Se dovessimo attraversare con lo sguardo la situazione italiana della seconda metà del Cinquecento e più precisamente dal 1559, anno della pace di Cateau-Cambresis, fino alle soglie del ’600, noteremo una situazione di stasi politica, religiosa e culturale che dominerà l’intera penisola, portandola, in modo seppur lento ma deciso, verso la sua piena “provincializzazione” in quasi tutti i campi (con pochi strappi da parte di personalità eccezionali, basti pensare a Torquato Tasso o a Giordano Bruno). Sulla base di quanto detto, vediamo più da vicino tale situazione di crisi.
Situazione politica
Filippo II d’Asburgo
La pace di Cateau-Cambresis che venne stipulata, per il nostro territorio, soprattutto da Filippo II di Spagna, gli Asburgo ed Enrico II di Francia, vide la nostra penisola, direttamente o indirettamente, quasi completamente assoggettata alla Spagna, come il Ducato di Milano, il Vicereame di Napoli, la Sicilia, la Sardegna, la terra dei Presìdi (che comprendeva una parte dei territori prima appartenenti a Siena, e quindi alla Toscana). Per questi territori venne creato un Consiglio d’Italia diretto da un nobile spagnolo. Altri territori, invece, pur nominalmente liberi, gravitarono intorno alla potenza spagnola, come lo stesso Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa, che vedeva nell’Impero di Filippo II un baluardo cattolico contro le forze allora emergenti del protestantesimo nell’Europa del Nord. Inoltre la sua flotta difendeva le coste di sua Santità dalla forza turca, che ancora imperversava nel Mediterraneo orientale. Formalmente libere, invece, erano le piccole realtà della Repubblica di Genova, e dei ducati di Ferrara, Mantova, Lucca, Parma, tutte tese a mantenere la loro autonomia e a “non disturbare” troppo; mentre più libera e autonoma risulta essere la Repubblica di Venezia, ma economicamente impoverita dallo spostamento dei commerci nell’Atlantico e dalla guerra contro i Turchi e lo Stato Sabaudo, appena resosi autonomo dal predominio francese. Risulta evidente da tale situazione che:
- era più difficile per qualsiasi entità all’interno della penisola farsi da “mecenate” per qualsiasi espressione culturale (ad eccezione di Roma, per motivi di potenza religiosa, riguardo l’architettura);
- l’ambiente in cui si trovava a vivere l’intellettuale era molto più oppressivo, vivendo in una vera e propria situazione assolutistica.
Enrico II di Francia
Situazione religiosa
Nel 1517 ebbe inizio la riforma protestante di Lutero con l’affissione delle sue 95 tesi nella porta della Cattedrale di Wittenberg. Senza entrare nello specifico della portata filosofica, politica e sociale che essa ebbe, ribadiamo qui alcuni suoi principi essenziali:
Lutero
- lettura diretta del credente dell’opera di Dio, quindi della Bibbia (da qui la sua traduzione in tedesco e, di conseguenza, grazie anche alla stampa, la nascita della lingua e letteratura tedesca);
- la negazione nell’Eucarestia della transustanziazione (cioè la trasformazione del corpo di Dio in vino e pane), a favore della consustanziazione (cioè la presenza dello spirito di Cristo nell’atto dell’Eucarestia);
- l’unico anello di congiunzione tra l’uomo e Dio è Gesù Cristo, quindi bisogna negare la presenza di qualsiasi altro intermediario (i santi);
- l’ecclesia è la Chiesa di tutti i credenti, per cui non ci dev’essere, ed è contro le parole del Vangelo, la preminenza di uno su tutti (negazione della figura del papa);
- salvezza per fede e non per opere.
Furono molti i tentativi, da parte della Chiesa cattolica di ricucire lo strappo che la rivoluzione teologica di Lutero aveva provocato. Ma ciò fu inutile dal momento in cui di tale teoria si appropriarono parte dei principi tedeschi che vedevano in essa un annullamento dell’autorità ecclesiastica e quindi un buon motivo per non pagare più decime e incamerarne i beni. Di fronte all’irrigidimento della situazione (che causò anche sanguinose guerre), Paolo III Farnese, aprì il Concilio di Trento con l’intento non solo di rispondere alle teorie luterane, ma anche di riformare al suo interno la Chiesa stessa. Il lavoro del Concilio durò circa un ventennio e determinò:
- l’autorità del Pontefice;
- la dottrina del libero arbitrio;
- l’importanza delle opere per la salvezza;
- l’importanza del magistero della Chiesa nell’esame del Testo Sacro;
- la reale presenza di Cristo nell’Eucarestia attraverso la transustanziazione.
Se tali atteggiamenti possono sembrare essere stati assunti per difesa dell’Istituzione, non bisogna dimenticare, invece, la duplice opera che la stessa fece per rispondere sia sul piano della purificazione interna che esterna, operando per una maggiore moralizzazione (aspetto propositivo), sia per un maggior controllo (aspetto repressivo).
