SERGIO ATZENI

Accadde oggi. 6 settembre 1995: muore Sergio Atzeni | Cagliari - Vistanet

Sergio Atzeni

Sergio Atzeni nasce a Capoterra nel 1952 e vive la sua infanzia nella città di Cagliari. Si trasferisce a Orgosolo, dove frequenta le scuole medie per far ritorno a Cagliari dove studia nel liceo Siotto e dove s’iscrive nella facoltà di filosofia, senza mai riuscire a laurearsi.

Le lotte politiche dei primi anni Settanta lo vedono protagonista sia da un punto di vista di partecipazione agli eventi che anche nell’isola hanno caratterizzato quegli anni, sia come base su cui iniziare un discorso intellettuale che si concretizza con Violenza e canto per il Cile (mix di recitazione e canto) e Quel maggio 1906. Ballata per una rivolta cagliaritana messo in scena nel 1976 e quindi pubblicato in volume.

Quel maggio 1906 - Libri Sardi

Sono questi ancora testi ingenui, in cui l’intento dimostrativo prevale su quello propriamente letterario, ma sono altresì testi in cui comincia la maturazione anche stilistica di Atzeni, quel suo frantumare la frase, l’articolare il discorso in quadri scenici che saranno ancora caratteristici nell’Atzeni maggiore.

Sempre nel 1976 comincia a collaborare a L’Unità nella sua redazione di Cagliari, a Rinascita sarda e a La Nuova Sardegna. Quel lavoro giornalistico gli serve per immergersi nei problemi della città, per coglierne gli aspetti evoluzionistici e per mettere in risalto le classi più disagiate della città.

Tuttavia l’instabilità del lavoro giornalistico, l’esigenza di dare uno sbocco professionale alla sua vita lo fanno piegare verso forme professionali che, se pur non gradite sono “sicure”. Vince un concorso all’ENEL e lì lavorerà per dieci anni, fino al 1986.Palazzo Enel, Gigi Gho, Cagliari, Sardinia, designed 1947, completed 1961.

Palazzo dell’Enel a Cagliari, costruito nel 1948

La scrittura dunque sarà per lui uno sfogo necessario, ma nel contempo inseguita con metodo, con rigore, sapendo che essa non è risposta immediata dell’io, ma ricerca anche della parola, capace di rendere lo spirito di un’intera storia e dell’insieme del popolo che la fa e la vive.

Nel 1978, in collaborazione con la moglie Rossana Copez, dà vita alla raccolta Fiabe sarde, e nel 1981 manda, quasi per gioco, un racconto giallo al “Mystfest” Gli amori, le avventure e la morte di un elefante bianco, pubblicato poi tra i gialli della Mondadori.

E’ del 1984 Araj dimoniu (ripubblicato da Sellerio nel 1996 nel volume Bellas mariposas col titolo Il demonio è cane bianco) prova nella quale, per la prima volta, Atzeni usa la “sua lingua” disadorna, mescolata tra tradizione letteraria, sardo, spagnolo, in un “pastiche” tipico della sua capacità di mescolare registri stilistici diversi.

La scoperta di Atzeni autore avviene, tuttavia, nel 1986, col balzo dalle piccole case editrici sarde ad una nazionale, la Sellerio di Palermo. Il grosso della critica e del pubblico sembrano per un momento non accorgersi del romanzo Apologo del giudice bandito, ma egli intanto si costruisce la sua vocazione di scrittore di “nicchia”, di cui lo stesso Atzeni è consapevole, in quanto autore “difficile” che si segnala per la struttura compositiva e per l’ardimento stilistico della sua prosa.

La motivazione del suo primo romanzo importante ce la offre egli stesso:

Raccontare Cagliari è stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti. Avevo notato che nei giornali, in televisione, quando si prendevano descrizioni di Cagliari, o di alcune zone di provincia, si finiva sempre per citare autori non sardi, come se non ci fosse una descrizione di Cagliari o del Campidano nella nostra letteratura. C’è molto di più sulla Barbagia, mentre nel Sud c’è pochissimo. Ad un certo punto mi è sembrato che non ci fossero descrizioni di Cagliari fatte da scrittori locali. Mi ha fatto pensare a scrivere un racconto dove ci fosse qualche riga che descrivesse la città non dal punto di vista esterno, di chi viene in visita, ma dal punto di vista interno, di chi ci abita.

Nel contempo Atzeni ha voluto in qualche modo sottolineare il dato fantastico che egli dà alla sua storia: l’Apologo del giudice bandito infatti, pur partendo da un dato storico (il processo alle cavallette tenuto a Cagliari nel 1492) mescola poi questo dato con la fantasia, dando vita quindi ad un racconto in cui si spezzano, si riallacciano, si scompongono dati fino a dar vita a un nuovo possibile intreccio.Amazon.it: Apologo del giudice bandito - Atzeni, Sergio - Libri

Il romanzo è ambientato nella Sardegna del 1492 devastata dall’ennesima invasione delle cavallette e dall’oppressione spagnola, mentre i sardi sono ridotti a schiavi o nascosti nelle montagne. E’ il potere, costituito in questo caso dal vicerè Don Ximene e l’arcivescovo Gabriel Cardano,  che istituisce un delirante processo contro le cavallette al fine di placare l’ira e la paura popolare. Durante il processo e l’assurda condanna si intrecciano le vicende di vari personaggi, grassi e stupidi baroni spagnoli, la schiava Juanita indomita ed in fuga per difendere la sua virtù e quel poco di libertà, bambini irriverenti che fanno dispetti a gesuiti avidi e condannati a condannare delle bestie, sardi saggi e conoscitori del futuro ed il giudice, catturato, gettato nel pozzo ma anche da là in grado di fare qualcosa. I personaggi più che il processo o meglio, l’auto da fé, sono i veri protagonisti e motori delle vicenda: la maggior parte di essi sono sempre in moto, un moto continuo, accelerato che si fa via via sempre più frenetico e che li porta a non andare da nessuna parte. Ma se la follia si muove vorticosamente nel tentativo di risolvere l’irrisolvibile, Itzoccor, il giudice bandito del titolo, prigioniero sul fondo del pozzo del palazzo, è immobile, nutrendosi di topi e giocando a shah (i moderni scacchi): è lui a porre un punto alla vicenda a condurla verso la sua inevitabile conclusione.
 

L’AUTO DA FE’ 

Un fascio di luce cala dal lucernaio su uno scrittoio nero. Padre Gabriel Cordano leva il bicchiere ai raggi del sole, che suscitano bagliori «Ave color vini clari…» sussurra e beve lento, sorso a sorso, gli occhi marrone vanno dal vino dorato nel vetro verde scuro ai codici custoditi nelle teche di argille perché l’umidità della città non li faccia ammuffire.
Sullo scrittoio uno scrigno giallo e azul e del maestro Manuele di Antiochia. Sulla ribalta e dipinta una natività, la chioma della vergine è una cometa. Padre Gabriel estrae un foglio bianco. Una delle copie di lettere del viceré perdute da chissà chi davanti alla porta della cella. La prima lettera, erano passati 30 giorni dall’arrivo a Caglié quando l’ha trovata. Trenta giorni. Il tempo di capire che “Gabrielito carissimo” non avrebbe usato il tribunale come arma vicereale, com’era stato in precedenza. Gabriel legge con gli occhi “beffardo e incostante, contrario per indole qualunque tema sia in questione, portato per natura alla loquela di false opinioni, dedito a consorterie clandestine, licenzioso”.
Il Monaco conserva il foglio nello scrigno. “Manca soltanto regicida” pensa “i malvagi usano le parole per confondere il vero, ma le parole bene usate stringeranno i colpevoli in gabbie più ferree delle vergini chiodate…”
Davanti a una croce alla sardesca, nera e rozza, senza corpo del Cristo né chiodi né spine, nient’altro che legno nero, Gabriel prega: «Fac me cruce custodiri, morte Cristi premuniri, confoveri gratia, quando corpo morietur fac un animae donetur paradisi gloria».
Con la mano si segna. Esce dalla cella. Il corridoio è buio.
Scende, poi sale, per gradini per gradini alti e stretti, scivolosi.
Svolta una, due e tre volte.
Cammina veloce come conoscesse il tragitto a memoria e l’avesse già percorso molte volte come oggi, senza torcia, come vedesse al buio.
Entra nell’aula da una porticina nera.
Ai lumi delle candele la sua ombra si allunga sulle pareti. Le gambe paiono quelle di un gigante. Spariscono poi riappaiono più lunghe, mostruose.
Avanza fino allo scranno del giudice. Guarda le croci rosse dei sambenitos fra le fiamme. China il capo. Allunga le mani sui fianchi.
«In piedi!» intima la voce profonda di un consultor. Sotto le arcate che già il comando, seguito dallo strascichio di piedi degli uomini che si sollevano dagli scranni. Le fiamme delle candele vacillano anche se la porta e le finestre sono tutte chiuse.
Don Ximene guarda il crocifisso castigliano che sovrasta il giudice: Cristo e d’argento, grande come un uomo vero, gli occhi sono zaffiri, dalle ferite colano scie di rubini, la croce è di pece nere come la notte, scintillante alle fiamme, affissa al muro su un letto di seta rossa. Le candele vacillando animano l’ombra, l’uomo d’argento si muove come tentasse di strapparsi alla croce. Nell’anima di Don Ximenes si insinua un brivido di paura. Ha la bocca secca.

«Noi, Santissimo Tribunale, giudichiamo la locusta che ha portato fame e pestilenza regno, miseria e penuria ai rifugi dell’uomo e alle casse dell’ordine, malvagità insensatezza al cuore degli umili e dei potenti». La voce di padre Gabriel è neutra né rabbiosa né festante, severa, voce di giudice. Eppure Don Ximene pensa: “Ne hai architettato una delle tue, Cordanino…”.

«Sia introdotto l’accusato!» Tuona la voce profonda di un consultor. Don Ximene sobbalza sul seggiolone. «La locusta qui? Come? Qui? Sei pazzo, Cardano!»

I cursores spalancano la porta, il sole irrompe nell’aula del giudizio, cancella ombre e candele. Il bianco della porta acceca.  Al centro appaiono quattro figure scure che avanzano, entrano nell’aula, portano sulle spalle due pertiche parallele che sorreggono una cesta di giunchiglia in forma di cassa da morto. I portatori sono avvolti in quattro sambenitos. Si fermano e depongono la cesta a un metro dalle narici viceregie. Don Ximene guarda. Migliaia di locuste, nere, marce, in una poltiglia agitata da piccole onde provocate dal trasporto sulle spalle dei portatori.
Emana tanfo di morte.
Auditores, vara, cursores, qualificatores, dimentichi della disciplina virtuale, stingono il naso con dita robuste.
«Allora sarà chiamato soltanto Salomone» recita senza voce l’arcivescovo «allorché avrà consegnato il Regno a Dio Padre gli avrà spogliato ogni principato e potestà. Bisogna ch’egli regni finché ponga nemici sotto i suoi piedi e distrugga l’ultimo nemico la morte» ma la puzza raggiunge anche don Antogno. Si interrompe, perde il filo, tace. Le mani corrono al naso, lo chiudono e tentano di nascondere la danza selvaggia della guancia, l’occhio immobile da assassino.
Padre Gabriel ha le mani ferme lungo i fianchi, non si è mosso. Piccoli cilindri di farina impastata con acqua di rose son volate da una piega del sambenito e ci sono infilati nelle radici per difenderle a dovere, mentre tutti guardavano la porta aprirsi.
Don Ximene non ha visto il trucco né lo immagina. Ma per non essere da meno di Cordano tiene le mani ferme sul ventre debordante. Resiste alla tentazione crescente di sollevarle verso il naso.
Il viso viceregio da roseo si fa gessoso. Gli occhi sbiancano denunciando un imminente maldiventre.
Un gesto del giudice allontana il il mefitico imputato, capace di superare farina e acqua di rose ed evita per un pelo i conati dell’eccellentissimo viceré.
I cursores spalancano le finestre. L’aria esterna disperde il tanfo annidato nell’aula del giudizio, ma non del tutto.
Il colorito di Don Ximene da bianco terreo si fa rose e subito rosso fuoco d’ira. “E’ tuo, il nodo che annodi, Cordanino” pensa “ti scuoierò vivo, prima di bruciarti”.
I portatori della cessa di locusta putrefatta escono nel chiostro.
I baroni sventolano fazzoletti profumati.
Donna Antonietta Zepita annusa un sacchetto di lino pieno di foglioline di menta fresca e fiori secchi di lavanda: schiacciando con le dita i profumi si mescolano.
Al primo passaggio nel chiostro “di tutta quella innominabile schifezza”, così l’ha battezzata, la nobildonna è svenuta a causa del fetore.
Per fortuna Donna Sibilla Cruz porta con sé decine di sacchetti di foglie fiori profumati perché detesta gli odori della città in cui vive. Ha soccorso Donna Antonietta con comprensione affettuosa.
Don Rodrigo Curraz chiede a voce alta: «Hanno raccolto le colonie di tutto il Campidano? E perché?»
Don Jaume Zitrelles gli affibbia un calcio nel deretano, fintamente scherzoso, in realtà sono robusto e dato per far male  e commenta: «Non cercate Rodrigo Curraz, per buona educazione, pure se figlio di vicerè…»
Rodrigo accena sì s’ con la testa, sorride, come fosse contento dei fatti e delle parole.
A Don Flaviano Medina , sottointendente fiscale, il gioco è piaciuto e decide di dare anche lui un calcio nel didietro all’erede di una gloriosa famiglia di conquistadores, i grandi Curraz, i potenti Curraz. Colpisce.
L’erede di tanta gloria si volta, vede chi è stato, ride nuovamente ma si direbbe meno contento.
Donna Antonietta si chiede se non sia il caso di svenire di fronte a tanta volgarità maschile e decide di non farlo perché sono passati pochi istanti dallo svenimento precedente.
Donna Sibilla Cruz guarda Jaume con una sforza con una smorfia di disprezzo: “Un tempo mi faceva pena” pensa “ora fa schifo, soltanto schifo… Cosa significa figlio? Sibilla Cruz non ha figli, uno che ebbe si è trasformato in bestia crescendo di statura…”.
IS ARRIORESUS: LE ISTITUZIONI SPAGNOLE IN SARDEGNA: L'INQUISIZIONE E GLI STAMENTI

Is arrioresus (tribunale spagnolo dell’Inquisizione)

Si può parlare a proposito di questo brano di un quadro, il centrale, quello intorno al quale si snoda la vicenda.  Infatti il primo importante romanzo di Atzeni porta già in luce la caratteristica della sua tecnica narrativa che qualcuno ha definito con il termine di frammentarietà. Si potrebbe forse dire, più giustamente, che tale spezzettatura sia dovuta alla presentazione “contemporanea” di tutti i livelli sociali della Cagliari (Caglié) del tempo, tempo in cui navi spagnole conquistavano le Americhe, lasciando in stati vassalli personaggi che Atzeni presenta in modo caricaturale, anche se tale caricatura sembra essere più vera di una descrizione naturalista. Infatti, accanto a questo episodio, ne troviamo altri, quale quello di bambini irriverenti che riescono a mettere una corda sul membro di un religioso o di un giovane che, per i bei seni di una ragazza, ingurgita non so quanta zucca fritta, o di un povero leccapotenti smerdato in testa da un cavallo.

Ma il romanzo apre le vie per uno sperimentalismo letterario che avrà grandi frutti nella narrativa sarda e non solo:

ITZOCCOR E DON XIMENE

«Itzoccor Gunale. Benvenuto a Caglié» saluta Don Ximene in tono un po’ isterico mentre muove nell’aria le dita ossute, rami di mandorlo invernali, stridenti coll’enorme corpo viceregio, disegnando piccole forche e nodi scorsoi per intimorire il prigioniero.
«La volpe…» dice Don Ximene intorno irridente. «Pure sei caduto nella rete…»
Il viceré è gioioso, ha catturato il bandito più temuto del viceregno. L’osserva e pensa: “L’hanno chiamato giudice e volpe… I baroni di Caglié lo temono come fosse Satana in persona… gran cagoni… El rey mi premierà… Oro…».
Itzoccor Gunale odia gli l’istrangiu, lo straniero, con lo stesso odio intenso e freddo di suo padre di tutti i Gunale prima di loro; odio e balentia dei Gunale molte volte raccontati, sui monti.
Il prigioniero è piccolo di statura, scuro di pelle, ha barba nera e riccia, occhi chiari come tuorlo d’uovo, duri come pietre.
Don Ximene sorride. «Dimmi, merdoso, perché ti facevi chiamare giudice? Non appari come monaco, hai piuttosto fama da assassino… Perché giudice? In memoria dei vecchi tempi? Tu saresti il Giudice? Il grande capo: guarda un po’: uno dei tuoi ti ha venduto. Uno dei tuoi. Ti hanno venduto per tre vacche e dodici starelli di grano… Se sei giudice, giudica: è il giusto? Non li condanni?»
«Giudice altri l’hanno detto, non io. Tu, invece, sei detto cane, e sei creatore di giuda, biscia velenosa…»
Lo staffile apre sulla guancia del prigioniero una ferita larga un dito dal lobo destro al mento, di carne viva, il sangue cola dai ricci neri al pavimento di chiaro legno libanese della gran sala vicereale delle udienze dove il viceré ha voluto incontrare per la prima volta il prigioniero appena catturato, per impressionarlo con la visione della propria potenza e ricchezza.
Il prigioniero si piega. E’ più basso di Don Ximene di una testa intera, come possanza è secco un quarto di viceré. Ha le braccia inchiodate dietro la schiena da una gabbia di ferro. Gabbia uguale gli inchioda le caviglie. Guarda gli occhi grigi, sfuggenti dell’istrangiu. Disprezza.
«Colpisci» ordina Don Ximene.
Terencio, fermo, preso nei ricordi di Luis, il miglior amico, e di Azù, forse più di Luis… colpisce con la mazza ferrata sulla schiena del prigioniero che cade faccia a terra.
Il viceré si avvicina finché l’unico oggetto nella visuale del caduto sono gli stivali lucidi di grasso.
«Omine, bàa» sussurra il prigioniero e sputa. Una chiazza gialla vola sulla scarpa. La frusta di Don Ximene sferza come pioggia di marzo la schiena e le braccia, e cattura la caviglia di Itzoccor con un laccio, la solleva, scaraventa il prigioniero addosso uno scranno di legno massiccio che cadendo al suolo rintrona in tutto il palazzo vicereale.
Don Ximene si abbatte su una sedia, affanna, sbianca in viso, cerchi neri appaiono attorno agli occhi.
“I colori della morte” pensa Terencio, accorre.
Il padrone lo ferma con un cenno della mano: «Raccogli il merdoso» mormora rauco «gettala nel pozzo non voglio più vederlo».
Terencio trascina fuori il prigioniero.
Il vicerè, solo, prima sorride, la testa si annebbia, poi chiude gli occhi, rantola.

