ che la roba è lui, in questo processo d’identificazione vedere la figlia non difendere la roba paterna è come voler dire non difendere il padre stesso. Ma è abbastanza palese, dagli atteggiamenti di Isabella, quanta difficoltà abbia nel riuscire ad amare un padre che era stato odiato dalla madre e quindi da lei.

Muore tra la servitù, solo, regredendo da dove è partito e sancendo una sconfitta totale, simile nella loro diversità: Mazzarò la distrugge perché non può portarla con sé, Gesualdo la vede distruggere. Per Verga non esiste alcuna possibilità per evitare la sconfitta.

Il Mastro-don Gesualdo, rappresenta il secondo romanzo del ciclo de I Vinti ed è diviso in quattro parti: ascesa, successo, declino e sconfitta. Tutta la vicenda, quindi, ruota intorno a Gesualdo, facendo così sparire la coralità che era stata invece tipica de I Malavoglia. Cambia anche il tempo storico, a cavallo delle grandi rivoluzioni del ’48 e quindi anche in questa vicenda la storia entra a turbare il destino del personaggio: l’ascesa della borghesia e il conseguente degradare della nobiltà.

Il personaggio di Gesualdo è dominato dal “demone” della roba, da lui si fa trasportare e per lui rinuncia ad ogni forma di accettazione sociale: è odiato perché è diventato ricco; è odiato dalla moglie, perché è stata costretta a sposarlo proprio per la sua ricchezza e che lui ha a sua volta sposato per scalare la scala sociale; è odiato dalla figlia perché non gli ha permesso un matrimonio d’amore. Gesualdo è condannato alla solitudine. Tale condizione della vita non può che ricrearsi nella morte.

La storia di un personaggio e non di un intero paese spinge Verga a mutare la tecnica narrativa: non più una “regressione” quanto una presa di distanza critica sull’oggetto narrato, che non elude, talvolta, una presa di posizione da parte del narratore che spesso coincide con quella popolare; una maggiore “verità” la ottiene anche attraverso un numero piuttosto alto di dialoghi.

In altre parole potremo dire che il Mastro-don Gesualdo è un romanzo più tradizionale de I Malavoglia, ma dalla stessa capacità d’impatto per la cultura italiana ed europea, tanto da poter degnamente figurare tra i grandi romanzi della seconda metà dell’Ottocento.

Opere tarde

Oltre i quattro capolavori, che potremo definire “rusticani” Verga continuerà a scrivere, ma tutte le ultime opere sono considerate dalla critica inferiori al periodo maggiormente creativo dell’artista siciliano. Tali opere sono i racconti riuniti nelle seguenti raccolte:

  • Per le vie (1883)
  • Drammi intimi (1884)
  • Vagabondaggio (1887)
  • I ricordi del Capitano d’Arce (1891)
  • Don Candeloro & C. (1894)

In tutte queste novelle Verga mescola ambienti ancora siciliani con quelli milanesi (soprattutto nella prima di esse, in cui si sofferma sui diseredati urbani), ma già dalla seconda ricominciano ad apparire storie mondane psicologiche che ci riportano ai soliti difetti dei primi romanzi.

Così è anche il romanzo Il marito di Elena (1882), dove il nostro non prosegue affatto il ciclo dei Vinti (abbiamo solo un capitolo e mezzo de La Duchessa di Leyra), ma crea un opera assolutamente involutiva rispetto ai romanzi maggiori, ripetendo schemi e situazioni già toccati nei cosiddetti romanzi mondani.

 

 

DAI GRACCHI A SILLA

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Lucio Cornelio Silla

Il periodo cosiddetto “arcaico” aveva posto le basi per la nascita di una cultura che “balbettando” ancora ed ascoltando la “voce grossa” delle grandi città greche e della vicina Etruria cercava la propria identità. Gli Elogia, i Carmina, il Diritto delle XII Tavole, le prime forme teatrali avevano offerto la possibilità a questo popolo di trovare le basi entro le quali costruire un autonomo modo di vivere.

Poi c’erano state le guerre puniche: Roma si avviava a diventare padrona del Mediterraneo. Quindi accrescevano le ricchezze, aumentavano gli schiavi, nasceva una “mentalità” che voleva andare al di là della “rozzezza” pastorale: l’ellenismo penetrava e si diffondeva come un virus; bisognava difendersi, ma avendo la capacità di appropriarsene. Lo fa Plauto, che per far ridere i Romani riprende e modella l’ellenista Menandro; ne sa qualcosa Terenzio, che invece vuole svecchiare attraverso la cultura greca Roma; ne conosce qualcosa altresì Catone, quando dice al figlio Marco di sapere la cultura greca, ma per non utilizzarla e guardarsi da lei.

Il periodo successivo è tutto diverso: l’ellenismo è penetrato; l’individualismo ha preso il posto del concetto di Stato; le ricchezze si sono diffuse. Vediamolo più in particolare.

L’allargamento dei confini era stato tale che ormai Roma era padrona di tutto il Mediterraneo: non si trattava più della collegialità delle cariche, quanto di un vero e proprio sistema “più duraturo” capace di governare realtà e popolazioni diverse tra loro. Inoltre nuove figure sociali, intraprendenti in quanto in possesso di denaro liquido, si erano affacciate alla ribalta grazie all’allargamento dei mercati: i negotiatores e i mercatores, che facevano parte della classe degli equites. Non solo i possessori di beni mobili prosperavano, ma anche i proprietari terrieri, tutti d’origine senatoria: l’importazione di un gran numero di schiavi rendeva i loro prodotti fortemente concorrenziali rispetto ai piccoli proprietari; le negoziazioni avvenivano attraverso dei prestanome, i soldi ottenuti erano reinvestiti acquistando terreno agricolo dagli agricoltori, quest’ultimi riempivano la città e diventavano facile preda degli interessi politici delle classe alte che li “sfruttavano” economicamente.

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Tiberio e Caio Gracco

Tutto ciò creò un forte fluidità sociale, alla quale rispose la divisione della classe nobiliare: gli optimates (considerati i boni) erano per la conservazione sociale, lasciando quindi il potere economico in mano al padrone della villa che organizzava in microcosmo un vero e proprio sistema politico-economico (si ricordi Catone e I doveri del padrone della fattoria), dall’altra i populares, che propugnavano invece un radicale cambiamento politico sociale. Tutto iniziò quando il tribuno della plebe, Tiberio Sempronio Gracco, d’origine popolare, propose una serie di leggi che incontrarono una forte opposizione all’interno della nobilitas. Le riforme di Tiberio riguardavano l’ager publicus: si prevedeva infatti la ridistribuzione delle terre pubbliche in modo che nessuno potesse eccedere nello sfruttarle (i nobili, senza il controllo di alcuno, pare avessero occupato l’ager pubblico confondendolo con il privato ed esercitando su di esso un vero e proprio diritto di proprietà). Si metteva quindi un limite al possesso e l’eccedente veniva ridistribuito, finanziando il progetto grazie anche alla eredità di Attalo III, re di Pergamo. Si creava ad hoc una commissione di cui Tiberio stesso faceva parte. Inoltre lo stesso propose che i cittadini italici, che tanto avevano sofferto nella lotta contro Annibale, ottenessero la cittadinanza. L’opposizione senatoria fu netta: sconfitta sull’ager publicus, fece di tutto per insabbiare la legge; ma Tiberio non riuscì a far sì che anche altri con-divisero i suoi privilegi. Per far in modo che la sua politica potesse realizzarsi, Tiberio fece qualcosa di illegale: ricandidarsi per l’anno successivo (dovevano passare 10 anni): ciò gli mise contro anche parte del suo partito e nei disordini creatisi per l’elezione fu ucciso (133 a.C.).

La riforma graccana, dopo 10 anni, fu ripresa da suo fratello minore: Gaio. Riprese con maggior vigore la distribuzione dell’ager publicus, fondò colonie nell’Italia meridionale ma soprattutto si alleò, contro i senatori, con i cavalieri: permise loro di entrare in quota di maggioranza nei processi per estorsione nei confronti dei governatori delle province i quali, essendo senatori, venivano giudicati (e quindi quasi sempre assolti) dai senatori stessi. Ripresentando la proposta sull’allargamento della cittadinanza, incontrò nuovamente la riprovazione della nobilitas, che si ricoalizzò e trovò l’occasione per ucciderlo.

Morti i due Gracchi gli optimates ripresero pieno potere: i tribuni che riprendevano il programma dei fratelli venivano uccisi. Tra i seguaci importante fu la figura che nel ’91 riprese la proposta di allargamento della cittadinanza: Livio Druso. Di nuovo l’oligarchia senatoria ebbe la meglio, uccidendo il tribuno, ma gli italici, questa volta, non stettero a guardare, facendo scoppiare la guerra sociale. Fu una guerra difficile per i Romani, che infine riuscirono a vincere, ma per farlo dovettero approvare ciò che volevano non passasse mai per legge: coloro che tra i socii si arrendevano spontaneamente e deponevano le armi avrebbero ottenuto la cittadinanza.

La situazione allora creatasi mostra, come dirà più tardi Sallustio, che all’origine delle guerre civili romane ci sia stata la cessazione della paura del nemico esterno. Ciò è dimostrato dalla situazione di violenza e sopraffazione che caratterizzò l’Urbe in questo periodo: testimonianza di ciò fu la guerra giugurtina (di cui si occupò Sallustio).

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Massimissa

La Numidia era un regno alleato di Roma; alla morte del re Massimissa fu diviso tra i suoi due figli ed un cugino: Ièmpsale, Adèrbale e Giugurta. Quest’ultimo cercò di far fuori i due fratelli, i quali si rivolsero ai Romani. Sembra che Giugurta li conoscesse bene: regalìe, corruzioni, facevano in modo che i soldati dell’Urbe non s’impegnassero affatto. A Roma ne nacque un vero e proprio scandalo contro il Senato, a cui si pose fine quando a comandare le operazioni militari venne mandato Mario, appartenente al ceto equestre e quindi homo novus. Egli, per poter porre termine alla guerra, fece una proposta che ebbe enormi conseguenze: chiese di poter armare soldati volontari e quindi mercenari. Cosa significava tutto ciò? Se il soldato romano era stato fino ad allora il piccolo proprietario terriero che difendeva la sua patria e quindi i suoi averi, assoldare nullatenenti voleva dire porli sotto l’egida di un comandante (e non dello stato) che grazie al suo potere poteva ripagarli dando pezzi di terre al termine del loro servizio. Grazie a ciò Mario riuscì a debellare la guerra africana e a portare in trionfo Giugurta. Appena esplose una ribellione in Germania, fu ancora chiamato Mario a riportare le popolazioni nemiche alla ragione. Insomma, con lui, non è più lo Stato, ma l’uomo che lo rappresenta ad essere più importante, tanto che, in deroga ad ogni legge, resse il consolato per ben cinque anni consecutivi.

