L’ETA’ CORTESE

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L’età cortese occupa, se così si può dire, la seconda fase dell’età medievale, da collocarsi in uno spazio soprattutto continentale (ma vedremo come anche la Spagna avrà la sua importanza) e in un tempo che matura dall’anno Mille fino a quando si entrerà, per la nostra penisola, all’età comunale.

Storicamente essa è caratterizzata da alcuni elementi d’estrema importanza:

  • La cessazione delle invasioni e una certa rinascita economica grazie al miglioramento delle pratiche agricole;
  • L’affermazione del feudalesimo come sistema politico e delle corti come centro d’aggregazione. E’ fondamentale in questo contesto il prevalere, a livello culturale, della figura del cavaliere;
  • L’assurgere della Chiesa non solo come punto di riferimento culturale, ma anche politico: a tale scopo non bisogna dimenticare il suo desiderio espansionistico con le crociate, iniziata da Urbano II nel 1095.

 
Il cavaliere

Il cavaliere è la figura centrale del processo culturale che caratterizza i poemi medievali cortesi e la poesia europea. Intorno a lui si concentrano sia i valori della corte che quelli della Chiesa, infatti può impersonare da una parte l’uomo che combatte con tutto se stesso per il suo signore, dall’altra colui che con la stessa forza e tenacia combatte per la fede. E’ evidente che tale figura, prima di perdersi, in età più “matura”, nell’amore, costituirà la base per un sapere diffuso che coinvolgerà sia il pubblico alto che quello popolare.

Ma chi è effettivamente questo cavaliere?

Egli è il nerbo dell’esercito della signoria feudale, da cui proviene per lignaggio: si tratta infatti di figli “cadetti” che, per la legge del “maggiorascato” non avevano diritto d’eredità; ad essi si aggiunge la nobiltà “povera” senza terra, che proprio nell’esercito cercava riscatto ed i ministeriales, cioè i servitori “più stretti” del signore (amministratori, stallieri, scudieri) che venivano ricompensati o con il dono di un pezzo di terra, diventando de facto nobili o integrandoli nell’esercito.

Tale classe aveva quindi, elaborato una serie di valori di enorme importanza per la cultura del tempo:

  • Prodezza: s’intende con questo termine il coraggio, la perizia nell’uso delle armi e lo sprezzo del pericolo;
  • Onore: determinato dal possedimento della prodezza e dal rispetto verso la parola data;
  • Lealtà: da esercitarsi nei confronti dell’avversario e nel rispetto delle regole “cavalleresche”
  • Fedeltà: in primis verso il signore e Dio.

Epica medievale

E’ proprio all’interno dei valori succitati che nasceranno, pur distanziate negli anni, le grandi opere epiche che si svilupperanno in Europa. Esse sono:

  • Nell’Europa Nordica il Beowulf (area inglese) e i Nibelunghi;
  • In area mediterranea il Cantar del Cid (Spagna) e la Chanson de Roland (Francia).

Beowulf, di autore ignoto, pervenutoci intorno all’anno 1000 in lingua sassone: l’opera ci racconta delle imprese dell’eroe:

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Beowulf vs il Drago

Beowulf, nipote del re dei Geati, sconfigge un orco e il mostro Grendel. Divenuto re di quel popolo viene affrontato da un drago che riuscirà a sconfiggere ma per lo sforzo soccomberà anche lui.

E’ questa la più lunga opera medievale giunta e sembra sia frutto di una rielaborazione di un monaco normanno, che vi aggiunse valori cristiani, d’un antica leggenda scandinava.

Nibelunghi è una raccolta di tradizioni orali, raccolte in lingua altotedesca nel 1200 circa, quando in altre parti d’Europa questo periodo volge decisamente al tramonto.

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Il leggendario principe Renano Sigfrido, cresciuto in una selva, uccide un drago e, bagnandosi nel suo sangue, diviene invulnerabile, tranne in un punto della schiena sul quale si è posata una foglia. Conquistato il tesoro dei Nibelunghi, apportatore di sventura, il protagonista riesce a raggiungere la corte di Warms, sede del re dei Burgundi, Gunther, riesce a sposare la bella Crimilde, sorella del sovrano. Sigfrido, resosi invisibile grazie ad un mantello magico, aiuta quindi re Gunther a conquistare la mano della regina d’Islanda, Brunilde. In seguito alla rivalità esplosa fra le due cognate, Hagen, il più forte guerriero burgundo, decide di uccidere Sigfrido, colpendolo a tradimento nell’unico punto in cui l’eroe è vulnerabile, ingenuamente contrassegnato da Crimilde con una croce ricamata sulla tunica. L’eroe cade tra i fiori maledicendo gli assassini. La seconda parte narra la vendetta di Crimilde e lo sterminio dei Burgundi presso la corte di Attila, re degli Unni, con cui si è risposata la vedova di Sigfrido: nel massacro periscono Gunther, Hagen e Crimilde stessa: il tesoro maledetto dei Nibelunghi rimarrà così sepolto nel Reno, dove era stato sommerso tempo prima dai Burgundi.

Sin dalla trama ci rendiamo conto di come l’autore anonimo abbia mescolato due temi: quello mitico e quello storico. L’opera è infatti divisa in due parti distinte, la prima in cui l’elemento favolistico prevale, mentre nella seconda questo si mescola con quello reale (Attila è realmente esistito). L’atteggiamento che vi prevale tuttavia, sebbene venga stilato in pieno periodo di poesia cortese è l’elemento cavalleresco, come si evince nell’episodio della morte del protagonista:

LA MORTE DI SIGFRIDO

Intanto non giungevano con il vino i coppieri,
del resto eran serviti lautamente i guerrieri.
E, se tra lor non fosse covato il tradimento,
da ogni vergogna liberi, saria stato ognun contento.

Disse il nobile Siegfrido: «Mi meraviglio assai

con tal copia di cibi che il vin non giunga mai.
Se così mal trattate i compagni di caccia
non voglio essere più vostro compagno di caccia.

«Non meritai io forse trattamento migliore?».
E il re Gunther allora disse con falso cuore:
«Di quel ch’oggi vi manca, più tardi ammenda avrete.
E’ la colpa di Hagen, che ci fa morir di sete».

Disse Hagen di Tronje allor, parlando ad arte:
«Credevo che la caccia fosse in tutt’altra parte.
In fondo a la foresta. Là il vin spedito fu.
Oggi ne facciam senza. Ma ciò non mi accadrà più».

Disse Siegfried l’eroe: «Davver non ven son grato.
Sette some di vino, claretto e idromelato
dovevate mandarmi qui oggi; o per lo meno
dovevate accamparci un po’ più vicino al Reno».

Disse Hagen: «Signore, qui vicino nel bosco
una sorgente d’acqua freschissima conosco.
Non siate meco in collera, andiamci colà tutti».
Tal consiglio doveva potare a molti amari frutti.

La sete torturava Sigfrido, l’eroe fidente.
Si levaron le mense e a cercar la sorgente
mossero tutti, a piedi del monte. Con inganno
Hagen voleva Siegfried attirar verso il suo danno.

Mentre verso il gran tiglio andavano gli eroi,
disse il perfido Hagen: «Sigfrido, fu detto a noi
che nessuno vi vince alla corsa. E confesso
che assai mi piacerebbe vedere tal prova adesso».

Disse allora il guerriero senza tema e sospetto:
«Se volete provarvi, ora con voi scommetto. 
La fonte sia la mèta. Chi arriva dopo, perde,
e dovrà inginocchiarsi là nel prato in mezzo al verde».

«Ebbene, tenteremo», disse Hagen. «E voglio
correre armato», aggiunse poi Siegfried con orgoglio,
«con lo spiedo, lo scudo e l’armi de la caccia».
E tosto prende il turcasso, e il grande scudo si allaccia.

Solo i camici bianchi vollero i due tenere,
poi fur visti slanciarsi quai selvagge pantere
per il verde trifoglio, con mosse accorte e pronte.
Ma Sigfrido veloce fu visto primo a la fonte.

In ogni gara Sigfrido fu il primo. Egli si sciolse
la spada e tutte l’armi poi di dosso si tolse.
Appoggiò il forte spiedo al tronco de la pianta,
e presso la fonte attese, bello d’audacia tanta.

Qui si mostrò cortese sì come era valente.
Siegfried pose lo scudo su l’orlo a la sorgente,
ma per quanto la sete lo torturasse assai
fino a che il re non bevve, non volle pur bere mai.

Mal ne fu ripagato. L’acqua era trasparente
e fresca. Il re, chinato, ne bevve lungamente,
e quando ebbe bevuto, si rizzò sodisfatto.
Volentieri ora Siegfrido, l’eroe, l’avrebbe pur fatto.

Ma cara ebbe a pagare la propria cortesia.
L’arco e la spada il falso Hagen gli portò via,
afferrò poi lo spiedo, e, cercando il segnale
su la veste, vi scorse la crocellina fatale.

Quando Siegfrido a bere pur si chinò veloce
Hagen gli immerse il ferro attraverso la croce.
Sprizzò il sangue dal cuore spaccato su la vesta
di Hagen. Mai guerriero compì azione più funesta.

