SESTO PROPERZIO

painting1.jpegAuguste Jean-Baptiste Vinchon: Cinzia e Properzio

Properzio è un poeta elegiaco, più o meno contemporaneo di Tibullo. Ma se quest’ultimo fece della sua poesia un mezzo attraverso cui cantare l’amore e la sua sofferenza d’amore, Properzio va oltre: infatti non solo rispetta il tema erotico, tipico di questa forma d’arte, ma l’impreziosisce con riferimenti dotti e mitologici che lo rendono più complesso del suo coetaneo ma anche più “gradito” all’entourage culturale di Augusto.

Biografia

Sesto Properzio nacque nel 49 a.C. da famiglia agiata, probabilmente ad Assisi, in Umbria.  Venne pertanto coinvolto nelle conseguenze della guerra civile che si concluse con la battaglia di Azio; in particolare ricorderà come la sua famiglia subì le prescrizioni da parte di  Ottaviano quando si scontrò con Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio. Perse il padre a 16 anni (quando prese, cioè la toga virile) e si trasferì a Roma, dove si legò ad una donna un po’ più grande di lui, Cinthia (dal nome Cinto del monte sacro ad Apollo). Tale figura femminile ci dice lo scrittore Apuleio fosse donna reale il cui nome vero è Hostia, presumibilmente discendente di un intellettuale, tanto da definirla puella docta. Lei costituì l’oggetto della sua passione e della sua poesia. Dopo la pubblicazione del primo libro, Properzio conobbe Mecenate ed altri importantissimi poeti, come Tibullo, Virgilio ed Ovidio. Non essendoci nelle sue poesie indizi riferibili dopo il 15, si pensa o che non abbia più pubblicato niente o che la morte lo colpì quand’era ancora giovane.

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Edizione del 1743

Elegie

Properzio è autore di quattro libri di elegie.

Il primo libro, pubblicato nel 28 a. C., detto anche monòbiblos è composto da 22 componimenti, piuttosto brevi, quasi tutti dedicati a Cinzia, e presenta tutti i temi erotici legati alla forma elegiaca. Infatti la prima parola che si trova all’inizio dell’opera è proprio il nome della donna amata dal poeta:

CINZIA
(I, 1 vv. 1-17)

Cynthia prima suis miserum me cepit ocellis,
contactum nullis ante cupidinibus.
Tum mihi constantis deiecit lumina fastus
et caput impositis pressit Amor pedibus,
donec me docuit castas odisse puellas
improbus, et nullo vivere consilio.
ei mihi, iam toto furor hic non deficit anno,
cum tamen adversos cogor habere deos.
Milanion nullos fugiendo, Tulle, labores
saevitiam durae contudit Iasidos.
nam modo Partheniis amens errabat in antris,
rursus in hirsutas ibat et ille feras;
ille etiam Hylaei percussus vulnere rami
saucius Arcadiis rupibus ingemuit.
ergo velocem potuit domuisse puellam:
tantum in amore fides et benefacta valent.
in me tardus Amor non ullas cogitat artes,
nec meminit notas, ut prius, ire vias.

Cinzia per prima con i cari occhi mi prese, misero, / prima nessuna passione mi aveva sfiorato. / Mi spense allora Amore l’ardito lampo degli occhi, / mi premette sul capo i suoi piedi, / finché m’apprese a odiare ogni casta fanciulla, / perfido, e a vivere senza saper più come. / Già tutto un anno: non mi lascia questo folle desiderio, / costretto a vivere con avversi gli dei. / Ricordi, o Tullio, Milanione? Accettò ogni travaglio, e infine / spezzò la durezza ostile della figlia di Iaso. / Errava talvolta invasato per gli anfratti del Partenio, / e si scontrava, nel suo vagare, con irsute fiere; / una volta, percosso da un colpo della clava di Ileo, / pianse di dolore, ferito, tra le rupi d’Arcadia. / Così alla fine domò la veloce fanciulla: / tanto valgono in amore le suppliche e meritorie imprese. / Per me invece Amore indolente non trova rimedi / non sa più andare, come una volta, per le note vie.

E’ questo l’incipit della prima elegia, che assume certamente un valore programmatico per il monòbiblos: infatti tale libro appare come una sorta di bilancio del primo anno d’amore per Cinzia. Amore che verrà vissuto come furor, che acceca la voluntas del poeta e lo fa schiavo; per questo Properzio deve piegarsi al servitium amoris con tutto se stesso. Fino a qui nulla di nuovo rispetto ai topoi già visti nella poesia elegiaca e in special modo in quella di Tibullo. Tuttavia qualche novità la possiamo riscontrare: la prima è che il poeta sembra rivolgersi a qualcuno, in questo caso Tullio: è come se gli scrivesse (o gli parlasse) della sua storia con Cinzia; l’altro, più importante è il riferimento mitico (assente in Tibullo): Milanione era innamorato di Atalanta, figlia di Iaso, la quale rifiutava le nozze e sfidava i pretendenti alla corsa, in cui era imbattibile: Milanione la difese dal centauro Ileo, che voleva usarle violenza, e finalmente, con l’aiuto di Venere, riuscì a vincerla e a ottenerne la mano. E’ evidente che l’intento di Properzio è quello di rendere il carmen doctum per meglio emulare la poesia alessandrina e callimachea.

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Talvolta il riferimento mitologico cessa d’essere un fatto erudito per sposarsi in modo mirabile al tessuto narrativo dell’elegia:

CINZIA DORMIENTE
(I, 3 vv. 1-10)

Qualis Thesea iacuit cedente carina
languida desertis Cnosia litoribus;
qualis et accubuit primo Cepheia somno
libera iam duris cotibus Andromede;
nec minus assiduis Edonis fessa choreis
qualis in herboso concidit Apidano:
talis visa mihi mollem spirare quietem
Cynthia consertis nixa caput manibus,
ebria cum multo traherem vestigia Baccho,
et quaterent sera nocte facem pueri.

Quale si giacque la donna di Cnosso, e la nave di Teseo svaniva, / sfinita e languida sulla spiaggia deserta, / e quale Andromeda, la figlia di Cefèo, al primo sonno / s’abbandonò, libera ormai dalle aguzze scogliere; / e quale la Baccante, stanca della corda assidua, /crolla a terra sull’erboso Apidano, / così mi apparve nel calmo respiro del sonno / Cinzia, la testa poggiata sulle mani abbandonate, / mentre traevo i miei passi ebbri per il modo vino / e nella notte tarda i servi agitavano le torce.

Qui i riferimenti mitologici sono ad Arianna, Andromeda e ad una Baccante: figure che “nobilitano” la figura della donna dormiente, sollevandola in un’atmosfera rarefatta, in cui il poeta sembra perdersi. Ma il suo perdersi è dettato anche dal suo vile atteggiamento, d’uomo ebbro e quindi terreno, che fa da contrappasso e meglio sottolinea l’area sognante dell’immagine. C’è infatti in Properzio una capacità di tratteggiare con pochi tratti delle poeticissime immagini, che talvolta si collegano in modo ardito con il resto del testo e rendono i testi properziani talvolta complessi.

Altro elemento assai presente nella poesia di Properzio è il “soggettivismo” che meglio appare laddove esso si sposa quasi “romanticamente” con la forza e la crudeltà della natura:

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LA SOLITUDINE DEL POETA
(I, 17 vv. 1-18)

Et merito, quoniam potui fugisse puellam,
nunc ego desertas alloquor alcyonas.
Nec mihi Cassiope salvam visura carinam
omniaque ingrato litore vota cadent.
Quin etiam absenti prosunt tibi, Cynthia, venti:
aspice, quam saevas increpat aura minas.
Nullane placatae veniet fortuna procellae?
Haecine parva meum funus harena teget?
Tu tamen in melius saevas converte querelas:
sat tibi sit poenae nox et iniqua vada.
An poteris siccis mea fata reponere ocellis,
ossaque nulla tuo nostra tenere sinu?
A pereat, quicumque rates et vela paravit
Primus et invito gurgite fecit iter.
Nonne fuit melius dominae pervincere mores
(quamvis dura, tamen rara puella fuit),
quam sic ignotis circumdata litora silvis
cernere et optatos quaerere Tyndaridas?

E proprio perché ebbi l’animo di abbandonare /  la fanciulla, ora io parlo ai solitari alcioni. /  Né Cassipea vedrà più la mia nave intatta / mentre ogni presagio si dissolve sul lido inospitale. / Persino i venti sono favorevoli a te, lontana, o Cinzia: / osserva come l’aria risuona di funeste minacce! / Nessuna buona sorte verrà a placare la tempesta? / Questa minuscola sabbia coprirà il mio cadavere? / Tu tuttavia addolcisci i severi lamenti: / ti basti una notte di tormento e un mare avverso. / Avrai forse il coraggio di seppellire il mio corpo con occhi / asciutti, senza stringere nel tuo seno alcun mio osso? / Ah! Perisca chi per primo ha inventato le navi / e le vele, ed ha attraversato l’infido mare! / Non sarebbe stato meglio domare le abitudini della signora / (benché crudele, tuttavia fu rara fanciulla) / piuttosto che scrutare i lidi accerchiati da boschi sconosciuti / e ricercare nel cielo i desiderati figli di Tindaro?

E questo un frammento che rappresenta una sensibilità che più s’avvicina al gusto “moderno”: Cinzia per un suo tradimento lo ha abbandonato in un luogo deserto, dove non può che rapportarsi con gli alcioni solitari.  Ma, come spesso accade nella sua poesia, la solitudine s’accompagna al pensiero di morte. Interessante da un punto di vista stilistico e l’incipit con la congiunzione Et, come a voler correlare i suoi versi con un suo precedente discorso fatto tra sé e sé: da qui il tono “emotivo” dell’intero passo.

Ma è altrettanto famoso e moderno è l’atteggiamento di gelosia che Properzio illustra con grande capacità poetica:

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LA GELOSIA DEL POETA
(I, 11)

Ecquid te mediis cessantem, Cynthia, Baiis,
qua iacet Herculeis semita litoribus,
et modo Thesproti mirantem subdita regno
proxima Misenis aequora nobilibus,
nostri cura subit memores adducere noctes?
ecquis in extremo restat amore locus?
an te nescio quis simulatis ignibus hostis
sustulit e nostris, Cynthia, carminibus,
ut solet amota labi custode puella,
perfida communis nec meminisse deos?
atque utinam mage te remis confisa minutis
parvula Lucrina cumba moretur aqua,
aut teneat clausam tenui Teuthrantis in unda
alternae facilis cedere lympha manu,
quam vacet alterius blandos audire susurros
molliter in tacito litore compositam!
non quia perspecta non es mihi cognita fama,
sed quod in hac omnis parte timetur amor.
ignosces igitur, si quid tibi triste libelli
attulerint nostri: culpa timoris erit.
ah mihi non maior carae custodia matris
aut sine te vitae cura sit ulla meae!
tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes,
omnia tu nostrae tempora laetitiae.
seu tristis veniam seu contra laetus amicis,
quicquid ero, dicam ‘Cynthia causa fuit.’
tu modo quam primum corruptas desere Baias:
multis ista dabunt litora discidium,
litora quae fuerunt castis inimica puellis:
ah pereant Baiae, crimen amoris, aquae!

Mentre tu indugi, Cinzia, negli ozi di Baia, / là, dove lungo la riva d’Ercole s’adagia un sentiero, / e contempli quel mare che toccava il regno di Tesproto / e ora è vicino al nobile Miseno, / sorge per te un pensiero per me, che trascorro memori notti? / Resta all’estremo bordo dell’amor tuo uno spazio per me? / O un Non-so-chi, mio rivale, con simulati affetti, / ti ha già strappata, Cinzia, ai nostri canti? / Oh se piuttosto, fidando negli esili remi, / ti trattenessi in piccioletta barca sul lago di Lucrino, / o te tenesse prigioniera nell’onda lieve di Teutrante / la corrente, che facile asseconda il moto alterno delle braccia, / piuttosto che permetterti di udire i suadenti sussurri d’un altro, / mollemente adagiata sulla silente riva! / Così, se nessuno la sorveglia, la donna s’abbandona, / pronta a tradire, né più rammenta i fedeli giuramenti: / non perché mi è ignota la tua specchiata fama, io parlo, / ma perché in questa terra ogni amore è in pericolo. / Tu mi perdonerai, se una punta di tristezza / ti verrà dai miei versi: è colpa del timore. / Conta di più, per me, la cura di una madre amata? / Senza di te, ha senso la mia vita? / Tu sola sei la mia casa, Cinzia, tu sola i parenti, / tu sola gli istanti della mia letizia. / Se intristito verrò tra i miei amici, oppure lieto, / comunque sia, sempre dirò: «La causa è stata Cinzia». / Ma tu abbandona, e subito, questa corrotta Baia: / per molti questa spiaggia sarà la causa dell’addio, / questa spiaggia, da sempre nemica alle oneste fanciulle: / alla malora le acque di Baia, infamia dell’Amore!

Baia era una città termale, famosa per la vita dissoluta che vi si conduceva: Properzio è trepidante per teme che qui la sua donna, attratta dalle facili tentazioni, possa tradirlo. E’ diventato anche questo passo un “archetipo” della poesia erotica, ripreso ad esempio, da Boccaccio nelle sue Rime. Ma quello che qui più fortemente emerge è la paura per il mancato rispetto degli dei del comune amore: cioè, ci troviamo quasi in campo catulliano, dove l’amore è foedus et fides, a sottolineare l’importanza della lirica catulliana nell’esperienza elegiaca.

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Il secondo libro, pubblicato nel 25 a. C. o insieme al terzo nel 22 a.C., è composto da 34 elegie, che rispecchiano il mutamento avvenuto nella vita e nella posizione di Properzio rispetto al clima culturale romano.  Infatti il successo del monòbiblos aveva fatto avvicinare il poeta umbro agli ambienti ufficiali augusteo, diventando un protetto di Mecenate. Ne sono testimonianza la prima elegia, in cui Properzio si rivolge a Mecenate, proclamando la sua inadattabilità a percorrere le strade dell’epica:

LA RECUSATIO
(II, 1)

…..
sed neque Phlegraeos Iovis Enceladique tumultus
intonet angusto pectore Callimachus,
nec mea conveniunt duro praecordia versu,
Caesaris in Phrygios condere nomen avos.
navita de ventis, de tauris narrat arator,
enumerat miles vulnera, pastor ovis;
nos contra angusto versantes proelia lecto:
qua pote quisque, in ea conterat arte diem.

Ma le battaglie flegree di Encelado e di Giove / non potrebbe intonare Callimaco col suo corto respiro, / non si addice alla mia vena celebrare col duro verso dell’epica / la gloria di Cesare, fino ai suoi avi frigi. / I venti racconta il nocchiero, e l’aratore i buoi; / il soldato enumera le ferite, il pastore le pecore; / io, le battaglie che si combattono in un letto angusto: / impieghi ciascuno la sua giornata nell’arte che conosce.

E’ questa la “recusatio” che l’intellettuale Properzio rivolge a Mecenate e di conseguenza ad Augusto sulla poesia celebrativa, che, certamente non può essere né elegiaca, né, per conseguenza, erotica. Tale affermazione trova la sua forza nel sottolineare come il suo poeta di riferimento sia Callimaco, dal “corto respiro”. Ciò significa una poesia dotta, raffinata, con arditi passaggi (che in questo libro si amplificano) che chiedono più che disposizione emotiva, capacità critica da parte del lettore. Infatti non bisogna dimenticare che dietro l’apparente “disimpegno” vi è un profondo labor limae con cui Properzio cerca di raggiungere la perfezione stilistica.

