Alma Tadema (1836 – 1912): Albio Tibullo alla casa di Delia
Tibullo non è certamente considerato un grande poeta latino, forse neanche nell’ambito della poesia elegiaca; infatti a lui molti preferiscono la poesia di Properzio. Forse è proprio la sua malinconia a non essere pienamente accettata, anche se certamente essa può costituire un antico germe della sensibilità romantica.
Biografia
Pochissime le notizie biografiche di Albio Tibullo, tanto da non conoscere neanche il suo praenomen. Sembra che nacque da famiglia equestre tra il 55 e il 50 a.C, ma non si conosce il luogo preciso (si pensa il Lazio). Fu presumibilmente un giovane ricco e di bell’aspetto, secondo la testimonianza coeva di Orazio; legatosi a Messalla Corvino, partecipò a due campagne militari. La sua morte, avvenuta in giovane età, viene cantata da Ovidio e dovette avvenire tra il 19 e il 18 a. C.
Urna cineraria di Messalla Corvino
Corpus Tibullianum
Con il Corpus Tibullianum intendiamo una raccolta giuntaci dagli antichi in cui si raccoglievano tre libri di elegie d’autori diversi, in seguito, ulteriormente suddiviso in età umanistica in quattro libri. Sicuramente i primi due libri di tale corpus appartengono a Tibullo.
Il primo libro è composto da dieci elegie di cui cinque dedicate a Delia (nome fittizio cui si nasconderebbe la reale Plania), tre a Marato (giovinetto), una per il compleanno di Messalla e una d’esaltazione della pace e della vita agreste.
Edizione del 1943 del Corpus Tibullianum
Dal numero delle elegie dedicate a Delia, comprendiamo come la figura di questa donna rappresenti il tema unificante di questo libro:
L’AMORE TOTALIZZANTE PER DELIA
(I, 1 vv. 45 – 58)
Quam iuvat inmites ventos audire cubantem
et dominam tenero continuisse sinu
aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
securum somnos igne iuvante sequi.
Hoc mihi contingat. Sit dives iure, furorem
qui maris et tristes ferre potest pluvias.
O quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quam fleat ob nostras ulla puella vias.
Te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuvias;
me retinent vinctum formosae vincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.
Non ego laudari curo, mea Delia; tecum
dum modo sim, quaeso segnis inersque vocer
Quanto è piacevole, mentre si è a letto, ascoltare il soffio impetuoso dei venti e abbracciare teneramente la donna amata, o quando l’Austro invernale porta scrosci di gelida pioggia, lasciarsi andare serenamente al sonno, accompagnati dallo scoppiettante fuoco! Questo vorrei per me: sia ricco giustamente chi è in grado di sopportare la furia del mare e piogge funeste. Vadano pure in malore oro e smeraldi, piuttosto che una fanciulla pianga per la mia partenza. Per te, Messalla è naturale combattere per terra e per mare, in modo che la tua casa ostenti spoglie nemiche; io sono prigioniero di una bella ragazza e sto seduto, come un portiere, davanti a porte inclementi. Delia mia, non m’interessano le lodi degli altri; se posso starti vicino, mi sia dia pure del pigro e del fannullone.
Già dalla prima elegia troviamo, al centro, il topos dell’amore totalizzante, che si raffigura nell’immagine rassicurante di un abbraccio all’interno di una casa rustica, foriera di pace e tranquillità, contrapponendosi alla vita militare, qui rappresentata da Messalla, non mosso dall’ambizione, ma dalla gloria militare (motivo encomiastico). E già dalla prima elegia, si può notare come in Tibullo la vita privata sia preferita a quella pubblica, come, in altre parole l’otium sia il desiderio di una scelta, contraria all’impegno morale e poetico che l’appena conquistata pax augustea proponeva (la prima elegia viene pubblicata più o meno nello stesso periodo in cui Ottaviano assume il nome di Augustus.