Egli lasciò lo spiedo infisso a lui nel cuore,
e a fuggir prestamente si diede il traditore.
In vita sua così mai non era fuggito.
Appena Siegfrido, l’eroe, comprese che era ferito,

balzò in piedi, ruggendo. Tra le spalle sporgeva
il legno de lo spiedo. L’eroe trovar credeva
la sua spada o il suo arco. Se l’avesse trovato,
Hagen avrebbe ricevuto il premio meritato.

Non trovando la spada, lo scudo gli restava.
Lo tolse prestamente dal fonte dove stava.
Inseguì Hagen, presto lo raggiunse, e sfuggire
l’amico di re Gunther non potè a le giuste ire.

E con lo scudo allora, pure ferito a morte,
sul traditore, Siegfrido, menò un colpo sì forte
che le gemme staccate volaron via, e spezzarsi
parve lo scudo. L’eroe voleva vendicarsi.

Il traditore cadde da la sua man colpito;
se l’altro avea la spada, Hagen era finito.
Dei colpi risuonavano la foresta e la valle,
sì terribile era l’ira del colpito a le spalle.

Ma il suo viso si copre di un pallore mortale.
Egli sente le forze mancargli e già l’assale
languor di morte, gelo sente di morte; ahi, quanto
sarà presto da belle donne il nobile eroe pianto!

Lo sposo di Crimilde cadde tra i fiori. Usciva
a fiotti a fiotti il sangue da la ferita viva.
Allora, ne l’angoscia del suo cuore, il colpito
prese a ingiuriar coloro che l’avevano tradito.

Diceva il moribondo: «O falsi traditori!
Così mi ripagate i servigi, i favori?
Sempre vi fui fedele, e voi morte mi date.
Gli amici affezionati assai male voi trattate.

Ma biasimo cadrà su quei che nasceranno
di voi, da questo giorno, pel vostro atroce inganno.
Dal numero dei buoni cavalier voi ancora
sarete cancellati per sempre dopo quest’ora».

Da ogni parte i guerrieri si affollavano intorno
al caduto. Per molti fu quello un triste giorno.
Lo piange chi conosce la fedeltà e l’onore,
e ben l’ha meritato Siegfrido per il suo valore.

Anche il re dei Burgundi compiangeva il ferito.
Disse Sigfrido: «A che piange chi m’ha colpito?
Chi ha commesso il delitto non deve pianger poi.
Ma eterno disonore ricadrà sopra di voi».

Disse il feroce Hagen: «Di che vi lamentate?
Ecco le nostre pene alfine terminate.
Or non dobbiam temere nessuno superiore
a noi. Vi ho sbarazzati d’un importuno signore».

«Ben potete vantarvi», disse allora il morente,
«ma, se avessi saputo ch’eravate realmente
assassini, la vita avrei da voi guardata.
Oh, mi affanna il pensiero, de la mia Crimilde amata.

«Abbia pietà il Signore del figlio che mi ha dato…
che sempre, in avvenire, gli sarà rinfacciato
l’assassinio commesso dai suoi stretti parenti.
Non ho forza bastante per dir quanto io lo lamenti!».

Disse Siegfried al re: «Mai nessun uomo ha fatto
quello che voi faceste. Più feroce misfatto
mai fu commesso al mondo. Il mio braccio vi diede
più volte forza e aiuto. Questa è or la mia mercede!».

Tra gli spasimi ancora continuò il moribondo:
«Nobile re, se ancora una sol cosa al mondo
far volete lealmente, la mia cara consorte
vi sia raccomandata assai dopo la mia morte.

«Ella è vostra sorella. Siatele di sostegno,
ven prego per l’onore di cui un principe è degno.
Mi aspetteranno a lungo, mio padre e la mia gente.
Mai non fu fatta a donna una pena più cocente». 

Si contorceva intanto per il dolore atroce,
e pur così parlava con lamentosa voce:
«Vi pentirete un giorno del mio assassinio. Il colpo
che mi uccide per voi stessi sarà un mortale colpo».

I fiori tutto intorno eran rossi di sangue.
Lotta ancora l’eroe con la morte, poi langue.
Troppo addentro lo spiedo crudel l’avea colpito.
Più parlar già non poteva e tutto era finito.

Quando i signori videro morto il compagno loro
lo deposero sopra lo scudo di rosso oro.
Quindi si consigliarono tra lor, come celare
il delitto di Hagen e chi ne potrebbero accusare.

Molti dicevan: «Presto ne saremo pentiti!
siamo dunque d’accordo, diciamo tutti uniti
che solo andò a cacciare di Crimilde il marito
e nel folto del bosco da ladroni fu colpito».

Disse Hagen di Tronje: «Per me, poco m’importa
ch’ella sappia. E io stesso lo deporrò a la porta
di chi ha trafitto il cuore di Brunilde, e non chiedo
de le lagrime sue, se anche piangere la vedo».

Se volete sapere dov’è quella sorgente
che vide morto Siegfrido, lo dirò veramente:
davanti al bosco di Oden un villaggio si trova,
e la fonte vi scorre tuttora. Ecco dunque la prova. 

Sigfrido in questo brano infatti dà prova d’estrema lealtà e onore (e come intuiamo “prodezza” mostrata durante la caccia) sia verso il suo signore che la moglie. Anche l’elemento cristiano è presente, ma non vi domina. Infatti a prevalere è il senso di fellonia (cioè “mancanza d’onore) che caratterizza tutti i gesti del traditore – colpire alle spalle, fuggire – tipici di colui che, non essendo coraggio, leale, uomo d’onore, è il prototipo del “malvagio”, cioè dell’anti-cavaliere.

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Statua del Cid nella città di Burgos in Spagna

Precedente ai Nibelunghi è il Cid spagnolo, redatto intorno al 1140.

Ruy Diaz de Vivar (personaggio realmente esistito, 1043-1099) detto dai cristiani El Campeador e dagli arabi El Cid, viene accusato di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai re Mori di Andalusia al re Alfonso VI di Leòn, e viene mandato in esilio. Lasciate la moglie Jemena e le figlie in monastero, combatte, insieme a valorosi cavalieri contro i Mori. Dopo aver conquistato Barcellona e Valencia, viene rivalutato a tal punto da Alfonso VI da poter riunire la sua famiglia e dare in moglie le sue due figlie a due nobili conti. Ma essi si rivelano malvagi, dapprima frustando e poi abbandonando le giovani donne. Il Cid chiede vendetta al re e sconfigge i due uomini. Il poema si chiude con le nuove nozze delle donne.

A caratterizzare l’epica in terra iberica è, appunto il Poema del Cid, anch’esso d’autore ignoto. Se l’Occidente cristiano è attraversato da una forte ondata di rivincita tanto da fare della crociata in Terra santa uno dei temi fondamentali del pontificato di Urbano II, in terra spagnola avverrà con il tema della reconquista che i vari principati iberici portarono contro i regni musulmani del sud.

