Auguste Jean-Baptiste Vinchon: Cinzia e Properzio
Properzio è un poeta elegiaco, più o meno contemporaneo di Tibullo. Ma se quest’ultimo fece della sua poesia un mezzo attraverso cui cantare l’amore e la sua sofferenza d’amore, Properzio va oltre: infatti non solo rispetta il tema erotico, tipico di questa forma d’arte, ma l’impreziosisce con riferimenti dotti e mitologici che lo rendono più complesso del suo coetaneo ma anche più “gradito” all’entourage culturale di Augusto.
Biografia
Sesto Properzio nacque nel 49 a.C. da famiglia agiata, probabilmente ad Assisi, in Umbria. Venne pertanto coinvolto nelle conseguenze della guerra civile che si concluse con la battaglia di Azio; in particolare ricorderà come la sua famiglia subì le prescrizioni da parte di Ottaviano quando si scontrò con Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio. Perse il padre a 16 anni (quando prese, cioè la toga virile) e si trasferì a Roma, dove si legò ad una donna un po’ più grande di lui, Cinthia (dal nome Cinto del monte sacro ad Apollo). Tale figura femminile ci dice lo scrittore Apuleio fosse donna reale il cui nome vero è Hostia, presumibilmente discendente di un intellettuale, tanto da definirla puella docta. Lei costituì l’oggetto della sua passione e della sua poesia. Dopo la pubblicazione del primo libro, Properzio conobbe Mecenate ed altri importantissimi poeti, come Tibullo, Virgilio ed Ovidio. Non essendoci nelle sue poesie indizi riferibili dopo il 15, si pensa o che non abbia più pubblicato niente o che la morte lo colpì quand’era ancora giovane.
Edizione del 1743
Elegie
Properzio è autore di quattro libri di elegie.
Il primo libro, pubblicato nel 28 a. C., detto anche monòbiblos è composto da 22 componimenti, piuttosto brevi, quasi tutti dedicati a Cinzia, e presenta tutti i temi erotici legati alla forma elegiaca. Infatti la prima parola che si trova all’inizio dell’opera è proprio il nome della donna amata dal poeta:
CINZIA
(I, 1 vv. 1-17)
Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
Tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
ei mihi, iam toto furor hic non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores
saevitiam durae contudit Iasidos.
nam modo Partheniis amens errabat in antris,
rursus in hirsutas ibat et ille feras;
ille etiam Hylaei percussus vulnere rami
saucius Arcadiis rupibus ingemuit.
ergo velocem potuit domuisse puellam:
tantum in amore fides et benefacta valent.
in me tardus Amor non ullas cogitat artes,
nec meminit notas, ut prius, ire vias.
Cinzia per prima con i cari occhi mi prese, misero, / prima nessuna passione mi aveva sfiorato. / Mi spense allora Amore l’ardito lampo degli occhi, / mi premette sul capo i suoi piedi, / finché m’apprese a odiare ogni casta fanciulla, / perfido, e a vivere senza saper più come. / Già tutto un anno: non mi lascia questo folle desiderio, / costretto a vivere con avversi gli dei. / Ricordi, o Tullio, Milanione? Accettò ogni travaglio, e infine / spezzò la durezza ostile della figlia di Iaso. / Errava talvolta invasato per gli anfratti del Partenio, / e si scontrava, nel suo vagare, con irsute fiere; / una volta, percosso da un colpo della clava di Ileo, / pianse di dolore, ferito, tra le rupi d’Arcadia. / Così alla fine domò la veloce fanciulla: / tanto valgono in amore le suppliche e meritorie imprese. / Per me invece Amore indolente non trova rimedi / non sa più andare, come una volta, per le note vie.
