Busto Di Marco Anneo Seneca
Lucano appartiene alla famiglia degli Annei. Infatti è nipote di Seneca, figlio di Anneo Mela, fratello minore del filosofo.
Nasce come lo zio a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C. In giovane età è condotto a Roma, dove studia presso il famoso filosofo Anneo Cornuto, che pur non parente, apparteneva alla stessa gens. Nella sua scuola Lucano conosce il poeta Persio, con il quale stringe un’importante amicizia. Mostra subito una brillante intelligenza che spinge Nerone ad inserirlo tra i suoi più stretti amici (cohors amicorum): ci viene raccontato che durante i Neronia (festività istituita dallo stesso imperatore) egli recitasse lodi a lui rivolte. Fu così apprezzato da ottenere la questura prima dell’età necessaria per iniziare il cursus honorum. E’ in questo periodo che alcuni vogliono far cominciare la stesura del suo poema, pensando che egli abbia composto i primi tre libri. All’improvviso, avviene la rottura con Nerone: i motivi, sulla base degli storici successivi, possono essere tre: l’invidia dell’imperatore per la straordinaria capacità del giovane, capace di oscurare le sue doti; la rottura dello zio Seneca con Nerone e quindi anche del giovane nipote; il troppo palese atteggiamento filo repubblicano, che mette in discussione l’assetto assolutistico che Nerone vuole dare a Roma. Fatto sta che Lucano si trova al di fuori della corte, cosa che può averlo portato ad aderire alla congiura dei Pisoni. Accusato, per scagionarsi incolpa la madre Anicia (in rotta con lui ed il padre), ma senza successo. Gli viene ordinato di uccidersi e morirà, a soli ventisei anni, senza aver terminato il suo poema.
Opere
Di lui si dice che avesse scritto, grazie anche un ingegno precocissimo, alcune opere, tra cui una tragedia, Medea, ad imitazione dello zio, ed una raccolta di poesie; inoltre si esercitò anche su una Iliacòn (carme sull’incendio di Troia) che sembra fosse stata scritta anche da Nerone stesso. Ma l’unica opera da noi conservata è il poema Bellum civile o Pharsalia, interrotto al decimo libro. Esso è l’unico poema di tipo storico che possediamo nella quasi interezza.
Frontespizio di un’edizione del 1665, pubblicata ad Amsterdam
Bellum civile
E’ un poema, d’argomento storico, il cui tema è la guerra civile, da qui il titolo (Bellum civile) tra Cesare e Pompeo, detto anche Pharsalia da un verso dello stesso Lucano:
Pharsalia nostra vivet
La nostra Farsalia vivrà
Di questo poema possediamo dieci libri, di cui l’ultimo risulta essere più breve degli altri: se ne deduce che l’opera non sia conclusa per la morte del poeta. La sua non conclusione ci porta, tuttavia, verso un problema critico riguardo la effettiva lunghezza che Lucano voleva dare alla suo poema e il modo in cui aveva intenzione di terminarlo. Più ipotesi ci spingono a pensare che egli volesse arrivare a dodici libri:
- Per emulare/contrapporsi con l’ormai “classico” poema virgiliano;
- Perché inserisce a metà dell’opera un episodio che si può definire uguale/opposto all’Eneide, per cui dal valore centrale;
- Perché se ipotizzassimo dodici libri potremmo al contempo ipotizzare la trattazione in una triade dei protagonisti: quattro libri per Cesare, altrettanti per Pompeo e i rimanenti che dovevano essere dedicati a Catone.
Il progetto di avere un poema epico su Roma, sembra fosse nelle intenzioni di Nerone; che sembra abbia visto nel giovane e brillante amico un probabile autore; ma il fatto che egli, pur nell’iniziale elogio verso l’imperatore, avesse scelto come argomento la guerra fra Cesare e Pompeo, ci indica come in Lucano fosse presente sin dall’inizio, un’ideologia filo repubblicana (che poi nel proseguo della composizione si sia approfondita, fino alla rottura, appare certo). Eppure l’opera ebbe una difficile accettazione, perché apparve ai più un ibrido che mescolasse la storia e la poesia: difficile dirlo, per noi, perché ci mancano le sue fonti “storiche” principali: Livio e le opere di Seneca il Vecchio, autore di un’opera storica che partiva proprio dalle guerre civili. La perdita delle fonti e non ci permette di conoscere come le abbia “reinventate”.