LA REALIZZAZIONE DEL SOGNO D’AMORE
(I, 5 vv. 21 – 24; 27 – 32)
Rura colam, frugumque aderit mea Delia custos,
area dum messessole calente feret,
aut mihi servabit plenis in lintribus uvas
pressaque veloci candida musta pede
…
Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam,
pro segete spicas, pro grege ferre dapem.
Illa regat cunctos, illi sint omnia curae,
at iuvet in tota me nihil esse domo.
Huc veniet Messalla meus, cui dulcia poma
Delia selectis detrahat arboribus;
Coltiverò i campi e la mia Delia mi starà vicina, stando attenta alle messi, mentre sotto la calura del giorno, si trebbierà i grano nell’aia; oppure mi custodirà l’uva nei timi ricolmi, il limpido mosto spremuto agilmente coi piedi (…) Imparerà a offrire al dio dei campi l’uva per le viti, le spighe per le messi e il cibo per il gregge. Lei controlli l’operato di tutti, di tutto si occupi, e io sia ben felice di non contar niente in casa. Qui verrà il mio caro Messalla e Deloia colga per lui dolci frutti dagli alberi.
Donne romane
E’ questa l’elegia del tradimento, altro elemento topico della poesia elegiaca, in cui Delia preferisce al poeta un uomo ricco. Dopo la delusione/disperazione per l’abbandono, si rifugia nella tranquillità della vita rustica, ma il pensiero di lei torna ad ossessionarlo ed egli la vorrebbe vedere, appunto come testimoniano questi pochi versi, come uxor a fianco del suo vir, negli atteggiamenti femminilmente domestici, tanto in essi da poter apparire allo stesso Messala, cui può apparecchiare la mensa. E’ evidente anche qui l’impossibilità da parte del poeta di realizzare il sogno soprattutto per l’evidente contraddizione tra la figura virtuosa di una “moglie” e la cortigiana Delia che, al di là di ogni fatto autobiografico, ci dice come la poesia elegiaca abbia subito l’importante influenza di Catullo.
L’AMORE DIVENTA ETICA
(I, 2 vv. 67-76)
Ferreus ille fuit, qui, te cum posset habere,
maluerit praedas stultus et arma sequi.
Ille licet Cilicum victas agat ante catervas,
ponat et in capto Martia castra solo,
totus et argento contextus, totus et auro
insideat celeri conspiciendis equo,
ipse boves mea si tecum modo Delia possim
iungere et in solio pascere monte pecus,
et te, dum liceat, tenere retinere lacertis,
mollis et inculta sit mihi somnus humo.
Cuore di ferro fu colui che, pur potendoti avere, preferì, sciocco, star dietro ad armi e bottini. Spinga pure dietro a sé le schiere sopraffate dei Cilici, e faccia pure l’accampamento marziale del suolo conquistato e, rivestito interamente d’oro e d’argento, cavalchi un veloce destriero, facendosi notare da tutti. Per quanto mi riguarda, Delia mia, se solo potessi aggiogare i buoi avendoti vicina, e pascolare il gregge sul monte di sempre, dolce sarebbe per me dormire anche sull’arida terra, pur di poterti stringere a me teneramente.
Anche in questo passo Tibullo ripropone, come nelle altre elegie, il valore della vita rustica rispetto a quella della città che assume però, qui, una vera e propria valenza etica nella quale si sottolinea con forza la paupertas di contro alle divitiae, che la vita militare e la città offrono. Valore che si commisura, pertanto, in sottrazione piuttosto che in quelle virtù che Augusto propugnava per rinforzare il mos maiorum; il valore della campagna, già visto anche nelle Georgiche virgiliane non assume certamente una “valenza politica”, quanto piuttosto una scelta “singolare” che sembra corrispondere più al λάθε βιώσας, lathe biosas (vivi nascosto) d’epicurea memoria.
Carlo Gioja: Campagna romana (XIX sec.)
SCHIAVO D’AMORE
(1, 2 vv. 29-34)
Quisquis amore tenetur, eat tutusque sacerque
qualibet: insidias timuisse decet.
Non mihi pigra nocent hibernae frigora noctis,
non mihi, cum multa decidit imber aqua.