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L’anfiteatro augusteo

Come abbiamo visto nell’elegia precedente i riferimenti alla corte augustea non mancano, foss’anche per recusare l’impegno epico, ma anche per ringraziare Augusto che, abolendo la legge contraria al celibato, non obbliga Properzio a lasciare la sua amata Cinzia, che sarà ancora la protagonista di questo libro. Infatti in questo secondo libro troviamo ancora la sua presenza, con i suoi amori, rifiuti e abbandoni, ma troviamo anche un’esaltazione all’operato di Augusto attraverso la figura retorica della preterizione sempre nella prima egloga ed una poesia d’occasione riguardante l’inaugurazione del portico intorno al tempio palatino.

Il terzo libro, è pubblicato nel 22 a.C. ed è composto da 25 elegie: l’elemento erotico è fortemente ridimensionato, ed anche il poeta dà l’addio alla donna amata, l’abbandono definitivo, il discidium appunto non solo verso Cinzia, ma verso quello che lei ha rappresentato: la poesia d’amore.

DISCIDIUM
(III, 25)

Risus eram positis inter convivia mensis
et de me poterat quilibet esse loquax.
Quinque tibi potui servire fideliter annos:
ungue meam morso saepe querere fidem.
Nil moveor lacrimis: ista sum captus ab arte;
semper ab insidiis, Cynthia, flere soles.
Flebo ego discendens, sed fletum iniuria vincit:
tu bene conveniens non sine ire iugum.
Limina iam nostris valeant lacrimantia verbis,
nec tamen irata ianua fracta manu.
At te celatis aetas gravis urgeat annis
et veniat formae ruga sinistra tuae!
Vellere tum cupias albos a stirpe capillos,
a! speculo rugas increpitante tibi,
exclusa inque vicem fastus patiare superbos
et quae fecisti facta queraris anus!
Has tibi fatales cecinit mea pagina diras:
eventum formae disce timere tuae!

Ero oggetto di riso nei conviti, davanti a tavole imbandite /  ogni pettegolo poteva dire tutto di me. / Per cinque anni ho potuto farti da schiavo fedele: / rimpiangerai questa mia fedeltà, mordendoti le unghie. / Alle lacrime non mi non mi commuovo: queste tue arti mi vinsero una volta; / tu, Cinzia, piangi solo per prendere in trappola. / Io piangerò nel lasciarti, ma l’offesa è superiore al pianto: / tu non vuoi che procediamo al giogo, che a noi due ben s’adattava. / Addio, soglia piangente per le mie parole, / e tuttavia la tua porta non fu mai colpita dalla mia mano irata. / Tu nascondi gli anni, ma che l’età incomba grave su te, / e giunga alla tua bellezza una ruga funesta! / Che ti venga la voglia di strappar dalla radice i capelli bianchi, / ma che lo specchio, ahimé, ti additi implacabile le rughe, / che tu respinta, soffra gli orgogliosi disdegni / e da vecchia ti dolga di subire quello che hai fatto agli altri! / Queste fatali imprecazioni cantano a te i miei versi: / impara a paventare la fine della tua bellezza!

Ricordiamo infatti che in questo libro il nome della donna è citato soltanto per tre volte. Il resto delle elegie, alcune di carattere celebrativo verso Augusto, insistono sulla poetica properziana, il suo preferire la poesia alessandrina e Callimaco alla poesia epica. Altre ancora affrontano temi diatribici, quali il rifiuto delle ricchezze, l’avidità causa di guerra, la filosofia come studio per la maturità e via dicendo (la diàtriba era una forma di conversazione o conferenza di contenuto filosofico, diretta dagli antichi filosofi a un pubblico non specialistico quindi di tono più popolare e rivolta con preferenza a questioni etiche).

Estremamente più impegnativo è il quarto libro, pubblicato nel 15 a.C., comprendendo solo 11 elegie, che tuttavia hanno respiro più lungo di quelle dei libri precedenti.  Abbandonata definitivamente la poesia erotica e accettando la linea culturale di Mecenate, egli ora decide di raccontare gli aitìa (le cause) delle solennità romane (argomento che verrà ripreso nei Fasti di Ovidio); ben in 5 di queste elegie, chiamate Elegie Romane, immagina di accompagnare un hospes mostrandogli, in una specie di passeggiata archeologica, le umili origini della potenza romana contro lo splendore dell’oggi. Anche altre elegie, come quella dedicata a Cornelia, madre dei Gracchi, può rientrare in queste elegie, pur non avendo carattere eziologico.

Le altre sembrano non avere rapporto con questo gruppo di elegie: in una di esse si racconta un sogno del poeta che rivede Cinzia, l’ottava torna ai vecchi temi della gelosia dell’amata, le rimanente si soffermano su temi amorosi.

Esemplare fra l’elegie romane, e forse la più bella, è quella dedicata alla Rupe Tarpea, sita sul Campidoglio:

LA STORIA DI TARPEA
(IV, 4)

Tarpeium nemus et Tarpeiae turpe sepulcrum
fabor et antiqua limina capta Iovis.
Lucus erat felix hederoso conditus agro,
multaque nativis obstepit arbora aquis,
Silvani ramosa domus, quo dulcis ab aestu
fistula poturas ire iubebat ovis
hunc Tatius fontem vallo praecingit acerno,
fidaque suggesta castra coronat humo.
….
Hinc Tarpeia  deae fontem libavit: at illi
urgebat medium fictilis urna caput.
….
Vidit  harenosis Tatium proludere campis
pictaque per flavas armalevare iubas.
Obstupuit regis faciet et regalibus armis,
interque oblitas exciditis urna manus.

La selva tarpea e di Tarpea l’infame sepolcro /  dirò, e la conquista dell’antico tempio di Giove. / C’era un bosco rigoglioso, celato in un anfratto ricco d’edera, / alberi fitti mormoravano con l’acque di una fonte, / ramosa dimora di Silvano, dove dolce la zampogna / invitava all’abbeverata le greggi, lungi dalla calura. / Questa fonte Tazio cinge d’un vallo d’aceri, / e la circonda con un argine di terra, per renderla sicura. / ….. / Da quella fonte, Tarpea attinse l’acqua per liberare alla dea / Le pesava sul capi un’anfora d’argilla. /….. / Vide Tazio addestrarsi sul terreno sabbioso, / sopra la fulva criniera del cavallo brandire le armi dipinte. / Rimase colpita dall’aspetto del re e dalle armi regali, / e l’anfora le cadde dalle mani obliose.

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Tarpea gettata dalla rupe

Tarpea con preghiere cerca d’allontanare i pericoli dal re Sabino, e così piange:

«Ignes castrorum et Tatiae praetoria turmae
et formosa oculis arma Sabina meis,
o utinam ad vestros sedeam captiva Penatis,
dum captiva mei consipcer esse Tati!
Romani montes, et montibus addita Roma,
et valeat probo Vesta pudenda meo:
ille equus, ille meos in castra reponet amores,
cui Tatius dextras collocas ipse iubas!…»

O fuochi del campo nemico, o tende della schiera di Tazio, / o belle agli occhi miei armi sabine, / oh se prigioniera sedessi davanti ai vostri Penati, / purché prigioniera del mio Tazio! / Addio, colli romani, e tu, che sui colli sorgi, addio, / addio Vesta, che del mio fallo dovrai arrossire: / quel cavallo riporterà nel suo campo il mio amore, quello / a  cui Tazio riporta a destra la fulva criniera.

Ella si offre, come riscatto per il “ratto delle Sabine” e prosegue nel suo sogno; e proprio mentre sta per addormentarsi, la dea Vesta, tradita dalla sua vestale, le prepara la fine. E’ festa in città e Romolo ordina alle guardie di riposarsi. Tarpea. Allora, apre le porte al nemico, in pegno dell’amore del re Sabino. Il quale così, infine, la ripagò:

«Nube» ait  «et regni scande cubile mei!»
dixit,  et ingestis comitum super obruit armis.
Haec, virgo officiis dos erat apta tuis.

«Sii la mia sposa» dice «e ascendi il talami mio!». / Disse, e la fece coprire con le armi ammicchiate dei compagni. / Era questa, o vergine, la dote conveniente ai tuoi servigi.

Questa elegia ci offre il destro per far capire esattamente come venivano sviluppate tali elegie: nella prima parte si invita il lettore a conoscere il perché e come è nato un particolare luogo o monumento e quale sia l’origine del suo nome. Quindi procede con la storia di esso, ricca di riferimenti mitici ed archeologici.

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L’uccisione di Tarpea

In questa elegia, tuttavia, prevale ciò che più gli è congeniale: la poesia d’amore. Infatti più che interessargli il luogo in sé, le falde del Campidoglio, è l’ambigua storia d’amore: certo Tarpea è colpevole di aver tradito la patria, ma se colpa c’è stata, questa è dovuta al furor d’amore che l’ha conquistata. Infatti il modo in cui chiude l’elegia non è di facile interpretazione: iniusta sors quella di Tarpea; un vero Romano l’avrebbe definita iusta, colpita “giustamente”, per il suo tradimento verso la patria, ma si potrebbe definire anche “ingiusta”, perché vittima di un altrettanto tradimento, quello di Tazio, che ha approfittato della debolezza della donna, ma soprattutto perché vittima d’amore.

Quello che occorre ancora sottolineare è che la poesia di Properzio ha avuto maggiore importanza per la letteratura contemporanea (ci piace pensare a Thomas Ernst Pound  autore di tradimenti/rifacimenti tratti dal secondo e terzo libro delle elegia properziane); ciò non toglie che, nel leggere il poeta umbro dobbiamo liberarci dallo schermo “romantico” che tende ad identificare vita e poesia; qui forse l’identificazione è da trovare a membri opposti poesia e vita: per Properzio tutto ciò che vive viene “tradotto” poeticamente, in una letteratura fatta a sua volta di tutti i poeti che lo hanno preceduto: per questo la sua poesia è così ricca di riferimenti e di trapassi arditi: è infatti poesia pura.

 

 

 

 

ALBIO TIBULLO

Tibullus.jpgAlma Tadema (1836 – 1912): Albio Tibullo alla casa di Delia

Tibullo non è certamente considerato un grande poeta latino, forse neanche nell’ambito della poesia elegiaca; infatti a lui molti preferiscono la poesia di Properzio. Forse è proprio la sua malinconia a non essere pienamente accettata, anche se certamente essa può costituire un antico germe della sensibilità romantica.

Biografia

Pochissime le notizie biografiche di Albio Tibullo, tanto da non conoscere neanche il suo praenomen. Sembra che nacque da famiglia equestre tra il 55 e il 50 a.C, ma non si conosce il luogo preciso (si pensa il Lazio). Fu presumibilmente un giovane ricco e di bell’aspetto, secondo la testimonianza coeva di Orazio; legatosi a Messalla Corvino, partecipò a due campagne militari. La sua morte, avvenuta in giovane età, viene cantata da Ovidio e dovette avvenire tra il 19 e il 18 a. C.

Apoteosis_de_Claudio_(Museo_del_Prado_E-225)_01.jpgUrna cineraria di Messalla Corvino

Corpus Tibullianum

Con il Corpus Tibullianum intendiamo una raccolta giuntaci dagli antichi in cui si raccoglievano tre libri di elegie d’autori diversi, in seguito, ulteriormente suddiviso in età umanistica in quattro libri. Sicuramente i primi due libri di tale corpus appartengono a Tibullo.

Il primo libro è composto da dieci elegie di cui cinque dedicate a Delia (nome fittizio cui si nasconderebbe la reale Plania), tre a Marato (giovinetto), una per il compleanno di Messalla e una d’esaltazione della pace e della vita agreste.

13491060080.jpgEdizione del 1943 del Corpus Tibullianum

Dal numero delle elegie dedicate a Delia, comprendiamo come la figura di questa donna rappresenti il tema unificante di questo libro:

L’AMORE TOTALIZZANTE PER DELIA
(I, 1 vv. 45 – 58)

Quam iuvat inmites ventos audire cubantem
et dominam tenero continuisse sinu
aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster,
securum somnos igne iuvante sequi.
Hoc mihi contingat. Sit dives iure, furorem
qui maris et tristes ferre potest pluvias.
O quantum est auri pereat potiusque smaragdi,
quam fleat ob nostras ulla puella vias.
Te bellare decet terra, Messalla, marique,
ut domus hostiles praeferat exuvias;
me retinent vinctum formosae vincla puellae,
et sedeo duras ianitor ante fores.
Non ego laudari curo, mea Delia; tecum
dum modo sim, quaeso segnis inersque vocer

Quanto è piacevole, mentre si è a letto, ascoltare il soffio impetuoso dei venti e abbracciare teneramente la donna amata, o quando l’Austro invernale porta scrosci di gelida pioggia, lasciarsi andare serenamente al sonno, accompagnati dallo scoppiettante fuoco! Questo vorrei per me: sia ricco giustamente chi è in grado di sopportare la furia del mare e piogge funeste. Vadano pure in malore oro e smeraldi, piuttosto che una fanciulla pianga per la mia partenza. Per te, Messalla è naturale combattere per terra e per mare, in modo che la tua casa ostenti spoglie nemiche; io sono prigioniero di una bella ragazza e sto seduto, come un portiere, davanti a porte inclementi. Delia mia, non m’interessano le lodi degli altri; se posso starti vicino, mi sia dia pure del pigro e del fannullone.

Già dalla prima elegia troviamo, al centro, il topos dell’amore totalizzante, che si raffigura nell’immagine rassicurante di un abbraccio all’interno di una casa rustica, foriera di pace e tranquillità, contrapponendosi alla vita militare, qui rappresentata da Messalla, non mosso dall’ambizione, ma dalla gloria militare (motivo encomiastico). E già dalla prima elegia, si può notare come in Tibullo la vita privata sia preferita a quella pubblica, come, in altre parole l’otium sia il desiderio di una scelta, contraria all’impegno morale e poetico che l’appena conquistata pax augustea proponeva (la prima elegia viene pubblicata più o meno nello stesso periodo in cui Ottaviano assume il nome di Augustus.

LA REALIZZAZIONE DEL SOGNO D’AMORE
(I, 5 vv. 21 – 24; 27 – 32)

Rura colam, frugumque aderit mea Delia custos,
area dum messessole calente feret,
aut mihi servabit plenis in lintribus uvas
pressaque veloci candida musta pede

Illa deo sciet agricolae pro vitibus uvam,
pro segete spicas, pro grege ferre dapem.
Illa regat cunctos, illi sint omnia curae,
at iuvet in tota me nihil esse domo.
Huc veniet Messalla meus, cui dulcia poma
Delia selectis detrahat arboribus;

Coltiverò i campi e la mia Delia mi starà vicina, stando attenta alle messi, mentre sotto la calura del giorno, si trebbierà i grano nell’aia; oppure mi custodirà l’uva nei timi ricolmi, il limpido mosto spremuto agilmente  coi piedi (…) Imparerà a offrire al dio dei campi l’uva per le viti, le spighe per le messi e il cibo per il gregge. Lei controlli l’operato di tutti, di tutto si occupi, e io sia ben felice di non contar niente in casa. Qui verrà il mio caro Messalla e Deloia colga per lui dolci frutti dagli alberi.

donneromane.jpgDonne romane

E’ questa l’elegia del tradimento, altro elemento topico della poesia elegiaca, in cui Delia preferisce al poeta un uomo ricco. Dopo la delusione/disperazione per l’abbandono, si rifugia nella tranquillità della vita rustica, ma il pensiero di lei torna ad ossessionarlo ed egli la vorrebbe vedere, appunto come testimoniano questi pochi versi, come uxor a fianco del suo vir, negli atteggiamenti femminilmente domestici, tanto in essi da poter apparire allo stesso Messala, cui può apparecchiare la mensa. E’ evidente anche qui l’impossibilità da parte del poeta di realizzare il sogno soprattutto per l’evidente contraddizione tra la figura virtuosa di una “moglie” e la cortigiana Delia che, al di là di ogni fatto autobiografico, ci dice come la poesia elegiaca abbia subito l’importante influenza di Catullo.

