Se Plauto è stato l’incontrastato “padrone” del teatro “popolare”, tanto da far sì che bastasse il suo nome per ottenere successo, Terenzio invece ha rappresentato il teatro d’èlite, portavoce di una classe aristocratica e intellettuale, che si riconosce nei nuovi valori convogliati all’interno di quello che suole definirsi come il “circolo degli Scipioni”. Con questo termine si ci riferisce non ad un movimento coeso, ma ad un gruppo di persone che ruotano intorno alla figura di Scipione Emiliano, figlio di Emilio Paolo che, con la vittoria sul re di Macedonia, portò a Roma l’intera biblioteca greca nonché il filosofo stoico Panezio. Inizia così, da parte di alcuni intellettuali e aristocratici che lo frequentarono, un nuovo modo di intendere il modus vivendi che produsse proprio due gruppi, quello scipionico, pronto ad allargare il suo modo di pensare grazie alla cultura filosofica greca e l’altro, invece, il cui massimo esponente è Catone il Censore, che vede in quest’atteggiamento un attentato ai valori tradizionali della repubblica che costituiscono il mos maiorum.
Notizie biografiche
Terenzio nasce a Cartagine, come ci pensare il suo cognomen Afer, tra il 195/185 a.C. Sarebbe arrivato a Roma come schiavo da Terenzio Lucano, da cui prese appunto il nome, e fu in seguito protetto proprio da Scipione Emiliano e Lelio, come egli stesso ci testimonia in un suo prologo. Girarono voci molto feroci nei suoi confronti, proprio per l’amicizia con i suoi illustri protettori, sia di tipo sessuale che letterario, ma ciò sembra appartenere più alla polemica culturale che a una vera e propria vicenda biografica. Sembra morisse giovanissimo in viaggio verso la Grecia, infatti gira il rumor che fosse morto di dispiacere per aver perduto in mare un numeroso numero di commedie sulle quali aveva intenzione di lavorare. La data della sua morte si aggirerebbe nel 158, molto prima della terza guerra punica.
Ritratto immaginario di Terenzio
Opere
Le commedie terenziane sono sei e ci sono tutte pervenute integralmente. Di esse si ha anche la cronologia, riportata dai manoscritti:
- 166 – Andria (La donna di Andro);
- 165 – Hécyra (La suocera);
- 163 – Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso);
- 161 – Eunuchus (L’eunuco)
- 161 – Phormio (Formione)
- 160 – Adelphoe (I fratelli)
Al contrario di Plauto, Terenzio non ebbe un grande successo; la maggiore attenzione data ai personaggi e ad alcuni temi non prettamente “comici”, le stesse polemiche letterarie con il confronto con il suo predecessore, non gli diedero il successo sperato. Tutto ciò lo deduciamo proprio dai prologhi i quali non presentano come nelle commedie plautine l’antefatto, ma servono a difendersi dagli attacchi dei propri detrattori e a illustrare la sua poetica:
ANDRIA
(Prologo)
Poëta cum primum animum ad scribendum adpulit,
id sibi negoti credidit solum dari
populo ut placerent quas fecisset fabulas;
verum aliter evenire multo intellegit.
Nam in prologis scribundis operam abutitur,
non qui argumentum narret, sed qui malevoli
veteris poëtae maledictis respondeat.
Nunc quam rem vitio dent quaeso animum advortite.
Menander fecit “Andriam” et “Perinthiam”;
qui utramvis recte norit ambas noverit;
non ita dissimili sunt argomento, et tamen
dissimili oratione sunt factae ac stilo;
quae convenere in “Andriam” ex “Perinthia”
fatetur transtulisse atque usum pro suis;
id isti vituperant factum atque in eo disputant
contaminari non decere fabulas.
Faciuntne intellegendo ut nihil intellegant?
Qui cum hunc accusant, Naevium, Plautum, Ennium
accusant; quos hic noster auctores habet,
quorum aemulari exoptat negligentiam
potius quam istorum obscuram diligentiam.
Dehinc ut quiescant porro moneo et desinant
Maledicere, malefacta ne noscant sua.