Per la moralizzazione ricordiamo:
- celibato degli ecclesiastici e residenza degli stessi nel luogo in cui erano comandati;
- negazione dei benefici ecclesiastici per chi non aveva una profonda fede;
- evangelizzazione con assimilazione e non sovrapposizione delle culture altre;
- maggiore attenzione alla formazione del clero, attraverso la creazione dell’ordine dei gesuiti (La Compagnia di Gesù dello spagnolo Ignazio de Loyola) il cui compito sarà quello di reprimere intellettualmente ogni forma di critica alla Chiesa e a quella popolare attraverso gli oratoriani, dediti all’educazione dei giovani di estrazione sociale non elevata (San Filippo Neri).
Per la repressione dobbiamo sottolineare:
- la riorganizzazione del tribunale ecclesiastico (la cosiddetta Inquisizione Romana), con il compito d’indagine e di condanna per chi rifiuta l’ortodossia cattolica, fino alla consegna al Braccio Secolare che provvederà alla scelta e alla applicazione delle pene fisiche (che possono arrivare alla morte per rogo) per chi persevera nell’“errore”;
- l’istituzione dell’Index Librorum Prohibitorum (1559) che da una parte revisiona tutti i testi precedentemente scritti e ne vieta la lettura per quelli ritenuti incompatibili con l’ortodossia (Il Principe di Machiavelli e alcune novelle di Boccaccio), dall’altra opera una severissima opera di censura per quelli che devono essere stampati (si pensi quale pressione sentirà, dentro di sé, lo scrittore).
Paolo III Farnese
Cultura
E’ evidente che quanto detto abbia le sue conseguenze sul piano culturale. Se il Rinascimento aveva conosciuto il prevalere del concetto di uomo come faber capace di costruire “razionalmente” la realtà, attraverso il modello della grande cultura classica, l’uomo di questa età vuole allontanarsi da ciò che appariva come “perfetto”, inattaccabile, modellato sulla grande lezione degli antichi, per ricercare qualcosa di nuovo, se si vuole irrazionale e che guardi a quel mondo dell’inconoscibile, esoterico, come nuovo riferimento. Ma come è possibile elaborare un nuovo modo di concepire il mondo, se la Chiesa non permette il libero pensiero? Si tratta per gli intellettuali di forzare il nuovo pensiero all’interno di regole sempre più normative. Non è un caso che la traduzione della Poetica aristotelica diventi un vero e proprio codice coercitivo sul quale attenersi. Ecco allora che l’elaborazione culturale si mostra come espressione che forza la forma, anzi dà a quest’ultima un posto prevalente (preparando la stagione barocca). D’altra parte tra la l’obbligo di accettare la verità ecclesiale e il bisogno di “rinnovare” la cultura si situa la paura e l’angoscia di questo limite, provocando un senso di colpa e la paura del peccato. Da qui la richiesta di acquisire certezze, cui le norme danno un valido aiuto. Per questo non s’inventa ma si fa alla “maniera di”, cioè alla nascita del manierismo. In altre parole il classicismo s’irrigidisce attraverso la riscoperta, per meglio dire la rilettura “normativa” dell’opera di Aristotele, (contro il Platonismo del primo Cinquecento) e viene invischiato in una vera e propria forma precettistica che nega ogni spinta creatrice degli intellettuali. Si pensi al teatro tragico: se Aristotele descrive la situazione presente nella Grecia classica essa diventa norma nello scrivere tale genere: unità di tempo, luogo ed azione; ma poi all’interno di esso casi di estrema disarmonia “psicologica dei protagonisti” ripresi dai tre grandi tragediografi ellenici.
Simbolo dell’Accademia della Crusca
D’altra parte agli intellettuali non è dato più grande spazio “critico”: le corti è vero che continuano ad essere il centro attrattivo, ma prese a difendere con difficoltà la loro libertà, cessano in qualche modo d’essere promotrici di cultura. Per questo gli intellettuali si rifugiano nelle Accademie, dai nomi improbabili per le stesse e per gli scritti. Tra di esse spicca l’Accademia della Crusca, fondata nel 1582, che con Lionardo Salviati come direttore, farà sì che il suo Vocabolario porterà all’estreme conseguenze il discorso bembesco, ma con una differenza: se infatti per Pietro Bembo l’utilizzo lessicale di Petrarca e Boccaccio mirava alla creazione di una lingua “ideale”, il Salviati restringendo l’uso dell’italiano letterario alle sole parole usate da qualsiasi fiorentino colto del Trecento ne dà una limitazione spazio/temporale che diventa pertanto anch’essa normativa.
Interessante, più degli altri, è il caso di Machiavelli: messo all’indice e aspramente criticato, viene tuttavia riletto secondo la logica della “ragion di Stato”: Giovanni Botero in Della region di Stato (1589), dapprima infatti critica il maestro fiorentino in quanto ha separato la politica dalla religione, ma poi afferma che il fine del monarca è quello di preservare l’integrità dei suoi territori, ma tale fine, nella realtà odierna, coincide con quello della Chiesa, che è, a sua volta, ispirato da Dio. Il dibattito “politico” di questo periodo viene definito “Tacitismo”, riprendendo dallo storico latino il periodo dei primi Imperatori post augustei.