Non labor hic laedit, reseret modo Delia postes
et vocet ad digiti me taciturna sonum.
Chi è ostaggio d’amore vada pure dove vuole, sicuro e inviolabile; non deve temere insidie. Non mi fa male il gelo paralizzante di una notte d’inverno, né i rovesci d’acqua piovana. Non è questa fatica a nuocermi, purché Delia apra la porta e mi chiami facendo schioccare le dita, senza dire parola.
E’ questo il cosiddetto “servitium amoris”, in cui l’uomo innamorato segue fedelmente, pedissequamente la volontà della donna amata. Egli è schiavo; basta, come dice il testo, un semplice schiocco di dita per farlo accorrere. Quanto è lontano anche qui, il poeta Tibullo, dall’uomo integerrimo, virtuoso ma determinato (si veda Enea, pur con le sue complessità, come riesce a star fermo di fronte alla disperazione di Didone), che l’ideologia imperante cercava o cercherà di lì a qualche anno di rendere fattiva.
LA SOFFERENZA PER IL TRADIMENTO
(1, 5 vv. 16-20)
Omnia persolvi: fruitur nunc alter amore,
et precibus felix utitur ille meis.
At mihi felicem vitam, si salva fuisses,
fingebam demens, sed renuente deo.
Ho compito tutti i rituali: ora un altro gode del tuo amore e, beato, è lui che raccoglie il frutto delle mie preghiere. E io che, pazzo com’ero, m’immaginavo una vita felice, se fossi guarita; ma la divinità s’opponeva.
Altri elementi della poesia elegiaca rientrano nella lirica tibulliana: non possiamo dimenticare il paraklaysìthyron (lamento presso la porta chiusa) e il tradimento. Anch’esso può avere ascendenze catulliane, ma è descritto in modo estremamente più distaccato, senza quasi possibilità, in obbedienza, come si è detto, al genere più che al vissuto (non vuol dire che non ci sia la possibilità che non ci stato, ma che, anche se l’abbia vissuto, fosse filtrato letterariamente).
IL
DISTACCO
(1, 5 vv. 1-4)
Asper eram et bene discidium me ferre loquebar
at mihi nunc longe gloria fortis abest.
Namque agor ut per plana citus sola verbere turben,
quem celer adsueta versat ab arte puer.
Fui duro con te, dissi che avrei sopportato senza problemi il distacco, ma ora la presunzione di esser forte mi ha abbandonato. Mi trascino come una trottola che gira su un terreno piano sollecitata dalla sferza di un fanciullo veloce ed esperto.
Ed ecco la parola con cui la poesia elegiaca pone fine ad una storia d’amore: discidium, distacco separazione. Qui viene posta nella V elegia da parte di Tibullo e rappresenta, almeno sul piano poetico, la fine che che verrà mostrata nell’elegia successiva, con il quale si esplicita il tradimento di Delia verso il marito con Tibullo e quindi con la precettistica del tradimento, in cui a sua volta egli è caduto.
Nel 1 libro, come già detto, il romanzo per Delia è il nucleo centrale, ad esso si accompagna, rispettando tuttavia i topoi di una storia d’amore, la figura di Marato:
IL “DISCIDIUM” DA MARATO
(1, 9 vv. 39-56)
Quid faciam, nisi et ipse fores in amore puellae?
Sed precor exemplo sit levis illa tuo.
O quotiens, verbis ne quisquam conscius esset,
ipsa comes multa lumina nocte tuli!
Saepe insperanti venit tibi munere nostro
et latuit clausas post adoperta fores.
Tum miseri interii, stulte confisus amari:
nam poteram ad laqueos cautior esse tuos.
Quin etiam adtonita laudes tibi mente canebam,
et me nunc nostri Pieridumque pudet.
Illa velim rapida Volcanus carmina flamma
torreat et liquida deleat amnis aqua.
Tu procul hinc absis, cui formam vendere cura est
et pretium plena grande referre manu.