LA BEFFA AI MERCANTI EBREI

Martìn Antolìnez non indugiò: attraversò Burgos ed entrò nella cittadella, là dove abitano gli ebrei e con premura chiese di Raquel e Vidas. Raquel e Vidas se ne stavano assieme, tutt’intenti a contare le ricchezze che avevano guadagnate.
Giunse Martìn Antolìnez, come persona accorta: «Dove siete, Raquel e Vidas, amici miei cari? Vorrei parlare a voi con gran segretezza».
Senza indugio s’appartarono tutt’e tre. «Raquel e Vidas, qua la mano, con l’assicurazione che non mi scoprirete a nessuno, moro o cristiano; ed io vi renderò ricchi per sempre, sì che non avrete mai bisogno di nulla. Il Campeador fu inviato a riscuotere i tributi: grandi ricchezze prese e di valore ingente; ma di queste ritenne per sé parte si considerevole, da esserne accusato; ha due arche piene d’oro puro: ora potete ben comprendere perché il Re è adirato con lui. Egli perciò ha dovuto abbandonare beni, case e palazzi. Ma le due arche non può portarle con sé, se vuole che non siano scoperte. Il Campeador vuole lasciarle in vostre mani e voi, in cambio, gli presterete del denaro, in misura adeguata. Accettate le arche e tenetele in vostra custodia: con solenne giuramento date, inoltre, la vostra assicurazione che non l’aprirete per tutto quest’anno».
Raquel e Vidas indugiano un po’ a consigliarsi fra loro: «Noi abbiamo necessità di trarre da tutto qualche guadagno. Ci è ben noto che egli fece buoni affari, quando entrò in terra di Mori e ne trasse grandi ricchezze. Non dorme senza sospetti, chi porta con sé molto denaro. Noi due siamo disposti ad accettare queste arche ed a celarle in luogo dove nessuno le potrà scovare. Ma diteci di quanto si terrà pago il Cid e l’interesse che ci darà per tutto l’anno». Da persona accorta rispose Martìn Antolìnez: «Il mio Cid richiederà ciò che è giusto: egli si contenta di poco, pur di mettere in salvo il suo avere. Gente reietta accorre a lui da ogni parte: gli abbisognano perciò seicento marchi».
«Volentieri glieli daremo» soggiunsero Raquel e Vidas. «Già vedete che cala la notte» continuò Martìn Antolìnez «ed il Cid ha gran fretta: è necessario che non tardiate a darci i marchi». Dicono Raquel e Vidas: «Non si fanno così gli affari: bensì prima si prende e poi si dà». «D’accordo» rispose Martìn Antolìnez «venite insieme presso il Campeador di gran fama e vi aiuteremo noi – perché è giusto – ad addurre le arche per affidarle alla vostra persona, sì che non lo sappia alcuno, né moro né cristiano». E Raquel e Vidas «D’accordo in ciò: addotte qua le arche, avrete i seicento marchi». E senza indugio cavalca Martìn Antolìnez, con Raquel e Vidas, tutti allegri e di buona voglia. Evitano il ponte e passano attraverso l’acqua, perché in Burgos nessuno si accorga di loro. Ed eccoli alla tenda del Campeador di gran fama. Come furono entrati, baciano la mano al Cid. Sorrise il Campeador ed in tal modo parlò loro: «Oh, don Raquel e Vidas, mi avete già dimenticato! Eccomi costretto ad abbandonare la mia terra, perché il Re è in ira con me. A quanto pare, siete disposti a custodire qualcosa di mio e, finché io vivrò, non avrete bisogno di nulla». Raquel e Vidas baciarono le mani al mio Cid. Martìn Antolìnez espose i patti: per quelle arche gli avrebbero dato seicento marchi e gliele avrebbero custodite per tutto l’anno. Essi avevano già dato assicurazione e solennemente giurato che se prima le avessero aperte, sarebbero stati spergiuri e non avrebbero ottenuto dal Cid la più vile moneta, per interesse.
Disse Martìn Antolìnez: «Sì, carichiamo subito le arche! Portatele Raquel e Vidas: mettetele in vostra sicurezza; ed io verrò con voi per addurre qui, insieme, i marchi, perché il Cid deve mettersi in cammino prima che canti il gallo». Che gran gioia al caricare le arche! Non le potevano sorreggere, sebbene avessero buoni muscoli. Si rallegrano Raquel e Vidas di sì gran denaro e pensano che, per tutta la loro vita, sarebbero state persone assai ricche.
Raquel ha baciato al Cid la mano: «Orsù, Campeador, alla buon’ora cingeste la spada. Voi vi allontanate dalla Castiglia per andare tra gente straniera. Tale è il vostro destino e grandi le ricchezze che acquisterete. Io attendo da voi in dono, o Cid – e vi bacio la mano – una pelliccia vermiglia, moresca e di gran pregio». «Bene» dice il Cid; «fin d’ora vi sia concessa. Se non riuscirò a portarvela di là, trattenetela sul valore delle arche».
Raquel e Vidas addussero le arche e con loro entrava in Burgos Martìn Antolìnez. Con grande cautela si spinsero fino a casa: nel mezzo di una sala stesero un tappetuccio: su questo un panno di filo assai sottile e bianco. Martìn Antolìnez contò tutti in una volta, trecento marchi d’argento, senza neppure pesarli. Altri trecento ne furono sborsati in oro. Cinque scudieri ha addotti con sé don Martìn e tutti ne sono carichi. Fatto ciò, udite ch’egli disse: «Ormai, don Raquel e Vidas, le arche sono nelle vostre mani: ed io, che vi ho procurato questo guadagno, ben mi sono meritato la giusta ricompensa». Raquel e Vidas si appartarono un poco. «Diamogli qualche buon dono, poiché egli ci ha procacciato un gran guadagno. Martìn Antolìnez, burgalese di riguardo, ve lo siete meritato e noi vogliamo darvi una ricca offerta, con cui possiate provvedervi di buoni calzoni, di abbondante pelliccia e di prezioso mantello. Diamo in dono a voi trenta marchi. E’ giusto e ve li siete meritati: voi dovete esserci garante dell’affare concluso». Se ne rallegrò don Martìn ed accettò i marchi: poi pensò di andar via dalla casa e si congedò da loro.
E’ uscito di Burgos, ha passato l’Arlànzon ed è giunto alla tenda di colui che nacque alla buon’ora. Lo accoglie il Cid a braccia aperte: «Siete voi Martìn Antolìnez, il mio fido vassallo? Mi sia dato vedere il giorno, in cui possiate avere qualcosa da me». «Eccomi, Campeador, con una gran buona notizia: voi avete guadagnato seicento ed io trenta marchi. Fate togliere le tende e andiamocene subito in San Pietro de Cardena, sì da sentirvi il primo canto del gallo; là vedremo vostra moglie, creatura di buon sangue. Breve sarà la dimora e ci affretteremo a lasciare il regno: è proprio necessario, ché sta per scadere il termine imposto».

In questo brano, pur non essendo presenti i “mori”, è ben messa in evidenza la diversità religiosa. E’ infatti un passo più leggero, meno eroico, ma dove è ben sottolineato il giusto e lo sbagliato. Il Campeador è sempre presentato attraverso un’aggettivazione che ne esalta la bontà; viceversa gli ebrei sono coloro che non hanno valori, che pensano solo al guadagno per ricavarne vantaggio. Ecco allora che la “beffa” diventa giusta punizione per i non cristiani.

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Orlando e l’olifante

Ma l’opera che certamente rappresenta non solo il punto più alto, ma anche quella che maggior influenza ebbe sulla cultura europea è la Chanson de Roland, scritta in lingua d’oil da autore sconosciuto verso il 1100, che raccoglie cantari precedenti tramandati oralmente nei quali i giullari avevano già sviluppato gli stessi argomenti. Quello che è certo è che il vigore con cui si racconta qui la guerra contro i saraceni nasce, come già detto dal fervore combattivo della crociate. Il tema principale narra un fatto vero avvenuto il 778 quando il conte Orlando o Rolando viene ucciso a Roncisvalle in un imboscata non dai saraceni (con cui, peraltro, Carlo Magno ebbe buoni rapporti) ma da un gruppo basco. 

Dopo sette anni di guerra contro Marsilio, re di Spagna, Carlo Magno lascia l’assedio di Saragozza affidando il comando della retroguardia a Orlando, il più valoroso dei paladini. Per il tradimento di Gano egli è assalito nel passo di Roncisvalle da un numero enorme di saraceni; nonostante l’esortazione del saggio Olivieri, Orlando rifiuta di chiamare soccorso prima di aver combattuto e solo quando, dopo strenua resistenza, tutti i suoi compagni sono morti e lui stesso sta per morire, con un ultimo sovrumano sforzo dà fiato all’olifante. La parte successiva della canzone è occupata dalla vendetta di Carlo sia contro i saraceni sia contro Gano.

 LA MORTE DI ORLANDO

Orlando sente che la morte lo invade,
dalla testa al cuore gli discende.
Sotto un pino se ne va correndo,
sull’erba verde s’è coricato prono,
sotto di sé mette la spada e il corno.
Ha rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha fatto perché in verità desidera
che Carlo dica a tutta la sua gente
che da vincitore è morto il nobile conte:
confessa la sua colpa rapido e sovente,
per i suoi peccati tende il guanto a Dio.

Orlando sente che il suo tempo è finito:
sta sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con una mano s’è battuto il petto:
“Dio! mea culpa, per la grazia tua,
dei miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che ho commesso dal giorno che son nato
fino a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli dal cielo sino a lui discendono.

Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso la Spagna ha rivolto il viso.
Di molte cose comincia a ricordarsi,
di tante terre che ha conquistato, il prode,
della dolce Francia, della sua stirpe,
di Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non può frenare lacrime e sospiri.
Ma non vuol dimenticare se stesso,
proclama la sua colpa, chiede pietà a Dio:
«O padre vero, che giammai mentisci,
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!».
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sotto il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e san Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte. 

La morte qui presentata, è quella di un perfetto cristiano, cui rifulgono le virtù cavalleresche quali il coraggio e lealtà. Ma esse non sono mai disgiunte dall’umiltà che egli ha verso il proprio signore, Carlo Magno, che sente, attraverso l’autore, come un vero e proprio padre; ma ancor di più contano gli atti con cui egli lascia questa terra:

  • Volge lo sguardo verso le terre pagane;
  • Offre il guanto a Dio;
  • L’angelo gli prende l’anima per portarla a Dio.

Si può dire in ultima analisi che in lui vivono, perfettamente integrate, virtù guerriere e virtù cristiane.

La lirica provenzale
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I trovatori

La lirica provenzale, in lingua d’oc, si sviluppa intorno all’anno Mille, al sud della Francia. Gli autori di tale lirica sono detti trovatori (dal francese trobar, cioè poetare). Essi compongono versi altamente raffinati che venivano poi “musicati” e quindi sentiti nelle elegantissime corti della Provenza. Tale poesia non sopravvisse all’annessione del re francese, in accordo col papato, in quanto volevano vedere in esse il perno entro cui si sviluppava l’eresia catara, che prevedeva la povertà della Chiesa; tale crociata, detta degli Albigesi, si era sviluppata, infatti, nella città di Albi, situata nel sud della Francia, disperse i poeti in Europa, facendo del loro movimento culturale una vera e propria base per gli tutti gli intellettuali dell’epoca.

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A sinistra Marie de Champagne e a destra Eleonora d’Aquitania. Gli uomini sono il marito di Marie e due trovatori, forse uno dei 2 è Chrétien de Troyes.