All’inizio, quando il poeta accostò l’animo allo scrivere, credette ciò: che fosse assegnato a lui il solo compito di far piacere le commedie che avrebbe scritto. Capisce in verità che accade molto diversamente. Infatti spreca l’energia nello scrivere prologhi non per raccontare la trama ma per rispondere alle cattiverie di un vecchio poeta malevolo. Ora, vi prego rivolgete l’animo (prestate attenzione) quale cosa diano al vizio. Menandro ha scritto un’Andria e una Perinzia, e chi conosce l’una le conosce tutte e due. Come trama non sono diverse, però diverse divengono per via del linguaggio e dello stile. Il poeta confessa che ha trasposto dalla Perinzia all’Andria, e ha usato come suoi, gli elementi che gli servivano. E’ questo che gli rinfacciano, loro, che stanno a disputare come egualmente non sia lecito contaminare delle commedie. Ma non mostrano, facendo i saputi, di non sapere nulla? Chi accusa il nostro autore, accusa Nevio, Plauto, Ennio, che egli tiene come maestri e dei quali aspira a imitare la disinvoltura piuttosto che l’oscura diligenza di questi altri. Con il che li avverto, che stiano quieti, d’ora in poi, e la smettano di calunniare, se no vedranno messe in piazza le loro porcherie.
Codice Vaticano del foglio 4° dell’Andria
In questo prologo si mette in evidenza l’acrimonia con cui un vecchio e rancoroso commediografo (Luscio Lanuvio) attacchi le novità di Terenzio e come quest’ultimo debba rispondere, affermando l’assoluta liceità sulla contaminatio. Ma è evidente che criticarlo su questo fatto era cercare un pretesto per metterlo in difficoltà, perché forse ciò che dava veramente fastidio era la novità tematica e il suo diffondersi, soprattutto se tale novità costituiva poi le parole d’ordine di un nuovo gruppo di potere assai influente a Roma:
ADELPHOE
(Prologo)
Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobiles
hunc adiutare adsidueque una scribere,
quod illi maledictum vehemens esse existumant,
eam laudem hic ducit maximam cum illis placet
qui vobis universis et populo placent,
quorum opera in bello in otio in negotio
suo quisque tempore usus est sine superbia.
Infatti questi maldicenti dicono che uomini nobili aiutino (il poeta) e scrivano insieme; ciò che essi reputano sia la più grande calunnia, costui la crede una grandissima lode, poiché piace a loro ciò che piace a voi tutti e al popolo, della cui opera in guerra, in ozio o negli affari, chiunque al momento opportuno ha fatto uso senza alcuna vanagloria.
E’ evidente che il riferimento su riportato si riferisca agli Scipioni che, a quanto pare, non replicarono nulla rispetto alle accuse o all’esaltazione che il commediografo fece loro. Ancora una volta, infatti, si dimostra come gli attacchi contro Terenzio oltre che rappresentare una vera e propria difesa del teatro plautino tradizionale, volessero frenare gli importanti cambiamenti che si stavano verificando in città.
Tali cambiamenti li troviamo sia nella struttura della commedia che nella presentazione dei personaggi:
- Minore importanza data alla figura del servo;
- Interventi meno frequenti delle parti “cantate” rispetto a quelle “recitate”;
- Approfondimento psicologico dei personaggi;
- Duplicazione dell’evento, affinché si mettessero in contrapposizione due modi di concepire il modus vivendi.
Immagini dell’allestimento scenico ad Ostia antica dell’Adelphoe
Uno dei “temi” in cui meglio si coglie sia il concetto del raddoppiamento tematico che dei protagonisti è nell’opera più famosa di Terenzio, gli Adelphoe: è infatti la storia di due fratelli, Dèmea, rigido osservante i costumi tradizionali e Micione, scapolo e amante della vita a cui il primo ha affidato uno dei suoi figli, Eschino, mentre l’altro Ctesifone, è sotto la sua tutela. Diversi sono dunque i padri, diversi i metodi educativi. Infatti Ctesifone è innamorato di una cortigiana, Bacchide, ma non volendo che il padre lo venga a sapere, se ne assume la responsabilità Eschino. Ciò crea un forte fraintendimento con la donna di cui Eschino è innamorato, Panfila, che aspetta un bimbo. Le dicerie su di lui sembrano dare torto al metodo educativo di Micione e ragione a quello di Demea, ma alla fine, in cui tutto s’aggiusterà, si capirà che la vera ragione sta in un compromesso tra l’eccessiva autorità dell’uno e alla troppa libertà dell’altro.