Leonardo Alagon: nobile spagnolo in Sardegna

Afferma il critico letterario, Giuseppe Marci: “Atzeni in un italiano scabro e disseccato introduce elementi lessicali tratti dalla lingua spagnola che banalmente potremmo dire coerenti rispetto alla situazione storica cui fa riferimento L’apologo del giudice bandito, o, forse meglio, possiamo vedere come appartenenti all’universo linguistico sardo, retaggio di una dominazione certo dolente sotto il profilo politico, e tuttavia feconda (…) sotto quello della cultura. E introduce la lingua sarda. Un sardo che farebbe inorridire i puristi, come comanda il loro destino condannati a cercare in eterno una improbabile patente di nobiltà del linguaggio. E’ la scrittura che rende nobile una lingua, la più pura spuria e plebea, lingua dei bassifondi e delle strade del porto, lingua dell’abiezione della rissa, delle supreme passioni, dei traffici leciti e dei commerci di contrabbando, di una città levantina che a nessuno ha mai chiesto la genealogia della casata ma tutti ha accolto, navigatori e mercanti, santi e avanzi di galera”.

La pubblicazione dell’Apologo ha dei profondi risvolti sul piano biografico: abbandona il lavoro stabile e comincia a viaggiare in Germania, Lussemburgo e Italia. Trova quindi ospitalità in una comunità religiosa dove affluiscono giovani con svariati problemi. Nessuno gli chiede perché è lì e cosa ha intenzione di fare. Offre le sue braccia per lavorare ed intanto ascolta con trasporto le gesta dei missionari. Quell’esperienza lo farà cristiano: “Una cosa è certa: dovunque vada, sarò cristiano”.

Nel 1988 si avvicina al mondo editoriale. A Torino diventa dapprima correttore di bozze, poi mano mano traduttore dal francese per le più importanti case editrici

Nel 1991 pubblica, sempre per la Sellerio, Il figlio di Bakunìn, romanzo breve che si svolge seguendo il ritmo dell’inchiesta giornalistica o dell’indagine tendente a ricostruire la vita e le gesta di un inafferrabile personaggio anarchico e comunista, eroe o truffatore, animo sensibile e raffinato o volgare profittatore.

Il figlio di Bakunìn - Atzeni, Sergio - Ebook - EPUB con DRM | IBS

Il libro è composto da una serie di interviste che propongono, nell’alternanza dei punti di vista, la supposta verità sul personaggio di cui si parla.

Da qui una prosa frazionata, fatta sia di  brevi proposizioni che stilisticamente ricalcano il livello culturale degli intervistati, che di “racconti” più articolati, costruiti sia per costruire un mito, sia per affossare un delinquente.

UNA TESTA CALDA

Negli anni del fascismo ero impiegato a Montevecchio. Ricordo bene quell’uomo. Era un parolaio, un arruffapopoli, uno dei peggiori. Una testa calda. A chi diceva che lui e quel Serra, altro bell’elemento, fossero gli armatori migliori, rispondevo allora, e oggi posso ripeterlo tale e quale, che se avessero avuto figli da mantenere non sarebbero stati così lenti. E resto dell’idea che certe rifiniture ad armatura sono più vizi che pregi, non servono a nulla. La disgrazia, se è destino, capita ugualmente. Nel ’44 ho cambiato lavoro e paese.

LA MEDAGLIA D’ARGENTO

Ho visto coi miei occhi la medaglia d’argento e la pergamena arrotolata. L’ha aperta davanti a me, era scritta in inglese. La firma era di un generale che a quel tempo era famoso… Ora mi sfugge il nome… Ce l’ho sulla punta della lingua… Alexander. Forse sbaglio. Con gli anni la memoria è peggiorata. Direi Alexander, ma non ci giurerei. Ho un amico che a casa ha una storia della seconda guerra mondiale, posso controllare.
Il nome della pergamena era proprio Tullio Saba. Io degli Americani penso questo, che a volte regalano sigarette o dollari, ma una medaglia non la regalano a nessuno, neppure a un Americano, figuriamoci a un Italiano. Te la devi conquistare. A quel tempo più di oggi. Peccato che quando ho letto la pergamena non conoscessi l’inglese.

L’autore così spiega: “Ho pensato prima ad una coralità di voci, poi a che cosa dovessero raccontare. Allora mi sono rivolto ad un’area della memoria collettiva. Mi interessava creare, per esempio, una donna che parlasse in modo tale da essere definibile: anche se un lettore non sa chi è, dopo che lei ha parlato per mezza pagina, sa già che è una donna sarda di una certa età, non tanto per ciò che dice quanto per come lo dice”.

Ricordando Sergio Atzeni. Due giorni tra cinema e letteratura, a Cagliari - Bookciakmagazine

Una scena da “Il figlio di Bakunin

Quel che è certo è che dietro le parole (dietro un uomo che racconta) c’è una storia. E qui la storia che racconta un suo compagno minatore, Ulisse Ardau, è la storia, per la Sardegna, di miniere, di soprusi e di illusioni.

VIVA STALIN

I primi giorni a Montevecchio era tutto un “signorino” di qua, “signorino” di là, per sfottere, per scherzo, un po’ tutti glielo dicevamo, “hai finito di sfoggiare scarpe nuove!”, o “un vero gagà scende in miniera, quando mai!”, battute senza malevolenza, nessuno di noi minatori avrebbe augurato a nessun uomo di finire in miniera, se non al peggior nemico. Era una novità, Tullio Saba con gli scarponi marci come i nostri, che saliva per la stessa strada verso i pozzi assieme a tutti noi.
A quel tempo, la mattina presto si andava a lavorare con qualcosa sulla testa, per proteggersi dall’umido, chi aveva cicia, chi bonette. Lui, dal primo giorno, basco alla francese. Sembrava lo facesse apposta per continuare a distinguersi dal gregge. Poi si è visto che ai sorveglianti e agli impiegati di Montevecchio quel basco dava fastidio, chissà perchè, gli sembrava un’arroganza? Lo guardavano male. Ma cosa potevano dire? Il duce mica aveva proibito ai minatori di portare basco alla francese. In capo a quindici giorni tutti quelli che non ci accontentavamo, che avremmo voluto un mondo o almeno un lavoro diverso, avevamo copricapo uguale al suo.

Lui abitava in centro, io in periferia. La mattina aspettavo al caldo, in cucina, vicino al camino, guardando la strada dalla finestra. Lo vedevo sbucare dall’angolo di Angelino Marrocu, laggiù, vedi? Un tempo lì non c’era quella palazzina, ma una casa bassa, di fango. Angelino Marrocu era fabbro. Così quando Tullio appariva sembrava uscisse dalle scintille della bottega di Angelino. Camminava a passetti svelti per riscaldarsi col movimento. Allora uscivo anch’io, qui davanti ci incontravamo e cominciavamo a salire assieme. «Ciao, Tullio». «Ciao, Ulisse». E poi fianco a fianco, silenziosi, ognuno nei pensieri suoi. I minatori pensano molto, tutti quelli che hanno un brutto destino sul gobbo pensano molto. Sognano a occhi aperti di cambiare vita. Pensano a come liberare i propri figli.
Ogni tanto, dopo che già da un po’ di mesi facevamo la strada assieme, abbiamo cominciato a scambiarci frasi a bassa voce. A Carbonia Tullio aveva conosciuto minatori ch’erano stati in Belgio e in Francia. E sapeva molte cose che non erano scritte sui giornali, e che la radio non diceva, sulla guerra di Spagna, sul comunismo russo. Sapeva, e parlava, raccontava.
In capo a quattro, cinque mesi, si è aggiunto anche Giacomo Serra. Era più vecchio di noi di almeno dieci anni, cioè ne aveva una trentina, ma sembrava molto più vecchio di quel che era, dopo quindici anni di miniera. Magro come canna, la schiena piegata, la testa avanti sul petto come quella di un gobbo, come se la spina dorsale fosse così debole da non poter tenere la testa eretta come quelle degli altri. Forse era diventato così a furia di stare piegato in galleria a costruire armature. Conosceva le viscere di Montevecchio meglio di qualunque ingegnere o direttore. Se nel tuo cammino in galleria trovavi un tratto di armatura costruita a regola d’arte, quella era opera di Giacomo Serra. Aveva leggi sue. A quel tempo c’era il sistema dei cottimi, non contava la qualità del lavoro ma la quantità. Lui ci perdeva denaro e settimane, e si faceva nemici i sorveglianti, ma nessuna armatura sua ha mai sepolto nessun minatore. A volte l’armatura ben fatta non basta, la miniera vuole uccidere e spacca anche il ferro. Ma con Giacomo Serra era come se una mano santa proteggesse il suo lavoro. L’unico armatore la cui opera durava negli anni senza una crepa. Era diventato una leggenda. I minatori lo amavano. E’ bello sapere che c’è qualcuno che pensa a non farti crollare pietra, acqua e morte sulla testa. Pochi armatori lo imitavano, pur ammirandolo. Avevano famiglia, molte bocche da sfamare, poco tempo da perdere.
Giacomo tossiva tutto l’anno, compresi luglio e agosto, tosse da fumatore incallito e da silicosi. Aveva l’indice e il medio della destra neri di nicotina.
E’ riuscito a prenderci in squadra con lui. Un giorno ci mandano alla settima, la galleria più in fondo, nelle viscere della terra, a trecentocinquanta metri. In altri pozzi si arriva a cinquecento metri, c’è la decima. L’ultima ha sempre un nome di donna, Margherita, Cristina, Elena, forse perché le gallerie così in fondo sono pericolose, infedeli, ambigue e figlie di puttana proprio come le donne. C’era stato un guasto al pompaggio, un tratto di galleria era crollato. Di notte, per fortuna. Un punto di forti infiltrazioni d’acqua. L’armatura, mal fatta, aveva resistito poco. Era un tratto breve, forse dieci metri. A ricostruirlo abbiamo impiegato sette giornate. Alla fine del lavoro il minatore che passava in galleria e guardava in alto leggeva una scritta in lettere grandi quanto un uomo: VIVA STALIN. 

Chi era Stalin per noi allora? Parlo degli anni ultimi che portano alla guerra. Chi era? Era il capo del paese dove non c’erano padroni, dove i minatori guadagnavano più degli ingegneri, perché facevano un lavoro più faticoso e pericoloso, dove le armature di Giacomo Serra sarebbero state citate ad esempio e imitate, dove c’era il libero amore, dove i minatori andavano ai concerti e a teatro, in abito da sera. Tullio raccontava queste cose, perché non crederci? Faceva piacere immaginare che in un luogo del grande mondo la prima preoccupazione del governo era che i minatori non lasciassero la pelle nei pozzi. E che non dovessero lavorare con le cosce nell’acqua e con le scarpe squagliate. Tutte queste notizie erano date per certe. Dopo la guerra la canzone è cambiata. Abbiamo cominciato a sentire dei processi del ’37, dei compagni uccisi… Al principio pensavamo che i processati fossero traditori, poi lentamente abbiamo capito la verità. Ma negli anni del fascismo Stalin era il padre buono, Benito il patrigno cattivo. Ora tutto è cambiato, la nostra fede di allora sembra ridicola, anche il partito dice che Stalin era un criminale.
Sai cosa ti dico? Darei tutto quello che ho per tornare a provare l’emozione di quel giorno, quando abbiamo visto l’armatura finita e quella scritta lucente là in alto, VIVA STALIN.

Nei mesi successivi pensavamo spesso a quella scritta che avevamo tracciato con tanta pazienza nelle viscere della terra. Il direttore e l’ingegnere non scendevano mai alla settima, si sentivano oppressi, laggiù. Pensavamo che però un giorno o l’altro gli sarebbe arrivata la voce che sulla volta della settima c’era la scritta, e sarebbero dovuti scendere per vedere coi loro occhi, e noi avremmo passato i nostri guai. Invece nessuno gliel’ha detto, mai.

Giacomo Serra ricordava i tempi prima del fascismo. Anche suo padre era stato minatore, e diceva che anche ai vecchi tempi la vita del minatore era una schifezza, ma allora almeno qualcuno parlava a nome dei minatori, e si poteva scioperare, e c’era un sindacato che difendeva i lavoratori, e lo spaccio vendeva scarpe e spaghetti migliori.
Parlavamo del passato, di gente lontana e sconosciuta. Sognavamo.
Un giorno nasce una discussione: se facciamo come in Russia e prendiamo il potere, chi mettiamo al muro? Tullio dice che lui l’ingegnere e il direttore non li avrebbe fucilati, avrebbe goduto molto di più a vederli spingere il carrello o preparare le mine.
Giacomo ogni tanto diceva che un giorno o l’altro Lussu sarebbe sbarcato a Bosa, chissà poi perché a Bosa e non a Porto Torres, e avrebbe dato il segnale della rivoluzione. Per quanto mi riguardava, un segnale sarebbe bastato, se fossi stato certo che la rivoluzione era cominciata. Avrei preso le armi e avrei sparato.
Chiacchiere, sogni, ci aiutavano a sopravvivere.
Un giorno Tullio porta un mazzo di foglietti di carta rossa. Ognuno conteneva un lungo discorso stampato con inchiostro nero che sbavava dalle dita. Diceva che stava per cominciare una grande guerra internazionale e che noi lavoratori avremmo dovuto trasformarla in rivoluzione generale. Che noi minatori fornivamo la materia prima dell’industria della guerra, e dovevamo sabotare la produzione in nome del comunismo. L’abbiamo distribuito a tutti quelli che per certo non ci avrebbero tradito e denunciato.
Nonostante il manifestino, ancora nel ’39 la guerra mondiale mi sembrava impossibile, mio padre era stato sul Carso, ne era tornato zoppo. Mi aveva parlato della Grande Guerra, mi sembrava impossibile che gli uomini potessero essere così stupidi da voler rifare una scemenza simile. Poi ho visto con i miei occhi ch’era possibile.
Nel ’40, per guadagnare quel che guadagnavi nel ’39, dovevi lavorare il doppio. Solo la nostra squadra per un po’ ha mantenuto la lentezza di prima della guerra.

Perdo il filo, mi devi scusare, sono passati tanti anni… Dicevo del manifestino che abbiamo distribuito, ecco, e un giorno il direttore ha fatto chiamare Giacomo. Gli dice che se non si dà una regolata nel rispetto del cottimo, lui e tutta la squadra, licenziamento. Accenna a certi manifestini sovversivi, come se avesse saputo qualcosa, avesse sospetti, ma non certezze. La sera scendendo in paese dico «Facciamo le armature come vuole lui, che crollino. Anche i crolli ritardano la produzione. E’ sabotaggio. Per Stalin». E Giacomo Serra risponde «Far crollare una galleria in testa a un padre di famiglia che si guadagna il pane in fondo a un pozzo? Manco se Stalin viene qui a chiedermelo di persona. Non può essere così coglione». Non ne voleva sentire. E per tutta la guerra ci siamo tirati il collo per fare le armature solide come prima ma più in fretta.

Il figlio di Bakunìn a teatro

Il figlio di Bakunìn propone, come gioco, quello di inseguire le interpretazioni e le modalità espressive di molteplici narratori chiamati a riferire su un unico tema: la definizione di una personalità umana. Cioè un gioco della verità che si conclude con la negazione della verità, oppure l’unica verità possibile, quella di ognuno di noi, in questo brano quella dei narratori, creando non credo inconsapevolmente, un testo “pirandelliano”: la differenza è che nell’autore siciliano sono il narratore o gli stessi protagonisti ad essere costrette o a svelare le varie forme che assumono negli occhi degli altri; qui Atzeni crea il personaggio attraverso le forme che gli altri gli danno, ma lo fanno attraverso la memoria; allora la forma cessa di essere “reale” per diventare mito.