Nel suo rigoglio essa vedeva come protagonisti i più raffinati uomini di corte, se lo stesso duca d’Aquitania, Guglielmo IX e sua nipote Eleonora d’Aquitania, dapprima moglie del re di Francia e in seconde nozze del re d’Inghilterra, furono tra i suoi più grandi esponenti e promotori della cultura cortese. Essi, nei loro versi, vogliono riflettere la splendente vita di corte, per cui esaltano quei principi che proprio al loro interno trovavano maggiore sviluppo: il valore, la generosità, la misura; essi sono condensati nell’unico grande tema che tutti li compendia: l’amore, da essi detto fin amor. Esso, utilizzato secondo uno schema feudale, vede l’uomo rivolgersi alla donna come un vassallo al proprio signore, verso cui promette completo servizio e fedeltà. Tale rapporto vede sempre la donna su un piano superiore rispetto al trovatore: ella è di solito la moglie del signore, per questo l’amore non può essere dichiarato apertamente e, per evitare vendette e chiacchierii poco piacevoli dei malparlieri si usa il senhal (cioè nascondere il vero nome della donna). Ne consegue che, oltre ad una necessaria ritualizzazione e stilizzazione formale, esso fosse necessariamente adultero.

Fra i generi della lirica provenzale troviamo il canso, cioè una canzone, estremamente elaborata su un piano formale:

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Miniatura ingrandita che rappresenta Arnault Daniel

ARNAULT DANIEL: CANZONE

Una canzone le cui parole sono semplici e elette
faccio ora che germogliano i salici
e le più alte cime
hanno il colore
di molti fiori
e verdeggia la foglia
e canti e richiami
degli uccelli risuonano
nell’ombra del bosco.

Per i boschi odo il canto e il cinguettio
e così che non me ne faccia rimprovero
lavoro e limo
parole di valore
con arte d’Amore,
dal quale non ho cuore di staccarmi:
anzi, quando più mi sdegna,
ne seguo l’orma
quanto più si mostra altero verso di me.

 Non vale nulla alterezza d’amante
che sempre fa cadere il suo signore
dal luogo più alto
giù a terra,
con tale tormento
che di gioia lo spoglia;
giusto è che pianga
e arda e bruci
colui che d’Amore si beffa.

 Non è per disdegno che mi volgo altrove,
donna gentile che adoro,
ma per timore
degli indiscreti,
per cui il “joi” trema,
faccio finta di non volervi,
perché mai godemmo
del loro (nostro?) godimento:
non mi piace raccoglierlo per loro.

 Ovunque vada vagando,
là dove siete il mio pensiero vi assale,
perché io canto e valgo
per la gioia che ci demmo
quando ci separammo,
per cui spesso l’occhio mi si bagna
di tristezza e di rimpianto
e di dolcezza,

perché ho abbastanza di che dolermi d’Amore.
Ora ho fame d’Amore per cui sbadiglio
e non segno misura né regola:
solo mi compensa il fatto
che mai udimmo,
dal tempo di Caino,
amante (come me) che meno abbia
cuore falso
e bugiardo;
perciò la mia gioia è al colmo.

 Donna, altri si sbandino,
Arnaut corre dritto
Là dove dimora l’onore
Perché il vostro valore svetta in alto.

La difficoltà sia della tecnica usata che del significato, fanno di Arnaut Daniel uno dei più grandi rappresentanti del trobar clou (parlare oscuro).

Questa canzone è composta da sette stanze o lasse:

  • il nostro mette in ardita relazione le parole che le escono con il canto che si spande tra il verde di un bosco;
  • le parole gli escono con l’arte dell’amore che, seppure si mostra altero nei suoi confronti, egli non può fare a meno di rincorrerlo;
  • non vale nulla la forza dell’amante se l’Amore si fa beffe di lui, infatti lo getta in terra e lo costringe ad ardere;
  • si rivolge alla sua donna scusandosi per volgere gli occhi altrove; ci sono i malparlieri che potrebbero offuscare la sua dignità;
  • nonostante mi allontani da voi, il mio occhio sempre vi accompagna, perché non so separarmi dalla gioia che voi mi date.
  • Il mio desiderio d’amore mi assale e gioisco del fatto che dai tempi di Caino nessuno ha mai avuto un cuore più puro del suo;
  • Chiusura con il vessillo dell’onore della donna verso cui Arnaut corre.

ARNAULT DANIEL: ARIETTA

Su quest’arietta leggiadra
compongo versi e li digrosso e piallo,
e saran giusti ed esatti
quando ci avrò passata su la lima;
ché Amore istesso leviga ed indora
il mio canto, ispirato da colei
che pregio mantiene e governa.

Io bene avanzo ogni giorno e m’affino
perché servo ed onoro la più bella
del mondo, ve lo dico apertamente.
Tutto appartengo a lei , dal capo al piede, 
e per quanto una gelida aura spiri, 
l’amore ch’entro nel cuore mi raggia 
mi tien caldo nel colmo dell’inverno.

Mille messe per questo ascolto ed offro,
per questo accendo lumi a cera e ad olio:
perché Dio mi conceda felice esito
di quella contro cui schermirsi è vano;
e quando miro la sua chioma bionda
e la persona gaia, agile e fresca
più l’amo che d’aver Luserna in dono.

Tanto l’amo di cuore e la desidero,
che per troppo desío temo di perderla,
se perdere si può per molto amare.
Il suo cuore sommerge interamente
tutto il mio, né s’evapora.
Tanto ha oprato d’usura
che ora possiede officina e bottega.

Di Roma non vorrei tener l’impero,
né bramerei esserne fatto papa,
se non potessi tornare a colei
per cui il cuore m’arde e mi si spezza
e se non mi ristora dell’affanno
pur con un bacio, pria dell’anno nuovo,
me fa morire a sé l’anima danna.

Ma per l’affanno ch’io soffro
dall’amarla non mi distolgo,
bench’ella mi costringa a solitudine,
sì che ne faccio parole per rima.
Più peno, amando, di chi zappa i campi,
ché punto più di me non amò
quel di Monclin donna Odierna.

Io sono Arnaldo che raccolgo il vento
e col bue vado a caccia della lepre
e nuoto contro la marea montante.

Anche in questo brano Arnault Daniel racconta l’amore e gli effetti che esso ha sul suo cuore amante. Tutto il brano, infatti è costruito sui topoi dell’amor cortese: la freddezza della donna che non ricambia l’amore del poeta, la bellezza della stessa secondo canoni classici (capelli biondi, corpo aggraziato). Ma quello che più interessa è proprio la descrizione del modo attraverso cui egli lavora: infatti il poeta sottolinea il labor limae cui sottopone il testo, prima che esso giunga alla perfezione. Da notare, a livello retorico, la presenza negli ultimi due versi di due adýnata (descrizione di fatti incredibili).

Sempre del genere canzone, questa, di Bernart de Ventadorn, rappresenta lo stile che si definisce “trobar leu”, cioè di un poetare piano, maggiormente semplice rispetto al precedente:

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Miniatura ingrandita che rappresenta Bernart De Ventadorn

BERNART DE VENTADORN: CANZONE

Quando erba nuova e nuova foglia nasce
e sbocciano i fiori sul ramo,
e l’usignolo acuta e limpida
leva la voce e dà principio al canto,
gioia ho di lui, ed ho gioia nei fiori,
e gioia di me, e più gran gioia di madonna:
da ogni parte son circondato e stretto di gioia,
ma quella e gioia che tutte l’altre avanza.

Tanto amo madonna e l’ho cara,
e tanta reverenza e soggezione ho per lei,
che di me non ardii parlare mai
e nulla chiedo da lei, nulla pretendo.
Ma ella conosce il mio male e il mio duolo
E quando le piace mi benefica e onora,
e quando le piace io sopporto la mancanza dei suoi favori,
perché a lei non ne venga biasimo.

Mi meraviglio come posso resistere
che non le manifesti il mio talento:
quand’io veggo madonna e la miro,
i suoi begli occhi le stanno cosi bene!
A stento mi tengo dal correre a lei.
Così farei, se non fosse per timore,
chè mai vidi corpo meglio modellato e colorito
agli uffici d’amore così tardo e lento.

Sola vorrei trovarla
Che dormisse o fingesse di dormire,
per involarle un dolce bacio,
poiché non ho tanto ardire da chiederglielo.
Per Dio, donna, poco profittiamo d’amore:
fugge il tempo, e noi ne perdiamo la miglior parte.
Intenderci dovremmo a segni copertamente ,
e poiché ardir non ci vale, ci valga scaltrezza.

S’io sapessi gettar l’incantesimo,

i miei amici diventerebber bamboli,
si che niuno saprebbe immaginare
né dire cosa che ci tornasse a danno.
Allora so che potrei rimirare la più gentile
ed i suoi occhi belli e il fresco viso,
e baciarle le labbra per davvero
si che per un mese ve ne parrebbe il segno.

Ahimè, come muoio dal fantastichare!
Spesso vanisco tanto in fantasie,
che briganti potrebbero rapirmi
e non m’accorgerei di che facessero.
Per Dio, Amore, ben facile ti fu soppraffar me
Scarso d’amici e senza protettore!
Perché una volta madonna così non di ristringi
Prima ch’io sia distrutto dal desìo.