L’EDUCAZIONE A CONFRONTO
(Adelphoe, Atto I, scena 1, vv. 40-67)
Atque ex me hic natus non est, sed ex fratre; is adeo
dissimili studio est iam inde ab adulescentia:
ego hanc clementem vitam urbanam atque otium
secutus sum et, quod fortunatum isti putant,
uxorem numquam habui. Ille contra haec omnia:
ruri agere vitam, semper parce ac duriter
se habere; uxorem duxit: nati filii
duo; inde ego hunc maiorem adoptavi mihi;
eduxi a parvolo, habui, amavi pro meo,
in eo me oblecto, solum id est carum mihi.
Ille ut item contra me habeat facio sedulo:
do, praetermitto, non necesse habeo omnia
pro meo iure agere: postremo, alii clanculum
patres quae faciunt, quae fert adulescentia,
ea ne me celet consuefeci filium.
Nam qui mentiri aut fallere insuerit patrem aut
audebit, tanto magis audebit ceteros.
Pudore et liberalitate liberos
retinere satius esse credo quam metu.
Haec fratri mecum non conveniunt neque placent
venit ad me saepe clamans “Quid agis, Micio?
Quor perdis adulescentem nobis? Quor amat?
Quor potat? Quor tu his rebus sumptum suggeris
vestitu nimio indulges? Nimium ineptus es.”
Nimium ipsest durus praeter aequomque et bonum,
et errat longe mea quidem sententia,
qui imperium credat gravius esse aut stabilius
vi quod fit, quam illud quod amicitia adiungitur.
Eppure questo non è nato da me, ma da mio fratello: lui è a tal punto diverso da me già sin dall’adolescenza: io ho seguito questa comoda vita di città e l’ozio e, ciò che alcuni reputano una cosa fortunata, non presi mai moglie. Quello invece tutto il contrario: vive in campagna, si trova sempre modestamente e duramente; ha preso moglie; gli sono nati due figli; di questi io adottai questo maggiore; lo educai da piccolo, lo ebbi, lo amai come mio, in lui mi diletto, solo questo mi è caro. Faccio di tutto affinché quello, in cambio, consideri me lo stesso: elargisco, lascio fare, non ritengo necessario che tutte le cose accadano secondo il mio diritto; in ultimo, quelle cose che altri di nascosto ai padri fanno, che porta la giovane età, ho abituato il figlio a non nascondermele. Infatti chi avrà cominciato a mentire o oserà ingannare i padri, tanto più oserà mentire ed ingannare gli altri. Con il rispetto e la generosità credo è meglio trattenere i figli piuttosto che con la paura. Queste cose non vanno a genio né piacciono al fratello con me. Mi viene incontro spesso urlando: “Che fai, Micione? Perché vizi il giovane? Perché faccia l’amore? Perché beva? Perché fornisci denari per queste cose e sei troppo accomodante sul suo abbigliamento? Sei troppo indulgente!”. Egli stesso è troppo duro oltre il giusto ed il bene e sbaglia molto, secondo il mio parere, chi crede che l’autorità sia più forte e più stabile se la si ottiene con la forza, piuttosto che con l’amicizia.
E’ questo uno dei passi dove meglio si sottolinea la differenza tra il teatro plautino e quello terenziano: il primo non provoca confronti “ideologici” su cui lo spettatore debba riflettere. Qui invece Terenzio si fa portavoce di un mondo nuovo che mette in crisi l’istituto del mos maiorum. Se si guarda, infatti, alle tavole delle leggi Romane, su cui ancora venivano basati i rapporti familiari, si chiarirà sin da subito come il commediografo qui cerchi di metterli in crisi (con le dovute cautele) rappresentando un personaggio che vuole attirare simpatia nei suoi confronti, ma che il pubblico trova così nuovo e in certo qual modo troppo “greco” e intellettuale, da non riuscire a comprenderlo del tutto.