Qui finisce quel che resta di Tullio Saba nella memoria di chi lo ha conosciuto. Tutto quel che hanno detto ho registrato col mio Aiwa, tutto quel che ho registrato ho trascritto, senza aggiungere né togliere parola. Non so quale sia la verità, se c’è verità. Forse qualcuno dei narratori ha mentito sapendo di mentire. O forse tutti hanno detto ciò che credono vero. Oppure magari hanno inventato particolari, qui e là, per un gusto nativo di abbellire le storie. O, ipotesi più probabile, sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici. 

Nel gennaio del 1995, pubblica per i tipi della Mondadori Il quinto passo è l’addio. Anche questo è un romanzo di memoria, svolto su un non-luogo, la nave dove un certo Ruggero Gunale (alter ego dell’autore) ripercorre in lunghi flash back la sua esperienza fino a lì vissuta.

Amazon.it: Il quinto passo è l'addio - Atzeni, Sergio - Libri

Anche questo romanzo presenta un andamento non lineare, frantumato: i ricordi non hanno scansione temporale ma affiorano dalle sollecitazioni che la nave stessa gli procura: l’allontanamento dal porto, le persone che incontra, i suoi stati d’animo o l’effetto di una “canna”.

Ma tra i ricordi anche una Cagliari presumibilmente fine anni ’70, quella dei suoi anni giovanili, figlia di un rampinismo “politico” che, come in questa parte del romanzo, raccontata e vissuta certamente dall’autore stesso, ci dice come la forza di dar vita ad un’ideale o ad una prospettiva, foss’anche attraverso la costruzione non “realistica” di un mito come quello di Tullio Saba, s’infranga in una disillusione, presentandoci una Cagliari che è stata (e forse lo è ancora) città dove i potenti di ieri, sono i potenti di oggi, una città, cioè incapace di trasformarsi:

CREDO CHE IL TUO MESTIERE NON SIA IL GIORNALISTA

Ruggero Gunale e Antonio Curraz si incontrano. Si fermano. Abbozzano un sorriso.
«Buongiorno» dice Ruggero.
«Ciao» risponde Antonio, e aggiunge «Tempi duri per il Cagliari…».
«Ogni morte prepara una rinascita…» risponde Ruggero. «Ha qualche notizia sul concorso?»
«Hai fatto lo scritto migliore».
«Davvero?»
«E io ti ho dato il voto più basso, anche se sufficiente. Non era un articolo, ma il sunto di un futuro saggio sociologico. Ben scritto, non discuto, tutti i congiuntivi giusti, ma nulla che vedere col mestiere. Agli altri è piaciuto, ora sei primo in graduatoria».
«Ho qualche speranza di vincere?»
Il volto paffuto e gli occhi grigi di Antonio Curraz sono espressivi quanto quelli del fratello Augusto a poker: zero.
«Voglio dirti in tutta onestà la mia posizione. Agli orali ti darò insufficiente anche se citerai Orazio in latino a memoria “Persico odi puer apparatus…”. Saresti in grado di farlo?»
«No».
«Meglio così, mi togli un peso dallo stomaco».
«Perché?»
«Non ho nulla contro di te. Credo sinceramente che alla Rai proveresti danni, sei una testa calda… Credo che il tuo mestiere non sia il giornalista… Però non me la sentirei di bocciarti, se la tua cultura classica… Il fatto è, caro Gunale, che partecipa il figlio di un amico degli amici, e a me non piace accettare pressioni, ma stavolta c’è in ballo qualcosa come un debito di riconoscenza, il ragazzo è disoccupato e padre di famiglia, tu hai un lavoro ben pagato e sei solo, altri pesi in meno sullo stomaco».
Antonio Curraz è più grasso che magro, più basso che alto, in grisaglia di buon taglio. “Abituato da generazioni” pensa Ruggero “a spiegare ai contadini del feudo perché non debbano mai presentarsi alla Casa di città se non previo appuntamento col soprastante”. E dice: «Ti ringrazio della franchezza. Non mi farò illusioni».
Otto e cinque. “Ci sta un caffè” pensa Ruggero. “E a questo punto ha senso che mi presenta agli orali? A meno che… non sia l’obiettivo primo di tanta franchezza di Curraz… scoraggiarmi, spingermi a desistere per lasciare campo libero al suo protetto…”.
Corridoio buio del liceo Mamiani, nella capitale oltremare. Ruggero ha paura di perdersi.
“Non si vede una sega” pensa “Mi hanno fatto quattro domandine facili facili e via… Potevo rispondere meglio? Che l’ho studiata a fare la Costituzione a memoria?”
Una mano gli artigli al braccio. Riccardo si volta con un sobbalzo, riconoscere nella penombra il volto di uno dei commissari, capelli crespi, barba. «Ti voglio parlare, un attimino», e dice sono Giorgio Piluria. Conosco Pippo Ibba, mi ha parlato di te, dice che sei dei nostri… Debbo spiegarti perché non vincerai, è sgradevole ma dovuto e voglio anche rassicurarti, non tutto è perduto la situazione è complicata».
Ruggero guarda perplesso la mano ancorata al bicipite. Il commissario fa un sorriso di scuse e la stacca.
«Abbiamo fatto un accordo» dice «abbiamo dovuto farlo. Loro tenevano molto a quel posto tu gli hai rotto le scatole costringendoli a scoprirsi, il vincitore è figlio d’arte e noi teniamo un a un veneziano coraggioso disoccupato da cinque anni. Un uomo che ha dato tanto. Cederemo, ma avremo qualcosa in cambio. E non ti abbandoneremo. Arriverai secondo. In caso di assunzioni nei prossimi due anni, pescheremo da qui, garantito, impegno formale del sindacato giornalisti. Sei il primo della lista. Ci andresti a Pescara?»
«Pescara ? Come hai detto che ti chiami?»
«Ora devo andare. Interroghiamo. A presto. Saluta Pippo Ibba…»

(…)

«Tempi grami per il Cagliari…»
«Sì»
«Non ti vedo più in tribuna stampa…»
«Non lavoro più per nessuno, ho seguito il tuo consiglio, studio, cerco un altro mestiere. Allo stadio vado in curva, mi diverto come un matto… Una squadra come il Cagliari deve avere i tifosi di particolari, capaci di scompisciarsi nelle fasi calanti, ci vuole il gusto pazzo di irridere il Niccolai della situazione e lanciargli battute di settimana in settimana più cattive…»
«Ergo sei disinteressato al concorso…»
«Qualcosa di nuovo?»
«Per farci perdonare siamo disposti a deliberare sulla nuova assunzione dalla lista del concorso. Saresti tu.»
«Bene. Ma perché il condizionale?»
«Abbiamo anche provato a far passare la delibera. Non c’è stato verso. La fermano».
«Chi?»
«I tuoi. Il senatore Tonino Portas»
«Perché?»
«Dice che avete un altro candidato».
«Chi sarebbe?»
«Giulio Ibba, il fratello del tuo capo».
«Da anni non è più il mio capo…»
«Dice che presto tornerai all’ovile, visto che stare al freddo non ti giova».

Ruggero aspetta da un’ora nell’ufficio Stampa e Cultura, una saletta due metri per quaranta con dentro un armadio zeppo di materiale elettorale e due sedie con schienali LArossi. Saletta chiamata dalle segretarie Purgatorio (“Lucio vuol sapere dove hai mandato quel barabba… in Purgatorio? E’ chiusa la porta?”), perché là ci mandano anime mediocri e poco importanti per lunghe attese.
La porta infine si apre del tanto che basta a far entrare la testa a pera, la bocca stretta, il naso a punta e gli occhiali neronotte di Lucio Frais detto Sogliola per motivi politici. Addetto al settore Stampe e Cultura. Protetto del senatore Portas.
«Tu non hai idea, caro Gunali,» dice Sogliola tenendo in Purgatorio soltanto la testa e guardando Ruggero con un sorriso di plastica – non hai idea di cosa conta veramente nel mondo: il prezzo della barbabietola negli Stati Uniti può provocare un cataclisma altro che l’olocausto… scusami… era una riunione importante indetta all’ultimo minuto, tu non hai telefono non sapevo come fare per avvisarti… Questa storia del telefono in verità andrebbe approfondita, un atteggiamento snob, ammetterai, ti isoli dal mondo? A un quarto dal Duemila? Nella torre d’Avorio? Scendi dalle stelle, Gunali. Mi piacerebbe parlare un po’ con te, fatti vedere. In autunno, però, prima fra elezioni e congressi non ho un attimo, ora devo fuggire, l’aereo mi aspetta, ho una riunione a Roma domani mattina alle sette, parto stasera, dormo là, evito il rischio di un ritardo del volo delle sei e cinquanta di domani mattina. Avessi saputo che si metteva così non ti avrei dato appuntamento per oggi, ma non importa, sono al corrente della questione, mi spiace dover correre via, mi piacerebbe raccontarti la discussione punto per punto ma c’eravamo noi del settore Cultura più Ibba e Tonino Portas, ho appena letto il suo ultimo romanzo Altopiani di Cenere, bellissimo, se non l’hai letto leggilo, devo proprio fuggire. In tuo favore è intervenuto Peppino Zuddas, il birraio di Sant’Elia, ottimo militante, ha speso una buona parola, era con noi per caso, naturalmente, ma è autorevole della sua dignità di militante onesto. La decisione finale è stata: se vi saranno assunzioni, sarà assunto Gonali».
«Gonale».
«Eh? Ciao a presto, fatti vedere, entra maggiormente nella vita del partito, abbandona gli atteggiamenti snob da primo della classe, ciao, devo proprio partire».
Ruggero guarda dal finestrino oblungo del Purgatorio il terreno incolto intorno alla palazzina del partito. “Ci potrebbero mettere qualcosa” pensa “un fiore o almeno qualche ciuffo d’erba, di basilico. se vi saranno assunzioni… Mi hanno dato un calcio in culo…” 

“Coloro che, nel precedente romanzo, formavano la comunità, gli aderenti allo stesso partito, il partito della speranza, del rinnovamento totale della fede nell’uomo. La situazione è evidentemente cambiata, dell’uomo non importa a nessuno e la comunità/partito non esiste più. O meglio, si è frantumata e persegue altre logiche, estranea alle originarie ragioni, legate ora a interessi non del tutto confessabili, a convenienze individuali. Si è conclusa l’esperienza che, per comodità, abbiamo definito del comunismo guspinese e un’altra si è affermata e si esprime nel colloquio Gunale e l’addetto al settore di Stampe e Cultura, vero esponente della burocrazia partitica che potrebbe trovar posto nell’opprimente società della DDR descritta da Cristof Hein. (Giuseppe Marci)Il quinto passo è l'addio" di Sergio Atzeni: un futuro lontano dalla Sardegna -

 

Ma sarà la stessa burocrazia “partitica” che, non interessandosi  dei bisogni degli ultimi, li relega in quartieri ghetto, dove vivono di tossico dipendenza o di giochi illeciti, come la lotta fra cani:

LA LOTTA TRA CANI

L’alano, e pasciuto, lavato. E’ forte. Molto forte. Nell’ultimo mese ha vinto tutti i duelli, si chiama Signor Nobile per motivi sconosciuti, è stato rubato da Tore Laconi. Colpo preparato con astuzia. Alano individuato da mesi. Fatto incontrare con lupa in calore. Sottratta lupa con alano arrapato. Giorni di sfregamento camicia di Tore su lupa in calore. Passaggio indifferente la sera, nell’unico tratto dove lasciavano il cane libero di correre, la salita dell’anfiteatro. L’alano ha seguito l’uomo che sapeva di lupa, l’ha seguito guardandolo torvo. L’uomo che sapeva di lupa ha corso più e meglio dell’alano. Lupa pronta a centro metri. Dopo il coito lupa sottratta. Non gliel’hanno più fatta vedere. Rubato da tre mesi, per due mesi addestrato, al sessantaquattresimo giorno mandato a combattere, è infogato di suo, non ha bisogno di lezioni. Sul dorso a destra un tratto di pelo rasato alla pelle, al centro la cicatrice di un morso.

Tore Laconi ha occhialini alla Lennon, tondi e d’oro, giacca di lino grigio, camicia nera abbottonata al collo, pantaloni di lino grigio appena più chiaro della giacca, scarpe rosse a punta. E’ ladro di cani, organizzatore di equivoche feste danzanti domenicali in club privati da nomi esotici, Bengala e Kabul, proprietario di una vecchia Lancia Fulvia secondo leggenda dotata di motore Porche, comunque veloce come un razzo e con balestre nuovissime. A cento nei vicoli di Quartu, con dietro pantera e sirena, l’abitacolo della Fulvia resta un magnifico gioiello da borghesia e operai d’Ottocento, un salotto silenzioso e ordinato, fatto con rispetto e amore per chi viaggia. Siccome volendo Tore potrebbe anche fare meccanico, carrozziere e gommista di professione, la Fulvia su qualunque tracciato vince, ha una tenuta di strada miracolosa e la leggenda dice che può fare i trecento. Ormai vive nascosta in un garage luogo di culto, essere ammessi a ammirare il mostro è privilegio di pochi. Esce ogni tanto di notte per farsi inseguire. Non è sbagliato dire che per il commissario Iannaccone, capo dei pulotti del palazzotto grigio a tre piani dalle serrande abbassate estate inverno, notte e giorno, proprio al centro del quartiere, chiamato dalla voce pubblica e dai giornali Forte Apache, per Iannaccone la preda più ambita non è Tore Laconi ma la Fulvia, darebbe dieci anni di vita per riuscire a sequestrarla e guidarla.

Tore è il miglior amico di Ruggero. Ruggero non condivide a nessuna delle passioni illegali di Tore.

Il mastino è orbo da un occhio. Testone che ciondola, mascella immobile. Il dorso è coperto di ferite. Si chiama Giustino e il nome ha una ragione. E’ imbattuto da tre mesi, due duelli a settimana. Un record assoluto al capolinea del 46. E’ nato nel quartiere, da due mastini rubati. Lui non è rubato, è nato libero, è libero, se vuole può andarsene, non lo farà, il padrone è padre e fratello, lo fa combattere perché fin da cucciolo Giustino ha mostrato il carattere del combattente. Crescendo ha acquistato tutta l’astuzia del padrone, Angelo, che lo vede come vede se stesso, lui e Giustino sono una cosa sola, il Signore li ha creati uno per l’altro, Angelo è convinto che Giustino sia invincibile, soltanto il cielo può rubarlo, una zingara ha predetto che la morte prenderà Giustino in un luogo d’erba sotto la pioggia, quando piove Giustino è tenuto in un sotterraneo enorme di cemento: un intero garage, trecento automobili, Giustino è custode e guardiano, riconosce tutti i padroni; i ladri sanno chi è, non si presentano, preferiscono andare in centro, fra le vetrine scintillanti, dove il denaro è nelle tasche come rugiada sull’erba al mattino: tanto e indifeso. Giustino è addestrato a fuggire la pioggia, sa che in caso di pioggia bisogna trovare subito riparo altrimenti Angelo sbava di rabbia, è l’unico motivo nella vita per cui sbava di rabbia, Giustino odia la pioggia, la sente nell’aria con giorni di anticipo e avvisa con ugiolii.

Angelo non ha gambe. Prima dell’incidente era alto uno e settanta. L’incidente non è stata colpa sua, attraversava in via Roma alle quattro del mattino uno e un ubriaco in Giulietta a centottanta l’ha falciato. Senza gambe, che potrebbe fare? Alleva cani da battaglia, ottimi antifurti per i cortili del quartiere. Quando ha un campione sotto mano ci scommette sopra. Prima dell’incidente aveva il sogno di fare il giustino in Calabria (e Giustino è il nome del campione). Ha cicatrici su tutto il torace, non lo copre neppure d’inverno, un po’ perché in città il freddo non sappiamo cos’è, un po’ per vanagloria. I pantaloni, lunghi e bianchi, in parte imbottiti di stracci, nascondono il vero punto del taglio. Angelo siede su una sedia a rotelle e ha un servo depravato che gli tiene la minca per pisciare, gliela scrolla e gli fa le folaghe mentre lui parla coi cani. Parla coi cani dall’alba al tramonto e di notte, eccetto le poche ore che dorme. Si sveglia parlando coi cani. Sogna di parlare coi cani. Con parole tedesche (imparate in un’altra vita da emigrato) e con le mani. Se entri nel suo cortile e sei indesiderato, lui fa un cenno, ti trovi spalle a terra inchiodato da sei molossi. Un altro cenno e ti squarciano la gola. Mai ha avuto bisogno di fare il primo cenno, tranne in addestramento. Chi vuoi che vada a disturbarlo? Iannaccone preceduto da quattro Rambo armati da sbarco in Vietnam. Per Angelo il carcere è più duro che per gli altri, c’è stato finora sette volte per un totale di dodici anni su quaranta di vita.

Tolgono i guinzaglio ai cani. Sale al cielo l’urlo di duecento uomini e donne discinti, tutti hanno bevuto molto, è il terzo incontro della serata, il pubblico si è scaldato, ora vuole il sangue vero, l’uccisione, il sacrificio. Tutti hanno scommesso, come al solito. Esistono due partiti: quello di chi pensa “questa è la volta buona Giustino muore” e quello di tutti gli altri “Giustino è invincibile”.

