Immagine di Apuleio
Apuleio è il più grande narratore dell’antichità, la cui opera ci è giunta in modo integrale. Il carattere “misterico” ed “iniziatico” con cui la si è letta sin dal Medioevo, ha fatto del suo romanzo la base su cui si sono costruiti racconti favolosi o meno che hanno costituito la base della nostra civiltà.
Cenni biografici
Resti romani di Medaura
Apuleio nasce in Africa, più precisamente a Madaura, oggi situata nell’attuale Algeria, intorno al 125. La tradizione ce lo tramanda con il prenome Lucius, ma dai critici si ritiene spurio in quanto corrisponde al nome del protagonista del suo romanzo. Di famiglia ricchissima, ereditò, insieme al fratello, ben due milioni di sesterzi, ricchezza che gli permise di ricevere, sin da principio, una straordinaria educazione culturale. Studiò dapprima a Cartagine, dove forse fu iniziato al culto di Esculapio, detto anche Asclepio, dio della medicina. Durante gli studi sembra si avvicinasse anche ad altri misteri, quali quelli eleusini (dedicati a Demetra, dea dell’agricoltura). Cominciò quindi a viaggiare, portando dappertutto la sua straordinaria abilità di conferenziere. Raggiunse Alessandria, centro molto importante a livello culturale, Ierapoli (nell’attuale Turchia) e Roma, dove fu iniziato al culto di Osiride. Nel 155, nella città di Oea (l’odierna Tripoli) incontrò un suo vecchio compagno di studio, Ponziano, il quale sembra lo convinse a sposare la non bella, ma ricchissima madre Pudentilla. L’intento del suo amico era quello di allontanare dalla madre i cosiddetti cacciatori d’eredità, ritenendo Apuleio lontano da qualsiasi interesse. La morte di entrambi fece intervenire i parenti di lei contro lo scrittore, accusandolo di aver praticato la magia per far innamorare la donna e quindi intascarne l’eredità. La felice difesa dell’autore, poi riportata nel De Magia, lo liberò da ogni accusa. Dopo questo episodio Apuleio si ritirò a vivere a Cartagine, dove rivestì cariche importantissime. Sembra che lì finisse la sua vita, ma non si ha la data certa. Non si hanno notizie di lui dopo il 170.
La filosofia
I concittadini di Medaura, sua città natale, eressero una statua ad Asculapio, dio della medicina, alla cui base vi era una dedica che così recitava: “Al filosofo platonico, cittadini di Medaura” quindi la dedicarono ad Apuleio. A dire il vero il platonismo cui egli fece parte è quello detto del “platonismo medio”. Tale filosofia prese piede proprio dalla crisi dello stoicismo e dell’epicureismo, adottando un sincretismo filosofico-religioso. Infatti, se per lo stoicismo “un dio è in noi”, in quanto siamo parte di un tutto unico, l’epicureismo prevede una totale lontananza dagli dei da noi. La filosofia cui Apuleio aderisce prevede viceversa la presenza dei daimonion (dèmoni) che fungono da mediatori tra il divino e l’umano. Ciò pone una specie di gerarchia tra ciò che sta al di sopra di noi nel cielo e gli umani che popolano la terra: in basso l’uomo, in mezzo i demoni, al di sopra gli dei. Se quest’ultimi sono totalmente privi di passione, questa, mano mano che si scende, domina la vita degli uomini.
Il daimon di Socrate
Apuleio struttura il suo credo in tre libri, che sono:
- De mundo (Sul mondo): opera scientifica che riprende uno scritto pseudo aristotelico dallo stesso titolo;
- De Platone et eius dogmate (Platone e la sua dottrina): sintetizza la filosofia del pensatore greco (non ci è pervenuto il terzo ed ultimo libro);
- De deo Socratis (Il demone di Socrate): in cui illustra, partendo dal Teeto di Platone, la voce interiore e capace di consigliare Socrate nei momenti della sua vita. Tale voce Apuleio l’identifica con un demone, un “entità” tra dio e uomo, tra razionalità e passione, capace di portare le nostre istanze al mondo superiore.