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La morte di Giugurta

Intanto, in politica estera, la situazione non era certo tranquilla. In Asia minore, Mitridate, re del Ponto, si fece fautore di una lega antiromana, per far fronte alle prepotenze di funzionari repubblicani che, per contrastarlo, avevano spinto Nicomede, re di Bitinia, ad invaderlo. Di fronte a tale pericolo il Senato votò per la nomina a generale Lucio Cornelio Silla, già luogotenente di Mario, ma che si presentava come il rappresentante dell’oligarchia senatoria. I populares si opposero a tale scelta e nominarono a loro volta Mario, capendo che la messa da parte del loro favorito avrebbe rappresentato una sconfitta per loro, inoltre proposero l’entrata di nuovi cittadini nel senato offrendo loro una maggioranza che avrebbe sconfitto la stessa nobiltà. Silla si rese conto del pericolo di tale affermazioni. Lasciò il luogo di guerra in cui era impegnato e, con il suo esercitò, varcò i confini della città di Roma. Mise in fuga Mario e cancellò tutte le proposte dei populares. Quindi ripartì per la guerra. In sua assenza i mariani tentarono di riprendere il potere, tanto che, tornato Mario, riottenne per due anni il consolato. Ma Silla rientrò e due eserciti si scontrarono. Silla ebbe la meglio contro l’esercito guidato da Mario il Giovane (il padre era morto nel frattempo), sbaragliando il partito popolare e istaurando la dittatura (81 a.C.) Egli restaurò un tipo di governo nobiliare che ebbe il pieno appoggio della parte senatoriale, togliendo ai popolari tutti i diritti acquisiti. Quindi nel 79 a.C. si ritirò a vita privata.

La cultura

E’ evidente che in un periodo così caotico per la repubblica anche la cultura subisse un contraccolpo importante, aggravato dalle perdite delle opere degli scrittori.

Tutti i generi, infatti, vennero progressivamente abbandonati: il teatro comico, che tanto successo aveva ottenuto con Plauto e Terenzio, viene abbandonato a favore dei mimi, meno impegnativi. Lo stesso vale per la tragedia, cui i temi ricorrenti avevano stancato il pubblico.

Numerose opere vennero prodotte di carattere storiografico, grazie anche all’esempio delle Origines catoniane, che adottò il latino al posto del greco; importante fu Celio Antipatro: infatti inaugurò la monografia e adottò uno stile tragico, atto ad impressionare e non solo informare il lettore.

Con più difficoltà si può parlare dell’inaugurazione, a Roma, della filosofia. Pur essendo presente attraverso i tanti greci presenti a Roma, nonché coltivata a livello personale, risultava assolutamente complesso poter sviluppare nell’Urbe un’opera con un forte senso critico: si pensi ancora all’atteggiamento catoniano verso il mos maiorum e come la speculazione potesse metterlo in crisi: è evidente che in un momento in cui la penisola veniva percorsa da una guerra sociale prima e civile poi, tale dibattito potesse sembrare ai più di allora altamente problematico.

Diverso fu il discorso della poesia lirica, la cui nascita fa parlare i critici di poeti preneoterici, cioè di autori che anticipano temi e stilemi cari a Catullo. Il più importante di essi è Quinto Lutazio Catulo la cui importanza, oltre ad aver inaugurato il genere sta nel fatto che:

  • Uno dei più grandi uomini illustri del senato, si “dilettasse” a far poesia “lirica” e quindi soggettiva”, il cui principale tema è l’amore;
  • L’introduzione in questa poesia dell’amore pederastico, tipico della cultura greca e “sconosciuto” ai “tradizionalisti” romani.

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Coppie pederastiche in un simposio

Ne sono esempi:

LUTAZIO CATULO: LO SPLENDORE DI ROSCIO

Constiteram exorientem Auroram forte salutans,
cum subito a laeva Roscius exoritur.
Pace mihi liceat, caelestes, dicere vestra:
mortalis visus pulchrior esse deo.

Ero fermo salutando per caso l’Aurora sorgente,
quando improvvisamente Roscio sorge alla mia destra.
Sia lecito a me dire, o celesti, con vostra pace:
il mortale sembrò essere più bello di un dio.

Ma anche il piccolissimo testo di quest’altro esponente:

 VALERIO EDITUO: LA FIAMMA D’AMORE

Quid faculam praefers, Phileros, quae nil opus nobis?
Ibimus sic, lucet pectore flamma satis.

Perché porti in alto la fiamma, o Filero, la quale non ci occorre?
Andremo così: risplende abbastanza la fiamma nel petto.

Ma il genere che più ebbe importanza e di cui conosciamo l’opera, ma non l’autore, è la Rhetorica ad Herennium. L’importanza di quest’opera è soprattutto nel fatto che essa ben si inserisce in quel clima politico per cui la parola, il convincimento attraverso essa, diventa forse, più delle armi stesse, lo strumento per ottenere il potere.

Infatti si tratta d’imparare gli strumenti per convincere altri:

  • Gli strumenti sono i mezzi che si applicano per ben parlare ed appartengono alla retorica;
  • L’opera che utilizza tali strumenti appartiene al genere dell’oratoria.

IL COMPITO DELL’ORATORE

Oratoris officium est de iis rebus posse dicere, quae res ad usum civilem moribus et legibus constitutae sunt, cum adsensione auditorum, quoad eius fieri poterit.

Tria genera sunt causarum, quae recipere debet orator: demonstrativum, deliberativum, iudiciale. Demonstrativum est, quod tribuitur in alicuius certae personae laudem vel vituperationem. Deliberativum est in consultatione, quod habet in se suasionem et dissuasionem. Iudiciale est, quod positum est in controversia et quod habet accusationem aut petitionem cum defensione.

(…)

Oportet igitur esse in oratore inventionem, dispositionem, elocutionem, memoriam, pronuntiationem.
Inventio est excogitatio rerum verarum aut veri similium, quae causam probabilem reddant.
Dispositio est ordo et distributio rerum, quae demonstrat, quid quibus locis sit conlocandum.
Elocutio est idoneorum verborum et sententiarum ad inventionem adcommodatio.
Memoria est firma animi rerum et verborum et dispositionis perceptio.
Pronuntiatio est vocis, vultus, gestus moderatio cum venustate.

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Codice medievale della Rhetorica ad Herennium

Compito dell’oratore è di poter parlare – con assenzio, per quanto può farsi, degli ascoltatori – di quelle materie che sono ordinate alla pratica politiche sociali dai costumi e dalle leggi. Tre sono i generi di cause, che l’oratore deve assumersi: il dimostrativo, il deliberativo, il giudiziale. Il dimostrativo è quello che è distribuito in lode o in biasimo di una qualche determinata persona. Il deliberativo versa nella consultazione, il quale contiene la persuasione o la dissuasione. Il giudiziale è quello che è fondato sulla controversia e che comprende l’accusa o la domanda giudiziale, con la difesa.(…) Bisogna dunque che l’oratore possieda invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, recitazione. L’invenzione è il trovamento degli argomenti veri o verisimili che rendano la causa persuasiva. La disposizione è l’ordine e la distribuzione delle idee la quale dimostra quel che va posto in ciascun punto. L’elocuzione è l’adattamento delle parole appropriate e delle idee dell’invenzione. La memoria è la ferma acquisizione nella mente delle idee e delle parole, e della disposizione (di esse). La recitazione è il regolar con eleganza la voce, il volto, il gesto.

L’autore anonimo, forse Cornificio, un nobile vissuto nell’età mariana, non fa altro che riprendere la definizione classica elaborata dal mondo greco su quali fossero gli stili e i mezzi per un discorso retorico e come abbiamo visto nelle pagine precedenti sono dimostrativo (parlare in un luogo pubblico per “dimostrare” cosa sia il giusto e lo sbagliato); deliberativo (in un’assemblea politica far votare un progetto su cui si è argomentato con incisività); giudiziario (l’“odierna arringa” degli avvocati o di un pubblico ministero). Gli attori che applicano questi tre stili devono mettere in pratica queste caratteristiche: reperimento degli argomenti (inventio); metterli in ordine (dispositio), dirli in uno stile adeguato (elocutio); ricordarli bene (memoria), e porgerli con un tono, mimica e gestualità efficaci.

E’ chiaro che quindi, com’è dimostrato dalle pagine riportate, che l’opera si presenti con un contenuto estremamente manualistico, cioè come una vera e propria istruzione d’uso. E ai grandi rivali politici del tempo, si pensi solo a Mario e Silla, bastava riempire la forma col contenuto per ottenere successo.

MEDIOEVO

Convenzionalmente il Medioevo viene collocato tra il 476 d.C. e la fine del 1300; risulta estremamente chiaro che tale cronologia è puramente convenzionale; infatti la dissoluzione dell’Impero Romano è un processo lento, che avviene già nell’età di Adriano. D’altra parte, sia politicamente che socialmente l’elemento barbarico aveva già preso posto negli alti gradi dell’esercito e della burocrazia, pertanto quando Romolo Augustolo venne deposto e il re Odoacre consegnò l’insegna imperiale a Costantinopoli alla maggior parte della popolazione sembrò non fosse accaduto nulla.

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Odoacre

Il medioevo, il cui termine indica un evo che sta in mezzo tra l’impero antico e l’impero moderno, è quindi un’età che, definendola così, si presuppone come non esistente. Non è realmente così: in primo luogo è bene dire che esso costituisce la fucina per l’Europa moderna (è stato il movimento romantico ad individuare questo suo compito); inoltre è in questo periodo che si forma l’ideologia cristiana e la divisione linguistica.

Per meglio definirlo è necessario dire che esso si divide in Alto Medioevo (tra la fine dell’Impero Romano e l’anno 1000), ed il Basso Medioevo (dal 1000 fino alla crisi dell’età comunale).

Gli elementi che lo hanno caratterizzato sono:

  • Le migrazioni dei popoli del Nord;
  • Il Cristianesimo come “visione” unica della realtà;
  • Il monachesimo benedettino;
  • La società feudale;
  • Il Sacro Romano Impero.

Le migrazioni dei popoli del Nord

Meglio conosciute con il termine improprio d’invasioni “barbariche” esse sono stati dei veri e propri spostamenti in cui popoli “nomadi”, originari dei territori che dalle steppe siberiane arrivavano sino al confine del Reno, cominciarono un processo migratorio che li fece irrompere fin dentro il limes romano; essi frantumarono l’Impero e attraverso un lunghissimo processo diedero forma, in seguito, ai Regni Romano-barbarici. Infatti il loro arrivo non procurò solo “distruzione”, ma ebbe anche un compito di “costruzione” che, sebbene lungo, arriverà alla soglia della modernità.

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I regni romano-barbarici

Il loro primo impatto si ebbe in campo linguistico; la lingua di Roma, il latino, si era estesa al seguito dell’esercito, giungendo quasi fino all’estremità del mondo allora conosciuto. E’ evidente che più lontano era l’arrivo dell’elemento latino più forte era la resistenza della lingua originaria (substrato); inoltre dal loro incontro sempre veniva fuori un codice linguistico che, più o meno, conteneva gli elementi dell’uno e dell’altro. Alla disgregazione dell’Impero, il processo avrà una dinamica opposta: più s’allentava il controllo dell’Impero più riemergeva il substrato linguistico contenente i nuovi elementi apportati dal latino (superstrato); ciò darà appunto vita a quelle lingue che gli studiosi definiscono “romanze”.