E’ questo l’incipit della prima elegia, che assume certamente un valore programmatico per il monòbiblos: infatti tale libro appare come una sorta di bilancio del primo anno d’amore per Cinzia. Amore che verrà vissuto come furor, che acceca la voluntas del poeta e lo fa schiavo; per questo Properzio deve piegarsi al servitium amoris con tutto se stesso. Fino a qui nulla di nuovo rispetto ai topoi già visti nella poesia elegiaca e in special modo in quella di Tibullo. Tuttavia qualche novità la possiamo riscontrare: la prima è che il poeta sembra rivolgersi a qualcuno, in questo caso Tullio: è come se gli scrivesse (o gli parlasse) della sua storia con Cinzia; l’altro, più importante è il riferimento mitico (assente in Tibullo): Milanione era innamorato di Atalanta, figlia di Iaso, la quale rifiutava le nozze e sfidava i pretendenti alla corsa, in cui era imbattibile: Milanione la difese dal centauro Ileo, che voleva usarle violenza, e finalmente, con l’aiuto di Venere, riuscì a vincerla e a ottenerne la mano. E’ evidente che l’intento di Properzio è quello di rendere il carmen doctum per meglio emulare la poesia alessandrina e callimachea.
Talvolta il riferimento mitologico cessa d’essere un fatto erudito per sposarsi in modo mirabile al tessuto narrativo dell’elegia:
CINZIA DORMIENTE
(I, 3 vv. 1-10)
Qualis Thesea iacuit cedente carina
languida desertis Cnosia litoribus;
qualis et accubuit primo Cepheia somno
libera iam duris cotibus Andromede;
nec minus assiduis Edonis fessa choreis
qualis in herboso concidit Apidano:
talis visa mihi mollem spirare quietem
Cynthia consertis nixa caput manibus,
ebria cum multo traherem vestigia Baccho,
et quaterent sera nocte facem pueri.
Quale si giacque la donna di Cnosso, e la nave di Teseo svaniva, / sfinita e languida sulla spiaggia deserta, / e quale Andromeda, la figlia di Cefèo, al primo sonno / s’abbandonò, libera ormai dalle aguzze scogliere; / e quale la Baccante, stanca della corda assidua, /crolla a terra sull’erboso Apidano, / così mi apparve nel calmo respiro del sonno / Cinzia, la testa poggiata sulle mani abbandonate, / mentre traevo i miei passi ebbri per il modo vino / e nella notte tarda i servi agitavano le torce.
Qui i riferimenti mitologici sono ad Arianna, Andromeda e ad una Baccante: figure che “nobilitano” la figura della donna dormiente, sollevandola in un’atmosfera rarefatta, in cui il poeta sembra perdersi. Ma il suo perdersi è dettato anche dal suo vile atteggiamento, d’uomo ebbro e quindi terreno, che fa da contrappasso e meglio sottolinea l’area sognante dell’immagine. C’è infatti in Properzio una capacità di tratteggiare con pochi tratti delle poeticissime immagini, che talvolta si collegano in modo ardito con il resto del testo e rendono i testi properziani talvolta complessi.
Altro elemento assai presente nella poesia di Properzio è il “soggettivismo” che meglio appare laddove esso si sposa quasi “romanticamente” con la forza e la crudeltà della natura:
LA SOLITUDINE DEL POETA
(I, 17 vv. 1-18)
Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Nec mihi Cassiope salvam visura carinam
omniaque ingrato litore vota cadent.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti:
aspice, quam saevas increpat aura minas.
Nullane placatae veniet fortuna procellae?
Haecine parva meum funus harena teget?
Tu tamen in melius saevas converte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
An poteris siccis mea fata reponere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
A pereat, quicumque rates et vela paravit
Primus et invito gurgite fecit iter.
Nonne fuit melius dominae pervincere mores
(quamvis dura, tamen rara puella fuit),
quam sic ignotis circumdata litora silvis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?
E proprio perché ebbi l’animo di abbandonare / la fanciulla, ora io parlo ai solitari alcioni. / Né Cassipea vedrà più la mia nave intatta / mentre ogni presagio si dissolve sul lido inospitale. / Persino i venti sono favorevoli a te, lontana, o Cinzia: / osserva come l’aria risuona di funeste minacce! / Nessuna buona sorte verrà a placare la tempesta? / Questa minuscola sabbia coprirà il mio cadavere? / Tu tuttavia addolcisci i severi lamenti: / ti basti una notte di tormento e un mare avverso. / Avrai forse il coraggio di seppellire il mio corpo con occhi / asciutti, senza stringere nel tuo seno alcun mio osso? / Ah! Perisca chi per primo ha inventato le navi / e le vele, ed ha attraversato l’infido mare! / Non sarebbe stato meglio domare le abitudini della signora / (benché crudele, tuttavia fu rara fanciulla) / piuttosto che scrutare i lidi accerchiati da boschi sconosciuti / e ricercare nel cielo i desiderati figli di Tindaro?