Il mago
Essere mago nel II sec. d.C. voleva dire essere lo stesso che filosofo e medico, tanto le tre discipline non possedevano un così netto distacco l’una dall’altra. D’altra parte, attraverso le sue opere, soprattutto l’orazione e il romanzo, fanno di tutto per non smentire che Apuleio facesse pratica di magia: l’importante per lui è in qualche modo scrollarsi di dosso la fama di “fattucchiere” che il padre e il fratello di Ponziano volevano accreditargli e lo fece con una brillantissima orazione, da noi conservata, che prende nome o di Apologia (discorso in difesa), o più significativamente, De magia. Tramessaci in due libri (lunghezza insolita per un’orazione) si può dividere in tre parti:
- Dapprima Apuleio demolisce le accuse e la credibilità dei suoi accusatori. Non manca una captatio benevolentiae attraverso la quale elogia la grande cultura del giudice e quindi la sua grande tollerabilità (sembra voler richiamare qui l’“apertura mentale” di colui che lo deve giudicare che certamente saprà bene che la sua, se magia dov’essere essere, è così ritenuta dagli indotti e malevoli);
- Nella seconda parte egli fa una distinzione tra magia bianca e magia nera: per magia nera s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per maledire l’altro a proprio vantaggio; per magia bianca s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per beneficare l’altro a suo vantaggio. Apuleio nel definire le tipologie di magia, sottolinea che la bianca non è altro che la capacità, propria degli iniziati, di entrare in contatto col divino e di operare quindi, per mezzo di lui. Ciò potrà sembrare strano, ma non lo è, perché la cultura ce ne offre innumerevoli esempi, e, nel fare questi esempi, dà enorme sfoggio di erudizione.
- L’ultima parte dell’orazione è dedicata alla storia vera e propria raccontando gli eventi che lo hanno condotto al matrimonio e termina con un vero e proprio colpo di teatro con cui si mostra l’eredità di Pudentilla e come lei avesse designato il figlio minore ad essere l’erede (quindi l’accusa è completamente infondata).
APÒLOGIA (DE MAGIA)
(91)
Vide quaeso, Maxime, quem tumultum suscitarint, quoniam ego paucos magorum nominatim percensui. Quid faciam tam rudibus, tam barbaris? Doceam rursum haec et multo plura alia nomina in bybliothecis publicis apud clarissimos scriptores me legisse an disputem longe aliud esse notitiam nominum, aliud ar-tis eiusdem communionem nec debere doctrinae instrumentum et eruditionis memoriam pro confessione criminis haberi an, quod multo praestabilius est, tua doctrina, Claudi Maxime, tuaque perfecta eruditione fretus contemnam stultis et impolitis ad haec respondere?
Vedi, Massimo, quale schiamazzo hanno fatto perché ho enunciato i nomi di alcuni maghi. Come comportarsi con gente così rozza, così barbara? Dovrei loro ancora insegnare che questi nomi e molti altri ancora ho letto nelle pubbliche biblioteche in opere di chiarissimi scrittori, oppure dovrei sostenere che una cosa è conoscere i nomi delle persone, un’altra cosa è praticarne le arti, e che lo studio e la cultura non devono essere considerati come la confessione di una colpa? Oppure non sarà molto meglio che io mi affidi alla tua scienza, Claudio Massimo, e alla tua compiuta erudizione, sdegnando di rispondere a gente sciocca e incivile?
La veemenza con la quale conduce l’oratio, con le sue incalzanti interrogative, mostra come la lezione ciceroniana sia ben stata assimilata da Apuleio. Tuttavia quello che manca in quest’orazione difensiva è proprio l’orazione difensiva: nessuna prova per scagionarsi, ma solo dimostrare l’ignoranza altrui e la propria cultura. Poca differenza quindi tra quest’opera e le declamationes di cui egli era un campione.
Conferenziere
E infatti egli se mago fu, lo fu realmente della parola. Capace di suscitare ammirazione agli ascoltatori, sapeva parlare di tutto e di ogni cosa come ci dimostra anche nelle due opere maggiori. Qualcuno raccolse queste orazioni, scegliendo e facendo un’antologia tra le più ricercate e preziose. Tali opere hanno preso il nome di Florida.
