MARCO FABIO QUINTILIANO

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Statua di Quintiliano nella sua città natale

Cenni biografici

Marco Fabio Quintiliano, come i grandi suoi predecessori Seneca e Lucano, a dire il vero da lui non proprio amati, è spagnolo. Nacque infatti in un paese iberico, Calhorra, nel 35 circa. Il suo destino sembra segnato sin da piccolo: infatti il padre era un retore che lo mandò a Roma a studiare con i più grandi grammatici del tempo. Tornato in Spagna vi svolse attività forense, ma fu Galba, uno dei quattro imperatori, che lo riportò a Roma, dove iniziò ad esercitare il lavoro di maestro. Passò indenne nelle turbolenze del 69, tanto da affermarsi, nell’intera età dei Flavi, da Vespasiano, che gli consentì di diventare il primo docente pagato dallo Stato, a Domiziano che gli affidò l’educazione dei figli e lo innalzò fino agli ornamenta consolaria. Dall’88 cominciò a lavorare alla sua opera principale, l’Institutio Oratoria, nella quale s’inserisce, come era già successo nell’epoca neroniana, nel dibattito sulla decadenza di tale scienza nell’età imperiale. Muore, forse, nello stesso anno in cui Domiziano fu assassinato, nel 96.

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Calhorra nel periodo romano

Institutio oratoria

L’Institutio oratoria è un trattato didascalico in dodici libri dedicata a Vitorio Marcello (oratore) ed è certamente uno delle opere più complete che ci sia giunta sull’argomento. Riprendendo in parte il suo amato Cicerone, nonché le opere di autori successivi, come quella del retore Seneca (padre del filosofo), Quintiliano inserisce la sua disciplina in un quadro maggiormente organico, in cui descrive non solo il modo in cui strutturare l’oratoria in sé, ma anche il modo in cui trasmetterla. Infatti egli sembra mosso nel ricercare i motivi che abbiano portato al declino tale scienza. Se alcuni avevano sottolineato l’impossibilità della stessa in un organizzazione politica che non prevede la libertà di parola, altri ancora avevano visto il suo declino nell’uso delle declamationes, quindi nella ricerca del successo facile ed immediato. Quintiliano invece individua la decadenza dell’oratoria soprattutto nell’educazione.

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Pagina dell’Institutio oratoria in un libro del 1772

La sua opera si struttura in dodici libri:

  1. Il I libro parla dell’istruzione elementare e del corso di grammatica;
  2. Il II libro affronta i problema della scuola di retorica e del fondamentale rapporto di fiducia che si deve instaurare tra gli allievi e l’insegnante;
  3. Il III affronta i tre generi dell’orazione: la celebrativa o epidittica (conferenza), deliberativa (politica) e la giudiziaria;
  4. Dal IV al VI, l’inventio (reperimento degli argomenti);
  5. Nel VII è affrontata la dispositio (l’ordine in cui presentarli)
  6. Nei libri VIII-IX la locutio (lo stile da utilizzare);
  7. Il X presenta un excursus in cui cita gli autori più importanti (secondo il suo giudizio) cui attingere per ottenere la facilitas dicendi;
  8. L’XI riprende la tecnica oratoria affrontando la memoria e l’actio (la mnemotecnica e l’impostazione della voce);
  9. Nel XII e ultimo vi è il ritratto ideale dell’oratore.

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Frontespizio di un’edizione del 1720

L’opera, da come si vede, ricalca in modo piuttosto omogeneo con le quelle che l’hanno preceduta, ad eccezione dei primi due libri e del decimo, in cui troviamo, in nuce, una piccola storia della letteratura dell’età classica.

Iniziamo dall’inizio, quando Quintiliano, parla dell’educazione necessaria sin da quando si è fanciulli per diventare oratore:

GLI EDUCATORI
(I, 1-8, con tagli)

Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. (…) Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur optimas eligi voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. Has primum audiet puer, harum verba effingere imitando conabitur. (…) In parentibus vero quam plurimum esse eruditionis optaverim. Nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus. (…) Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes. De pueris inter quos educabitur ille huic spei destinatus idem quod de nutricibus dictum sit. De paedagogis hoc amplius, ut aut sint eruditi plane, quam primam esse curam velim, aut se non esse eruditos sciant.