E questo un frammento che rappresenta una sensibilità che più s’avvicina al gusto “moderno”: Cinzia per un suo tradimento lo ha abbandonato in un luogo deserto, dove non può che rapportarsi con gli alcioni solitari. Ma, come spesso accade nella sua poesia, la solitudine s’accompagna al pensiero di morte. Interessante da un punto di vista stilistico e l’incipit con la congiunzione Et, come a voler correlare i suoi versi con un suo precedente discorso fatto tra sé e sé: da qui il tono “emotivo” dell’intero passo.
Ma è altrettanto famoso e moderno è l’atteggiamento di gelosia che Properzio illustra con grande capacità poetica:
LA GELOSIA DEL POETA
(I, 11)
Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Baiis,
qua iacet Herculeis semita litoribus,
et modo Thesproti mirantem subdita regno
proxima Misenis aequora nobilibus,
nostri cura subit memores adducere noctes?
ecquis in extremo restat amore locus?
an te nescio quis simulatis ignibus hostis
sustulit e nostris, Cynthia, carminibus,
ut solet amota labi custode puella,
perfida communis nec meminisse deos?
atque utinam mage te remis confisa minutis
parvula Lucrina cumba moretur aqua,
aut teneat clausam tenui Teuthrantis in unda
alternae facilis cedere lympha manu,
quam vacet alterius blandos audire susurros
molliter in tacito litore compositam!
non quia perspecta non es mihi cognita fama,
sed quod in hac omnis parte timetur amor.
ignosces igitur, si quid tibi triste libelli
attulerint nostri: culpa timoris erit.
ah mihi non maior carae custodia matris
aut sine te vitae cura sit ulla meae!
tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes,
omnia tu nostrae tempora laetitiae.
seu tristis veniam seu contra laetus amicis,
quicquid ero, dicam ‘Cynthia causa fuit.’
tu modo quam primum corruptas desere Baias:
multis ista dabunt litora discidium,
litora quae fuerunt castis inimica puellis:
ah pereant Baiae, crimen amoris, aquae!
Mentre tu indugi, Cinzia, negli ozi di Baia, / là, dove lungo la riva d’Ercole s’adagia un sentiero, / e contempli quel mare che toccava il regno di Tesproto / e ora è vicino al nobile Miseno, / sorge per te un pensiero per me, che trascorro memori notti? / Resta all’estremo bordo dell’amor tuo uno spazio per me? / O un Non-so-chi, mio rivale, con simulati affetti, / ti ha già strappata, Cinzia, ai nostri canti? / Oh se piuttosto, fidando negli esili remi, / ti trattenessi in piccioletta barca sul lago di Lucrino, / o te tenesse prigioniera nell’onda lieve di Teutrante / la corrente, che facile asseconda il moto alterno delle braccia, / piuttosto che permetterti di udire i suadenti sussurri d’un altro, / mollemente adagiata sulla silente riva! / Così, se nessuno la sorveglia, la donna s’abbandona, / pronta a tradire, né più rammenta i fedeli giuramenti: / non perché mi è ignota la tua specchiata fama, io parlo, / ma perché in questa terra ogni amore è in pericolo. / Tu mi perdonerai, se una punta di tristezza / ti verrà dai miei versi: è colpa del timore. / Conta di più, per me, la cura di una madre amata? / Senza di te, ha senso la mia vita? / Tu sola sei la mia casa, Cinzia, tu sola i parenti, / tu sola gli istanti della mia letizia. / Se intristito verrò tra i miei amici, oppure lieto, / comunque sia, sempre dirò: «La causa è stata Cinzia». / Ma tu abbandona, e subito, questa corrotta Baia: / per molti questa spiaggia sarà la causa dell’addio, / questa spiaggia, da sempre nemica alle oneste fanciulle: / alla malora le acque di Baia, infamia dell’Amore!