Il cristianesimo come visione unica della realtà

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Costantino: resti di una statua gigante presso i Musei Capitolini

Se Costantino, imperatore Romano tra il 321 ed il 337, accettò che la religione cristiana facesse parte dell’Impero, fu Teodosio che nel 392 la rese “religione di Stato”.

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Teodosio

Ciò creò una serie di conseguenze tra le quali, sul piano culturale, s’impose quella concernente il rapporto tra tutta la tradizione culturale romana e la nuova concezione della realtà che il Cristianesimo prospettava. Infatti tutta la realtà doveva ora essere ridisegnata secondo un modello “trascendente”, ovvero sia, tutto il mondo doveva essere studiato ed osservato come emanazione dall’alto della volontà divina. Cosa fare, dunque della cultura che non aveva conosciuto Dio?

Le risposte potevano essere ispirate sia al rifiuto che all’accettazione:
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San Gerolamo

GEROLAMO: L’INFERNO PER CHI LEGGE
I LIBRI DEI GENTILI (382)
(Epistula, XXII)

Cum subito raptus in spiritu, ad tribunal iudicis pertrahor; ubi tantum luminis, et tantum erat ex circumstantium claritate fulgoris, ut proiectus in terram, sursum aspicere non auderem. Interrogatus de conditione, Christianum me esse respondi. Et ille qui praesidebat: «Mentiris», ait, «Ciceronianus es, non Christianus: ubi enim thesaurus tuus, ibi et cor tuum». Illico obmutui, et inter verbera (nam caedi me iusserat) conscientiae magis igne torquebar, illum mecum versiculum reputans: «In inferno autem quis confitebitur tibi»? Clamare tamen coepi, et eiulans dicere: «Miserere mei, Domine, miserere mei». Haec vox inter flagella resonabat. Tandem ad praesidentis genua provoluti qui astabant, precabantur, ut veniam tribueret adolescentiae, et errori locum poenitentiae commodaret, exacturus deinde cruciatum, si Gentilium litterarum libros aliquando legissem.

Quand’ecco rapito dallo spirito, son tratto al tribunale del giudice e lì era tanta la luce e tanto il fulgore di quel luminoso ambiente che io, piegato a terra, non osavo alzare gli occhi, interrogato sulla mia condizione, risposi che io ero cristiano. Ma il presidente ribatté: «Ciceroniano sei, non cristiano. Dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore». Ammutolii e tra le percosse (poiché si era ordinato di battermi) più ancora mi sentivo tormentato dalla fiamme del rimorso e fra me ripetevo quel versetto: «Chi ti glorificherà nell’inferno?». Cominciai pure ad invocare e tra i lamenti a dire: «Misericordia di me, o Signore, misericordia di me». Questa mia voce risuonava tra le percosse. Infine gli astanti, piegatesi alle ginocchia del presidente, pregavano che perdonasse alla mia giovinezza e desse al peccatore facoltà di far penitenza, con la ferma decisione di mettermi a morte, se fossi ricaduto nella lettura dei libri dei gentili.
(trad. di Annarone)

Gerolamo, autore tra l’altro della Vulgata, cioè la traduzione in un latino lineare e semplice della Bibbia, si pone in una situazione di netto rifiuto. Se i Romani non conoscono Dio, come possono ispirare o insegnare chi invece Dio lo conosce e non può o deve tradirlo? Non c’è possibilità d’incontro: gli dei romani, Giove, Venere, Marte o Giunone, sono emanazione diabolica, in quanto portatori di sensazioni corporee e non rinneganti l’idea del piacere. Come può il Dio trascendente, incorporeo, portatore del tutto e incluso in quanto parte di esso, venire a patti con un mondo immanente? Solo l’inferno può aspettare chi si ciba di cultura pagana, soprattutto per chi la conosce e sa quanto sia perfetta e bella, ma proprio per questa sua esteriorità, ingannatrice.

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Sant’Agostino

AGOSTINO: LA FILOSOFIA DI CICERONE COME STIMOLO PER AMARE DIO
(397-401)

Inter hos ego inbecilla tunc aetate discebam libros eloquentiae, in qua eminere cupiebam, fine damnabili et ventoso per gaudia vanitatis humanae; et usitato iam discendi ordine perveneram in librum cuiusdam Ciceronis, cuius linguam fere omnes mirantur, pectus non ita. Sed liber ille ipsius exhortationem continet ad philosophiam et vocatur “Hortensius”. Ille vero liber mutavit affectum meum, et ad te ipsum, domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia. Viluit mihi repente omnis vana spes, et inmortalitatem sapientiae concupiscebam aestu cordis incredibili, et surgere coeperam, ut ad te redirem. Non enim ad acuendam linguam, quod videbar emere maternis mercedibus, cum agerem annum aetatis undevicensimum, iam defuncto patre ante biennium; non ergo ad acuendam linguam referebam illum librum, neque mihi locutionem, sed quod loquebatur persuaserat.

Tra questi (oratori) io, in età all’epoca ancora immatura, studiavo i libri di eloquenza, nella quale desideravo distinguermi con un fine biasimevole e vano, attraverso le gioie della vanità umana, e secondo l’usuale programma di studi, ero già arrivato al libro di un certo Cicerone, la cui lingua quasi tutti ammiravano, non altrettanto il pensiero. Ma il libro di costui contiene un’esortazione alla filosofia, ed è intitolato “Ortensio”. Quel famoso libro mutò la mia mentalità e cambiò le mie preghiere (rivolte) a te, Signore, e rese diverse le mie aspettative e i miei desideri. Di colpo svilì in me ogni vana speranza e mi fece desiderare con un incredibile ardore di cuore l’immortalità della sapienza e incominciai a rialzarmi per ritornare a te. Ma non per affinare la lingua, cosa che sembrava che pagassi con il mensile materno – poiché avevo diciotto anni e (mio) padre era morto già da due – perciò non rivolgevo (la lettura di) quel libro per perfezionare la lingua, né mi aveva persuaso del suo stile ma di ciò di cui parlava.

E’ evidente l’atteggiamento diverso del filosofo Agostino: se Dio, in quanto ente creatore, è sempre esistito, alcuni scrittori “pagani” pur non conoscendolo o rispettandolo, nel momento in cui scrivevano le loro opere, ricevevano la Sua invisibile presenza. Ciò voleva dire che tali opere non solo riportavano ciò che il loro autore intendeva, ma anche ciò che Dio voleva che loro dicessero. Infatti, per Agostino, Dio è stato, è e sarà; in Lui il tempo non esiste, ed essendo Dio proprietario del Tempo esso è vissuto come un continuo presente. Allora le “verità” nascoste degli scrittori Romani, possono ricercarsi in quanto “eternamente valide”. Per scoprirle occorre attuare il metodo allegorico, cioè cercare dietro il velo del “dettato” la verità. Infatti “allegoria” letteralmente vuol dire “dire altro”, quindi, ad esempio dire “rosa” per intendere “bellezza”.

Ora “interpretazione allegorica” vuol dire, come detto, cercare di capire ciò che la lingua come segno indica per interpretare la volontà di Dio. Un’allegoria è appunto interpretare un “pensiero di un poeta” cercare di scorgere dietro di esso. Ad esempio l’aquila imperiale che con le sue unghie graffia il corpo lacerato di una donna, può indicare allegoricamente la conquista di Roma dell’intera penisola italiana. Questa allegoria è detta, appunto, allegoria dei poeti. Ora anche la storia è composta da segni, in quanto ogni evento può essere così interpretato; ma esso non è inventato ma successo realmente. La storia più grande per un uomo medievale è senz’altro la Bibbia, la quale è piena di “segni” che preparano la venuta di Cristo. Ma essa, come si sa, in quanto ispirata da Dio, è sempre valida e quindi piena di segni per l’uomo contemporaneo; quindi il passaggio degli Ebrei nel Mar Rosso per raggiungere la Palestina significa, allegoricamente, il percorso che l’uomo deve seguire per raggiungere la salvezza: questa è l’allegoria dei teologi.

Prendiamo i due passi sopra citati: per Girolamo il sogno è un messaggio veritiero che Dio manda per esprimere la sua volontà, segno quindi del modo in cui egli si deve comportare; la vicenda d’Agostino che leggendo Cicerone scopre l’amore per la verità e quindi per Dio, sono ambedue allegorie dei teologi. Ma il dettato ciceroniano che indicava cose altre indica, appunto, l’allegoria dei poeti.

Il monachesimo benedettino

Quando nel 529 il monaco San Benedetto fondò a Montecassino la famosa abbazia, trasformò non solo la vita monastica, ma donò all’organizzazione ecclesiastica dei monasteri un vero e proprio vademecum che la caratterizzò per l’intera sua esistenza. Egli infatti trasformò il concetto di monachesimo (che al suo interno contiene il termine greco monos, solo) da un rapporto ascetico e solitario con la divinità ad una vera e propria comunità che, rispettando una regola, prospetta un vero e proprio modus vivendi da condividere in più persone.

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San Benedetto

DALLA “REGOLA DI SAN BENEDETTO”

Otiositas inimica est animae, et ideo certis temporibus occupari debent fratres in labore manuum, certis iterum horis in lectione divina.
Si autem necessitas loci aut paupertas exegerit ut ad fruges recolligendas per se occupentur, non contristentur, quia tunc vere monachi sunt si labore manuum suarum vivunt, sicut et patres nostri et apostoli.
Ante omnia sane deputentur unus aut duo seniores qui circumeant monasterium horis quibus vacant fratres lectioni, et videant ne forte inveniatur frater acediosus qui vacat otio aut fabulis et non est intentus lectioni, et non solum sibi inutilis est, sed etiam alios distollit: hic talis si – quod absit – repertus fuerit, corripiatur semel et secundo; si non emendaverit, correptioni regulari subiaceat taliter ut ceteri timeant.

L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.
Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli.
E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio, per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri.
Se si trovasse – non sia mai! – un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta, ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore.
Come dimostra il passo, infatti, è proprio nella preghiera e nel lavoro che l’uomo si realizza e quindi nel dono che egli fa delle sue capacità agli altri. E proprio grazie a questa organizzazione che nei monasteri e nelle abbazie si trova lo scriptorium luogo nei quali monaci esperti (amanuensi) e artisti (miniaturisti) copiavano testi sia sacri che profani. Non bisogna dimenticare che è proprio grazie a questo compito che è giunta / non giunta, incorrotta / corrotta, fino a noi parte della letteratura latina.

