Il Purgatorio viene scritto tra il 1306 e il 1312, quando Dante, già in esilio, trascorre questi primi anni, in Toscana, quindi un probabile viaggio dapprima a Parigi, quindi a Genova, infine a Milano, dove sembra abbia incontrato Arrigo VII, e quindi a Verona, da Cangrande Della Scala, dove viene ipotizzato che il poeta concludesse la seconda parte del poema e che cominciò a circolare dal 1315.
Il Purgatorio dantesco è soprattutto una sua invenzione: non che lo stesso luogo non fosse stato, seppur piuttosto recentemente, inserito all’interno del dogma ecclesiastico, ma la sua struttura viene immaginata alla luce della visione oltremondana dantesca in cui la terra spostata dalla caduta di Lucifero formerà nell’emisfero australe una montagna al cui vertice si trova l’Eden, il paradiso perduto dall’uomo, caduto nel peccato.
Il purgatorio
Canto I
Antipurgatorio
Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l’altro polo,
là onde ’l Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ell’è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com’io l’ ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni».
«Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi».
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.
Illustrazione per il primo canto del Purgatorio
Per solcare acque migliori, per trattare argomenti più elevati, innalza adesso le proprie vele la nave del mio intelletto, lasciandosi alle spalle quel mare tanto spaventoso dell’Inferno; canterò quindi di quel secondo regno, del mondo dell’aldilà, nel quale le anime umane si purificano dalle proprie colpe per poter diventare meritevoli di salire al cielo, in Paradiso. Per fare ciò, possa la mia poesia risorgere, innalzarsi di nuovo, oh sante Muse, poiché appartengo a voi; e possa ora avere nuova forza il potere di Calliope, Musa della poesia epica, così che possa accompagnare il mio canto con lo stesso suono con cui sconfisse la superbia delle Piche, infliggendo loro un colpo tale che esse persero la speranza di poter ottenere il perdono. Un azzurro delicato, simile a quello degli zaffiri d’oriente, che si diffondeva nella serenità dell’atmosfera, puro fino al lontano orizzonte, diede nuovamente ai miei occhi la gioia della vista, non appena potei uscire da quell’aria intrisa di morte che mi aveva riempito occhi e cuore di tristezza ed angoscia. Il bel pianeta, Venere, che ci spinge ad amare, faceva risplendere tutta la parte orientale del cielo, mettendo in secondo piano, con la propria luce, la costellazione dei pesci, a lui vicina. Mi voltai verso destra e rivolsi l’attenzione all’altro emisfero, e vidi quindi quattro stelle mai viste da uomo ad eccezione dei primi, Adamo ed Eva. Il cielo sembrava gioire della loro luce: oh povero emisfero settentrionale, che non hai la possibilità di ammirare la bellezza di quelle stelle! Non appena distolsi la mia attenzione da loro, volgendo un poco il mio sguardo verso l’altro emisfero, là dove la costellazione del Carro, l’Orsa Maggiore, era ormai sparita sotto l’orizzonte, vidi accanto a me un vecchio, solo, dall’aspetto meritevole di tanto riverenza, di tanto profondo rispetto, che di più non ne deve un figlio al proprio padre. Aveva una lunga barba, bianca in alcuni punti, simile ai suoi capelli, che cadevano sul suo petto divisi in due parti. I raggi luminosi delle quattro stelle sante, facevano risplendere il suo viso tanto da rendermelo visibile come se fossimo stati in pieno giorno. «Chi siete voi che, percorrendo la riva del fiume sotterraneo a ritroso, siete scappati fuori dalla prigione eterna dell’Inferno?» chiese il vecchio, scuotendo la barba e la chioma. «Chi vi ha guidati, o cosa vi ha illuminato la strada, nel cammino per uscire dalla notte profonda, che oscura in eterno la grotta dell’inferno? Le leggi dell’Inferno sono state infrante? Oppure è cambiata la legge in paradiso, e voi anime dannate potete ora raggiungere queste grotte?» Il mio maestro a quella vista ed a quelle parole, mi afferrò, e con parole, gesti e cenni mi fece inginocchiare ed assumere una posizione di riverenza. Quindi rispose lui a quel vecchio: «Non sono giunto fin qui per mia iniziativa, una donna, Beatrice, scese dal cielo ed ascoltate le sue preghiere andai in soccorso di costui. Ma dal momento che vuoi che venga meglio spiegata la nostra condizione, come è nella realtà, non può il mio volere andare contro al tuo. Costui, Dante, non ha ancora visto la sua ultima sera, è vivo; ma a causa della sua follia, della sua arroganza intellettuale, fu tanto vicino alla morte, che mancava molto poco prima che gli capitasse. Come ti ho già detto, fui mandato da lui per salvarlo; e per fare ciò non esisteva altra via se non quella lungo la quale mi sono incamminato. Gli ho mostrato tutte le anime dannate; ed ora ho intenzione di mostrargli quegli spiriti che si purificano dei propri peccati sotto il tuo controllo. Come sono riuscito a condurlo attraverso l’Inferno, sarebbe lungo da raccontare; dal Cielo arriva una forza che mi ha aiutato a condurlo qui a vedere la tua persona e ad ascoltare le tue parole. Ti sia quindi cortesemente gratido il suo arrivo: Dante è alla ricerca della libertà, tanto cara, preziosa, come bene lo sa che per lei rifiuta la propria vita. Tu questo lo sai bene, poiché in nome della libertà non ti fu mai amaro andare incontro alla morte in Utica, là dove lasciati quel corpo che tanto risplenderà nel giorno del giudizio. Non abbiamo infranto le eterne leggi divine, poiché costui è ancora vivo ed io non sono soggetto alle leggi infernali di Minosse; ma mi trovo invece nel Limbo, quel cerchio dove si trovano anche gli occhi casti della tua cara Marzia, che sembra tanto pregare, o santo cuore, perché tu possa ancora considerarla tua moglie: in nome dell’amore che ti lega a lei, esaudisci quindi le nostre richieste. Lasciaci andare per le sette cornici di cui sei custode; ed io riporterò a lei la mia gratitudine nei tuoi confronti, se desideri essere menzionato laggiù nell’Inferno.» »«La vista di Marzia fu tanto gradita ai miei occhi, tanto l’amai, fintanto che vissi», disse allora Catone, «che feci per lei qualunque cosa le fosse gradita. Ma ora che si trova, per l’eternità, al di là del fiume infernale, le sue richieste non possono smuovermi più, per quella legge divina che fu istituita quanto lasciai il Limbo. Ma se una donna del cielo ti spinge nel lungo viaggio e ti guida, come tu mi hai detto, non c’è bisogno allora di adularmi: basta soltanto che tu mi chiedi il permesso in nome suo. Procedi pure oltre, ma curati di cingere la vita di costui con un giunco liscio e di lavargli il viso, così che possa essere ripulito da ogni sporcizia; poiché non sarebbe opportuno che, con gli occhi offuscati da qualche velo, si presentasse al cospetto del primo ministro di Dio, uno degli angeli del Paradiso. Nei punti più bassi delle spiagge intorno a questa isoletta, laggiù dove si infrangono le onde del mare, potete trovare dei giunchi cresciuti sull’umida sabbia: nessuna altra pianta che produca fronde o che diventi legnosa, indurendosi, può vivere in quei punti, poiché non è in grado di piegarsi alle continue percosse delle onde, assecondandole. Dopo aver fatto ciò, non riprendete il vostro cammino da qua; il sole, che sta ormai per sorgere, vi mostrerà un via meno ripida da cui poter scalare il monte». Detto questo, scomparve; ed io mi alzai in piedi senza dire nulla, mi andai vicino alla mia guida ed il mio sguardo rivolsi a lui. Virgilio incominciò a dire: «Figliolo, segui i miei passi: torniamo indietro, perché da questa parte questa pianura scende di livello fino ai suoi punti più bassi.» L’alba incominciava ad avere la meglio sull’ultima ora della notte, che oramai fuggiva di fronte a lei, così che da lontano, grazie alla luce, potei riconoscere il luccichio tremolante del mare. Procedevamo lungo quella pianura deserta come chi ritorna alla strada che aveva perduto e sente di procedere inutilmente finché non l’ha raggiunta. Quando arrivammo a Nord dell’isola, là dove la rugiada combatte con il sole per non estinguersi, trovandosi in parte all’ombra ed evaporando quindi lentamente, entrambe le mani aperte pose delicatamente sull’erba tenera il mio maestro: allora io, essendomi reso conto delle sue intenzioni, gli porsi le mie guance rigate dalle lacrime; mi ripulì il viso con la rugiada, rendendo visibile quel colore che la sporcizia dell’inferno aveva offuscato. Raggiungemmo infine una spiaggia deserta, che non vide mai navigare, sulle acque che la bagnavano, uomini che furono poi in grado di tornare indietro. Qui mi cinse con un giunco, come Dio volle: che cosa meravigliosa! Non appena scelse e colse l’umile pianta, ne rinacque subito un’altra nello stesso punto dove aveva strappato la prima.
Il primo canto del Purgatorio ci presenta sin a subito un clima diverso, sia per stile che per contenuto. Tutto ciò è derivato da una ripresa “classica” della struttura proemiale della seconda cantica che vede la divisione classica tra argumentum ed invocatio. Se tale divisione “classica” non è presente nell’Inferno è perché il primo canto di essa non è un’introduzione alla prima cantica, bensì dell’intero poema e quindi ci tocca aspettare il secondo canto, con l’invocazione alle Muse. Qui invece tutto si svolge all’inizio del primo con la metafora della navicella che percorre “miglior acque” avendo abbandonato il “mar sì crudele” per poi sottolineare come la poesia precedente fosse “morta” e che quindi ora debba “risorgere”. Ecco che allora anche l’invocazione delle Muse viene specificato meglio, chiedendo l’intervento di Calliope, musa della poesia epica, che con il suo aiuto potrà sollevare un poco il suo canto (riprende qui il mito riportato da Ovidio delle figlie di Pierio, pieridi infatti, che tentarono di sfidare nel canto la musa stessa e che, per la loro presunzione, le trasformò in gazze). Perché sollevare un poco e non in modo assoluto? Proprio perché in questa cantica quello che deve prevalere è lo stile elegiaco, non sublime, in quanto egli si trova ora nel regno di mezzo, riservandosi pertanto di utilizzare lo stile sublime quando si troverà nel regno di Dio. Quindi il canto prosegue non più con sensazioni prevalentemente uditive (l’inferno è buio), quanto visive e, guardando il cielo, cominciano quelle precisazioni astrologiche che enorme importanza hanno nella conoscenza filosofica medievale. Il cielo ora appare in tutta la sua immensità, nel suo scorrere tra mattina e sera, come scorrere dovranno le anime purganti tal buio del peccato alla piena luce della beatitudine.
Guillon Lethiere: La morte di Catone l’Uticense
All’improvviso appare l’anima del guardiano del Purgatorio: la sua figura si mostra come quella di un uomo saggio, il cui volto è illuminato da quattro stelle (che rappresentano, simbolicamente le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, temperanza, prudenza), visibili soltanto dai primi uomini (Adamo ed Eva) abitatori del paradiso terrestre (quindi la sommità del monte purgatoriale è posta nell’emisfero australe). Egli si rivelerà essere Catone l’Uticense, campione, secondo l’immagine che il medioevo si era raffigurato di lui, della filosofia stoica e del concetto di libertà. La sua figura presenta, sin da subito, alcune problematiche critiche: storicamente egli era un fiero avversario di Cesare della tirannia del quale si era liberato uccidendosi: secondo la logica dantesca pertanto, in quanto nemico di Cesare, doveva essere in bocca a Lucifero insieme a Bruto e Cassio, oppure, in quanto suicida, nella selva infernale insieme a Pier delle Vigne e se proprio Dante lo avesse voluto “salvare” nel Limbo insieme a Virgilio e a sua moglie Marzia. Perché invece lo troviamo qui, come custode del Purgatorio? Nel medioevo la cultura vedeva in Catone il campione della libertà: la sua morte infatti veniva letta non come rifiuto e quindi come atto vigliacco, ma come esempio estremo di protesta al fine di evitare un giogo degradante ed infamante; d’altra parte lo stesso Sant’Agostino (e quindi la Chiesa) ammetteva il suicidio in casi eccezionali. Pertanto Dante lo assume nel Purgatorio come esempio di Libertà. Tale esempio, d’altra parte, è fondamentale in questo regno, dove è necessaria la libertà morale, senza la quale non può esistere impegno per poter raggiungere Dio.
William Blake: La purificazione dantesca
Il canto prosegue con il suo intervento, ma è un intervento che ci dice molto di lui: egli, come custode del Purgatorio, ha un compito ben individuato dal Signore, quello d’essere il guardiano del regno che burocraticamente deve far rispettare le regole che presiedono a tale luogo. Infatti si presenta di sorpresa, sorpresa a cui risponderà in modo forse inadeguato Virgilio stesso, spiegando come Dante e lui stesso fossero giunti dopo il pellegrinaggio infernale, voluto da tre donne del cielo, come illustrato nel secondo canto dell’Inferno. Virgilio chiede al veglio (vecchio dal francese vieille) di compiacere al loro viaggio facendo leva sul sentimento, ricordandogli la sua compagna Marzia che adesso è ospitata nel Limbo (la donna è ricordata come emblema di fedeltà, essendo dapprima giovanissima sposa di Catone, poi data dal padre ad un altro uomo per fini procreativi e, alla cui morte, tornò dal primo marito). Ma la risposta di Catone è netta, forse un po’ dura, a sottolineare ormai la lontananza che separa le anime del luogo del peccato da quelle purganti. La captatio benevolentiae di Virgilio è sintomatica di una non certezza sul modus agendi del poeta latino nel Purgatorio e tale incertezza è determinata dal fatto che lui, come Dante, è neofita del secondo regno. Se nell’Inferno Virgilio non fa che affermarci che lui non fa che ripercorrere il luogo infernale, così come ci ha raccontato Lucano grazie alla maga Erittonio, nel Purgatorio lui è come Dante e questo permette al poeta di presentarci un nuovo rapporto che non è più di maestro e allievo, ma di compagno di viaggio, alla scoperta anch’esso del luogo e dei suoi abitatori. Catone quindi, dopo aver accettato la loro presenza grazie alla mediazione delle donne benedette, invita Dante a compiere gli atti di umiltà, necessari per “ripulirsi” del sudiciume infernale e cominciar così il nuovo viaggio.
Ci piace ricordare come D’Annunzio riprese un verso di questo canto, così efficace da divenire topos descrittivo. Dante: L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina. D’Annunzio: O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! (I pastori).
Canto II
Antipurgatorio
Spiaggia
Il canto inizia con una lunga digressione astronomica, nella quale Dante, precisando che il tempo tra l’emisfero boreale, al cui centro vi è Gerusalemme e quello dell’emisfero australe, in cui emerge, tra le acque, la montagna del Purgatorio, vi sono 12 ore. Il poeta quindi precisa che il momento in cui si trova nella spiaggia corrisponde alle sei del mattino, dove insieme a Virgilio, trovandosi in luogo sconosciuto ad entrambi, cerca il punto maggiormente digradante della montagna attraverso il quale iniziare l’ascesa.
All’improvviso da lontano appare dapprima un punto luminoso, quindi, dopo un attimo, questo diviene ancora più splendente, avvicinandosi si riconoscono subito due elementi distinti da un bagliore accecante, e infine si individuano con consapevolezza due ali.
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo.
Ed ecco che, come Marte, sorpreso dalla prima luce del mattina, appare con il suo colore rosso in mezzo alla fitta nebbia ad occidente, sull’orizzonte del mare, allo stesso modo mi apparve, e possa io in futuro rivederla, una luce che si muoveva sul mare tanto velocemente che nessun volo naturale può essere simile a lei per rapidità. Staccai per poco tempo il mio sguardo da quella luce per guardare la mia guida e domandare cosa fosse, e quando riguardai, la vidi più luminosa e più grande, più vicina di prima. Poi vidi apparire da ogni lato di quella luce qualcosa di bianco che non riuscivo a definire, e, a poco a poco, apparire anche sotto ad essa.
Prima che tocchi terra, Virgilio invita il suo discepolo ad inginocchiarsi, perché si trova di fronte all’Angelo nocchiero che, su un vascelletto veloce, trasporta le anime che insieme intonano il salmo In exitu Isräel de Aegypto. Quindi si riversano sulla spiaggia e l’Angelo, dopo aver rivolto loro il segno della croce, si allontana velocemente.
Con la solita circonlocuzione astronomica Dante ci informa che non sono passati che trenta minuti, quando le anime sbarcate, anche loro inesperte del luogo chiedono informazioni ai due pellegrini su come salire al monte. Mentre Virgilio spiega loro che anch’essi sono da poco giunti, il loro sguardo si affissa su Dante, notando, dall’atto del respirare, che era vivo e, provando una tal meraviglia da impallidire.
All’improvviso un’anima si stacca dalle altre:
L’angelo nocchiero in una miniatura
E come messager che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: «Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?»
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo vïaggio»,
diss’io; «ma a te com’è tanta ora tolta?»
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!»
Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Gustave Doré: L’arrivo della navicella con l’angelo
E allo stesso modo attorno al messo che porta liete notizie, accorre molta gente per apprendere le novità, e nessuno si ritrae dallo stringersi attorno, così intorno aklla mia persona si rivolsero fisse, quasi dimenticando di andarsi a purificare. Vidi quindi una di quelle anime avanzare verso di me ed abbracciarmi, con un affetto tanto profondo, che non potei fare a meno di ricambiare l’abbraccio. Ahimè, ombre senza nessuna consistenza, se non all’apparenza! Per tre volte strinsi le braccia intorno a lei, ed altrettante non riuscii ad afferrare nulla e tornai a toccare il mio petto. Credo di aver assunto quindi un’espressione di stupore; poiché l’anima sorrise e si allontanò un poco, ed io, per seguirla, avanzai. Mi disse dolcemente di fermarmi, di non procedere oltre; sentendo la sua voce, riconobbi quindi chi era e la pregai di rimanere a parlare con me. Mi rispose: «Tanto ti ho amato quando avevo un corpo mortale, tanto ti amo ora che sono una anima libera: perciò, come mi chiedi, mi trattengo; ma perché fai questo viaggio?» «Mio caro Casella, per poter tornare ancora, dopo morto, qui dove mi trovo adesso, ho intrapreso questo viaggio», gli risposi; «ma tu, che sei morto già da tanto tempo, come mai arrivi solo ora?» Mi rispose lui: «Non mi è stato fatto alcun torto, se l’angelo che decide chi traghettare e quando partire, per più volte mi ha negato questo viaggio; poiché attraverso la sua volontà si manifesta quella di Dio: in verità negli ultimi tre mesi l’angelo ha preso a bordo ogni anima che voleva salirci, senza nessuna opposizione. Perciò io, che ero in quel momento rivolto al tratto di mare in cui sfociano le acque del Tevere, fui benevolmente accolto da lui. L’angelo ha ora di nuovo rivolto le sue ali verso quella foce, perché si raccolgono sempre in quel luogo le anime che non dovranno scendere al fiume Acheronte. Dissi allora io: «Se le nuove leggi dell’aldilà non ti hanno privato della memoria, o della facoltà di cantare rime d’amore, con cui riuscivi ad alleviare tutti i miei dispiaceri, ti prego di consolare un poco con una canzone la mia anima, che, giunta fino a questo punto insieme al suo corpo, si è tanto affaticata!» Amor che ne la mente mi ragiona cominciò ad intonare allora Casella, con tanta dolcezza che ancora adesso posso sentirla dentro di me. Il mio maestro, io e tutte le anime che si trovavano con Casella, sembravano così felicemente rapiti da quel canto, come se la loro mente non fosse attraversata da nessun altro pensiero.
Ma ecco che riappare Catone, con la sua inflessibilità, a ricordare loro che il compito è quello di andare a purificarsi. Tanta è la vergogna per il loro essere stati ad indugiare, che corrono via veloci verso la base della montagna e i nostri due eroi non sono da meno.
L’angelo con Dante in ginocchio
Il secondo canto sin da subito presenta delle caratteristiche che poi troveremo inserite all’interno dell’intera cantica:
- la precisazione astrologica
- la condizione psicologica dell’incertezza
- il rapporto tra passato e presente
La precisazione astrologica è fondamentale non tanto per il dettato, quanto per sottolineare il concetto temporale (assente completamente nell’Inferno, come lo sarà nel Paradiso) perché la purificazione è un percorso, ed è un percorso che anche figurativamente avviene in uno spazio “immaginabile” realmente e quindi soggetto alle variazioni temporali;
Miniatura del secondo canto
La condizione dell’incertezza è tipica di queste anime, a detonare una fragilità interiore. Non è un caso che esse, come dice Casella, debbano aspettare un “tempo” deciso da Dio per imbarcarsi verso il Purgatorio e non è altrettanto un caso il fatto che esse, per rafforzarsi debbano intonare il salmo In exitu Isräel de Aegypto che Dante nel Convivio aveva definito anagogico, il cui sovrasenso è quello di liberarsi dalla situazione di peccato per ritrovarsi nella libertà della beatitudine;
Salvator Dalì: La navicella dell’angelo nocchiero
Il terzo è quello di Casella, il cui gesto ci ricorda il VI libro dell’Eneide, quando Enea per tre volte tenta inutilmente di abbracciare Anchise, che ci illustra come in questa cantica il “ruolo” dell’amicizia sia fondamentale. Ma ci dice anche come, in questa “sospensione” del secondo regno l’elemento storico combatta con l’elemento presente e come il primo spesso non permetta alle anime dei purganti di vedere fino a fondo il proprio bene.