Cosa ci spinge, oggi, a leggere Lucano, come un autore che ha voluto scardinare e rifondare in modo del tutto nuovo la poesia epica? Il confronto che non noi, ma Lucano stesso, come già accennato, fa con la Vergilii Aeneis: l’opera dell’autore mantovano, infatti, si presenta come un monumentum che canta, con fatica e lutti, la pax romana. Lucano, invece, sin dall’inizio canta la reipublicae dissolutio:
La battaglia di Farsalo in una miniatura del Foquet
PROEMIO
(I, 1-14)
Bella per Emathios plus quam civilia campos,
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra,
cognatasque acies, et rupto foedere regni
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri
gentibus invisis Latium praebere cruorem?
Cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis
Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta
bella geri placuit nullos habitura triumphos?
Heu, quantum terrae potuit pelagique parari
hoc quem civiles hauserunt sanguine dextrae!
Cantiamo le guerre più che civili per i campi Emazi, e la legge assegnata al delitto e il popolo potente rivolto con la mano vittoriosa contro le sue stesse viscere, e le battaglie fraterne, e, dopo aver infranto il patto del regno, la lotta con tutte le forze del mondo sconvolto nel comune misfatto, e le insegne esposte contro le insegne ostili, e le due aquile una contro l’altra e i giavellotti che minacciano altri giavellotti. Quale follia, o cittadini, quale ampia facoltà delle armi offre il sangue latino alle popolazioni nemiche? E quando la superba Babilonia doveva essere spogliata dai trofei Ausoni e Crasso con l’ombra invendicata vagava, piacque fare guerre per non ottenere nessun trofeo? Oh, quante terre e quanti mari potevano essere conquistati con questo sangue che mani civili hanno versato!
Per Lucano la pax augustea era fondata su una grande mistificazione, che voleva nascondere, con un apparato scenografico, fatto di dei ed eroi, così com’era raccontato nell’Eneide virgiliana, il declino di Roma verso la tirannide. D’altra parte c’è nella Pharsalia un episodio che può essere considerato esemplare da questo punto di vista: come nel VI libro dell’Eneide si assisteva all’episodio della catabasi, in cui Anchise mostrava ad Enea disceso negli Inferi la futura gloria di Roma, nel VI libro dell’opera di Lucano si assiste alla negromanzia, dove il soldato morto richiamato dalla maga afferma di aver visto negli Inferi una grande confusione con i Catilinari (nemici della repubblica) fare grandi feste per la rovina della città.
Allora come si spiega l’elogio iniziale verso Nerone?
ELOGIO DI NERONE
(I, 33-38)
Quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent.
Ma se i fati non hanno trovato un’altra via all’avvento di Nerone e a grande prezzo si preparano i regni eterni agli dei e il cielo poté servire Giove Tonante se non dopo la guerra dei crudeli giganti; ormai di nulla lamentiamoci; questi delitti e il sacrilegio ci piacciono come ricompensa.
Karl Theodor von Piloty: Nerone e il grande incendio di Roma
E’difficile dare una giusta interpretazione a questi versi: una parte della critica vedrebbe nell’accostamento che Lucano pone tra l’elogio di Augusto presente nell’Eneide di Virgilio, e questo di Nerone, un’esagerazione “troppo marcata” verso quest’ultimo che potrebbe risultare “ironica”, considerando anche il forzato “inserimento” di esso nell’ideologia del poema; altri, invece, protendono per una sincera ispirazione di tale elogio e, se esagerazione vi è, va considerata all’interno degli elogia, “naturali” nelle opere letterarie di questo periodo. Se infatti considerassimo i primi tre libri del poema scritti prima dell’allontanamento della corte essi segnerebbero, come già nel De clementia senecano, l’atteggiamento degli intellettuali, che vedevano Nerone, all’inizio del suo potere, come colui che sarebbe riuscito a mettere insieme impero e libertà. Ciò tuttavia non comporterebbe un cambiamento troppo brusco tra la prima e la seconda parte del poema, ma una maturazione che piano piano tende sempre più verso un’ideologia anti imperiale.
La Pharsalia non ha un eroe: il testo ruota intorno a Cesare e Pompeo; nell’ultima parte di esso, appare, inoltre la figura di Catone. A dominare è Cesare: irruento, temerario, impaziente, sembra quasi incarnare il furor impossibile da dominare, rivolto contro le forze sane della repubblica:
Immagine di Cesare dux con la X legione tratta dal videogioco Rome 2- Total war
RITRATTO DI CESARE
(I, 183-203)
Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentesque animo motus bellumque futurum
ceperat. Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis
et gemitu permixta loqui: “Quo tenditis ultra?
Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet”. Tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.
Mox ait “O magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar
Roma, fave oeptis. Non te furialibus armis
persequor: en, adsum victor terraque marique
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
Ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem”.