L’AMORE DIVENTA ETICA
(I, 2 vv. 67-76)

Ferreus ille fuit, qui, te cum posset habere,
maluerit praedas stultus et arma sequi.
Ille licet Cilicum victas agat ante catervas,
ponat et in capto Martia castra solo,
totus et argento contextus, totus et auro
insideat celeri conspiciendis equo,
ipse boves mea si tecum modo Delia possim
iungere et in solio pascere monte pecus,
et te, dum liceat, tenere retinere lacertis,
mollis et inculta sit mihi somnus humo.

Cuore di ferro fu colui che, pur potendoti avere, preferì, sciocco, star dietro ad armi e bottini. Spinga pure dietro a sé  le schiere sopraffate dei Cilici, e faccia pure l’accampamento marziale del suolo conquistato e, rivestito interamente d’oro e d’argento, cavalchi un veloce destriero, facendosi notare da tutti. Per quanto mi riguarda, Delia mia, se solo potessi aggiogare i buoi avendoti vicina, e pascolare il gregge sul monte di sempre, dolce sarebbe per me dormire anche sull’arida terra, pur di poterti stringere a me teneramente.

Anche in questo passo Tibullo ripropone, come nelle altre elegie, il valore della vita rustica rispetto a quella della città che assume però, qui, una vera e propria valenza etica nella quale si sottolinea con forza la paupertas di contro alle divitiae, che la vita militare e la città offrono. Valore che si commisura, pertanto, in sottrazione piuttosto che in quelle virtù che Augusto propugnava per rinforzare il mos maiorum; il valore della campagna, già visto anche nelle Georgiche virgiliane non assume certamente una “valenza politica”, quanto piuttosto una scelta “singolare” che sembra corrispondere più al λάθε βιώσας, lathe biosas (vivi nascosto) d’epicurea memoria.

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Carlo Gioja: Campagna romana (XIX sec.)

SCHIAVO D’AMORE
(1, 2 vv. 29-34)

Quisquis amore tenetur, eat tutusque sacerque
qualibet: insidias timuisse decet.
Non mihi pigra nocent hibernae frigora noctis,
non mihi, cum multa decidit imber aqua.
Non labor hic laedit, reseret modo Delia postes
et vocet ad digiti me taciturna sonum.

Chi è ostaggio d’amore vada pure dove vuole, sicuro e inviolabile; non deve temere insidie. Non mi fa male il gelo paralizzante di una notte d’inverno, né i rovesci d’acqua piovana. Non è questa fatica a nuocermi, purché Delia apra la porta e mi chiami facendo schioccare le dita, senza dire parola.

E’ questo il cosiddetto “servitium amoris”, in cui l’uomo innamorato segue fedelmente, pedissequamente la volontà della donna amata. Egli è schiavo; basta, come dice il testo, un semplice schiocco di dita per farlo accorrere. Quanto è lontano anche qui, il poeta Tibullo, dall’uomo integerrimo, virtuoso ma determinato (si veda Enea, pur con le sue complessità, come riesce a star fermo di fronte alla disperazione di Didone), che l’ideologia imperante cercava o cercherà di lì a qualche anno  di rendere fattiva.

LA SOFFERENZA PER IL TRADIMENTO
(1, 5 vv. 16-20)

Omnia persolvi: fruitur nunc alter amore,
et precibus felix utitur ille meis.
At mihi felicem vitam, si salva fuisses,
fingebam demens, sed renuente deo.

Ho compito tutti i rituali: ora un altro gode del tuo amore e, beato, è lui che raccoglie il frutto delle mie preghiere. E io che, pazzo com’ero, m’immaginavo una vita felice, se fossi guarita; ma la divinità s’opponeva.

Altri elementi della poesia elegiaca rientrano nella lirica tibulliana: non possiamo dimenticare il paraklaysìthyron (lamento presso la porta chiusa) e il tradimento. Anch’esso può avere ascendenze catulliane, ma è descritto in modo estremamente più distaccato, senza quasi possibilità, in obbedienza, come si è detto, al genere più che al vissuto (non vuol dire che non ci sia la possibilità che non ci stato, ma che, anche se l’abbia vissuto, fosse filtrato letterariamente).

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DISTACCO
(1, 5 vv. 1-4)

Asper eram et bene discidium me ferre loquebar

at mihi nunc longe gloria fortis abest.
Namque agor ut per plana citus sola verbere turben,
quem celer adsueta versat ab arte puer.

Fui duro con te, dissi che avrei sopportato senza problemi il distacco, ma ora la presunzione di esser forte mi ha abbandonato. Mi trascino come una trottola che gira su un terreno piano sollecitata dalla sferza di un fanciullo veloce ed esperto.

Ed ecco la parola con cui la poesia elegiaca pone fine ad una storia d’amore: discidium, distacco separazione. Qui viene posta nella V elegia da parte di Tibullo e rappresenta, almeno sul piano poetico, la fine che che verrà mostrata nell’elegia successiva,  con il quale si esplicita il tradimento di Delia verso il marito con Tibullo  e quindi con la precettistica del tradimento, in cui a sua volta egli è caduto.

Nel 1 libro, come già detto, il romanzo per Delia è il nucleo centrale, ad esso si accompagna, rispettando tuttavia i topoi di una storia d’amore, la figura di Marato:

IL “DISCIDIUM” DA MARATO
(1, 9 vv. 39-56)

Quid faciam, nisi et ipse fores in amore puellae?
Sed precor exemplo sit levis illa tuo.
O quotiens, verbis ne quisquam conscius esset,
ipsa comes multa lumina nocte tuli!
Saepe insperanti venit tibi munere nostro
et latuit clausas post adoperta fores.
Tum miseri interii, stulte confisus amari:
nam poteram ad laqueos cautior esse tuos.
Quin etiam adtonita laudes tibi mente canebam,
et me nunc nostri Pieridumque pudet.
Illa velim rapida Volcanus carmina flamma
torreat et liquida deleat amnis aqua.
Tu procul hinc absis, cui formam vendere cura est
et pretium plena grande referre manu.
At te, qui puerum donis corrumpere es ausus,
rideat adsiduis uxor inulta dolis,
et cum furtivo iuvinem lassaverit usu,
tecum interposita languida veste cubet.

Che mai farei, se anche tu non ti fossi innamorato di una fanciulla? Mi auguro che, sul tuo esempio, sia frivola anche lei. Quante volte, perché nessuno conoscesse i vostri segreti, portandoti il lume, nel buio della notte ti sono stato io stesso compagno! Grazie a me, quando più non lo speravi, quante volte è venuta lei da te, nascondendosi, col capo velato, dietro i battenti della porta! Allora, sventurato, mi sono perduto, fidando ciecamente d’essere riamato: davanti ai tuoi lacci, potevo almeno usare cautela maggiore. Invece, con la mente ottenebrata, cantavo le sue lodi, e per me, per le Pièridi ora provo vergogna. Come vorrei che Vulcano bruciasse nell’impeto della fiamma quei canti e la corrente di un fiume li cancellasse. Tu, che pensi di vendere la tua bellezza e di ricavarne a piene mani un gran prezzo, sta’ lontano di qui. E di te invece, che con doni hai osato corrompere il ragazzo, rida senza rischi tua moglie tradendoti continuamente, e dopo aver sfiancato un giovane in amplessi furtivi, giaccia spossata con te, ponendo tra voi la veste.

913b8b8a37020d50a5e30e53c5bcb05e.jpgEfebo nel museo archeologico di Istanbul

A questo giovane Tibullo dedica tre elegie, la IV, l’VIII e la IX ognuna di esse con un aspetto simile a quello per l’amore per Delia: l’innamoramento nella prima, con l’intervento del dio Priapo che insegna al poeta l'”ars amandi” un ragazzo; la seconda in cui Tibullo scopre che il suo ragazzo si sia legato sentimentalmente ad una puella Fòloe e di come egli, pur soffrendo, non gli neghi tale possibilità, osservando come l’adulescens stia diventando un vir; la terza in cui avviene il distacco, non per l’amore eterosessuale ma perché Marato si è venduto per denaro ad un altro uomo.

Tibullo cioé pretende da lui quello che aveva preteso da Delia, foedus e la fides e là dove esso viene meno non può che esserci il discidium il distacco, la fine. Il fatto che i percorsi possono essere omologhi ci fa sospettare di un “alessandrinismo” poetico: già la poesia neoterica aveva parlato di amori omosessuali, quindi non è da escludere che Tibullo abbia ripreso un genere e così come per l’amore etero così per l’omo non neghiamo possa averlo realmente vissuto, ma in lui diventa forma e poesia.

Quindi l’amore è il nucleo intorno cui volge la poesia tibulliana nel primo libro. Tuttavia altri temi sono presenti, tra i quali ci piace citare quello della morte, sebbene anch’esso sia intrecciato con la sua principale storia d’amore:

IL VAGHEGGIAMENTO DELLA MORTE DURANTE LA MALATTIA
(1, 3 vv. 1-30)

Ibitis Aegaeas sine me, Messalla, per undas,
o utinam memores ipse cohorsque mei.
Me tenet ignotis aegrum Phaeacia terris.
Abstineas auidas, Mors, modo, nigra, manus;
abstineas, Mors atra, precor: non hic mihi mater
quae legat in maestos ossa perusta sinus,
non soror, Assyrios cineri quae dedat odores
et fleat effusis ante sepulcra comis,
Delia non usquam, quae, me cum mitteret urbe,
dicitur ante omnes consuluisse deos;
illa sacras pueri sortes ter sustulit: illi
rettulit e triviis omnia certa puer;
cuncta dabant reditus: tamen est deterrita numquam
quin fleret nostras respiceretque vias.
Ipse ego solator, cum jam mandata dedissem,
quaerebam tardas anxius usque moras;
aut ego sum causatus aves aut omina dira
Saturnive sacram me tenuisse diem.
O quotiens ingressus iter mihi tristia dixi
offensum in porta signa dedisse pedem!
Audeat invito ne quis discedere Amore,
aut sciat egressum se prohibente deo.
Quid tua nunc Isis mihi, Delia, quid mihi prosunt
illa tua totiens aera repulsa manu,
quidve, pie dum sacra colis, pureque lavari
te, memini, et puro secubuisse toro?
Nunc, dea, nunc succurre mihi nam posse mederi
picta docet templis multa tabella tuis, 

ut mea votivas persolvens Delia voces
ante sacras lino tecta fores sedeat
bisque die resoluta comas tibi dicere laudes
insignis turba debeat in Pharia.

Senza di me attraverserete le onde egee, Messalla, ma, che dio lo voglia, tu e la tua schiera di uomini lo farete almeno nel mio ricordo. Il paese dei Feaci mi trattiene, ammalato, in terre ignote; o Morte oscura, allontana da me la brama delle tue mani. Allontana, ti scongiuro, o Morte fosca: non ho qui una madre, che nella sua veste componga tristemente le mie ossa bruciate, né una sorella, che asperga le ceneri di profumi assiri e pianga davanti alla tomba con i capelli sciolti; in nessun luogo ho Delia, che si dice abbia consultato in precedenza tutti gli dei, al momento della mia partenza dalla città. Per tre volte tirò a sorte le tavolette sacre portate da un ragazzo; e per tre volte il fanciullo le dette risposte sicure. Tutto faceva presagire il mio ritorno: ma non smise mai di piangere e di pensare al mio ritorno con ansia. E io che la consolavo, pur avendo già dato gli ordini, preda dall’angoscia cercavo sempre nuove scuse per attardarmi. Ho tirato fuori come pretesto il fatto che mi avevano trattenuto gli auspici degli uccelli, o tristi premonizioni o il giorno sacro a Saturno. Quante volte, dopo essermi incamminato, ho detto che inciampando  sulla porta avevo avuto un cattivo presagio. Nessuno osi allontanarsi contro la volontà di Amore, o sappia di esser partito nonostante il veto del dio. E ora, Delia mia, a che mi serve la tua Iside, o sistri di bronzo che la tua mano tante volte ha percosso; e il tuo bagnarti in acqua pura, mentre ti attendevi pianamente al sacro rito – ben lo ricordo – e il tuo dormire in un letto di casta solitudine? Ora, o dea,  ora aiutami, posso infatti guarire, come provano i numerosi quadri appesi nei tuoi templi; che la mia Delia, sciogliendo le promesse votive, sieda con vesti di lino davanti alle tue sacre porte e, con i capelli sciolti, sia costretta ad innalzare le tue lodi, brillando in mezzo alla folla faria.

Passo di duplice importanza: la prima sta soprattutto nel concetto di “morte compianta”, che verrà ripresa con altra forza e con valore civile dal Foscolo dei Sepolcri; l’altra, più incisiva ad indicare la “posizione” di Tibullo nei confronti del regime augusteo è la presenza di Iside. La religione egiziana era entrata a Roma nel primo secolo a. C. e si era diffusa soprattutto tra gli strati bassi della popolazione; a tale religione si riferiscono anche i sistri (strumenti di bronzo il cui suono accompagnavano i riti dedicati a Iside) ed il fatto che Delia dovrà emergere tra le donne farie, cioè egizie. Si è che proprio negli anni di Tibullo che Augusto cerca con forza di frenare un sincretismo religioso che mal si addice con la volontà di restaurare il mos maiorum con la devozione agli dei tradizionali che presiedono all’Urbe e ne garantiscono la forza. Anche quando Tibullo si riferisce agli dei tradizionali non sceglie mai gli ufficiali, quanto quelli familiari, i Lari e i Penati, a sottolineare un riferimento più familiare che sociale e solcando una linea, se pur debole, tra la cultura ufficiale e quella di Messalla.

Altro tema presente è quello dell’età dell’oro, riportato a seguito del precedente, anche se quello per cui va giustamente famoso è quello della pace:

800px-Rubens126.jpegRubens: Il tempio di Giano

INVETTIVA CONTRO LA GUERRA
(1, 10 vv. 1-14)

Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra
vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
haesura in nostro tela gerit latere.

Chi fu l’uomo che inventò le spade orrende? Quant’era feroce, e veramente di ferro! Allora nacquero per il genere umano le stragi e le guerre, e fu aperta alla morte una via più breve. O forse, pover’uomo, non ebbe colpa, e siamo noi a volgere al nostro male l’arma che lui ci diede contro le belve? E’ tutta colpa dell’oro: non c’erano guerre quando sulla mensa stavano coppe di faggio. Non c’erano fortezze né trincee, e il comandante del gregge prendeva sonno tranquillamente tra le sue pecore sparse. Fossi vissuto allora! Non avrei conosciuto le tristi armi del volgo, né sentito la tromba con animo trepido;ora mi trascinano alla guerra, e forse già qualche nemico porta le armi destinate a piantarsi nel mio fianco.

Risulta evidente che se il sogno di Tibullo è quello di vivere in campagna poveramente e tra le braccia della donna amata, tale utopia potrà avvenire solo con la pace. Non sono le armi a favorire la guerra, dice il poeta, ma l’oro, la brama di ricchezze a favorire la bellicosità tra gli uomini; il tema della pace, legato a quella della paupertas ci dà l’idea di come essa non sia solo un invito che ben può stare nell’alveo del progetto augusteo che si aveva in realtà chiuso le porte del tempio di Giano, ma una vera forza civilizzatrice il cui compito e quello di favorire la semplicità e l’amore.

Il secondo libro di Tibullo è composto da sei elegie, di cui ben tre diretti ad una donna, Nemesi (il cui significato dalla lingua greca è Vendetta), ancora sulla festa degli Ambarvalia (un’antica festa romana celebrata per purificare le messi e allontanare gli influssi cattivi), una per Cornuto e per Messalino.

sapho-icone.jpgRagazza che scrive

Il III libro, come detto, fu in età umanista diviso in due libri:

  • i primi sei sono firmati da un certo Ligdamo che riprende temi e situazioni tipicamente tibulliani; a questi fanno seguito un panegirico di Messalla, scritto intorno al 31 d.C. ed appare più una esercitazione di scuola che opera di un vero e proprio poeta;
  • Il IV è più interessante: certamente sono tibulliani le 5 brevi liriche, sempre in distico elegiaco, in cui si racconta l’amore di Sulpicia per Cerinto; 6 invece sono proprio a  nome di Sulpicia per Cerinto. Se fosse vera l’attribuzione di questi ultimi avremo l’esempio della prima poetessa latina di cui possediamo i testi.