Canto III
Antipurgatorio
Spiaggia
(Spiriti negligenti – I° schiera: scomunicati)
Gli spiriti negligenti
Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna:
e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!
Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta,
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?
Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;
e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ala?».
E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venïan lente.
«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;
sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ’l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così ’l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.
Dante e Manfredi
E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza».
Illustrazione che mostra l’incontro tra Dante e Manfredi
Sebbene l’improvvisa fuga avesse fatto disperdere tutte le anime per la pianura circostante, in direzione di quel monte dove la giustizia divina ci purifica con adeguate punizioni, io riuscii a riunirmi alla mia fidata guida: come avrei potuto correre senza di lui? chi mi avrebbe condotto su per la montagna? Virgilio sembrava si rimproverasse da sé, per la debolezza mostrata: oh coscienza limpida e piena di dignità, quanto amaro ti può apparire ogni tuo minimo errore! Quando i suoi piedi rallentarono il passo, terminando la fuga, che toglie dignità ad ogni azione, la mia mente, che prima era concentrata su un unico pensiero, allargò il proprio orizzonte, spinta dal desidero di nuove conoscenze, e rivolsi quindi lo sguardo verso il monte, che si slanciava alto, più della spiaggia circostante, verso il cielo. Il sole, che splendeva rosso mie spalle, aveva i suoi raggi interrotti davanti alla mia figura, trovando in me un ostacolo. Mi volsi di lato con la paura di trovarmi solo, abbandonato, quando vidi proiettata in terra davanti a me la mia sola ombra; Virgilio mi confortò: «Perché non hai fiducia in me?» cominciò a dirmi, premuroso nei miei confronti; «Credi che non sarò al tuo fianco e che non ti guiderò? La sera è ormai giunta là dove si trova sepolto il corpo dentro al quale potevo anch’io creare un ombra; ora il mio corpo è a Napoli, prima era a Brindisi. Quindi se davanti a me non vedi nessuna ombra, non provare più sorpresa di quanta tu possa provarne per il fatto che i cieli non impediscono l’uno all’altro il passaggio dei raggi solari. A sentire l’effetto del tormento causato dal caldo e dal freddo, questi corpi sono sono preparati dalla potenza di Dio, che non vuole mai che venga a noi rivelato come riesca a fare ciò. Solo un pazzo può sperare che la ragione umana possa comprendere la logica divina, la quale tiene in tre distinte persone una unica sostanza. Uomini, cercate di accontentarvi dei fatti, senza pretendere di conoscere anche i motivi; perché, se aveste potuto conoscere tutto, Maria non avrebbe dovuto partorire il figlio di dio; e avreste dovuto vedere, continuare a desiderare la conoscenza senza alcun successo, uomini di un tale ingegno che, fosse stato possibile, avrebbero sicuramente potuto soddisfare il loro desiderio, che si è invece trasformato nella loro eterna pena. sto parlando di Aristotele e di Platone e di molti altri.» Detto questo chinò il capo, non disse più nulla ed apparve turbato. Nel frattempo eravamo giunti ai piedi del monte; ci trovammo di fronte una parete tanto ripida che le gambe si sarebbero stancate inutilmente nel tentativo di scalarla. Il più selvaggio ed il più ripido pendio sulla costa tra Lerici e La Turbie, è in confronto a quella rupe una agevole ed ampia scalinata. «Chi può sapere ora da che parte diventa meno rigido il pendio», disse la mia guida fermandosi pensieroso, «così che possa salire al monte anche chi non può volare?» Nel frattempo che, tenendo bassa la propria testa, lui rifletteva su un possibile percorso ed io osservavo la parte alta di quel monte, alla mia sinistra mi apparve una folla di anime che muovevano i propri piedi verso di noi, pur sembrando ferme, tanto lentamente procedevano. Dissi a Virgilio: «Maestro, solleva il tuo sguardo: ecco arrivare qualcuno che potrà indicarci la via per salire, se tu non riesci a trovarla da solo.» Virgilio vide il gruppo di anime e, con espressione libera da preoccupazioni, rispose: «Andiamo noi là da loro, perché esse procedono troppo lente; e tu rafforza la speranza, caro figliolo.» Quella folla di anime ara ancora lontana da noi, anche dopo che eravamo avanzati verso loro di molti passi, per una distanza pari a quella che un buon tiratore può coprire con un sasso, quando le vidi stringersi tutte introno alle dure rocce di quell’alto pendio, e stare immobili e vicine, come si sofferma a guardarsi in giro chi procede incerto sulla via da seguire. «Oh anime morte in grazia di Dio, spiriti ormai eletti», cominciò a dire Virgilio, «in nome di quella pace che credo tutti voi vi aspettiate di ottenere, indicateci dove la montagna diviene meno ripida, e rende quindi possibile la sua scalata; perché a chi ha più conoscenza più dispiace perdere tempo.» Come le pecorelle escono dall’ovile una, a due, a tre per volta, e le altre stanno ferme, timorose, tenendo il muso e lo sguardo a terra; e ciò che fa la prima lo fanno anche le altre, stringendosi intorno a lei se lei si arresta, docili e serene, senza sapere il perché delle proprie azioni; così vidi io una anima muoversi la prima linea di quella mandria fortunata, di quella folla fortunata, umile nell’espressione del volto e decorosa nell’andatura. Non appena le prime anime videro interrotta in terra la luce del sole alla mia destra, formando un’ombra che dal mio corpo arrivava fino alla roccia, si fermarono ed indietreggiarono un poco, e tutte le altre che procedevano dietro di loro fecero altrettanto, non sapendo la motivazione di quel gesto. «Senza che voi me lo dobbiate domandare, vi rivelo che questo che vedete è un corpo in carne ed ossa; e perciò la luce del sole viene interrotta sul terreno. Non vi meravigliate, ma credete al fatto che è con l’aiuto di un potere divino che cerchiamo di scalare questa parete.» Così Virgilio spiegò loro la situazione; e quella folle di anime elette disse «Tornate indietro se volete salire sul monte», facendo segno con il dorso della mano. Uno di loro cominciò quindi a dire: «Chiunque tu sia, che hai intrapreso questo cammino, rivolgi a me lo sguardo e cerca di ricordare se mi hai mai visto quand’ero in vita.» Io rivolsi il mio sguardo verso di lui e lo guardai attentamente: era biondo, bello e dall’aspetto legante, ma il viso era sfigurato da colpo di spada aveva diviso in due una delle sue sopracciglia. Quando ebbi umilmente rinunciato al tentativo di riconoscerlo, lui mi disse: «Guarda allora»; e mi mostrò una ferita che aveva nella parte alta del petto. Proseguì quindi sorridendo: «Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza; e perciò ti prego, quando tornerai nel mondo dei vivi, di andare dalla mia bella figlia, madre dei due re di Sicilia e di Aragona, a raccontarle la mia vera storia, se viene raccontata un’altra versione. Dopo che il mio corpo subì queste due ferite mortali, io affidai la mia anima, piangendo per il pentimento, a Dio, lui che è sempre disposto a perdonare. I peccati che commisi in vita furono orribili; ma l’infinità bontà di Dio ha delle braccia tanto larghe che abbraccia chiunque si rivolga a lei, perdona chiunque si penta realmente. Se il vescovo di Cosenza, che fu mandato in cerca del mio corpo da papa Clemente dopo la mia morte, avesse ben compreso questo aspetto di Dio, le ossa del mio corpo si troverebbero ancora all’estremità del ponte presso Benevento, custodite dal quel pesante mucchio di pietre che le ricopriva. Ora stanno senza sepoltura, le bagna la pioggia e le smuove il vento, fuori dai confini del mio regno, presso il fiume Liri, là dove il vescovo le portò con una processione a candele spente. La loro scomunica non può comunque evitare la possibilità che possa tornare l’eterno amore di dio, fintanto che c’è anche la minima speranza. Tuttavia, è comunque vero che chi muore dopo essere stato cacciato dalla Santa Sede, scomunicato, anche se si pente sul punto di morte, prima di poter entrare nel purgatorio dovrà aspettare un tempo pari a trenta volte il periodo in cui si è ostinato a vivere nel peccato, a meno che tale sentenza non venga ridotta grazie alle preghiere pronunciate per lui da persone buone. Adesso che sai la mia storia, vedi se riesci ad accontentarmi, rivelando alla mia buona figlia Costanza che mi hai visto qui e non all’inferno, ed anche che mi viene ancora vietata l’ascesa; perché noi anime del purgatorio possiamo ottenere molto dalle preghiere dei vivi.»
Re Manfredi di Svevia
Il canto terzo inizia al punto in cui si era interrotto il secondo: a seguito del rimprovero di Catone, tutte si disperdono, colte in fallo per aver indugiato nell’ascoltare il canto di Casella. Non è un caso che tra di essi vi sia anche Virgilio, che, in quanto simbolo della “ragione”, avrebbe dovuto sin da subito non partecipare a quel momento di piacere laico. Ma proprio perché nessun passo in Dante si presenta senza sotto-testo, capiamo che nell’indugiare anche del poeta latino, il nostro abbia voluto sottolineare l’insufficienza della ragione nell’atto della purificazione. Anche essa deve “subire” un percorso iniziatico, in cui accompagnerà il suo discepolo fin che Dio lo desidera. L’insufficienza è sottolineata d’altra parte teologicamente attraverso due momenti conseguenti, ma al contempo diversi: la consapevolezza del fallo compiuto da parte di Virgilio e l’accorgersi da parte di Dante della propria ombra (elemento che diverrà topico nell’intera cantica, svolgendosi in un luogo e in un tempo transuente). In questi due passi Virgilio legge l’impossibilità di una cultura laica (qui rappresentata da Platone ed Aristotele) di raggiungere la verità. Essa non può essere capita “razionalmente”, perché solo attraverso il mistero della fede si può comprendere come le anime infernali o purgatoriali possano sentire il caldo, il freddo o provare dolore fisico, pur essendo incorporee (non proiettano ombra), così come si può comprendere l’incarnazione di Dio.
Costanza d’Altavilla
Il terzo canto ci presenta, inoltre, il primo grande personaggio della seconda cantica, Manfredi di Svevia, figlio del famoso Federigo II e padre di Costanza d’Altavilla, madre a sua volta del re di Sicilia (Federico) e di quello d’Aragona (Giacomo). Lui è insieme a una turba di uomini che camminando in senso inverso a Dante, si spaventano vedendo che il suo corpo non fa trapassare la luce. La similitudine dantesca è “ripresa” da quella evangelica: sono infatti paragonate a pecorelle, che si muovono, senza un motivo, all’unisono (il vero motivo è l’espiazione per tutti uguale).
Dante nel presentarcelo si destreggia con estrema capacità tra il giudizio negativo della Chiesa e il favore popolare di cui godeva:
- attraverso le parole di Manfredi stesso: Orribil furon li peccati miei;
- la descrizione del volto biondo era e bello e di gentile aspetto
Ma ancora più importante è il giudizio teologico che Dante sottolinea: quello che conta non è il giudizio della Chiesa, che, per quanto ispirato da Dio, è prodotto da uomini, ma ciò che l’uomo stesso prova in interiore animi, anche se provato un solo attimo prima di morire. Allora Dio saprà valutare la sincerità di un affido alle sua mani e per questo sarà degno di essere perdonato.
Canto IV
Antipurgatorio
I° Balzo
(Spiriti negligenti – II° schiera: pigri a pentirsi)
Da quando Dante ha parlando con Manfredi, con una lunga circonlocuzione, l’autore ci dice che erano passate circa tre ore e al passare delle quali viene mostrato ai due pellegrini il passaggio per salire; è veramente difficile inerpicarsi per quel sentiero incuneato tra le rocce, che obbliga ad una grande fatica sottolineata dal verbo “carpando” ad indicare che sale carponi dietro la sua guida; spossato, col volto verso l’alto non vede altro che roccia e vedendo il suo compagno continuare a salire, Dante teme di rimanere solo, ma sarà proprio la sua guida a spronarlo fino a raggiungere il primo balzo.
Luca Signorelli: Canto IV (Duomo di Orvieto)
Arrivati sin qui i due danno uno sguardo all’orizzonte e Dante si meraviglia vedendo il sole percorrere il cielo da sinistra: Virgilio ribadisce che il Purgatorio, nell’emisfero australe, è in posizione opposta a Gerusalemme (emisfero boreale): non muta il corso dell’astro solare ma il punto di osservazione. Quindi il poeta, provato dalla fatica nel percorrere il primo tratto vuole sapere se sempre così sarà il tragitto. Virgilio gli risponde che il percorso sarà sempre meno difficile, finché completamente libero sciolto, si renderà conto d’aver superato anche questo tragitto che porta alla libertà di Dio. Allora si percepisce una voce che ironicamente lo apostrofa sulla sua stanchezza: è Belacqua che sta scontando la sua pena dietro un masso, raccolta, la testa tra le ginocchia, mostrando la fatica che farebbe a compiere qualsiasi gesto. Quest’ultimo gli rivela che dovrà aspettare, per muoversi da quel balzo tanti anni quanto furono quelli della sua vita, a meno che il percorso non venga affrettato dalle preghiere dei viventi rivolte al Signore.
Canto V
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – III° schiera: morti di morte violenta)
Dante e le anime degli spirito morti assassinati
Io era già da quell’ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando ’l dito,
una gridò: «Ve’ che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla».
Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l’uom di perdon talvolta degno.
E ’ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando Miserere a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E ’l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che ’l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
com’io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi non vid’io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,
che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?
Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n’accora».
E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ’l voler nonpossa non ricida.
Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.
Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!
Buonconte di Montefeltro
Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”.
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma».
Mi ero ormai allontanato da quelle anime negligenti (che si pentirono sul punto di morte), e stavo seguendo da vicino la mia guida quando da dietro a me, puntandomi contro il dito, uno spirito gridò: “Guardate, sembra che non risplendano i raggi del sole alla sinistra di quello che cammina più in basso, e sembra quindi che si muova come un uomo vivo!” Al suono di queste parole rivolsi indietro lo sguardo, e vidi che le anime mi guardavano fisso con stupore, guardavano me e la luce che veniva interrotta dal mio corpo. “Perché la tua mente si distrae tanto”, disse il mio maestro Virgilio, “da farti rallentare il passo? Che ti importa di ciò che viene bisbigliato dietro a te? Continua a seguirmi e lascia parlare le altre persone: devi comportarti come la torre immobile, che non inclina mai la propria cima al soffiare dei venti; poiché sempre l’uomo i cui pensieri crescono l’uno sopra l’altro, finisce per allontanare da sé il suo fine ultimo, dato che la forza del nuovo pensiero è tale da indebolire il precedente.” Che cosa potevo rispondergli se non “Ti seguo”? Lo dissi arrossendo alquanto, cosa che a volte favorisce l’uomo nell’ottenere il perdono. Nel frattempo, trasversalmente lungo il versante del monte, vidi procedere delle anime un poco più in alto rispetto a noi, cantando a versetti alternati ‘Miserere’.Quando si accorsero che io non facevo attraversare il mio corpo dai raggi del sole, mutarono il loro canto in un grido di stupore lungo e roco; due di loro, scelti come messaggeri, ci corsero incontro e chiesero: “Rendeteci per piacere nota la vostra condizione.” Ed il mio maestro rispose: “Potete tornare e riferire a chi vi hanno mandato da noi che il corpo di questo uomo è di carne viva. Se si sono fermati per aver visto la sua ombra, come credo che sia, allora hanno ora una risposta soddisfacente: gli rendano onore, può essere vantaggioso per loro.”Non vidi mai stelle cadenti attraversare così velocemente il cielo nelle prime ore della notte, né, al calare del sole, saettare lampi tra le nuvole d’Agosto, quanto lo furono quelle due anime nel tornare su; e, raggiunto il loro gruppo, ritornarono verso di noi insieme a tutti gli altri, come una folle che corre senza controllo. “La folla di anime che si avvicina è molto numerosa, e viene per pregarti”, mi disse Virgilio: “continua però a salire, ed ascolta le loro parole camminando.” “Oh anima che sali verso la beatitudine con quello stesso corpo con cui sei nata in terra”, gridavano venendoci incontro, “rallenta un poco il passo. Guarda se riesci a riconoscere qualcuno di noi, così da poterne portare notizia nel mondo dei vivi: perché continui a camminare? Perché non ti fermi un poco? Noi anime siamo state tutte strappate alla vita con la violenza, e fino all’ultima ora siamo rimaste nel peccato; in quell’ultimo istante però la Grazia divina ci mostrò il male in cui vivevamo, così che, pentendoci dei nostri peccati e perdonando i nostri uccisori, lasciammo la vita in pace con Dio, che adesso ci affligge con il desiderio di vederlo.” Gli dissi io: “Per quanto guardi con attenzione i vostri volti, non riesco a riconoscere nessuno; ma se, anime destinate alla beatitudine, avete piacere che io faccia qualcosa per voi, nel limite delle mie possibilità, ditemelo, ed io lo farò in nome di quella pace che, al seguito di una tale guida, mi si permette di cercare passando da un regno all’altro.” Incominciò allora uno a parlare: “Ognuno di noi ha fiducia che farai il bene che ci hai promesso, senza bisogno che lo giuri, a meno che non ti risulti impossibile attuare la tua volontà. Perciò io (Iacopo del Cassero), che parlo da solo prima degli altri, ti prego, se mai vedi quel paese che si estende tra la Romagna ed il regno di Napoli, governato da Carlo d’Angiò, che tu sia così cortese da chiedere ai miei parenti e conoscenti di Fano, di adorare Dio per me, così che io venga aiutato ad espiare i miei gravi peccati. Nacqui in quel territorio; ma le profonde ferite da cui sgorgò il sangue nel quale soggiornava la mia anima, mi furono inferte nel territorio di Padova, là dove avevo creduto di poter vivere più al sicuro: me le fece infliggere il signore d’Este, che mi aveva in odio molto più di quanto ne avesse diritto. Ma se fossi fuggito in direzione di Mira, quando venni raggiunto dai miei assassini ad Oriago, mi troverei ora ancora tra i vivi. Corsi invece verso la palude del Brenta, e le canne di bambù ed il fango mi intralciarono la fuga fino a farmi cadere; e vidi perciò lì il mio sangue formare un lago sulla terra. Disse poi un’altra anima: “Possa realizzarsi il tuo desiderio di pace che ti spinge a salire l’alto monte, abbi la pietà di aiutarmi a realizzare il mio di desiderio! Il mio casato è dei Montefeltro, il mio nome è Buonconte; la mia vedova Giovanna e gli altri miei parenti non si curarono di pregare per me; perciò io per la tristezza cammino tra queste anime a testa bassa.” Gli chiesi allora: “Quale forza maggiore o quale caso fortuito ti trascinò così lontano da Campaldino, che non seppe mai il luogo della tua sepoltura?” Mi rispose l’anima: “Appena a sud del Casentino scorre un fiume chiamato Archiano, che nasce nell’Appennino sopra l’eremo di Camaldoli. Nel punto in cui questo fiume perde il suo nome, gettandosi nell’Arno, giunsi con una grave ferita alla gola, mentre fuggivo a piedi e bagnavo la pianura con il mio sangue. In quel punto persi la vista e la parola, morii; l’ultima mia parola fu il nome di Maria, poi lì caddi, ed abbandonai il mio corpo. Ti dirò la verità su quello che accadde in seguito, tu diffondila poi nel mondo dei vivi: l’Angelo di Dio mi prese con sé, mentre l’inviato dell’Inferno gridava: “Creatura del cielo, perché me lo porti via? Tu ti prendi l’anima di costui solo per una lacrimuccia, che quindi me ne priva; tratterò allora diversamente l’altra parte di costui, il suo copro!” Sai bene che nell’aria si raccoglie in nubi il vapore, che ritorna poi nuovamente acqua non appena raggiunge gli strati più freddi dell’atmosfera. Quel demonio unì la sua volontà malvagia, che aspira solo al male, all’intelligenza, ed agitò il vapore acqueo ed il vento, utilizzando i poteri propri dalla sua natura diabolica. Non appena il giorno fu terminato, coprì quindi tutta la valle, da Pratomagno alla catena dell’Appennino, di nebbia; e riempì il cielo che la sovrasta di denso vapore tanto che l’aria satura di umidità di tramutò in acqua; cadde la pioggia e fluì poi verso i fossati la parte di acqua che la terra non fu in grado di assorbire; ed appena si riversò nei fiumi più grandi, corse poi verso l’Arno, che sfocia nel mare, tanto velocemente che nessun ostacolo riuscì a trattenerla. Il mio corpo congelato per il freddo fu trovato dall’Archiano in piena alla sua foce; che lo spinse poi nell’Arno e fu così sciolta la croce che avevo formato sul petto con le braccia sul punto di morte; la corrente mi fece rotolare contro le sponde ed il letto del fiume, che infine mi sommerse con i suoi detriti.” “Quando sari tornato nel mondo dei vivi e ti sarai riposato del lungo viaggio”, disse un terzo spirito dopo le parole del secondo, “ricordati di far pregare anche per me, che sono la Pia; nacqui a Siena e morii nella Maremma: come sa bene colui che prima, sposandomi, mi aveva messo al dito il suo anello.”