Cesare aveva superato nella sua corsa le fredde Alpi e aveva concepito nell’animo grandi piani e la guerra futura. Appena giunse alle rive del piccolo Rubicone, apparve al comandante la grande e trepidante immagine della patria, luminosa nell’oscura notte con volto tristissimo, spargendo i capelli bianchi dalla testa turrita, con la chioma strappata e le braccia nude si ergeva e mista ai gemiti parlava: “Dove volete proseguire ancora? Dove portate le mie insegne, uomini? Se venite legalmente, se siete cittadini, fino a qui è lecito arrivare”. Allora l’orrore percorse le membra del condottiero, gli si rizzarono i capelli, e attanagliandolo un grosso languore si fermò nell’estremità della riva. Subito disse: “O Giove Tonante, che dalla rupe Tarpea guardi le mura delle città e i Frigi Penati della stirpe Iulia e i misteri di Romolo rapito in cielo, e il Giove Laziare che risiede nell’alta Alba e i fuochi delle Vestali e tu, o Roma, simile al grande dio, favorite le mie iniziative. Non ti assalgo con le armi delle Furie: ecco, il presente Cesare vincitore per terra e per mare, e dovunque tuo sodato (il solo che sia lecito, anche adesso). Quello sarà, quello il malefico, che mi avrà reso tuo nemico.
In questo passo, il nostro riprendendo la tecnica della prosopopea presente nella Catilinaria di Cicerone, ci presenta la patria come un fantasma che appare nella notte e che prega Cesare di desistere dall’attaccarla: scapigliata, priva di forze, vecchia, chiede al comandante di non profanarla. E’ qui che Lucano vuole sottolineare la temerarietà dell’uomo che compie un nefas, chiedendo l’aiuto degli dei. E’ il furor che lo spinge, che non riesce ad insegnargli il limite invalicabile che trasforma un civis in un hostis della patria.
Se Cesare è un personaggio “psicologicamente” statico, la cui determinazione è ben sviluppata sin dall’inizio del poema, quello di Pompeo, visto nella sua neghittosità, in questa incapacità d’agire, sembra piano piano maturare nel corso del poema verso una maggiore consapevolezza: lo si veda dapprima in questo ritratto, dove viene “negativamente” descritto insieme alla mala temeritas cesariana:
Pompeo e Cesare ritratti in un affresco di Taddeo di Bartolo (1414)
POMPEO E CESARE
(I, 129-157)
Nec coiere pares. Alter vergentibus annis
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor
multa dare in volgus, totus popularibus auris
inpelli plausuque sui gaudere theatri
nec reparare novas vires, multumque priori
credere fortunae. Stat magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec iam validis radicibus haeret
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos
effundens trunco, non frondibus, efficit umbram,
et quamvis primo nutet casura sub Euro,
tot circum silvae firmo se robore tollant,
sola tamen colitur. Sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus
stare loco, solusque pudor non vincere bello.
Acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset,
ferre manum et numquam temerando parcere ferro,
successus urguere suos, instare favori
numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti
obstaret gaudensque viam fecisse ruina.
Qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populosque paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma:
in sua templa furit, nullaque exire vetante
materia magnamque cadens magnamque revertens
dat stragem late sparsosque recolligit ignes.
Né si scontrarono alla pari. L’uno al declinare degli anni in vecchiaia, meno impetuoso per il lungo uso della toga ha già disappreso nella pace la parte del condottiero, e assetato di gloria molto concedeva al volgo, si lasciava spingere interamente dal favore popolare e si compiaceva degli applausi del suo teatro, non preparava nuove forze e si affidava molto alla fortuna passata. Si erge, ombra di un grande nome, quale una quercia maestosa in un fertile terreno, adorna delle spoglie di un popolo antico e delle sacre offerte dei capi, non si abbarbica più con forti radici, ristà sul suo peso effondendo per l’aria i nudi rami, ombreggia solamente con il tronco, non con le fronde; ma, sebbene oscilli sul punto di cadere al primo soffio dell’Euro, e si levino intorno tanti solidi alberi, tuttavia essa soltanto è venerata. In Cesare non era solo un nome, una gloria di capo, ma un valore instancabile, ed unica vergogna vincere senza combattere; forte e indomito, dovunque lo chiamava la speranza o l’ira, portava la mano e mai risparmiava il ferro nell’offesa, incalzava la vittoria, sforzava il favore divino, avventandosi su qualunque cosa ostacolasse la sua brama di do-minio e compiacendosi di essersi aperto la via seminando rovine. Così il fulmine sprigionato dai venti attraverso le nubi balena con lo strepitio dell’etere percosso e il fragore del-l’universo, e squarcia il giorno e atterrisce i popoli tremanti, accecandoli con la fiamma guizzante; infuria negli spazi celesti, e poiché nessuna materia si oppone al suo scatenarsi, piombando e impennandosi infligge una grande, vasta strage e riunisce i fuochi sparsi.