SULPICIA: PROFESSIONE D’AMORE
(4, 7)

Tandem venit amor, qualem texisse pudori
quam nudasse alicui sit mihi fama magis.
Exorata meis illum Cytherea Camenis
adtulit in nostrum deposuitque sinum.
Exsoluit promissa Venus: mea gaudia narret,
dicetur siquis non habuisse sua.
Non ego signatis quicquam mandare tabellis,
ne legat id nemo quam meus ante, velim.
Sed peccasse iuvat, voltus conponere famae
taedet: cum digno digna fuisse ferar.

Finalmente è venuto l’amore e per me sarebbe più vergognoso averlo tenuto nascosto, anziché averne parlato con qualcuno. Commossa dalle suppliche delle mie Camene, Venere citerea l’ha portato da me e lo ha adagiato nel mio letto. Venere ha mantenuto la sua promessa: parli pure della mia felicità colui che ha fama di non averla mai provata. Io non vorrei affidare le mie parole a tavolette sigillate, perché nessuno deve leggerle prima del mio amato. Ma gioia è per me il peccato, sono stanca di recitare una parte di chiacchiere della gente: diranno che sono stata con un uomo degno di me e io di lui.

“Questa breve elegia di Sulpicia, la prima di quelle che costituiscono il suo piccolo canzoniere, è una vibrante professione d’amore, in cui la giovane dà espressione immediata alla sua gioia per la venuta dell’amore e la conquista dell’amato, una sorta di versione al femminile del topos dell’amator triumphans, ben attestato negli altri poeti elegiaci.” (Gian Biagio Conte)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ELEGIA LATINA

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L’elegia latina trova il suo massimo sviluppo durante l’età augustea e ne saranno autori, appunto, gli “elegiaci” Gallo (di cui non possediamo pressoché nulla) Tibullo e Properzio, nonché Ovidio, che pratica questo genere sia in gioventù con gli Amores che in età adulta con le Heroides. Di questo genere ci dice Quintiliano elegia quoque Graecos provocamus, anche l’elegia compete con i Greci.

L’origine latina dell’elegia

Questo ci dice che tale genere deriva da quello greco con alcune rilevanti differenze: pur conservando il metro originale, il distico elegiaco (unione d’esametro e di pentametro), l’elegia romana si caratterizza per il contenuto strettamente erotico, mentre l’ellenico contiene temi vari, fra cui anche il guerresco ed il moraleggiante.

Non sappiamo con certezza l’origine del nome, forse dal metro, in greco  elegòs cioè l’unione di due versi, qualcuno invece la fa derivare dallo strumento del flauto che accompagnava tale composizione, ma possono anche essere vere le due derivazioni; quello che appare è che lo stesso strumento non può che darci un senso di tristezza e di malinconia con cui ancora oggi ci si riferisce con questo termine.

1200px-Egitto_romano,_testa_forse_di_g._cornelio_gallo,_30_ac_ca.jpgBusto di Cornelio Gallo

Ad inaugurarlo sembra sia stato Cornelio Gallo, autore di un libro d’elegie Amores dedicato alla donna amata, Licoride, che dopo aver ottenuto l’incarico di pretore d’Egitto, cadde in disgrazia presso l’imperatore. Di lui non c’è rimasto pressoché nulla, ma sembra sia stato lui ad operare un cambiamento tematico rispetto al modello. Tale cambiamento va ricercato sia per la mutata condizione storica, che forse non permetteva argomenti direttamente “politici”, sia perché il tema erotico aveva avuto un’ottima tradizione latina.

Possiamo infatti, schematicamente, individuare i “precedenti” dell’elegia romana in:

  • L’elegia greca;
  • L’elemento soggettivo con Catullo ed i neoteroi;
  • L’elemento erotico-mitografico dell’epigramma alessandrino.

Temi dell’elegia romana

Se fra gli antecedenti troviamo la poesia catulliana è perché con essa l’elegia condivide l’estrema raffinatezza formale ed il gusto per l’otium, la vita estranea ad ogni impegno, la prevalenza della sfera privata su quella pubblica. Per questi poeti, quindi la poesia ha un forte carattere soggettivo, all’interno tuttavia di modalità ricorrenti al genere elegiaco che li allontanano dal biografismo puro.

William-Adolphe_Bouguereau_(1825-1905)_-_Elegy_(1899).jpgWilliam Adolphe Bouguereau (1825-1905):  Elegy (1899)

Tali modalità sono da ricercare soprattutto nell’esperienza d’amore, l’unica capace di riempire la vita di un uomo: attraverso essa l’uomo raggiunge l’aspirata autarkeia, cioè la piena autosufficienza. Essa si pone come servitium, rapporto di schiavitù verso la domina, che è sempre capricciosa e tendenzialmente traditrice (e quindi quanto più lontano dalla virtuosa uxor); ciò produce rari momenti di gioia e molti di dolore. Sembra tuttavia che ci sia infine una sorta di compiacimento nell’addolorarsi dell’infedeltà della donna amata e perciò i poeti spesso vagheggiano un’età felice o miti antichi raffiguranti amori illustri (è evidente qui la lezione dei poeti alessandrini e dei carmina docta di Catullo).

Se la vita si rifugia nella continua ricerca di un amore appagante con una donna dai facili costumi (si ricorda qui, per inciso, la Lesbia catulliana) tale vita si situa sotto il segno della nequitia, cioè una vita di dissipazione, nettamente contraria alla rivalutazione del mos maiorum che è l’asse portante della politica culturale augustea, soprattutto per il desiderio irraggiungibile di costituire, nell’irregolarità del rapporto, una regolarità “sociale” impossibile da realizzarsi. E’ proprio il giocare all’interno di questi due estremi che si situa la loro ricerca docta, che evita così di essere fine a stessa.

o-STATUA-VILLA-MESSALLA-facebook.jpgRitrovamento archeologico della villa di Messalla

Messalla  

E’ il personaggio intorno al quale fa perno la poesia elegiaca, almeno quelli che appaiono nel Corpus Tibullianum. Dapprima repubblicano, si spostò poi sulla linea augustea, arrivando ad ottenere incarichi anche importanti. Uomo certamente colto, volle a un certo punto della sua vita far ciò che faceva Mecenate con la differenza che, dietro a quest’ultimo vi era la figura del princeps. Ciò ha permesso di avere una posizione che se non d’opposizione, poteva avere una più sfumata autonomia.

NARRATIVA DECADENTE EUROPEA

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Le opere narrative di Pirandello e di Svevo s’inseriscono a buon diritto all’interno di una grande stagione letteraria che “ridisegna” il “raccontare” tipico ottocentesco e dà vita a soluzioni nuove, diversificate, ma tutte tese a ritrarre la crisi dell’uomo novecentesco. Per meglio dire, se tutti gli scrittori europei che qui menzioneremo si faranno interpreti delle nuove istanze che la storia offre (seconda industrializzazione, società di massa, perdita delle coordinate scientifiche fino ad allora imperanti, nascita del relativismo e della psicoanalisi) ognuno di loro le guarderà con occhio diverso, da un’angolazione propria e personale.

Opere in lingua tedesca

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Thomas Mann

Thomas Mann (1875 – 1955), insignito dal premio Nobel nel 1929, è uno dei più grandi interpreti del decadentismo; tale capacità deriva non soltanto dalla sua lunga attività, che va ben oltre la fine della seconda guerra mondiale, ma anche dal fatto che, fuggito dalla Germania hitleriana e rifugiatosi negli Stati Uniti, egli divenne il più attento critico verso ogni forma di violenza e di barbarie culturale. Egli lo fece mettendo al centro della sua produzione la decadenza della borghesia, del suo disfarsi e quindi arroccarsi su posizioni irrazionali e quindi aggressive o difensive (si pensi al nostro D’Annunzio o all’inglese Wilde). Questi temi saranno già presenti nella sua prima opera I Buddenbrook (1901) dove egli disegna la conflittualità presente tra i vecchi e i nuovi valori.

E’ la storia dell’ascesa e del declino di una famiglia della borghesia mercantile del sec. XIX, titolare a Lubecca di una ditta di cereali fondata  nel 1768. Attorno ai primogeniti di quattro generazioni, Johann “senior”, Johann-Jean “junior”, Thomas ed Hanno, si annoda la complessa vicenda di una folla di personaggi rappresentativi di diverso strati sociali. il romanzo si apre con un pranzo del vecchio Johann per inaugurare la nuova sede, uno splendido palazzo già appartenuto ai Ratenkamp. Le fortune della famiglia aumentano, Johann “junior” diventa console dei Paesi Bassi, Thomas senatore. Lo stesso Thomas acquista una nuova sede ancora più prestigiosa. Ma i germi della decadenza, dapprima presenti come inespresso male oscuro, diventano via via più evidenti. Il fratello minore di Thomas, Christian, che rappresenta l’irregolare della famiglia, finisce i suoi tormentati giorni in un sanatorio. La sorella maggiore, Tony, passa senza fortuna da un matrimonio all’altro. L’ultimo erede, Hanno, muore di tifo e con lui i Buddenbrook si estinguono.

Come appare già nella trama  il romanzo può essere diviso in due parti: nella prima che narra l’ascesa, vengono disegnati gli atteggiamenti vincenti, propositivi, ma tutti inseriti nel quadro di una limitatezza intellettuale, di un angustia dei principi, che non permette all’autore di aderire con simpatia verso i suoi personaggi. Nella seconda parte, quella dedicata alla decadenza, Thomas Mann disegna il groviglio delle nuove istanze (artistiche, edonistiche, irrazionali) che incarnano i nuovi Buddenbrook, che li rendono “estranei”, “diversi”, incapaci di reggere le sorti della famiglia.

Una delle pagine in cui meglio appare la parabola discendente è nella figura di Thomas Buddenbook, così come la leggiamo nel capitolo IV dell’ottavo libro:

LA CRISI DI THOMAS BUDDENBROOK

Rimasto solo, il senatore aveva ripreso il suo posto alla tavola, aveva tirato fuori il pince-nez e voluto proseguire nella lettura del suo giornale. Ma già dopo due minuti i suoi occhi s’erano sollevati dal foglio stampato, e senza mutare posizione egli era rimasto a fissare lungamente, dritto dinanzi a sé, tra le portiere, nel buio del salotto. Come si trasformava il suo viso, fino a divenire irriconoscibile, quando egli era solo! I muscoli della bocca e delle guance, altrimenti disciplinati e costretti all’obbedienza, al servizio di un’incessante sforzo di volontà, si allentavano, si afflosciavano; cadeva come una maschera da quel volto l’espressione vigile, avveduta, amabile ed energica che da lungo tempo era conservata solo artificiosamente, e lasciava il posto ai segni di una tormentosa stanchezza; gli occhi, rivolti con uno sguardo torbido e opaco su un oggetto senza vederlo, si arrossavano, cominciavano a lacrimare – e senza avere il coraggio per tentare d’ingannare ancora anche se stesso, egli, fra tutti i pensieri che pesanti, confusi e irrequieti gli riempivano la testa, riusciva a fermarne uno solo, disperato: che Thomas Buddenbrook a quarantadue anni era un uomo sfinito.
Lentamente, con un profondo sospiro, si passò la mano sulla fronte e sugli occhi, accese macchinalmente un’altra sigaretta, pur sapendo che gli faceva male, e attraverso il fumo continuò a guardare nel buio… Che contrasto fra il torpore dolente dei suoi lineamenti e la toilette elegante, quasi marziale, riserbata a quella testa – ai baffi profumati, lunghi e appuntiti, alla pelle perfettamente rasata del mento e delle guance, all’accurata pettinatura che nascondeva il più possibile l’incipiente calvizie alla sommità del capo e scopriva le tempie delicate in due rientranze piuttosto lunghe, con una scriminatura sottile, mentre sulle orecchie i capelli non erano più lunghi e arricciati come una volta, bensì tenuti cortissimi, affinché non si vedesse che là cominciavano a ingrigire… Egli stesso lo avvertiva, questo contrasto, e sapeva bene che fuori, in città, a nessuno poteva sfuggire la contraddizione fra la sua mobile, versatile attività, e lo spossato pallore della sua faccia.
Non che, là fuori, egli fosse minimamente divenuto una personalità non importante e indispensabile come in passato. Gli amici ripetevano, e gli avversari non potevano negare, che il borgomastro dottor Langhals aveva confermato a voce ancora più alta la dichiarazione del suo predecessore Oeverdieck: il senatore Buddenbrook era il braccio destro del borgomastro. Che però la ditta «Johann Buddenbrook» non fosse più quella di una volta, eh, questa sembrava una verità così nota a tutti che il signor Stuht della Glockengiesserstrasse poteva raccontarla a sua moglie, quando a mezzogiorno mangiavano insieme la zuppa di lardo… E Thomas Buddenbrook ne gemeva dentro.
Tuttavia era proprio lui che aveva soprattutto contribuito a far sorgere quell’opinione. Era ricco, e nessuna perdita subita, non esclusa quella pesante del ‘66, aveva potuto mettere seriamente in questione l’esistenza della ditta. Ma sebbene egli, ovviamente, continuasse a mettersi all’altezza dei doveri di rappresentanza e ad offrire dîners con il numero di portate che gli ospiti si aspettavano da lui, la convinzione che fortuna e successo per lui fossero finiti: convinzione che era più una verità interiore di quanto risultasse fondata sui fatti esterni, e che l’aveva gettato in uno stato di così sospettosa trepidazione da indurlo a cominciare come non mai a tener stretto il suo denaro e a risparmiare nella vita privata in modo quasi meschino.
Cento volte aveva maledetto la costosa costruzione della nuova casa che, egli sentiva, gli aveva portato soltanto disgrazie. I viaggi estivi furono aboliti, e il piccolo giardino di città dovette sostituire le villeggiature al mare o in montagna. I pasti che faceva con sua moglie e con il piccolo Hanno furono, per suo ripetuto e severo ordine, di una semplicità che risultava comica in contrasto con l’ampia sala da pranzo a parquet, con il suo alto e lussuoso soffitto e con gli splendidi mobili di quercia. Per parecchio tempo il dessert fu permesso solo alla domenica…
L’eleganza del suo abbigliamento rimase la stessa; ma Anton, il domestico da lunga data, sapeva e raccontava in cucina che adesso il senatore si cambiava solo ogni due giorni la camicia bianca, perché il bucato rovinava troppo la fine tela di lino… Sapeva anche dell’altro. Sapeva che sarebbe stato licenziato. Gerda protestò. Tre persone di servizio erano appena sufficienti per una casa così grande. Non servì a nulla: con una liquidazione adeguata, Anton, che per tanto tempo era stato seduto a cassetta quando Thomas Buddenbrook andava in senato, fu congedato.
A queste misure corrispondeva il ritmo sconsolato che avevano assunto gli affari. Non c’era più traccia dello spirito nuovo e vivace con cui un tempo il giovane Thomas Buddenbrook aveva animato l’azienda, – e il suo socio, il signor Friedrich Wilhelm Marcus, che, partecipando solo con un modesto capitale, non avrebbe mai avuto comunque influenza determinante, era per natura e temperamento privo di qualsiasi iniziativa. Col passare degli anni la sua pedanteria era aumentata ed era divenuta autentica stravaganza. Aveva bisogno di un quarto d’ora per spuntare il sigaro e riporne la punta nel borsellino, lisciandosi i baffi, raschiandosi la gola e lanciando circospette occhiate di sbieco. Di sera, quando le lampade a gas illuminavano a giorno ogni angolo dell’ufficio, egli non trascurava mai di mettere sulla sua scrivania anche una candela accesa. Ogni mezz’ora si alzava per andarsi a rinfrescare la testa sotto il rubinetto dell’acqua. Una mattina, per sbaglio, era rimasto sotto la sua scrivania un sacco di granaglie vuoto, che egli prese per un gatto e, con gran gaudio di tutto il personale, cercò di scacciare imprecando…
No, non era uomo che potesse intervenire energicamente nell’andamento degli affari a contrastare l’attuale spossatezza del suo socio; e spesso il senatore era afferrato, come ora mentre fissava lo sguardo spossato nella tenebra del salotto, dalla vergogna e da una disperata impazienza al pensiero del piccolo commercio senza importanza, degli affari da pochi soldi, cui si era abbassata negli ultimi tempi la ditta «Johann Buddenbrook».
Ma non era bene che fosse così? Anche la sfortuna, egli pensò, deve avere il suo tempo. Non è saggio restare tranquilli finché essa regna su di noi, non agitarsi, stare ad aspettare e, nella calma, raccogliere forze interiori? Perché dovevano venire da lui proprio allora con questa proposta, a disturbarlo prima del tempo nella sua savia rassegnazione ed a riempirlo di dubbi e di scrupoli! Era già arrivato il momento? Era un cenno del destino? Doveva sentirsi rianimato, tirarsi su e fare il colpo? Con tutta la risolutezza che era capace di conferire alla propria voce, egli aveva respinto quella richiesta spiacevole; ma da quando Tony era uscita, la cosa era davvero liquidata? Pareva di no, se egli restava ancora lì a rimuginare. «Una proposta agita e manda in collera solo quando non ci si sente ben sicuri di sapervi resistere…» Furba come il diavolo, la piccola Tony!
Che cosa le aveva obiettato? Per quanto si ricordava, aveva parlato molto bene, stringente. «Maneggio poco pulito… Pescare nel torbido… Brutale sfruttamento… Depredare uno che non può difendersi… Profitto da usuraio…,» magnifico! Bisognava però chiedersi se era il caso di mettere in campo parole così sonore. Il console Hermann Hagenström non le avrebbe cercate e non le avrebbe trovate. Thomas Buddenbrook era un uomo d’affari, un uomo d’azione spregiudicato – o un cogitabondo pieno di scrupoli? Oh sì, questo era il problema; questo era stato il suo problema di sempre, da quando riusciva a ricordare! La vita era dura, e la vita dell’uomo d’affari nel suo andamento privo di scrupoli e di concessioni ai sentimenti era una copia della vita intera. Thomas Buddenbrook stava solidamente piantato con tutt’e due i piedi, come i suoi padri, in questa vita dura e pratica? Abbastanza spesso, da sempre, aveva avuto ragione di dubitarne! Abbastanza spesso, fin dall’adolescenza, aveva dovuto correggere dinanzi a questa vita il suo modo di sentire… Usare durezza, subire durezza, e sentirla non come durezza, ma come qualcosa di ovvio – l’avrebbe mai veramente imparato?
Ricordò l’impressione che gli aveva fatto la catastrofe del ‘66, e richiamò alla mente le sensazioni indicibilmente dolorose che allora l’avevano sopraffatto. Aveva perso una grossa somma… oh, non era stata questa la cosa più insopportabile! Ma per la prima volta aveva dovuto sperimentare nella sua pienezza e sul proprio corpo la crudele brutalità della vita degli affari, in cui ogni sentire buono, dolce, amabile va a rimpiattarsi dinanzi ad un rozzo, nudo e imperioso istinto di conservazione, e in cui una sfortuna patita suscita negli amici, nei migliori amici, non partecipazione, non simpatia, ma – «diffidenza», fredda, scostante diffidenza. Ma lui non lo sapeva? Aveva il diritto di stupirne? Più tardi, nelle ore migliori e più ricche di forze, quanto si era vergognato d’essersi indignato in quelle notti insonni, d’essersi rivoltato, pieno di schifo e inguaribilmente ferito, contro la durezza odiosa e vergognosa della vita!
Come era stato stupido! Come erano stati ridicoli quegli impulsi ogni volta che li aveva provati! Come era possibile che sorgessero in lui? Di nuovo lo stesso problema: era una persona pratica o un delicato sognatore?
Oh, mille volte s’era posto questa domanda; e nelle ore di forza e di fiducia vi aveva risposto in un modo, in quelle di stanchezza in un altro. Ma egli era troppo perspicace e onesto per non confessarsi alla fine la verità: che i due aspetti si mescolavano in lui.
Per tutta la vita s’era mostrato alla gente come un uomo d’azione; ma, nella misura in cui lo si poteva ritenere giustamente tale, egli non lo era forse stato per ben consapevole riflessione – secondo il motto (e il verdetto) goethiano che citava spesso -? A suo tempo aveva riportato successi… ma non erano forse stati provocati soltanto dall’entusiasmo, dallo slancio che egli doveva alla riflessione? E ora che era abbattuto, che le sue forze sembravano esaurite – seppure, volesse Dio!, non per sempre -: non era questo la conseguenza necessaria di una situazione insostenibile, di quel contrasto innaturale e logorante dentro di lui?… Suo padre, suo nonno, il suo bisnonno, avrebbero comperato in erba il raccolto di Pöppenrade? Ma che importava!… che importava!… Erano stati uomini pratici, lo erano stati in modo più completo, più assoluto, più forte, più spregiudicato, più naturale di quanto egli lo fosse: questo era il fatto!…
Una grande inquietudine lo prese, un bisogno di moto, di spazio e di luce. Spinse indietro la sedia, andò nel salotto e accese parecchie fiamme a gas del lampadario sulla tavola centrale. Rimase lì, fermo, torcendosi a lungo e spasmodicamente la punta dei lunghi baffi, e senza veder nulla si guardò intorno nella stanza lussuosa.