Baia era una città termale, famosa per la vita dissoluta che vi si conduceva: Properzio è trepidante per teme che qui la sua donna, attratta dalle facili tentazioni, possa tradirlo. E’ diventato anche questo passo un “archetipo” della poesia erotica, ripreso ad esempio, da Boccaccio nelle sue Rime. Ma quello che qui più fortemente emerge è la paura per il mancato rispetto degli dei del comune amore: cioè, ci troviamo quasi in campo catulliano, dove l’amore è foedus et fides, a sottolineare l’importanza della lirica catulliana nell’esperienza elegiaca.
Il secondo libro, pubblicato nel 25 a. C. o insieme al terzo nel 22 a.C., è composto da 34 elegie, che rispecchiano il mutamento avvenuto nella vita e nella posizione di Properzio rispetto al clima culturale romano. Infatti il successo del monòbiblos aveva fatto avvicinare il poeta umbro agli ambienti ufficiali augusteo, diventando un protetto di Mecenate. Ne sono testimonianza la prima elegia, in cui Properzio si rivolge a Mecenate, proclamando la sua inadattabilità a percorrere le strade dell’epica:
LA RECUSATIO
(II, 1)
…..
sed neque Phlegraeos Iovis Enceladique tumultus
intonet angusto pectore Callimachus,
nec mea conveniunt duro praecordia versu,
Caesaris in Phrygios condere nomen avos.
navita de ventis, de tauris narrat arator,
enumerat miles vulnera, pastor ovis;
nos contra angusto versantes proelia lecto:
qua pote quisque, in ea conterat arte diem.
…
Ma le battaglie flegree di Encelado e di Giove / non potrebbe intonare Callimaco col suo corto respiro, / non si addice alla mia vena celebrare col duro verso dell’epica / la gloria di Cesare, fino ai suoi avi frigi. / I venti racconta il nocchiero, e l’aratore i buoi; / il soldato enumera le ferite, il pastore le pecore; / io, le battaglie che si combattono in un letto angusto: / impieghi ciascuno la sua giornata nell’arte che conosce.
E’ questa la “recusatio” che l’intellettuale Properzio rivolge a Mecenate e di conseguenza ad Augusto sulla poesia celebrativa, che, certamente non può essere né elegiaca, né, per conseguenza, erotica. Tale affermazione trova la sua forza nel sottolineare come il suo poeta di riferimento sia Callimaco, dal “corto respiro”. Ciò significa una poesia dotta, raffinata, con arditi passaggi (che in questo libro si amplificano) che chiedono più che disposizione emotiva, capacità critica da parte del lettore. Infatti non bisogna dimenticare che dietro l’apparente “disimpegno” vi è un profondo labor limae con cui Properzio cerca di raggiungere la perfezione stilistica.
L’anfiteatro augusteo
Come abbiamo visto nell’elegia precedente i riferimenti alla corte augustea non mancano, foss’anche per recusare l’impegno epico, ma anche per ringraziare Augusto che, abolendo la legge contraria al celibato, non obbliga Properzio a lasciare la sua amata Cinzia, che sarà ancora la protagonista di questo libro. Infatti in questo secondo libro troviamo ancora la sua presenza, con i suoi amori, rifiuti e abbandoni, ma troviamo anche un’esaltazione all’operato di Augusto attraverso la figura retorica della preterizione sempre nella prima egloga ed una poesia d’occasione riguardante l’inaugurazione del portico intorno al tempio palatino.
Il terzo libro, è pubblicato nel 22 a.C. ed è composto da 25 elegie: l’elemento erotico è fortemente ridimensionato, ed anche il poeta dà l’addio alla donna amata, l’abbandono definitivo, il discidium appunto non solo verso Cinzia, ma verso quello che lei ha rappresentato: la poesia d’amore.
DISCIDIUM
(III, 25)
Risus eram positis inter convivia mensis
et de me poterat quilibet esse loquax.
Quinque tibi potui servire fideliter annos:
ungue meam morso saepe querere fidem.
Nil moveor lacrimis: ista sum captus ab arte;
semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.
Flebo ego discendens, sed fletum iniuria vincit:
tu bene conveniens non sine ire iugum.
Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,
nec tamen irata ianua fracta manu.
At te celatis aetas gravis urgeat annis
et veniat formae ruga sinistra tuae!