Il passo presenta una tecnica descrittiva basata sulla “similitudine”: ma tale similitudine avviene per contrasto, assumendo connotati fortemente negativi:
- Pompeo/quercia: alla stabilità della pianta fa riscontro la sua inamovibilità, una “potenza” che riflette se stessa ed i cui rami non danno ombra. Per meglio dire la forte quercia non è più stabile se messa a dura prova con il vento;
- Cesare/lampo: alla velocità dell’effetto atmosferico corrisponde la distruzione di ogni cosa, quindi il lampo Cesare, s’accompagna con il tuono, con tutto il suo potere di annientamento verso qualsiasi forma di libertà.
Ma vediamo come si prospetta la “maturazione” di Pompeo, nelle sue ultime parole:
Anonimo: La morte di Pompeo
MORTE DI POMPEO
(VIII, 622-635)
“Saecula Romanos numquam tacitura labores
attendunt, aevumque sequens speculatur ab omni
orbe ratem Phariamque fidem: nunc consule famae.
Fata tibi longae fluxerunt prospera vitae:
ignorant populi, si non in morte probaris,
an scieris adversa pati. Ne cede pudori
auctoremque dole fati: quacumque feriris,
crede manum soceri. Spargant lacerentque licebit,
sum tamen, o superi, felix, nullique potestas
hoc auferre deo. Mutantur prospera vita,
non fit morte miser. Videt hanc Cornelia caedem
Pompeiusque meus: tanto patientius, oro,
claude, dolor, gemitus: gnatus coniunxque peremptum,
si mirantur, amant.”
I secoli che mai taceranno i travagli romani mi osservano, il futuro contempla da tutte le parti del mondo la lealtà e la nave di Faro: ora pensa alla gloria. Hai trascorso una lunga vita tra prosperi eventi; i popoli non sanno, a meno che non lo provi nel morire, che sai sopportare le avversità. Non cedere all’onta, non dolerti dell’esecutore del fato: qualunque mano ti colpisce, è la mano del suocero. Mi lacerino le membra, le disperdano; tuttavia sono fortunato o Celesti, e nessuno di voi potrà privarmi di questo. Muta la prosperità nella vita; non si diviene sventurati con la morte. Cornelia e il mio Pompeo assistono all’assassinio. Con tanta più forza, dolore, ti prego, soffoca i gemiti; se il figlio e la sposa mi ammirano in morte, mi amano.
Quanta dignità dà Lucano all’eroe “negativo” che egli ha cantato, anche criticandolo. Le sue parole finali, infatti, lo fanno riscattare verso una morte giusta, quasi stoicamente vissuta, lottando non solo contro Cesare, ma contro l’avverso destino della repubblica e quindi della libertà.
Ma a essere cantato alla luce della virtus stoica e quindi della piena consapevolezza della libertas che laddove manca politicamente, non è possibile esercitare pubblicamente, è certamente Catone:
Guillame Guillon: La morte di Catone l’Uticense (1795)
CATONE
(II, 380-391)
Hi mores, haec duri inmota Catonis
secta fuit, servare modum finemque tenere
naturamque sequi patriaeque inpendere vitam
nec sibi sed toti genitum se credere mundo.
Huic epulae vicisse famem, magnique penates
summovisse hiemem tecto, pretiosaque vestis
hirtam membra super Romani more Quiritis
induxisse togam, Venerisque hic us usus,
progenies: urbi pater est urbique maritus,
iustitiae cultor, rigidi servator honesti,
in commune bonus; nullosque Catonis in actus
subrepsit partemque tulit sibi nata voluptas.
Questi i costumi e l’immota disciplina dell’austero Catone, serbare la misura, tenersi nei limiti, seguire la natura, sacrificare la vita alla patria, non credersi nato per sé ma per tutti gli uomini. Un banchetto per lui, aver vinto per lui; sontuosi Penati, un tetto che lo riparasse dalla tempesta; una veste preziosa, la ruvida toga gettata sulle spalle al modo di antico Quirite; fine supremo dei rapporti di Venere; la prole; padre e marito di Roma, cultore della giustizia; custode della rigorosa onestà, virtuoso nel comune interesse; mai, in nessun atto di Catone, s’insinuò ed ebbe qualche parte un piacere egoista.
La figura di Catone sembra, infatti, conservare la piena consapevolezza stoica che possiamo così riassumere, anche grazie a quello stoicismo così tratteggiato dallo zio filosofo:
- autarkeia: allontanamento dalle passioni (serbare la misura, attenersi ai limiti);
- trovarsi in accordo con la natura, seguendone la ratio ossia il flusso di vita dettata a lei dalla ratio che la presiede;
- impegno per tutti gli uomini (cosmopolitismo stoico).