Traduzione di Furio Jesi e Silvana Speciale Scalia

i-buddenbrook-02.jpgUn’immagine della riduzione filmica dei Buddenbrook del 2008

Il personaggio di Thomas Buddenbrook sembra quasi saper incarnare quella figura tipica tra Ottocento e Novecento che è l’industriale, colui che “produce” e rende ricchi una nazione e se stesso, fiducioso nel domani e nelle possibilità di un futuro meraviglioso. Eppure è lo stesso Thomas a farci capire che non è proprio così, riflettendo tra economicità e morale egli si rende conto non solo della loro inconciliabilità ma della sua estraneità in quanto non essendo più l’uomo pragmatico come suo nonno e suo padre, egli non sa più chi essere; nonostante la sua enorme ricchezza, comincia a percepire la sua labilità, quasi presagisse il disastro cui andava incontro, su cui aleggia un inconscia vocazione verso la morte.

Il tema della “diversità” sarà presente anche in due brevi romanzi: Tonio Kröger (1903) e La morte a Venezia (1912).

Nel primo la coscienza della sua “diversità”, e quindi della sua “estraneità” porta il protagonista a voler recuperare i valori “normalizzanti” borghesi; ma non ci riesce:

Tonio Kröger, ritratto dell’artista da giovane, è uno scrittore di successo, impegnato a realizzare una dimensione della letteratura in perenne contrasto con la morale borghese. Durante l’infanzia e l’adolescenza, trascorse a Lubecca, e gli anni della giovinezza, trascorsi a Monaco e in viaggi frequenti, egli confida le sue contraddizioni all’amico Hans Hansen, alla giovane Ingeborg Holm, di cui s’innamora, ma che andrà sposa ad Hans, e alla pittrice russa Lisaveta Ivanovna.  

TONIO KRÖGER O DELL’ESTRAINEITA’

Alcune coppie giravano in cerchio dondolandosi, altre tenendosi il braccio se n’andavano in giro per la sala. Le persone non erano vestite appositamente per il ballo, ma come per una qualsiasi domenica d’estate da trascorrere all’aperto. I cavalieri indossavano abiti dal taglio un po’ provinciale, che, si vedeva, erano stati preparati con cura per tutta la settimana, le ragazze vestivano invece abiti chiari e leggeri e guarnivano il corsetto con mazzetti di fiori di campo. Cerano anche un paio di bambini che ballavano fra loro, per così dire, anche quando la musica era finita. Un uomo dalle gambe lunghe e la giacchetta a coda di rondine, un tipo provinciale con il monocolo ed i capelli arricciati, aggiunto postale o qualcosa del genere, somigliante a una qualche comica figura di un personaggio di un romanzo danese, s’atteggiava a soprintendente della festa e direttore del ballo. Premuroso, sudato, votato con tutta l’anima alla buona riuscita della festa, era presente quasi ovunque nel medesimo istante; indaffaratissimo si occupava della sala: si trovava ovunque in qualsiasi momento, muoveva con maestria le punte dei piedi infilate in stivaletti ristretti e lisci a punta, incrociandoli l’un l’altro in maniera ingarbugliata, agitava le braccia in aria,… impartiva ordini, reclamava la musica, batteva le mani, e mentre faceva tutto questo i nastri della sua grande variopinta coccarda, i segni distintivi della carica che teneva ben ancorati alle spalle e verso i quali ogni tanto volgeva compiacente il capo, svolazzavano festosi dietro di lui di qua e di là.
E c’erano anche loro, i due che erano passati dinanzi a Tonio nello sfondo della luce del primo mattino. Li rivide, e nello scorgerli quasi contemporaneamente provò un brivido di gioia. Vicino a lui, poggiato alla porta, c’era Hans Hansen a gambe divaricate ed un poco piegato in avanti: intento a mangiare una gran fetta di torta teneva la mano raccolta sotto il mento per trattenere le briciole. Laggiù, poggiata alla parete, stava Ingeborg Holm, la bionda Inge, e nei suoi pressi s’indaffarava l’aggiunto postale per invitarla con un inchino prezioso a ballare, e in questa cerimonia poneva una mano dietro la schiena mentre l’altra la portava graziosamente al petto. Lei fece un cenno di diniego col capo mostrando di essere esausta e di volersi riposare un poco; e l’aggiunto postale allora le si sedette a fianco.
Tonio Kröger si soffermò a guardare i due per i quali un tempo aveva provato i tormenti d’amore. . . Hans ed Ingeborg. Erano proprio loro, e non tanto in virtù di caratteristiche o di una simiglianza del vestire che ancora riscontrava, quanto piuttosto in forza d’una certa identità di razza e specie, quella specie chiara dagli occhi azzurro-acciaio e dai capelli biondi che presentava per lui un’idea di purezza, serenità e di ritrosia intangibile ad un tempo semplice e fiera di sè. Egli li guardò. Guardò Hans Hansen pieno di sé e completamente formato, con le spalle larghe e i fianchi snelli, e addosso il solito vestito alla marinara; vide Ingeborg portare sorridendo in maniera spavalda la testa a lato, notò la sua mano, una mano ancora da ragazzina non particolarmente affusolata e non particolarmente graziosa andare carezzevole alla nuca, così che il velo bianco della manica scivolò lungo il gomito,. . . e d’improvviso la nostalgia d’emozioni perdute lo scosse così violentemente nel petto, che pur nell’oscurità indietreggiò perché nessuno potesse accorgersi delle contrazioni sul suo volto.
Vi avevo dimenticati? si chiese. No, mai! Né te Hans, né tantomeno te bionda Inge! Inge! Ed eravate proprio voi coloro per i quali nell’ombra io lavoravo, e quando talvolta veniva a me un applauso io cominciavo furtivo a guardarmi attorno per vedere se voi foste presenti. . . Lo hai letto poi il Don Carlos, Hans Hansen, come mi avevi promesso sulla soglia del tuo cancello di casa? Non farlo, non lo esigo più da te! Che può importare a te del re che piange perché è solo? Non velare i tuoi occhi chiari col turbamento e con l’ansia di vitrei versi velati di malinconia. Poter essere come te! Ricominciare tutto da capo e crescere come te, leale, allegro, semplice,. . . normale, in completa armonia con Dio ed il mondo, poter essere amato dai puri e dai felici, e prendere in moglie te, Ingeborg Holm, ed avere un figlio come te Hans Hansen,. . . e libero dalla maledizione della conoscenza, della sofferenza del creare, poter amare, vivere, lodare, esaltarsi in una beata mediocrità!. . . Ricominciare da capo? Sarebbe completamente inutile. Avverrebbe tutto ancora una volta, com’è avvenuto e come doveva andare: alcuni sono predestinati a perdersi perché per essi una via diritta non è stata tracciata.
Ora la musica taceva, c’era un poco di pausa e fu offerto un rinfresco. L’aggiunto postale s’indaffarava in giro con un vassoio colmo d’insalata d’aringhe e s’occupava personalmente delle signore. Ma come giunse dinanzi ad Ingeborg Holm s’inginocchiò persino nel porgerle la coppetta, e lei ne arrossì di gioia.
Dalla sala s’iniziava a volgere attenzione alla persona che se ne stava presso la porta a vetri ed alcuni visi graziosi, accaldati, estranei ma incuriositi, posarono fugacemente lo sguardo su di lui, ma nonostante questo spettatore se ne restò al suo posto. Anche Ingeborg ed Hans gli posarono per un istante lo sguardo sopra, in modo così indifferente e trascurato che sembrava avere l’apparenza del disprezzo. All’improvviso però egli si rese conto che da qualche parte c’era uno sguardo che lo scrutava in modo del tutto particolare, volse il capo ed i suoi occhi s’incrociarono con quelli di cui aveva avvertito il contatto. Non molto lontano c’era una ragazza dal viso pallido, magro e gentile di cui già s’era accorto. Non aveva ballato ed i cavalieri attorno a lei non s’erano particolarmente affannati, e l’aveva notata esser rimasta a lungo oziosa presso la parete con le labbra amaramente contratte. Ed anche ora era sola. Come le altre indossava un abito chiaro e vaporoso, ma sotto la stoffa diafana del suo vestito s’intravedevano le spalle nude gracili e ossute, e il collo magro affondava così tanto in quelle povere spalle che nell’insieme la silente fanciulla dava anche un poco l’idea della deformità. Teneva le mani ricoperte da sottili mezziguanti sul seno piatto, e le dita si sfioravano. Guardava Tonio Kröger dal basso verso l’alto con i suoi occhi cupi e offuscati, tenendo il capo reclinato. E questi si voltò. . .
Qui, assai vicino, sedevano Hans ed Inge Ingeborg. Lui le era accanto con modi fra l’affettuoso ed il protettivo, e assieme ad altri giovani dalle guance accaldate mangiavano, bevevano, chiacchieravano, si divertivano, si canzonavano, con voci allegre e sempre ridenti. Non poteva almeno un poco avvicinarsi a loro, rivolgere a lui o a lei la prima  parola scherzosa che gli fosse venuta in mente ed a cui avrebbero certo risposto con un sorriso? Questo l’avrebbe reso felice, e in fondo lo desiderava; poi, con la consapevolezza di aver ristabilito con i due un tenue legame, si sarebbe potuto ritirare contento in camera sua. Pensò anche alle parole da dire, ma il coraggio di pronunciarle gli mancò.
Ed anche ora era tutto come sempre: loro non avrebbero potuto comprenderlo, le sue parole sarebbe risuonate estranee, la sua lingua non era la loro. Sembrava che il ballo dovesse di nuovo riprendere. L’aggiunto era indaffaratissimo. Si muoveva incessantemente da destra a sinistra, invitava tutti ad impegnarsi, toglieva di mezzo con l’aiuto dei camerieri sedie e bicchieri, impartiva ordini ai musicisti, allontanava spingendoli via per le spalle quelli impacciati che non sapevano dove mettersi. Che s’intendeva fare? Ogni quattro coppie si formava un quadrato. . . Un ricordo terribile fece arrossire Tonio Kröger: si sarebbe ballata la quadriglia. La musica attaccò, e fra inchini le coppie cominciarono a incrociarsi. L’aggiunto comandava e, gran Dio!, per di più comandava in francese con suoni nasali in modo incomparabilmente distinto. Ingeborg Holm ballava dinanzi a Tonio Kröger, nel quadrato immediatamente vicino alla porta a vetri. Lei volteggiava dinanzi a lui su e giù, avanti e dietro, ed ogni tanto lo sfiorava il profumo dei suoi capelli o della bianca e delicata stoffa dell’abito, ed egli chiudeva gli occhi e provava un’antica sensazione che ben conosceva, il cui aroma, il cui aspro fascino egli aveva vagamente avvertito in tutti quei giorni, e che ora in un dolce tormento lo sovrastava ancora. Ma cos’era dunque alla fine? Nostalgia? Tenerezza? Invidia? Disprezzo di se stesso?. . . Moulinet des dames! Ridesti tu bionda Inge, ridesti tu di me quando io ballai moulinet rendendomi così miserevolmente ridicolo? E rideresti di me anche oggi; adesso che sono diventato un po’ celebre? Sì, certo che rideresti, ed avresti un’infinità di ragioni per farlo! Perché se anche io, proprio io e tutto da solo, avessi composto le nove sinfonie, concepito Il mondo come volontà e rappresentazione, raffigurato il Giudizio universale, tu avresti ancora buone ragioni per ridere. . . La guardò e si sovvenne di un verso che da tempo aveva dimenticato e che gli era stato tanto familiare ed affine: “Dormir vorrei, ma tu vuoi danzare. . .” La conosceva bene quella sensazione d’indolenza malinconica nordica, mesta, intima, impacciata che gli sussurrava da dentro. Dormire. . . Anelare d’amare, semplicemente e pienamente, in tutto e per tutto seguendo il sentimento che pigramente sognante se ne sta racchiuso in se stesso senza avvertire la necessità di trasformarsi in azione e in danza,. . . e nondimeno esser costretti a danzare, dover eseguire sempre lesti, sempre pronti in spirito, la difficile e pericolosa danza sulla lama dell’arte, senza mai riuscire a dimenticare, a scacciare l’umiliante assurdità che c’è nel pretendere di ballare mentre si ama. . .
(…)

vilhelm-hammershoi-interno-svend.jpgVilhelm Hammershøi: Interno con uomo che legge (1896)