Pompeo Molmenti: Pia de’ Tolomei condotta in Maremma
Il canto ripete al suo inizio il topos letterario della presenza corporea dantesca: ma tale ripetizione non è peregrina, perché la morte violenta attraverso l’assassinio, ricorda loro il momento o la situazione i cui è stata tolta ogni dignità ai loro corpi. Dapprima, contrariamente ai penitenti del canto precedente, le anime di questo balzo che traversano perpendicolarmente il dorso della montagna, senza timore due di esse si avvicinano a Dante e Virgilio per conoscere la natura dell’autore fiorentino; sentitola da Virgilio, corrono a riferirla ai loro compagni e quindi tutti insieme s’ apprestano perché sperano, essendo Dante vivo, che una volta rientrato nel mondo possa riferire a chi vuol loro bene di pregare per far sì che le loro anime raggiungano prima la salvezza eterna. L’urgenza è diversa dalla lentezza degli scomunicati, l’ieraticità di Manfredi contrasta con la vigoria dei due guerrieri della battaglia di Campaldino e non importa che essi siano di partito avverso: Iacopo del Cassero e Buonconte di Montefeltro.
Il primo di cui Dante non cita il nome ma la cui attribuzione è certa è Iacopo del Cassero, del partito Guelfo. Nato a Fano, fu chiamato come potestà a Bologna, e lì, come reggitore della città si oppose al tentativo degli Estensi di entrare in conflitto in contrasto con Firenze; quando venne chiamato come podestà a Milano i sicari dei signori ferraresi lo raggiunsero a Padova e fecero strazio del suo corpo. Quello che colpisce e la meditazione sulla morte. Se al posto di passare in territorio patavino avesse scelto il territorio veneziano non sarebbe stato raggiunto. il pensiero di Iacopo si accentra quasi sulla casualità della morte, ribadendo come il destino imperscrutabile colpisce quando Dio vuole. A contrasto con la sua figura abbiamo Buonconte di Montefeltro in questo caso ghibellino. Dante domanda che fine abbia fatto il suo corpo, che non viene numerato né tra i vinti né tra i vincitori della battaglia di Campaldino. Anche lui troviamo mentre corre, completamente insanguinato, a piedi della fonte dell’Arno, dove lascia la sua vita nel nome di Maria. Appena morto scendono dal cielo il diavolo e l’angelo per contendersi l’anima di Buonconte che raccolta da Dio, provoca l’ira del diavolo a cui rimane far scempio del corpo. Con il suo potere fa scoppaire un tremendo temporale che ingrossando le acque del fiume lo rapisce sciogliendo le braccia poste in segno di croce.
Io terzo personaggio si staglia da solo: 7 versi di cui i primi due di cortesia, rivolti a Dante, il terzo d’intermezzo dell’autore, e quindi nome e luogo di nascita. Come muore? Lo sa chi l’ha sposata con un anello di gemme.
Gustave Doré: Pia dei Tolomei
Pia dei Tolomei non ci dice quasi niente: eppure la sua forza poetica è proprio nell’ellissi; poeti, pittori, si sono ispirati alla sua figura che si staglia rispetto agli due penitenti, corporei e sanguinolenti, con la grazia di un suono femminile la cui preoccupazione, da donna è che Dante possa star bene: Un accenno alla sua richiesta di preghiere “ricordati di me, che son la Pia”, ad indicare forse che nella terra non è rimasto nessuno a conservarne la memoria; dalle sue parole emerge una pudicizia tale da ritenerla una, dopo quella di Francesca, figure femminili più importanti.
Canto VI
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – III° schiera: morti di morte violenta)
L’inizio del canto ci mostra le anime che premono intorno a Dante, chiedendogli di intercedere, una volta tornato in terra, per “affrettare” la loro salvezza. Ciò determina un dubbio al pellegrino: Virgilio in un suo passo dell’Eneide aveva affermato desine fata deum sperare precando (non sperare che i decreti del cielo possano essere piegati dalla preghiera); in ultima analisi il compito che Dante si sta assumendo di riferire ai restanti in terra di pregare per i loro congiunti, non è inutile, visto che Dio ha già loro stabilito il tempo di permanenza nel Purgatorio? La risposa è certamente teologica: la preghiera non piega la volontà di Dio, anzi la rafforza; se il poeta latino aveva affermato un’altra verità dipendeva dal fatto che le preghiere non erano rivolte al vero Dio. Tuttavia soltanto Beatrice potrà illuminarlo completamente.
Cesare Zocchi: Dante e Virgilio incontrano Sordello (1896)
Quindi riprendono il cammino, cercando di camminare il più possibile finché è giorno. Infine vedono un’anima che può indicare loro la via: Virgilio gli si avvicina, ma il penitente vuol sapere chi gli sta rivolgendo la domanda, e non appena Virgilio pronuncia il nome di Mantova, egli si alza, per abbracciarlo, dichiarando di essere Sordello da Goito. Tale gesto sta alla base della “digressione”, come la chiama lo stesso Dante, sulla situazione italiana:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.
Ahi serva Italia, luogo di dolore, nave senza timoniere nella gran tempesta, non più signora di province, ma bordello! Quell’anima nobile fu così svelta soltanto per aver sentito risuonare il dolce nome della sua città, a festeggiare qui il suo concittadino; e invece i tuoi abitanti non stanno in te senza farsi guerra, anzi si dilaniano fra loro persino quelli che abitano rinchiusi da un unico muro e un unico fossato. Guarda misera, le tue marine lungo i litorali, e poi guarda nel tuo stesso seno, per vedere se alcuna parte di te vive in pace. A che valse che Giustiniano abbia restaurato per te il freno delle leggi, se la sella manca del cavaliere? La vergogna sarebbe minore se non vi fossero tali leggi. Ahi gente della Chiesa che dovresti essere obbediente al volere di Dio e lasciare che Cesare stia sulla sella, se comprendi nel senso giusto ciò che Dio ordina, guarda come questa bestia selvaggia è diventata ribelle perché non è governata dagli sproni dell’imperatore, dopo che tu prendesti le redini. O Albergo d’Asburgo che abbandoni l’Italia che è diventata ribelle e selvaggia, mentre dovresti guidarla cavalcandola, la giusta punizione scenda dal cielo contro la tua stirpe, e sia tremenda e chiara, in modo tale che il tuo successore ne abbia terrore! Perché tu e tuo padre avete sopportato, distolti dalla cupidigia dei domini tedeschi, che il giardino dell’Impero restasse abbandonato. Veni a vedere le lotte fra Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uomo che non ti prendi cura: i primi già abbattuti e i secondi col timore di esserlo! Vieni, o crudele, vieni e guarda la tribolazione dei tuoi seguaci, e cura i loro mali; e vedrai com’è in decadenza Santafiora! Vieni a vedere la tua Roma che, abbondonata dal marito piange e chiama giorno e notte: «Cesare, perché non i guidi?». Vieni a vedere quanto si ama la gente! e se non ti muove nessuna pietà di noi, vieni a vergognarti della tua fama. E se mi è permesso, o sommo Cristo, che fosti crocefisso per noi sulla terra, la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nella profondità della tua mente provvidenziale prepari un qualche bene, assolutamente disgiunto dalla nostra capacità di capire. Perché tutte le città d’Italia sono tutte piene di tiranni, e ogni villano che si destreggia nei partiti, diviene un Marcello. Firenze mia, puoi ben essere contenta di questa mia digressione che non ti riguarda, grazie all’opera del tuo popolo che si ingegna a ben operare. Molti hanno la giustizia nel cuore, ma si manifesta tardi, perché non scocchi la freccia del giudizio senza ponderazione; ma il tuo popolo l’ha in punta di labbra. Molti rifiutano il peso delle cariche pubbliche; ma il tuo popolo pronto senza esser chiamato risponde e grida: «Accetto la grave responsabilità!». Ora rallegrati, perché tu hai ben di che rallegrarti: tu che sei ricca, che vivi in pace, che hai in giudizio! I fatti mostrano chiaramente se io dico la verità. Atene e Sparta, che crearono le antiche leggi e furono tanto civili, fornirono per quanto riguarda io vivere civile un ben magro esempio a paragone di te, che emani provvedimenti così sottili, che quello che tu crei ad ottobre non giunge a metà novembre. Quante volte, nel tempo che ricordi, tu hai cambiato leggi, moneta, uffici pubblici e consuetudini, e hai rinnovato i tuoi cittadini! E se ben ricordi e hai ancora discernimento, potrai paragonare te a quell’inferma che non riesce a trovare una posizione riposante nel letto, ma cerca rivoltandosi di trovare sollievo al suo dolore.
Miniatura di Sordello da Goito
La digressione politica s’inserisce, a livello strutturale, al pari degli altri VI canti delle tre cantiche: se nell’Inferno è lo stesso Ciacco a descrivere in modo negativo la situazione di Firenze, qui è la presenza di Sordello a far sì che Dante rifletta sulla situazione italiana, mentre nel Paradiso sarà Giustiniano a disegnare la storia ed il ruolo dell’Impero.
Il brano, posto a chiusura del canto e che interrompe la narrazione del viaggio purgatoriale, nasce da un atteggiamento di fratellanza che fa riflettere Dante sulle divisioni interne della nostra penisola. Essa è paragonata all’inizio per contrasto: ostello, ma di dolore; una nave senza timoniere, non padrona ma bordello. La personificazione della patria serve a sottolineare la mancanza di pace all’interno di essa e, addirittura, nelle stesse città. Essa stessa, su invito del poeta (anafora di vieni a veder / vieni crudele) sembra rendersi conto della desolazione che l’attraversa dalle sue coste alle città dell’interno. La situazione attuale Dante l’analizza attraverso un ragionamento sillogistico:
A: l’Italia è senza pace;
B: manca una guida;
C: l’Italia è preda all’anarchia
Dante riprende il suo concetto politico secondo il quale la mancanza di una guida politica e di una guida spirituale producono soltanto una situazione in cui la volontà di ogni città di prevalere sulle altre genera guerre e perdita morale. Il problema è che se Arrigo d’Asburgo si disinteressa completamente della sorte dell’Italia, è la stessa Chiesa che pur non cavalcando il cavallo Italia, prendendolo per le briglie, non permette che nessuno ci salga. Lo stupore per la situazione lo induce addirittura a rivolgersi a Dio, quasi la situazione attuale dipenda da un suo disegno imperscrutabile. L’indifferenza dell’Imperatore è per Dante imperdonabile, tanto da meritarsi la maledizione dello stesso pellegrino.
Così come l’apostrofe era cominciata nel nome dell’Italia, ora si chiude nel nome di Firenze; in quest’ultima parte Dante usa l’antifrasi, sfiorando il sarcasmo; quando il poeta afferma Molti rifiutan lo comune incarco; / ma il popol tuo solicito risponde / sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!», probabilmente fa riferimento a Baldo d’Aguglione che non permise il rientro degli esuli bianchi (1311). Firenze è malata, ci dice il poeta, una malattia che non le dà posa e la rende, tra le città d’Italia, la meno stabile e la più vile.
Canto VII
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – IV° schiera: principi negligenti)
Il canto riprende il racconto là dove esso si era interrotto a causa della digressione. All’abbraccio affettuoso tra i due concittadini, segue ora un vero gesto di venerazione, non appena Sordello viene a sapere che di fronte a sé ha il poeta latino. Quindi, dopo aver spiegato ai due pellegrini che, dopo il tramonto del sole, poiché sta giungendo la notte, non si può più procedere, li conduce in una valle fiorita dove mostra loro vari principi.
Gustave Dorè: Dante nella valletta fiorita
Canto VIII
Antipurgatorio
Valletta fiorita
(Spiriti negligenti – IV° schiera: principi negligenti)
E’ l’ora del tramonto:
Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’ han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more;
Era l’ora in cui il ricordo fa rivolgere il pensiero ai naviganti al giorno in cui dissero addio e intenerisce il loro cuore e in cui fa soffrire d’amore colui che da poco si è messo in viaggio, non appena sente il suono lontano di una campana che sembra piangere il giorno che finisce;
Miniatura che accompagna l’VIII canto
Questo è uno dei maggiori incipit con cui Dante apre un canto: il rapporto tra momento divino e momento umano si fa intenso, struggente, velando il tutto di malinconia. E’ quasi sera, è il momento della riflessione, a livello religioso è quello della Compieta, quando liturgicamente si recita l’ultima preghiera, prima di andare a dormire, ma è questo anche il momento in cui Dante viene a contatto con la tentazione, sentimento cui i grandi principi, in quanto reggitori in terra, potevano cadere, tentazione colpita dalla spada divina.
Il canto prosegue descrivendo come i principi all’interno di questa valletta, rivolti ad oriente, intonino un inno Te lucis ante… (terminum). Quindi Dante invita il lettore a porre attenzione a ciò che succede: mentre i principi, pallidi e umili, innalzano lo sguardo ad osservare il cielo, dall’alto scendono due angeli, vestiti di verde, uno si mette sopra le anime, l’altro dalla parte opposta a comprendere tutta la valletta. Sordello preannuncia che tra poco sbucherà un serpente (simbolo delle tentazioni). Mentre Dante, un po’ spaventato, scende nella valletta, vede uno che lo guarda intensamente, quindi s’avvicina e, nonostante la luce si affievoliva sempre più, riconosce in lui Nino Visconti, signore del giudicato di Gallura. Al sapere che Dante è ancora vivo, sia Sordello che il giudice, si ritraggono un poco e chiama presso di sé un altro penitente, Corrado Malaspina. Nino Visconti chiederà a Dante, tornato in terra, di rivolgersi alla figlia Giovanna, perché alla moglie, andata in sposa ad un Este, non importa più nulla di lui. Dante volge gli occhi al cielo e vede tre stelle (fede speranza e carità) prendere il posto delle quattro presenti nella spiaggia purgatoriale e mentre Virgilio gli spiega la loro presenza in cielo, Sordello li avvisa dell’arrivo di una biscia; Dante non vede in che modo i due angeli si siano mossi ma al loro alzarsi, la biscia sparisce, mentre gli stessi servitori di Dio si alzano in cielo.
Segue l’incontro con Corrado:
L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ’l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta».
Lo spirito che si era avvicinato al giudice quando venne chiamato, non smise mai di guardarmi per tutta la durata dell’assalto e cominciò a dirmi: «Possa la luce divina che ti conduce in alto trovare nella tua volontà tanta perseveranza che ti conduca al paradiso terrestre, se sai qualche notizia veritiera della Val di Magra o dei paesi vicini, dimmelo, che fui un tempo famoso presso quei luoghi. Mi chiamarono Corrado Malaspina, non il vecchio, da cui discendo: verso la mia famiglia provai l’amore che qui si purifica. Gli risposi: «Purtroppo, non sono mai stato in quei luoghi, ma c’è un posto in tutta Europa dove non siano conosciuti? La fama che onora la vostra casata viene detta a gran voce sia dei signori che dei luoghi tanto da essere nota anche da chi non vi è mai stato; ed io vi giuro, possa giungere nella sommità del monte, che la vostra onorata famiglia non cessa di gloriarsi per la liberalità e per l’esercizio delle armi. La tradizione e l’indole la privilegiano al punto che, sebbene il capo della Chiesa tradisca il suo compito, essa cammina sola nel giusto, disprezzando il cattivo cammino». E lui: «Ora va’: il sole non tornerà sette volte nella costellazione dell’Ariete (non passeranno sette anni), che questa cortese opinione ti si fisserà nella mente con maggiori argomentazioni, sempre che non venga meno il giudizio divino».
L’incontro con Corrado Malaspina è particolarmente importante perché rappresenta il primo caso di una “profezia” rovesciata: se infatti sinora, nel percorso infernale, tutte le profezie sottolineavano il concetto di dolore e solitudine, in questo caso, invece, si evince come il futuro dell’esule Dante possa diventare meno drammatico grazie all’ospitalità di Franceschino Malaspina, cugino di Corrado II qui presente nel Purgatorio, nei territori della Lunigiana, uno dei luoghi percorsi dall’autore fiorentino.
Canto IX
Antipurgatorio
Valletta fiorita – Porta del Purgatorio
Francesco Scaramuzza: L’aquila trasporta Dante in sogno
Il IX canto è una canto dottrinale, ma anche nodale nella narrazione della seconda cantica: infatti è il canto dove si entra nel Purgatorio vero e proprio, dove Dante stesso, per arrivare alla sua soglia deve librarsi, cioè distaccarsi ancor più di quanto ha fatto nell’Antipurgatorio dalle tentazioni. Il canto inizia infatti con Dante, che alle 9 di sera, (la terza ora secondo il computo dantesco) s’addormenta. Mentre dorme sogna che un aquila d’oro lo afferri per gli artigli e lo sollevi fino alla sfera del fuoco. L’ardore di tale luogo lo fa svegliare all’improvviso; il sogno spaventa Dante ma Virgilio lo rassicura dicendogli che all’alba era giunta Santa Lucia che, preso tra le braccia, lo aveva condotto fino alla porta del Purgatorio. Salendo per uno stretto spiraglio Dante si ritrova di fronte a tre scalini, il primo bianco come il marmo, il secondo scuro come pietra, il terzo rosso come il sangue; sull’ultimo è posto l’angelo con una spada fiammeggiante con la quale segna sette P sulla fronte di Dante. Alla richiesta di Dante di farlo entrare, l’angelo prende un mazzo con due chiavi, una d’oro e una d’argento; quindi apre la porta i cui cardini stridono. L’angelo raccomanda ai visitatori di non voltarsi mai.
William Blake: Dante tra le braccia di Santa Lucia
E’ evidente che il canto è pieno di simbologie a partire dall’aquila, simbolo sia della grazia che della giustizia divina), per poi; quindi i tre gradini di cui il primo, bianco, rappresenta la contritio cordis, cioè l’esame di coscienza; il secondo, di colore scuro, la confessio oris, la vera e propria confessione verbale; il terzo, rosso fiammeggiante la satisfactio operis, la penitenza da espiare con le opere. Le sette P indicano i sette peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia); la durezza della porta, la forza morale per espiare i peccati.
Gustave Dorè: L’angelo sulla porta del Purgatorio
Canto X
I cornice – I superbi
Gabriele Dell’Otto: Illustrazione per il canto X
Superata la porta Dante e Virgilio devono procedere in tortuoso percorso che li conduce nella prima cornice. Qui essi si trovano di fronte, lungo la parete interna del monte, alla rappresentazione in bassorilievo di scene di umiltà: l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria; Davide re che, per onorare Dio, si umilia danzando con la veste alzata, ricevendo lo sguardo riprovevole della moglie; Traiano che, mentre sta per partire in guerra, riceve la preghiera di una vedova e, per ottemperare al suo desiderio di vendetta per la morte del figlio, rimanda la partenza. Mentre Dante guarda le immagini, Virgilio lo avvisa di una moltitudine che avanza esasperatamente lenta, gravata da pesi che non permettono loro di alzare lo sguardo: sono i superbi.
Canto XI
I cornice – I superbi
Miniatura per il canto XI
Il canto si apre con una preghiera:
«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé e noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’ hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra’ morti».
Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ’mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.
Dante s’inchina per parlare con i superbi
«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.
La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’opera li tolse quei confini».