Edizione del 1927
Il romanziere
Ma l’opera per cui Apuleio è famoso è certamente la Metamorfosi o meglio conosciuta come L’asino d’oro. E’ un testo in 11 libri, il cui antecedente è costituito da un testo greco, non pervenutoci, di Luciano di Samosata del quale ci è giunto un plagio intitolato Lucius o l’asino. Non è improbabile che sia l’autore latino che quello greco abbiano a loro volta rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata Metamorfosi, e attribuito ad un certo Lucio di Patre. Nell’opera di Apuleio il magico si alterna con l’epico, il tragico, il comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico: ciò non toglie, comunque, che tutto il testo sia intessuto di una forte letterarietà.
Manifesto per una serie di conferenze su L’asino d’oro di Apuleio
L’opera racconta la storia di un giovane chiamato Lucio appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio, avvinto dalla sua insaziabile curiositas, vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotide, che nel frattempo è diventata sua amante, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia per lunghi mesi, trovandosi coinvolto in mille avventure, e sottoponendosi ad infinite angherie. Ciò gli permette di diventare un muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti. Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di Amore e Psiche, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura amorosa di Psiche e di Eros. Avendolo conquistato, ella tuttavia non può svelare il suo volto, ma vita da curiosità lo smarrisce. Lo ritroverà poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli elementi del mondo. Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finché, dopo altre peripezie, si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia e, durante una notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride.
Sia l’ultima parte del romanzo che la celebre favola di Amore e Psiche sembra non abbiano alcun riferimento con le fonti sopra citate, ma siano frutto della fantasia e dell’intenzione di Apuleio, anche perché, come meglio vedremo, la favola costituisce un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone così la corretta interpretazione. Infatti l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, hanno un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici nell’itinerario spirituale del protagonista, che, proprio al termine, sembra coincidere con l’autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorico: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’ultimo libro è certamente la conclusione religiosa; questo ce lo fa pensare sia che l’asino fosse un animale inviso alla dea Iside sia lo stesso numero dei libri, 11, che rimanda al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, dieci per la purificazione e uno dedicato al rito religioso.
Vediamo infatti dapprima descritta la degradazione cui è costretto Lucio:
Lucio trasformato in Asino
LA TRASFORMAZIONE DI LUCIO IN ASINO
Haec identidem asseverans summa cum trepidatione irrepit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faveret volatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis avide manus immersi et haurito plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in avem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis video solacium, nisiu quod mihi iam nequeunti tenere Photidem natura crescebat.
Dopo avermi così rassicurato con grande trepidazione entrò nella stanza, e tirò fuori un barattolo dal cofanetto. Io lo presi in mano, lo baciai, e poi lo pregai che mi desse la grazia di voli felici; mi spogliai in fretta di tutti i vestiti, immersi le mani avidamente nel barattolo, ne tolsi un bel po’ di unguento e mi spalmai ben bene tutto il corpo. E già tentavo di librare prima un braccio poi l’altro, come un uccello, ma non mi spuntava nessun tipi di piume, e nemmeno penne. I miei peli, invece, diventavano grossi come setole, e la pelle mi diventava dura come il cuoio, e in cima alle mani le dita non erano più superate ma si univano in un unico zoccolo, e dall’estremità della spina dorsale mi venne fuori una gran coda. La mia faccia è enorme, la bocca tutta larga, le narici dilatate, le labbra mi pendono giù: e mi crescono orripilanti orecchie pelose. E non ho nessun conforto in questa mia disgraziata trasformazione se non uno: adesso che non potevo abbracciare la mia Fotide, la verga mi era diventata enorme!