At te, qui puerum donis corrumpere es ausus,
rideat adsiduis uxor inulta dolis,
et cum furtivo iuvinem lassaverit usu,
tecum interposita languida veste cubet.
Che mai farei, se anche tu non ti fossi innamorato di una fanciulla? Mi auguro che, sul tuo esempio, sia frivola anche lei. Quante volte, perché nessuno conoscesse i vostri segreti, portandoti il lume, nel buio della notte ti sono stato io stesso compagno! Grazie a me, quando più non lo speravi, quante volte è venuta lei da te, nascondendosi, col capo velato, dietro i battenti della porta! Allora, sventurato, mi sono perduto, fidando ciecamente d’essere riamato: davanti ai tuoi lacci, potevo almeno usare cautela maggiore. Invece, con la mente ottenebrata, cantavo le sue lodi, e per me, per le Pièridi ora provo vergogna. Come vorrei che Vulcano bruciasse nell’impeto della fiamma quei canti e la corrente di un fiume li cancellasse. Tu, che pensi di vendere la tua bellezza e di ricavarne a piene mani un gran prezzo, sta’ lontano di qui. E di te invece, che con doni hai osato corrompere il ragazzo, rida senza rischi tua moglie tradendoti continuamente, e dopo aver sfiancato un giovane in amplessi furtivi, giaccia spossata con te, ponendo tra voi la veste.
Efebo nel museo archeologico di Istanbul
A questo giovane Tibullo dedica tre elegie, la IV, l’VIII e la IX ognuna di esse con un aspetto simile a quello per l’amore per Delia: l’innamoramento nella prima, con l’intervento del dio Priapo che insegna al poeta l'”ars amandi” un ragazzo; la seconda in cui Tibullo scopre che il suo ragazzo si sia legato sentimentalmente ad una puella Fòloe e di come egli, pur soffrendo, non gli neghi tale possibilità, osservando come l’adulescens stia diventando un vir; la terza in cui avviene il distacco, non per l’amore eterosessuale ma perché Marato si è venduto per denaro ad un altro uomo.
Tibullo cioé pretende da lui quello che aveva preteso da Delia, foedus e la fides e là dove esso viene meno non può che esserci il discidium il distacco, la fine. Il fatto che i percorsi possono essere omologhi ci fa sospettare di un “alessandrinismo” poetico: già la poesia neoterica aveva parlato di amori omosessuali, quindi non è da escludere che Tibullo abbia ripreso un genere e così come per l’amore etero così per l’omo non neghiamo possa averlo realmente vissuto, ma in lui diventa forma e poesia.
Quindi l’amore è il nucleo intorno cui volge la poesia tibulliana nel primo libro. Tuttavia altri temi sono presenti, tra i quali ci piace citare quello della morte, sebbene anch’esso sia intrecciato con la sua principale storia d’amore:
IL VAGHEGGIAMENTO DELLA MORTE DURANTE LA MALATTIA
(1, 3 vv. 1-30)
Ibitis Aegaeas sine me, Messalla, per undas,
o utinam memores ipse cohorsque mei.
Me tenet ignotis aegrum Phaeacia terris.
Abstineas auidas, Mors, modo, nigra, manus;
abstineas, Mors atra, precor: non hic mihi mater
quae legat in maestos ossa perusta sinus,
non soror, Assyrios cineri quae dedat odores
et fleat effusis ante sepulcra comis,
Delia non usquam, quae, me cum mitteret urbe,
dicitur ante omnes consuluisse deos;
illa sacras pueri sortes ter sustulit: illi
rettulit e triviis omnia certa puer;
cuncta dabant reditus: tamen est deterrita numquam
quin fleret nostras respiceretque vias.
Ipse ego solator, cum jam mandata dedissem,
quaerebam tardas anxius usque moras;
aut ego sum causatus aves aut omina dira
Saturnive sacram me tenuisse diem.
O quotiens ingressus iter mihi tristia dixi
offensum in porta signa dedisse pedem!
Audeat invito ne quis discedere Amore,
aut sciat egressum se prohibente deo.