La prima cornice
«Padre nostro, che stai, nei cieli, non perché in essi rinchiuso, ma per più amore che nutri nei confronti delle tue prime creazioni che hai posto lassù, siano lodati il tuo nome e la tua potenza da ogni creatura, come è giusto che si renda grazia al tuo dolce spirito. Arrivi a noi la pace del tuo regno, perché noi non riusciremmo a conquistarla da soli, anche con tutti i nostri sforzi, se non fosse lei a venire da noi. Come i tuoi Angeli sacrificano a Te la loro volontà cantando “osanna” in tuo onore, lo stesso facciano gli uomini con la propria di volontà. Dacci oggi il nostro cibo quotidiano, senza il quale, per questo difficile deserto, chi più si affatica per procedere, più andrà invece indietro. E come noi perdoniamo a tutti il male che ci è stato fatto, tu perdona noi, misericordiosamente, e non giudicarci sulla base dei nostri meriti. La nostra virtù, che così facilmente si lascia abbattere, non metterla alla prova con l’antico nemico Satana, ma liberaci invece da lui, che la spinge al male. Questa ultima preghiera, Signore caro, non la facciamo per noi, non avendone più bisogno, ma per coloro che sono rimasti sulla terra.» Così quelle anime, pregando per la loro e per la nostra buona sorte, andavano sotto il peso, simile a quello di un incubo notturno, tormentate in misura diversa, a seconda del peso sostenuto, tutte disposte in cerchio e stremate, su per la prima cornice, purificandosi dalla sporcizia del mondo. Se nell’Aldilà si parla sempre a nostro favore, di qua, sulla terra, cosa si potrebbe fare e dire a loro favore, da parte di quelli che hanno una predisposizione a fare del bene? E’ necessario aiutarli a lavarsi da quelle macchie che si portarono dietro dal mondo dei vivi, così che, puri e leggeri, possano uscire e volare fino ai cieli stellati. «Possano la giustizia e la misericordia liberarvi presto, così che possiate volare ed innalzarvi in cielo come è vostro desiderio e mostrateci da quale parte si può andare più velocemente verso la scala; e se c’è più di un passaggio, indicateci quello che meno ripido; perché costui, che procede con me, per il peso di quel corpo umano che porta ancora con sé, fatica, nonostante la sua buona volontà, a salire.» Le loro parole, in risposta a quelle pronunciate dalla mia guida, non fu chiaro da chi provenissero; ma fu detto: «Verso destra, lungo la parete del monte, venite insieme a noi, e potrete raggiungere quel passaggio attraverso il quale può salire anche una persona viva. E se non me lo impedisse questo sasso che piega la mia testa di uomo superbo, per cui mi conviene procedere con la testa bassa, costui, che è ancora in vita e non ha detto ancora il suo nome, guarderei in viso, per vedere se lo conosco, e per renderlo pietoso per questo peso che mi opprime. Da vivo sono stato italiano, figlio di un nobile toscano: mio padre si chiamava Guglielmo degli Aldobrandeschi: non so se abbiate mai sentito il suo nome. L’origine nobile e le imprese virtuose dei miei antenati, mi resero tanto arrogante che, non pensando che siamo tutti figli di una stessa madre, ebbi a tal punto ogni uomo in disprezzo da morirne, come sanno gli abitanti di Siena e come a Campagnatico (dove aveva un castello) sa ogni bambino. Io sono Omberto, e la superbia non ha recato danno solo a me, ma a tutti i miei parenti che sono stati trascinati da lei nella rovina. E’ necessario che io porti questo peso per espiare la colpa della mia superbia tutto quel tempo finché Dio ne sia soddisfatto, poiché non l’ho fatto tra i vivi, qui tra i morti». Per ascoltarlo meglio, abbassai anch’io la testa; ed uno di loro, non quello che aveva parlato, si contorse sotto il peso che ne impediva i movimenti, mi vide, mi riconobbe e mi chiamò, tenendo con fatica gli occhi fissi su di me, che procedevo ora insieme a loro anche io piegato in avanti. «Oh!», chiesi io a lui, «non sei tu forse Oderisi, motivo di gloria per Gubbio e per quell’arte, la miniatura, che a Parigi viene chiamata enluminer?» «Fratello», rispose allora lui, «sono molto più colorate le miniature dipinte da Franco Bolognese; l’onore ora è tutto suo e il mio solo in parte. Certamente sono sarei stato così generoso quando ero in vita, per il gran desiderio d’eccellere su ogni altro cui tesi ogni sforzo. Per tale superbia si paga qui la punizione; e certamente non sarei qui, in Purgatorio, se non fosse che, pur potendo continuare a vivere peccaminosamente (nella superbia) mi rivolsi a Dio. O vanità della potenza umana, come dura poco la gloria (il verde sulla cima) a meno che non è seguita da un’età di decadenza! Credette Cimabue di dominare nel campo della pittura, ma ora Giotto ha la gloria, tanto che a sua fama si pè oscurata. Così Cavalcanti ha tolto la gloria a Guinizelli, è forse è già nato chi prenderà loro il posto. Non è nient’altro il rumore della fama mondana che un fiato di vento, che ora viene da una parte, ora dall’altra e cambia nome, perché cambia direzione, Che fama avrai tu, se muori vecchio o muori prima di pronunciare “pappa” e “dindi”, prima che passino mille anni? che è uno tempo infinitesimale rispetto al tempo eterno, come lo sbattere di ciglia rispetto al cerchio del cielo più lento. La fama di quell’anima che procede poco davanti a me, risuonò per tutta la Toscana; adesso a malapena di lui a Siena si bisbiglia, dov’era signora quando si distrusse l’arroganza fiorentina, allora così superba, quanto ora puttana. La fama umana è come il colore dell’erba che sparisce allo stesso modo in cui appare, ed è lo stesso sole che la fa nascere a toglierle il colore.» Ed io a lui: «La verità che mi hai detto, mi incoraggia verso la buona umiltà e mitiga in me il grande male della superbia, ma dimmi chi è colui di cui prima mi parlavi?». Rispose: «Quello è Provenzano Salviati ed è qui perché ha valuto ridurre Siena tutta in suo potere. E’ andato e così continua ad andare, senza mai riposarsi, dal giorno in cui morì; deve pagare tale debito chi ha osato troppo al di là del lecito». Chiesi allora io: “Se uno spirito aspetta prima di pentirsi l’ultimo istante della propria vita, allora dovrà aspettare nell’Antipurgatorio e non potrà salire su, qui dove ci troviamo, a meno di non essere aiutato dalle preghiere di persone in grazia di Dio, un periodo di tempo pari alla propria vita; allora come è possibile che a lui sia stato concesso di salire?» Mi rispose: «Quando Provenzano era al punto più glorioso”, mi rispose «per propria volontà si mise in mezzo alla Piazza del Campo a Siena, senza alcuna vergogna; e lì si umiliò fino a far tremare ogni vena dentro di sé, chiedendo l’elemosina per far uscire un suo amico dalla prigione di re Carlo d’Angiò (pagandone il riscatto). Non ti dirò altro, e so che le mie parole ti appariranno oscure; ma non passerà gran tempo che i tuoi concittadini di daranno la possibilità d’intendere ciò che ho detto con chiarezza. Fu quest’opera che lo liberò dai confini dell’Antipurgatorio.
Il canto “personifica” il peccato di superbia, anche a livello icastico: le anime con un masso che grava loro il capo imparano l’umiltà, guardando in terra; sembra un ulteriore punizione il non poter guardare quell’uomo vivo che in linea con loro si abbassa per cercare di vedere chi gli rivolge la parola. A farlo sono due, ma i protagonisti sono tre, ognuno di loro “superbo” in un campo: il primo, Ombero Aldobrandeshi per nobiltà, il secondo Oderisi da Gubbio, nell’arte, il terzo Provenzale Salviati per il politico. Il primo è dimentico della comune natura da cui origina l’essere umano; il secondo disquisisce sulla vanità della gloria umana e sul tempo legata ad essa – appare qui una piccola carrellata legata alla pittura e alla letteratura: su quest’ultima si è accusato lo stesso Dante di “superbia”, facendo riferimento a se stesso come successore, nella gloria letteraria, di Cavalcanti; tuttavia se inserissimo tale affermazione all’interno della vanità della gloria in relazione al tempo, e quindi alla fine della stessa anche per lui, cessa tale accusa – l’ultimo ci viene presentato da Oderisi stesso ed è il senese Provenzano Salviati, la cui condizione suscita curiosità. Infatti il politico non è costretto a trascorrere l’inizio della penitenza nell’Antipurgatorio, ma comincia la sua redenzione dal peccato proprio nella prima cornice. A condurlo lì è un azione, descritta in modo esemplare, in cui il superbo reggitore di Siena, si umilia a Piazza del Campo a chiedere l’elemosina per pagare l’esoso riscatto di Carlo d’Angiò, che teneva prigioniero un suo amico.
Amos Cassioli: Provenzano Salviati a Piazza del Campo (1873)
Canto XII
I cornice – I superbi
Salita alla seconda cornice
E’ un canto senza protagonisti: se all’inizio Dante aveva visto ed ammirato le figure parietali, poste sulle pareti della montagna, ora invece è colpito dai bassorilievi incisi sul pavimento dove invece vengono rappresentati esempi di superbia punita: s’inizia da Lucifero, poi i giganti, tra cui Nembrot, costruttore della torre di Babele, Niobe che si era anteposta a Latona come madre prolifica, Aracne che aveva sfidato nella tessitura Atene ed altri ancora. Camminando ed osservando verso il basso, Dante e Virgilio giungono ai piedi di una scala, più stretta ma più agevole. Essa è custodita da un angelo, con un abito bianco il quale cancella dalla fronte del poeta fiorentino una P con un soffio di piuma. Nell’atto dell’uscita i beati intonano Beati i poveri di spirito ed è in quel momento che Virgilio gli comunica che una P gli è stata cancellata mentre Dante va cercandola con la mano.
Canto XIII
II cornice – Gli invidiosi
Dante entra così nella seconda cornice dove incontra il secondo peccato più grave, dopo la superbia (ricordiamo che la successione dei peccati è posta in modo contrario a quella dell’Inferno). La parete della montagna, questa volta è livida e grigia, proprio color di roccia; a colpire i dannati questa volta è l’organo dell’udito: infatti voci si diffondono nell’aria con esempi di amore caritatevole come Maria Maddalena nelle nozze di Cana, Oreste e Pilade, disposti a morire uno al posto dell’altro, Gesù che invita ad amare i nemici. La loro pena, d’altra parte non permette di vedere (invideo), infatti hanno le palpebre cucite con il fil di ferro. Di fronte alla loro situazione Dante si sente in imbarazzo, perché vedente risultava non veduto. Per cui su invito di Virgilio, domanda concisamente se vi sia un latino:
Gustave Doré: Dante e Virgilio nella cornice degli invidiosi
SAPIA
«Io fui sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ’l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe».
Adeodato Malatesta: Sapia (1839)
«Io fui senese», rispose, «e con questi purifico qui la mia colpevole vita, rivolgendo le lacrime a Dio affinché sia compassionevole (nei nostri confronti). Non fui saggia, sebbene fossi chiamata Sapìa e in vita godetti più dei danni altrui che delle mia sorte. E perché tu non creda che io non dica la verità, ascolta, come ti dico, se io non fui folle, quando ormai non ero più giovane. I miei cittadini erano scesi in campo contro gli avversari (fiorentini) in Colle Val d’Esla, ed io pregavo Dio di quello che poi effettivamente volle. Qui i senesi furono scossi e volti ad un’amara fuga, e vedendo la caccia (l’inseguimento dei vincitori), provai una gioia talmente grande da alzare il volto verso Dio e gridare “ormai non ho paura di Te”, proprio come fa il merlo, rallegrandosi per poca bonaccia. Volli fare pace con Dio alla fine della mia vita; e non avrei ancora scontato il debito nei suoi confronti con la penitenza se non si fosse ricordato di me Pier Pettinaio, che ebbe nei miei confronti compassione per pura carità.
Non cessa la perplessità critica su questa figura di donna senese: alcuni la reputano tracotante e spocchiosa, altri invece loquace ed affabile; ancora polemica, altri consapevole della colpa e vogliosa d’espiazione. Ma cosa rende Sapìa un personaggio non chiaro, la cui psicologia lascia sospesi? Indubbiamente il timbro militaresco al centro della sua narrazione, quasi godesse nel vedere lo schieramento dei suoi concittadini, la loro rotta, la fuga arricchita dalla caccia; in seguito la maledizione ottenuta per intercessione divina (sembra dire), col volto in aria ed espressione soddisfatta e la chiusa popolaresca con la rappresentazione del merlo. Ma ad attenuare c’è quell’alone di santità di Pier Pettinaio. Eppure sembra che l’antico vizio non sia completamente sparito quando chiede a Dante chi sia e perché, libero di vedere, va ad investigare sui dannati, sembra proprio che invidi la sua posizione.
Canto XIV
II cornice – Gli invidiosi
Il canto continua nella seconda cornice, con le parole di un purgante che rivolgendosi ad un compagno chiede chi sia costui che, ancora vivo, ad occhi aperti varca il purgatorio, e l’altro, di rimando gli dice di domandarglielo con cortesia, per ottenere una gentile risposta. Il primo è Guido del Duca, colui che per tutto il canto prenderà la parola, l’altro è Rinieri da Calboli. A far partire la requisitoria contro i toscani è Dante stesso che, non rivelandogli sin da subito il nome ma riferendosi al fiume Arno, fa sì che il penitente parta per criticare aspramente le genti che vivono là dove il fiume trascorre; tale “cattiveria” sarà punita da un nipote, Fulceri, del dannato Rinieri, là con Guido, che sarà potestà nella città di Firenze, portando morte e distruzione tra i ghibellini e i guelfi rimasti in città (si riferisce al 1303). La crudeltà di Fulceri sarà a sua volta motivo per denigrare le popolazioni emiliane, le cui casate hanno dimenticato oggi il valore della cortesia, che sembra essersi fermato appunto nella figura di Rinieri.
Miniatura medievale che illustra Dante con Guido del Duca e Rinieri da Calboli
Canto XV
II cornice – Salita alla III cornice – III cornice (Iracondi)
E’ un canto privo di personaggi o per meglio dire senza penitenti con cui dialogare. Egli sì, percepisce dei suoni, ma sono inni che completano e chiudono la cornice degli invidiosi. Quindi, dapprima colpito dalla luce del sole, poi dal bagliore di un angelo, invitato da quest’ultimo, comincia a salire una scala, più agevole della precedente. Mentre salgono la scala Virgilio, ma solo in parte, risolve un dubbio che scuote Dante dal colloquio con Guido del Duca, quando gli disse “o gente umana, perché poni il core / là v’è mestier di consorte divieto?” (“o uomini, perché vi attaccate a beni che necessariamente portano con sé l’impossibilità di fruirne in comune?”). Virgilio gli risponde che più sono gli uomini più sarà impossibile condividere i beni terreni che risulteranno sempre minori, ma se si rivolgesse lo sguardo all’unico bene indivisibile, cioè l’amore per Dio e quindi la carità tale problema non esisterebbe. Ma aggiunge che tale risposta è certamente limitativa perché solo la sapienza di Beatrice potrà rispondergli in modo più adeguato. Quindi Dante stesso viene quasi travolto da immagini estatiche che preannunciano i penitenti della terza cornice; sono immagini di mansuetudine come Maria che rimprovera con dolcezza Gesù che si era attardato con i dottori del Tempio; Pisistrato che di fronte a un ragazzo che aveva baciato sua figlia in strada e verso cui la moglie chiede una punizione esemplare risponde “e se trattassimo così chi ci ama, come dovremmo trattare chi ci vuol male?” ed ancora Santo Stefano che picchiato fino alla morte steso in terra, alza gli occhi al cielo per chiedere il pardono nei loro confronti. Risvegliatosi da quella sensazione un po’ svagata con cui aveva “vissuto” le immagini, Dante e Virgilio, giunti alla terza cornice, vengono immersi in una densa nube scura.
Canto XVI
III cornice (Iracondi)
E’ questo il canto di Marco Lombardo:
Buio d’inferno e di notte privata
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant’esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò e l’omero m’offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che ’l molesti, o forse ancida,
m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
«Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d’iracundia van solvendo il nodo».
«Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».
Così per una voce detto fue;
onde ’l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».
E io: «O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».
«Io ti seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece».
Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia.
E se Dio m’ ha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte»
Gustave Doré: Dante e Virgilio incontrano Marco Lombardo
«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco.
Per montar sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».
E io a lui: «Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.
Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ‘l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.
Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
e Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma».
«O Marco mio», diss’io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».
«O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».
Così tornò, e più non volle udirmi.
Scuola italiana: La III cornice
Mai il buio dell’inferno né una notte priva di qualunque stella, sotto un cielo senza luce, annerito quanto è possibile dalle nubi, pose davanti al mio viso un velo tanto scuro quanto fece quel fumo che ci avvolse nella terza cornice, né fu mai così sgradevole a sentirsi tanto che i miei occhi faticarono a restare aperti; perciò la mia attenta e fedele guida mi si accostò e mi offrì la sua spalla per condurmi. Così come un cieco va dietro alla sua guida per non perdersi e per non urtare violentemente contro qualcosa che possa fargli male, se non addirittura ucciderlo, allo stesso modo procedevo io attraverso quell’aria pungente e densa, ascoltando la mia guida, Virgilio, che mi avvertiva continuamente: «Stai attento a non allontanarti da me.» Sentivo delle voci intorno a me e ciascuna sembrava pregare per la pace e la misericordia l’agnello di Dio, che toglie i peccati dell’uomo. Tutte con ‘Agnus Dei’ iniziavano le loro preghiere; cantando tutti le stesse parole con la stessa intonazione, tanto che sembrava regnasse tra loro l’armonia. «Maestro, sono anime queste che sento cantare?», chiesi. Mi rispose Virgilio: «Tu credi il vero, sono anime e stanno espiando i loro peccati d’ira.» «Chi sei tu che attraversi il fumo che ci avvolge, e parli di noi come se tu dividessi ancora il tempo in mesi e giorni?» Queste parole furono pronunciate da una voce; per cui il mio maestro mi disse: «Rispondigli, e chiedigli anche se è per questa strada che si sale alla prossima cornice.» Dissi: «Oh anima che ti purifichi qui dei tuoi peccati per poter poi tornare completamente pura a Dio, che ti creò, sentirai qualcosa di incredibile se mi segui.» «Io ti seguirò per quanto mi è concesso farlo», rispose, «e se il fumo non mi lascia vedere dove vado, sarà l’udito a tenerci vicini, facendo le veci della vista.» Cominciai allora a dire: «Con quell’involucro dell’anima, che la morte poi distrugge, salgo verso il cielo, e sono giunto qui dopo aver attraversato le sofferenze dell’inferno. E se Dio mi ha accolto nella sua Grazia, tanto da volere che io veda la sua corte celeste in un modo completamente diverso da quello è solito, non nascondermi la tua identità, chi eri prima di morire, ma anzi dimmelo, e dimmi anche se procedo nella direzione giusta verso la prossima cornice; siano le tue parole la nostra scorta.» «Nacqui nell’Italia settentrionale ed il mio nome fu Marco; fui molto esperto delle regole del mondo ed amai sempre quel valore morale, la cortesia, al quale ormai nessuno tende più. Per salire alla prossima cornice continua a camminare dritto.» Così mi rispose ad aggiunse infine: «Ti chiedo di pregare Dio per me quando sarai in cielo.» E gli dissi allora io: «Ti prometto solennemente di fare ciò che mi chiedi; ma rischio ora di scoppiare per un grosso dubbio che mi attanaglia se non me ne sbarazzo subito. Prima era semplice, piccolo, adesso è diventato doppio dopo la tua affermazione, che mi conferma qui, come già altrove, la frase a cui accoppio la tua. Il mondo è certamente privo di ogni valore, come tu stesso mi hai detto, ed è invece invaso e pieno di ogni forma di malvagità; ma ti prego di indicarmi la ragione, la causa di ciò, così che io la possa conoscere e quindi spiegarli anche ad altri; perché alcuni la attribuiscono agli influssi celesti, altri alla semplice responsabilità umana.» Un profondo sospiro, che il dolore tramutò in un lamento, fu prima emesso dallo spirito; che poi cominciò a dire: «Fratello, il mondo è cieco e tu, con questa domanda, dimostri di provenire proprio da lì. Voi che siete ancora in vita attribuite la causa di ogni cosa solo e sempre al cielo, come se necessariamente il cielo muovendosi trascinasse tutto con sé. Se così fosse, in voi cesserebbe di esistere il libero arbitrio, e non sarebbe giusto ricevere un premio per il bene compiuto e una punizione per il male. Il cielo dà l’impulso iniziale alle vostre azioni; non proprio a tutte, ma, ammesso anche che siano tutte, vi è comunque sempre data la facoltà di distinguere il male dal bene, ed anche la libera volontà; la quale, se fatica nei primi momenti ad opporsi alle tendenze suggerite dal cielo, in seguito ha sempre la meglio, se viene ben coltivata. Ad una forza maggiore e ad una natura superiore a quella degli astri voi siete soggetti, pur essendo liberi; è quella che crea la vostra mente, su cui il cielo non può influire. Perciò, se il mondo abbandona la retta via, la causa è in voi, in voi deve essere ricercata; e te ne darò ora la vera dimostrazione. L’anima esce dalla mano di Dio, che la pensa prima ancora di farla esistere, come una bambina che con innocenza passa dal pianto al riso, completamente ignara di tutto, salvo che, provenendo dall’infinita gioia del suo creatore, si rivolge spontaneamente verso ciò che le dà gioia. Nei primi tempi l’anima fa esperienza di un bene di poca importanza; questo la trae in inganno, e così l’anima corre dietro ad esso, a meno che una guida o un freno non riescano a distogliere la sua attenzione. Per questo fu necessario istituire delle leggi per porre il freno; fu necessario creare l’autorità del re, che distinguesse almeno la torre della vera città (la Giustizia). Le leggi ci sono, ma chi si preoccupa di farle rispettare? Nessuno, poiché il pastore che conduce il gregge, può ruminare (riflettere) ma non ha le unghie tagliate in due (la capacità di distinguere il bene dal male); perciò le persone, che vedono la loro guida desiderare soltanto quei beni materiali di cui è tanto avida, si nutrono a loro volta di quelli, e non desiderano nient’altro. Puoi vedere chiaramente che la cattiva gestione del Papa è la causa prima che ha reso malvagio tutto il mondo, non lo è la parte corrotta della vostra natura umana. Roma, che rese buono il mondo, era solita avere due diversi soli ad illuminare l’una e l’altra strada, quella materiale e quella spirituale. Adesso uno dei due ha spento la luce dell’altro; il potere imperiale si è unito con quello spirituale, e così uniti a forza, è inevitabile che vadano entrambi male; poiché, così messi insieme, non si controllano a vicenda come dovrebbero: se non mi credi, pensa alla spiga, perché ogni pianta si riconosce dal suo seme (che è poi contenuto nel suo frutto). Nel territorio italiano bagnato dai fiumi Adige e Po, un tempo si trovavano facilmente cortesia e virtù, prima che l’imperatore Federico II subisse l’attacco della Chiesa; ora può in tutta sicurezza passare da lì qualunque persona che prima evitava, vergognandosi della propria malvagità, di parlare o di avere semplicemente a che fare con le persone oneste. Ci sono in verità ancora tre vecchi attraverso la cui persona il passato rimprovera aspramente il presente, ed ai quali sembra non arrivare mai il giorno della loro morte: Corrado da Palazzo, il buon Gherardo da Camino e Guido da Castello, che è meglio conosciuto, alla francese, come il semplice Lombardo. Puoi dunque ormai affermare che la Chiesa di Roma, per aver voluto unire in sé due diversi poteri, cade nel fango ed imbratta così sé stessa e tutto il suo carico.» «O Marco mio», dissi io allora, «dici il giusto: ed ora capisco perché furono esclusi delle eredità materiali i Leviti, i sacerdoti degli Ebrei. Ma chi è quel Gherardo cui ti riferisci parlando di quell’uomo saggio che è rimasto ancora in vita, esempio della generazione scomparsa, a rimprovero di questo secolo incivile?» «O le tue parole non mi sono chiare, oppure vuoi provocarmi», mi rispose; «dal momento che, da toscano quale sei, sembra che tu non sappia nulla del buon Gherardo. Io non lo conosco con nessun altro soprannome, a meno che non lo prenda da sua figlia Gaia. Vi saluto, che Dio sia con voi, perché non posso più venire insieme a voi. Vedi che il sole con i suoi raggi, che attraversano il fumo, rischiara ormai la cornice, e mi conviene quindi allontanarmi, l’Angelo del perdono è poco distante e non vorrei comparirgli davanti.» Detto questo tornò indietro e non volle più stare ad ascoltarmi.