La società feudale 

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Il rito dell’iniziazione

Già durante l’ultimo periodo romano, con la perdita dell’autorità imperiale, ad avere maggiore importanza furono le villae guidate sempre più in modo autonomo dai signori. Le invasioni barbariche, se da una parte confermarono l’esistente, dall’altra lo rafforzarono perché proprio le villae, poste un po’ in disparte rispetto alle città, divennero luogo in cui poter trovare rifugio e protezione in cambio di sicurezza. In caso di guerra, proprio il signore, in ricompensa dei servigi resi, poteva concedere una porzione di territorio, che, in seguito, con termine germanico, veniva definito “feudo”. Colui che lo riceveva diventava “vassallo” del suo signore e s’impegnava a restituirlo alla sua morte. L’equilibrio tra il ricevere e il restituire chiaramente durava fino a quanto maggior potere possedeva il potere centrale; laddove esso mano mano scemava è evidente che sarà il potere periferico ad imporre il suo volere, fino a far diventare i terreni ricevuti ereditari (1037), sancendo in qualche modo l’assenza dello stato centrale. Il periodo in cui tale sistema s’impone è detto feudalesimo ed è caratterizzato da una serie di riti che estrema importanza ebbero sul piano culturale, quale il concetto di omaggio (sottomissione con il quale un signore feudale riconosceva la superiorità di un altro nobile), d’investitura (atto con cui veniva concesso il beneficio o feudo) e fellonia (tradimento degli obblighi esistenti fra il signore feudale e il suo vassallo).

 Il sacro romano impero

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Il Sacro Romano Impero

Al di là delle vicende propriamente storiche che caratterizzano la costituzione di un nuovo imperialismo occidentale, quello che conta è proprio l’aspetto culturale che tale imperialismo ebbe per l’intero medioevo. Fra i regni romano-barbarici il più potente si mostrò quello franco, grazie anche all’asse che egli riuscì a costituire con la chiesa di Roma. In tal modo egli, infatti, si proponeva come il braccio armato del papato, difensore quindi della fede e della verità. Quando nell’800 Carlo Magno riuscì a farsi nominare imperatore dal papa e a costituire l’unità politica col sostegno dell’unità religiosa, sembrò rinascere e prendere piede l’impero romano; ma nella mente dei due protagonisti più importante forse era il fine per cui era importante ripristinare una sorte di “renovatio imperii”, perché il suo compito era quello di diffondere la verità cristiana di contro alle eresie e agli infedeli. Così la corte del nuovo imperatore doveva diventare il centro di una cultura rinnovata, che rivaleggiasse con l’antica e la superasse grazie all’aiuto di Dio.

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Carlo Magno

L’unitarietà della storia e del sapere

Il progetto che Carlo Magno realizzava era quello di creare una continuità tra l’impero di Roma ed il suo; si trattava cioè di riproporre, rinnovata, la grande funzione civilizzatrice (ora anche religiosa) che l’Urbe aveva avuto. Tale riproposizione, tuttavia, non si presenta sotto il segno di un rinnovamento, ma di un vero e proprio compimento che lo stesso Dio aveva disegnato:

  • Fondazione di Roma
  • Cesare fondatore dell’impero (unità politica)
  • Diffusione della sua lingua e cultura
  • Tiberio successore di Cesare e la nascita di Cristo
  • Pietro primo pontefice (unità dei cattolici)
  • Roma capitale del cattolicesimo e sede del papato

Tutto questo era, per l’uomo medievale, il disegno di Dio, per meglio a provvidenza di Dio; ma se tale disegno avviene nella sua mente, esso si presenta come simultaneo; quindi non c’è distinzione cronologica, ma realizzazione dell’attimo: nessuna evoluzione, nessuna storia.

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E ciò che è nella mente di Dio bisogna trovi la sua realizzazione nel presente, che diventa speculum, specchio, della volontà divina. Essa quindi si struttura come una piramide che deve rimanere immutabile, nel cui vertice vi sono gli oratores e sotto dapprima i bellatores e quindi i laboratores: ogni classe sociale, essendo destinata da Dio a compiti immobili nel tempo non può essere mobile: da qui la diffidenza della chiesa verso il denaro, che, come bene immobile, può mettere in crisi tale struttura.

L’organizzazione del sapere medievale

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Esempio di “scriptorium”

Il presente è realizzazione del pensiero simultaneo di Dio: perciò esso è immutabile sia nella rappresentazione che nella realtà. Se ambedue sono proiezione di Dio non c’è classifica fra di esse, ma partecipano tutte al suo progetto. Bisogna perciò conoscerle tutte indistintamente (enciclopedismo).

Il sapere universale, distingue le artes (cioè le discipline, ma intese in modo diverso da oggi) in arti del trivio e del quadrivio:

  • Trivio: grammatica, retorica e dialettica;
  • Quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia e musica.

A voler specificare potremo dire che le prime appartengono alla sfera del ben parlare e scrivere e quindi ben predicare la parole di Dio; le seconde vertono non proprio sulla conoscenza scientifica, ma sul valore simbolico del numero e delle forme geometriche (si pensi a Dante e al numero tre o alla figura del cerchio), sull’influenza degli astri sulla vita dell’uomo (astrologia e astronomia appartengono ad un unico sapere) e sull’armonia celeste dei suoni (ancora si rivolga l’attenzione all’importanza dei canti nelle funzioni liturgiche)

La dissoluzione vista nell’inizio e la regola di San Benedetto ci danno l’idea che gli unici a possedere la cultura in età medievale, per lo meno quello alta, siano stati gli ecclesiastici, tanto che la figura dell’intellettuale con quella del chierico vennero a coincidere. Erano appunto loro che, a livello alto, diedero vita a delle vere e proprie opere filosofiche la cui conoscenza sta alla base del pensiero medievale; ma furono altrettanto loro che, a livello basso, attraverso la predicazione e gli exempla tratti dalle sacre scritture, grazie alle favolose vite dei santi, porteranno la parola di Dio alla gente semplice.

Le basi filosofiche del Medioevo

Abbiamo volutamente sottolineato il modo in cui gli intellettuali cercano di rispondere alle sollecitazioni che il mondo classico offre loro; sarebbe tuttavia riduttivo non parlare dell’influenza araba che in 150 anni si espanse in Europa dall’Arabia alla quasi totalità della Spagna. Gli arabi ci consegnarono uno straordinario sapere astronomico-matematico (la scrittura dei numeri odierni è araba così come l’introduzione del numero zero, allo stesso modo la terminologia astronomica con parole come nadir e azimut) e recuperarono il sapere filosofico greco riportando tra il VII e il VI secolo i grandi pensatori, che non erano più letti in lingua originale, infatti le opere di Aristotele ricomparvero in Occidente grazie al commento di un grande intellettuale arabo, Averroè.

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San Tommaso d’Aquino

Grazie ad essi si poté formare il modello attraverso cui stabilire il sapere medievale, infatti san Tommaso, nel Basso medioevo, si contrappose alla visione mistica (di origine platonica, secondo cui alla base dell’amore per Dio vi è la fede) per individuare una visione matematica secondo cui alla base dell’amore per Dio si giunge a livello razionale. Egli infatti, attraverso la filosofia aristotelica, che riusciva ad analizzare il reale attraverso le categorie, riuscì a sistemare in una struttura ferrea e logica la “verità” teologica, arrivando alla definizione di “causa prima da cui deriva la molteplicità della creazione”

IL VERISMO

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Pelizza da Volpedo: Il quarto stato (1901)

In Italia il naturalismo viene importato da Luigi Capuana, narratore siciliano ed assumerà caratteristiche proprie inserito in una realtà differente da quella dei paesi già industrializzati. E lo fa con una recensione nel Fanfulla della Domenica ai Malavoglia, l’opera maggiore di Verga:

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Luigi Capuana

RECENSIONE AI MALAVOGLIA

Il Balzac, il gran padre del romanzo moderno, ha i suoi predecessori ai quali sta, forse, meno attaccato che i suoi successori non stiano a lui. Il Flaubert, i De Goncourt, lo Zola che hanno fatto e che fanno altro se non svolger meglio, ridurre a maggior perfezione quelle parti della forma del romanzo rimaste nella Comédie humaine in uno stato incipiente o imperfetto? Il naturalismo, i famosi documenti umani non sono una trovata dello Zola. Bisogna non aver letto la prefazione del Balzac al suo immenso monumento per credere che il trasportare nel romanzo il metodo della storia naturale sia una novità strana e pericolosa. Senza dubbio l’elemento scientifico s’infiltra nel romanzo contemporaneo e lo trasforma più pesantemente, con più coscienza, nei lavori del Flaubert, dei De Goncourt e dello Zola; ma la vera novità non istà in questo. Né stà nella pretesa di un romanzo sperimentale, bandiera che lo Zola inalbera arditamente, a sonori colpi di grancassa, per attirar la folla che altrimenti passerebbe via, senza fermarsi, com’egli confessava francamente al De Amicis. Un’opera d’arte non può assimilarsi un concetto scientifico che alla propria maniera, secondo la sua natura d’opera d’arte. Se il romanzo non dovesse far altro che della fisiologia o della patologia, o della psicologia comparata in azione, […] il guadagno non sarebbe né grande né bello. Il positivismo, il naturalismo esercitano una vera e radicale influenza nel romanzo contemporaneo, ma soltanto nella forma e tal influenza si traduce nella perfetta impersonalità di quest’opera d’arte. Tutto il resto, per l’arte, è una cosa molto secondaria, e dovrebbe esser tale anche nei giudizii che si pronunziano intorno ai lavori rappresentanti, più o meno efficaci, della nuova formula artistica. (…)
Nei romanzi del Balzac, questo sparire dell’autore avviene ad intervalli. Egli si mescola ogni po’ all’azione, spiega, descrive, torna addietro, fa delle lunghe divagazioni prima di lasciar i suoi personaggi a dibattersi soli soli colle loro passioni, col loro carattere, colle potenti influenze del lor tempo e dei luoghi; e l’onnipotenza del suo genio non si mostra mai così intera come quando le sue creature rimangon libere, abbandonate ai loro istinti, alla loro tragica fatalità. I suoi successori intervengono assai meno di lui nell’azione o non intervengono affatto. Si può dire che la loro opera d’arte si faccia da sé, piuttosto che la faccian loro. E questo semplicissimo cambiamento ha già prodotto una rivoluzione che il volgo dei lettori difficilmente sarà nel caso d’apprezzare nel suo giusto valore.
I Malavoglia si rannodano agli ultimissimi anelli di questa catena dell’arte. L’evoluzione del Verga è completa. Egli è uscito dalla vaporosità della sua prima maniera e si è afferrato alla realtà, solidamente. Questi Malavoglia e la sua Vita dei campi saranno un terribile e salutare corrosivo nella nostra bislacca letteratura. Lasciateli fare e vedrete. Se avranno poi la consacrazione (e se la meritano) d’una traduzione francese, eserciteranno un’influenza anche in una sfera più larga e conteranno per qualche cosa nella storia generale dell’arte. Giacché finora nemmeno lo Zola ha toccato una cima così alta in quell’impersonalità ch’è l’ideale dell’opera d’arte moderna. C’è voluto, senza dubbio, un’immensa dose di coraggio, per rinunziare così arditamente ad ogni più piccolo artificio, ad ogni minimo orpello rettorico e in faccia a questa nostra Italia che la rettorica allaga nelle arti, nella politica, nella religione, dappertutto. Ma non c’è voluto meno talento per rendere vive quelle povere creature di pescatori, quegli uomini elementari attaccati, come le ostriche, ai neri scogli di lava della riva di Trezza. Padron ‘Ntoni, Mena, la Santuzza, lo zio Crocifisso, lo zio Santoro, Piedipapera, ecc., sono creazioni che debbono essere un po’ sbalordite di trovarsi a vivere dentro la morta atmosfera della nostra stalattitica letteratura. (…)
Un romanzo come questo non si riassume. È un congegno di piccoli particolari, allo stesso modo della vita, organicamente innestati insieme. L’interesse che ispira non è quello volgare, triviale del come finira? ma un interesse concentrato che vi prende a poco a poco, con un’emozione di tristezza dinanzi a tanta miseria, dinanzi  a quella lotta per la vita, qui osservata nel suo primo stadio quasi animale, e che l’autore s’accinge a studiare nelle classi superiori con una serie di romanzi legati insieme dal titolo complessivo: I Vinti. L’originalità il Verga l’ha trovata dapprima nel suo soggetto, poi nel metodo impersonale portato fino alle sue estreme conseguenze. Quei pescatori sono dei veri pescatori siciliani, anzi di Trezza, e non rassomigliano a nessuno dei personaggi d’altri romanzi. Non è improbabile che il Verga si possa sentir accusare di minore originalità quando il suo soggetto lo condurrà fra la borghesia e le alte classi delle grandi città, perché allora le differenze dei caratteri e delle passioni appariranno meno spiccate; ed è bene notarlo fin da ora.