Quid tua nunc Isis mihi, Delia, quid mihi prosunt
illa tua totiens aera repulsa manu,
quidve, pie dum sacra colis, pureque lavari
te, memini, et puro secubuisse toro?
Nunc, dea, nunc succurre mihi nam posse mederi
picta docet templis multa tabella tuis,
ut mea votivas persolvens Delia voces
ante sacras lino tecta fores sedeat
bisque die resoluta comas tibi dicere laudes
insignis turba debeat in Pharia.
Senza di me attraverserete le onde egee, Messalla, ma, che dio lo voglia, tu e la tua schiera di uomini lo farete almeno nel mio ricordo. Il paese dei Feaci mi trattiene, ammalato, in terre ignote; o Morte oscura, allontana da me la brama delle tue mani. Allontana, ti scongiuro, o Morte fosca: non ho qui una madre, che nella sua veste componga tristemente le mie ossa bruciate, né una sorella, che asperga le ceneri di profumi assiri e pianga davanti alla tomba con i capelli sciolti; in nessun luogo ho Delia, che si dice abbia consultato in precedenza tutti gli dei, al momento della mia partenza dalla città. Per tre volte tirò a sorte le tavolette sacre portate da un ragazzo; e per tre volte il fanciullo le dette risposte sicure. Tutto faceva presagire il mio ritorno: ma non smise mai di piangere e di pensare al mio ritorno con ansia. E io che la consolavo, pur avendo già dato gli ordini, preda dall’angoscia cercavo sempre nuove scuse per attardarmi. Ho tirato fuori come pretesto il fatto che mi avevano trattenuto gli auspici degli uccelli, o tristi premonizioni o il giorno sacro a Saturno. Quante volte, dopo essermi incamminato, ho detto che inciampando sulla porta avevo avuto un cattivo presagio. Nessuno osi allontanarsi contro la volontà di Amore, o sappia di esser partito nonostante il veto del dio. E ora, Delia mia, a che mi serve la tua Iside, o sistri di bronzo che la tua mano tante volte ha percosso; e il tuo bagnarti in acqua pura, mentre ti attendevi pianamente al sacro rito – ben lo ricordo – e il tuo dormire in un letto di casta solitudine? Ora, o dea, ora aiutami, posso infatti guarire, come provano i numerosi quadri appesi nei tuoi templi; che la mia Delia, sciogliendo le promesse votive, sieda con vesti di lino davanti alle tue sacre porte e, con i capelli sciolti, sia costretta ad innalzare le tue lodi, brillando in mezzo alla folla faria.
Passo di duplice importanza: la prima sta soprattutto nel concetto di “morte compianta”, che verrà ripresa con altra forza e con valore civile dal Foscolo dei Sepolcri; l’altra, più incisiva ad indicare la “posizione” di Tibullo nei confronti del regime augusteo è la presenza di Iside. La religione egiziana era entrata a Roma nel primo secolo a. C. e si era diffusa soprattutto tra gli strati bassi della popolazione; a tale religione si riferiscono anche i sistri (strumenti di bronzo il cui suono accompagnavano i riti dedicati a Iside) ed il fatto che Delia dovrà emergere tra le donne farie, cioè egizie. Si è che proprio negli anni di Tibullo che Augusto cerca con forza di frenare un sincretismo religioso che mal si addice con la volontà di restaurare il mos maiorum con la devozione agli dei tradizionali che presiedono all’Urbe e ne garantiscono la forza. Anche quando Tibullo si riferisce agli dei tradizionali non sceglie mai gli ufficiali, quanto quelli familiari, i Lari e i Penati, a sottolineare un riferimento più familiare che sociale e solcando una linea, se pur debole, tra la cultura ufficiale e quella di Messalla.
Altro tema presente è quello dell’età dell’oro, riportato a seguito del precedente, anche se quello per cui va giustamente famoso è quello della pace:
Rubens: Il tempio di Giano
INVETTIVA CONTRO LA GUERRA
(1, 10 vv. 1-14)
Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra
vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
haesura in nostro tela gerit latere.