L’incipit del canto sembra quasi riportarci all’inferno: era dall’inizio del Purgatorio che non lo abbiamo più trovato, ma è un buio diverso, derivato da nubi meteorologiche sebbene denso tanto da dar fastidio agli occhi. In questo buio s’incontrano con Marco Lombardi ed è un incontro che ricorda quella di un altro grande protagonista, Federico degli Uberti. Lì era un “O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.”, qui vi è quasi lo stessa domanda, la stessa lieta sorpresa d’incontrare un vivo, non dimenticando nè l’uno né l’altro, un po’ di supponenza e di alterigia: “Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?. Ambedue rivolgono il loro sguardo alla loro “storia”: Montaperti per il dannato, il nord d’Italia per Marco. Ma chi è Marco Lombardo, che presenta se stesso con uno splendido chiasmo? Non sappiamo nulla di lui, ci dice qualcosa il Novellino; fu probabilmente un nobile uomo di corte, non certo ricco e sembra che sulla sua figura abbia messo molto se stesso e delle sue idee politiche. E’ infatti un canto politico, in cui Dante, partendo dal concetto di libero arbitrio arriva alla teoria dei due soli, espressa in modo compiuto nel De monarchia, attraverso un ragionamento fortemente logico: il libero arbitrio, lasciando l’uomo appunto libero di scegliere il bene o il male ha bisogno di una legge che lo guidi; la legge a sua volta ha bisogno di chi la fa rispettare, ma se a farla rispettare è una istituzione che ha altro compito, come la “giurisdizione” divina, la guida è fallace in quanto non mitigata da chi è deputato a tale compito, la giurisdizione terrena, cioè quella imperiale. E’ evidente che tale visione, certamente, retrograda rispetto ai cambiamenti italiani del ‘300, conduca ad una forma di nostalgia, ben espressa da Marco Lombardo verso l’esiguità del numero di chi conserva il concetto di cortesia rispetto alla malignità del presente.
Rubens: Progne e Tereo
Canto XVII
III cornice (Iracondi) – Salita alla IV cornice (accidiosi)
Posto al centro dell’iter purgatoriale, questo canto funge la funzione che nell’Inferno aveva avuto il canto XI, per meglio dire quello di spiegazione della struttura morale che sottintende l’intera montagna purgatoriale.
Il canto si può dividere in tre momenti:
vv. 1-39: mentre riemergono dalla nebbia degli iracondi, a Dante appaiono le visioni dell’iracondia punita. Esse sono tre:
- Progne, mito ripreso dal Vi libro di Ovidio in cui si narra del re della Tracia, sposo appunto di Progne. Quando viene a trovare quest’ultima la sorella Filomena, Tereo se ne infiamma e cogliendo il momento opportuno, la violenta. Affinché non riveli nulla alla sorella le taglia la lingua, ma riuscendo a gesti a confidarsi, ambedue imbandiscono a Tereo le carni del figlioletto: Progne verrà trasformata in usignolo, Filomena in rondine e Terreo in upupa;
- Aman, nella corte di Assuero, re persiano, è l’eunuco che ha il compito di trovare delle vergini da portare all’harem, per sostituire la sposa del re fuggita. Tra esse vi è Ester, che vive col cugino Mardocheo. Costui diviene intimo del re e scopre un complotto degli eunuchi, mentre quest’ultimi, su istigazione di Aman, vogliono processare i giudei che non s’inchinano al sovrano. Sarà proprio l’eunuco ad essere ucciso tramite crocifissione.
- Amata, madre di Lavinia che si uccide perché non vuole che la figlia, già fidanzata a Turno, re dei Rutuli, andasse sposa ad Enea.
Il secondo momento è racchiuso tra i vv. 40 – 69: riemergendo dall’oscurità, una luce che sovrasta la capacità visiva di Dante, lo invita a salire: è l’angelo della pace. Prima che giunga la notte, in cui, com’è noto, non si procede, i pellegrini giungono nel IV cerchio.
Vv. 70 – 139: comincia qui la terza parte del canto in cui Virgilio spiega la ripartizione purgatoriale a partire dal concetto dell’amore. Ed egli a partire dal peccato dell’accidia (l’amore del bene, insufficiente rispetto al dovere), spiega appunto cosa sia l’amore, insito in ogni uomo: naturale, quindi, ma anche d’elezione (scelta dell’uomo). Quando quest’ultimo sceglie il d’amare il male o, come qui, non distogliendosi dal bene, ama troppo i beni secondi, distogliendogli dall’unico vero bene che è Dio, li purgherà qui nel Purgatorio.
Canto XVIII
IV cornice (accidiosi)
Il canto XVIII si lega con il precedente senza soluzione di continuità. Sembra quasi che Dante non si senta soddisfatto della teoria dell’amore illustrataci da Dante e cerchi di approfondire il discorso.
Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogni buono operare e il suo contrario».
Allora io: «Maestro, il mio intelletto si rischiara così vivamente attraverso la tua sapienza, che comprendo facilmente ciò che la tua ragione formula e analizza. Perciò ti prego, padre caro, che tu mi spieghi cosa sia l’amore, al quale fai dipendere ogni azione buona o malvagia»
in altre parole, la domanda di Dante è chiara: mi spieghi che cosa è l’amore? Risulta evidente che da tale domanda ne discenda una spiegazione dottrinale. Virgilio le risponde semplicemente che l’amore è un sentimento innato in noi, che rivolge, sin dalla nascita il nostro volere verso il bene. Come il fuoco s’innalza verso l’alto, così l’amore che tende verso Dio si alimenta ancor di più tanto che l’amore, più s’avvicina al suo bene, più aspira alla perfezione dell’amore che non è mai paga (se non nella beatitudine). Alla domanda di Dante secondo cui, se l’amore è innato, non è colpa dell’uomo se tale amore va verso il bene o verso il male, Virgilio risponde che tale concetto lo potrà meglio capire da Beatrice, ma per il momento non può che sottolineare che Dio ha dato l’uomo la ragione, quindi il discernimento, che deve guidare gli istinti naturali, è pertanto la ragione degli uomini che permette loro di amare in modo pieno, o con minore intensità, come qui nel Purgatorio, o amare il male, come si è già visto nell’inferno.
Affresco che illustra la IV cornice del Purgatorio
E’ notte alta e dopo la spiegazione di Virgilio Dante si trova in una situazione di sonnolenza, che scompare improvvisamente dall’arrivo di anime che, dalle nostre spalle, si dirige verso di noi. Questa folla giunge correndo, declamando esempi contrari al loro peccato dell’accidia. Ad esse Virgilio domanda qual è il varco per continuare la salita ed essi, che non possono fermarsi, invitano i pellegrini a seguirli, e quindi rivelano la loro identità, tra cui l’abate di San Zeno di Verona e due anime che lamentano uno la scarsa volontà nel seguire Mosè nell’attraversare il Giordano, l’altro i compagni d’Enea, che rimasti in Sicilia, non poterono partecipare alla gloria di Roma. Ma mentre Dante li vede già allontanarsi, si perde in pensieri al fine di domandar loro, ma gli stessi si trasformano in sogno.
Canto XIX
IV cornice (accidiosi) – V girone (avari e prodighi)
Dante, dopo la solita precisazione astrologica che indica il momento più freddo della notte, poco prima dell’alba, sogna:
mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ’l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.
Dante in sogno
mi apparve in sogno una donna balbuziente, con lo sguardo strabico, storpia nel modo in cui si reggeva in piedi, con le mani monche e dal colorito pallido smorto. Io la fissavo; e così come il sole ridà vigore al corpo infreddolito ed intorpidito dalla notte appena passata, allo stesso modo il mio sguardo su di lei le sciolse la lingua (la fece parlare), e subito dopo le raddrizzava la postura in poco tempo, ed al suo volto pallido, come è capace di fare l’amore, ridava infine anche colore. Quando, in ultimo, la sua lingua, la sua capacità di parlare fu sciolta a sufficienza, cominciò a cantare con una tale grazia, che solo a fatica sarei riuscito a distogliere da lei la mia attenzione. «Io sono», cantava, «io sono la dolce sirena, che incanta i marinai in mezzo al mare; tanto è il piacere che si può provare nell’ascoltarmi! Io distolsi l’attenzione di Ulisse dal suo vagare per mareper rivolgerla al mio canto; e chi si abitua a stare con me, raramente poi decide di andarsene; tanto riesco ad appagarlo, a soddisfarlo! La sua bocca non si era ancora richiusa dopo il canto, quando una seconda donna, dall’aspetto santo e premuroso, mi apparve e si mise al mio fianco per confondere la prima, la sirena. «Oh Virgilio, Virgilio, chi è questa donna?» urlò con voce sdegnata; e Virgilio a quel punto venne da noi tenendo i suoi occhi fissi solamente sulla donna onesta. Afferrò poi l’altra, e le aprì la parte anteriore del vestito strappandone i lembi di stoffa, fino a mostrarmi il suo ventre; la terribile puzza che ne uscì mi risvegliò bruscamente.
Il passo presentato è stato uno dei più discussi, eppure l’allegoria in esso presente appare piuttosto chiaro: una donna deforme, balbuziente, si trasforma in una suadente “sirena”, ma interviene una “donna santa” che spinge Virgilio a lacerarle i panni, per cui si mostra l’immonda natura: cioè il vizio, il cui fascino ci attira percependolo come piacere, fino a quando interviene la ragione a ricondurci nella “dritta via”. Fino a qui ci troviamo di fronte ad una vera e propria simbologia medievale, che tuttavia lascia delle questioni aperte, soprattutto due:
- Ulisse: nel medioevo era chiaro che il mito dell’eroe greco si conosceva, eppure qui ci troviamo di fronte ad una interpretazione secondo la quale Ulisse venne “desvia” grazie al canto di esse. La fonte è certamente ciceroniana (sappiamo che Dante non conosceva il greco e quindi l’opera omerica) dal De finibus: il filosofo arpinate afferma che il compito delle sirene era quello di flectere, piegare verso loro, che rappresentavano la conoscenza;
- la donna santa ha avuto moltissime interpretazioni, ma quella più appropriata ci sembra la filosofia/ragione, proprio perché più si lega al concetto di conoscenza prima illustrato; la conoscenza, per essere valida dev’essere guidata dall’apporto morale; d’altra parte a stracciare la veste menzognera è Virgilio, che sin dall’inizio del poema dantesco riveste il ruolo della ragione.
Subito dopo, dopo l’incitamento di Virgilio a salire, Dante arriva alla V cornice in cui trova distesi in terra i penitenti del peccato di avarizia. Essi con il volto a terra intonano il salmo Adhesit pavimento anima mea (L’anima mia è prostata a terra), – in quanto gli avari furono troppo attratti dalle cose terrene – e, richiesti da Virgilio su quale fosse la via da seguire e individuato da chi giungesse la risposta, Dante, sente dire scias quod ego successor Petri (Adriano V, ma in realtà la persona di cui qui parla Dante è Adriano IV) e quindi s’inchina per osservarlo meglio, ma lui lo invita a rialzarsi perché nel Purgatorio tutte le anime, al di là del grado di provenienza, sono uguali a Dio. Costui racconta che, appena eletto papa, si rese conto di quale fosse il suo compito, sebbene avesse potuto derogare da esso, ma il suo pontificato è stato di breve durata e se mai il pellegrino fiorentino dovesse tornare sulla terra, si rivolgesse a sua nipote Alagia, l’unica, forse, se non verrà corrotta dai familiari, la cui moralità permetterà di innalzare preghiere a Dio in grado di sollevarlo al cielo. E’ evidente il riferimento all’episodio dei simoniaci nel XIX canto dell’Inferno con la figura di Niccolò III: qui un esempio della chiesa morale, là la critica verso una mondanizzazione contraria, per Dante, al suo compito originario.
Canto XX
V cornice (avari e prodighi)
Dante dopo il colloquio con Adriano continua a camminare nel girone, non dimenticando, però, di far pronunciare a Dante auctor un’invettiva contro l’avarizia, simboleggiata ancora dalla lupa che, all’inizio del poema sacro gli aveva impedito il cammino.
In seguito avviene l’incontro con Ugo Capeto:
Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta.
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia.
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta.
Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi,
trova’ mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno,
ch’a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa.
Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male.
Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna.
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ’ suoi.
Sanz’arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia.
Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta.
L’altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l’altre schiave.
O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c’ ha’ il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne?
Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto?
Ugo Capeto
Io sono stato la radice di quella pianta malvagia (il capostipite di quella malvagia famiglia) che ora danneggia tutto il mondo cristiano, tanto che raramente da essa si può raccogliere un buon frutto. Ma se le città di Douai, Lille, Gand e Bruges potessero, questa sua malvagità verrebbe subito punita; ed io chiedo che accada a Dio che tutto giudica. Il mio nome in vita è stato Ugo Capeto; da me sono discesi i Filippi ed i Luigi da cui attualmente la Francia è governata. Ero figlio di un macellaio di Parigi; quando l’antica dinastia dei sovrani si estinse completamente, tranne che per un discendente fattosi frate, mi trovai strette tra le mie mani le redini per guidare sia il governo che il regno, ed una così smisurata potenza derivante dalle nuove conquiste, ed una così ampia cerchia di amici, che la corona rimasta vacante fu posta sulla testa di mio figlio, dal quale discese poi tutta la dinastia dei re consacrati (i Filippi ed i Luigi). Finché il dominio della Provenza, ricevuto in dote da mia moglie, non tolse ai miei discendenti la capacità di contenere i propri impulsi, la dinastia aveva scarso valore, ma almeno non commetteva male alcuno. Da lì iniziò però poi a compiere, usando la forza e l’inganno, le sue rapine; ed in seguito, per espiare tale peccato, estese il suo dominio sul Ponthieu, sulla Normandia e sulla Guascogna. Carlo I d’Angiò venne in Italia e, per penitenza, uccise, Corradino; e poi rispedì anche in cielo Tommaso, sempre per penitenza. Vedo che arriverà un giorno, non molto lontano da oggi, in cui un altro Carlo uscirà fuori dai confini della Francia, per far meglio conoscere il valore suo e dei suoi uomini. Uscirà senza nessuna arma ma solo con la lancia (l’astuzia e l’inganno) che fu in passato già utilizzata da Giuda, e la punterà con una tale precisione da fare scoppiare la pancia a Firenze. Pertanto, nessun dominio territoriale, ma solamente colpa e vergogna guadagnerà con questo suo operare, tanto più grave per sé quanto meno reputa valere una simile punizione. L’altro Carlo (Carlo II d’Angiò), che era già uscito dalla Francia su di una nave, come prigioniero, lo vedo vendere sua figlia e contrattare sul prezzo così come fanno i corsari con le figlie degli altri catturate e fatte schiave. Oh avidità, che cosa puoi fare peggio di così, dopo che la mia discendenza, la mia stirpe hai tirato a te a tal punto che non ha ora più cura nemmeno dei propri parenti stretti? Ma perché sembri meno grave il male che verrà fatto e quello già compiuto, vedo anche entrare nella cittadina di Anagni il giglio di Firenze, e vedo Cristo essere catturato nella persona del suo vicario in terra, il papa. Le vedo venire deriso ancora una volta; lo vedo subire nuovamente l’offesa dell’aceto e del fiele, ed essere infine nuovamente ucciso in mezzo a ladroni vivi. Vedo il nuovo Pilato (Filippo il Bello) essere tanto crudele da non sentirsi appagato da questa morte, e, senza permesso, dirigere le vele della sua avidità contro l’ordine dei Templari. Oh mio Signore, quando potrò finalmente gioire nel vedere punita tanta crudeltà che, nascosta agli uomini, rende più dolce la tua ira nella tua mente per noi inesplorabile?
Questo passo ci allontana dal clima di penitenza che sottende la cantica purgatoriale: L’unica eccezione l’avevamo già vista nel canto di Sordello, ma lì si trattava di una “digressione”; ora riprende l’argomento politico, piegando la storia secondo il fine dimostrativo che vuole dare a questa pagina, la cui forza e oggettività ideologica è rafforzata dal fatto che a pronunciarla sia proprio il fondatore della dinastia francese. Di me son nati i Filippi e i Luigi, afferma Ugo Capeto, che tanto male hanno fatto al mondo conosciuto.
Tre sono i peccati che Dante ascrive loro:
- l’uccisione di Corradino di Svevia e la politica antimperialista che ha trascinato con sé, l’intervento della Chiesa nel gioco politico italiano, portandola ad una forte instabilità politica;
- il discesa a Firenze di Filippo il Bello, chiamato da Bonifacio VIII con la scusa di riportare la pace in Firenze ma in realtà per insediarci i Neri da cui deriverà l’esilio di Dante;
- lo schiaffo di Anagni, nel 1303, contro cui l’emissario del re di Francia o un Colonna, che condivideva la politica francese, schiaffeggiarono Bonifacio VIII perché non voleva sottomettersi alla politica transalpina (vogliamo ricordare che subito dopo la morte di Bonifacio, la Chiesa, nel 1309, venne spostata ad Avignone) e la distruzione dell’ordina dei Templari (1307).
Non ci può sorprendere che Dante riprenda i re francesi di aver “schiaffeggiato” Bonifacio VIII, conoscendo l’opinione che il poeta fiorentino ha su tale pontefice: ma non è la persona che viene colpita, ma il ruolo che ricopre, che è pur sempre quello di vicario di Cristo in terra.
Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville: Lo schiaffo di Sciarra Colonna
Abbandonando il re francese i due vengono sorpresi da un terremoto, accompagnato dal canto Gloria in excelsis Deo, che lascia i due pellegrini in uno stato di sospensione che sarà risolto solo nel canto seguente.
Canto XXI
V cornice (avari e prodighi)
La sete natural che mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia,
mi travagliava, e pungeami la fretta
per la ’mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta.
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca,
ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria,
dicendo: “O frati miei, Dio vi dea pace”.
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface.
Poi cominciò: “Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l’etterno essilio”.
“Come!”, diss’elli, e parte andavam forte:
“se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ ha per la sua scala tanto scorte?”.
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni.
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,
venendo sù, non potea venir sola,
però ch’al nostro modo non adocchia.
Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a’ suoi piè molli”.
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve;
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade;
secco vapor non surge più avante
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante.
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ’n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai.
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii”.
Così ne disse; e però ch’el si gode
tanto del ber quant’è grande la sete,
non saprei dir quant’el mi fece prode.
E ’l savio duca: “Omai veggio la rete
che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se’, ne le parole tue mi cappia”.
“Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond’uscì ’l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
era io di là”, rispuose quello spirto,
“famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l’Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz’essa non fermai peso di dramma.
E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando”.
Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ’Taci’;
ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne’ più veraci.
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;
e “Se tanto labore in bene assommi”,
disse, “perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?”.
Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e “Non aver paura”,
mi dice, “di parlar; ma parla e digli
quel ch’e’ dimanda con cotanta cura”.
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d’i dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.