Si sentiva come ubriacato da quella festa che si era limitato ad osservare da lontano, e stanco per la gelosia sofferta. Ed ancora una volta era successo tutto come un tempo, tutto come un tempo. . . Con il volto accalorato se n’era restato in un angolo buio soffrendo per voi, per voi biondi, per voi felici, per voi fortunati, e poi, da solo, si era ritirato. Ma qualcuno doveva venire! Ingefort doveva pur venire, accorgersi che era là fuori, seguirlo furtivamente, posargli una mano sulla spalla, dirgli: Vieni dentro da noi! Sii felice! Io ti amo! Ma essa non venne. Cose simili non accadono.

Siamo nelle ultime pagine del romanzo breve con l’eroe eponimo: Kröger è diventato un grande scrittore, un intellettuale. Dopo tanti anni, ad una festa da ballo incontra i suoi vecchi amici; Hans ed Ingeborg. I partecipanti sembrano essere tutti descritti come dei piccoli borghesi che si lasciano trasportare dagli eventi divertenti e sani del clima festoso, ad esserne distaccato è proprio lui, che rivive la stessa sensazione di estraneità che aveva caratterizzato la sua vita da adolescente. Tonio non è mai riuscito ad integrarsi, l’avrebbe voluto con tutta la sua forza, ma altrettanto forte è il richiamo della mente del pensiero, che lo allontana dal flusso vitale.

Il ballo è il simbolo della sana naturalezza, della vitalità, del sentirsi in accordo con Dio e il mondo, la cultura è estraneità. Thomas Mann svela il contrasto tra arte e vita, malattia dell’artista e sanità della normalità: all’artista non resta che creare ciò che la vita gli offre.

Ancora un contrasto nel secondo breve famoso romanzo di Thomas Mann, La morte a Venezia (1912), dove il musicista von Aschenbach non può fare a meno di sentirsi attratto dall’efebico Tazio, simbolo dell’irrazionale e del torbido fascino che travolge il borghese decoro del musicista.

Gustav von Aschenbach, scrittore celebre, teso a una costante ricerca estetica, spossato dal lavoro, fa un viaggio a Venezia, dove spera di rigenerarsi come uomo e come scrittore. Nel lussuoso albergo dove ha preso alloggio è colpito dalla bellezza di un ragazzo polacco, Tadzio, per il quale prova un’immediata, irresistibile attrazione. Senza che i due si scambino mai una parola, si crea tra loro una sorta di ambigua intimità: Aschenbach vive la sua passione estenuandosi in una lunga e voluttuosa ricerca del giovane per le calli di Venezia. Mentre corre voce che si siano verificati casi di colera in città, Aschenbach insegue il suo sogno, riducendosi a fingere una equivoca giovinezza fatta di tinture e cosmetici. Cerca invano di fuggire da Venezia e, mentre contempla ancora una volta sulla spiaggia Tadzio, il colera, nel frattempo esploso, lo uccide. 

LA CONFUSIONE DI GUSTAV

Così dunque lo sviato innamorato non sapeva né voleva più altro che perseguire senza requie l’oggetto che lo infiammava, di lui sognare quand’era assente, e, alla maniera degli innamorati, rivolgere tenere parole alla sua mera ombra. Solitudine, estraneità e la felicità di un’ebbrezza tardiva e profonda lo incoraggiavano e persuadevano ad abbandonarsi senza vergogna e rossori alle situazioni più strane, com’era accaduto una sera che, rientrando sul tardi da Venezia, al primo piano dell’albergo si era arrestato all’uscio del bellissimo, in piena estasi aveva appoggiato la fronte allo stipite della porta e a lungo non era stato capace di staccarsene, a rischio di venir sorpreso, colto sul fatto in un atteggiamento così folle.
Eppure non gli mancavano i momenti di tregua e di semilucidità. «Su che strada mi sono messo!» pensava allora costernato. «Su che strada!» Come ogni uomo cui meriti naturali ispirino un aristocratico interesse per il proprio lignaggio! egli era abituato, nelle fatiche e nei successi dell’esistenza, a rivolgere il pensiero agli antenati, onde assicurarsi in spirito la loro approvazione, la loro soddisfazione, il loro indispensabile rispetto. A essi pensava anche qui, ora, irretito in un’esperienza così inammissibile, coinvolto in così esotiche dissolutezze di sentimento, ne rammentava la dignitosa severità, l’onesta virilità dei costumi, e sorrideva malinconicamente. Che cosa avrebbero detto? E d’altra parte, che cosa avrebbero detto della sua vita tutt’intera, che si era scostata da loro fino alla degenerazione, di questa vita in balìa dall’arte, di cui egli stesso un tempo, nello spirito borghese dei padri, aveva dato giovanili giudizi così sarcastici e che tuttavia in fondo era stato così simile a loro!
(…)
In questa direzione dunque procedevano i pensieri del sedotto, così egli cercava di puntellarsi, di salvare la propria dignità. In pari tempo, però, egli prestava un’attenzione indagatrice e pertinace ai sordidi avvenimenti di cui era teatro Venezia, a quell’avventura del mondo esterno che oscuramente confluiva con quella del suo cuore e alimentava la sua passione di vaghe e illegittime speranze. Incaponito a conoscere fatti nuovi e certi sullo stato e il progresso dell’epidemia, sfogliava nei caffè della città i giornali tedeschi, spariti già da parecchi giorni erano dal tavolo di lettura nell’atrio dell’albergo. Vi si alternavano affermazioni e smentite. Il numero dei casi di malattia e di decesso ascendeva a venti, a quaranta, forse a cento e più, e, poche righe più sotto, la stessa apparizione del morbo era, se non recisamente negata, per lo meno ridotta a pochi casi isolati, di provenienza esterna.

Morte_a_Venezia.jpgGustav e Tadzio nel film di Luchino Visconti (1971)

Vi è qui, come anche nell’altro breve romanzo, la riflessione di come l’arte possa destabilizzare la vita; in questo brano tale potere è segnalato dal dialogo fittizio con gli antenati, ovvero con quella classe borghese già così efficacemente descritta ne I Buddenbrook, alla quale l’autore confessa la sua eccentricità, qui illustrata dall’insana passione verso Tadzio. Thomas amplifica la “malattia morale” in una decadente Venezia, malata essa stessa, in piena epidemia di colera. Ma se l’estetismo irrazionale di  von Aschenbach simboleggia l’arte e Tadzio la purezza irragiungibile, la Venezia non può che rappresentare l’Europa malata, che sente già rullare i tamburi di una guerra imminente.

Lo scontro tra l’istanza malata, diversa e recupero della ragione avviene anche nell’altro grande romanzo di Mann La montagna incantata, in cui, come un maitre à penser l’autore vuole condurre il lettore ad abbandonare quelle spinte irrazionalistiche che avevano portato alla strage della prima guerra mondiale (siamo nel ’24):

Hans Castorp, un giovane borghese, recatosi a trovare il cugino Gioacchino malato di tisi nel sanatorio di Davos, finisce, ammalandosi a sua volta, col restarvi sette anni, affascinato da quel piccolo mondo che è in sé un universo simbolico ma completo. Si innamora di un’ospite del sanatorio, Madame Chauchat, e passa lunghe ore conversando con due intellettuali: l’italiano Settembrini erede della tradizione illuminista, e il gesuita Naphta, più tardi suscita, esponente del mondo romantico e decadente. Un altro singolare personaggio, l’olandese Pepperkon, rappresenta l’istinto irrazionale, il predominio dei sensi e della natura. Lo scoppio della guerra del 1914 strappa Castorp da questa atmosfera stregata e lo conduce sui campi di battaglia, dove si troverà coinvolto nella carneficina: la sua sorte resta incerta, anche se immersa in un clima di morte. 

Original-Verlagsbroschur_der_Erstauflage_im_S._Fischer_Verlag,_Berlin_1913.jpegEdizione originale del 1913

CONSERVAZIONE BORGHESE E IDEALITA’ DEMOCRATICHE

Coi due cugini, Ludovico Settembrini parlava anche di sé, e della sua provenienza, sia durante le passeggiate, sia durante la conversazione serale, oppure dopo il pranzo, quando la maggior parte dei pazienti avevano lasciato la sala ed egli rimaneva ancora un poco seduto vicino a Castorp e Ziemssen, alla loro tavola. Intanto le cameriere sparecchiavano, e Castorp fumava il suo “Maria Mancini” che alla terza settimana pareva voler fargli gustare ancora qualche poco dei suoi aromi reconditi. con attenzione critica, alquanto scandalizzato, ma propenso a lasciarsi influenzare, egli ascoltava le narrazioni dell’italiano, che gli aprivano un mondo strano, completamente nuovo a lui.
Settembrini parlava di suo nonno, un avvocato che aveva risieduto a Milano, grande patriota, agitatore politico, oratore, collaboratore di parecchi giornali, anche lui uomo dell’opposizione come il nipote, certo in più grande stile e più ardito assai. Poiché mentre Ludovico, come egli stesso osservava con accento di amarezza, doveva limitarsi a sforbiciare nella vita e negli avvenimenti del Sanatorio Internazionale Berghof, esercitandovi la sua critica beffarda e protestando contro di esso in nome di una umanità bella e giocondamente operosa, quegli invece aveva dato da fare ai governi, aveva cospirato contro l’Austria e la Santa Alleanza che allora teneva la sua patria sotto il giogo della schiavitù, ed era stato membro attivo di certe società segrete. “Un Carbonaro”, come Settembrini pronunciò d’un tratto a bassa voce, quasi fosse ancora pericoloso parlarne. A farla breve, questo Luigi Settembrini apparve agli occhi dei due ascoltatori, a dedurne dai racconti del nipote, come un’esistenza misteriosa e passionale di demagogo, come un caporione cospiratore; e quantunque i due giovanotti si sforzassero di concepire il rispetto, non riusciva loro di cancellare dal viso un’espressione di antipatia diffidente. Certo le cose stavano in modo speciale: quello che giungeva alle loro orecchie era passato da molto tempo, quasi da cento anni, era la storia, e dalla storia l’uomo che venivano a conoscere riceveva un aspetto, diremo così, teorico di disperato amore per la libertà e di odio contro i tiranni, quantunque i due cugini non avessero mai pensato di venir con lui ad un contatto così umanamente diretto. Non solo, ma all’attività di cospiratore  e di agitatore di questo avo, andava congiunto, come i due apprendevano da ciò che narrava Settembrini, un grande amore per la sua patria, che egli voleva libera e unita. Anzi, la sua attività sovversiva era appunto frutto di tale rispettabile unione e per quanto questo insieme di sovversivismo e di patriottismo  apparisse strano ai due cugini abituati a considerare invece l’amor patrio allo stesso livello dell’amore per l’ordine, tuttavia essi dovevano ammettere nel loro intimo che, come s’erano svolte le cose in quei tempi e in quei luoghi , la ribellione e la virtù cittadina dovevano essere un tutt’uno, come un tutt’uno erano la obbedienza legale e la pigra indifferenza verso la cosa pubblica. Il nonno di Settembrini  non era stato soltanto un grande patriota italiano, sibbene anche un compagno di fede  e di battaglia di tutti i popoli anelanti la libertà, poiché dopo il naufragio di un certo colpo di Stato tentato a Torino, sfuggito per miracolo agli sgherri di Metternich, aveva utilizzato il tempo del suo esilio combattendo in Spagna a pro della Costituzione, in Grecia per l’indipendenza di quel popolo. Là, era venuto alo mondo il padre di Settembrini – anche perciò quest’ultimo era diventato un grande umanista e un amante appassionato dell’antichità classica – nato, d’altronde, da madre di sangue tedesco, poiché Luigi aveva sposato una ragazza svizzera conducendola poi sempre con sé nella sua vita avventurosa. Più tardi, dopo dieci anni di esilio, aveva potuto tornare in patria, ed esercitato l’avvocatura a Milano non tralasciando però mai  di incitare la Nazione con la parola parlata e scritta, in versi e prosa, alla libertà  e alla costituzione della Repubblica unitaria, non cessando di compilare programmi sovversivi con appassionata enfasi di agitatore e dal proclamare l’unione dei popoli liberati per l’instaurazione di una comune felicità.
Un particolare che Settembrini citò, fece specialmente impressione sul giovane Castorp. Il nonno Luigi s’era sempre mostrato fra i suoi concittadini in abito nero, poiché egli asseriva di dimostrare in quel modo il lutto per la miseria e la schiavitù in cui era tenuta l’Italia, la patria sua. Udendo tale particolare, Castorp fu costretto, come d’altronde aveva fatto più volte, a pensare al suo proprio nonno; questi pure aveva sempre portato, per quanto il nipote potesse ricordarsene, vestiti neri, ma per motivi molto diversi da quelli del nonno di Settembrini. Hans Lorenz Castorp, essere appartenente ad un’altra epoca, s’era adattato per ripiego al suo tempo cui non apparteneva affatto, e ne aveva portato il costume, finché in morte era rientrato solennemente (col collare a pieghe) nel suo vero e giusto aspetto. Due nonni ben diversi erano stati quelli! Hans Castorp ci pensava mentre i suoi occhi fissavano un punto nel vuoto ed egli andava scuotendo il capo, cosa che poteva essere un segno d’ammirazione per Luigi Settembrini, o anche un’espressione di diniego e di disapprovazione. Si guardava anche onestamente dal giudicare  ciò che non poteva in coscienza conoscere, si accontentava invece di constatare e di paragonare. Vedeva la testa sottile del vecchio Hans Lorenz chinarsi pensosa sull’orlo stinto della tazza battesimale – immobile e peregrinante eredità – a bocca stretta poiché le sue labbra pronunciavano sillabe cupe e pie che ricordavano  il luogo dove si procede camminando chini in avanti in segno di profondo rispetto. E vedeva Luigi Settembrini che, reggendo il tricolore, sguainava la spada e, con lo sguardo dei neri occhi rivolto al cielo per un sacro giuramento, marciava in capo a una schiera di volontari per irrompere contro la falange del dispotismo. Ambedue avevano la loro bellezza e la loro nobiltà, pensava, sforzandosi di essere equo, tanto più che si sentiva personalmente o quasi in causa. Poiché il nonno di Settembrini aveva combattuto per diritti politici, mentre alò suo proprio nonno o agli avi di lui erano appartenuti in origine tutti i diritti che la plebaglia nel corso di quattro secoli aveva loro strappato con la violenza e con la retorica… Ed ambedue erano sempre vestiti di nero, il nonno del nord e quello del sud, e ambedue allo scopo di porre una severa distanza fra sé e l’epoca in cui vivevano. L’uno l’aveva fatto per un senso di religiosità, per il rispetto al passato e alla orte cui il suo essere apparteneva; l’altro, al contrario, per ribellione e in omaggio al progresso nemico della pietà. Sì, essi rappresentavano due mondi, due punti cardinali, così pensava Hans Castorp e gli pareva essersi trovato altra volta tra essi, gettando uno sguardo scrutatore ora all’uno ora all’altro, facendo precisamente come faceva in quel momento mentre il signor Settembrini continuava a narrare.
(…)