L' alano e il massino si guardano. 
Signor Nobile muove una zampa, Giustino non si muove. Lo guarda. Digrigna. 
Una donna di fronte a Tore e Ruggero ha una vestaglia nera lunga allacciata alta in vita con una sciarpa azzurra, una vestaglia leggera, estiva, senza bottoni, c’è scirocco che soffia caldo aprendo la vestaglia sotto la sciarpa, a mostrare il pelo del ventre, una foresta nera, lei di continuo si ricopre, la vestaglia di continuo si apre, il marito a fianco in canottiera e mutande se ne fotte. Lei è Gina, 50 anni, la cagna capace a letto di far cantare i morti. Lui è Muzio, padrone di quattro cagne, Gina è la migliore, per questo l’ha sposata e ha dato il nome ai sette figli. L’ultimo, Massimo, è diverso da tutti gli altri. Piccolo, minuto, non gioca a pallone, non scende ai duelli dei cani, non va in giro ogni notte in città a rubare o attaccar briga, studia come un demonio, ha undici anni e ne sa più di Giuliotto, il commercialista di via Is Maglias che partendo da una famiglia di ladri e diventato miliardario onestamente. 
Sull’onestamente c'è dibattito, nel quartiere. Massimo vuol diventare avvocato. 

Le fauci. 
La bava. 

L’alano si avventa, Giustino ruota su se stesso gli strappa le intragnas con un morso.

L’ululato del morente sale al cielo in un boato di trionfo. Muzio, padrone di cagne, ha puntato quattrocentomila su Giustino. Angelo due milioni e il grande Sandro Manca di Assemini ha puntato 10 milioni sull’alano. Tore ha vinto un milione. Sa che un giorno l’altro ruberà e porterà al capolinea del 46 l’uccisore di Giustino, ma a quel punto a furia di raddoppiare ogni giorno puntata il grande Sandro Manca di Assemini si sarà rovinato. Tore punta sempre sul vecchio campione. “Perdo una volta sola” pensa “tutte le altre vinco”.

 Il business (illegale) della lotta tra cani

Lotte tra cani

E’ la Cagliari dei quartieri popolari, quella violenta e senz’anima. Non c’è salvezza. Non è il proletariato pasoliniano, pieno di un vitalismo antiborghese, ancora non omologato, quello degli anni Cinquanta: qui vi è solo un bruciare la vita, gettare soldi, vedere l’essenza della violenza per provare l’emozione della morte, l’impudicizia non come natura, ma come perdita. C’è speranza? Massimo, lui figlio “strano” perché non si rotola nel fango, come quello  Giuliotto. Chissà se vero. La prosa è nervosa, ipotattica, nominale: quasi a rappresentare il respiro affannato sia dei cani che degli astanti, l’ululato del morente, il boato del pubblico.

E’, in conclusione, Cagliari la vera protagonista di questo romanzo, quella di Castello e di Is Mirrionis, del Lido e di Buoncammino, una Cagliari da Atzeni amata visceralmente, ma che lo ha respinto; e i suoi ricordi ci portano verso una città fatta di persone, da lui descritta magistralmente: il sottoproletariato che nottetempo si appassiona alla lotta dei cani, il mondo giovanile con le sue inquietudini e le confuse aspirazioni artistiche, la scuola che consente la frequentazione di compagni provenienti da ceti più elevati, l’ambiente giornalistico e quello politico, ipocriti e cinici, l’universo quasi sommerso dei piccoli locali di ritrovo dove si accendono e si spengono sogni e speranze.

Una città viva da cui il protagonista esce sconfitto, schiacciato, come tanti giovani cresciuti nella speranza di un mondo migliore che ha visto seppellire i suoi sogni di speranza e di rigenerazione e ne esce col gusto amaro della sconfitta.

La Cagliari che non c’è più: anni Settanta, bambini giocano in strada a Is Mirrionis

Bambini a Is Mirrionis negli anni ’70

Proprio perché quasi “espulso” dalla sua terra, quindi, sul ponte della nave, dopo aver visto allontanarsi le umbertine case di via Roma col cubo di cemento e vetro, fino a dissolversi, lasciando spazio alla memoria; solo dopo quando tra Sergio e la sua patria si pone il mare, la lontananza, solo allora può vederla con occhi diversi, di chi vuole ricostruirla, riscrivendone la storia sotto il segno del mito. E lo fa attraverso il romanzo, uscito postumo nel 1996, con Passavamo sulla terra leggeri:

AVEVO OTTO ANNI 

Avevo otto anni, non sapevo nulla della vita, avevo ascoltato la storia, non l’avevo capita, anche ora che la dico non so che senso abbia. Non conoscevo il significato delle parole eterno e increato (forse lo intuivo con vaghezza) rubate a conversazioni famigliari, mi gloriavo di essere ateo. Nell’isola era sinonimo di bandito, a otto anni ero abituato a essere guardato con sospetto, con diffidenza, con paura – molto tempo dopo, scoprendo di essere di stirpe ebrea marrana, oltre che sarda e genovese con sfumature arabe e catalane, ho immaginato che il sangue degli antichi erranti perseguitati vivesse in me facendomi apparire la diversità dagli altri come abituale e perciò non spaventandomi della solitudine che ne veniva, di rado mitigata da amici sempre esclusi dalla comunità perché diversi: scemi, figli di donne non sposate e di bagassa, istrangios e eversori.

Quasi volesse isolarsi da quel “sardismo” incontaminato che così tanto aveva sottolineato la purezza dell’etnia, Atzeni, rivendica il suo essere figlio di tante etnie, scoprendo che essere sardo non vuol dire esclusione ma inclusione di tutte le culture che hanno contaminato e arricchito l’isola. Tuttavia questa contaminazione, ha crato una nuova etnia, capace ora di sapersi raccontare,. Infatti, secondo Atzeni, manca un cantore che sappia “tramettere” attraverso la parola la storia del popolo, è costui è il personaggio di Antonio Setzu. Attraverso il suo racconto si evince che l’essere oggi è cercare di capire il passato, ma il passato è memoria non realtà: Antonio Setzu diventa il bardo mitico che racconta una Sardegna precoloniale, e la racconta come una necessità di una nuova identità.Passavamo sulla terra leggeri - Sergio Atzeni - Narrativa Italiana - Narrativa - Libreria - dimanoinmano.it

PASSAVAMO SULLA TERRA LEGGERI

Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.

A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.

E’ la suggestione ricevuta del grande romanzo sudamericano: infatti Manuel Scorza, Vargas Llosa, Garcia Marquez erano riusciti a raccontare quasi “magicamente” la realtà coloniale dei loro popoli. Anche Atzeni prova a tessere un racconto in cui ancora una volta è protagonista la memoria, una memoria però storica, non individuale, dove la voce fuori del tempo racconta la storia mitica di una terra da prima dell’uomo fino alla civiltà. La storia perde i suoi connotati e diventa racconto mitico della Sardegna visto attraverso la dialettica di montagna e mare, di popoli diversi e di scontri di culture.Bellas Mariposas - Film (2012) - MYmovies.it

Ancora un racconto, anch’esso uscito postumo nel 1996, a testimoniare la capacità di Sergio Atzeni di innovarsi, come mostrano queste poche righe di Bellas mariposas:

IL GIORNO DELL’AMMAZZAMENTO DI GIGI

Era molto tempo che Tonio lo minacciava ma credevo che scherzava

che lo odia lo so si vede da come lo guarda quando lo incontra e perché cerca sempre occasione di arropparlo di mala manera

ma credevo che scherzava dicendo Un giorno quello lo uccido

e invece il 3 di agosto è stato il giorno dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio

non si è mai permesso di allungare le mani se provava gliele tagliavo

se ti fai toccare l’albicocca da bambina finisci come mia sorella Mandarina pringia a tredici anni adesso ne ha venti e ha tre figli batte in casa privata non è lo schifo della strada ma sempre ti devi ciucciare minca purescia di qualche pezzemmerda

non mi interessa voglio diventare rockstar dopo che sarò rockstar sceglierò l’uomo

per ora meglio vergine e ogni tanto mi pensavo che l’uomo per dopo che sarò rockstar magari sarà proprio Gigi del quinto piano perché sono sicura che mai mi mette le mani addosso quando dico no se non vuole che lo getto dalla finestra del quinto piano magari sposata e rockstar abiteremo al ventesimo voglio un uomo che se rompe lo butto giù dal balcone e non torna a chiedermi conti

nessuno deve chiedermi conti cosa vuole questa gente?

Mio padre pezzemmerda che conti chiede? Dice Hai dodici anni Caterina devi guadagnarti il pane

Io ti ho chiesto di farmi nascere in questa casa proprio sotto signora Sias in questo cazzo di palazzo in questo cazzo di quartiere? Io ti ho chiesto di farmi nascere?

Tu mi hai chiamato e neppure sapevi che mi stavi chiamando e per dodici anni mi hai fatto stare in questa casa con te tua moglie e tutti i miei fratelli e sorelle sotto signora Sias che caga ogni giorno alle tre del mattino

uno pensa vabbé la rottura quando tira l’acqua però meglio che con le finestre in piazza e i motorini che impennano sui marciapiedi da mezzanotte alle sei e se ti affacci a protestare ti sparano in fronte con le Colt Magnum

se mi affaccio io nessuno spara ma lanciano petali di rose

a me i motorini piacciono e anzi la prima cosa da fare appena compio quattordici anni è cuccarmi un Fantic 313 e andare da mezzanotte alle sei a impennare sui marciapiedi tutto attorno alla piazza rombando tenendovi svegli che tanto per voi è come stare addormentati non vi accorgete della differenza

chi dice che signora Sias è soltanto la rottura quando tira l’acqua non ha mai vissuto a casa mia

la cagata di signora Sias è il cominciamento del giorno e ieri 3 di agosto

dell’ammazzamento di Gigi del quinto piano l’innamorato mio

Il racconto è di Caterina, giovanissima ragazza che illustra ad un anonimo ascoltatore le sue avventure con l’amica coetanea Luna nel giorno 3 agosto in cui avviene l’omicidio di Gigi. Pertanto il linguaggio con cui descrive le sue avventure cagliaritane è quello di una ragazzina dei quartieri popolari (in questo caso una immaginaria Santa Lamanera, che potrebbe nascondere o i palazzoni di Sant’Elia o il quartiere degradato di San Michele), frantumato in rapide espressioni (come spesso in Atzeni narratore) fatto di slang giovanile e di un cagliaritano volgare e plebeo. La breve narrazione proprio in quanto auto diegetica ci lascia intendere lo sguardo di chi vive il mezzo alla violenza ma proprio perché vivendola l’appiattisce in un quotidiano vissuto, dove anche i desideri “femminili” appaiono desiderati, ma visti ancora con una certa forma di paura.

Guarda "Bellas mariposas", Disponibile Online per la visione in Streaming [Film] • Open Live

Le due protagoniste del film di Mereu tratto dal racconto di Atzeni

Non c’è azione e non c’è finale: il risveglio, gli uomini nullafacenti, donne impudiche irretite da giovani vogliosi, pedofili e padri violenti: tutto descritto come fosse normale, così come normale viene descritto il momento lirico del mare o il momento magico dell’arrivo della “coga” e dei “suoi gatti” (la strega sarda): negli occhi fanciulleschi di una ragazzina di tredici anni tutto è visto attraverso una cultura popolare rimasticata e rivista a proprio uso e consumo nei quartieri popolari dove il melting-pop linguistico e culturale diventa l’assoluto ed unico mezzo di comunicazione e sapere.

Il tutto viene raccontato ad uno che sa ascoltare (Sergio Atzeni stesso)

e tu ora mi guardi allo stesso modo lo so cosa vuoi e cosa pensi ma non io mi sei simpatico questa storia la racconto a te che hai buona memoria e dicono che sei buono a raccontare e scrivere manka sias unu barabba de Santu Mikeli ma altro da me non prendi non guardarmi più con quegli occhi hai capito? Non io cercati qualcun’altra io prima divento rockstar poi cerco marito non mi interessano i giochi porchi

forse lo stesso che con un Aiwa, l’orecchio forato, andava tra le case di Guspini a raccogliere testimonianze di Tullio Saba.

Vogliamo concludere con quanto dice di lui Marci (docente di letteratura italiana contemporanea dell’Università di Cagliari): “Lo rimpiangiamo profondamente, perché era riuscito a capire il suo mondo e cercava di descriverlo in una lingua intellegibile al pubblico ampio dei lettori”.

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA DURANTE IL VENTENNIO FASCISTA

Caratteri generali

Caratteri generali

La prima guerra mondiale costituisce una vera e propria frattura nella storia che si può così sintetizzare:

  • Fine dell’eurocentrismo economico e politico e l’affacciarsi nella storia di due superpotenze, ideologicamente contrapposte: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica;
  • L’affacciarsi delle masse come soggetti politici;
  • I totalitarismi (fascismo in Italia e nazismo in Germania).

Tutta l’Europa, all’indomani della guerra, si leccava le ferite causate da un ingente sforzo economico per farvi fronte, dai milioni di morti, mutilati e reduci, da un impossibile ritorno alla “normalità”, se per normalità s’intende la situazione prebellica che aveva caratterizzato la “belle epoque”.

A pagare le maggiori conseguenze dell’esito della guerra fu la Germania, alla quale, soprattutto per volontà francese, venne attribuita l’intera responsabilità del conflitto. Così i trattati di pace, più che avviarsi verso un equilibrato sistema di rapporti tra i paesi europei, determinarono sentimenti di rivincita. Se la situazione parve lentamente migliorare tra il ’24 e il ’28, per una buona congiuntura economica, foriera di un rasserenamento politico fra le nazioni, il crack delle banche americane del ’29, fece di nuovo precipitare la situazione, creando così le premesse, intorno agli anni Trenta, alla nascita del nazismo che condurrà l’Europa alle seconda guerra mondiale.

Altro fattore destabilizzante fu la Rivoluzione bolscevica. L’incapacità del governo zarista di offrire un sia pur minimo miglioramento alla masse contadine che vivevano ancora in un’economia semifeudale, diede forza agli esponenti più radicali che si posero alla testa di una rivoluzione che costrinse la Russia ad uscire dal conflitto con enormi conseguenze sul piano territoriale ed economico. L’esempio russo ebbe un impatto emotivo e politico che incise fortemente all’interno degli stati nazionali europei. Pur consapevoli della difficile esportazione della dittatura del proletariato, quest’ultima agì profondamente: da un lato (anche per l’indeterminatezza con cui filtravano le notizie) come modello, se non come mito, a cui masse di operai, nonché di intellettuali, guardavano con fiducia; dall’altro, per reazione, il “pericolo rosso” coagulò intorno a sé un fronte, seppur non omogeneo, che andava dal piccolo-borghese, minacciato dal basso, alle gerarchie ecclesiastiche, fino ai grandi proprietari terrieri e agli industriali.

Se gli Stati Uniti avevano promosso con la loro entrata in guerra l’idea di una Europa che si articolasse al suo interno in una prospettiva liberal-democratica, promuovendo, sin dal ’18 la nascita della Società delle Nazioni, la miopia parlamentare americana, diede luogo ad una nuova forma di isolazionismo.

Situazione in Italia

L’Italia uscì dalla prima guerra mondiale profondamente cambiata. L’assetto sociale, ormai, aveva assunto caratteri massificati che convogliavano in una compatta sindacalizzazione, in una forte affermazione del Partito Socialista (che d’altra parte visse, nel ’21 una drammatica scissione tra riformisti e massimalisti guidati rispettivamente da Turati e da Gramsci) e nella nascita del Partito Popolare da parte di Sturzo, approvato ed appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche.

Ma il ceto che più di ogni altro cambierà le sorti dell’Italia e che la condurrà, con cieca fiducia, alla dittatura, sarà la piccola borghesia. Quest’ultima visse, negli ultimi anni, una drammatica ambiguità, un senso di smarrimento, determinato dall’accettazione passiva del sistema capitalistico degenerato in un affarismo senza scrupoli e da un’invidia e paura profonda verso il proletariato organizzato. Per meglio dire, il piccolo borghese si sentiva schiacciato da una parte dai “pescecani” arricchitisi con loschi affari durante la guerra, dall’altra dalla massa dei lavoratori che, avanzando delle richieste di miglioramento salariale o, addirittura, prospettando, sul modello dell’URSS, la “dittatura del proletariato”, gli rubava quello che per l’“eroismo di guerra”, gli spettava di diritto. Portavoce del suo malcontento divenne Benito Mussolini, già socialista, che nel 1919 fondò a Milano i “Fasci Italiani di Combattimento”.

Il Patto di Londra aveva assegnato la costa dalmata all’Italia e la città di Fiume alla Croazia. Al termine della guerra la città istriana votava per l’annessione all’Italia, mentre la costituenda Jugoslavia reclamava per sé la costa dalmata. Sul tavolo di pace a Parigi la delegazione italiana rivendicava ambedue i territori: uno per il principio di autodeterminazione dei popoli (rati-ficato alla fine del conflitto), l’altro per il rispetto del Patto di Londra. Il presidente americano, non avendo sottoscritto l’accordo italo-inglese, invitava il popolo italiano a rinunciare alla Dalmazia. Il presidente del consiglio italiano, irritato da ciò, andò a Roma e chiese la fiducia del governo, ottenuta a grandissima maggioranza. L’allontanamento dal tavolo delle trattative risultò, tuttavia, esiziale per l’Italia: dalla spartizione degli ex possedimenti tedeschi in terra d’Africa venne totalmente esclusa. Ciò determinò una recrudescenza di sentimenti sciovinistici, animati dal mito della “vittoria mutilata” che portò a grandi dimostrazioni di piazza sotto il segno del “nazionalismo”. A tali dimostrazioni si aggiunsero e, spesso, confluirono, quelle operaie e contadine, determinate dalle difficilissime condizioni economiche in cui l’Italia si trovò all’indomani della guerra.