La sete naturale di sapere, che non si sazia mai se non bevendo l’acqua della verità divina, quella che la donna samaritana chiese a Gesù, mi tormentava e mi stimolava la fretta di seguire la mia guida lungo quella strada ostruita dalle anime, con le quali condividevo la sofferenza per la giusta punizione. Ed ecco che, proprio come nel vangelo Luca è scritto che Cristo apparve a due discepoli che erano in cammino, dopo essere risorto dal suo sepolcro, ci apparve all’ora un’ombra, che avanzava dietro a noi, mentre facevamo attenzione a non calpestare la folla di anime distese sulla via; ma non ci accorgemmo subito di lei, se non quando ci parlò, dicendoci: «Fratelli miei, possa Dio darvi la pace». Ci voltammo subito indietro e Virgilio le rese il cenno di saluto. Poi comincio a dire: «Possa concederti la pace nell’assemblea dei beati l’infallibile giudizio divino, che pone invece me in un eterno esilio». «Come è possibile?» disse all’ora l’anima, mentre tutti e tre camminavamo intanto in fretta: «Se voi siete anime indegne di salire fino a Dio, chi vi ha condotto così in alto sulla scala che conduce a lui?» Ed il mio maestro: «Se tu osservi i segni che costui porta sulla fronte, che vengono incisi dall’angelo custode, puoi ben capire che è giusto che lui faccia parte il regno dei buoni. Ma perché colei che fila giorno e notte (Lachesi), non aveva ancora finito di filare tutta la lana della sua vita, che Cloto pone ed avvolge sulla rocca, (Atropo era la terza parca che recide il filo della vita) la sua anima, sorella mia e tua, nel suo salire non poteva procedere dal sola, senza una guida, non essendo in grado di percepire la realtà come possiamo noi puri spiriti. Per questo motivo fui chiamato fuori dalla profonda cavità infernale per mostrargli la via, e gli farò ancora da guida fin dove il mio insegnamento potrà condurlo. Ma spiegami, se lo sai, il motivo per cui ha tremato così tanto poco fa il monte, e perché all’unisono ha innalzato un grido fin dalla sua parte più bassa, immersa nel mare». Virgilio, ponendo questa domanda, colpì così bene nel segno il mio desiderio inespresso, che già solo con la speranza di essere soddisfatta la mia sete di sapere divenne meno intensa. Cominciò a rispondere quell’anima: «Non esiste cosa che la legge sacra della montagna faccia senza obbedire all’ordine divino, o che non sia per lei usuale. Questo luogo è immune da ogni perturbazione atmosferica: solo da ciò che il Cielo riceve in sé e produce da sé, non da altro, possono essere originate delle perturbazioni. Perciò né pioggia, né grandine o neve, né rugiada o brina può cadere sul monte al di sopra del punto in cui si trova la piccola scala di ingresso formata da tre soli gradini, ingresso del Purgatorio; non si vedono nuvole, né voluminose né tenui, non si vedono fulmini e neanche Iride, l’arcobaleno, figlia di Taumante, che nel mondo terreno cambia spesso luogo; il vapore secco non sale in cielo oltre il terzo, e più alto, dei tre gradini ai quali mi sono riferito, là dove tiene appoggiati i piedi il vicario di san Pietro, l’Angelo portiere del Purgatorio. Si verificano forse terremoti più o meno intensi al di sotto dei tre gradini; ma per il vento secco che resta chiuso nella terra, non so come, qua su non si verificarono mai dei terremoti. Qui i terremoti si verificano solo quando un’anima si sente ormai purificata, così da potersi alzare o muoversi per salire in Paradiso; ed il canto che hai potuto udire accompagna queste scosse della montagna. L’unica prova dell’avvenuta purificazione è la volontà, che, del tutto libero di cambiare luogo e compagnia, si impadronisce dell’anima e l’asseconda. Anche prima l’anima desidera salire, ma non glielo permette la volontà relativa, che la giustizia divina, contro la volontà assoluta (che tende a Dio), spinge verso la pena così come in vita la volontà relativa ha spinto l’anima a peccare. Ed io, che ho subito questa pena stando sdraiato per più di cinquecento anni, solo poco fa ho sentito la volontà, ora libera da impedimenti, di raggiungere una dimora più elevata: per tale motivo hai potuto sentire prima il terremoto e le anime buone ringraziare da ogni luogo del monte il Signore, pregandolo di farle salire presto fino a lui». Parlò così quell’anima; e poiché si ottiene tanta più soddisfazione dal bere quanto più si ha sete, non saprei esprimere a parole quanto mi fu gradito il suo discorso. Disse allora la mia saggia guida: «Comprendo ora quale sia l’impedimento che vi trattiene qui e come ve ne liberate, perché il monte tremi e per che motivo gioite tutte insieme. Ti piaccia però di rivelarmi ora anche chi sei stato nella vita terrena, ed il perché per così tanti secoli sei rimasto disteso qui me lo faccia capire le tue parole». «Nel tempo in cui il valoroso Tito, con l’aiuto di Dio, il supremo re, vendicò le ferite da cui uscì il sangue venduto per tre danari da Giuda, con il nome di poeta, che dona la fame più longeva e più grande», rispose a Virgilio quello spirito, «ero al mondo molto famoso, ma non avevo ancora la fede in Cristo. La mia poesia fu tanto armoniosa che, nato a Tolosa, fui chiamato a Roma, dove ottenni il merito di essere incoronato con le foglie di mirto. Nel mondo terreno sono ancora noto con il nome di Stazio: cantai la città di Tebe e scrissi poi dell’eroe Achille; ma morii mentre ero ancora intento a compiere questa seconda opera. Alimentarono il mio entusiasmo di poeta le scintille, ed anche mi scaldarono, di quella somma fiamma da cui furono accesi moltissimi poeti; sto parlando dell’Eneide, che fu per me come una madre e come una balia, nel campo della poesia: senza di essa non avrei fissato con la penna nulla che potesse avere il minimo peso. E per poter essere vissuto al mondo al tempo in cui visse Virgilio, sarei disposto ad uscire dal mio esilio in Purgatorio anche un anno oltre il dovuto». Queste ultime parole fecero volgere Virgilio verso di me con un atteggiamento tale che, senza bisogno di parole, mi diceva “Taci”; ma la volontà non può tutto; perché il riso ed il pianto seguono così rapidamente le passioni dalle quali hanno origine, da essere nelle persone più sincere molto poco assoggettate al controllo della volontà. Feci infatti un sorriso che fu come un cenno; perciò l’anima tacque e mi fissò quindi negli occhi, là dove si concentra maggiormente l’espressione del viso; e «Possa tu concludere bene la tua grande fatica», mi disse Stazio, «ma dimmi, perché il tuo viso è stato illuminato poco fa da un sorriso?» Mi trovo questo punto combattuto tra due fuochi: uno mi ordina di tacere, l’altro mi supplica di parlare; sospiro nell’indecisione, viene poi compresa la mia condizione dal mio maestro, che «Non avere paura», mi dice, «di parlare; ma parla pura e dagli la risposta che chiede con tanto interesse. Dissi io pertanto: «Se ti sei prima stupito, oh antico spirito, del fatto che io sorridessi; ma voglio adesso che tu abbia un motivo di maggiore meraviglia. Questa anima che mi guida verso l’alto è quel Virgilio dal quale tu hai assunto l’abilità poetica per cantare le vicende degli uomini e degli dei. Se hai creduto che fosse un altro il motivo del mio sorriso, lascialo ora perdere in quanto non vero, credi invece al fatto che la causa furono le parole che hai detto riguardo a lui». Stazio si era già inchinato per abbracciare i piedi del mio maestro, che però gli disse: «Fratello, non lo fare, perché sei uno spirito e davanti a te vedi un altro spirito.» Stazio, rialzandosi in piedi, rispose: «Puoi adesso comprendere l’intensità dell’amore che provo per te, per il fatto che mi fa dimenticare la nostra condizione incorporea, e tratto gli spiriti come fossero corpi solidi».
E’ il canto di Stazio, che proseguirà nel successivo, ma è, riprendendo il IV canto dell’Inferno, un nuovo tassello che il poeta fiorentino ci offrirà come testimonianza dei suoi amori letterari e dell’importanza che egli stesso afferma di possedere nei loro confronti.
Il XXI inizia laddove avevamo lasciato Dante, stupito da quel terremoto di cui cerca le ragioni e a spiegarlo, sopraggiunge un’anima alle loro spalle, che ancora non si rivela, ma afferma che il movimento terrestre che loro hanno sentito insieme al canto all’unisono di tutte le anime penitenziali sta ad indicare che una di loro viene accolta alla corte di Dio, cioè ascende in paradiso. Da qui il primo dubbio del lettore: non doveva l’anima percorrere l’intera montagna per espiare e quindi liberarsi definitivamente? Per questo personaggio, che afferma che la chiamata al cielo avviene quando l’anima si sente completamente libera dalla necessità che Dio le aveva imposto per espiare e che questo è avvenuto per lei dopo cinquecento anni, dobbiamo chiederci se tale “promozione” avviene all’improvviso o se sta percorrendo l’intera montagna per cui Dante lo incontra o ancora che, non avendo peccati ulteriori non deve necessariamente salire con fatica la cima del monte. Problema irrisolto, ma forse poco importa; più importante è certamente la figura di Stazio, che nel presentarsi mette prima il nome di poeta e quindi della poesia, poi circoscrive il tempo in cui è vissuto, nel tempo della Resurrezione di Cristo e della cacciata degli Ebrei da parte dell’imperatore Tito (in verità suo padre Vespasiano) e quindi pronuncia il suo nome e le opere per le quali è conosciuto la Tebaide – che Dante conosce assai bene – e l’Achilleide, non terminata per la sopraggiunta morte.
S’inserisce ora nella terza parte del canto un frammento che potremmo definire quasi “quotidiano”: Stazio afferma che l’ispirazione per il suo poema gliela ha offerta Virgilio con l’Eneide; Virgilio fa cenno a Dante di tacere, ma al Dante umano scappa un sorriso che viene quasi frainteso da Stazio stesso. Per evitare ciò la guida di Dante lo invita a chiarirsi e quindi lo stesso fa il nome del poeta latino, per cui l’autore della Tebaide si prostra ai suoi piedi per abbracciarlo, ma essendo pura materia il gesto non sarà che simbolico.
Canto XXII
VI cornice (golosi)
I tre poeti salgono insieme dal V al VI girone, con maggiore facilità, avendo Dante lavato man mano i peccati da lui incontrati fin qui. L’affetto di Stazio per Virgilio, mostrato alla fine del canto precedente, trova conferma dalle parole riferite al poeta mantovano da Giovenale, appena giunto nel Limbo. Tale sentimento spinge Virgilio a domandare del perché egli sia stato posto da Dio nel girone degli avari, ma Stazio nega che tale sia il suo peccato, e che, viceversa, egli sia macchiato del peccato inverso, la prodigalità. Ma è stato un verso dell’Eneide a riportarlo nella retta via. Quando era intento nella stesura della Tebaide, grazie ancora alle Egloghe virgiliane, la IV per esattezza, egli si convertì e ricevette il battesimo; ma non rese palese la nuova fede, non venendo meno, tuttavia, dall’aiutare i cristiani perseguitati. Per questo venne punito ed è stato punito, sino ad allora, per quattrocento anni. Quindi i tre poeti giungono alla VI cornice, dove vedono un grande albero dalle cui foglie sgorga un’acqua limpidissima, ma una voce li ammonisce di non bere né di nutrirsi. E’ il girone dei golosi.
Codice che illustra il canto XXII
Canto XXIII
VI girone (golosi)
Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos’io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».
Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.
Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».
Ond’elli a me: «Sì tosto m’ ha condotto
a ber lo dolce assenzo d’i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna».
Dante incontra Forese
Già ero intento ad osservare che cosa fosse che li rendesse così affamati, perchè non mi era ancora chiaro il motivo della loro magrezza e della loro pelle squamosa, quando all’improvviso dal fondo di occhiaie scavate un’anima rivolse gli occhi verso me e mi guardò fissamente, poi a voce alta: «Che grazia è questa che mi viene offerta?». Non l’avrei certo riconosciuto dal volto, ma dalla sua voce mi rivelò ciò che l’aspetto mi aveva nascosto. Questo indizio mi riportò alla mente tutta la conoscenza di quel volto così mutato e riconobbi Forese. «Deh, non far caso alla secca pelle che m’impallidisce» pregava «né alla mia magrezza, ma dimmi la verità su di te, chi sono le due anime che ti fanno da scorta, non restare senza parlarmi!». Gli risposi: «La tua faccia, che io piansi già morta, ora mi fa piangere con non meno dolore per essere così tanto trasfigurata. Perciò dimmi, in nome di Dio, cos’è che vi consuma in tal modo. Non mi fare parlare mentre sono così stupito, perché la curiosità non soddisfatta potrebbe farmi parlare in modo svogliato». E lui a me: «Per l’eterna volontà divina, scende nell’albero e nell’acqua che sono rimaste alle spalle una virtù che ci fa dimagrire. Tutta questa gente che cantando il Miserere piangendo per aver secondato il piacere della gola eccessivamente e qui si purifica soffrendo la fame e la sete. L’odore che proviene dall’albero e dallo spruzzo d’acqua che come pioggia si sparge sulle foglie verdi suscita in noi il desiderio di bere e mangiare. E non solo una volta la nostra pena si rinnova mentre giriamo intorno alla cornice. Dico pena e dovrei dire gioia, perché ci conduce agli alberi quella stessa volontà che condusse Cristo a pronunciare Elì (o Dio) quando liberò l’uomo dal peccato originale con la sua morte». Ed io a lui: «Forese, da quel giorno i cui moristi per raggiungere un mondo migliore, non sono passati che cinque anni. Se la facoltà di peccare venne meno in te prima che giungesse in tuo soccorso l’ora del pentimento sincero che ci riconcilia con Dio (se ti sei pentito solo in punto di morte), come mai sei già giunto in questa cornice? Credevo di trovarti nella spiaggia dell’Antipurgatorio, dove al ritardo nel pentirsi corrisponde più tempo nell’espiazione.» E lui mi rispose: «Così presto mi ha condotto ad affrontare la lieta sofferenza della pena mia moglie Nella, con il suo continuo pianto Con le sue preghiere devoti e con i sospiri mi ha sottratto dal costone della montagna dove le anime attendono di essere ammesse alla purificazione e dalle pene delle altre cornici. Tanto è più cara e devota la mia vedovella a Dio, che amai molto, quanto è più sola nel comportarsi virtuosamente, che le donne della Sardegna centrale sono assai più pudiche della Barbagia in cui io la lasciai. Dolce fratello, cosa vuoi che io ti dica? Vedo già il tempo futuro, non così lontano da ora, durante il quale dal pulpito delle chiese sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine andare in giro mostrando il petto e le mammelle. Quali donne barbare, quali saracene, per cui fosse necessario, per farle andar coperte, stabilire sanzioni ecclesiastiche o civili? Ma se le donne svergognate sapessero con certezza quel che prepara il cielo contro di loro, già urlerebbero per il terrore, che se la capacità di prevedere non m’inganna, saranno rattristate prima che un bambino, ora consolato con la nanna, metta la barba».
E’ un canto che ci ricorda, almeno nell’incontro con l’anima di Forese, quello assai più famoso con Brunetto Latini nel canto XV dell’Inferno. In entrambi vi è incredulità, stupore quando incontrano l’anima vivente di Dante. “Qual meraviglia” dice il primo “Qual grazia m’è data” dice il secondo. Ad assimilarli c’è forse la stessa aria di dolce giovinezza condivisa con giovani cortesi che si dilettavano nel parlare d’amore. Ma se Brunetto Latini aveva insegnato a Dante “come l’uom si etterna“, con Forese se l’erano dette di tutti i colori nella famosa tenzone che si scambiarono: Dante dice a Forese che è un mezzo impotente e, vista la “leggerezza” della madre, non si sa nemmeno se sia suo figlio, Forese gli risponde che il padre è un uomo pieno di debiti tanto da vivere chiedendo la carità e che suo figlio, cioé Dante, gli somiglia tanto in quanto vigliacco e vendicativo verso chi richiama il dovuto a suo padre. Insomma non si era scambiati caramelline. Ma forse il tutto era un gioco all’interno della poesia comico-realista della fine del ‘200 ed inizio del ‘300. Ma qui Dante sembra fare ammenda, soprattutto quando fa una specie di apologia a Nella, moglie di Forese, uno dei suoi strali nella tenzone.
Il canto prosegue con la rivelazione a Forese del compito che Dio ha affidato Dante, chi sono le sue guide e chi sarà quando anch’esse cesseranno il loro compito.
Canto XXIV
VI cornice (golosi)
Il canto inizia dove il precedente terminava: Dante e Forese continuano, come buoni amici, a parlare tra loro e così si viene a sapere che Piccarda, la sorella minore di Forese, sta tra i beati. Quindi questo mostra alcuni personaggi ai tre viandanti e li cita quasi passandoli in rassegna, tra essi vi è Bonagiunta Orbicciani, Ubaldino della Pila e Bonifacio dei Fieschi. Ma, tra essi, chi si mostra più voglioso di parlare è il primo, il poeta di Lucca:
El mormorava; e non so che «Gentucca»
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
«O anima», diss’io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga».
«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”».
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.
Egli mormorava: «Gentucca» sulla sua bocca, là dove lui sentiva più forte la pena della giustizia divina che così li scarna. «O anima», dissi io «che sembri così desiderosa di parlarmi, fatti capire meglio, e appaga me e te con il tuo dire». «E’ nata una donna, non ancora sposata», lui cominciò, che ti renderà gradita la mia città, nonostante le gente ne dica così male. tu andrai via da qui con questa previsione, e se il mio mormorare precedente ti ha fatto cadere in errore, i fatti reali ti chiariranno quanto detto. Ma dimmi se io qui vedo colui che iniziò una nuova poesia, a partire da “Donne che avete intelletto d’amore”. E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore lo ispira, annoto quello che mi dice e cerco di trascriverlo nel modo in cui lui me l’ho detta». «Fratello mio, adesso vedo l’impedimento che Giacomo da Lentini e Guittone d’Arezzo hanno trattenuto al di qua del dolce stile nuovo di cui ora sento parlare! Io vedo chiaramente come i vostri scritti seguono da vicino colui che l’ispira, l’Amore, che certo non avvenne nei nostri; e chiunque voglia procedere in modo più approfondito, non trova differenza tra lo stile dell’uno o dell’altro», e quasi soddisfatto, si tacque.
E’ uno dei passi più importanti dell’intera Commedia alla luce della dichiarazione di poetica che qui Dante fa pronunciare da Bonagiunta. Infatti quest’ultimo non è certo il più importante fra i poeti siculi-toscani, ma è colui che certamente aveva capito e mostrato la differenza tra un “vecchio” ed un “nuovo” modo di poetare nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera. E’ quindi certamente il personaggio più adatto a discutere con Dante di “teoria letteraria”. Ma qui è importante fare una distinzione tra il Dante agens ed il Dante auctor e se è il primo che fa parlare a Bonagiunta è il secondo che mette in bocca allo stesso una propria poetica di cui lui è pienamente consapevole. Si parte infatti dalla Vita nuova ed esattamente dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, testo chiave in cui Dante inaugura la poesia “della loda”. Essa si ottiene ascoltando l’amore e facendosi quasi dettare da quest’ultimo le parole per farsi descrivere. Certo non s’intende con questo una poesia “spontanea”, anzi, al contrario, osservare “oggettivamente”, quasi “scientificamente” come l’amore ci possieda. Si tratta in ultima analisi d’osservare in modo più distaccato possibile la “fenomenologia dell’amore” e quindi la sua intellettualizzazione.
Dopo l’incontro con Bonagiunta, Dante e Forese continuano da buoni amici a discorrere (ci sorprende questa area fortemente tenera che i due instaurano, dopo essersene dette di tutti i colori nella tenzone ma, probabilmente, si trattava di un divertissement), domandandosi quando potrebbero incontrarsi e qui, Forese, parla dell’altro suo congiunto, Corso Donati, uno dei più violenti politici fiorentini del partito dei Neri, che è giù nell’Inferno, dopo esser stato trascinato da una coda di un cavallo (punizione data ai traditori). In seguito Forese si allontana e i tre pellegrini vedono un altro albero, il cui seme è lo stesso di quello del Paradiso terrestre; intorno ad esso i penitenti assetati. All’improvviso appare un angelo illuminato da un’abbagliante veste rossa. Invita i pellegrini a lasciare il cerchio e a salire al successivo e mentre lo dice Dante percepisce una lieve brezza che gli circonda il capo: è un’altra P che viene lavata.
Canto XXV
VII cornice (lussuriosi)
E’ questo un canto dottrinale, nato dalla volontà di capire da parte di Dante come possano le anime dei golosi dimagrire non essendo corpo, ma puri spiriti? Domanda assolutamente lecita, la cui risposta, non di Virgilio ma di Stazio (più addentro alle cose purgatoriali) sta tra il teologico e lo scientifico, tenendo ben presente che i due campi, nel medioevo, non erano affatto separati. Dapprima, dall’unione del seme maschile e ovulo femminile (che per Dante sono una parte pura e raffinata sanguigna) nasce l’anima vegetativa. Ad essa, nata quindi dall’unione sessuale, si aggiunge quella divina, che, attraverso la virtù celeste, offre l’anima intellettiva: da qui l’unicità dell’essere umano. Nella morte l’anima si scioglie dal corpo ed essendo dono di Dio sopravvive, rafforzando tuttavia, le sue capacità che aveva in vita (memoria, intelligenza, forza) che una volta libera la corcondano permettendo allo spirito di avere sensazioni come quando era in vita. I tre poeti camminano durante questa spiegazione fino a quando giungono ad una parete di fuoco.
Canto XXVI
VII cornice (lussuriosi)
Mentre i tre poeti passano lungo il margine esterno della cornice, Virgilio avvisa Dante di stare attento perché il sole, colpendogli la spalla, irradiava chiarendo il colore del cielo, ma in parte rendeva più scuro il rosseggiare della parete infuocata, suscitando l’interesse delle anime che vi bruciavano dentro.
Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me, quanto potean farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo;
ché tutti questi n’hanno maggior sete
che d’acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com’è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete».
Questo fu il motivo che li spinse a parlare e cominciarono a dire: «Questo non sembra un corpo spirituale, cercarono di accertarsi, attenti a non uscire dalle fiamme: «O tu che vai, non per lentezza, ma forse per reverenza, dietro gli altri due, rispondimi, che ardo nella sete (di conoscere) e nel fuoco (per purgarmi). La tua risposta non è necessaria solo a me, che tutti questi hanno una sete maggiore di quanti vivono in India o in Etiopia. Dicci com’è che tu impedisca al sole di passare, come se non fossi ancora caduto nella rete della morte»
Mentre un anima gli rivolgeva queste parole, Dante fu colpito da una schiera che al centro delle fiamme venne in senso contrario rispetto a coloro che con cui parlavo e incontrandosi si scambiavano un bacio dicendo uno “Sodoma e Gomorra” (omosessuali), e l’altro “Pasife entra nella vacca per soddisfare le voglie del toro” (eterosessuali); quindi tornavano indietro in senso opposto recitando esempi di castità. Quindi quelli che precedentemente avevano iniziato il discorso con Dante riprendono ad ascoltarlo:
e raccostansi a me, come davanti,
essi medesmi che m’avean pregato,
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture.