E quindi la sua iniziazione:
L’iniziazione di Lucio ai culti di Iside
LA TRASFORMAZIONE DA ASINO A LUCIO
At sacerdos, ut reapse cognoscere potui, nocturni commonefactus oraculi miratusque congruentiam mandati muneris, confestim restitit et ultro porrecta dextera ob os ipsum meum coronam exhibuit. Tunc ego trepidans, adsiduo cursu micanti corde, coronam, quae rosis amoenis intexta fulgurabat, avido ore susceptam cupidus promissi devoravi. Nec me fefellit caeleste promissum: protinus mihi delabitur deformis et ferina facies. Ac primo quidem squalens pilus defluit, ac dehinc cutis crassa tenuatur, venter obesus residet, pedum plantae per ungulas in digitos exeunt, manus non iam pedes sunt, sed in erecta porriguntur officia, cervix procera cohibetur, os et caput rutundatur, aures enormes repetunt pristinam parvitatem, dentes saxei redeunt ad humanam minutiem, et, quae me potissimum cruciabat ante, cauda nusquam! Populi mirantur, religiosi venerantur tam evidentem maximi numinis potentiam et consimilem nocturnis imaginibus magnificentiam et facilitatem reformationis claraque et consona voce, caelo manus adtendentes, testantur tam inlustre deae beneficium.
Intanto il sacerdote, messo sull’avviso dal sogno notturno, come potetti da me constatare, e a sua volta colmo di meraviglia per l’esatta corrispondenza tra ciò che stava accadendo e gli avvertimenti divini, subito si fermò e allungando il braccio, egli stesso mi porse la corona proprio davanti alla bocca. Allora tutto trepidante, col cuore che mi batteva forte, smanioso che la promessa s’adempisse, afferrai avidamente quella corona di bellissime rose intrecciate ch’era uno splendore e la divorai. E la celeste promessa non mi deluse. Là per là persi il mio brutto e animalesco aspetto, dapprima cadde l’ispido pelo, poi la grossa pelle si assottigliò, il largo ventre si restrinse, dalle piante dei piedi, attraverso lo zoccolo, spuntarono nuovamente le dita, le braccia non furono più zampe ma, rialzatesi, ripresero le loro funzioni, la testa ritornò eretta, il viso e il capo si arrotondarono, le orecchie da enormi che erano tornarono piccole come prima, i denti, grossi come ciottoli, ripresero dimensioni umane, infine la coda, quella coda che più d’ogni altra cosa era stata la mia ossessione, scomparve. La folla rimase incantata dalla meraviglia i più devoti si prostrarono in adorazione davanti alla potenza così evidente della grande dea, alla grandiosità di quella metamorfosi e anche alla naturalezza con cui s’era compiuta, così simile a un sogno notturno, e a voce alta e in coro, levando al cielo le braccia, testimoniarono lo straordinario miracolo della dea.
I due passi possono considerarsi uno specchio dell’altro e rappresentano, come già detto il punto di partenza e il punto d’arrivo nella trasformazione di un uomo. La curiositas di Lucio, sembra dirci Apuleio, senza che essa sia accompagnata da un più profondo sentire, che non si esaurisca nella ricerca solipsistica di puro piacere (non è senza significato che il primo rimpianto sia sessuale) quale quella di vedere il mondo dall’alto sotto forma di uccello, non può essere esaudita se non accompagnata da un più profondo senso sacrale. Anche questo è sottolineato: a dargli l’unguento è una servetta tutta “sesso”, a rifarlo uomo sarà un sacerdos.
Ciò farebbe delle Metamorfosi, così, un vero e proprio romanzo mistagogico (il cui significato è portare, guidare qualcuno a considerare le realtà sacre, introdurre nelle cose nascoste cioè nei misteri), che sembrerebbe rappresentare l’esperienza stessa dello scrittore. Lo stesso definisce la sua opera fabula milesia, cioè quella narrazione di carattere erotico con un narratore omodiegetico, cioè interno alla stessa (si pensi alla storia, fortemente sessuale di Lucio uomo con Fotide, la serva di Panfila; ma anche al desiderio sessuale che suscita su una nobildonna quando lo scopre, ormai asino, essere pensante come un umano e quindi la volontà di portarlo a teatro per fare l’amore con una condannata a morte). Ma sembra essere molto più in linea con il romanzo ellenistico d’avventure, di cui la storia è piena.
Antonio Canova: Amore e Psiche
La parte più famosa, e certamente più importante e la favola di Amore e Psiche;
Questo brano può esser letto secondo la morfologia della fiaba dello strutturalista russo Vladimir Propp. Infatti esso è così strutturata:
- Equilibrio iniziale (inizio): amore tra Psiche e Amore;
- Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione): gelosia delle sorelle e fuga di Amore
- Peripezie dell’eroe: ricerca di Amore da parte di Psiche e prove cui sottoposta da Venere;
- Ristabilimento dell’equilibrio (conclusione): nozze fra Psiche e Amore.