La pagina è interessante perché ci offre la distanza che Capuana istituisce tra la produzione positivistica letteraria francese e la letteratura verista italiana. Innanzitutto egli intuisce come la produzione di Zola abbia radici sin da Balzac; quasi a dire che l’unica novità portata dall’autore di Germinal sia solo quello di rendere più “oggettiva” l’opera d’arte. Quindi sottolinea sin da subito che non è l’ideologia a fare dell’opera d’arte un’opera innovativa, ma il modo in cui è scritta. Insomma la novità della nuova cultura dev’essere soprattutto estetica e quindi non può riguardare il contenuto (a cui dev’essere data la liceità di descrivere il deforme) ma il grado dell’impersonalità raggiunta di modo che l’“opera d’arte si faccia da sé”.

Ciò è dovuto dal fatto che i romanzi europei si situano laddove l’industrializzazione è forte, e quindi la rappresentazione del reale è soprattutto urbana, dove avvengono i cambiamenti e le tensioni sociali. Per questo i protagonisti dei romanzi inglesi e francesi di questo periodo saranno operai o minatori (Germinale, L’Assomoir di Zola; Oliver Twist, Tempi difficili di Dickens).

Necessariamente diversa è la situazione italiana dove il paesaggio agrario è ancora dominante e le grandi città del Nord non possono competere con le capitali europee.

Quando la cultura positivista s’affaccia in Italia assume, per ciò che riguarda la letteratura, il nome di Verismo. Se per ottenere come dice Capuana il massimo dell’impersonalità devo osservare la realtà, essa non potrà essere che frammentata nelle varie situazioni regionali, dove maggiore è il disagio della unificazione (si pensi all’episodio del brigantaggio) né potrà essere urbana dal momento che le nostre città, a livello d’industrializzazione sono in netto ritardo rispetto alle varie capitali europee.

I nostri maggiori scrittori veristi sono meridionali. Fra questi bisogna citare il fondatore di tale movimento, Luigi Capuana (1839-1915), che si dimostra anche eccellente scrittore. Scrive varie novelle, i romanzi Giacinta (1879) e Il marchese di Roccaverdina, ritenuto il suo capolavoro (pubblicato nel 1901, ma frutto di una ventennale elaborazione):

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1° edizione originale de “Il marchese di Roccaverdina”

La vicenda, ambientata nella campagna siciliana, ruota intorno all’aristocratico proprietario terriero che vive solitario nella casa avita, accudito dalla vecchia governante che gli fa da madre. Il marchese è tormentato da complessi problemi psicologici in seguito a un lunga, cruciale esperienza amorosa con una donna del popolo, Agrippina Solmo. Per uscire da una situazione insostenibile il marchese aveva allontanato l’amante, ingiungendole di sposare il suo factotum Rocco Criscione, ma obbligando anche entrambi, con un giuramento, a restare sposi solo di nome. Il romanzo inizia con le indagini sull’assassinio di Rocco, trovato ucciso da una fucilata, e si sviluppa in un crescendo di rivelazioni che costituiscono a poco a poco gli antefatti della storia. Il momento culminante di questo processo giunge con la confessione del marchese a don Silvio la Ciura, prete in fama di santità, di essere lui stesso il responsabile del delitto. La confessione non porta tuttavia al marchese la pace sperata, sia perché continuerà a temere fino alla morte del prete che questi si lasci sfuggire il segreto, sia perché non ha ottenuto l’assoluzione rifiutando di costituirsi per scagionare l’innocente cacciatore Neli Casaccio, messo in prigione come colpevole del delitto. Di qui inizia la caduta del protagonista in sempre più frequenti crisi di paura e di rimorso. Sul già precario equilibrio del marchese, infine, esercitano una deleteria risonanza anche le vicende di altri personaggi di contorno, come il suicidio di un piccolo proprietario costretto a vendergli il suo fondo o le disgrazie della famiglia di Neli Casaccio, ormai morto in carcere. Non riuscendo più a reggere il peso dei laceranti conflitti interiori il marchese cede alla follia.

 