Queste ultime assunsero, in alcune regioni, vere e proprie forme miranti a preparare una rivoluzione ed ebbero particolare vigore nel biennio 1919-1920 (“biennio rosso”) in cui si procedette all’esproprio di terre, occupazioni di fabbriche e saccheggi di negozi e forni.

La difficile situazione italiana veniva anche alimentata dalle azioni di D’Annunzio che, con un gesto clamoroso, occupò Fiume (precedentemente eletta a città libera) nel 1919, da cui venne ricacciato l’anno successivo dal governo italiano per non incrinare i rapporti internazionali precedentemente raggiunti.

E’ evidente come tutto ciò determinasse il tramonto del liberalismo politico di tipo ottocentesco e l’affacciarsi di un conflitto sociale completamente nuovo i cui protagonisti saranno i partiti di massa socialisti e popolari e il nascente, ma non ancora forte, movimento fascista, guidato da Benito Mussolini.

Il vecchio Giolitti venne richiamato per la quinta volta per salvare le sorti del liberalismo: ma al di là dei risultati positivi da lui raggiunti sul terreno diplomatico, non riuscì a realizzare il suo disegno.

L’opera di mediazione da lui condotta nei precedenti governi fra le diverse classi sociali, questa volta fallì: il padronato industriale e la FIOM (Federazione Italiana Operai Metallurgici), infatti, non riuscirono a portare a termine un accordo per il rinnovo del contratto. Gli operai, allora, passarono decisamente all’attacco, occupando le fabbriche: lasciati soli dal Partito Socialista, non poterono che dichiarare il loro fallimento. E fu allora il padronato a mettere in atto la sua controffensiva: gli industriali e i capitalisti agrari armarono la mano allo squadrismo fascista che, con estrema violenza, cercò di liquidare le organizzazioni operaie e contadine. I socialisti, abbandonati dalle istituzioni, si mostrarono incapaci a offrire una forte risposta e consumarono la loro scissione nel Congresso di Livorno in Partito Socialista (riformisti) e Partito Comunista (massimalisti) nel 1921.

Giolitti, stanco e amareggiato, si ritirò e i governi a lui succedutisi (Bonomi e Facta) si mostrarono incapaci di affrontare la situazione.

Al tentativo di “sciopero legalitario” proposto dai partiti della sinistra per accusare i metodi illegali dei rappresentanti del partito di Mussolini, il PFN (Partito Nazionale Fascista, fondato nel 1921) rispose con un’offensiva a tutto campo, con violenza inaudita, sia nelle piazze che su un piano istituzionale.

I capi del partito, infatti, riunitisi a Napoli, marciavano verso Roma per conquistare il potere; Facta ottenne dal re la promulgazione dello stato d’assedio che Vittorio Emanuele III, il giorno seguente, non ratifica. Di fronte a tale gesto al residente del Consiglio non rimase che dimettersi. Il nostro monarca accettò le dimissioni e quindi offrì l’incarico di formare un nuovo governo a Benito Mussolini.

Una volta al potere, Mussolini dichiarò di voler reprimere l’illegalità, sotto qualsiasi forma essa si fosse presentata. La “normalizzazione” che egli tuttavia perseguiva, non toccava lo squadrismo che continuava indisturbato la sua azione violenta contro le associazioni di sinistra, ma soprattutto riguardava il sovvertimento delle istituzioni liberali e l’erezione progressiva del fascismo in un regime che, per poter essere accettato, doveva pagare lo scotto a quelle classi che fino ad allora lo avevano sostenuto. Le prime scelte politiche, infatti, riguardavano una serie di provvedimenti favorevoli ai capitalisti e la continua pressione verso i sindacati che dovevano, per amore o per forza, accettare l’abbassamento dei salari.

Certo tale politica, aumentando la produttività a scapito delle classi più deboli, riuscì a determinare un incremento industriale notevole che, nell’immediato, serviva a rafforzare il fascismo stesso.

D’altra pare Mussolini, per consolidare ulteriormente il suo potere, aveva bisogno di conquistare il consenso dei cattolici che ancora si riconoscevano nel Partito Popolare. Bastava rompere il patto di solidarietà fra la Chiesa ed il partito, cosa che Mussolini fece, alleandosi con la destra cattolica che spinse lo stesso fondatore del Partito Popolare, don Luigi Sturzo, ad abbandonare l’agone politico.

Allargatasi quindi la base su cui poggiava il suo potere, Mussolini indisse nuove elezioni, che si svolsero in un clima d’intimidazione e violenza. Otte-nuta la maggioranza nel paese, il capo del fascismo vide tuttavia vacillare il suo potere quando il deputato socialista, Matteotti, che aveva denunciato alla Camera i metodi illegali con i quali si erano svolte le consultazioni elettorali, venne ucciso dagli squadristi. L’emozione nel paese fu grande ed i partiti d’opposizione fecero quadrato abbandonando l’aula parlamentare, sperando che in questo modo il re intervenisse per revocare il potere a Mussolini.

Ciò non avvenne, anzi il fascismo passò ad una violenta controffensiva di piazza: Mussolini, spinto dagli eventi e assenti gli aventiniani, dichiarò alla Camera la cessazione di ogni garanzia liberale.

Il fascismo si trasforma quindi in un regime dittatoriale (1925).

Gli atti di tale regime furono:

  • soppressione della libertà di stampa;
  • sostituzione dei sindaci e dei consigli comunali con podestà e consulte di nomina governativa;
  • proibizione del diritto di sciopero;
  • istituzione delle “corporazioni” che, rappresentando le categorie econo-miche nella loro totalità, privavano i lavoratori dei sindacati;
  • istituzione del confino di polizia e del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato;
  • reintroduzione della pena di morte.

L’opposizione fu costretta a vivere nella clandestinità o a emigrare: il nucleo più consistente di essa, che si riconosceva nei partiti socialisti, comunisti e liberali, dirigeva la sua lotta da Parigi.

Un punto a favore del regime Mussolini lo conseguì con i Patti Lateranensi (1929), con i quali riuscì a legare a sé l’intera gerarchia cattolica.

Una serie di problemi il duce dovette affrontarli con la svalutazione della lira verificatasi intorno al 1925. Se la politica economica aveva registrato, dal ’22 al ’25, buoni risultati, permettendo un incremento delle esportazioni, il deprezzamento della lira fece sì che, tuttavia, le materie importate costassero di più. Bisognava, quindi, “salvare la lira” e per fare ciò la cosa più semplice che il duce attuò fu la riduzione dei salari (dal 12% al 15%) e la creazione di grandi trust monopolistici che, se aiutarono il grande capitale, grazie anche all’autarchia, risultò lesiva per le piccole e medie imprese.

Fondamentale risultò anche la “battaglia del grano” che, se da una parte riuscì ad evitare l’importazione di questo fondamentale alimento, ne aumen-tò considerevolmente il prezzo. Nel 1928 iniziò il progetto di bonifica delle zone paludose, non sempre portato a buon fine, in quanto lasciato in mano ai privati che, una volta ottenuti i sovvenzionamenti statali, procedettero con scarsa produttività. Diverso fu il caso dell’agro pontino che, fra l’altro, riuscì ad alleviare la disoccupazione allora imperante per la crisi sopra descritta.

L’altra arma usata dal regime per affrontare il problema della disoccupazione fu lo sviluppo delle opere pubbliche, con lavori di tipo strutturale che sarebbero in seguito serviti a sviluppare l’economia del paese, ma soprattutto a porre le premesse per il futuro riarmo dell’Italia. Infatti l’autarchia economica non poteva che spingere il governo verso una politica estera di tipo imperialistico. Essa venne infatti inaugurata con l’impresa africana, per poi proseguire con la conquista dell’Albania ed il tentativo d’occupazione della Grecia.

Risulta evidente che tale politica mal si accordava con le difficoltà economiche che lo stato fascista cercava di nascondere.

Per quanto riguarda l’aspetto culturale è evidente che, nel momento in cui il fascismo si ergeva a vero e proprio regime, non poteva mancare un attento controllo che si focalizzava su quelle forme che maggiormente potevano avere influenza sulle masse, in primo luogo la stampa, in seguito radio e cinema, nonché la formazione del consenso attraverso il GUF (Gruppi Universitari Fascisti).

Intanto nel ’25 sul Popolo d’Italia, il filosofo Giovanni Gentile elaborava un manifesto nel quale cercava di indirizzare e motivare gli intellettuali a farsi “propagatori” del verbo fascista (tra i firmatari alcuni nomi eccellenti come Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti).

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI FASCISTI

Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

Le Origini

Le sue origini prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. 
L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione.

Il Fascismo e lo Stato

Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal ’19 al ’22. I fascisti erano minoranza, nel Paese e in Parlamento, dove entrarono, piccolo nucleo, con le elezioni del 1921. Lo Stato costituzionale era perciò, e doveva essere, antifascista, poiché era lo Stato della maggioranza, e il fascismo aveva contro di sé appunto questo Stato che si diceva liberale; ed era liberale, ma del liberalismo agnostico e abdicatorio, che non conosce se non la libertà esteriore. Lo Stato che è liberale perché si ritiene estraneo alla coscienza del libero cittadino, quasi meccanico sistema di fronte all’attività dei singoli. Non era perciò, evidentemente, lo Stato vagheggiato dai socialisti, quantunque i rappresentanti dell’ibrido socialismo democratizzante e parlamentaristico, si fossero, anche in Italia, venuti adattando a codesta concezione individualistica della concezione politica. Ma non era neanche lo Stato, la cui idea aveva potentemente operato nel periodo eroico italiano del nostro Risorgimento, quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze, forti della forza di una idea alla quale gl’individui si erano in diversi modi piegati e si era fondato col grande programma di fare gli italiani, dopo aver dato loro l’indipendenza e l’unità.

Gioventù e squadrismo

Contro tale Stato il Fascismo si accampò anch’esso con la forza della sua idea la quale, grazie al fascino che esercita sempre ogni idea religiosa che inviti al sacrificio, attrasse intorno a sé un numero rapidamente crescente di giovani e fu il partito dei giovani (come dopo i moti del ’31 da analogo bisogno politico e morale era sorta la “Giovane Italia” di Giuseppe Mazzini). Questo partito ebbe anche il suo inno della giovinezza che venne cantato dai fascisti con gioia di cuore esultante! E cominciò a essere, come la “Giovane Italia” mazziniana, la fede di tutti gli Italiani sdegnosi del passato e bramosi del rinnovamento. Fede, come ogni fede che urti contro una realtà costituita da infrangere e fondere nel crogiolo delle nuove energie e riplasmare in conformità del nuovo ideale ardente e intransigente. Era la fede stessa maturatasi nelle trincee e nel ripensamento intenso del sacrificio consumatosi nei campi di battaglia pel solo fine che potesse giustificarlo: la vita e la grandezza della Patria. Fede energica, violenta, non disposta a nulla rispettare che opponesse alla vita, alla grandezza della Patria. Sorse così lo squadrismo. Giovani risoluti, armati, indossanti la camicia nera, ordinati militarmente, si misero contro la legge per instaurare una nuova legge, forza armata contro lo Stato per fondare il nuovo Stato. Lo squadrismo agì contro le forze disgregatrici antinazionali, la cui attività culminò nello sciopero generale del luglio 1922 e finalmente osò l’insurrezione del 28 ottobre 1922, quando colonne armate di fascisti, dopo avere occupato gli edifici pubblici delle province, marciarono su Roma. La Marcia su Roma, nei giorni in cui fu compiuta e prima, ebbe i suoi morti, soprattutto nella Valle Padana. Essa, come in tutti i fatti audaci di alto contenuto morale, si compì dapprima fra la meraviglia e poi l’ammirazione e infine il plauso universale. Onde parve che a un tratto il popolo italiano avesse ritrovato la sua unanimità entusiastica della vigilia della guerra, ma più vibrante per la coscienza della vittoria già riportata e della nuova onda di fede ristoratrice venuta a rianimare la Nazione vittoriosa sulla nuova via faticosa della urgente restaurazione delle sue forze finanziarie e morali.

Il governo fascista

Lo squadrismo e l’illegalismo cessavano e si delineavano gli elementi del regime voluto dal Fascismo. Tra il 29 e il 30 ottobre ripartirono da Roma nel massimo ordine le cinquantamila camicie nere che dalle provincie avevano marciato sulla Capitale, partirono, dopo aver sfilato innanzi a S. M. il Re, partirono ad un cenno del loro Duce, divenuto Capo del Governo e anima della nuova Italia auspicata dal Fascismo.

(…)

Ma gli stranieri, che sono venuti in Italia, sorpassando quella cerchia di fuoco creata intorno all’Italia fascista dai tiri di interdizione con cui una feroce propaganda cartacea e verbale, interna ed esterna, di italiani e non italiani, ha cercato di isolare l’Italia fascista, calunniandola come un paese caduto in mano all’arbitrio più violento e più cinico, negatore di ogni civile libertà legale e garanzia di giustizia; gli stranieri che hanno potuto vedere coi propri occhi questa Italia, e udire coi propri orecchi i nuovi italiani e vivere la loro vita materiale e morale, hanno cominciato dall’invidiare l’ordine pubblico oggi regnante in Italia, poi si sono interessati allo spirito che si sforza ogni giorno più d’impossessarsi di questa macchina così bene ordinata e han cominciato a sentire che qui batte un cuore pieno di umanità, quantunque scosso da un’esasperante passione patriottica; giacché la Patria del Fascista è pure la Patria che vive e vibra nel petto di ogni uomo civile, quella Patria cui il sentimento dappertutto si è riscosso nella tragedia della guerra e vigila, in ogni paese, e deve vigilare a guardia di interessi sacri, anche dopo la guerra; anzi per effetto della guerra, che nessuno più crede l’ultima.Codesta Patria è pure riconsacrazione delle tradizioni e degli istituti che sono la costanza della civiltà, nel flusso e nella perennità delle tradizioni. Ed è scuola di subordinazione di ciò che è particolare ed inferiore a ciò che è universale ed immortale, è rispetto della legge e disciplina, è libertà ma libertà da conquistare attraverso la legge, che si instaura con la rinuncia a tutto ciò che è piccolo arbitrio e velleità irragionevole e dissipatrice. È concezione austera della vita, è serietà religiosa, che non distingue la teoria dalla pratica, il dire dal fare, e non dipinge ideali magnifici per relegarli fuori di questo mondo, dove intanto si possa continuare a vivere vilmente e miseramente, ma è duro sforzo di idealizzare la vita ed esprimere i propri convincimenti nella stessa azione o con parole che siano esse stesse azioni, impegnando chi le pronuncia e impegnando con lui il mondo stesso di cui egli è parte viva e responsabile in ogni istante del tempo, in ogni segreto respiro della coscienza. (…)

Il Manifesto di Gentile assegna una missione che potremo definire “religiosa” al fascismo; egli infatti, mutuando il concetto di Stato dal pensiero hegeliano, e dando ad esso il significato di stato etico, subordina l’interesse e la libertà individuale a quella dello stato. Dirà Gentile: «Il fascismo non vede altro individuo soggetto di libertà che quello che sente pulsare nel proprio cuore l’interesse superiore della comunità e la volontà sovrana dello Stato». Interessante inoltre, ci sembra il richiamo che il filosofo vuole sottolineare tra il Risorgimento ed il fascismo, mettendo in relazione il movimento mazziniano della “Giovane Italia” con le Avanguardie fasciste in camicia nera, insistendo sulla loro poca numerosità, ma capaci di portare il “Verbo” alle masse.

La risposta a tale manifesto fu quella di Croce, importantissimo filosofo napoletano, che, usando come strumento anche l’ironia, rintuzza con efficacia alle affermazioni un po’ “verbose” come lui stesso afferma, del suo collega Giolitti. Il suo manifesto venne pubblicato lo stesso anno sulle riviste “Il Mondo” e “Il Popolo” (tra i firmatari Luigi Einaudi, Aldo Palazzeschi e Eugenio Montale) 

MANIFESTO DEGLI INTELLETTUALI ANTIFASCISTI

Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizî della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine e della critica, e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso. E non è nemmeno, quello degl’intellettuali fascisti, un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. Nella sostanza, quella scrittura, è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocinî: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l’antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl’individui al Tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale […]. Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa della parola «religione»; perché, a senso dei signori intellettuali fascistici, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri e in quest’atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono proprî di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani dell’Università l’antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona, a dir vero, come un’assai lugubre facezia. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto;  e d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica, di aborrimento della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare inizio di un nuovo sistema politico, che si denomini dal fascismo. Per questa caotica e inafferrabile «religione» non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva, dell’Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversarî, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e morale. Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trista frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercè di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di  rinnovamento e (perché no) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governatori assolutistici e quietistici. Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amara con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.

Se in un primo momento Benedetto Croce aveva ritenuto il fascismo un argine contro la minaccia comunista, si riteneva certo che poi lo stesso sarebbe rientrato nell’alveo del liberalismo e quindi, in parte, neutralizzato. Capito il fallimento di tale prospettiva, si era ritirato e dedicato agli studi. D’altra parte si racconta che il cavaliere Mussolini, chiese ai suoi: “Quante copie tira ‘La Critica’?. “Millecinquecento”  gli risposero. “Allora lasciatelo perdere!”. Noi sappiamo e ci piace immaginare che la sua statura internazionale sconsigliasse a Mussolini stesso di perseguitarlo.