Questa canzone si struttura in sei stanze e descrive una vera e propria fenomenologia dell’amore che dà gioia, quella stessa gioia che la natura esprime con i limpidi canti di un usignolo. Ma quello che qui conta di più, al di là del rapporto, sempre di estremo omaggio del poeta verso la donna, non è più da interpretare per il tecnicismo con cui si esprime, esso infatti è dichiarato in modo chiaro e luminoso.

Come è chiaro è luminoso l’altro aspetto dell’amore in quest’altra poesia, tra le sue più famose:

BERNART DE VENTADORN:  CANZONE DELLA LODOLETTA

Quando la lodoletta vedo battere
gioiosamente l’ali incontro al sole,
ed ecco s’oblia e si lascia cadere
per la dolcezza che le giunge al cuore,
ah! sì grande invidia mi prende
d’ogni essere ch’io veda gioire,
ch’è meraviglia se tosto
il cuore del desìo non mi si strugge

Ahimè! tanto credevo sapere
d’amore, e tanto poco ne so!
Ché non posso tenermi d’amare
quella da cui nulla mai otterrò.
Tolto m’ha il cuore, tolto m’ha me stesso,
e se stessa m’ha tolto, e tutto il mondo:
nulla, togliendomisi, m’ha lasciato
se non un desiderio e cuore bramoso.

Più non ebbi il dominio di me stesso,
più non m’appartenni da allora,
quando negli occhi suoi lasciò specchiarmi,
in quello specchio che tanto mi piace!
Specchio, da quando in te mi rispecchiai,
m’han distrutto i sospiri profondi:
così in te mi perdei, come perdette
sé il leggiadro Narciso nella fonte.

Di tutte le donne dispero,
mai più in loro avrò alcuna fiducia;
come solevo esaltarle di lodi,
così le lascerò di lodi prive.
Vedendo che nessuna mi soccorre
presso di lei che mi distrugge e annulla,
di tutte quante pavento e diffido,
ché so bene che tutte sono uguali.

Femmina in ciò per certo si rivela
madonna, ond’io la rampogno,
ché non vuol quel che si deve volere
e fa quel ch’altri non vuol ch’ella faccia.
Sono caduto ove non è pietà
e ho fatto come lo sciocco sul ponte;
perché questo m’accade,
se non ch’io volli troppo alto salire.

Pietà è veramente smarrita
(ed io mai la conobbi!):
se chi più averne dovrebbe
n’è al tutto privo, ove dunque cercarla?
Ah! chi mai penserebbe in vederla,
che questo infelice smanioso,
che mai senza lei avrà bene,
lasci, senz’aiuto, morire?

Dacché presso madonna non mi vale
prego, pietà, diritto,
né le viene in piacere
ch’io l’ami, più gliene farò parola.
Così da lei mi parto e mi sconfesso,
morto da lei, per morto le rispondo,
e me ne vado, dacché non mi ritiene,
infelice, in esilio, non so dove.

Tristano, nulla più avrete da me:
me ne vado, infelice, non so dove;
il mio canto abbandono e rinnego
e da gioia e da amore m’estranio.

Qui egli invece, sempre parlando d’amore, ci offre la visione di una disillusione dovuta all’indifferenza della donna amata. Si tratta pur sempre di una “fenomenologia”, vista in negativo; compito del poeta, rispetto ad una domina che più non lo vuole, non può essere che andare via, come dice a Tristano cui si cela il nome di un altro trovatore che funge da destinatario del testo.

Un altro esempio lo dà Bertran De Born. Questo brano non muta, rispetto agli altri per struttura, ma per contenuto. Infatti la canzone politica prende il nome di sirventese:

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Miniatura ingrandita che rappresenta Bertran De Born

ELOGIO DELLA GUERRA

Molto mi piace la lieta stagione di primavera
che fa spuntar foglie e fiori,
e mi piace quando odo la festa
degli uccelli che fan risuonare
il loro canto pel bosco,

e mi piace quando vedo su pei prati

tende e padiglioni rizzati,
ed ho grande allegrezza.
Quando per la campagna vedo a schiera
cavalieri e cavalli armati.

E mi piace quando gli scorridori
mettono in fuga le genti con ogni lor roba,
e mi piace quando vedo dietro a loro
gran numero di armati avanzar tutti insieme,
e mi compiaccio nel mio cuore
quando vedo assediar forti castelli
e i baluardi rovinati in breccia,
e vedo l’esercito sul vallo
che tutto intorno è cinto di fossati
con fitte palizzate di robuste palanche.

Ed altresì mi piace quando vedo
che il signore è il primo all’assalto
a cavallo, armato, senza tema,
che ai suoi infonde ardire
così, con gagliardo valore;
e poi ch’è ingaggiata la mischia
ciascuno deve essere pronto
volenteroso a seguirlo
chè niuno è avuto in pregio
se non ha molti colpi preso e dato.

Mazze ferrate e brandi, elmi di vario colore,
scudi forare e fracassare
vedremo al primo scontrarsi
e più vassalli insieme colpire,
onde erreranno sbandati
i cavalli dei morti e dei feriti.
E quando sarà entrato nella mischia,
ogni uomo d’alto sangue
non pensi che a mozzare teste e braccia:
meglio morto che vivo e sconfitto!

Io vi dico che non mi da tanto gusto
mangiare, bere o dormire,
come quand’odo gridare “All’assalto”
da ambo le parti e annitrire
cavalli sciolti per l’ombra
e odo gridare «Aiuta! Aiuta!»
e vedo cadere pei fossati
umili e grandi fra l’erbe,
e vedo i morti che attraverso il petto
han troncon di lancia coi pennoncelli.

Baroni date a pegno
castelli borgate e città,
piuttosto che cessare di guerreggiarvi l’un l’altro.
Papiol, volenteroso,
al signore Si-e-No vattene presto
e digli che troppo sta in pace.

L’esaltazione che Bernard de Born fa della guerra si situa sul piano non tanto “politico”, quanto dell’“atto in sé” in cui emergono con forza i valori della forza, del coraggio e dello sprezzo del pericolo, già illustrati per le chanson de geste, ma qui svincolati per un solo fatto estetico. 

Per concludere il discorso sulla poesia cortese è importante sottolineare quali furono i principali temi/generi che tanta fortuna ebbero, poi, nella cultura europea posteriore:

  • Il sirventese (canto del servo), genere, che come visto, affronta temi civili e militari, è quindi un canto civile ora burlesco, ora serio;
  • il planh (pianto), nel quale si piange la morte del “signore” o si implora il signore di partecipare alle crociate;
  • le albe, sorte di quadretti idillici e malinconici dove viene descritto il momento in cui due amanti devono separarsi; 
  • le pastorelle, incontri fra una popolana e un nobile che attenta in vari modi alla sua virtù senza quasi mai riuscirci;
  • le tenzoni a forma di dialogo in cui si discutono i temi d’amore.

Il romanzo cortese

Se le chanson de geste, che ruotano intorno a Carlo Magno e a i suoi paladini, fanno parte del ciclo carolingio, quelle dei romanzi cortesi-cavallereschi s’inseriscono nel ciclo bretone. Queste opere, specchio di corti raffinatissime nascono contemporaneamente e trovano alimento dalla poesia cortese, che, dopo la crociata degli albigesi, s’irradiano per l’intera Europea.

Questi romanzi ruotano intorno alla figura di re Artù, di sua moglie Ginevra e dei suoi cavalieri, ed il cavaliere più famoso è certamente Lancillotto. Il più grande autore di questi romanzi è Chretien de Troyes. Di lui possiamo ricordare soprattutto due romanzi Lancillotto o il cavaliere della carretta:

Il perfido Meleagant, figlio del re di Gorre, regno dal quale non è possibile fare ritorno, rapisce la regina Ginevra. Lancillotto parte alla sua ricerca e, per non perderla, deve salire su una carretta su cui avviene il trasporto dei condannati a morte. Per Lancillotto è un disonore terribile salire su quella carretta e subire la vergogna di tutti, ma la forza dell’amore è così grande che egli accetta il ricatto che gli fa un nano, simbolo di sventura, che gli darà informazioni su Ginevra solamente se lui acconsentirà a salire sul mezzo. Lancillotto si adopererà in tutti i modi per ritrovare Ginevra, superando le prove più terribili e le tentazioni più dure, e, dopo averla trovata, ucciderà il traditore.