Vellere tum cupias albos a stirpe capillos,
a! speculo rugas increpitante tibi,
exclusa inque vicem fastus patiare superbos
et quae fecisti facta queraris anus!
Has tibi fatales cecinit mea pagina diras:
eventum formae disce timere tuae!
Ero oggetto di riso nei conviti, davanti a tavole imbandite / ogni pettegolo poteva dire tutto di me. / Per cinque anni ho potuto farti da schiavo fedele: / rimpiangerai questa mia fedeltà, mordendoti le unghie. / Alle lacrime non mi non mi commuovo: queste tue arti mi vinsero una volta; / tu, Cinzia, piangi solo per prendere in trappola. / Io piangerò nel lasciarti, ma l’offesa è superiore al pianto: / tu non vuoi che procediamo al giogo, che a noi due ben s’adattava. / Addio, soglia piangente per le mie parole, / e tuttavia la tua porta non fu mai colpita dalla mia mano irata. / Tu nascondi gli anni, ma che l’età incomba grave su te, / e giunga alla tua bellezza una ruga funesta! / Che ti venga la voglia di strappar dalla radice i capelli bianchi, / ma che lo specchio, ahimé, ti additi implacabile le rughe, / che tu respinta, soffra gli orgogliosi disdegni / e da vecchia ti dolga di subire quello che hai fatto agli altri! / Queste fatali imprecazioni cantano a te i miei versi: / impara a paventare la fine della tua bellezza!
Ricordiamo infatti che in questo libro il nome della donna è citato soltanto per tre volte. Il resto delle elegie, alcune di carattere celebrativo verso Augusto, insistono sulla poetica properziana, il suo preferire la poesia alessandrina e Callimaco alla poesia epica. Altre ancora affrontano temi diatribici, quali il rifiuto delle ricchezze, l’avidità causa di guerra, la filosofia come studio per la maturità e via dicendo (la diàtriba era una forma di conversazione o conferenza di contenuto filosofico, diretta dagli antichi filosofi a un pubblico non specialistico quindi di tono più popolare e rivolta con preferenza a questioni etiche).
Estremamente più impegnativo è il quarto libro, pubblicato nel 15 a.C., comprendendo solo 11 elegie, che tuttavia hanno respiro più lungo di quelle dei libri precedenti. Abbandonata definitivamente la poesia erotica e accettando la linea culturale di Mecenate, egli ora decide di raccontare gli aitìa (le cause) delle solennità romane (argomento che verrà ripreso nei Fasti di Ovidio); ben in 5 di queste elegie, chiamate Elegie Romane, immagina di accompagnare un hospes mostrandogli, in una specie di passeggiata archeologica, le umili origini della potenza romana contro lo splendore dell’oggi. Anche altre elegie, come quella dedicata a Cornelia, madre dei Gracchi, può rientrare in queste elegie, pur non avendo carattere eziologico.
Le altre sembrano non avere rapporto con questo gruppo di elegie: in una di esse si racconta un sogno del poeta che rivede Cinzia, l’ottava torna ai vecchi temi della gelosia dell’amata, le rimanente si soffermano su temi amorosi.
Esemplare fra l’elegie romane, e forse la più bella, è quella dedicata alla Rupe Tarpea, sita sul Campidoglio:
LA STORIA DI TARPEA
(IV, 4)
Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum
fabor et antiqua limina capta Iovis.
Lucus erat felix hederoso conditus agro,
multaque nativis obstepit arbora aquis,
Silvani ramosa domus, quo dulcis ab aestu
fistula poturas ire iubebat ovis
hunc Tatius fontem vallo praecingit acerno,
fidaque suggesta castra coronat humo.
….
Hinc Tarpeia deae fontem libavit: at illi
urgebat medium fictilis urna caput.
….
Vidit harenosis Tatium proludere campis
pictaque per flavas armalevare iubas.
Obstupuit regis faciet et regalibus armis,
interque oblitas exciditis urna manus.