Chi fu l’uomo che inventò le spade orrende? Quant’era feroce, e veramente di ferro! Allora nacquero per il genere umano le stragi e le guerre, e fu aperta alla morte una via più breve. O forse, pover’uomo, non ebbe colpa, e siamo noi a volgere al nostro male l’arma che lui ci diede contro le belve? E’ tutta colpa dell’oro: non c’erano guerre quando sulla mensa stavano coppe di faggio. Non c’erano fortezze né trincee, e il comandante del gregge prendeva sonno tranquillamente tra le sue pecore sparse. Fossi vissuto allora! Non avrei conosciuto le tristi armi del volgo, né sentito la tromba con animo trepido;ora mi trascinano alla guerra, e forse già qualche nemico porta le armi destinate a piantarsi nel mio fianco.
Risulta evidente che se il sogno di Tibullo è quello di vivere in campagna poveramente e tra le braccia della donna amata, tale utopia potrà avvenire solo con la pace. Non sono le armi a favorire la guerra, dice il poeta, ma l’oro, la brama di ricchezze a favorire la bellicosità tra gli uomini; il tema della pace, legato a quella della paupertas ci dà l’idea di come essa non sia solo un invito che ben può stare nell’alveo del progetto augusteo che si aveva in realtà chiuso le porte del tempio di Giano, ma una vera forza civilizzatrice il cui compito e quello di favorire la semplicità e l’amore.
Il secondo libro di Tibullo è composto da sei elegie, di cui ben tre diretti ad una donna, Nemesi (il cui significato dalla lingua greca è Vendetta), ancora sulla festa degli Ambarvalia (un’antica festa romana celebrata per purificare le messi e allontanare gli influssi cattivi), una per Cornuto e per Messalino.
Ragazza che scrive
Il III libro, come detto, fu in età umanista diviso in due libri:
- i primi sei sono firmati da un certo Ligdamo che riprende temi e situazioni tipicamente tibulliani; a questi fanno seguito un panegirico di Messalla, scritto intorno al 31 d.C. ed appare più una esercitazione di scuola che opera di un vero e proprio poeta;
- Il IV è più interessante: certamente sono tibulliani le 5 brevi liriche, sempre in distico elegiaco, in cui si racconta l’amore di Sulpicia per Cerinto; 6 invece sono proprio a nome di Sulpicia per Cerinto. Se fosse vera l’attribuzione di questi ultimi avremo l’esempio della prima poetessa latina di cui possediamo i testi.
SULPICIA: PROFESSIONE D’AMORE
(4, 7)
Tandem venit amor, qualem texisse pudori
quam nudasse alicui sit mihi fama magis.
Exorata meis illum Cytherea Camenis
adtulit in nostrum deposuitque sinum.
Exsoluit promissa Venus: mea gaudia narret,
dicetur siquis non habuisse sua.
Non ego signatis quicquam mandare tabellis,
ne legat id nemo quam meus ante, velim.
Sed peccasse iuvat, voltus conponere famae
taedet: cum digno digna fuisse ferar.
Finalmente è venuto l’amore e per me sarebbe più vergognoso averlo tenuto nascosto, anziché averne parlato con qualcuno. Commossa dalle suppliche delle mie Camene, Venere citerea l’ha portato da me e lo ha adagiato nel mio letto. Venere ha mantenuto la sua promessa: parli pure della mia felicità colui che ha fama di non averla mai provata. Io non vorrei affidare le mie parole a tavolette sigillate, perché nessuno deve leggerle prima del mio amato. Ma gioia è per me il peccato, sono stanca di recitare una parte di chiacchiere della gente: diranno che sono stata con un uomo degno di me e io di lui.
“Questa breve elegia di Sulpicia, la prima di quelle che costituiscono il suo piccolo canzoniere, è una vibrante professione d’amore, in cui la giovane dà espressione immediata alla sua gioia per la venuta dell’amore e la conquista dell’amato, una sorta di versione al femminile del topos dell’amator triumphans, ben attestato negli altri poeti elegiaci.” (Gian Biagio Conte)