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Lancillotto e la carretta

IL CAVALIERE E LA CARRETTA

A quei tempi le carrette facevano il servizio ora riservato alle gogne, e in ogni città, dove adesso se ne trovano più di tremila, allora non ve ne era che una. Come la gogna, la carretta veniva usata per gli assassini e i briganti, per quanti uscivano sconfitti dai combattimenti giudiziari o per i ladri che si erano impadroniti degli averi altrui con l’astuzia o che li avevano rapinati con la forza per le strade. Chi era colto sul fatto, veniva fatto salire sulla carretta e trascinato di cammino in cammino; perdeva ogni merito, non veniva più ricevuto a corte, né onorato o ben accolto. E poiché per questo uso crudele le carrette erano molto temute, si prese a dire: «Quando vedrai e ti imbatterai in una carretta, segnati e ricordati di Dio, perché non te ne derivi sventura». Il cavaliere avanzava appiedato e senza lancia dietro quella carretta sulle cui stanghe era un nano che, come un carrettiere, impugnava una lunga verga. Il cavaliere gli chiede: «Nano, dimmi in nome di Dio se hai visto passare per di qua madama la regina». Ma quel nano, vile e di umili origini, non vuole dargli notizie e dice invece: «Se vorrai montare sulla carretta che conduco, prima di domani potrai sapere cosa è avvenuto della regina». Il cavaliere esita e prosegue per la propria strada senza seguire l’invito. E fu per sua sfortuna e vergogna che non vi salì subito, perché più tardi avrebbe avuto a pentirsene e avrebbe giudicato di avere agito male. Ma Ragione, in disaccordo con Amore, gli suggeriva dal guardarsi di montarvi, e lo esortava e lo ammaestrava a non intraprendere un’azione che gli sarebbe forse tornata ad onta e a biasimo. Ragione non ha posto nel cuore, ma nella bocca: per questo osava parlargli in tal modo. Ma Amore, che era rinchiuso nel suo cuore, gli ordinava e lo ammoniva di montare subito. Poiché lo vuole Amore, il cavaliere sale sulla carretta e non si cura di provare vergogna: è Amore che comanda e lo vuole.

E’ evidente in questo passo la differenza tra la chanson de geste e il romanzo cortese: qui l’autore, quasi trattando in modo teorico il rapporto tra amore e virtù, facendo prevalere il primo al secondo, non fa che sottolineare l’abnegazione verso la donna piuttosto che verso Dio, che richiede, appunto, virtù morali. E’ difficile per la Chiesa di allora accettare tutto questo. 

ed il Perceval o il racconto del Graal: 

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Perceval riceve una spada dal Re Pescatore

Il padre e i fratelli di Perceval sono morti in guerra, e per non rischiare di perdere l’unico figlio rimasto, la madre decise di tenerlo lontano dal mestiere della cavalleria. Un giorno egli, cresciuto in semplicità di spirito e purezza di cuore, incontra alcuni cavalieri e, rimasto affascinato dallo splendore delle loro armi, vuole raggiungere la corte di re Artù. Lasciata la madre, che dopo la sua partenza muore dal dolore, Perceval, vestito da boscaiolo, raggiunge la corte del leggendario sovrano. Qui, messosi in luce per coraggio e virtù, viene nominato cavaliere da re Artù prima, e successivamente dal signore Gornemant. La nipote di costui, Biancofiore, se ne innamora, ma Percaval, pur ricambiando, decide di partire per il desiderio di rivedere sua madre e accertarsi che stesse bene, in quanto per seguire il suo sogno di diventare cavaliere l’aveva lasciata svenuta al di là di un ponte. Nel viaggio scoprirà che essa era rimasta uccisa per la sofferenza di vederlo partire. Iniziano così le nuove avventure, durante le quali il giovane giunge al castello del Re Pescatore che reca su di sé un’inguaribile ferita: sino a quando essa non sarà rimarginata regneranno sulla sua terra tristezza e carestia. In una sala del maniero, durante una cena, appaiono in successione diversi oggetti, tra cui una lancia sanguinante e un graal, un piatto che al suo apparire sprigiona una grande luce. Ricordandosi le parole di Gornemant, il quale gli aveva consigliato di parlare e domandare il meno possibile, si risolve col non chiedere al Re Pescatore perché la lancia sanguinasse e a chi serviva il graal, pur provandone l’impulso. Questi oggetti, infatti, venivano portati in una stanza celata ai suoi occhi, all’interno della quale stava il padre del Re. La sua mancata domanda porterà disgrazia al Re Pescatore e alla sua terra, che per mezzo di quelle semplici domande avrebbe potuto essere risanata. Per questo motivo al suo risveglio tutto è sparito, nessuno a parte lui sembra essere presente nel castello, ed egli deve ricominciare le sue peregrinazioni. Durante una lunga serie di nuove avventure, egli dovrà rendersi degno di ritrovare il graal, ponendo rimedio al suo errore e salvando così la terra malata e il Re Pescatore. Incontra un eremita, fratello del Re Pescatore, che lo confessa durante la Quaresima e rinnova i suoi sentimenti religiosi, che aveva perso durante il cammino. Perceval viene a conoscenza della sua appartenenza alla Famiglia del Graal e che il Re Pescatore è suo zio.

Qui si ferma il racconto, rimasto incompiuto.