Per quanto riguarda il Manifesto degli intellettuali antifascisti, da lui redatto, egli affermava il diritto della cultura a indagare e criticare le opere di creazione artistica, affinché tutti potessero elevarsi alla più alta sfera spirituale. Allo stesso modo comparare l’ideologia fascista a una religione e legittimare lo squadrismo, cioè l’arbitrio e la violenza politica, riteneva fossero di per sé intollerabili perché privavano la dialettica politica, la sola in grado di comporre una migliore società civile; d’altra parte piegare anche la creazione artistica è come privare l’artista della necessaria libertà: per Croce arte e politica sono necessariamente separate, perché laddove venisse meno la libertà di pensiero ne consegue l’impossibilità di fare arte. In lui si sente il concetto di “arte pura” di cui la rivista “La Ronda” si fece portatrice.

Per quanto riguarda la letteratura, il fascismo trova un po’ di difficoltà a trovare un indirizzo che meglio lo possa rappresentare, e se mai uno ce n’è si tratta certamente di paraletteratura:

Liala, scrittrice di enorme successo commerciale (fino agli anni Settanta), che descrive, nei primi romanzi storie d’amore appassionate con bei ufficiali, rappresentanti l’uomo volitivo e forte, dell’aeronautica e della marina e Pitigrilli, autore del famoso romanzo Cocaina, con cui rendeva popolare la tipologia dei protagonisti dei romanzi dannunziani.

Se invece si parla di letteratura alta, il fascismo dovette convivere con esperienze diverse e in qualche modo opposte, ma tutte “internazionalmente” importanti, perlopiù con autori che avevano aderito al manifesto gentiliano: da il ricercato D’Annunzio, al futurista Marinetti, sino al premio Nobel Pirandello.

Esperienze importanti tuttavia furono:

Strapaese

L’idea di definire Strapaese un progetto culturale fu di Mino Maccari e lo concretizzò intorno alla rivista Il Selvaggio. Scopo era quello di raccontare un’Italia provinciale, con tipi umani spontanei e genuini, un po’ maneschi e plebei, bestemmiatori toscani: in una parola i protagonisti di coloro che “menavano le mani” contro i comunisti o i giornalisti antifascisti. Portavoce letterario di tale rivista fu Curzio Malaparte, che vi pubblicò vari testi in versi (canzoni), che vennero in seguito pubblicati nel libro l’Arcitaliano del 1928.

CANTATA DELL’ARCIMUSSOLINI

O italiani ammazzacattivi
il bel tempo torna già:
tutti i giorni son festivi
se vendetta si farà.
Son finiti i tempi cattivi
Chi ha tradito pagherà.
Pace ai morti e botte ai vivi:
cosa fatta capo ha.
Spunta il sole e canta il gallo
Mussolini monta a cavallo.

Dacci pane pei nostri denti
fantasie e cazzottature
ogni sorta d’ardimenti
di mattane e d’avventure.
Sono acerbi gli argomenti
ma le sorbe son mature:
siam tutti pronti e attenti
pugni sodi e teste dure.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

(…)

O Mussolini facciadura
quando smetti di far buriana?
Aspetti vento d’avventura
Greco libeccio o tramontana?
La stagione è già matura
il brutto tempo s’allontana:
per montagna e per paura
combatteremo all’italiana.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

Combatteremo alla vecchia maniera
guai a voi se prendiamo l’aire:
vi bucheremo la panciera
a lama fredda vogliam ferire.
La morte è buona cavaliera
piglia in sella chi vuol fuggire:
o traditori addio bandiera
Mussolini è duro a morire.
Spunta il sole e canta il gallo
o Mussolini monta a cavallo.

E’ chiaramente una canzone il cui senso apparente è quello di elogiare Mussolini (e d’altra parte lo fa). Tuttavia l’operazione di Malaparte è più sottile: la semplicità dei versi dal ritmo cantilenante non nascondono la mescolanza di parole auliche con quelle vernacolari (tipiche del dialetto senese), l’influenza letteraria di Berni, e, come un tappetto sottostante, la profonda ironia del testo. Ma fare un testo ironico sul duce poteva dar vita ad interpretazioni non proprio univoche.

D’altra parte al di là delle poesie di Malaparte e delle vignette satiriche di Maccari, ne Il Selvaggio poco di rimane di racconti in cui venga esaltato il vigore dell’italiano contadino; ci sembra infatti un’operazione totalmente intellettuale, che non abbia saputo realizzare il progetto cui ambiva.

Stracittà

A polemizzare con il progetto culturale di Maccari fu Massimo Bontempelli la cui aspirazione fu uscire dall’autarchismo letterario de Il Selvaggio e dare vita ad un vero e proprio inserimento della letteratura italiana nel contesto europeo. A tale scopo fondò la rivista 900 e, in opposizione allo Strapaese, definì il suo progetto Stracittà.

A fondamento della sua ricerca letteraria di questo periodo, che s’invera nei romanzi La scacchiera di fronte allo specchio (1922), Il figlio di due madri (1929), Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) Gente nel tempo (1937) è la ricerca di un’arte “che rifiuta così la realtà per la realtà, come la fantasia per la fantasia e vive nel senso magico scoperto nella vita quotidiana  degli uomini e delle cose”. Tale arte dovrà avere “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben poggiata sul suolo; e intorno come un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la nostra vita si proietta” Questi sono i canoni  con cui Bontempelli definisce il suo “realismo magico”.

Ad esempio della sua prosa prendiamo un brano da “La scacchiera di fronte lo specchio

LA VITA RIFLESSA NEGLI SCACCHI

Capitolo secondo
Spiegazione del titolo

Avvenne dunque un giorno, prima della guerra europea – e precisamente quando avevo otto anni – avvenne che per punizione fu chiuso, solo, virgola in una stanza.
E’ inutile raccontare perché mi avessero chiuso in quella stanza, tanto più che non lo ricordo. Sono incidenti che possono accadere a tutti quelli che hanno otto anni. Qualche volta accadono anche in età molto maggiore, e allora il fatto è più grave. Quella volta il fatto non era grave, tant’è vero che non ricordo perché mi avessero condannato a quella reclusione; la quale, diciamolo súbito, non durò che un’ora o due. Chiudendo me in quella stanza mi dissero:
«E non uscirai di qui finché non veniamo ad aprirti.» (Io pensai: «E’ naturale: se non vengono ad aprirmi come faccio a uscire da qui?»
Mi dissero ancora: «Sta attento a quello specchio, che non è da rompere. Nella stanza c’era un grande specchio, appeso a una parete appoggiato con la cornice inferiore sopra il piano di un caminetto. (Anche questa seconda raccomandazione mi parve superflua, perché tutti, anche a otto anni, sanno che gli specchi non sono fatti per romperli.)
Ci fu una terza e ultima ingiunzione, e fu la seguente. «E non toccare quella scacchiera.» Infatti sul piano dei già ricordato caminetto c’era una scacchiera con su tutti i suoi pezzi, bianchi e neri, disposti nelle relative caselle: trentadue pezzi, perché, chi non lo sapesse, i pezzi degli scacchi sono trentadue, come i denti dell’uomo.
Essendo posata sul piano del caminetto, la detta scacchiera veniva a trovarsi davanti allo specchio. Ed ecco spiegata già fin dal secondo capitolo, la ragione del titolo di questo racconto.

(…)

Capitolo quarto
Prima stramberia

Eccoci dunque in tre, come ho detto:
io,
lo specchio, la scacchiera.
Io guardavo lo specchio, lo specchio rifletteva la scacchiera.
Ho già detto che lo specchio era vecchio leggermente verdognolo. Io osservai súbito che i pezzi della scacchiera riflessi nello specchio erano, tanto i bianchi quanto i neri, più pallidi di quelli veri, e con i contorni meno nitidi, quasi sfumati: anzi, fissandoli un po’ a lungo, là dentro, mi pareva che avessero una leggera vibrazione come le erbe e i sassi che si vedono dentro l’acqua di un laghetto.
Non ho ancora avvertito una cosa importante: cioè che lo specchio, appoggiato sul marmo del caminetto, era leggermente inclinato in avanti, perciò la scacchiera e i trentadue pezzi che vi si vedevano stavano sullo stesso piano dei trentadue pezzi veri, ma sembrava che si arrampicassero sopra un leggero declivio.
Di là, i pezzi specchiati guardavano i pezzi veri; ognuno il suo compagno: il Re Bianco guardava al Re Bianco, la Regina Nera alla Regina Nera, e così via; e quelli di là, stando così in alto un po’ di sbieco, pareva che guardassero questi di qua con sprezzatura. Questi di qua si lasciavano guardare impassibili, e pareva che con questa indifferenza si vantassero forse da essere più coloriti, più nitidi, e ben posati sopra un piano perfettamente orizzontale.
Mi alzai una volta ancora in punta di piedi, per vedere se riuscivo a scorgere almeno un poco della mia persona nello specchio. Ma era inutile. Ho detto che non ricordavo se vi fosse nella stanza una sedia: penso ora che certamente non v’era, altrimenti sarei salito in piedi su quella.
Ma così stirandomi in su, feci la seguente riflessione:
«In quello specchio c’è tutto quello che c’è in questa stanza, la parete azzurra, la scacchiera, i pezzi: dunque se non mi vedo, ci devo essere anch’io.»
Allora accadde una cosa buffissima.
Accadde che il Re Bianco – non quello vero, che era di qua; quello riflesso e un po’ più pallido, che era di là – il Re Bianco cessò di fissare, traverso la superficie dello specchio, il suo compagno, e guardò invece verso di me, si scosse un poco e parlò.
Parlò proprio a me, e come se avesse letto nel mio pensiero, mi disse:
«Certo che ci sei. Sei qui sotto. Vieni anche tu di qua, e ti vedrai.»
Tutte le volte che ho ripensato a quel momento, e anche ora, il fatto mi è parso, e mi pare strambissimo e quasi incredibile.
Invece allora non ci troverei nulla di strano. Risposi tranquillamente:
«Verrei volentieri, ma prima di tutto non so come fare; in secondo luogo Ella deve sapere che mi hanno ordinato di non muovermi di qui fin che non vengono ad aprirmi.» Il Re Bianco di là dello specchio mi fece un obiezione:
«Quando dico che sei qui, intendo che qui c’è un altro come te: la tua immagine, via; siete due, come io e quel Re Bianco che sta costì dalla tua parte. Dunque se tu vieni di qua può anche darsi che la tua immagine passi di là, e così ci sarà sempre qualcuno per qualunque evenienza.
«Allora» obiettai «non è vero che incontrerò me stesso di là.
«Hai ragione. Ma sarà sempre una gita interessante.
«Lo credo» gli risposi. «Ma rimane sempre la prima difficoltà: non so come fare a venirci. Se Ella volesse insegnarmi…»
Il Re Bianco mi ammonì severamente:
«Con la volontà si riesce a tutto.»

E’ un libro pubblicato nella collana “Biblioteca dei ragazzi” della Bemporad. Racconta un episodio minimale: un bambino di otto anni viene messo in castigo in una stanza dove vi è uno specchio che riflette una scacchiera. La realtà riflessa appare al bambino più vera della realtà e ne nasce un vero e proprio dialogo tra ciò che lo specchio rimanda (in questo caso il Re Bianco) e il protagonista. Il fatto che il racconto sia omodiegetico, fa assumere allo stile il carattere veritiero che un bambino può vedere, mescolando appunto realtà e fantasia. D’altra parte il suo mondo è così scevro da ogni elemento dei doveri dell’adultità, facendogli reclamare la sua non confinabile libertà. Il modo di scrivere, come fosse quello di un bambino, fa sì che la tonalità infantile ed il fantastico si armonizzino tra loro, dando vita, così, al suo “realismo magico”.

La Ronda

La rivista La Ronda (1919 – 1923), anche in ottemperanza del suo nome che si richiama alla  vigilanza e al controllo, affinché si riacquistasse il senso dell’ordine, si pone in netta antitesi contro le esperienze sia dannunziane che pascoliane, quanto dall’intemperanze futuriste. Per i redattori di tale rivista vi è la necessità di un ritorno alla classicità del dettato, ad una prosa “elegante” e alla purezza dello stile. Innamoratosi della prosa leopardiana (dedicarono ben tre numeri allo Zibaldone) non furono nemmeno contrari al frammentarismo. Tenendo ben distanti la politica con l’arte, essi promossero sia la poesia con Vincenzo Cardarelli che la prosa con Emilio Cecchi, ambedue fondatori della rivista.

Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959), partecipò attivamente alla vita culturale romana, prendendo parte alla redazione e fondazione di alcune tra le riviste più importanti del primo Novecento. La sua poesia parla dello scorrere del tempo, della dolorosa memoria e adotta forme metriche libere di ascendenza leopardiana, che servono ad alleggerire la tensione emotiva.

Tra la sua produzione scegliamo un testo del ’31:   

AUTUNNO

Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.

Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.

E’ un testo dove a prevalere è il tema del trascorrere del tempo, percepito da un “noi” indefinito. I primi sette versi sottolineano il passaggio cadenzato dapprima dal vento d’agosto, poi le piogge di settembre, per concludersi con il sole smarrito, che ha perduto la sua forza e il suo calore estivo. Questi diventano metafora del passare degli anni nella vita di un uomo che “incedono” cioè passano lentamente, portandolo alla maturità che cancella “il miglior tempo” (citazione leopardiana).

ADOLESCENTE

Su te, vergine adolescente,
sta come un’ombra sacra.
Nulla è più misterioso
e adorabile e proprio
della tua carne spogliata.
Ma ti recludi nell’attenta veste
e abiti lontano
con la tua grazia
dove non sai chi ti raggiungerà.
Certo non io. Se ti veggo passare
a tanta regale distanza,
con la chioma sciolta
e tutta la persona astata,
la vertigine mi si porta via.
Sei l’imporosa e liscia creatura
cui preme nel suo respiro
l’oscuro gaudio della carne che appena
sopporta la sua pienezza.
Nel sangue, che ha diffusioni
di fiamma sulla tua faccia,
il cosmo fa le sue risa
come nell’occhio nero della rondine.
La tua pupilla è bruciata
dal sole che dentro vi sta.
La tua bocca è serrata.
Non sanno le mani tue bianche
il sudore umiliante dei contatti.
E penso come il tuo corpo
difficoltoso e vago
fa disperare l’amore
nel cuor dell’uomo!

Pure qualcuno ti disfiorerà,

bocca di sorgiva.
Qualcuno che non lo saprà,
un pescatore di spugne,
avrà questa perla rara.
Gli sarà grazia e fortuna
il non averti cercata
e non sapere chi sei
e non poterti godere
con la sottile coscienza
che offende il geloso Iddio.
Oh sì, l’animale sarà
abbastanza ignaro
per non morire prima di toccarti.
E tutto è così.
Tu anche non sai chi sei.
E prendere ti lascerai,
ma per vedere come il gioco è fatto,

per ridere un poco insieme.

Come fiamma si perde nella luce,
al tocco della realtà
i misteri che tu prometti
si disciolgono in nulla.
Inconsumata passerà
tanta gioia!
Tu ti darai, tu ti perderai,
per il capriccio che non indovina
mai, col primo che ti piacerà.
Ama il tempo lo scherzo
che lo seconda,
non il cauto volere che indugia.
Così la fanciullezza
fa ruzzolare il mondo
e il saggio non è che un fanciullo
che si duole di essere cresciuto.

E’ un testo che, come il precedente, parla del tempo, qui mettendolo al centro già dal titolo “Adolescenza”, il passare della giovinezza. La donna adolescente vive con leggerezza forse consapevole di quando sboccerà per diventare donna. Per ora ella non sa, non conosce, ma arriverà il momento in cui qualcuno si interesserà a lei e sarà la stessa che si perderà ed il tempo, che ama l’attimo in cui la gioia è ancora intorno a lei, e non il tempo che aspetta.

Il testo ci ricorda la canzone A Silvia, anche lì il poeta consapevole vede la giovinezza della dolce fanciulla dal di fuori, “d’in su i veroni del paterno ostello”; anche Cardarelli la guarda da lontano, ma se alla prima la Natura le ha negato di diventar donna, l’adolescente cardarelliana lo sarà, perdendo forse l’innocenza. Leopardiana è la scelta metrica endecasillabi e settenari, ma anche dannunziana con l’utilizzo di versi diversi. Il linguaggio è piano, ma sostenuto “recludi”, “veggo” “astata”, “gaudio” ed altre ancora, che tuttavia non inficia la scorrevolezza del testo che riesce ad essere armonicamente disposto.