I TORMENTI DEL MARCHESE

Quantunque, il giorno dopo, mamma Grazia lo avesse avvertito ch’ella aveva già dato aria al mezzanino, lasciando la chiave nella serratura dell’uscio perché dalla scala interna nessuno passava, il marchese non era disceso a ricercare le vecchie scritture. Fatte attaccare le mule alla carrozza, era partito per Margitello. Titta, il cocchiere, si meravigliava di vedere il padrone rannicchiato in fondo alla carrozza chiusa, e insolitamente silenzioso. Aveva tentato, ma inutilmente, di fargli dire qualcosa. «Ci vuole la pioggia! Guardi, voscenza; non un filo d’erba.» La pianura si estendeva da ogni lato, con terreni riarsi dal sole e screpolati, con aride piante di spino irte sui margini dello stradone… E si era alla fine di ottobre! Qua e là, un paio di buoi attaccati all’aratro si sforzavano di rompere le zolle indurite, procedendo lenti per la resistenza che incontravano. Qualche asino, un mulo, una cavalla col puledro dietro, pascolavano, legati a una lunga fune, o con pastoie ai piedi davanti, tra le poche stoppie non ancora abbruciate. «Quest’anno la paglia rincarirà. Non vi sarà altro per le povere bestie!» La carrozza, lasciato lo stradone provinciale, aveva infilato, a sinistra, la carraia di Margitello, tra due siepi di fichi d’India contorti, polverosi, coi fiori appassiti su le spinose foglie magre e quasi gialle per mancanza di umore. Le mule trottavano, sollevando nembi di polvere e facendo sobbalzare la carrozza su le ineguaglianze del suolo. A un certo punto, le ruote avevano urtato in un mucchio di sassi che ingombrava metà della carraia. «Qui accadde la disgrazia!», disse Titta. Quel mucchio di sassi indicava il posto dove era stato trovato il cadavere di Rocco Criscione, con la testa fracassata dalla palla tiratagli quasi a bruciapelo dalla siepe accanto. Chi era passato di là in quei giorni vi avea buttato un sasso, recitando un requiem, perché tutti si rammentassero del cristiano colà ammazzato e dicessero una preghiera in suffragio di quell’anima andata all’altro mondo senza confessione e senza sacramenti. Così il mucchio era diventato alto e largo in forma di piccola piramide. Ma neppure questa volta Titta sentì rispondersi niente; e frustò le mule, pensando a quel che sarebbe avvenuto a Margitello dove nessuno si attendeva l’arrivo del padrone. Stormi di piccioni domestici, usciti alla pastura, si levavano a volo dai lati della carraia al rumore dei sonagli delle mule e delle ruote della carrozza, che ora correva su la ghiaia sparsa sul terreno a poca distanza dalla casina. Si scorgevano il recinto della corte e le finestre chiuse, a traverso gli alberi di eucalipti che la circondavano da ogni parte. Contrariamente alle previsioni di Titta, il massaio e i garzoni l’avevano passata liscia. Il marchese avea visitato la dispensa, le stalle delle vacche, il fieno, la pagliera; aveva ispezionato minutamente gli aratri di nuovo modello fatti venire da Milano l’anno avanti, la cantina, le stanze di abitazione dei contadini, seguito dal massaio che gli andava dietro, timoroso di qualche lavata di capo; e non aveva fiatato neppure quando allo stesso massaio era parso opportuno scusarsi per un oggetto fuori posto, per un ingombro che avrebbe dovuto essere evitato, per qualche arnese buttato là trascuratamente, guasto e non riparato. Poi il marchese era salito, solo, nelle stanze superiori; e il massaio, dalla corte, gli vedeva spalancare le finestre, lo sentiva passare da una stanza all’altra, aprire e chiudere cassetti di tavolini e di cassettoni, armadii, spostare seggiole e sbattere usci. Due o tre volte, il marchese si era affacciato ora da una ora da un’altra finestra, quasi volesse chiamare qualcuno. Invece, avea dato lunghe occhiate lontano e attorno, per la campagna, o al cielo che sembrava di bronzo, limpido, senza un fiocco di nuvole da dieci mesi, infocato dal sole che bruciava come di piena estate. Tre ore dopo, egli era disceso giù aveva ordinato a Titta di riattaccare le mule, ed era ripartito senza dare nessuna disposizione, senza mostrarsi scontento né soddisfatto. A mezza strada della carraia di Margitello, là dove era il pezzo di terreno di compare Santi Dimauro, che aveva dovuto venderlo per forza, per evitarsi guai, il marchese, scorgendo dallo sportello il vecchio contadino seduto su un sasso rasente la siepe dei fichi d’India, coi gomiti appuntati su le ginocchia e il mento tra le mani, avea ordinato a Titta di fermare le mule. Compare Santi rizzò la testa, e salutò il marchese sollevando con una mano la parte anteriore del berretto bianco, di cotone. «Voscenza benedica!» «Che fate qui?», gli domandò il marchese. «Niente, eccellenza. Trovandomi al mulino, ho voluto dare uno sguardo…» «Rimpiangete ancora questi quattro sassi?» «Il mio cuore è sempre qua! Verrò a morirvi un giorno o l’altro.» «E avete faccia di lagnarvi, dopo che ve li ho pagati settant’onze?» Il vecchio si strinse nelle spalle, e riprese la sua positura. «Montate in serpe con Titta», soggiunse il marchese. «Grazie, voscenza. Ho lasciato l’asino al mulino; vo’ a riprenderlo, con la farina.» Titta si era voltato per convincersi se il padrone avesse parlato sul serio invitando compare Santi a montare in serpe, tanto gli era parsa straordinaria la cosa; ma la sua curiosità rimase insoddisfatta. Il marchese gli accennò con la mano di tirar via, e le mule si rimisero al trotto al primo schiocco di frusta. Lungo la ripida salita, Titta avea risparmiato le povere bestie. Alla svoltata della Cappelletta però, da dove lo stradone comincia a salire dolcemente, egli faceva riprendere il trotto; e pel movimento a sbalzi, i sonagli delle testiere squillavano all’ombra degli ulivi e dei mandorli che sporgevano dietro i ciglioni le chiome grige e verdognole tra cui stridevano alcune cicale ritardatarie, illuse forse dal persistente caldo che l’estate durasse ancora. «Che c’è?», domandò il marchese all’improvviso arrestarsi della carrozza. E, affacciatosi allo sportello, vide l’avvocato don Aquilante, con le lunghe gambe penzoloni dal parapetto di un ponticello, il cappellone di feltro nero, a larghe falde, che gli riparava dal sole, come un ombrello, la faccia sbarbata, con la grossa canna d’India tenuta ferma da una mano sul paracarro sottostante. Don Aquilante socchiuse gli occhi, scosse la testa con l’abituale movimento, portò l’altra mano allo stomaco, quasi volesse reggere la cintura rilasciata dei calzoni, e scese dal parapetto, aggrottando le sopracciglia, stringendo le labbra con l’aria di un uomo importunatamente disturbato. «Qui, con questo sole?», disse il marchese aprendo lo sportello della carrozza. Don Aquilante fece soltanto una mossa che voleva significare: se sapeste! e, accettando l’invito espressogli con un gesto, montò accanto al marchese. Le mule ripartirono al trotto. «Qui, con questo sole?», tornò quegli a domandare. «Voi siete scettico… Non importa!… Vi convincerete un giorno o l’altro!», rispose don Aquilante. Il marchese sentì corrersi un brivido per tutta la persona. Pure fece il bravo, sorrise; e quantunque avesse pregato don Aquilante di non più riparlargli di quelle cose, ed ora ne sentisse più che mai invincibile terrore, provò un impeto di sfida per vincere la sensazione che gli sembrava puerile in quel punto, all’aria aperta e con tutta quella luce. «Ah! Venite a cercare gli Spiriti fin qui?» «L’ho seguito a dieci passi di distanza, senza potere raggiungerlo. Ora è agitato; comincia ad aver coscienza della sua nuova condizione… Voi non potete intendere; siete fuori della verità, tra la caligine dei pregiudizi religiosi.» «Ebbene?», balbettò il marchese. «Un giorno vi persuaderete, finalmente, che io non sono un allucinato, né un pazzo. Vi sono persone», soggiunse con severo accento, «che posseggono facoltà speciali per vedere quel che gli altri non vedono, per udire quel che gli altri non odono. Per esse, il mondo degli uomini e quello degli Spiriti non sono due mondi distinti e diversi. Tutti i santi hanno avuto questa gran facoltà. Non occorre, però, di essere un santo
per ottenerla. Particolari circostanze possono accordarla a un meschino avvocato come me…» «E non vi è riuscito a raggiungerlo!», disse il marchese, con accento che avrebbe voluto essere ironico e tradiva intanto l’ansia da cui era turbato. «Si è fermato presso il ponticello ed è rimasto un istante in ascolto; poi, tutt’a un tratto, udito lo strepito dei sonagli delle mule e il rumore delle ruote della vostra carrozza che saliva per la rampa sottostante, si è precipitato giù pel ciglione dirimpetto. Evidentemente, ha voluto evitare d’incontrarsi con voi.» «Perché?» «Ve l’ho detto. Egli comincia ad aver coscienza della nuova condizione. In questo caso, tutto quel che rammenta la vita ispira orrore. E’ il più penoso dell’altra esistenza. Rocco che già si accorge di non essere più vivo…» Il marchese non osava d’interromperlo, né osava di domandarsi se colui che gli parlava in quel modo avesse smarrito il senno o fosse ancora in pieno possesso della ragione. A furia di udirlo discorrere di queste stramberie, come il marchese soleva chiamarle, si sentiva attratto da esse, non ostante che da qualche tempo in qua gli ispirassero una gran paura del misterioso ignoto, a dispetto del suo scetticismo e delle sue credenze religiose. E l’Inferno? E il Paradiso? E il Purgatorio? Don Aquilante li spiegava a modo suo; ma la Chiesa non dice che si tratta di cose diaboliche? Titta aveva spinte le mule al gran trotto, per fare una bella entrata in paese con schiocchi di frusta, gran tintinnio di sonagli e rumore di ruote; e questo distrasse il marchese dal torbido rimescolio di riflessioni e di terrori che gli passava per la mente mentre don Aquilante parlava. Rimescolio di riflessioni e di terrori che lo riprendeva però appena posto il piede in quelle stanze deserte dove non si udiva altro di vivente all’infuori dello strasciar delle ciabatte di mamma Grazia e del borbottio dei suoi rosarii, quando essa non aveva niente da fare. «Ho lasciato la chiave nella serratura dell’uscio», gli rammentò mamma Grazia. E il marchese, per occuparsi di qualche cosa, quantunque veramente non avesse nessuna vecchia scrittura da ricercare, scendeva giù nel mezzanino. Mamma Grazia aveva dato aria a quei due stanzoni, ma il tanfo di rinchiuso prendeva alla gola ciò non ostante. Larghe amache di ragnateli pendevano dagli angoli del soffitto. Un denso strato di polvere copriva i pochi vecchi mobili sfasciati, le casse, le tavole rotte che ingombravano la prima stanza e vi si distinguevano appena, perché essa prendeva luce da l’altra che rispondeva su la via. Entrato quasi diffidente, arricciando il naso pel forte puzzo di muffa, strizzando gli occhi per vedervi, il marchese si era fermato più volte a fine di raccapezzarsi. Tutta roba da buttar via! Era là fin da quando viveva il marchese grande. Nessuno aveva mai pensato di fare un bel repulisti; lo avrebbe fatto fare lui e subito. Ma pur pensando a questo, tornavano a frullargli nella testa le parole di don Aquilante, quasi qualcuno gliele ripetesse sommessamente dall’angolo più riposto del cervello: «Ha voluto evitare di scontrarsi con voi! Comincia ad aver coscienza della sua condizione!». Ormai! Che doveva importargli delle stramberie dell’avvocato?… Ma se fosse vero? Eh, via!… Ma, infine, se fosse vero?… E si arrestò con un senso di puerile paura, appena passata la soglia dell’altra stanza. La stessa angosciosa impressione di una volta, di molti e molti anni addietro! Allora aveva otto o nove anni. Ma allora il lenzuolo che avvolgeva il corpo di Cristo in croce, di grandezza naturale, appeso alla parete di sinistra, non era ridotto a brandelli dalle tignuole; e non si affacciavano dagli strappi quasi intera la testa coronata di spine e inchinata su una spalla, né le mani rattrappite, né i ginocchi piegati e sanguinolenti, né i piedi sovrapposti e squarciati dal grosso chiodo che li configgeva nel legno. La vista di quel corpo umano, che il lenzuolo modellava avvolgendolo, lo aveva talmente impaurito da bambino, ch’egli si era aggrappato al nonno, al marchese grande, da cui era stato condotto là, ora non si rammentava più perché; e i suoi strilli avevano fatto accorrere mamma Grazia e la marchesa nuova non ancora assalita dalla paralisi. Il nonno aveva tentato di convincerlo che quello era Gesù Crocifisso, e che non ne doveva aver paura; ed era salito sulla cassapanca sottostante per togliere gli spilli dal lenzuolo e fargli vedere il Signore messo in croce dai Giudei, del quale la mamma gli aveva raccontato la storia della passione e morte, un venerdì santo, prima di farlo assistere nella chiesa di Sant’Isidoro alla sacra cerimonia della Deposizione. Anche quella volta egli aveva strillato dalla paura, come altri bimbi suoi pari; e mamma Grazia era stata costretta a portarlo via in collo facendosi largo a stento tra la folla delle donne accalcate nella chiesa quasi buia, e singhiozzanti e piangenti, mentre un prete picchiava con un martello sul legno della croce per sconficcare i chiodi del Crocifisso, e una tromba squillava così malinconicamente che sembrava piangesse anch’essa. Questi ricordi gli eran passati, come un baleno, davanti agli occhi della mente; e intanto la paura di bambino si riproduceva in lui ugualmente intensa, anzi raddoppiata dalla circostanza che il vecchio lenzuolo, ridotto in brandelli, rendeva più terrificante quella figura di grandezza naturale, che sembrava lo guardasse con gli occhi semispenti e volesse muovere le livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia. Quanti minuti non aveva avuto forza e coraggio d’inoltrarsi né di tornare addietro? Quando poté vincersi e dominarsi, aveva le mani diacce e il cuore che gli batteva forte. E non riusciva a formarsi un’esatta idea del tempo trascorso. S’impose però, facendosi violenza, di fissare il Crocifisso, anzi di accostarsi ad esso. E soltanto dopo che si sentì un po’ tranquillo, uscì dallo stanzone, indugiò un istante nell’altro, e chiuse l’uscio a chiave. Ma nel salire le scale gli sembrava che quegli occhi semispenti continuassero a guardarlo a traverso la spessezza dei muri, e che quelle livide labbra contratte dalla suprema convulsione dell’agonia si agitassero, forse, per gridargli dietro qualche terribile parola!

Il passo riportato ci presenta l’inizio del tormento del marchese e per coglierne la piena valenza narrativa è necessario ricordare che il lettore non sa ancora nulla. Ciò permette allo stesso di cogliere quegli indizi che condurranno poi, nel capitolo successivo, alla piena confessione dell’omicidio da parte del marchese. Tutto il brano è costruito con grande sapienza narrativa:

  • il marchese vaga per la sua proprietà mostrandosi, innaturalmente, indifferente a tutto ciò che gli accade intorno. Si inizia a percepire che qualcosa non va;
  • l’attraversamento del luogo in cui è avvenuto l’assassinio acuisce il senso di disagio del marchese che sente il peso della sua coscienza gravargli sempre di più, come le pietre che ricoprono quel corpo senza requie.
  • L’incontro con l’avvocato Aquilante, che gli svela di essere in contatto con le persone morte: l’incredulità “razionale” del marchese di frange difronte all’immenso senso di colpa che lo attanaglia.
  • Ritorno a casa, la crisi diventa “palpabile”: potrebbe sciogliersi, ma ancora non lo fa; il suo stato sociale gli dà quasi la garanzia dell’impunibilità.

Ma perché tale romanzo può essere iscritto nella narrativa verista? Capuana, per il suo secondo romanzo, riprende il tema della follia e lo fa derivare da quello che potremo definire l’ambiente. Ma non riesce ad evitare elementi che potremo definire ulteriori, come alcune simbologie (si pensi alle pietre e al peso sulla coscienza o al ricordo del Cristo). Il suo verismo allora è tutto nella “sparizione” dell’autore; il suo narrare è frutto dell’osservazione sia del paesaggio che dell’animo del protagonista che parlano all’autore senza alcuna mediazione.