PERCEVAL ASSISTE AL PASSAGGIO DEL SANTO GRAAL 

Segue il proprio cammino per tutta la giornata senza incontrare creatura terrena che sappia indicargli la via. Senza posa prega Dio, il Padre Sovrano, domandandogli, se gli vuol bene, di fargli ritrovare la madre viva e in buona salute. Pregava ancora quando, disceso da una collina, arriva a un fiume. L’acqua è rapida e profonda. Non osa avventurarsi. «Signore Onnipotente» esclama «se potessi attraversare quest’acqua, credo che ritroverei mia madre, s’ella è ancora in questo mondo!». Ha costeggiato la riva. Si avvicina a una roccia circondata d’acqua che gli impedisce il passaggio. In quel momento vede una barca che scende il filo della corrente. Due uomini vi sono seduti. Immobile li attende, sperando di vederli più da vicino. Ma si fermano nel mezzo dell’acqua, ancorando la barca in modo sicuro. L’uomo che siede avanti pesca con la lenza infilzando nell’amo come esca un pesciolino non più grosso di un piccolo vairone. Il cavaliere, che li osserva, non sa come possa passare quel fiume. Saluta e dice loro: «Signori, mi direte dov’è un ponte o un guado?». Colui che pesca risponde: «No, fratello, per venti leghe a monte o a valle non v’è né guado né ponte né barca più grande di questa che non porterebbe cinque uomini. Non può passarvi un cavallo. Non v’è né traghetto, né ponte, né guado». «In nome di Dio, ditemi dove troverò alloggio per questa notte». «Ne avrete bisogno, è vero. Di asilo come d’altro. Sarò io a ospitarvi per questa notte. Salite per quella fenditura che vedete laggiù nella roccia. Quando sarete in alto scorgerete un vallone e una casa, dove abito vicino ai fiumi e ai boschi». Il giovane spinge il cavallo per la breccia fino alla sommità della collina. Guarda lontano davanti a sé, ma non vede altro che cielo e terra. «Che sono venuto a cercare qui? Solo stoltezza e vanità. Dio copra d’infamia colui che m’insegnò questo cammino! Quale casa vedo qua in alto! Pescatore, mi hai raccontato una bella storia! Fosti davvero sleale, se l’hai fatto per mio male!». Appena ha così parlato vede in un vallone la vetta di una torre. Una torre tanto ben eretta non la si sarebbe trovata da lì a Beirut! Quadrata era la torre, di pietra bigia e con due torrette a lato. Avanti alla torre una sala, e avanti alla sala le logge. Il cavaliere scende per di là e dice che chi gli insegnò la via l’ha condotto davvero in un buon porto! Ora loda il pescatore e, poiché sa dove albergherà, non lo tratta più da impostore o fellone o mentitore. Lieto se ne va verso la porta. Trova abbassato il ponte levatoio. Appena è sopra la ponte incontra quattro valletti. Due gli tolgono l’armatura, uno porta via il cavallo per dargli avena e foraggio, l’ultimo gli ricopre le spalle con un mantello di scarlatto nuovo e fresco. Poi lo conducono alle logge. Da qui fino a Limoges non se ne sarebbero trovate né viste di più belle. Il cavaliere vi si trattiene finché il signore lo manda a cercare da due servitori. Li segue. Al centro di una vasta sala quadrata, che è larga quanto lunga, è seduto un valent’uomo di bell’aspetto, i capelli già quasi bianchi. Il capo è coperto da un cappuccio di zibellino nero come le more, intorno al quale s’avvolge un tessuto di porpora. Della stessa stoffa e colore è fatta la veste. Il valent’uomo s’appoggia al gomito. Davanti a lui, tra quattro colonne, arde un gran fuoco vivace di ciocchi secchi, così grande che quattrocento uomini almeno avrebbero potuto riscaldarsi e ciascuno vi avrebbe trovato posto. Le colonne alte e solide che sostenevano il camino erano opera di bronzo massiccio. Accompagnato da due servitori, davanti a tale signore compare l’ospite che si sente salutare: «Amico non me ne vorrete se per rendervi onore non m’alzerò: farlo non mi è agevole». L’ospite risponde: «In nome di Dio, non datevene pena! Non ho nulla di cui lamentarmi, se Dio mi dà gioia e salute». Ma il valent’uomo se ne dà tal pena che s’affatica a sollevarsi dal letto. «Amico, non temete! Avvicinatevi! Sedete accanto a me. Ve lo ordino». L’ospite si siede. E il valent’uomo gli domanda: «Amico, da dove venite oggi?». «Signore questa mattina ho lasciato un castello chiamato Beaurepaire». «Dio mi salvi! Avete avuto una lunga giornata! Questa mattina vi siete messo in marcia prima che la guardia suonasse il corno dell’alba!». «No, signore. L’ora prima era già suonata, ve l’assicuro». Mentre parlano entra un valletto da una porta. Ha una spada appesa al collo. L’offre al signore che la estrae un poco dal fodero e vede bene dove la spada fu fatta, ché sopra vi è scritto. La vede d’acciaio sì duro che in nessun caso sarà spezzata, salvo uno. E solo lo sapeva chi l’aveva forgiata e temperata. Il valletto, che l’aveva portata, dice: «Signore, la bionda damigella, la vostra bella nipote, vi fa omaggio di questa spada. Mai avete avuta arma più leggera di questa per la sua misura. La darete a chi più vi piacerà, ma la mia signora sarà contenta se questa spada verrà rimessa nelle mani di colui che saprà ben servirsene. Chi la forgiò non ne fece che tre. Poiché morrà, non ne potrà mai forgiare altre». Subito il signore la rimette a colui che là dentro è lo straniero, porgendogliela per i fermargli che valgono un tesoro. Perché il pomo era d’oro, l’oro più fino d’Arabia o anche di Grecia, il fodero lavorato in oro di Venezia. Sì preziosa, gliene fa dono. «Bel fratello» dice «questa spada fu fatta per voi. Voglio che sia vostra. Cingetela e sguainatela». Così fa il giovane mentre ringrazia. E, cingendola, la lascia un po’ lenta. Estrae la spada dal fodero e, quando l’ha tenuta un poco, ve la rimette. Gli si addice a meraviglia, appesa al corpo come in pugno. Ed egli sembra proprio l’uomo adatto a giostrarvi da vero barone. Affida la spada che affida al valletto che sorveglia le sue armi, che si tiene in piedi con gli altri intorno al gran fuoco vivace e ardente. Poi va a risedersi presso il signore che tanto onore gli ha reso. Tale chiarore fanno nella sale le fiaccole, che non si troverebbe al mondo riparo più illuminato! Mentre parlano di questo e d’altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell’asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono stesi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue colava dalla punta del ferro della lancia. Fin sulla lancia del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tal meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. E perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che mai si deve parlare troppo? Porre domanda sarebbe villania. Non dice parola. Due valletti arrivano allora, tenendo in mano candelieri d’oro fino lavorato a niello. Uomini molto belli erano i valletti che recavano i candelieri. In ogni candeliere bruciavano dieci candele, a dire il meno. Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero chiarore, come le stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un’altra damigella recava un piatto d’argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o sulla terra. Nessuna potrebbe paragonarsi alle pietre che cingevano il graal. Come la lancia che era passata davanti al letto, così passarono le due damigelle. Andarono da una stanza all’altra. Il giovane le vide passare, ma a nessuno osò domandare a chi si presentasse il graal nell’altra sala, perché sempre aveva nel cuore le parole dell’uomo saggio, il maestro di cavalleria. Perché non ne derivi sventura, perché mi è capitato d’intendere che il troppo tacere talvolta non val meglio del troppo parlare! Ma che ne abbia ventura o sventura l’ospite non domanda. Il signore allora ordina che si porta l’acqua, che si mett
ano le tovaglie. E così fanno i servitori. E allora il signore come l’ospite si lava le mani nell’acqua scaldata come si deve. Due valletti portano una grande tavola d’avorio fatta d’un sol pezzo, come testimonia la storia. La tengono davanti al signore e all’ospite. Altri servitori sistemano due cavalletti doppiamente preziosi, ché per il legno d’ebano di cui son fatti dureranno a lungo, e nessun pericolo che brucino o marciscano. Ma questo non sarà il loro destino. Su tali cavalletti i servitori hanno appoggiato la tavola, sulla tavola steso la tovaglia. Che dirò di questa tovaglia? Mai legato né cardinale né papa mangeranno su tavola più bianca! La prima portata è un coscio di cervo, ben pepato e cotto nel suo grasso. Bevono vino chiaro e mosto serviti in coppe d’oro. E su un tagliere d’argento che il valletto taglia il coscio e ne dispone ogni pezzo su una grande focaccia. Allora davanti a due convitati un’altra volta passa il graal, ma il giovane non domanda a chi lo serva. Sempre ricorda il valent’uomo che dolcemente l’ha impegnato a non parlare troppo, ché l’ha sempre nel cuore. Ma tace più che non dovrebbe. A ogni portata, vede ripassare davanti a sé il graal tutto scoperto. Ma non sa a chi lo serva. Ha desiderio di saperlo, ma pensa che avrà tempo di domandarlo domani a uno dei valletti della corte, al mattino quando lascerà il signore e tutta la sua gente. Rinvia così la domanda. Viene servito a profusione di carni e di vini, i più scelti e i più piacevoli, comuni sulla tavola dei re, dei conti, degli imperatori. Quando il pasto fu terminato, il valent’uomo trattenne l’ospite a veglia intanto che i valletti approntavano i letti e recavano frutta tra la più preziosa. Gli furono offerti datteri, fichi e noci moscate, melagrani, fiori di garofano ed elettuario*, per finire, e ancora pasta di zenzero d’Alessandria e gelatina aromatizzata. Bevvero poi svariate bevande: vino aromatico senza miele né pepe, buon vino di more e sciroppo chiaro. Il Gallese ha meraviglia di tante buone cose che non aveva mai assaggiato. Infine il valent’uomo gli dice: «Amico, è l’ora di dormire. Se voi permettete, raggiungerò la mia stanza e il mio letto. E quando vi farà piacere, voi vi coricherete qui. Ahimé, non ho alcun potere sul mio corpo! E’ necessario che mi si porti». Entrano allora quattro servitori molto robusti che prendono ai quattro angoli la trapunta su cui giace il signore e lo portano nella sua stanza. Con il giovane restano dei valletti che lo servirono e ne presero buona cura. Poi, quando a lui piacque, gli tolsero le calzature, lo svestirono e lo posero a dormire tra bianche lenzuola di lino finissimo. E fino al mattino vi riposò. Sul far del giorno si risvegliò. Tutta la casa era già in piedi, ma nessuno era presso di lui. Gli toccò quindi vestirsi da solo, che lo volesse o no. Non aspetta alcun aiuto, si leva e si calza, va a prendere le armi posate su una tavola dove le avevano portate. Come è pronto, va di porta in porta, che aveva viste la sera innanzi. Ma invano: porte chiuse, e ben chiuse! Chiama, bussa con gran forza e ancor di più, ma nessuno gli apre o risponde. Ha chiamato abbastanza! Va alla porta della sala. E’ aperta. Ne scende tutti i gradini fino in basso. Trova il cavallo sellato. La lancia là vicina e lo scudo contro il muro. Monta a cavallo e va intorno cercando, ma non incontra alcuno, né servitore, né scudiero, né valletto. Allora va dritto alla porta. Il ponte levatoio è abbassato. Nessuno dunque ha voluto trattenerlo, a qualsiasi ora volesse lasciare quel luogo! Ma egli pensa ben altro: sono i valletti, si dice, che attraverso il ponte calato sono partiti sulla strada sulla foresta a sorvegliare trappole e lacci. S’avvia dunque per trovarne alcuno, forse, che gli dica dove viene portato quel graal e perché o per qual pena la lancia sanguina. Così pensando passa il ponte, ma quando è sul piancito ben avverte che le zampe del cavallo d’un subito danno un balzo. Fortuna che saltano a meraviglia, ché cavallo e cavaliere ne avrebbero avuto a male. Gira indietro la testa e scorge il ponte levato, senza che alcuno si sia fatto vedere. Chiama, ma non v’è risposta. Grida: «Dimmi, tu che hai levato il ponte, rispondimi! Dove ti nascondi? Mostrati, ché ho cosa da dirti!». Parole vane! Nessuno gli risponderà.

* Preparato galenico semidenso consistente in miscugli di sostanze medicinali impastate con miele o sciroppi col quale anticamente si credeva di poter combattere un gran numero di malattie.

In questo passo del romanzo di Chretien de Troyes non troviamo più Lancillotto ma Parsifal: tale cambiamento è dovuto al passaggio dell’artista dalla Francia alla corte di Fiandra. Se nel brano letto precedentemente Lancillotto è un cavaliere che sceglie, dopo poche titubanze, l’amore, Parsifal sembra incapace di scegliere: ancora legato alla virtù del cavaliere del silenzio rispetto al signore, egli la segue ma questa volta a sua danno. D’altra parte, pur mettendo al centro della narrazione l’indeciso cavaliere, ad emergere sono le simbologie: la spada che combatterà per la fede, la lancia che ha ferito Cristo, testimoniato dal sangue che non si rapprende mai, ed il graal (il vaso) che lo raccoglie. Anche la luce, che vince il chiarore delle candele, è simbolo della verità di Dio. Non riuscendo a chiedere, il nostro ancora non sa scegliere tre virtù e Dio. Sembra quasi che l’autore in questo suo (forse) ultimo romanzo, abbia voluto superare l’impasse tra cortesia e fede, facendo delle virtù del cavaliere uno strumento per la fede (aleggia lo spirito delle crociate). Ma come il romanzo finirà non lo sapremo, pare che l’autore muoia prima di concluderlo.