Immagine della rappresentazione dell’Hecyra del Teatro di Smirne (2010)
Ce ne dà dimostrazione un’altra commedia, che incorse in un certo “insuccesso”, l’Hecyra. Vi si racconta di Panfilo che, pur innamorato della cortigiana Bacchide, per volere del padre, sposa Filumena. Costretto ad allontanarsi per motivi d’affari, al suo ritorno apprende che la moglie è tornata a vivere con i genitori. In un primo momento pensa che la fuga di Filumena sia da attribuire al brutto carattere di sua madre Sostrata, ma ben presto si scopre che la moglie ha abbandonato il tetto coniugale poiché è rimasta incinta a seguito alla violenza subita da parte di uno sconosciuto. Panfilo, per onore, non vuole che la moglie torni a vivere con lui, ma vuole mantenere il segreto sul vero motivo, che egli ufficialmente attribuisce al conflitto tra la sposa e la madre. Quest’ultima si dichiara pronta a ritirarsi in campagna per lasciare spazio ai due giovani sposi, mentre il padre teme che il figlio sia ancora innamorato di Bacchide. A sciogliere l’intrico è proprio la cortigiana: infatti si reca personalmente da Filumena per rassicurarla che tra lei e Panfilo tutto è finito; la madre di Filumena, riconosce nell’anello che Bacchide porta al dito lo stesso che era stato strappato alla figlia durante la violenza; Panfilo, dunque, è riconosciuto responsabile dello stupro e quindi padre legittimo del neonato; a questo punto, dopo essersi congedato con affetto e gratitudine dalla generosa Bacchide, può accogliere di nuovo in casa la moglie.
LA SUOCERA
(Hecyra, Atto IV, scena II, 577-588)
Non clam me est, gnate mi, tibi me esse suspectam, uxorem tuam
propter meos mores hinc abisse, etsi ea dissimulas sedulo.
Verum ita me di ament itaque obtingant ex te quae exoptem mihi ut
numquam sciens commerui merito ut caperet odium illam mei.
Teque ante quod me amare rebar, ei rei firmasti fidem;
nam mihi intus tuus pater narravit modo quo pacto me habueris
praepositam amori tuo; nunc tibi me certumst contra gratiam
referre, ut apud me praemium esse positum pietati scias.
Mi Pamphile, hoc et vobis et meae commodum famae arbitror:
ego rus abituram hinc cum tuo me esse certo decrevi patre,
ne mea praesentia obstet neu causa ulla restet relicua
quin tua Philumena ad te redeat.
Non è un mistero per me, figliuolo mio: tu sospetti di me e pensi che tua moglie se ne sia andata di qua a causa del mio carattere, anche se fai di tutto per nasconderlo; ma così mi aiutino gli dei e così mi possa venire da te tutto quello che desidero, come è vero che io non l’ho fatto apposta e non ho meritato che lei fosse presa d’odio per me; quanto a te, se già pensavo che tu mi volessi bene, ora me ne hai dato la certezza che tuo padre a casa mi ha raccontato come tu hai preferito me al tuo amore; ora sono decisa a contraccambiarti, perché tu sappia che la pietà filiale trova in me la sua ricompensa. Panfilo mio, credo che questo giovi a voi e al mio buon nome: ho deciso di andarmene di qua, in campagna, insieme con tuo padre; voglio che la mia presenza non sia un ostacolo e non resti alcun motivo perché la tua Filumena non ritorni da te.
E’ evidente che, sia pure nel semplice contenuto dell’opera, appaia in evidenza la centralità delle figure femminili: tuttavia esse non sono viste come “oggetti del desiderio”, ma come personaggi pensanti e generosi. Prendiamo, ad esempio, proprio Sostrata, mamma di Panfilo e suocera di Filumena: lei, per amore del figlio e della sua felicità, è disposta a rinunciare a lui e ad allontanarsi. E’ proprio un personaggio che esce dallo stereotipo di tante altre “mamme” romane, che considerano i figli propri gioielli, forgiati per la patria virtù.
Mosaico con tre maschere che rappresentano tre donne nel teatro comico nella casa di Pompei di Cicerone
Ma vediamo il ritratto della cortigiana Bacchide:
BACCHIDE
(Hecyra, Atto V, scena III)
Haec tot propter me gaudia illi contigisse laetor:
etsi hoc meretrices aliae nolunt; neque enim est in rem nostrum
ut quisquam amator nuptiis laetetur. Verum ecastor
numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partis.
Ego dum illo licitumst usa sum benigno et lepido et comi.
Incommode mihi nuptiis evenit, factum fateor:
at pol me fecisse arbitror ne id merito mi eveniret.
Multa ex quo fuerint commoda, eius incommoda aequomst ferre.