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Federico De Roberto

L’altro grande autore è Federico De Roberto (1861-1927); nato a Napoli, ma vissuto sin dalla fanciullezza a Catania dove morì. Si avvicinò, durante una sua permanenza a Milano a Capuana e Verga con i quali condivise la teoria dell’impersonalità per l’arte. Si mostra da subito interessato alla fisiologia dei sentimenti, soprattutto quello amoroso, determinando un notevole interesse per la psicologia dei personaggi. Questo gli sarà fortemente utile quando, tornato a Catania decise di dar vita ad un ciclo di romanzi per descrivere le vicende di una potente famiglia siciliana gli Uzeda. Tale ciclo vedrà la realizzazione del suo capolavoro I Viceré (1894) cui seguirà L’imperio, pubblicato postumo nel 1929.

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Il Monastero dei Benedettini e il Palazzo Biscari

IL RITRATTO DI UNA FAMIGLIA

Se fosse stato più accorto, avrebbe preso con le buone la vecchia, senza rinunziare, beninteso, a nessuna delle proprie ambizioni. L’ostinazione, la durezza di cui aveva dato prova anche con lei erano sciocche, degne d’un Uzeda stravagante, non dell’onorevole di Francalanza, dell’uomo nuovo che egli voleva essere. E arrivando in casa della vecchia, in quella casa dov’era venuto tante volte bambino, a veder gli stemmi, a udire le storie dei Viceré, ad abbeverarsi d’albagia aristocratica, un muto sorriso gli spuntò sulle labbra. Se gli elettori avessero saputo?
«Come sta la zia?» chiese alla cameriera, una faccia nuova.
«Così così…» rispose la donna, guardando curiosamente quel signore sconosciuto.
«Ditele che il principe suo nipote vorrebbe vederla.»
La vecchia era capace di non riceverlo; egli aspettava la risposta con una certa ansietà. Donna Ferdinanda, udendo che c’era di là Consalvo, rispose alla cameriera, con voce arrochita dal raffreddore: «Lascialo entrare.» Ella aveva saputo gli ultimi vituperi commessi dal nipote, la parlata in pubblico come un cavadenti, i princìpi di casta sconfessati, l’inno alla libertà e alla democrazia, il palazzo Francalanza invaso dalla folla dei mascalzoni, Baldassarre ammesso alla tavola del principe che prima aveva servito: Lucrezia le aveva narrato ogni cosa, per vendicarsi, per rovinare Consalvo, per portargli via l’eredità. E donna Ferdinanda aveva sentito rimescolarsi il vecchio sangue degli Uzeda, dallo sdegno, dall’ira; ma adesso era ammalata, l’egoismo della vecchiaia e dell’infermità temperava i suoi bollori. E Consalvo veniva a trovarla; dunque s’umiliava, le dava questa soddisfazione negatale per tanto tempo. Poi, nonostante le apostasie e i vituperi, egli era tuttavia il principe di Francalanza… Il capo della casa, il suo protetto d’una volta… «Lascialo entrare…»
Egli le andò incontro premurosamente, si chinò sul lettuccio di ferro, quello di tant’anni addietro, e domandò: «Zia, come sta?»
Ella fece solo un gesto ambiguo col capo.
«Ha febbre? Mi lasci sentire il polso… No, soltanto un po’ di calore. Che cosa ha preso? Ha chiamato un dottore?»
«I dottori sono altrettanti asini,» gli rispose brevemente, voltandosi con la faccia contro il muro.
«Vostra Eccellenza ha ragione… sanno ben poco… ma qualcosa più di noi sanno pure… Perché non curarsi in principio?»
La vecchia rispose con uno scoppio di tosse cavernosa che finì con uno scaracchio giallastro. «Ha la tosse e non prende nulla! Le porterò io certe pastiglie che sono davvero miracolose. Mi promette di prenderle?»
Donna Ferdinanda fece il solito cenno col capo.
«Io non sapevo nulla, altrimenti sarei venuto prima. M’hanno detto che Vostra Eccellenza stava poco bene a momenti, in casa Radalì… Sa che mia sorella è andata oggi a vedere la Serva di Dio, quella di cui si narrano tante cose? E’ andata col Vicario, lei solamente ha avuto il permesso. Pare che sia un favore insigne… Vostra Eccellenza crede a tutto ciò che si narra?»
Non ebbe risposta. Pur continuò a parlare, comprendendo che alla vecchia doveva far piacere udir chiacchiere e notizie, vedersi qualcuno vicino.
«Io, col rispetto dovuto, non ne credo niente. E’ forse peccato? Lo stesso San Tommaso volle vedere e toccare, prima di credere… ed era santo!… Ma francamente, certe storie!… Teresa adesso è infatuata… Basta, ciascuno ha da vedersela con la propria coscienza… E la zia Lucrezia che l’ha con me? Che cosa voleva che io facessi?… Mi va sparlando per ogni dove, quasi fossi l’ultimo degli uomini…»
La vecchia non fiatava, gli voltava le spalle.
«Tutto pel grande amore del marito improvvisamente divampatole in petto!… Prima dichiarava ridicoli gli atteggiamenti di Giulente,» non lo chiamava zio sapendo di farle piacere, «adesso sono tutti infami coloro che non l’hanno sostenuto!»
Un nuovo scoppio di tosse fece soffiare la vecchia come un mantice. Quando calmossi, ella disse con voce affannata, ma con accento di amaro disprezzo: «Tempi obbrobriosi!… Razza degenere!»
La botta era diretta anche a lui. Consalvo tacque un poco, a capo chino, ma con un sorriso di beffa sulle labbra, poiché la vecchia non poteva vederlo. Poi, fiocamente, con tono d’umiltà, riprese: «Forse Vostra Eccellenza l’ha anche con me… Se ho fatto qualcosa che le è dispiaciuta, gliene chiedo perdono… Ma la mia coscienza non mi rimprovera nulla… Vostra Eccellenza non può dolersi che uno del suo nome sia di nuovo tra i primi del paese… Forse le duole il mezzo col quale questo risultato s’è raggiunto… Creda che duole a me prima che a lei… Ma noi non scegliamo il tempo nel quale veniamo al mondo; lo troviamo com’è, e com’è dobbiamo accettarlo. Del resto, se è vero che oggi non si sta molto bene, forse che prima si stava d’incanto?»
Non una sillaba di risposta.
«Vostra Eccellenza giudica obbrobriosa l’età nostra, né io le dirò che tutto vada per il meglio; ma è certo che il passato par molte volte bello solo perché è passato… L’importante è non lasciarsi sopraffare… Io mi rammento che nel Sessantuno, quando lo zio duca fu eletto la prima volta deputato, mio padre mi disse: “Vedi? Quando c’erano i Viceré, gli Uzeda erano Viceré; ora che abbiamo i deputati, lo zio siede in Parlamento.” Vostra Eccellenza sa che io non andai molto d’accordo con la felice memoria; ma egli disse allora una cosa che m’è parsa e mi pare molto giusta… Un tempo la potenza della nostra famiglia veniva dai Re; ora viene dal popolo… La differenza è più di nome che di fatto… Certo, dipendere dalla canaglia non è piacevole; ma neppure molti di quei sovrani erano stinchi di santo. E un uomo solo che tiene nelle proprie mani le redini del mondo e si considera investito d’un potere divino e d’ogni suo capriccio fa legge è più difficile da guadagnare e da serbar propizio che non il gregge umano, numeroso ma per natura servile… E poi, e poi il mutamento è più apparente che reale. Anche i Viceré d’un tempo dovevano propiziarsi la folla; se no, erano ambasciatori che andavano a reclamare a Madrid, che ne ottenevano dalla Corte il richiamo… o anche la testa!… Le avranno forse detto che un’elezione adesso costa quattrini; ma si rammenti quel che dice il Mugnòs del Viceré Lopez Ximenes, che dovette offrire trentamila scudi al Re Ferdinando per restare al proprio posto… e ci rimise i quattrini! In verità, aveva ragione Salomone quando diceva che non c’è niente di nuovo sotto il sole! Tutti si lagnano della corruzione presente e negano fiducia al sistema elettorale, perché i voti si comprano. Ma sa Vostra Eccellenza che cosa narra Svetonio, celebre scrittore dell’antichità? Narra che Augusto, nei giorni dei comizi, distribuiva mille sesterzi a testa alle tribù di cui faceva parte, perché non prendessero nulla dai candidati!…» Egli diceva queste cose anche per se stesso, per affermarsi nella giustezza delle proprie vedute; ma, poiché la vecchia non si muoveva, pensò che forse s’era assopita e che egli parlava al muro. S’alzò, quindi, per vedere: donna Ferdinanda aveva gli occhi spalancati. Egli continuò, passeggiando per la camera: «La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi? L’Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. Dal tanto maneggiarlo, ne hanno sciupato tre volte la legatura! E consideri un poco: prima, ad esser nobile, uno godeva grandi prerogative, privilegi, immunità, esenzioni di molta importanza. Adesso, se tutto ciò è finito, se la nobiltà è una cosa puramente ideale e nondimeno tutti la cercano, non vuol forse dire che il suo valore e il suo prestigio sono cresciuti?… In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi… Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni… Di qui a ottant’anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia… Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl’interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l’ha travolta… Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!…»
Travolto dalla foga oratoria, nel tripudio del recente trionfo, col bisogno di giustificarsi agli occhi propri, di rimettersi nelle buone grazie della vecchia, egli improvvisava un altro discorso, il vero, la confutazione di quello tenuto dinanzi alla canaglia, e la vecchia stava ad ascoltarlo, senza più tossire, soggiogata all’eloquenza del nipote, divertita e quasi cullata da quella recitazione enfatica e teatrale.
«Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs?…» continuava Consalvo. «Orbene, imaginiamo che quello storico sia ancora in vita e voglia mettere a giorno il suo Teatro genologico al capitolo: Della famiglia Uzeda. Che cosa direbbe? Direbbe press’a poco: “Don Gafpare Vzeda”,» egli pronunziò f la s e v la u, «”fu promosso ai maggiori carichi, in quel travolgimento del nostro Regno che passò dal Re don Francesco II di Borbone al Re don Vittorio Emanuele II di Savoia. Fu egli deputato al Nazional Parlamento di Torino, Fiorenza e Roma, et ultimamente dal Re don Umberto have stato sublimato con singolar dispaccio al carico di senatore. Don Consalvo de Uzeda, VIII prencipe di Francalanza, tenne poter di sindaco della sua città nativa, indi deputato al Parlamento di Roma et in prosieguo…”»
Tacque un poco, chiudendo gli occhi: si vedeva già al banco dei ministri, a Montecitorio; poi riprese: «Questo direbbe il Mugnòs redivivo; questo diranno con altre parole i futuri storici della nostra casa. Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia. E’ una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?»
La vecchia non rispose.
«Fisicamente, sì; il nostro sangue è impoverito; eppure ciò non impedisce a molti dei nostri di arrivare sani e vegeti all’invidiabile età di Vostra Eccellenza!… Al morale, essi sono spesso cocciuti, stravaganti, bislacchi, talvolta…» voleva aggiungere «pazzi» ma passò oltre. «Non stanno in pace tra loro, si dilaniano continuamente. Ma Vostra Eccellenza pensi al passato! Si rammenti quel Blasco Uzeda, “cognominato nella lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo”; si rammenti di quell’altro Artale Uzeda, cognominato Sconza, cioè Guasta!… Io e mio padre non siamo andati d’accordo, ed egli mi diseredò; ma il Viceré Ximenes imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte… Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!… E rammenti la fellonia dei figli di Artale ; rammenti tutte le liti tra parenti, pei beni confiscati, per le doti delle femmine… Con questo, non intendo giustificare ciò che accade ora. Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo. Guardiamo la zia Chiara, prima capace di morire piuttosto che di sposare il marchese, poi un’anima in due corpi con lui, poi in guerra ad oltranza. Guardiamo la zia Lucrezia che, viceversa, fece pazzie per sposare Giulente, poi lo disprezzò come un servo, e adesso è tutta una cosa con lui, fino al punto di far la guerra a me e di spingerlo al ridicolo del fiasco elettorale! Guardiamo, in un altro senso, la stessa Teresa. Per obbedienza filiale, per farsi dar della santa, sposò chi non amava, affrettò la pazzia ed il suicidio del povero Giovannino; e adesso va ad inginocchiarsi tutti i giorni nella cappella della Beata Ximena, dove arde la lampada accesa per la salute del povero cugino! E la Beata Ximena che cosa fu se non una divina cocciuta? Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male… Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa.»