df62cc7e55.jpegEdizione italiana del 1932

…L’Italiano rendeva onore alla patria dei suoi ascoltatori perché là erano state inventate l’arte della stampa e la polvere da sparo, perché essa aveva spazzato la corazza del feudalesimo, rendendo possibile il propagarsi delle idee democratiche. Lodava dunque la Germania sotto tale punto di vista e per quanto riguardava il passato, ma credeva di dover dare la palma alla sua propria patria perché, mentre le altre nazioni giacevano ancora nell’oscurantismo e nella schiavitù, essa aveva inalberato la bandiera del progresso intellettuale, della cultura, della libertà. Tuttavia l’omaggio che rendeva alla tecnica ed alle comunicazioni, campo di lavoro di Hans Castorp, non era diretto precisamente alle potenze in sé, ma a tali potenze solo perché da quelle risultava un perfezionamento morale dell’individuo. la tecnica – diceva – sottomettendo sempre più la natura con mezzi di comunicazione, con lo sviluppo delle reti stradali e telegrafiche, vincendo le differenze di clima, si dimostra il mezzo maggiormente atto ad avvicinare l’un l’altro i popoli, a favorirne la vicendevole conoscenza, a iniziare fra essi un equilibrio umano, a distruggere i loro preconcetti e finalmente ad instaurare una unione generale. La razza umana proviene dal buio, dalla paura, dall’odio ma essa procede e s’innalza sopra una via luminosa, verso uno stato finale di simpatia, di intima chiarezza, di bontà e di felicità, e la tecnica è il miglior veicolo per procedere su tale via.
Così parlando, Settembrini univa i campi che Hans Castorp era sempre abituato a pensare divisi, anzi ben lontani uno dall’altro. Tecnica e morale! disse. E poi parlò del Cristianesimo e del Redentore che, primo, rivelò il principio di uguaglianza e di fratellanza, principio divulgato poi dalla stampa e che la Rivoluzione Francese aveva innalzato a legge. A Hans Castorp, sia pure per motivi per cui non si rendeva ben conto, tale opinione sembrava decisamente confusa, quantunque Settembrini la esponesse in parole chiare, levigate e sonanti. Una volta – così narrava – una volta in vita sua e precisamente all’inizio degli anni migliori della maturità, suo nonno s’era sentito profondamente felice, cioè al tempo della Rivoluzione Parigina di Luglio. Allora egli aveva detto chiaro e forte in pubblico che tutti gli uomini in un tempo non lontano avrebbero posto i tre giorni di Parigi accanto a sei della Creazione. A questo punto Hans Castorp non poté fare a meno di battere la mano sul tavolo e di meravigliarsi nel più profondo dell’anima sua. Gli sembrava un po’ forte che accanto a sei giorni in cui il Signore Iddio aveva separato la terra dall’acqua e aveva creato le eterne luci del firmamento, i fiori, gli alberi, gli uccelli, i pesci ed ogni cosa che ha vita, si ponessero i tre giorni della Rivoluzione di Luglio dell’anno 1830, ed anche dopo, quando rimase solo col cugino, si espresse in questo senso.
Tuttavia, siccome era assolutamente disposto a lasciarsi influenzare, pose freno alla protesta che la sua pietà ed il suo gusto elevavano contro l’ordinamento delle cose “alla Settembrini”. Forse ciò che a lui pareva sacrilegio si poteva invece considerare coraggio e nobile slancio, almeno in quel  luogo e a quella epoca. Nel luogo e nell’epoca, per esempio, in cui il nonno di Settembrini chiamava le barricate: “trono del popolo” e aveva dichiarato che bisognava “consacrare la picca del cittadino sull’altare dell’umanità”.

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Come si vede il corposo romanzo presenta anche un’aspetto che potremo definire saggistico. A non renderlo tuttavia tale è il personaggio di Hans Castorp che Thomas Mann definisce Hans Castorp un quester ovvero “colui che cerca e interroga, che percorre il cielo e l’inferno, che tiene testa al cielo e all’inferno e stringe un patto col mistero, con la malattia, col male, con la morte con l’altro mondo, con l’occulto, con quel mondo che nella Montagna incantata è detto “problematico”… alla ricerca del Graal, cioè del supremo, del sapere, di conoscenza e iniziazione, della pietra filosofale, dell’aurum potabile, della bevanda di vita.”

Qui lo vediamo alle prese con Settembrini, discendente del famoso patriota italiano, entusiasta portavoce della Rivoluzione del 1789 e del razionalismo liberale del XIX secolo. A lui si contrappone Naphta (non presente nella parte riportata), allievo dei gesuiti e portavoce dell’assolutismo e dell’inquisizione. Quello che caratterizza il protagonista è quasi una specie di vuotezza interiore che man mano cerca di fortificarsi nell’ascolto attento, a volte ricevuto con perplessità, ma pronto a lasciarsi influenzare e ad arricchirsi. 

L’attività di Thomas Mann continua con il Doctor Faustus, in cui al successo e all’incredibile creatività che il musicista Adrian Leverkühn ottiene grazie al patto col diavolo risponde la rinuncia agli affetti e l’aridità umana: la sua oltraggiosa coscienza di sé e la violazione di ogni limite rappresentano un’esplicita metafora del regime hitleriano.

“Abbiamo accennato solo alle più significative tappe di una produzione che sia sul piano specificatamente letterario che su quello saggistico ha, per varietà e mole, del prodigioso: nessun autore del Novecento può vantare come Mann un così approfondito e ossessivo esame (durato un cinquantennio) delle componenti della civiltà contemporanea, dei tanti ambigui miti che nel penultimo secolo essa ha elaborato: nessuno, forse, come lui ha contribuito – appunto perché li ha vissuti problematicamente dentro di sé – a esorcizzarli attraverso il faticoso recupero della ragione”. (Salvatore Guglielmino)

Heinrich Mann

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Meno famoso del fratello minore Thomas, Heinrich Mann, autore de Il professor Unrat, deve la sua fortuna al film Angelo azzurro del 1930 che ne fu tratto e che lanciò nel mondo, facendone un’intramontabile diva, Marlene Dietrich.

Nasce a Lubecca nel 1871. Per la sua opposizione al nazismo si trasferì dapprima in Cecoslovacchia, quindi in Francia ed infine negli Stati Uniti. Scrisse vari romanzi, fra i quali ricordiamo Il paese di Cuccagna (1900), Le dee (1903), Il professor Unrat (1905) e Tra le razze ( 1907). Giornalista e saggista si legò al socialismo umanitario e democratico (in polemica col fratello Thomas) e la sua opera può essere letta come una critica alla società tedesca che va dall’età guglielmina sino al nazismo attraverso una satira lucida e precisa.

Professor Unrat narra la storia di un insegnante vedovo cinquantenne, soprannominato dagli alunni Unrat, cioè “immondezza”. Un giorno s’inoltra nei quartieri malfamati della città, non grande ma rispettabilre, per cogliere in fallo tre dei suoi alunni più riottosi (Kieselack, von Ertzum, Lohmann) che egli sospetta di cattivi costumi. Conosce così nel locale “Angelo azzurro”, la cabarettista vicina quasi alla prostituzione Rosa Frölich e ne diventa un assiduo frequentatore, se ne invaghisca, spenda i suoi risparmi e infine se la sposi. Unrat viene licenziato dalla scuola, vive con lei tra i debiti, e la sua casa è frequentata dagli uomini più in vista della città, attirati dal fascino licenzioso della sposa. Sarà proprio lo studente Lohmann che lo denuncerà per il furto di un portafoglio e la coppia finisce arrestata e dileggiata.

Professor_Unrat_Titel.jpegEdizione del 1905

Dal questo romanzo prendiamo l’incipit:

IL PROFESSOR UNRAT

Poiché il suo nome era Raat, tutta la città lo chiamava Unrat, Sporcizia. Veniva così spontaneo, naturale. Ogni tanto capitava che questo o quel professore cambiasse soprannome: un nuovo scaglione di alunni entrava a far parte della classe, prendeva di mira con voluttà omicida un certo lato comico del professore che non era stato messo abbastanza in rilievo dai compagni dell’anno prima, e ne sbandierava il nome senza pietà. Unrat, invece il suo lo portava da molte generazioni, tutta la città ne era al corrente, i suoi colleghi lo usavano fuori dal liceo e anche dentro, appena lui voltava le spalle. Le persone che ospitavano in casa propria gli scolari e ne sorvegliavano gli studi, parlavano in presenza dei loro pensionanti del professor Unrat. E il bell’ingegno che avesse cercato di studiare con occhio nuovo e di battezzare in altro modo l’ordinario della prima liceo non sarebbe mai riuscito a spuntarla: se non altro perché l’appellativo suscitava ancora nel vecchio insegnante la stessa reazione di ventisei anni prima. Bastava che nel cortile della scuola, non appena lo vedeva venire, uno gridasse: «Non sentite odor di sporcizia?» Oppure: «Ehi, che odore di sporcizia!»
E subito il vecchio scrollava convulsamente la spalla, sempre la destra, che era più alta, e da dietro gli occhiali lanciava di sbieco un’occhiata piena di bile che gli studenti definivano perfida, e che era invece pavida e vendicativa: l’occhiata di un tiranno dalla coscienza poco tranquilla, che cerca di scoprire i pugnali tra le pieghe dei mantelli. Il suo mento spigoloso, a cui si attaccava una barbetta rada tra il giallo e il grigio, tremava con violenza. Contro l’alunno che aveva urlato la frase “non aveva prove” e non gli restava che tirar lungo sulle gambe magre dalle ginocchia curve, sotto il suo bisunto cappellaccio da muratore.
L’anno prima, per il suo giubileo, la scuola gli aveva organizzato  una fiaccolata. Era uscito sul balcone e aveva fatto un discorso. E all’improvviso, mentre tutte le teste, appoggiate alla nuca, erano rivolte verso di lui, si era levata una sgradevole voce fessa: «Ehi, c’è sporcizia in aria!»
Altri avevano ripetuto: «Sporcizia in aria! Sporcizia in aria!»
Là in alto il professore, che pure aveva previsto l’incidente, cominciò a balbettare, fissato la bocca spalancata di ognuno dei suoi derisori. Gli altri signori stavano là, intorno a lui: egli si rese conto anche quella volta “non aveva prove”; tra sé prese nota, però di tutti i nomi. Non più tardi del giorno dopo quello dalla voce fessa, ignorando il villaggio natale della Pulzella d’Orléans, diede il modo al professore d’assicurargli che in futuro avrebbe fatto del suo meglio per rendergli la vita difficile. E a Pasqua infatti quel Kieselack non fu promosso. Assieme a lui dovette ripetere l’anno la maggior parte di quelli che avevano fatto gazzarra la sera del giubileo: tra questi von Ertzum. Lohmann se n’era stato zitto, però fu bocciato lo stesso: la sua indolenza, come l’ottusità dell’altro, aiutò Unrat nel suo intento. Ora accadde che un mattino del novembre successivo, durante l’intervallo delle undici che precedeva il compito in classe sulla Pulzella d’Orléans, von Ertzum, prevedendo un esito catastrofico del tema vista la sua scarsa confidenza con la Pulzella, spalancasse disperato la finestra e urlasse a casaccio nella nebbia: «Unrat!»
Non sapeva se il professore fosse nei paraggi, e non gliene importava nulla. Il povero corpacciuto nobile di campagna aveva semplicemente soddisfatto il bisogno tutto fisico di concedere ancora pochi attimi di libertà ai suoi polmoni prima di rannicchiarsi per due ore davanti a un foglio bianco, tutto vuoto, cercando di riempirlo con parole spremute dalla sua testa non meno vuota. Ma il caso volle che proprio in quel momento Unrat attraversasse il cortile. Quando l’urlo lanciato dalla finestra lo raggiunse ebbe un goffo sobbalzo. Lassù tra la nebbia distinse la sagoma pesante di von Ertzum. Di sotto non c’era un solo alunno, nessuno a cui von Ertzum potesse aver gridato quella parola. «Questa volta», pensò Unrat esultando «era me che intendeva. Questa volta ne ho le prove!»

Unrat6-DW-Kultur-Berlin-jpg.jpgMarlene Dietrich ed Emil Jannings nelle parti di Rosa e del professor Rat
nel film del 1930

Quello che caratterizza il personaggio è una sua profonda ambiguità: egli è infatti vittima, con quel nomignolo che gli viene affibbiato sembra quasi dall’intera comunità, nomignolo che lo denigra e che lo squalifica; ma è anche carnefice, capace di vendicarsi in modo brutale, colpendo proprio chi non ha potere di difendersi, come i suoi studenti e soprattutto verso i più riottosi, i meno “inquadrati”. La ricerca del loro peccato, come poi verrà illustrato nel testo, si disegna tuttavia come la ricerca di un mondo che lo ha sempre affascinato ma che per convenzione non ha mai potuto frequentare. Potrebbe, detto così, sembrare un percorso che riscatta il personaggio, ma non è propriamente così: Unrat per ottenere ciò che vuole deve distruggere chi prima di lui ne era in possesso; la sua è una lotta senza quartiere, svolta tuttavia con armi che vanno dall’ossequio obliquo verso il potere e dalla più inaudita prepotenza verso chi è più debole di lui:

“…Unrat si voltò verso di lui. Intanto la Frölich se la filò: scappò gridando nella stanza vicina e si chiuse dentro sbattendo la porta. Per un attimo Unrat parve come stordito; poi si riprese e cominciò a fare dei gran salti intorno a Lohmann. Lohmann, che per darsi un contegno era indietreggiato fino al tavolo, prese il portafogli e si mise ad accarezzarlo. Pensò confusamente a qualcosa da dire. Che strano essere aveva davanti! Una via di mezzo tra un ragno e un gatto, con gli occhi da matto, col sudore che colava in gocce colorate da sopra gli occhi, e con la schiuma che gli usciva dai denti che battevano. Non era piacevole avercelo intorno con le braccia inarcate, pronte a scattare. E che farfugliava?”

“Unrat è, caricaturalmente deformato, il tipo del tiranno che vive tra furore e paura: nella scuola, se gli alunni non riconoscono il suo potere, tutto è perduto (come per il tiranno quando vede il palazzo invaso dalla plebe); fuori dalla scuola i rapporti con gli altri gli si configurano sempre come rapporti di autorità e di controllo (egli non sa immaginarne di diversi); l’intera città, sfuggendogli di mano, assume l’aspetto e la condotta di cinquantamila studenti indisciplinati e perciò meritevoli di punizione. Con vero piacere Unrat apre la sua casa a nobili e borghesi benestanti e assiste alla loro rovina: perduta l’autorità il tiranno è pronto a diventare anarchico, e si vanta del simbolismo implicito nell’odioso soprannome da cui un tempi si sentiva perseguitato” (Remo Ceserani)

Franz Kafka

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Franz Kafka (1883 – 1924) è un autore che va inserito in quella cultura del vasto Impero asburgico nel periodo della sua decadenza, definito Mitteleuropa. Sarà importante al suo interno la componente ebraica e la lingua con cui espresse la sua cultura fu la lingua tedesca in cui descrisse la crisi epocale dell’Occidente, inserendola nel più lato discorso della crisi del personaggio-uomo nella cultura dei primi anni del Novecento.