Come detto, la favola di Amore e Psiche, che parte dalla fine del IV libro a buona parte del VI, ha un’importanza fondamentale nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo estetica, ma fornendocene invece la corretta chiave di lettura e di decodificazione dell’intero testo. Infatti, a ben guardare, la successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la curiositas punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità. La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di hybris (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.
C’ERA UNA VOLTA UN RE E UNA REGINA
Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at vero puellae iunioris tam praecipua, tam praeclara pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat. Multi denique civium et advenae copiosi, quos eximii spectaculi rumor studiosa celebritate congregabat, inaccessae formonsitatis admiratione stupidi et admoventes oribus suis dexteram primore digito in erectum pollicem residente eam ut ipsam prorsus deam Venerem religiosis venerabantur adorationibus. Iamque proximas civitates et attiguas regiones fama pervaserat deam, quam caerulum profundum pelagi peperit et ros spumantium fluctuum educavit, iam numinis sui passim tributa venia in medias conversari populi coetibus, vel certe rursum novo caelestium stillarum germine non maria, sed terras Venerem aliam virginali flore praeditam pullulasse.
William-Adolphe Bouguereau: Psiche (1898)
Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla. Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l’indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere in persona. Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un’altra Venere, anch’essa bellissima, nella sua grazia virginale.
Tale bellezza suscita la gelosia della dea Venere, che non può sopportare che una donna umana possa eguagliarla se non superarla in bellezza:
Raffaellino del Colle (attribuito): Venere e Cupido,, Loggia Farnese, Roma
LA GELOSIA DI VENERE
“En rerum naturae prisca parens, en elementorum origo initialis, en orbis totius alma Venus, quae cum mortali puella partiario maiestatis honore tractor et nomen meum caelo conditum terrenis sordibus profanatur! Nimirum communi numinis piamento vicariae venerationis incertum sustinebo et imaginem meam circumferet puella moritura. Frustra me pastor ille, cuius iustitiam fidemque magnus comprobavit luppiter, ob eximiam speciem tantis praetulit deabus. Sed non adeo gaudens ista, quaecumque est, meos honores usurpabit: iam faxo eam huius etiam ipsius inlicitae formonsitatis paeniteat”
«Ecco che io, l’antica madre della natura, l’origine prima degli elementi, la Venere che dà vita all’intero universo, sono ridotta a dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà e a veder profanato dalle miserie terrene il mio nome celebrato nei cieli. Nessuna meraviglia, allora, se durante i riti espiatori dovrò sopportare un culto equivoco, diviso a metà e se una fanciulla che non potrà sfuggire alla morte ostenterà le mie sembianze. A nulla è valso allora che quel pastore la cui giustizia e lealtà fu dallo stesso Giove riconosciuta, per la straordinaria bellezza prescelse me fra dee tanto più illustri. Ma non se li godrà a lungo costei, chiunque sia, gli onori che mi usurpa: la farò pentire io della sua bellezza che non le spetta».
A tale scopo chiama suo figlio, Cupido, che, per punire Psiche, deve fare in modo ch’ella si innamori dell’uomo più brutto sulla terra.
Ma Psiche, pur essendo la ragazza più bella sulla terra, non gode della sua fortuna, e rimane sola. Le sorelle si sposano, ma sembra che nessuno voglia lei, e piange, nella sua solitudine, la sua bellezza, maledicendola. Allora il padre si rivolse ad un indovino che gli predisse che un mostro l’avrebbe amata: questo era il volere degli dei. Pertanto la preparasse vestendola d’oro e d’argento, e la portasse sopra una rupe, che, con ferro e con fuoco, l’avrebbe fatta sua. Il padre, pieno di timore, non può fare a meno d’obbedire.