Emilio Cecchi (1884 – 1966), fu un intellettuale e un finissimo critico letterario che interpretò con capacità più di mezzo secolo di letteratura italiana. S’interessò anche della letteratura inglese (Scrittori inglesi e americani, del 1935). Per lui l’arte è quello strumento che permette di restituire, elementi anche minimi di realtà, le ragioni affettive e morali dell’autore: l’ansia di una ricerca che tenta di aderire alle pieghe nascoste della vita e della psicologia dello scrittore studiato, attraverso una controllatissima immedesimazione. Tali qualità si apprezzano anche nel prosatore, che vuole programmaticamente delimitare la sua opera nell’ambito delle impressioni di viaggio, della nota, del bozzetto e dell’immagine. Come si può vedere in questo breve frammento:

IL CANGURO ZOPPICANTE

Il canguro zoppicava come un artritico. S’arrestò; e dondolandosi sulla vita, si dette la mossa e si trovò ritto sulle zampe posteriori. Aveva puntato in terra il poderoso bastone della coda e pareva un cavalletto a tre gambe.
Per un poco si tenne in tasca i suoi moncherini, fissandomi, con la bocca leprina accomodata all’atto di fischiettare. Ma poi cominciò ad accompagnarsi e sfoderati gli unghioni neri della orribile mano tra d’uomo e d’avvoltoio, si grattava la pancia, come se invece d’una pancia fosse una chitarra. In realtà era una pancia, sordida e intimpanita; e io non avrei saputo dire che cosa m’imbarazzasse più, se l’ostinazione di quei grossi occhi vitrei d’uccello col loro sguardo antidiluviano, o l’oscenità della ventraia che pareva insaccata di stoppa e spelata sulle ricuciture, come la pelle di una mummia tignosa.
Lo vedevo contro il sole, contro il sole più civico, più domestico: apparizione ributtante nella cui forma era un segno diabolicamente sovvertito della mia forma, confuso agli avanzi e alle rovine d’epoche condannate. E non capivo la necessità di rievocare, nel cerchio delle case e degli orti, cotesti spettacoli tenebrosi e irrimediabili, e non potevo capacitarmi per quale avvelenata curiosità e libidine di distruzione mi fossi fermato e fossi entrato.
Allora tra i ferri da un’altra gabbia scivolo qualcosa di flessuoso e formidabile, come un floscio serpe azzurrastro. Si mise a tastare nell’erba e nel fango avendo trovato quel che cercava si risollevò in spirali verso una lurida fessura triangolare che sormontava un gozzo appuntito, con pochi peli di barba.
Era un mostro calvo, a forma di montagna, che schizzava rosso dall’occhio suino e sventolava le orecchie smerlate come larghe foglie acquatiche, scrollandosi sulle colonne delle zampe avvinte di catene e schiacciate sotto il peso della mole rugosa che si sarebbe potuta credere coperta di minutissimi segni egiziani. Mi dissero che si dondolava così da almeno duecent’anni. Era nato al secolo che gli uomini andavano in parrucca e la moda prescriveva alle nostre avole i pennuti turbanti all’uso di Persia. Gli erano rotolati sul dorso i terremoti e gli sfaceli, le rivoluzioni, gl’interregni e i galoppi delle cavallerie di Napoleone. E aspettava tuttavia, dicendo di no dalla punta della proboscide al codino arroncigliato.
Io ho conosciuto gli elefanti storici. Quelli di Ramsete e quelli di Psammetico, quelli di Kipling, di Pirro, e il pulcino di piazza della Minerva. Ma cotesta massa senza tempo pareva lì a negare il Tempo, col suo scrollo inutile e colossale; e addirittura a stritolare e sperdere anche il piccolo, lo straziante, piccolo tempo che m’è toccato, che rodono e consumano dentro di me tanti altri avversari. La cupola della sua groppa montava violenta come una nuvola nera. Una nuvola di pietra che volesse otturare il cielo.

In questa breve rassegna di autori rondisti non può mancare Riccardo Bacchelli (1891 – 1985), autore poliedrico toccò varie tipologie sia artistiche che critiche. Per le prime dà cita ad una serie di romanzi che vanno dal registro ironico a quello psicologico (Una passione coniugale) o a quello storico (Il diavolo al Pontelungo), ma la sua penna si esercitò anche nella critica letteraria, con saggi su Fogazzaro,  Leopardi e Manzoni. Si occupò anche di critica musicale. Il suo capolavoro è un poderoso romanzo storico, in tre volumi, Il mulino del Po.

IL SALVATAGGIO DI CECILIA

Era dunque la piena lunga del ’39, e a bordo del San Michele appiardato provvisoriamente a ridosso della punta, i quattro uomini si alternavano alla guardia della corrente. Tre sfaccendavano sotto la loggia e attorno ai palmenti, o dormicchiavano pigri e svogliati, perché il vento, continuo già da due mesi da ostro e da scirocco, or più greve e fastidioso or più spiegato e rabbioso, sempre afoso, gravava il cervello e ammolliva le gambe, e, rendeva stanchi e sudaticci per la minima fatica. Quello che stava alla guardia sull’andialetto, addossato alla parete, con un arpione di lungo manico a portata di mano, ravvolto nel ferraiuolo, prendeva la pioggia e guardava annoiato ciò che veniva giù per il fiume, ma specialmente se la secca il pennello della Guarda teneva duro contro il rodio del fiume paziente furioso. Codesta secca e quel pannello di gabbioni, infatti formavano la punta di cui era protetto il mulino.
Dalla lanca, dove l’acqua a momenti ridondava e girava a ritroso in tondo su se stessa, di modo che l’ulà si fermava, quasi stanca; dal mulino, si scorgeva la corrente, l’immane flusso della piena, fremere ribollire infuriando sulla punta, scrosciare e rimbalzare, fuggire con una fila di gorghi e di risucchi avidi e astiosi, che segnavano il margine fra le acque vive grosse del filone, e le semimorte della lanca.
Affioravano e affondavano, veloci, i più diversi oggetti; e qualcuno veniva spinto dalla corrente dell’acqua pigra, aggirato a lungo, respinto e ripreso. Potevan diventare pericolosi, se un mutamento del letto venisse a buttare contro il mulino tutta o parte della corrente; erano tronchi d’albero, barche perdute, e masserizie e carri colonici anche, o caduti dagli argini su cui la gente spaurita s’accalcava con le sue robe, o rapinati dal fiume nelle golene o nei campi invasi; eran carogne di animali domestici e di stalla, sordide e sconce, ben tristi, coinvolte e travolte.
A Lazzaro, quella furia paziente degli elementi ricordava, guardando il fiume, una cosa lontana nella memoria, e che non sapeva ritrovare. La ritrovò, quando le giornate marcie di quel novembre sciroccale si fecero così brevi e buie sotto la cupa nuvolaglia, che il giorno pareva sorgesse soltanto per annotare. Tali giornate gli rammentarono le Russie. Il torbido scirocco, che gonfiava e ostacolava il fluire della disperata vena del fiume, che assiepava le acque adriatiche contro le foci del Po, lavorando così alla perdita del paese, era nemico degli uomini, come i geli spietati di quell’atroce inverno della ritirata da Mosca. Il Po insidioso riportava lui al Vop micidiale, e a quel giorno disastroso della sua giovinezza avventurosa.
Ed ecco un grosso natante, ben più grosso dei soliti, veniva giù giù col fiume. Era un mulino. Scansò, come volle fortuna, la punta, contro la quale ci sarebbe sfasciato, e tra il ribollio della ribattuta e l’onda della corrente libera, per un istante rullò col sandoncello e beccheggiò col sandon grande, fra due acque, simile a un cavallo riottoso e bramoso, tenuto a freno, che si tramuta fremendo d’una zampa sull’altra, e su tutte scalpita e balza. Così lo videro, trabalzato e conteso dalle due acque sulla punta che dirompeva il fiume; e subito che fu ripreso dalla corrente e rientrò nel filo, strapoggiò, si mise in traverso, diede di banda, sicché sembrò dovesse ribaltarsi, camminando per fianco travagliosamente. Poco andò, che ridrizzato dal fiume, mise le prore sulla via d’andare a investire la proda opposta alla svolta, il che sarebbe avvenuto senza scampo, se l’abbrivo impressogli dalla corrente non l’avesse sviato d’improvviso nelle acque torbide della lanca.
Schiavetto era saltato sul sandalo con un’ ancorotto, e raggiungeva il relitto, e l’ancorava. Poi tutti e quattro, a forza di remi, colla barca lo rimorchiarono al sicuro. Ma sbandava dalla parte del sandon grande, mezzo pieno d’acqua e aggravato dalle macine; del resto, pur essendo di antica costruzione, appariva robusto e ben conservato. Perché non andasse a fondo, era urgente arenarlo; la qual cosa fu fatta. Vi salirono poi Giuseppe e Schiavetto. Scacerni, con Malvasone, aspettava sul sandalo. Sentì un’esclamazione di meraviglia, e vide comparire Schiavetto con una giovinetta fra le braccia, fuori dai sensi.
Ecco quattro uomini impacciati. Era tutta bagnata indosso, e doveva essere sfinita dal freddo e dallo stento. Il viso emaciato ed esangue faceva gran pietà.
«Che sia morta?» disse Schiavetto nel calarla fra le braccia di Scacerni.
«Chi può mai dirlo?» fece Malvasoni «Le donne sono come i gatti.»
«Qui,» disse Scacerni «ci vuole aiuto di donne: la porto da Venusta Chiccoli. Schiavetto, sellami il cavallo.»
Sbarcarono, e Schiavetto corse a sellare il cavallo del padrone legato a un alberello sulla riva. Poco dopo, Scacerni trottava, colla svenuta in braccio, verso la Guarda.
Messa a letto fra panni di lana e bottiglie d’acqua calde, Venusta la soccorse, la ravvivò, la rianimò con l’aceto dei sette ladri. Si riscosse finalmente la poverina con un profondo sospiro, e tornò a svenire due volte, ma, riaprendo gli occhi per la seconda, già cercava e distingueva a quelli affettuosi e seri della Venusta, che le porgeva un cordiale. Sorrise un poco, e colla poca voce che poté avere trasognata:
«Dove sono?» domandò.
«Fra amici, non vi affannate,» le diceva Venusta.
Era visibile in quegli occhi uno stupore così grande e strano, che Venusta ebbe un’inquietudine e disse a  Scacerni:
«Vive, ma che sia diventata matta, poverina? Ohi, ohi, che cosa succede adesso?»
Lo stupore della ragazza s’era cangiato in spavento, ed ella voleva levarsi, chiamava disperatamente, benché fievole e fiocca, il babbo. Poi sbarrò gli occhi, e rimase come tramortita.
Colla vita e la coscienza, tornava dolore che lei non aveva ancor la forza di dire né di concepire intiero, ma le si vedeva negli occhi pauroso.
«Ve l’andiamo a cercare,» le diceva Venusta «ve lo mandiamo a chiamare il babbo: diteci di dove venite, dov’era la piarda del vostro mulino. Poverina, le sta venendo un febbrone, e non vorrei che il cervello non reggesse,» soggiunse rivolta a Scacerni, che assisteva impietosito. «Non mi piacciono questi occhi invetrati: sarebbe meglio che piangesse si disperasse. Diteci dunque, poverina: chi era, come si chiamava vostro padre?»
Quasi che ridestandola al dolore la richiamasse alla ragione, ruppe in un pianto disperato.
«Meglio questo,» diceva la Venusta lasciandola sfogare, «è molto meglio così. Poverina, poverina … Dunque» soggiunse quando i singhiozzi cominciarono a placare un poco, «che cosa possiamo fare?» Fece di no con la testa e disse sconsolata:
«Nulla. Vi ringrazio. L’ho visto morire.»
«Dove? Quando?»
«Nel fiume.»
Più tardi raccontò. Si chiamava Cecilia, unica nata di un Rei, mugnaio, che viveva solo, con lei sola, vedovo della madre morta nel partorirla, sul vecchio mulino appiardato in un tratto solitario di un fiume, contro una proda di golena larga, imperdia e selvosa. Codesto misantropo Rei scendeva a terra soltanto per necessità e rarissime volte, e la figlia non l’aveva lasciata sbarcare nemmeno una volta, fosse gelosia dell’indole, o stravaganza del cervello, o altra ragione che nessuno avrebbe mai più saputo. Certo le aveva voluto un gran bene dell’anima, e giudicando col senso comune, un bene pazzo. Da bambina e da ragazzina, Cecilia era cresciuta senza conoscere altro di umano fuor che codesta passione paterna, che s’adombrava di qualunque parola le fosse rivolta dai contadini che venivano a far macinare, o dalla gente che passando in barca la scorgeva di lontano e la salutava. E tanto bastava per rannuvolare il Rei, che le raccomandava di non rispondere, di non guardare, di non farsi vedere, di rientrar subito nella casa del sandoncello. La passione aveva infatti dato anche più nello strano col crescere della figliuola, e col crescer bella d’adusta e vigorosa bellezza bruna; tanto più quanto lei mostrò di saperlo, perché non conoscesse l’uso degli specchi. A che serviva, le diceva il padre, esser bella? Brutta, le avrebbe voluto anche più bene, e sarebbero stati più tranquilli. “Perché, chiedeva lei perché di sì, rispondeva lui.

Il brano ci offre la possibilità di analizzare l’opera di Bacchelli da due punti di vista:

  1. Tematico: la scelta del romanzo storico il cui vero protagonista dell’intero romanzo è il Po. Grazie ad esso si svolge la vita di ben tre generazioni e qui, in questo breve estratto, ne abbiamo chiarissima dimostrazione: s’inizia con il salvataggio di un mulino, grazie ad esso si trova semiassiderato il corpo di una giovane donna, la quale, perso il padre, travolto dal fiume, troverà nuova vita accolta dai due vecchi;
  2. Stilistico: Bacchelli mescola sapientemente terminologia tecnica con parole auliche, prese dalla forma classica. Anche il periodare è ampio, denotando il gusto per un argomentazione ariosa. Non mancano inoltre varie figure retoriche come la dittologia, l’allitterazione e metafore.

Solaria

Esaurita l’esperienza rondesca, le sue istanze furono proseguite da Solaria (1926 – 1936): se La Ronda aveva puntato il suo interesse sulla ripresa classica della tradizione (basti l’esempio di Bacchelli), questa rivista intendeva allargare lo sguardo verso le grandi forme letterarie europee nate tra l’Ottocento e il Novecento. Essi infatti guardarono con interesse alla narrativa russa di Dostoevskij, alla francese di Proust, alla tedesca di Mann e, d’estremo interesse per il nostro discorso (si ricordi che siamo all’interno del fascismo) quella ebraica di Kafka. Se la rivista poté – pur guardata con sospetto dalle gerarchie del regime – passare indenne dieci anni, fu il suo chiudersi all’interno della letteratura, censurando ogni forma d’interesse verso l’esterno.

Come esempio osserveremo l’opera di Giovanni Comisso (1895 – 1969). Affascinato dalle esperienze più diverse (fu commerciante, mercante d’arte, libraio, avvocato) e soprattutto dalla libera vita di mare, espresse le sue qualità poetiche in racconti, libri di ricordi e nelle corrispondenze giornalistiche. La sua produzione narrativa va da Il porto dell’amore ristampato nel 1928 col titolo Al vento dell’Adriatico, Gente di mare del ’28 e vari racconti. Scrisse anche saggi, tra cui il più famoso è Il mio sodalizio con De Pisis. Fu scrittore d’istinto che consegnò alla pagina l’esperienza di una vita trascorsa come meravigliosa, felice avventura.

Il maggiore esempio della sua capacità di rappresentare reale con acuta sensibilità visiva è Giorni di guerra pubblicato nel 1930, dove egli trascrive con efficacia le impressioni più elementari dell’esistenza che scorre nelle ore di sole di vento, nella fatica e nel riposo.