Pagina straordinaria, questa, di cui si ricorderà con altrettanta capacità, un altro grande siciliano, Tomasi di Lampedusa, quando scriverà Il gattopardo (1958). Il brano si presenta sin da subito come un gran pezzo di oratoria, in cui Consalvo illustra alla vecchia malata (quasi rappresentasse il vecchio mondo in dissoluzione) la nuova realtà parlamentare, sottolineando come essa, al di là della forma liberal democratica, sia “scatola vuota” in cui inserire i poteri che sempre lo hanno esercitato. La famiglia, la razza è sempre la stessa. E ciò che dice Consalvo alla vecchia zia è lo stesso che direbbe in un’orazione politica. Perché di una vera è propria orazione si tratta a cui assiste dapprima diffidente ma poi divertita la rappresentante più eminente della famiglia Uzeda.

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Matilde Serao

La terza scrittrice meridionale è Matilde Serao (1856-1927), la cui figura di romanziera, a ragione associata al feuilleton (Le virtù di Cecchina, Fior di passione), non ci fa dimenticare che fu una tra le più influenti firme del giornalismo italiano del secondo Ottocento, e che fu la prima donna ad essere fondatrice e direttrice di un giornale, Il mattino di Napoli (1888), in cui riuscì a portare le prestigiose firme di Carducci e D’Annunzio.

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Una delle prime copie de “Il Mattino”

Ed è proprio la “verve” giornalistica e di denuncia quella che caratterizza la prosa della Serao, come si può vedere nel romanzo Il ventre di Napoli, che riecheggia, nel titolo, l’opera di enorme successo del francese Eugene Sue Il ventre di Parigi.

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Una vecchia copia de “Il ventre di Napoli”

BISOGNA SVENTRARE NAPOLI

Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?

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Vi avranno fatto vedere una, due, tre strade dei quartieri bassi e ne avrete avuto orrore. Ma non avete visto tutto; i napoletani istessi che vi conducevano, non conoscono tutti i quartieri bassi. La via dei Mercanti, l’avete percorsa tutta? Sarà larga quattro metri, tanto che le carrozze non vi possono passare, ed è sinuosa, si torce come un budello: le case altissime la immergono, durante le più belle giornate, in una luce scialba e morta: nel mezzo della via il ruscello è nero, fetido, non si muove, impantanato, è fatto di liscivia e di saponata lurida, di acqua di maccheroni e di acqua di minestra, una miscela fetente che imputridisce. In questa strada dei Mercanti, che è una delle principali del quartiere Porto, v’è di tutto: botteghe oscure, dove si agitano delle ombre, a vendere di tutto, agenzie di pegni, banchi lotto; e ogni tanto un portoncino nero, ogni tanto un angiporto fangoso, ogni tanto un friggitore, da cui esce il fetore dell’olio cattivo, ogni tanto un salumaio, dalla cui bottega esce un puzzo di formaggio che fermenta e di lardo fradicio. Da questa via partono tante altre viottole, che portano i nomi delle arti: la Zabatteria, i Coltellai, gli Spadari, i Taffettanari, i Materassari, e via di seguito. Sono, queste viottole – questa è la sola differenza – molto più strette dei Mercanti, ma egualmente sporche e oscure; e ognuna puzza in modo diverso: di cuoio vecchio, di piombo fuso, di acido nitrico, di acido solforico. Varie strade conducono dall’alto al quartiere di Porto: sono ripidissime, strette, mal selciate. La via di Mezzocannone è popolata tutta di tintori: in fondo a ogni bottega bruna, arde un fuoco vivo sotto una grossa caldaia nera, dove gli uomini seminudi agitano una miscela fumante; sulla porta si asciugano dei cenci rossi e violetti; sulle selci disgiunte, cola sempre una feccia di tintura multicolore. Un’altra strada, le così dette Gradelle di Santa Barbara, ha anche la sua originalità: da una parte e dall’altra abitano femmine disgraziate, che ne hanno fatto un loro dominio, e, per ozio di infelici disoccupate, nel giorno, e per cupo odio contro l’uomo, buttano dalla finestra, su chi passa, buccie di fichi, di cocomero, spazzatura, torsoli di spighe. e tutto resta, su questi gradini, così che la gente pulita non osa passarvi più. Vi è un’altra strada, che dietro l’educandato di San Marcellino, conduce a Portanova, dove i Mercanti finiscono e cominciano i Lanzieri: veramente non è una strada, è un angiporto, una specie di canale nero, che passa sotto due archi e dove pare raccolta tutta la immondizia di un villaggio africano. Ivi, a un certo punto, non si può procedere oltre: il terreno è lubrico e lo stomaco spasima.

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In sezione Vicaria, vi siete stato? Sopra tutte le strade che la traversano, una sola è pulita, la via del Duomo: tutte le altre sono rappresentazioni della vecchia Napoli, affogate, brune, con le case puntellate, che cadono per vecchiaia. Vi è un vicolo del Sole, detto così perché il sole non vi entra mai; vi è un vicolo del Settimo Cielo, appunto per l’altitudine di una strisciolina di cielo, che apparisce fra le altissime e antiche case. Attorno alla piazzetta dei SS. Apostoli vi sono tre o quattro stradette; Grotta della Marra, Santa Maria a Vertecœli, vicolo della Campana, dove vive una popolazione magra e pallida, appestata dalla fabbrica di tabacco che è lì, appestata dalla propria sudiceria; e tutti i dintorni di Castelcapuano, di questa grande e storica Vicaria, sembrano proprio il suo ambiente, vale a dire putridume materiale e morale, su cui sorge l’estremo portato di questa società povera e necessariamente corrotta: la galera. La sezione Mercato? Ah, già: quella storica, dove Masaniello ha fatto la rivoluzione, dove hanno tagliato il capo a Corradino di Svevia; sì, sì, ne hanno parlato drammaturghi e poeti. Se ne traversa un lembo, venendo in carrozza, dalla Ferrovia, ma si esce subito alla Marina. Al diavolo la poesia e il dramma! In sezione Mercato, niuna strada è pulita; pare che da anni non ci passi mai lo spazzino; ed è forse la sporcizia di un giorno. Ivi è il Lavinaio, la grande fonte, dove si lavano i cenci luridi della vecchia e povera Napoli: il Lavinaio, che è il grande ruscello, dove il luridume viene a detergersi superficialmente; tanto che per insultare bonariamente un napoletano, sul proprio napoletanesimo, gli si dice. – Sei proprio del Lavinaio. Nella sezione Mercato, vi sono i sette vicoli della Duchesca, in uno dei quali, ho letto un dispaccio, vi sono stati in un’ora trenta casi; vi è il vicolo del Cavalcatoio; vi è il vicolo di Sant’Arcangelo a Baiano. Io sono una donna e non posso dirvi che sieno queste strade, poichè ivi l’abbiezione diventa così profonda, così miseranda, la natura umana si degrada talmente, che vengono alla faccia le fiamme della vergogna.

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Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade, attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che sono lesionate dalla umidità, dove al pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le scale sono ricettacoli d’immondizie; nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente, vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; e che hanno tutto un pot-bouille, una cosidettavinella, una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il cui sistema di latrine, quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione. Voi non potrete lasciare in piedi le case, nelle cui piccole stanze sono agglomerate mai meno di quattro persone, dove vi sono galline e piccioni, gatti sfiancati e cani lebbrosi; case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto e si muore nella medesima stanza, dove altri dormono e mangiano, case, i cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria, sotto il livello del suolo. Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi i cavalcavia che congiungono le case; nè quelle ignobili costruzioni di legno che si sospendono a certe muraglie di case, nè quei portoncini angusti, nè vicoli ciechi, nè quegli angiporti, nè quei supportici; voi non potrete lasciare in piedi i fondaci. Voi non potrete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un’agenzia di pegni, al secondo si affittano camere a studenti, al terzo si fabbricano i fuochi artificiali: certe altre dove al pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano tre soldi per notte, al secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di cenci. Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a quella povera gente, per insegnare loro come si vive – essi sanno morire, come avete visto! – per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli, non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla.

Il ventre di Napoli è costituito da una serie di “reportage” che la scrittrice napoletano pubblicò in nove puntate sulla rivista Capitan Fracassa a partire dal 1884. L’aspetto che vi domina è quello dell’articolo di denuncia a seguito dell’infelice espressione di Depretis “Bisogna sventrare Napoli” in quel tempo preda di un’epidemia di colera determinata soprattutto dalla scarsità d’igiene nei quartieri popolari.

La denuncia non lesina, tuttavia, dalla descrizione “oggettiva” delle strade napoletane dove emergono figure di vecchie povertà, dove non entra il sole e dove femmine disgraziate, sfruttate dai tenutari delle case chiuse, imparano come sia duro e caro il prezzo da pagare per vivere.

Tutto questo viene reso attraverso uno stile in cui predomina il nome e l’aggettivo piuttosto che l’azione, come fosse un accumulo di roba che fermenta e suscita un odore insopportabile. E’ il cibo marcio a diventare il fulcro “ideologico” della Serao, il ventre di Napoli che lei scrive con piglio di denuncia. E che denuncia sia è scritto a chiare lettere sin dall’incipit: il governo ha il dovere di sapere e, sapendo, conoscendo, toccando con mano, porre dei rimedi per il miglioramento delle condizioni popolari.