Portata sulla rupe, accompagnata con mesto corteo, viene lasciata sola. Ma viene da subito trasportata dal vento e portata in un locus amoenus:
Kynuko Y Craft (illustratore): Psiche portata dal vento
LOCUS AMOENUS
Psyche teneris et herbosis locis in ipso toro roscidi graminis suave recubans, tanta mentis perturbatione sedata, dulce conquievit. Iamque sufficienti recreata somno placido resurgit animo. Videt lucum proceris et vastis arboribus consitum, videt fontem vitreo latice perlucidum; medio luci meditullio prope fontis adlapsum domus regia est aedificata non humanis manibus sed divinis artibus.
Psiche dolcemente adagiata su un morbido prato, in un letto di rugiadosa erbetta sentì l’animo suo liberarsi di tutta l’angoscia e placidamente s’addormentò. Dopo aver riposato abbastanza si levò più tranquilla e vide un boschetto fitto di alberi alti e frondosi e una sorgente d’acque cristalline e, proprio in mezzo al bosco, non lontana da quella fonte, vide una reggia, costruita non dalla mano dell’uomo ma per arte divina.
Quindi viene introdotta in una reggia stupenda, dimora più di un dio che di un uomo. Delle invisibili ancelle la curano, la invitano a godere di tutte le cose che il castello le offriva. Dopo aver riccamente mangiato, presa dalla stanchezza fu presa da dolce sonno, ma proprio allora sentì una presenza al suo fianco, era il suo sposo che dolcemente la possedette, per poi svanire all’alba. Viene stipulato un patto: lei non dovrà mai vedere lo sposo.
Nel frattempo i genitori, preoccupati della sua sorte, mandano le sorelle a cercarla. Così lo sposo la ammonì:
François Gérard, Cupido e Psiche (1798)
LE AMMONIZIONI DI UN DIO
“Psyche dulcissima et cara uxor, exitiabile tibi periculum minatur fortuna saevior, quod observandum pressiore cautela censeo. Sorores iam tuae mortis opinione turbatae tuumque vestigium requirentes scopulum istum protinus aderunt, quarum si quas forte lamentationes acceperis, neque respondeas immo nec prospicias omnino; ceterum mihi quidem gravissimum dolorem tibi vero summum creabis exitium.”
«Psiche, mia dolcissima e amata sposa, il destino crudele ti minaccia di un terribile pericolo, per cui ti prego dì essere molto prudente. Le tue sorelle, angosciate dalla notizia della tua morte si sono messe sulle tue tracce e presto verranno a questa rupe; se tu sentissi i loro lamenti, per carità non rispondere, non farti vedere, perché a me daresti un grande dolore ma per te sarebbe addirittura la fine.»
Le sorelle, una volta ritrovatala e vista la reggia in cui Psiche vive, e che nel frattempo è in dolce attesa del figlio di un dio, mosse dall’invidia, le fanno credere, che il marito sia un mostro orrendo:
Le sorelle di Psiche
L’INVIDIA SI TRASFORMA IN BUGIA
“Tu quidem felix et ipsa tanti mali ignorantia beata sedes incuriosa periculi tui, nos autem, quae pervigili cura rebus tuis excubamus, cladibus tuis misere cruciamur. Pro vero namque comperimus nec te, sociae scilicet doloris casusque tui, celare possumus immanem colubrum multinodis voluminibus serpentem, veneno noxio colla sanguinantem hiantemque ingluvie profunda, tecum noctibus latenter adquiescere. Nunc recordare sortis Pythicae, quae te trucis bestiae nuptiis destinatam esse clamavit. Et multi coloni quique circumsecus venantur et accolae plurimi viderunt eum vespera redeuntem e pastu proximique fluminis vadis innatantem. Nec diu blandis alimoniarum obsequiis te saginaturum omnes adfirmant, sed cum primum praegnationem tuam plenus maturaverit uterus, opimiore fructu praeditam devoraturum. Ad haec iam tua est existimatio, utrum sororibus pro tua cara salute sollicitis adsentiri velis et declinata morte nobiscum secura periculi vivere an saevissimae bestiae sepeliri visceribus.”