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La maternità a Roma

Dunque, dopo che gli è nato un figlio, un padre concepisca in merito a lui le migliori speranze, così lo seguirà più attentamente sin dall’inizio. (…) Innanzitutto le nutrici non abbiano un linguaggio scorretto: Crisippo, per quanto possibile, si augurava che fossero persone colte, o almeno, per quanto concesso dalle circostanze, voleva che si scegliessero le migliori. E se la priorità della scelta per prima va data alla loro moralità, tuttavia è importante che parlino anche in modo corretto. Sono loro quelle che il bambino ascolterà per prime, sono le loro parole che cercherà di ripetere imitandole. (…) Auspicherei che nei genitori ci fosse il livello maggiore di cultura. E non mi riferisco soltanto ai padri: sappiano infatti che un contributo significativo all’eloquenza dei Gracchi fu dato loro dalla madre Cornelia, il cui eloquio forbitissimo è stato trasmesso anche ai posteri grazie alle sue lettere. (…) Non trascurino l’educazione dei figli coloro che non hanno a loro volta avuto modo di studiare; anzi proprio per questo stiano più attenti a tutto l’altro. In merito ai ragazzi con i quali sarà istruito il l giovane, oggetto delle nostre speranze, valga ciò che si è detto riguardo le nutrici. Quanto ai pedagoghi auspicherei, in più, o che fossero particolarmente colti, e questa è la cosa che dovrebbe importare maggiormente, oppure che fossero consapevoli di non esserlo.

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Cornelia con i figli

E’ evidente la differenza che Quintiliano introduce nella sua opera: egli ha ben chiara la visione secondo cui per raggiungere il massimo grado dell’oratoria non serve la tecnica, ma la continua educazione. Infatti nei testi che lo avevano preceduto, tale scienza si apprendeva in età già scolarizzata, attraverso un preciso percorso e una ferrea techné. Lui, invece, tra i metodi d’apprendimento, colloca, in modo geniale, anche il gioco:

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Una fanciulla gioca agli astrogali (dado di ossa animali)

IL GIOCO NELL’EDUCAZIONE
(I, 3 10-11)

Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. 

Né potrebbe offendermi il gioco nei fanciulli (anche questo è segno di vivacità), né potrei sperare che l’alunno triste e sempre in disparte sarà verso gli studi di mente aperta, non aprendosi anche verso quell’impeto estremamente naturale a quell’età. Tuttavia ci sia moderazione verso i momenti di riposo, affinché, se negati non procurino odio dello studio o, se eccessivi, la consuetudine all’ozio. Ci sono alcuni giochi non inutili per migliorare le attitudini dei fanciulli, quando preparati alcuni quesiti di poca importanza su ogni genere gareggiano a turno (a rispondere).

In questo passo, infatti, sembra precorrere di molto le tecniche educative che saranno poi sviluppate in età moderna. L’idea che il gioco possa essere motivo d’apprendimento, ma, soprattutto l’idea di un giusto riposo ed un giusto impegno non lasciano adito a dubbi che ci troviamo di fronte ad un “teorico” le cui “teorie”, tuttavia, lasciano grande spazio anche ad una assidua pratica sul campo.

Tutto ciò lo intuiamo quando sviluppa il rapporto che deve intercorrere tra fanciullo e il maestro:

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Bassorilievo in cui si mostra un magister cum duobus discipulis

TRA MAESTRO E DISCEPOLO
(II, 1 – 3) 

Plura de officiis docentium locutus discipulos id unum interim moneo, ut praeceptores suos non minus quam ipsa studia ament et parentes esse non quidem corporum, sed mentium credant. Multum haec pietas conferet studio; nam ita et libenter aiudient et dictis credent et esse similes concupiscent, in ipsos denique coetus scholarum laeti alacres convenient, emendati non iracetur, laudati gaudebunt, ut sint carissimi studio merebuntur. Nam ut illorum officium est docere, sic horum praebere se dociles: aliqui neutrum sine altero sufficit; et sicut hominis ortus ex utroque gignentium confertur, et frustra sparseris semina nisi illa praemollitus foverit sulcus, ita eloquentia coalescere nequit nisi sociata tradentis accipientisque concordia.

Dopo aver parlato molto sui compiti dei docenti raccomando ai discenti solamente quest’unica cosa, che amino i loro precettori non meno degli stessi studi e credano che loro non siano padri soltanto del corpo, ma della mente. Questa devozione gioverà molto allo studio; infatti così sia ascolteranno lietamente, sia crederanno alle parole, sia desidereranno essergli simili; ed infine nelle stesse adunanze delle scuole si riuniranno lieti e veloci; corretti non si arrabbieranno, lodati gioiranno, con lo studio meriteranno di essere molto stimati. Infatti come il compito di quelli è insegnare, così di questi è di offrire se stessi disponibili all’apprendimento: del resto nessuna delle due cose è sufficiente senza l’altra; e come la nascita di un uomo è procurata da ognuno dei genitori ed inutilmente si semineranno i semi se il solco, precedentemente preparato, non li coverà, così l’eloquenza non può svilupparsi se non con la concordia unione di chi offre e chi riceve.