La selva tarpea e di Tarpea l’infame sepolcro / dirò, e la conquista dell’antico tempio di Giove. / C’era un bosco rigoglioso, celato in un anfratto ricco d’edera, / alberi fitti mormoravano con l’acque di una fonte, / ramosa dimora di Silvano, dove dolce la zampogna / invitava all’abbeverata le greggi, lungi dalla calura. / Questa fonte Tazio cinge d’un vallo d’aceri, / e la circonda con un argine di terra, per renderla sicura. / ….. / Da quella fonte, Tarpea attinse l’acqua per liberare alla dea / Le pesava sul capi un’anfora d’argilla. /….. / Vide Tazio addestrarsi sul terreno sabbioso, / sopra la fulva criniera del cavallo brandire le armi dipinte. / Rimase colpita dall’aspetto del re e dalle armi regali, / e l’anfora le cadde dalle mani obliose.
Tarpea gettata dalla rupe
Tarpea con preghiere cerca d’allontanare i pericoli dal re Sabino, e così piange:
«Ignes castrorum et Tatiae praetoria turmae
et formosa oculis arma Sabina meis,
o utinam ad vestros sedeam captiva Penatis,
dum captiva mei consipcer esse Tati!
Romani montes, et montibus addita Roma,
et valeat probo Vesta pudenda meo:
ille equus, ille meos in castra reponet amores,
cui Tatius dextras collocas ipse iubas!…»
O fuochi del campo nemico, o tende della schiera di Tazio, / o belle agli occhi miei armi sabine, / oh se prigioniera sedessi davanti ai vostri Penati, / purché prigioniera del mio Tazio! / Addio, colli romani, e tu, che sui colli sorgi, addio, / addio Vesta, che del mio fallo dovrai arrossire: / quel cavallo riporterà nel suo campo il mio amore, quello / a cui Tazio riporta a destra la fulva criniera.
Ella si offre, come riscatto per il “ratto delle Sabine” e prosegue nel suo sogno; e proprio mentre sta per addormentarsi, la dea Vesta, tradita dalla sua vestale, le prepara la fine. E’ festa in città e Romolo ordina alle guardie di riposarsi. Tarpea. Allora, apre le porte al nemico, in pegno dell’amore del re Sabino. Il quale così, infine, la ripagò:
«Nube» ait «et regni scande cubile mei!»
dixit, et ingestis comitum super obruit armis.
Haec, virgo officiis dos erat apta tuis.
«Sii la mia sposa» dice «e ascendi il talami mio!». / Disse, e la fece coprire con le armi ammicchiate dei compagni. / Era questa, o vergine, la dote conveniente ai tuoi servigi.
Questa elegia ci offre il destro per far capire esattamente come venivano sviluppate tali elegie: nella prima parte si invita il lettore a conoscere il perché e come è nato un particolare luogo o monumento e quale sia l’origine del suo nome. Quindi procede con la storia di esso, ricca di riferimenti mitici ed archeologici.
L’uccisione di Tarpea
In questa elegia, tuttavia, prevale ciò che più gli è congeniale: la poesia d’amore. Infatti più che interessargli il luogo in sé, le falde del Campidoglio, è l’ambigua storia d’amore: certo Tarpea è colpevole di aver tradito la patria, ma se colpa c’è stata, questa è dovuta al furor d’amore che l’ha conquistata. Infatti il modo in cui chiude l’elegia non è di facile interpretazione: iniusta sors quella di Tarpea; un vero Romano l’avrebbe definita iusta, colpita “giustamente”, per il suo tradimento verso la patria, ma si potrebbe definire anche “ingiusta”, perché vittima di un altrettanto tradimento, quello di Tazio, che ha approfittato della debolezza della donna, ma soprattutto perché vittima d’amore.
Quello che occorre ancora sottolineare è che la poesia di Properzio ha avuto maggiore importanza per la letteratura contemporanea (ci piace pensare a Thomas Ernst Pound autore di tradimenti/rifacimenti tratti dal secondo e terzo libro delle elegia properziane); ciò non toglie che, nel leggere il poeta umbro dobbiamo liberarci dallo schermo “romantico” che tende ad identificare vita e poesia; qui forse l’identificazione è da trovare a membri opposti poesia e vita: per Properzio tutto ciò che vive viene “tradotto” poeticamente, in una letteratura fatta a sua volta di tutti i poeti che lo hanno preceduto: per questo la sua poesia è così ricca di riferimenti e di trapassi arditi: è infatti poesia pura.