“Beata te che te ne stai tranquilla, ignara di un fatto terribile, incurante del pericolo che ti sovrasta, ma noi che stiamo sveglie la notte, preoccupate del tuo caso, siamo angosciate al pensiero delle tue sciagure. Abbiamo saputo, infatti, con tutta certezza, e non possiamo nascondertelo dato che abbiamo fatto nostre le tue sventure e il tuo dolore, che chi viene a letto con te, di nascosto la notte, è un serpente gigantesco, tutto viscide spire dal collo gonfio d’un sangue velenoso e mortale e dalle fauci enormi spalancate. Ora, ricordati dell’oracolo che ti predisse che avresti sposato un’orribile bestia. Molti contadini, e quelli che vengono a caccia da queste parti, e parecchi abitanti dei dintorni lo hanno visto all’imbrunire tornare dalla pastura e nuotare nelle acque del fiume qui vicino. E tutti dicono che non ti colmerà per molto tempo di tutte queste delizie ma che appena la tua gravidanza si sarà compiuta ti divorerà insieme con il ricco frutto del tuo ventre. Stando così le cose tu devi decidere: o ascoltare le tue sorelle così sollecite della tua vita e, scampando alla morte, vivere con noi fuori di ogni pericolo, oppure finire nelle viscere di un mostro orrendo.”
E la convincono ad ucciderlo:
Jacopo Zucchi: Amore e Psiche
PSICHE SCOPRE L’IDENTITA’ DELLO SPOSO
Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur. Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere, sed in suo pectore; quod profecto fecisset, nisi ferrum timore tanti flagitii manibus temerariis delapsum evolasset. Iamque lassa, salute defecta, dum saepius divini vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi. Videt capitis aurei genialem caesariem ambrosia temulentam, cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis dei pinnae roscidae micanti flore candicant et quamvis alis quiescentibus extimae plumulae tenellae ac delicatae tremule resultantes inquieta lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela. Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa, sive perfidia pessima sive invidia noxia sive quod tale corpus contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat, evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit. Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit.
Simon Vouet: Amore e Psiche
Allora a Psiche vennero meno le forze e l’animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo dio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l’avrebbe certamente fatto se l’arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio. Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi. Ma mentre l’anima sua innamorata s’abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch’essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall’orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d’olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d’amore, proprio il dio d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d’un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell’infelicissima sposa.
Maurice Denis: Amore e Psiche (1908)
Abbandonata, dapprima cerca d’uccidersi e, dopo essersi vendicata delle sorelle, comincia a vagare senza meta, alla ricerca del suo sposo. Dopo aver chiesto a varie dee, che non possono aiutarla, si rivolge a Venere, madre di Cupido, cui il figlio si era rifugiato, malato d’amore. Ma l’ira della dea è impacabile:
L’IRA DI VENERE
“Tandem” inquit “dignata es socrum tuam salutare? An potius maritum, qui tuo vulnere periclitatur, intervisere venisti? Sed esto secura, iam enim excipiam te ut bonam nurum condecet”; et: “Ubi sunt” inquit “Sollicitudo atque Tristities ancillae meae?” Quibus intro vocatis torquendam tradidit eam. At illae sequentes erile praeceptum Psychen misellam flagellis afflictam et ceteris tormentis excruciatam iterum dominae conspectui reddunt. Tunc rursus sublato risu Venus:””Et ecce” inquit “nobis turgidi ventris sui lenocinio commovet miserationem, unde me praeclara subole aviam beatam scilicet faciat. Felix velo ego quae ipso aetatis meae flore vocabor avia et vilis ancillae filius nepos Veneris audiet. Quanquam inepta ego quae frustra filium dicam; impares enim nuptiae et praeterea in villa sine testibus et patre non consentiente factae legitimae non possunt videri ac per hoc spurius iste nascetur, si tamen partum omnino perferre te patiemur.”