L’integrazione “intellettuale” (e perché no?, affettiva) che si deve istaurare tra docente e discenti apre, anche dopo le precedenti letture, all’apertura di una vera e propria pedagogia, ovverosia una scienza dell’educazione. E’ il primo autore, nella letteratura latina ad aver intuito l’importanza della psiche del bambino e del fanciullo non solo come ricettiva nozioni, ma anche come ricettiva momenti in cui l’apprendimento è continuo, nella parola affettuosa di una nutrice, in un gioco comune e sociale, nella stima verso un docente, che solo tali cose faranno sì che l’oratore non sia freddo “conferenziere”, ma un uomo la cui conoscenza del suo simile gli dia la possibilità di por-tarlo, con la parola, dalla sua parte.

Solo dopo la formazione il ragazzo, ormai preparato, potrà avvicinarsi alle tecniche dell’arte del dire. Ma quest’ultime dopo averle attentamente imparate le dovrà poi affinare con lo studio dei grandi autori, affinché li consideri modelli insuperabili cui sempre ispirarsi per ottenere un ottimo discorso. Per questo il primo che bisogna studiare è certamente Cicerone:

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Edizione del 1775

ELOGIO DI CICERONE
(X, 108-109)

Nam mihi videtur M. Tullius, cum se totum ad imitationem Graecorum contulisset, effinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, iucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit, studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex se ipso virtutes extulit immortalis ingenii beatissima ubertate. Non enim pluvias, ut ait Pindarus, aquas con-ligit, sed vivo gurgite exundat, dono quodam providentiae genitus, in quo totas vires suas eloquentia experiretur.

A me pare infatti che Marco Tullio nel suo dedicarsi interamente all’imitazione dei Greci, abbia prodotto la forza di Demostene, la ricchezza di Platone e la gradevolezza di Isocrate. Ma tutti i pregi che si trovano in quegli autori non li ha raggiunti soltanto con lo studio: la maggior parte delle sue virtù, o meglio tutte, le ha prodotte la felicissima ricchezza del suo talento immortale, traendole da se stesso. Non si limita, infatti, come dice Pindaro, a raccogliere le acque piovane, ma trabocca con la sua viva corrente: la sua nascita è stata un dono della provvidenza, affinché l’eloquenza potesse mettere alla prova in lui tutte le proprie possibilità.

Cicerone diventa agli occhi di Quintiliano l’oggetto sacro da aemulare, su cui plasmare il proprio dettato, perfezionare il proprio stile. Ma qual è, allora, il limite che noi moderni sentiamo in questo elogio? E’ che Cicerone è stato sì forse il più grande prosatore romano, ma se la sua prosa era così perfetta e “emotivamente” forte, era perché in essa “vibrava” un anelito di libertà repubblicana che certo Quintiliano non può riprodurre. Ecco allora che la sua venerazione verso lo scrittore d’Arpino non può che fermarsi a un semplice, seppur sincero, ossequio formale.

GIUDIZIO SU SENECA
(X, 129-130)

Multae in eo claraeque sententiae, multa etiam morum gratia legenda; sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis. Velles eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio; nam si ali-qua contempsisset, si pravum non concupisset, si non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset, consensu potius eruditorum quam puerorum amore comprobaretur. 

Le sue frasi sentenziose sono molte e famose, e molte sono anche le opere che devono esser lette per la moralità; lo stile, però, è particolarmente corrotto, e molto più pericoloso proprio perché i difetti di cui abbonda sono attraenti. Vorresti che avesse parlato con la sua testa, ma con i gusti stilistici di un’altra persona: se avesse disprezzato qualcosa, se non avesse desiderato ciò che era disonesto, se non avesse amato tutte le sue inclinazioni, se non avesse spezzettato in frasi brevissime argomenti complessi, si sarebbe guadagnato il consenso degli eruditi, e non soltanto l’amore dei ragazzi.

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Codice dell’opera di Quintiliano nella Biblioteca medicea

Che, come si è detto, si tratti solo di amore formale per lo stile, lo si capisce proprio da questo giudizio su Seneca. Egli infatti apprezza la moralità dell’autore spagnolo (anche se, in un passo non riportato, afferma che essa non è supportata da una approfondita conoscenza filosofica) ma condanna senza appello il modo in cui scrive. Infatti le molte sentenze mal tollerate da Quintiliano, ma amate tantissimo dai giovani, non rientravano nel rispetto di quell’eloquio tipico della tradizione su cui l’autore (e chi allora era al potere) si richiamava, e potevano essere strumento di corruzione dei giovani.

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