Sono contenta che da me gli siano venute tutte queste gioie, anche se altre cortigiane non la penserebbero così; perché a noi non conviene che uno dei nostri amanti abbia fortuna nel matrimonio; ma io, per Castore, non mi risolverò mai a certe cattiverie per il mio interesse. Io, a suo tempo, l’ho trovato buono con me, garbato, gentile. Le sue nozze mi hanno portato sfortuna, lo ammetto; meno male che io credo di non aver fatto niente per meritarlo: è’ giusto rassegnarsi ad avere dei dispiaceri da uno, quando se ne sono avuti tanti piaceri.
Ma è in questo passo che meglio si misura la distanza tra il teatro plautino e quello di Terenzio. Se nel brano precedente, pur nella novità, è una mamma che opera per il bene del figlio, è inconcepibile che a farlo sia una cortigiana, nell’immaginario collettivo una prostituta dedita al suo interesse e non certo al bene, soprattutto se tale bene le sottrae denaro. Bacchide è tutt’altro: è una cortigiana buona, o meglio una cortigiana figlia dell’ellenismo e non certo del mos maiorum che tutte quelle che non stavano in casa ad accudire ai lavori domestici erano donne di poco conto nella considerazione della società.
Tale considerazione sulla donna, ma su tutti i personaggi del suo teatro, Terenzio la esplicita in un famoso detto, che fa parte di un discorso di Cremete rivolto a Menedemo, nell’Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso), proprio nel primo atto della commedia:
Manoscritto dell’Heautontimorumenos dell’XI sec.
HOMO SUM
(Heautontimorumenos, Atto I, scena 1)
CHREMES:
Numquam tam mane egredior neque tam vesperi
domum revertor quin te in fundo conspicer
fodere aut arare aut aliquid ferre; denique
nullum remittis tempus neque te respicis.
Haec non voluptati tibi esse satis certo scio: “At
enim, dices, quantum hic operis fiat paenitet”.
Quod in opere faciundo operae consumis tuae,
si sumas in illis exercendis, plus agas.
MENEDEMUS
Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
aliena ut cures ea quae nihil ad te attinent?
CHREMES:
Homo sum: umani nihil a me alienum puto.
CREMETE: Non esco mai tanto presto al mattino, non torno mai tanto tardi la sera, che non ti veda nel tuo fondo a scavare, arare, portar pesi. Insomma, non ti dai un momento di sosta e non hai nessun riguardo: sono sicuro che questo lavoro non è per te un divertimento. Tu dirai “E’ che mi dispiace vedere quanto poco si lavora qui”. Se tutta la fatica che spendi in codesto lavoro, la mettessi a tenere sulla breccia degli altri, ci guadagneresti un tanto. MENEDEMO: Cremete, hai così poco da pensare alle cose tue, da doverti occupare dei fatti degli altri, e di quello che non ti riguarda? CREMETE: Sono un uomo, e di quello che è umano nulla io trovo che non mi riguardi.
A Ravello nella costiera amalfitana viene ricordato il pensiero di Terenzio
Questo passo è inserito, proprio all’inizio delle commedia, quando Cremete, vedendo il suo vicino di casa Menedemo “ammazzarsi” di fatica, gli chiede il perché, e lui, dopo un po’ di ritrosia, gli risponde che lo fa per punirsi perché il figlio, contro le sue rimostranze, è partito a fare il mercenario in Asia, così al ritorno, in possesso del denaro, potrà amare la donna che il padre gli nega perché povera. E’ l’ultimo passo della commedia, quell’Homo sum, humani nihil a me alienum puto quello che verrà ripreso non solo come esempio del concetto di humanitas che Terenzio inaugura nella letteratura latina, ma che sarà alla base anche dell’umanesimo dapprima italiano e quindi europeo del 1400, che proprio in Terenzio e in questa espressione troverà la sua base. A questo punto bisognerà meglio chiedersi a cosa corrisponde tale humanitas. Con essa potremo indicare quell’ideale di attenzione verso l’intero essere umano alla cui base vi è la benevolenza e la tolleranza; a livello antropologico si può dire che con lui ed il Circolo degli Scipioni si inaugura un nuovo periodo della storia Romana, che aprirà lo sguardo, sempre con più attenzione, alla filosofia e al modo di concepire la vita nella sua totalità.