Luca Giordano: Psiche punita da Venere (1702)
“Finalmente” le gridò “ti sei degnata di venire a salutare tua suocera! O forse sei venuta a far visita a tuo marito in pericolo per la ferita che gli hai procurato? Ma sta tranquilla, ti farò l’accoglienza che merita una brava nuora come te,” e soggiunse: “dove sono Angoscia e Tristezza, le mie ancelle?” e fattele entrare ad esse l’affidò perché la torturassero; e quelle, eseguendo a puntino l’ordine della padrona, cominciarono a lavorare di scudiscio sulla povera Psiche e a straziarla con torture di vario genere, poi gliela riportarono davanti. E Venere nuovamente scoppiò a ridere: “Sta a vedere che io adesso debbo commuovermi per quel suo ventre gravido che dovrebbe farmi nonna felice di una prole illustre. Sì, proprio felice: nel fiore degli anni esser chiamata nonna e il figlio di una miserabile schiava passare per nipote di Venere. Ma stupida anch’io a chiamarlo figlio, ché mica è valido il matrimonio fra persone di diversa condizione sociale celebrato, poi, così, in campagna, senza testimoni, senza il consenso del padre; perciò questo che nascerà sarà un bastardo, ammesso pure che io ti lasci portare a termine la gravidanza.”
E quindi la sottopone a prove impossibili: separare un mucchio di semi differenti; procurarsi un fiocco d’oro dalle pelli di certe pecore, feroci verso il genere umano; attingere un’urna d’acqua nello Stige. Psiche, attraverso l’aiuto di creature meravigliose, riesce a portare a termine tutte le prove.
L’ultima è quella di scendere nell’Averno e incontrare Proserpina che le farà dono della sua bellezza. Ma la curiositas spinge Psiche ad osservare dentro il cofanetto che le è stato consegnato e quindi giace come morta nel sonno infernale.
Giulio Romano: Proserpina offre una pisside con dentro la bellezza, Palazzo Te (Mantova, 1534)
Amore, guarito ed impietositosi di lei, intercede presso il grande Giove. Egli ordina la fine delle traversie di Psiche:
IL MATRIMONIO
“Dei conscripti Musarum albo, adolescentem istum quod manibus meis alumnatus sim profecto scitis omnes. Cuius primae iuventutis caloratos impetus freno quodam coercendos existimavi; sat est cotidianis eum fabulis ob adulteria cunctasque corruptelas infamatum. Tollenda est omnis occasio et luxuria puerilis nuptialibus pedicis alliganda. Puellam elegit et virginitate privavit: teneat, possideat, amplexus Psychen semper suis amoribus perfruatur.” Et ad Venerem conlata facie: “Nec tu,” inquit “filia, quicquam contristere nec prosapiae tantae tuae statuque de matrimonio mortali metuas. Iam faxo nuptias non impares sed legitimas et iure civili congruas”, et ilico per Mercurium arripi Psychen et in caelum perduci iubet. Porrecto ambrosiae poculo: “Sume,” inquit “Psyche, et immortalis esto, nec umquam digredietur a tuo nexu Cupido sed istae vobis erunt perpetuae nuptiae.”
“O dei, iscritti nell’albo delle Muse, voi tutti certamente sapete che questo ragazzo l’ho cresciuto io stesso con le mie mani. Ora però credo sia giunto il momento di mettere un po’ a freno i suoi ardori giovanili; sono troppe ormai le favolette che corrono in giro sui suoi adulteri e su tutte le sudicerie che combina. Occorre eliminare ogni occasione e contenere la sua giovanile lussuria con i vincoli del matrimonio. La ragazza già ce l’ha, l’ha anche sverginata: che se la tenga, ci vada a letto e si goda per sempre Psiche e il suo amore.” E volgendosi a Venere: “E tu, figlia mia, per questo matrimonio con una mortale non te la prendere, non temere per il tuo casato e la tua condizione. Disporrò che queste nozze siano tra eguali, del tutto legittime quindi e conformi al diritto civile” e là per là ordinò che Mercurio andasse a prendere Psiche e la portasse in cielo: “Bevi, Psiche” le disse offrendole una coppa d’ambrosia “e sii immortale; né mai Cupido si scioglierà dal vincolo che lo lega a te e queste saranno per voi nozze eterne.”
Raffaello Sanzio: Il matrimonio di Amore e Psiche (1517)
Ed infine:
VOLUTTA’
Sic rite Psyche convenit in manum Cupidinis et nascitur illis maturo partu filia, quam Voluptatem nominamus”.
Così Psiche andò sposa a Cupido, secondo giuste nozze e, al tempo esatto, nacque una figlia, che noi chiamiamo Voluttà.