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
per che ’l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a’ vostri terghi».
Non altrimenti stupido si turba
lo montanaro, e rimirando ammuta,
quando rozzo e salvatico s’inurba,
che ciascun’ombra fece in sua paruta;
ma poi che furon di stupore scarche,
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
«Beato te, che de le nostre marche»,
ricominciò colei che pria m’inchiese,
«per morir meglio, esperienza imbarche!
La gente che non vien con noi, offese
di ciò per che già Cesar, triunfando,
‘Regina’ contra sé chiamar s’intese:
però si parton ‘Soddoma’ gridando,
rimproverando a sé, com’hai udito,
e aiutan l’arsura vergognando.
Nostro peccato fu ermafrodito;
ma perché non servammo umana legge,
seguendo come bestie l’appetito,
in obbrobrio di noi, per noi si legge,
quando partinci, il nome di colei
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei:
se forse a nome vuo’ saper chi semo,
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di me volere scemo:
son Guido Guinizzelli; e già mi purgo
per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
Quali ne la tristizia di Ligurgo
si fer due figli a riveder la madre,
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo,
quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai
lunga fiata rimirando lui,
né, per lo foco, in là più m’appressai.
Poi che di riguardar pasciuto fui,
tutto m’offersi pronto al suo servigio
con l’affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio,
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro,
che Leté nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue parole or ver giuraro,
dimmi che è cagion per che dimostri
nel dire e nel guardar d’avermi caro».
E io a lui: «Li dolci detti vostri,
che, quanto durerà l’uso moderno,
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno
col dito», e additò un spirto innanzi,
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti,
e così ferman sua oppinione
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone,
di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio,
che licito ti sia l’andare al chiostro
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro,
quanto bisogna a noi di questo mondo,
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per dar luogo altrui secondo
che presso avea, disparve per lo foco,
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco,
e dissi ch’al suo nome il mio disire
apparecchiava grazioso loco.
El cominciò liberamente a dire:
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s’ascose nel foco che li affina.
e come prima, si avvicinarono a me quelle stesse anime che mi avevano pregato di parlare, attenti nel loro atteggiamento ad ascoltarmi. Io, che per due volte avevo visto come costoro gradivano conoscere, cominciai: «O anime certe di raggiungere, quanto che sia, lo stato di pace eterna, le mie membra non sono rimaste giù in terra ne prematuramente né in età matura, ma sono qui com me con il loro sangue e con le loro articolazioni. Da qui salgo nel cielo per non essere più nelle tenebre dell’errore; c’è una donna più in alto che mi procura la grazia per poter condurre il mio corpo mortale nel vostro mondo. Ma possa il vostro maggiore desiderio presto addivenire, sicché possiate risiedere nel cielo che è pieno d’amore e che è infinito, ditemi, affinché lo scriva, chi siete voi e chi quella turba di anime che procede in direzione a voi opposta». Non diversamente si mostra stupito il montanaro e guardandosi attorno ammutolisce, quando rozzo e selvatico entra in città, allo stesso modo fecero all’apparenza quelle anime, ma dopo aver superato lo stupore, che negli spiriti superiori subito si smorza: «Beato te che delle nostre contrade», ricominciò colui che prima mi chiese di parlare «raccogli l’esperienza, per morire in grazia di Dio!». La gente che non cammina con noi, paga l’offesa di ciò che Cesare, durante il trionfo, si sentì rivolgersi contro l’epiteto di regina, per questo si allontanano con il grido di Sodoma, rinfacciandosi il peccato al fine di accrescere la sete di espiazione con la vergogna. Il nostro peccato fu eterosessale, ma poiché non usammo la legge umana, ma seguimmo bestialmente l’appetito, quando partiamo da noi si dice, in vergogna di noi stessi, il nome di Pasife che si nascose in una bestia lignea (per unirsi con il toro). Ora conosci i nostri peccati e perché fummo colpevoli: se forse vuoi conoscere il nome delle anime che vi sono qui, non c’è abbastanza tempo e non lo conosco di tutte. Tuttavia di soddisferò del mio: sono Guido Guinizzelli, e qui mi purgo per essermi pentito prima della morte». Come nella disgrazia di Licurgo (che condannò a morte Isifile, per aver lasciato incustodito il figlio) corsero i due figli a vedere la madre (per salvarla), allo stesso modo io, ma non a giungere a tanto (gettarmi nel fuoco), quando sentii il nome di mio padre e dei compagni migliori di me, che in ogni tempo scrissero rime d’amore dolci ed eleganti; e in silenzio camminai per un bel po’ di tempo, osservandolo, non avvicinandomi più vicino a lui per il fuoco. Dopo averlo guardato, tutto mi offrii per accontentare ogni suo desiderio, con un giuramento che rende veritiero il mio dire. Ed egli a me: «Tu lasci una tale traccia, per quello che io sento, in me e tanto luminosa che il fiume Leté non potrà cancellare né oscurarla. Ma se le tue parole hanno detto il vero, dimmi qual è il motivo per cui dimostri nel parlare e nel guardarmi, di volermi così bene» E io a lui «I vostri scritti, che per quanto durerà la lingua volgare, renderanno graditi i codici in cui verranno vergati». «O fratello», disse «questo che io ti indico col dito» e mi mostrò uno spirito davanti a lui «fu il più grande artefice del suo volgare. Superò tutti nella poesia d’amore e nei romanzi cortesi, e lascia perdere gli sciocchi che antepongono a lui Giraut de Bornelh (nato nella regione del Lemosino). Danno retta più alla voce corrente che alla verità, e così formano la loro opinione prima d’ascoltare arte e la ragione. Così hanno fatto molti con Guittone, dandogli importanza di voce in voce, finché dal confronto con altri poeti, ha vinto la verità. Ora se tu hai un così grande privilegio di andare nel luogo dove è Cristo signore, recitagli per me un padrenostro, quanto è necessario a noi del purgatorio, dove non possiamo più peccare». Poi, forse per cedere il posto ad altri che gli erano vicini, sparì nel fuoco, allo stesso modo di un pesce in fondo all’acqua. Io mi diressi un poco più vicino alla persona indicata, e gli chiesi il suo nome che avrebbe ricevuto una gradita accoglienza. Ed egli così cominciò liberamente a dire: «Tanto mi piace la vostra gentile domanda, che io non voglio e non posso nascondermi a te. Io sono Arnaut (Daniel), che piango e vado cantando; afflitto vedo la passata follia, e vedo goioso davanti a me il giorno che aspetto con speranza. Quindi, vi prego, in nome di quella grazia che vi guida al sommo della scala purgatoriale, che al tempo opportuno vi sovvenga del mio dolore». Poi si nascose nel fuoco che purifica.
Questo canto costituisce quasi un dittico col precedente: ambedue sono dominati dal tema della poesia e sono i poeti, uno Bonagiunta Orbicciani, famoso per esser stato il tramite della definizione di dolce stil novo, questo, Guido Guinizzelli per esserne il padre: così lo definisce un Dante commosso. L’analisi poetica del canto XXV, diventa qui un’analisi delle fonti da cui essa nasce: se Guido ne è il primo, tutto tuttavia deriva dalla grande scuola provenzale. La derivazione dantesca è tanto più sottolineata dall’uso che lo stesso fa della lingua occitanica: certo non è sfoggio da parte di Dante mostrare la sua conoscenza linguistica, ma un vero e proprio omaggio di chi ha studiato e si è servito di della grande lezione di lingua, stile e contenuti che la poesia ed il romanzo cortese hanno avuto per la poesia italiana.
Questo tema, così centrale ed importante per il percorso che sino ad allora aveva compiuto la poesia volgare, non ha nulla di astratto o, se si vuole, pedantesco: il tono che si respira è di dolcezza, di quella meravigliosa terzina in cui Guido Guinizzelli gli domanda del perché Dante gli voglia così bene. Si respira un’aurea di dolcezza, intimità di sentimenti che rende il canto elegiaco, elegia che si rafforza nei versi di Arnaut in lingua d’oc, vergati tutti in quella sospensione purgatoriale che li rene eterei.
Una cosa tuttavia ci lascia perplessi: la sorte degli omosessuali. Li avevano incontrati nel XV dell’Inferno sotto la pioggia infernale. Il loro peccato era derubricato tra i violenti, in questo caso verso natura. Che Dante abbia cambiato opinione su di loro, tanto da metterli nel Purgatorio? Non è certo una questione di personaggi: la parole che rivolge all’eterosessuale Guido (che tuttavia condivide la stessa pena, la lussuria) non sono diverse da quelle verso il maestro Brunetto Latini e ci mostra un Dante che non differenzia più l’amore omo o etero: qui rende punibili coloro che esercitarono il sesso con eccessivo impulso, senza ragione.
Canto XXVII
VII cornice – Paradiso Terrestre
E’ il tramonto: ecco un angelo di Dio, sul ciglio di una cornice che, con voce melodiosa intona “Beati i puri di cuore”, poi esorta i tre poeti ad attraversare il muro di fuoco. Dante è impaurito dal dover attraversare le fiamme e Virgilio lo rassicura, ricordando all’esitante Dante che dopo quel muro vi è Beatrice. Riconfortatolo entra tra le fiamme prima Virgilio, poi Dante e Stazio, dietro di lui. E pur vero che il poeta sente un calòore fortissimo, ma il poeta continua a ricordare lui la figura di Beatrice e così passano ino a trovare la scala per salire. Invitati da una voce i tre cominciano a salire, ma sparito il sole all’orizzonte si fermano su un gradino, Dante si addormenta sotto lo sguardo benevolo dei due poeti latini. Nel sonno appare una donna bella giovane camminare raccogliendo fiori, è Lia, personaggio biblico, con questi ha intenzione di adornarsi, mentre afferma che la sorella, Rachele è ferma a contemplare. Svanito il sogno e sollevatosi, Virgilio rivolge queste parole a Dante:
William Blake: Canto XXVII
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me queste cotali
parole usò; e mai non furo strenne
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi
fu corsa e fummo in su ‘l grado superno,
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e l’etterno
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;
lo tuo piacere omai prendi per duce;
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli
che, lagrimando, a te venir mi fenno,
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno;
libero, dritto e sano è tuo arbitrio,
e fallo fora non fare a suo senno:
per ch’io te sovra te corono e mitrio».
«Quel dolce frutto che l’affannosa sollecitudine dei mortali va cercando per tanti rami, oggi placherà i tuoi desideri». Virgilio, rivolto a me, pronunciò tali parole, e non ci furono mai doni augurali che procurassero piacere uguali a queste. un grande desiderio si aggiunse al desiderio di salire in alto, che ad ogni passo mi sentivo crescere la lena di salire. Non appena la scala fu salita tutta da parte nostra e ci trovammo nel gradino più alto, Virgilio mi guardò negli occhi e disse: «Figliolo, hai visto le punizioni temporanee e quelle eterne e sei giunto in in luogo in cui io non riesco più a distinguere oltre il mio cammino. Ti ho portato qui con i miei insegnamenti e gli aiuti, prendi ormai il tuo volere come guida, se fuori dalle vie erte, fuori sei da quelle strette. Vedi il sole che ti splende sulla fronte, vedi le erbette, i fiori, gli alberelli che qui la terra produce spontaneamente. Fino a che verranno gli occhi belli di Beatrice che, pieni di lacrime, mi portarono a soccorrerti, puoi sederti e metterti tra essi. Non aspettarti più una mia parola o un mio cenno; il tuo volere è libero (da ogni tentazione), indirizzato in maniera retta e sanato nella sua perfezione e sarebbe sbagliato non seguirlo: perciò sopra te stesso t’incorono e t’impongo la mitra».
E’ il canto dove simbolismo e realismo si sposano in modo mirabile: il tramonto ed il sogno. Durante il tramonto Dante deve percorrere l’ultimo passo prima di raggiungere la perfezione spirituale, attraversare la barriera di fuoco. La bufera infernale ed il fuoco dei lussuriosi appaiono come i primi e gli ultimi ostacoli del poeta Dante coinvolto all’inizio del suo percorso dal peccato dell’amore corporeo e giunto, finalmente, a superare tale ultima barriera per raggiungere l’amore divino. E’ umana la paura, è umano il tentennamento e faticoso, ed il sole che tramonta all’orizzonte sembra quasi indicare l’ultima resistenza oscura nell’animo di Dante. Durante la notte, sotto gli occhi attenti delle due auctoritates, il poeta sogna la vita attiva e la vita contemplativa che si alleano per rinforzare la scelta giusta di Dante. Allora il cammino diventa più rapido per giungere infine in un paesaggio idillico di pace e serenità. E’ qui che Virgilio rivolge le ultime parole a Dante, perlomeno le ultime parole che la sua memoria (che non erra) registra. Sono parole di commiato e quasi malinconiche: ti ho portato fin qui con tutto me stesso, le mie parole e le mie azioni ti sono state di soccorso e di guida, ma ora non sono in grado di dirti o fare qualcosa per te. In ultima analisi, ti ho cresciuto spiritualmente, adesso cammina da solo. La malinconia pervade il passo ed il lettore, quest’ultimo sa con certezza che saranno le ultime.
L’incoronazione di Dante da parte di Virgilio
Canto XXVIII
Paradiso Terrestre
E’ il canto del paradiso terrestre:
Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,
quand’Eolo scilocco fuor discioglie.
Già m’avean trasportato i lenti passi
dentro a la selva antica tanto, ch’io
non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio,
che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde
piegava l’erba che ‘n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde,
parrieno avere in sé mistura alcuna,
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna
sotto l’ombra perpetua, che mai
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristretti e con li occhi passai
di là dal fiumicello, per mirare
la gran variazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’elli appare
subitamente cosa che disvia
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia
e cantando e scegliendo fior da fiore
ond’era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti»,
diss’io a lei, «verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era
Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera».
Una brezza dolce e regolare mi colpiva la fronte, non più forte di un dolce vento; a causa di essa le fronde, tremolando, si piegavano tutte verso la parte (a occidente) in cui il santo monte proietta la prima ombra; tuttavia non si piegavano tanto che gli uccellini, sui rami, cessassero di adoperare ogni loro arte (di cantare); ma con piena gioia, cantando, accoglievano le prime ore del giorno tra le foglie, che facevano accompagnamento ai loro canti, proprio come avviene di ramo in ramo nella pineta sul lido di Classe, quando Eolo scioglie il vento di scirocco. Ormai i lenti passi mi avevano trasportato dentro l’antica selva al punto che non potevo più vedere da dove ero entrato; ed ecco che mi impedì di procedere oltre un fiumicello (il Lete), che con le sue piccole onde piegava verso sinistra l’erba che cresceva sulla sua sponda. Tutte le acque che sulla Terra sono più pure, sembrerebbero sporche e fangose a paragone di quella, che non nasconde nulla, anche se scorre scura sotto quell’ombra perpetua, che non lascia mai filtrare i raggi del sole o della luna. Arrestai il passo e spinsi lo sguardo al di là del fiumicello, per osservare la gran varietà dei rami fioriti; e là mi apparve, come appare all’improvviso una cosa che, destando meraviglia, distoglie da ogni altro pensiero, una donna che se ne andava tutta sola, e mentre cantava coglieva i fiori di cui era cosparso il suo cammino. «Orsù, bella donna, che sei riscaldata dall’amore, se voglio credere all’aspetto che di solito è specchio fedele dei sentimenti, abbi la compiacenza di farti un poco avanti, verso questo fiume, così che io possa capire che cosa stai cantando. Tu mi fai ricordare dove si trovava e come era Proserpina, nel momento in cui la madre la perse, e lei l’eterna primavera (o i fiori che aveva raccolto)».
E’ certamente questo uno dei momenti in cui poesia e simbologia si sposano in modo mirabile. Ci troviamo infatti in un locus amoenus,, nell’Eden cristiano, opposto alla “selva selvaggia”, su cui una donna dalle fattezze stilnovistiche, cogliendo fiori, invita alla pace e alla serenità. Vi è infatti in lei, di cui ancora non sappiamo il nome, una qualità salvifica: fra lei e i poeti vi è un fiume, il cui passaggio per il momento è interdetto.
Nel proseguo del canto, rispondendo, la donna chiarisce un dubbio che al poeta era venuto sentendo Stazio, che gli aveva detto che al di là della porta purgatoriale non potevano esserci fenomeni naturali o metereologici. Ella afferma infatti che qui, in quanto ancora partecipe dell’aria vivificante creata grazie al movimento dei cieli, sin dal primo mobile, è stato normale che vi fosse vita, tutta la vita, come anticipazione delle perfezione paradisiaca. Infatti qui è eterna primavera ed il fiume che scorre dalla fonte è il Letè che conduce all’oblio, l’altro che scorre in modo contrario è l’Eunoè colui che fa riacquistare la memoria delle cose belle e non si ottiene questo se non si è gustata l’acqua di entrabi i fiumi. La donna conclude affermando che questo Eden non è nient’altro che il Parnaso, cantato dai poeti classici. A tale affermazione Dante si volta e sorride ai due poeti.
Canto XXIX
Paradiso Terrestre
William Blake: Canto XXIX
Il canto continua quello precedente e la donna va verso la fonte, seguita, nell’opposta riva dai poeti. Giunti si volgono a guardare la santa processione: dapprima sfilano sette candelabri luminosi (simbolo dei sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio), seguono ventiquattro anziani che innalzano, cantando le lodi dio (simbolo dei libri della Bibbia), ancora quattro animali, coronati di alloro con sei ali piene di occhi (simbolo dei Vangeli) . In mezzo ad essi sta il carro trionfante trainato da un grifone con ali gigantesche (simbolo della Chiesa): a fianco alla ruota destra danzano tre donne (virtù teologali) a quella sinistra quattro (virtù cardinali). Dietro loro altri vecchi: San Luca, autore degli Atti degli Apostoli, San Paolo, delle Epistole; i santi Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, autori delle Epistole Canoniche, san Giovanni, autore dell’Apocalisse. Quando la processione giunge davanti al poeta si sente un tuono e quindi si arresta.
Canto XXX
Paradiso Terrestre
Quando il settentrion del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascun accorto
di suo dover, come ‘l più basso face
qual temon gira per venire a porto,
fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ‘l grifone ed esso,
al carro volse sé come a sua pace;
e un di loro, quasi da ciel messo,
‘Veni, sponsa, de Libano’ cantando
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita voce alleluiando,
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis,
ministri e messaggier di vita etterna.
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’,
e fior gittando e di sopra e dintorno,
‘Manibus, oh, date lilia plenis!’.
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte oriental tutta rosata,
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata,
sì che per temperanza di vapori
l’occhio la sostenea lunga fiata:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza
non era di stupor, tremando, affranto,
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse,
d’antico amor sentì la gran potenza.
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di puerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi:
conosco i segni de l’antica fiamma’.
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada,
che, lagrimando, non tornasser atre.
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra
per li altri legni, e a ben far l’incora;
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio,
che di necessità qui si registra,
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa,
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
Tutto che ‘l vel che le scendea di testa,
cerchiato de le fronde di Minerva,
non la lasciasse parer manifesta,
regalmente ne l’atto ancor proterva
continuò come colui che dice
e ‘l più caldo parlar dietro reserva:
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
Sì come neve tra le vive travi
per lo dosso d’Italia si congela,
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri,
sì che par foco fonder la candela;
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ‘l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
ma poi che ‘ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia
de la bocca e de li occhi uscì del petto.
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie
volse le sue parole così poscia:
«Voi vigilate ne l’etterno die,
sì che notte né sonno a voi non fura
passo che faccia il secol per sue vie;
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne,
perché sia colpa e duol d’una misura.
Non pur per ovra de le rote magne,
che drizzan ciascun seme ad alcun fine
secondo che le stelle son compagne,
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova,
che nostre viste là non van vicine,
questi fu tal ne la sua vita nova
virtualmente, ch’ogne abito destro
fatto averebbe in lui mirabil prova.
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ‘l terren col mal seme e non cólto,
quant’elli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto:
mostrando li occhi giovanetti a lui,
meco il menava in dritta parte vòlto.
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita,
questi si tolse a me, e diessi altrui.
Quando di carne a spirto era salita
e bellezza e virtù cresciuta m’era,
fu’ io a lui men cara e men gradita;
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti
lo rivocai; sì poco a lui ne calse!
Tanto giù cadde, che tutti argomenti
a la salute sua eran già corti,
fuor che mostrarli le perdute genti.
Per questo visitai l’uscio d’i morti
e a colui che l’ha qua sù condotto,
li prieghi miei, piangendo, furon porti.
Alto fato di Dio sarebbe rotto,
se Leté si passasse e tal vivanda
fosse gustata sanza alcuno scotto
di pentimento che lagrime spanda».