Ma l’opera che più viene ricordata per il triste epilogo dei due amanti è di Tristano ed Isotta, la cui redazione più importante viene attribuita ad un certo Thomas:

Dopo miriadi prodezze, l’orfano Tristano, nipote del re di Cornovaglia Marco, ha conquistato Isotta, la bionda principessa irlandese, perché lo zio possa sposarla. Sulla nave che li riconduce in Cornovaglia i due giovani bevono per errore il filtro che avrebbe dovuto legare re Marco ed Isotta di amore profondo. Ormai Tristano e Isotta si ameranno. Re Marco sposa Isotta, ma un giorno, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende e li condanna. Tristano e Isotta riescono però a fuggire e a rifugiarsi nella foresta di Morrois. Qui vengono scoperti dal re che, commosso dal loro casto atteggiamento (riposano fianco a fianco ma separati dalla spada di Tristano), lascia la propria spada e l’anello di nozze e se ne va senza svegliarli. Colpiti da tanta clemenza i giovani decidono di separarsi: Isotta ritorna a corte e Tristano si esilia in Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani. Non dimentica tuttavia la regina, travestito da lebbroso, da mendicante, da pazzo, torma ogni tanto in Cornovaglia per brevi incontri con l’amata. Nel corso di un combattimento Tristano è ferito a morte. Solo la regina Isotta potrebbe guarirlo. Il messaggero che la va a cercare concorda con Tristano un segnale: se Isotta avrà accettato di venire, la nave, al ritorno, isserà la vela bianca; isserà la vela nera se avrà rifiutato. Ma Isotta arriva troppo tardi. Tristano è morto, ingannato dalla moglie che gli annunciato che la vela era nera. La bionda regina muore di dolore sul corpo dell’amato.

 LA MORTE DI TRISTANO E ISOTTA

Hanno issato in alto la vela bianca, e veleggiano rapidamente, che Caerdino vede la Bretagna. Dunque son gioiosi e lieti e allegri, e tirano ben in cima la vela, che possa essere veduto quale sia, la bianca o la nera: vuole mostrare il colore da lontano, perché era l’ultimo giorno che Tristano aveva loro fissato quando partirono dal paese. Mentre navigano lietamente, si leva il caldo ed il vento cessa sicché non possono usare la vela. Il mare è estremamente piano e liscio. La loro nave non va né di qua né di là, fuorché quando la spinge l’onda, e non hanno la loro scialuppa: ora grande è l’angoscia. Vedono dinanzi a loro vicina la terra, né hanno il vento con cui possano raggiungerla. Vanno dunque errando in alto, in basso, ora indietro e poi avanti. Non possono avanzare il cammino, tocca loro un gravissimo impaccio. Isotta n’è profondamente rattristata: vede la terra che ha desiderato, e non vi può giungere; per poco non muore dal suo desiderio. Sulla nave desiderano la terra, ma il vento soffia troppo lieve. Spesso Isotta si chiama sventurata. Sulla riva desiderano la nave: ancora non l’hanno vista. Tristano n’è dolente e infelice, spesso si lamenta, spesso sospira per Isotta che tanto desidera, piange dagli occhi, il corpo gli si torce, per poco non muore per il desiderio. In quell’angoscia, in quel tormento viene dinanzi a lui sua moglie, Isotta, che medita il grande inganno: «Amico», dice «ora viene Caerdino. Ho veduto la sua nave sul mare, l’ho vista veleggiare a gran pena, tuttavia io l’ho veduta in modo che per sua l’ho riconosciuta. Conceda Iddio che io porti tal novella di cui abbiate nel cuore conforto!». Trasale Tristano alla notizia, dice ad Isotta: «Bell’amica, siete sicura che è la sua nave? Ditemi ora qual è la vela». Isotta dice questo: «Ne son certa. Sappiate che la vela è tutta nera. L’hanno issata in cima e levata in alto, perché manca loro il vento». Allora sì grande dolore ha Tristano quale mai non ebbe, né avrà maggiore, e si volta verso il muro: «Dio salvi Isotta e me!», dice allora. «Poiché da me non volete venire, debbo morire per vostro amore. Non posso più tenere la mia vita; per voi muoio, Isotta, bell’amica. Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo, amica, m’è di grande conforto, che avete pietà della mia morte». Dice tre volte «Amica Isotta», alla quarta rende lo spirito. Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Alto è il clamore, il pianto grande. Cavalieri e servitori corrono e lo tolgono dal suo letto, poi lo distendono sopra uno sciamito, lo coprono di un drappo listato. Sul mare s’è levato il vento e colpisce nel mezzo della vela, fa venire a terra la nave. Isotta discende dalla nave, ode nella via i grandi pianti, le campane nei monasteri e nelle cappelle; chiede notizie agli uomini, perché fanno questo suono e per chi sia il compianto. Allora un vecchio le dice: «Bella signora, così m’aiuti Iddio, noi abbiamo un dolore così grande che mai gente n’ebbe maggiore. Morto è Tristano, il nobile, il prode: era di conforto a tutti quelli del regno. Era liberale coi bisognosi, di grande aiuto ai sofferenti. Di una ferita che il suo corpo ebbe è morto, proprio ora, nel suo letto. Mai non toccò a questa regione così grande sventura». Appena Isotta ode la novella, non può dir nulla dello strazio. Così addolorata è della sua morte, che va discinta per la via dinanzi agli altri al palazzo. Mai Bretoni videro donna della sua bellezza; stupiti si chiedono per la città onde venga, chi sia. Isotta va, là dove vede il corpo, e si volge verso oriente, prega piamente per lui: «Amico Tristano, poiché vi vedo morto, è giusto che non possa vivere oltre. Morto siete per il mio amore, e io, amico, muoio di tenerezza, perché non potrei venire a tempo per guarire voi e il vostro male. Amico, amico, per la vostra morte non avrò mai nulla di conforto, gioia, né allegrezza, né alcun piacere. Maledetta sia quella tempesta che in mare mi fece tanto indugiare che io non potei venire! Se io fossi venuta a tempo, amico, vi avrei ridata la vita e parlato dolcemente dell’amore che è stato fra noi; avrei rimpianto la mia sorte, la nostra gioia, il nostro piacere, la pena e il grande dolore che è stato nel nostro amore, e questo avrei ricordato e poi baciato e abbracciato. Se io non posso guarirvi, possiamo dunque insieme morire! Poiché non potei e non ebbi la sorte di venire a tempo, e sono venuta alla morte, avrò conforto della stessa bevanda. Per me avete perduta la vita, e io farò come verace amica: per voi voglio egualmente morire». L’abbraccia e si distende, si stende corpo contro corpo, bocca contro bocca, e allora rende lo spirito e muore così a fianco a lui per il dolore del suo amico. Tristano è morto per il suo desiderio, Isotta, perché non poté venire a tempo. Tristano è morto del suo amore e la bella Isotta di tenerezza.  

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Tristano e Isotta e la pozione

E’ questo il romanzo più famoso tra quelli cortesi e tale fortuna sarà determinata dall’interpretazione passionale che la scuola Romantica (del 1800) fece su di esso, facendone un fulgido esempio di “eros e thanatos”; ma quello che caratterizza l’opera è certamente l’attenta ambivalenza che in esso vi è tra cultura classica e cultura moderna: il brano infatti si rifà ad un passo d’Ovidio (Piramo e Tisbe) e alla leggenda mitica di Teseo e il Minotauro. Tuttavia i due cavalieri, sia Marco che Tristano sono due perfetti emblemi della cortesia, mentre Isotta, la donna contesa, per amore accetta di morire. Leggiamo infatti un maggiore risalto agli effetti psicologici dei due protagonisti: ma forse perché esso è il risultato di una serie di apporti poi rivisti e sistemati verso il 1170.

Si è qui parlato dell’amore cortese e di come esso si sviluppasse dapprima nelle corti provenzali ed in seguito alla crociata degli Albigesi e alla conquista di Luigi XII, si fosse espanso nella maggior parte dell’Europa. Tuttavia la vera e propria diffusione si deve ad un testo latino, scritto da Andrea Cappellano (appunto il cappellano privato di Maria di Francia) che, imitando Ovidio e la sua precettistica amorosa nel De Amore definisce che cosa sia, come si sviluppi, chi ne debbano essere i protagonisti eccetera.

Esso diventa un vero e proprio manuale, che si conclude con un elenco che sintetizza il concetto d’amore cortese, di cui si riportano alcune norme:

SUNT AUTEM REGULAE TALES

Causa coniugii ab amore non est excusatio recta.
Per ragioni di matrimonio non è giusto rinuncia­re all’amore.
Nemo duplici potest amore ligari.
Nessuno può legarsi in doppio amore
Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur.
Nessuno può amare se non lo spinge amore.
Amor raro consuevit durare vulgatus.
L’amore divulgato raramente è destinato a dura­re.
Omnis consuevit amans in coamantis aspectu pallescere.
Ogni amante impallidisce sotto gli occhi dell’amante.
In repentina coamantis visione cor contremescit amantis.
Alla vista improvvisa dell’amante trema il cuore dell’amante.
Probitas sola quemque dignum facit amore.
Solo la gentilezza rende le creature degne d’amore.

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