LA RITIRATA DOPO CAPORETTO

Il paesetto dove avevamo pernottato si chiamava Fagagna. L’alba era umida, la strada fangosa, ma non pioveva. Il nostro passo si risvegliò sulla strada con un’ energia che non ci doveva mancare. Si andava verso Bonzicco per passare il Tagliamento. La strada era deserta, da prima dava piacere perché si poteva camminare spediti, poi finì per impressionare. Nessun soldato, nessun carro per la strada diritta fiancheggiata da acacie, tutta arata dalle ruote dei carriaggi. Nella notte mentre noi si dormiva, tutti se ne erano andati. Si pensava di avere troppo ritardato, così da essere proprio gli ultimi di tutto l’esercito in ritirata. Non avevamo armi, eravamo in pochi e all’apparire dietro di noi dalle prime pattuglie nemiche non potevamo che arrenderci. Ognuno doveva essere dominato da questo stesso pensiero, ma nessuno osava comunicarlo, il passo dei miei soldati sul fango lamentoso si era fatto agitato, per dare la calma scesi dal mulo e merciai con loro. Indispettito contro quel fango più non sentivo l’acqua entrarmi per le suole consumate. Se volgevo lo sguardo verso i miei soldati, era anche per guardare in fondo alla strada deserta se apparisse qualcuno e al mio insistere, anche qualche altro si voltava a guardare. La luce bieca e la terra disfatta dall’autunno non potevano essere più favorevoli a un episodio di arresa o di sterminio, ma al prossimo paese le donne che portavano il latte dalle stalle a una fabbrica di burro, ci tolsero ogni ansia.
Si seppe che il ponte di Bonzicco era crollato nella notte trascinato dalla piena: per questo nessuno percorreva quella strada. Ci rimaneva allora solo da puntare verso Codroipo per passare il Tagliamento sul Ponte della Delizia. Presa una piccola strada, si camminò a lungo nel livido della giornata senza sole, lasciandoci abbandonare a un passo dolce. La distanza non era grande, ma assecondati dalla buona strada si percorse di certo una deviazione immensa, perché solo verso sera si arrivò in vista del Tagliamento e ancora distanti una decina di chilometri dal ponte.
Trovammo da poterci riposare in una casa assieme a un gruppo di allievi ufficiali, giovanissimi e distinti. Se ne andavano beati all’avventura. I contadini ci fecero la polenta, avevo il burro comperato al paese attraversato nella mattina e i miei soldati si arrangiarono con i polli rubati. Dormimmo nella stalla e alla mattina, dal mio giaciglio, scorsi gli allievi ufficiali reclinate le teste leggiere nel respiro dell’ultimo sonno. L’alba illuminava, tra la camicia aperta, il loro petto bianchissimo. Le voci allarmate dei miei soldati, dal cortile, li destarono. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati con gli auto cannoni a Bonzicco. Verso le montagne il cannone sparava lento, pesante e tetro. Il Ponte della Delizia non distava molto e ci mettemmo in cammino sicuri che al di là del Tagliamento si sarebbe finalmente terminato il marciare.
Un rumore continuo di motori, di carri, di voci  e di passi si sentiva avvicinandoci al ponte. La strada era ingombra. Un cannone, sfasciata una ruota, ostruiva il passaggio. Molti, stanchi di attendere, abbandonavano gli autocarri e proseguivano a piedi: signore con poca roba assieme ai soldati, una fila di soldati ammanettati, con paia di scarpe nuove da borghese appesa al collo, qualche ufficiale superiore solo con una valigetta, prigionieri austriaci che se ne andavano liberi. Tutti venivano svelti per passare il ponte. Si temeva di non riuscire e il terreno sul ponte era così consumato che già apparivano le travi. Il ponte vibrava il passaggio. Sotto l’acqua tumultuava nella piena. Un aeroplano cadde tra sfracellandosi su di un ghiaione. Una carretta davanti a noi con una ruota sterzata e immobilizzata proseguiva ancora scavando il fango. Il ponte vacillava. Non si credeva resistesse. Un cavallo, stramazzato a terra, più non si rialzava e venne buttato nel torrente. La ruota sterzata resisteva. Ancora pochi metri e si sarebbe arrivati all’altra riva dove si riteneva di trovarci del tutto al sicuro. Il terreno più non vibrava sotto i nostri piedi. Il ponte era finito.
Come un’altra aria era di là. Qualcuno fermo ci guardava arrivare e sorrideva. I campi vicini erano invasi da soldati che accendevano fuochi. Uno si era messo a radere barbe all’aperto. Altri tiravano su da un fosso un cavallo morto e già preparavano le baionette per dividerselo. Ritrovammo il nostro carrozzino e subito ci rifornimmo. Gli altri soldati, vedendo la nostra abbondanza, venivano a domandarmi di aggregarsi alla mia compagnia.
Si cercò una casa dove passare la notte e, poco lontano dal fiume, trovammo in fondo a una stradetta una grande casa di contadini. Il cortile era pieno di soldati, altri apparivano nella cucina, alle finestre, nella stalla, al di là della siepe nei campi. Alcune donne molto calme pensavano a procurarci qualunque cosa si chiedesse. Per nulla si preoccupavano alle innumerevoli richieste. Parevano abituate a servire molta gente. Volevamo una grande pentola per cucinarvi galline, conigli, carne delle scatolette e anche un piccolo maiale. Alcuni già si erano disposti a spennacchiare, a spelare, a scuoiare e a tagliare a pezzi. Altri presero un grande carro piatto per usare come tavola e vi portarono le stoviglie e il vino. Il fuoco fu acceso sotto la pentola. Molti venivano a guardare più che curiosi e allora parve necessario farci tutti vicini alla pentola pronti a difenderla. Specialmente alcuni soldati napoletani insistevano ad annusare l’odore dell’intingolo, ma dai napoletani del mio plotone e specialmente da un sergente che aveva una voce dolcemente modulata vennero consigliati di girare al largo. Al cominciare della sera si attaccò a cenare, qualcuno disse che non si vedeva, allora si chiese alle donne un paio di candele si ebbe anche queste.
Dai campi vicini veniva il grande brusio degli accampati, sovente si accendevano risse e scoppiavano bombe lanciate per spaventare i contadini e potere rubare galline, se ancora ve ne erano.
Dopo cena andammo a dormire in un grande fienile vicino alla casa quasi con il pensiero che non ci si sarebbe mossi per un bel pezzo. Altri soldati dormivano affondati nel fieno e bisognava stare attenti a non pestarli, qualcuno accendeva un cerino e subito si gridava di non dare fuoco. Altri continuavano ad arrivare, molti a coppia, di armi diverse, neanche compaesani, compagni di viaggio di ventura incontratisi sulla stessa strada, decisi di arrangiarsi assieme, presi da inattesa simpatia. Il sergente napoletano era venuto a dormire vicino a me quasi nella stessa buca e mi sarebbe piaciuto andare con lui, così come quelli che sopraggiungevano, preso dall’incanto della sua voce sommersa come in un vago rancore e parlante di più nell’eco che suscitava attorno ai suoi occhi.
All’alba, mentre gli altri si rialzavano per partire, dal cortile gridarono di sloggiare presto, perché si stava per far saltare il ponte. Si diceva che gli austriaci fossero arrivati sulla riva opposta e avessero iniziato scariche di mitragliatrice. Tutti si precipitarono sulla strada, una colonna di artiglieria stava ferma senza poter proseguire. Pareva tutti avessero riposato molto bene, gli ufficiali a cavallo andavano su e giù presi dal piacere del sole che li avvolgeva sull’alto delle loro selle. Uno gridò a un soldato: «Torna all’ albergo che vi ò dimenticato il fustino della mia camera».
A stento si riuscì a passare ed eravamo già avanti sulla strada quando dietro a noi s’intese il fragore delle mine che rompevano il ponte. Si arrivò a Pordenone, qualche bandiera smorta pendeva dalle finestre chiuse delle prime case del paese. Come fosse mercato le strade erano affollate di donne che avevano ritrovato tra i soldati i loro mariti o parenti e di soldati che insistevano nei caffè e nelle botteghe a ricercare qualcosa da mangiare. Davanti a un negozio di pizzicagnolo, dove non vi era più niente, un soldato, rotto con il calcio del fucile un vetro che copriva un breve strato di pasta messo per mostra, raspava con le mani nere e mangiava quella roba cruda e insecchita dal sole. Altri cercavano in grandi vasi di peperoni, ma nulla riuscivano a pescare nella brodaglia, che poi qualcuno osò bere. Un gruppo di carabinieri armati e furibondi, si fece largo tra la folla, trainando un carretto pieno di sacchi di pane. Avevano prelevato questo pane per loro dai magazzini della stazione. Si tenevano pronti alla difesa e mai erano apparsi minacciosi a tale punto. Minacciavano come uomini e come carabinieri. E se la folla li lasciava passare, poi però li inseguiva con urla: «Voi sì, camorristi, avete avuto il pane». «Venduti, sempre ingrassati». Anche le donne gridavano e mostravano i pugni, fiere di avere trovato i loro uomini, che presto si portavano a casa per vestirli subito da borghesi. Un soldato della mia compagnia che ci aveva preceduti ed era di quel paese, lo ritrovai vestito così. Era padrone di un caffè e nella retrobottega ci offerse, a bicchieri da vino, un dolcissimo liquore ricostituente. Tutti ne riempimmo le borracce. Mi assicurava che appena messa a posto la famiglia, ripresa la divisa, ci avrebbe subito raggiunti e mi regalò una bella bottiglia di liquore che infilai nella tasca del cappotto. Per le strade era l’inferno, e si continuò a marciare.

“Il ritmo narrativo, serrato e senza indugiare ad un facile descrittivismo, scandisce il racconto in brevi e concentrate unità sintattiche. La paratassi è lo strumento della rappresentazione comissiana, che allinea sapientemente le immagini l’una dietro l’altra, e le accumula senza gremire e opprimere la pagina, lasciando ad ognuna una funzione autonoma. La semplicità della tecnica narrativa contribuisce ad incidere un quadro di drammatica forza, in cui gli eventi si succedono angosciosamente, per una sorta di logica conseguenza e tuttavia non appaiono mai scontati o prevedibili, ma si rivelano con l’evidenza di una naturalezza assoluta”. (Scrivano)

Ermetismo

Con il termine “Ermetismo” s’intende un movimento poetico, nato a Firenze ed operante intorno agli anni ’30, che, riunitosi intorno alla rivista “Campo di Marte” dà vita ad un tipo di poesia che, sulla scia del simbolismo di Valery, ne accentua il valore, arrivando ad un dettato che a volte, grazie all’analogia, può apparire oscuro.

Il termine venne dato dal critico Francesco Flora che in un saggio del ’36, inserì in tale movimento gran parte dei giovani poeti, da Ungaretti a Montale. Egli utilizzò tale definizione in modo negativo, ma fu Carlo Bo, in quello che potremo definire come il manifesto di tale poetica, “Letteratura come vita”, ad appropriarsene: d’altra parte fu proprio il leggendario Ermete Trismegisto a scrivere “testi ermetici”, con un fondo di religiosità ed orfismo, di derivazione neoplatonica.

Essi furono alla ricerca di una “poesia pura”, fornita di un linguaggio essenziale, spoglia di qualsiasi abbellimento estetico. Il suo fine è quello di superare i limiti della finitezza mondana e trascendere verso l’assoluto: da qui il senso mitico/religioso dell’esperienza poetica.

Di qui l’importanza data alla “parola”: solo essa è in grado di evocare affinché possa giungere all’essenzialità di un significato, (grazie al suo portato polisemico) da condividere con il lettore.

Non importa cioè cogliere il significato, ma la condivisione dell’esperienza tra il poeta e colui che usufruisce del testo poetico: tendere insieme verso l’assoluto.

Per riassumere potremo definire i principali aspetti della poesia ermetica:

  1. L’azzardo del nulla, la tensione verso ciò che non si può dire, il silenzio e l’assenza;
  2. Ricerca di purezza e assolutezza del linguaggio;
  3. Valore salvifico ed evocativo della poesia, fino ad esiti religiosi
  4. “Rendere nuda” la parola, togliendo l’articolo e scegliendo termini vaghi e indeterminati;
  5. L’uso insistito dell’analogia e della sinestesia;
  6. Lessico raro e colto;
  7. L’utilizzo di metri tradizionali e forme chiuse come il sonetto.

Qualcuno ha definito l’Ermetismo come una forma attraverso cui alcuni intellettuali si opponevano al regime. Certo la mancanza di magniloquenza e di retoricità, la ricerca di un’arte che valesse per se stessa e non avesse valore civile, può certamente apparire come forma antifascista. Ma è pur vero che l’essenzialità ungarettiana (accademico d’Italia, iscritto al Partito fascista) ed i versi montaliani (così espressamente antifascisti, per non parlare della sua firma nel Manifesto crociano) non esularono loro dal prendere posizione; il loro Aventino, come in parte i rondisti, non esaltò ma neanche disturbò la politica del duce.

Tra i maggiori ermetici ci piace ricordare Salvatore Quasimodo (1901 – 1968), poeta siciliano. Fra le sue più importanti raccolte poetiche ricordiamo Acque e terre (1930) e Oboe sommerso (1932). Nel 1942 la terza raccolta poetica, Ed è subito sera. Dopo la guerra la sua poesia si apre a temi maggiormente civili, come nella raccolta Giorno dopo giorno. Alcuni ritengono che il suo capolavoro sia la traduzione dei Lirici greci, del ’40. Nel 1956 viene insignito del premio Nobel per la letteratura.

VENTO A TINDARI

Tindari, mite ti so
Fra larghi colli pensile sull’acque
Delle isole dolci del dio,
oggi m’assali
e ti chini in cuore.

Salgo vertici aerei precipizi,
assorto al vento dei pini,
e la brigata che lieve m’accompagna
s’allontana nell’aria,
onda di suoni e amore,
e tu mi prendi
da cui male mi trassi
e paure d’ombre e di silenzi,
rifugi di dolcezze un tempo assidue
e morte d’anima

A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro:
altra luce ti sfoglia sopra i vetri
nella veste notturna,
e gioia non mia riposa
sul tuo grembo.

Aspro è l’esilio,
e la ricerca che chiudevo in te
d’armonia oggi si muta
in ansia precoce di morire;
e ogni amore è schermo alla tristezza,
tacito passo al buio
dove mi hai posto
amaro pane a rompere.

Tindari serena torna;
soave amico mi desta
che mi sporga nel cielo da una rupe
e io fingo timore a chi non sa
che vento profondo m’ha cercato.

Vento a Tindari è una poesia sull’assenza, sulla lontananza determinata dall’esilio del poeta, guardiamo le stanze, una per una:

  1. il ricordo di Tindari e del suo clima mite invade il cuore del poeta;
  2. mentre sta con amici sull’alto di un monte, il richiamo del paese natio lo invade, con i suoi suoni ed amore, mentre ora c’è ombra e morte nel cuore;
  3. Tindari non sa dov’è che il poeta scriva i suoi versi;
  4. L’esilio è aspro, di contro all’armonia che il suo paese gli offriva;
  5. Un amico gli indica il precipizio, il poeta finge di aver timore per nascondere l’emozione del ricordo.

Il testo ha come parola chiave, già dal titolo il “vento” (v. 7 “vento dei pini”; “vento che m’ha cercato”). Già dal primo caso questo vento esula da un aspetto puramente atmosferico, per acquistare un valore analogico, (vento che attraversa gli alberi, ma che inoltre lo conduce lontano, verso il recupero di un mondo lontano, dove ha lasciato i suoi affetti). La ricerca delle parole e della loro disposizione nel testo è ricercatissima, l’analogia presente nel testo si ottiene attraverso spostamenti lessicali (iperbato) accostamenti di percezioni lontane (sinestesie), metafore. Inoltre la scelta delle stesse rimandano ad un senso di profonda vaghezza sentimentale.

I richiami alla classicità sono presenti: la mitizzazione dell’isola, ad esempio. Ma più ancora è il riferimento dantesco nella terza strofe.

OBOE SOMMERSO

Avara pena, tarda il tuo dono
in questa mia ora
di sospirati abbandoni.

Un oboe gelido risillaba
gioia di foglie perenni,
non mie, e smemora;

In me si fa sera:
l’acqua tramonta
sulle mie mani erbose.

Ali oscillano in fioco cielo,
labili: il cuore trasmigra
ed io son gerbido,

e i giorni una maceria.

Forse uno dei tentativi più estremi dell’analogia, tanto che il critico De Robertis parlò di un vero e proprio non-sense.  Eppure a leggere bene potremo intuire un momento d’attesa, il suono di un oboe sommerso, parole poetiche lontane, di felicità, dette da un altro. Per lui tale gioia non c’è; il cuore vola lontano dal luogo in cui era felice, è la realtà odierna è solo “maceria”.

ED E’ SUBITO SERA

Ognuno sta solo nel cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Julian Peters: Poeti italiani

“Il componimento si basa su una fulminea immagine di solitudine esistenziale dell’uomo, siglata dal fatale e rapido sopraggiungere della morte. Quasimodo riesce a condensare in tre versi tutta la tragedia della condizione umana:

  1. la vita è breve
  2. ma la luce è accecante ed intensa
  3. e subito arriva la sera, cioè la morte

Soprattutto il poeta insiste sulla solitudine (“Ognuno sta solo”), sconsolata e senza scampo, che non è soltanto dell’uomo ma di ogni creatura. L’uomo viene così escluso da un mondo di sentimenti e di valori cui è vanamente proteso nell’illusione di ritrovare frammenti di se stesso (“sul cuor della terra”). Nel secondo verso si assiste a un capovolgimento del termine sole che perde l’accezione positiva e vivificatrice e si trasforma in strumento di dolore e di inesorabilità (“trafitto”). Attraverso l’uso della congiunzione copulativa (“ed è”) la luce del sole del secondo verso denuncia la sua inconsistenza: si genera un rapporto di continuità con il termine sera, assunto a metafora della morte. In tal modo sia il sole sia la sera diventano allegorie della perdita e della sconfitta esistenziale”. (Corrado Bologna)

Mario Luzi

L’altro grande poeta la cui produzione iniziale si può iscrivere all’ermetismo è Mario Luzi (1914 – 2005). Sin da giovane egli è mosso da una profonda spiritualità cattolica che lo fa avvicinare ai grandi poeti trecenteschi Dante e Petrarca. Luzi traduce da queste matrici culturali la tensione della ricerca di tensione verso la pienezza di uomo e spirito. Tale tensione, tuttavia, non sempre viene esaurita: ed ecco allora che la sua poesia diventa registrazione di tale lotta: storia contro assoluto, tempo contro eternità, decisione contro indecisione.

La raccolta poetica con la quale esordisce è La barca, pubblicata nel 1935:

ALLA VITA

 Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s’inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d’Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul bimbo che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d’aspettare l’avvenire.

Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s’alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.

La poesia inizia con un invito dantesco, quel famoso “Guido, i’vorrei che tu Lapo ed io”, diventa un “Amici, ci aspetta una barca”, quindi il richiamo verso loro di cercare con affetto Dio, ma tale affetto è insufficiente. Nella seconda strofa l’invito è nel guardare il mondo ed il tempo del mondo che fluisce. Ma scende la Madonna a raccogliere i desideri e i dolori degli uomini: la styanza si chiude con ragazze alla finestra che aspettano l’avvenire. Infine una voce senza origine, materna che ci parla alternandosi con quella della terra: sono loro ad averci donato la vita.