Quando la costellazione formata da sette stelle dell’Empireo (i candelabri), che non ha mai conosciuto alba o tramonto, né è mai stata offuscata da nebbia se non quella del peccato, e che lì indicava a ciascuno il suo dovere, proprio come l’Orsa Maggiore indica la via a chiunque gira il timone per giungere in porto, si fermò, la gente santa (i ventiquattro vecchi) che era venuta tra essa e il grifone si voltò verso il carro, come alla sua pace; e uno dei vecchi, come se fosse un inviato del cielo, gridò cantando per tre volte ‘Vieni, sposa, dal Libano’, seguito da tutti gli altri. Come i beati risorgeranno solleciti all’ultima chiamata (il Giorno del Giudizio), ognuno dalla sua tomba, cantando alleluia con la voce proveniente dal corpo di cui si saranno rivestiti, così sul carro divino si alzarono cento ministri e messaggeri di vita eterna (angeli), in risposta alla voce di un vecchio tanto autorevole. Tutti dicevano: ‘Benedetto tu che vieni!’, e, gettando fiori in alto e tutt’intorno, aggiungevano: ‘Oh, spargete gigli a piene mani!’ Io ho già visto all’inizio del giorno la parte orientale tutta di colore roseo, e il resto del cielo adornato da un bel colore sereno; e ho visto il sole nascere dietro un velo, così che l’occhio poteva fissarlo a lungo grazie a spessi vapori che lo temperavano: allo stesso modo, dentro la nuvola di fiori che saliva dalle mani degli angeli e ricadeva in basso dentro il carro e di fuori, mi apparve una donna che indossava un velo bianco ed era incoronata di ulivo, sotto un verde mantello e vestita di colore rosso fiammante. E il mio spirito, che era stato già tanto tempo senza tremare, colpito dallo stupore per la sua presenza, anche senza vederla con gli occhi, grazie a una virtù nascosta che mosse da lei, sentì la grande potenza di un antico amore. Non appena la mia vista fu colpita dall’alta virtù amorosa che già mi aveva trafitto prima che io uscissi dalla fanciullezza (quando avevo nove anni), mi voltai a sinistra con l’ansia con cui il bambino corre dalla mamma, quando ha paura o è turbato da qualcosa, per dire a Virgilio: ‘Non mi è rimasta neppure una goccia di sangue che non tremi: conosco i segni dell’antica fiamma amorosa’. Ma Virgilio ci aveva lasciati privi di sé, Virgilio, dolcissimo padre, Virgilio, al quale mi affidai per la mia salvezza; e tutto ciò (l’Eden) che perse l’antica madre (Eva) non impedì alle mie guance pulite dalla rugiada di tornare sporche per il mio pianto. «Dante, per il fatto che Virgilio se ne sia andato non piangere così presto, non piangere ancora, poiché dovrai piangere per altri motivi». E come un ammiraglio che a poppa e a prora va a sorvegliare i marinai che governano le altre navi, e li sprona a far bene; così io vidi sul fianco sinistro del carro, quando mi voltai al suono del mio nome che sono costretto a citare in questi versi, la donna che prima mi era apparsa velata dai fiori gettati dagli angeli, che fissava lo sguardo verso di me al di qua del fiume (Lete). Anche se il velo che le scendeva sulla testa, coronato dalle fronde di Minerva (ulivo), non permetteva di vederla in viso, ancora regalmente altera nel suo atteggiamento continuò, come colui che parla e riserva gli argomenti più efficaci per la fine del discorso: «Guarda bene qui! Sì, sono proprio io, sono proprio Beatrice! Come hai osato accedere al Paradiso Terrestre? Non sapevi che questa è la sede dell’uomo felice?» Gli occhi mi caddero giù nelle acque chiare del fiume; ma vedendo la mia immagine riflessa, li volsi all’erba perché una grande vergogna mi fece chinare la fronte. Come la madre sembra superba al figlio, così lei sembrava a me; infatti l’affetto che si manifesta col rimprovero ha un sapore amaro. La donna tacque; e gli angeli cantarono subito ‘In te, o Signore, ho riposto la mia speranza’, ma non andarono oltre il versetto che dice ‘I miei piedi’. Come la neve si ghiaccia tra gli alberi dell’Appennino, colpita dai venti freddi della Schiavonia, poi, liquefatta, si scioglie poco a poco, non appena l’Africa manda i suoi venti caldi, così che sembra una candela sciolta dal fuoco; allo stesso modo io fui senza lacrime e sospiri, prima del canto di quelli (gli angeli) che cantano sempre dietro l’armonia delle ruote celesti; ma dopo che sentii nelle loro dolci melodie che mi compativano, come se avessero detto: ‘Donna, perché lo avvilisci in tal modo?’, il gelo che mi si era stretto intorno al cuore si trasformò in acqua e fiato, e uscì fuori dalla bocca e dagli occhi con angoscia. Beatrice, sempre stando ferma sul fianco sinistro del carro, rivolse poi le sue parole a quelle creature devote (gli angeli): «Voi vegliate nell’eterna luce di Dio, così che né la notte né il sonno vi sottraggono alcun passo che il mondo compie nelle sue vie (sapete tutto ciò che accade sulla Terra); perciò la mia risposta ha lo scopo di farsi sentire da colui che piange al di là del fiume, perché il dolore sia commisurato alla colpa. Non solo grazie all’influenza dei Cieli, che indirizzano ciascun essere al suo fine secondo la virtù della stella che presiede alla sua nascita, ma anche per la generosità della grazia divina, che piove da nubi così alte che la nostra vista non può neppure avvicinarsi, questi (Dante) nella sua gioventù ebbe tali virtù in potenza che in lui ogni buona attitudine avrebbe portato a straordinari risultati. Ma un terreno si fa tanto più cattivo e selvatico, con cattive sementi e quando non è coltivato, quanto più esso è dotato di fertilità naturale. Per qualche tempo sostenni Dante col mio volto: mostrandogli i miei occhi giovani, lo conducevo con me sulla retta strada. Ma non appena io fui sulla soglia della mia giovinezza e cambiai vita (morii), questi tradì la mia memoria e si diede ad altre donne. Quando mi ero trasformata da carne a spirito e la mia bellezza e virtù erano accresciute, io gli fui meno cara e meno gradita; e rivolse i suoi passi per una via fallace, seguendo false immagini di bene, che non mantengono nessuna promessa fatta. Non mi servì ottenere dal Cielo buona ispirazione, con cui lo richiamai in sogno e in altro modo; a lui importò così poco! Cadde tanto in basso, che ormai ogni mezzo per salvarlo era inefficace, salvo che mostrargli le genti perdute (i dannati). Per questo visitai la soglia dell’Inferno (il Limbo) e rivolsi, piangendo, le mie preghiere a colui (Virgilio) che l’ha portato fin quassù. L’alta volontà di Dio sarebbe infranta se Dante superasse il Lete e gustasse una tale vivanda (bevesse l’acqua del fiume) senza provare un pentimento tale da fargli versare lacrime».
Il canto si apre con due sublimi sequenze: la prima ad indicare le sette stelle dell’Empireo, che non conobbero mai né alba né tramonto, le quali hanno mostrato agli espianti sempre il cammino da seguire (e semmai furono velate è per le colpe degli uomini), l’altro è il richiamo al giorno del Giudizio Universale, visto che questo è l’Eden primigenio, dove l’uomo viveva prima di commettere il peccato originale. Tale incipit solenne è anticipatore dell’arrivo di Beatrice la cui vista, per il poeta, lo fa riprovare l’antico amore che ha provato per lei.
Tale tempesta sentimentale Dante la vorrebbe condividere con l’antica guida (usando anche le stesse parole che Virgilio fa pronunciare a Didone riguardo Enea), ma voltatosi, si rende conto che è sparita. Il dolore per la sua perdita è grande, ma Beatrice, severamente, lo ammonisce di versare lacrime per i suoi peccati e non per l’abbandono del poeta latino.
La Beatrice che qui rimprovera Dante è una donna altezzosa, severa, non incline a nessuna comprensione verso il vecchio amato, che chiama per nome Dante, nome che viene menzionato per la prima ed ultima volta nel poema sacro, ad indicare tuttavia una certa intimità. Quindi passa in rassegna come lo scrittore fiorentino fosse ancora “virtuoso” quando s’innamorò di lei, ma, a seguito delle sua morte, percorse altre vie (quelle filosofiche) che lo condussero nel peccato, tanto da dover intercedere per lui.
Dante piange sentendosi aspramente rimproverato, ma saranno gli angeli ad intercedere per lui: ma se Beatrice fa ciò è per condurre Dante ad un pieno pentimento. Solo dopo potrà immergersi nel Lete.
Canto XXXI
Paradiso Terrestre
Senza soluzione di continuità il canto prosegue con la requisitoria di Beatrice contro Dante, rimproverandogli di non aver seguito il vero bene, e una volta che lei perse il bel corpo, egli abbia rivolto “le penne in giuso / ad aspettar più colpo, o pargoletta / o altra novità con sì breve uso“, portando così le accuse su un fatti più personali; a queste accuse Dante risponde a monosillabi, piegato dalla “verità”, necessaria a quella contritio cordis, e alla confessio oris, cui seguirà la satisfactio operis, cioè al rituale della purificazione. Infatti a seguito delle crude parole di Beatrice il nostro, dopo aver espresso il pentimento con il pianto, sviene e si risveglierà tra le braccia di Matelda:
Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch’io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto m’avea nel fiume infin la gola,
e tirandosi me dietro sen giva
sovresso l’acqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva,
‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.
Poi quando il cuore mi permise di riprendere i sensi, Matilde, che avevo dapprima trovata sola, vidi sopra di me e diceva: «Tieniti a me, tieniti a me». Mi aveva immerso nel fiume sino al collo e trascinandomi dietro sé se ne andava nell’acqua come una piccola nave. Quando fui vicino alla riva opposta, udii cantare così dolcemente, il cui ricordo è ora vago e difficile da scrivere. La bella donna aprì le braccia e mi abbracciò la testa e mi sommerse per cui fu naturale che i ne inghiottissi. quindi mi sollevò e, completamente bagnato mi offrì alla danza di quattro belle donne, e ciascuna di esse mi coprì con il braccio.
E’ questo il rito del bagno del fiume Leté, da cui Dante ne esce purificato e accompagnato dalle quattro donne, che rappresentano le virtù teologali e in seguito da altre tre (virtù teologali) potrà finalmente quasi entrare nel mistero della divinità: esso apparirà nello sguardo di Beatrice, dove apparirà la trasmutazione del grifone, ma riflettendosi nei suoi occhi rimarrà se stesso. E la poesia dantesca entrerà, in modo più diretto, a cantare l’ineffabile:
O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?
O splendore della viva luce di Dio, quale poeta consumato all’ombra sotto l’ombra della poesia ed ha il possesso delle qualità poetiche che non apparirebbe avere la mente impedita tentando di rappresentarti come tu apparisti là dove il cielo nella sua unitaria armonia ti raffigura quando ti mostrasti nell’aria pura?
Canto XXXII
Paradiso Terrestre
Si ritorna alla processione sacra: si giunge ad un albero spoglio, l’albero della scienza del bene e del male che Dio stesso mise nell’Eden; qui verrà legato il carro guidato dal grifone e ciò lo porterà a rinverdire (qui l’allegoria vuole l’albero dapprima inaridito dal peccato dell’uomo e quindi fatto riprendere dalla funzione salvifica della Chiesa). Rapito dal canto, Dante si addormenta e non vede più il grifone che è volato in alto (il grifone, simbolo di Cristo, è ora in cielo), mentre Beatrice rimane a guardia del carro (simbolo della Chiesa). Ma questa viene insidiata dal male, dapprima un’aquila che la squassa (simbolo dell’Impero in lotta con la Chiesa), quindi una volpe che verrà cacciata da Beatrice, poi ancora l’aquila che lascia penne sul carro (la donazione di Costantino). Subentra in seguito un drago che infilza la coda avvelenata all’interno del carro (gli scismi che spaccano la Chiesa). Quindi il carro viene riempito completamente dalle penne dell’aquila e da loro sbucano quattro teste (rappresentanti i sette peccati capitali). Alla fine nel carro compare una puttana che amoreggia con un gigante e che la trascina nel mezzo del bosco (la Chiesa che si è prostituita ormai ai poteri mondani).
William Blake: Il gigante e la prostituta
Canto XXXIII
Paradiso Terrestre
Il canto inizia con le Virtù che commiserano la triste fine della Chiesa, che verranno confortate da Beatrice, che preannuncerà loro una rigenerazione non lontana. Quindi inizia l’ultimo percorso:
Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
Sì com’io fui, com’io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t’attenti
a domandarmi omai venendo meco?».
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna.
Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.
Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ’l morso in sé punio.
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.
Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta?».
«Perché conoschi», disse, «quella scuola
c’ hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
«E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo foco s’argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
«O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l’acqua di Letè non gliel nascose».
E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.
Con questa compagnia si incamminò; e non credo che avesse ancora poggiato a terra il decimo passo, quando con il suo sguardo colpì il mio sguardo; e, con espressione serena del volto, «Vieni più vicino» mi disse, «così che, se io mi rivolgo a te, tu sia nella condizione ideale per ascoltarmi.» Non appena mi fui avvicinato a lei, com’era mio dovere, mi disse: «Fratello, perché non provi a porgermi qualche domanda, ora che cammini insieme a me?» Come accade a coloro che, troppo reverenti, quando si trovano dinnanzi ad un loro superiore e devono parlargli, non riescono a farlo con voce chiara, lo stesso modo accadde a me, e con voce strozzata incominciai a dire: «Mia signora, le mie esigenze voi le conoscete, e conoscete anche ciò che serve per soddisfarle.» Mi rispose Beatrice: «Dal timore e dalla vergogna voglio tu ti liberi adesso, così da smettere di parlare in modo confuso, come un uomo che dorme. Sappi che il carro (la Chiesa) che è stato squarciato dal drago (corrotto), è stato, ma non è più; ma chi ne ha la colpa, sappia che la vendetta, la giustizia di Dio, non può essere evitata. Non rimarrà ancora per tanto tempo senza erede l’aquila (impero) che lasciò le sue penne al carro (poteri alla Chiesa), divenendo così un mostro e quindi preda del gigante (la Francia); perché io vedo con certezza, è quindi lo dico, che si avvicina ormai una costellazione favorevole, protetta da ogni impedimento e da ogni ritardo, inevitabile, con i favori della quale, qualcuno (DXV) mandato da Dio ucciderà la ladra (la Chiesa) insieme a quel gigante che con lei commette peccati. Ma forse le mie dichiarazioni, poco comprensibili, simili alle profezie dei Temi e della Sfinge, ti convincono poco, perché a loro modo confondono la mente; ma presto saranno i fatti a rendere chiari questi complessi enigmi, senza provocare alcun danno. Prendi nota delle mie parole; e così come io le ho dette a te, allo stesso modo tu dovrai farle conoscere ai vivi, che vivono una esistenza mortale, destinata alla morte. E ricordati bene, quando le trascriverai, di non tralasciare di raccontare della pianta (la conoscenza) che hai visto essere stata per due volte spogliata, depredata. Chiunque la saccheggi o la danneggi, offende di fatto Dio commettendo un atto sacrilego, perché fu creata da Dio per suo uso, per non essere toccata. Per aver voluto mordere un suo frutto, soffrendo il rimorso e la lontananza di Dio, per più di cinquemila anni la prima anima, Adamo, desiderò la venuta di Gesù Cristo, colui che con il proprio sacrificio punì il peccato originale. La tua intelligenza è assopita se non riesce a comprendere che c’è un motivo straordinario per cui questa pianta è tanto alta e ha la cima capovolta, è più larga in punta che alla sua base. E se i tuoi inutili pensieri, le tue speculazioni razionali, non avessero incrostato la tua mente, come fa l’acqua del fiume Elsa, ed il loro fascino non avesse avuto su di te l’effetto del sangue di Priamo sul frutto del gelso, solo attraverso tutti questi indizi sapresti riconoscere nell’albero, nel divieto di toccarlo, il simbolo del senso morale della giustizia di Dio. Ma poiché vedo che la tua mente è divenuta dura come pietra e quindi, così pietrificata, anche offuscata, tanto che la luce, la chiarezza delle mie parole ti abbaglia, voglio che tu porti, se non proprio inciso con le parole, almeno dipinto in te, il ricordo delle mie parole, per lo stesso motivo per cui al ritorno dalla Terrasanta si porta un bastone ornato di foglie di palma.» Dissi allora io: «Proprio come una cera da sigillo a cui non si può cambiare la figura che le è stata impressa, le vostre parole sono state adesso incise nella mia memoria. Ma poiché è molto al di sopra dalla mia capacità di comprensione il senso delle vostre parole, tanto da me desiderate, vi chiedo: perché tanto più mi sforzo di afferrare il senso, tanto più lo perdo?» Disse: «Perché tu possa renderti conto di quanto poco la scuola che hai seguito, e la sua scienza, possano comprendere le mie parole; e perché tu possa vedere che è tanto lontana da Dio la via da voi seguita, quanto dista dalla terra il cielo più alto e che ruota più velocemente.» Le risposi allora: «Non ricordo di essermi mai allontanato dalla vostra via, né provo alcun rimorso per un simile errore.» «Se non riesci a ricordarti di questo errore», rispose sorridendo Beatrice, «ricordati almeno che oggi hai bevuto l’acqua del fiume Lete, che cancella la memoria dei propri peccati; e se è vero che il fumo è indizio della presenza del fuoco, questa tua dimenticanza dimostra chiaramente che peccavi, rivolgendo i tuoi desideri verso altri beni. Ma d’ora in avanti saranno per te più chiare le mie parole, poiché sarà necessario renderle tali alla tua mente rozza.» Il sole, più incandescente e più lento nei suoi movimenti, occupava ormai la posizione corrispondente a mezzogiorno, che si sposta da una parte o all’altre a seconda di come la guardi, quando, così come si ferma all’improvviso chi procede davanti a qualcuno facendogli da guida, se trova qualche novità e qualche traccia di essa, si fermarono di colpo le sette donne al margine di una ombra pallida, simile a quella che, sotto a verdi foglie e rami neri, è possibile trovare in montagna al di sopra dei freddi ruscelli. Davanti a loro mi sembrò di vedere i fiumi Tigri ed Eufrate sgorgare da una sola sorgente, e, come fanno due amici, allontanarsi lentamente l’uno dall’altro. «Oh luce e gloria dell’umanità, che fiume è questo che viene qui alla luce da una unica sorgente, per poi allontanarsi da sé stesso, dividendosi in due?» A questa mia preghiera mi fu data la risposta: «Chiedi a Matelda ti dirtelo.» E mi rispose, con il tono di che cerca di discolparsi, la bella donna Matelda: «Gli ho già spiegato questa ed altre cose; e sono anche sicura che l’acqua del fiume Lete non gliele ha fatte dimenticare.» Disse allora Beatrice: «Forse una preoccupazione maggiore, che può capitare spesso possa ridurre la capacità di memoria, gli ha oscurato il ricordo di ciò che ora vede con gli occhi. Ma vedi il fiume Eunoé che scorre di là: conducilo ad esso, e come sei abituata a fare, ravviva la sua memoria indebolita.» Come una anima nobile, che non cerca scuse, ma al contrario fa propria la volontà altrui, non appena questa viene espressa; così, dopo avermi preso per mano, la bella donna subito si mise in viaggio, e a Stazio disse con signorilità: «Vieni anche tu con lui.» Caro lettore, anche se avessi un spazio maggiore su cui scrivere, riuscirei solo in parte ad esprimere il dolce sapore di quell’acqua, di cui non mi sarei mai saziato; ma poiché sono ormai tutti pieni i fogli che avevo preparato per scrivere questa seconda cantica, il limite di spazio, freno dell’arte, non mi lascia proseguire oltre. Riemersi da quell’acqua sacra ringiovanito, come fossi una giovane pianta rinnovata da giovani fronde, purificato e finalmente pronto per salire fino alle stelle.
Katerina Machytkovà: Lettura del XXXIII del Purgatorio
Beatrice da donna rimproverante ora si fa guida, compagna del pellegrino, rivolgendosi a lui con il termine “frate” fratello ed e in questo “nuovo” ruolo che ammonisce Dante sul destino della Chiesa, e come essa ora abbia bisogno di un nuovo restauratore, di contro a coloro che l’hanno distrutta e mercificata. Si è che questo nuovo restauratore profetizzato appartiene ad una simbologia incomprensibile, in quando indicato con dei numeri che, sebbene disposti in modo diverso, dovrebbero dare come soluzione DUX. Che sia esso l’imperatore Arrigo VII su cui Dante nutriva speranze, oppure Cangrande della Scala? Dante chiude il Purgatorio così come aveva iniziato l’Inferno, in quest’ultimo il veltro, ora il DXV.
Quindi si riprende il cammino, le sette donne (virtù), Beatrice, Matelda, Dante e Stazio; giungono ad una fonte e Beatrice invita Matelda a compiere l’ultimo rito, quello del bagno dell’Eunoé, che permettono al nostro di purificarsi a tal punto da poter affrontare l’ultimo percorso, quello paradisiaco.
Salvator Dalì: Dante purificato
Ma troviamo qui già qualcosa che ce lo richiama, l’ineffabilità del poter dire: le parole di Beatrice volano troppo alte per la comprensione di Dante. Le risposte potrebbero esser due:
- la conoscenza fino adesso seguita si basava sul “falso imaginar” senza l’aiuto della virtù divina che la possa illuminare;
- si è appena bagnato nel Leté e non si è ancora bagnato nell’Eunoé: la condizione attuale e come di intorpedimento interiore, a cui soltanto l’ultimo rito potrà liberarlo.