Nacque a Praga ed ebbe nell’infanzia e nell’adolescenza difficili rapporti familiari, soprattutto con il padre, imponente nella figura e autoritario nell’educazione, che favorì in lui un senso d’inadeguatezza. Della complessità del loro rapporto abbiamo testimonianza nella famosa lettera al padre del 1919:

MIO CARO PAPA’

Mio caro papà, non è molto che mi hai chiesto perché affermo di aver paura di Te. Come al solito non ho saputo rispondere, un po’ per la paura che Tu m’incuti, un po’ perché, per motivare questa paura, occorrono troppi particolari che non saprei cucire in un discorso. E se ora mi provo a risponderTi per iscritto, anche questa risposta sarà incompletissima, poiché pur scrivendo mi sento impedito dalla paura e dalle sue conseguenze, e perché la vastità dell’argomento supera di molto la mia memoria e la mia intelligenza.
A Te la questione è sempre parsa molto semplice, almeno quando ne parlavi con me e, secondo i casi, con molti altri. La vedevi così: tutta la vita Tu hai lavorato duramente, hai sacrificato tutto per i Tuoi figli, specialmente per me, di modo che io son vissuto da signore, libero di studiare quel che volevo, senza crucci materiali, e cioé senza crucci affatto; in cambio Tu non chiedevi gratitudine – Tu conosci “la gratitudine dei figli” – ma almeno certi riguardi, qualche segno di comprensione, invece io Ti ho sempre evitato, rintanandomi in camera mia, fra i libri, fra amici esaltati, fra idee insane; mai Ti ho parlato a cuore aperto, al Tempio non ti sono mai stato accanto, mai sono venuto a trovarTi a Franzensbad*, d’altronde io non posseggo il senso della famiglia, non mi sono mai curato della ditta o degli altri Tuoi affari. La fabbrica Te l’ho caricata sulle spalle per piantarTi subito in asso, ho sostenuto Ottla* nei suoi capricci, e mentre per Te non muovo un dito (neppure un biglietto di teatro T’ho mai portato) per gli amici farei qualunque cosa. Se riassumi il Tuo giudizio su di me, ne vien fuori che Tu non mi rimproveri nulla di malvagio o di disonorevole (tranne forse il mio ultimo progetto matrimoniale) ma freddezza, estraneità, ingratitudine. E anzi me lo rimproveri come se fosse colpa mia, come se con un giro di timone avessi potuto cambiare tutto, mentre Tu non hai nulla da rimproverarTi, se non forse di essere stato troppo buono con me.
Questo tuo giudizio lo reputo esatto in quanto credo anch’io che Tu sia del tutto inconsapevole della nostra lontananza. Ma anch’io sono altrettanto innocente. Se fossi capaci di condurTi a riconoscerlo, sarebbe possibile non dico una nuova vita – siamo tutti e due troppo vecchi – ma una sorta di pace, non la fine ma un’attenuazione delle Tue incessanti rampogne.
Strano a dirsi, Tu hai una vaga percezione di quello che io intendo. Così ad esempio mi hai detto recentemente “Ti ho sempre voluto bene, anche se in apparenza il mio contegno non era quello degli altri padri, appunto perché non so fingere come gli altri”. In complesso, papà, io non ho mai dubitato della Tua bontà verso di me, ma questa affermazione non la credo giusta: E’ vero che tu non sai fingere, ma voler solo per questo sostenere che gli altri padri fingono è o pura protervia che non si può discutere oppure – e così è secondo il mio parere – la velata dimostrazione che fra noi due c’è qualcosa che non va, e che anche Tu ne sei causa, ma senza colpa. Se Tu lo ammetti, allora siamo d’accordo.
Non dico, naturalmente, di essere diventato quel che sono soltanto per il Tuo concorso. Questo sarebbe molto esagerato (e io inclino fin troppo a tale esagerazione). E’ assai probabile che, anche se fossi cresciuto libero dal Tuo influsso, non sarei diventato un uomo come volevi Tu. Sarei stato pur sempre una creatura debole, paurosa, dubbiosa, inquieta, certo non un Robert Kafka o un Karl Hermann*, certo però diverso da quello che sono, e avremmo potuto vivere in buona intesa. Sarei stato felice di averTi per amico, per principale, zio, nonno e perfino (sebbene con qualche esitazione) per suocero. Soltanto che come padre Tu eri troppo forte per me, tanto più che i miei fratelli morirono bambini, e le sorelle vennero molto più tardi, e io dovetti sopportare da solo il primo urto, per il quale ero di gran lunga troppo debole.
(…)

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Alla Tua superiorità fisica faceva riscontro quella spirituale. Tu ti eri innalzato con le Tue sole forze, di conseguenza avevi una fiducia illimitata in Te stesso. Per il bambino ciò era meno evidente di quanto non lo fu per il giovane che si faceva adulto. Dalla Tua poltrona Tu governavi il mondo. La Tua opinione era giusta, ogni altra era assurda, stravagante, pazza, anormale. La Tua sicurezza era così grande che potevi anche essere incoerente e tuttavia non cessavi di avere ragione. Accadeva anche che su certe questioni Tu non avessi opinione alcuna, e allora tutte le opinioni possibili intorno a quel tema dovevano essere sbagliate senza eccezione. Per esempio prima insultavi i cechi, poi i tedeschi, poi ancora gli ebrei, e ciò non a proposito di alcunché di particolare, ma sotto tutti i riguardi, tanto che alla fine Tu solo rimanevi. AcquistasTi ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul pensiero. A me, almeno, pareva così.

Nel 1919, all’età di trentasei anni, Franz Kafka scrisse questa lunghissima lettera al padre, che non fu mai consegnata e venne pubblicata solo in seguito, dopo la morte dell’autore e del destinatario. Tuttavia essa ci serve per chiarire non soltanto l’atteggiamento di un figlio nei confronti di un padre “forte”, ma come tale rapporto si segnasse fin da subito nella sensibilità eccitabile di Franz sotto il segno “psicoanalitico” della castrazione, per meglio dire l’impossibilità di diventare adulto perché tutto lo spazio era già occupato dal padre, che giustifica se stesso con il verbo essere, cioè è, come un tiranno, facendo in modo che gli altri non possano che essere dei sudditi. E’ un grido disperato ma lucido quello di Kafka, una testimonianza forte e decisa di quella figura di primo Novecento che troverà la sua definizione in colui che è incapace a vivere, con una sola parola, l’inetto.

egon_schiele_-_doppelbildnis_heinrich_und_otto_benesch.jpgEgon Schiele: Padre con figlio

Laureatosi nel 1906 in giurisprudenza iniziò a lavorare in un istituto di assicurazioni, S’innamorò dapprima della titolare di una ditta, Felice Bauer, che rappresentava con la sua vivacità un perfetto alter ego, quindi con una scrittrice Milena Jesenska, ma solo con Dora Dymant riuscì a trovare un po’ di serenità. Fondamentale fu l’amicizia con lo scrittore Max Brod che divenne il suo confidente.

La voglia di scrivere è testimoniata dall’esigenza di narrarsi in un Diario, ma è del 1916 l’unica opera pubblicata in vita che rappresenta uno dei vertici della narrazione novecentesca, La metamorfosi:

Gregor Samsa, commesso viaggiatore, è, dopo il fallimento del padre, il sostegno della famiglia. Ma, svegliatosi il mattino dopo una notte di incubi, si trova trasformato in un enorme insetto. Accortosi della ripugnanza che desta nei familiari, si adatta a dormire sotto il letto e a non comparire più in pubblico. Si nutre soltanto di rifiuti, assistito da una vecchia serva, l’unica che sopporti la sua vista. Ma un giorno, attirato dal suono del violino della sorella Grete, compare fra i suoi. Il padre gli scaglia una mela, che lo ferisce. Ne muore poco dopo. La vecchia serva, pur commiserandolo, lo getta nella spazzatura.

IL RISVEGLIO DI GREGOR SAMSA

Quando Gregor Samsa di risvegliò una mattina da sogni tormentosi si ritrovò nel suo letto trasformato in un insetto gigantesco. Giaceva sulla schiena dura come una corazza e sollevando un poco il capo poteva vedere la sua pancia convessa, color marrone, suddivisa in grosse scaglie ricurve; sulla cima la coperta, pronta a scivolar via, si reggeva appena.  Le sue numerose zampe, pietosamente esili se paragonate alle sue dimensioni, gli tremolavano disperate davanti agli occhi.
«Che cosa mi è successo?» pensò. Non era un sogno. La sua stanza, una vera stanza, – sia pure piccola – per esseri umani, era tranquillamente racchiusa fra le quattro pareti così familiari. Sopra al tavolo, sul quale era sparso un campionario di stoffe – Samsa era un commesso viaggiatore – era appesa la figura che aveva recentemente ritagliato da un giornale illustrato e sistemato in una bella cornice dorata. Rappresentava una signora seduta tutta impettita con un cappellino e un boa di pelliccia, che ostentava a chi la guardasse un ampio manicotto nel quale scomparivano i suoi avambracci.
Lo sguardo di Gregor si rivolse poi alla finestra e il cattivo tempo – si udiva la pioggia picchiettare sulle parti metalliche della finestra – lo rattristò completamente. «Che accadrebbe se continuassi a dormire un altro po’ dimenticando queste sciocchezze?», pensò, ma non era proprio fattibile perché era abituato a dormire sul fianco destro e nella condizione in cui si trovava non poteva assumere quella posizione. Per quanto si sforzasse di buttarsi verso destra ripiombava sempre nella posizione supina. Ci provò un centinaio di volte, chiuse gli occhi per non vedere le zampe annaspanti, e rinunciò solo quando cominciò a sentire sul fianco un dolorino sordo mai provato prima di allora.
«Oh Dio,» pensò, «che mestiere faticoso mi sono scelto! Sempre in giro, un giorno dopo l’altro. L’affanno per gli affari è molto maggiore che nell’azienda, inoltre devo sopportare anche questa piaga da viaggiatore, i crucci per le coincidenze, i pasti irregolari e cattivi, rapporti umani sempre mutevoli, mai costanti, mai cordiali. Che vada tutto al diavolo!» Provò un leggero prurito sulla pancia, ; si trascinò lentamente sul dorso verso la testata del letto per poter sollevare meglio il capo, localizzò la parte che gli prudeva e che era cosparsa di puntini bianchi, di cui non riusciva a spiegarsi la causa; volle toccare la parte con una zampa, ma la ritirò subito perché il contatto lo fece rabbrividire.
Scivolò nuovamente nella posizione di prima. «Queste continue levatacce», pensò, «finiscono per rincitrullire. Ogni essere umano ha bisogno delle sue giuste ore di sonno. Gli altri viaggiatori di commercio hanno una vita da pascià! Quante torno alla locanda nel corso della mattinata per trascrivere le ordinazioni ricevute, quei signori stanno appena consumando la prima colazione. Se facessi una cosa simile col principale che mi ritrovo, verrei cacciato su due piedi. Chi sa, però, se non  sarebbe meglio per me. Se non cercassi di dominarmi per far piacere ai miei genitori avrei dato le dimissioni da lungo tempo, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo come la penso. L’averi fatto cadere dalla cattedra! E’ anche una strana abitudine quella di mettersi in cattedra e  di parlare dall’alto coi dipendenti, che oltre tutto  devono venire assai vicino a causa della sordità del principale. Comunque non tutte le speranze sono perdute; quando avrò raggranellato abbastanza soldi per pagare il debito che i miei genitori hanno verso di lui – e non ci dovrei mettere più cinque o sei anni – mi licenzierò senz’altro. Sarà un taglio netto. Intanto, però, devo alzarmi: il mio treno parte alle cinque.»
E guardò la sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo Cielo!» esclamò tra sé. Erano le sei e mezza e le lancette proseguivano tranquillamente il loro cammino, anzi era ancor più tardi, mancava poco ai tre quarti. Forse la sveglia non aveva suonato? Si vedeva benissimo anche dal letto che era stata fissata sulle quattro: aveva suonato sicuramente. Sì, ma era mai possibile continuare a dormire pacificamente con quel frastuono che scuoteva i mobili? In verità, non aveva dormito proprio pacificamente però forse per questo il sonno era stato più pesante. Che cosa doveva fare ora? Il prossimo treno partiva alle sette: per prenderlo avrebbe dovuto sbrigarsi come un matto, il campionario non era ancora sistemato e lui stesso non si sentiva particolarmente sveglio e attivo. E anche se avesse preso quel treno una sfuriata del principale sarebbe stata inevitabile, perché l’usciere della ditta aveva atteso al treno delle cinque e aveva già riferito la sua mancanza. Era una creatura del padrone, senza spina dorsale né comprendonio. E si fosse dato per malato? E ciò sarebbe stato assai penoso e sospetto, perché durante i suoi cinque anni di servizio Gregor non era mai stato ammalato. Sicuramente il principale sarebbe venuto col medico della cassa malattia, avrebbe rimproverato i genitori per la pigrizia del loro figlio e avrebbe troncato  qualsiasi obiezione rimettendosi al parere del medico della cassa malattia, per il quale esistono soltanto persone sanissime o pelandroni. E gli si poteva dare torto nel suo caso? Gregor, a parte il sopore eccessivo dovuto al lungo sonno, si sentiva veramente bene e aveva persino una gran fame.
Mentre questi pensieri gli turbinavano per la mente, e senza che si decidesse a lasciare il letto – proprio in quel momento la sveglia faceva le sei e tre quarti – venne bussato lievemente alla porta che si trovava vicino alla testata del letto.«Gregor,» mormorò una voce – era la mamma – «sono le sette meno un quarto. Non dovevi partire?» La dolce voce! Gregor sussultò udendo la propria voce mentre rispondeva che era indubbiamente ancora quella di prima, in cui si mescolava però, dal basso, un insopprimibile frinire fastidioso, che solo in un primissimo momento lasciava alle sue parole un suono integro, ma poi lo deformava al punto da far credere di aver udito male. Gregor avrebbe voluto rispondere fornendo tutti i particolari, ma in simili condizioni si limitò a dire: «Sì sì, grazie mamma, mi sto alzando.» La porta chiusa impediva che fuori si notasse il cambiamento della voce di Gregor, perciò la mamma rassicurata se ne andò strascicando i piedi. Ma il breve dialogo aveva rivelato agli altri membri della famiglia che, contro ogni aspettativa, Gregor si trovava ancora in casa; e il padre si era messo a bussare alla porta,  debolmente ma col pugno. «Gregor, Gregor,» gridò, «che cosa c’è?» E dopo un breve intervallo tonò con voce più profonda: «Gregor! !Gregor!» Dietro l’altra porta la sorella bisbigliava: «Gregor! Non ti senti bene? Hai bisogno di qualcosa?» Gregor rispose ad entrambi le direzioni «Sono già pronto» e si sforzò di eliminare ogni suono dalla sua voce scandendo le parole con molta cura e separandole con lunghe pause. Infatti il padre se tornò alla sua colazione, ma la sorella mormorò: «Gregor apri, te ne supplico.» Gregor  non pensava proprio di aprire, anzi si compiaceva dell’abitudine presa nel corso dei suoi viaggi di chiudere a chiave le porte durante la notte anche quando si trovava in casa propria.

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La prosa di Kafka ci descrive in modo mirabile l'”assurdo quotidiano”. Cosa intendiamo con questo? A ben guardare quello che colpisce è la normalità con cui, in questo caso, Gregor, proprio all’inizio del racconto, gestisce il suo svegliarsi scarafaggio. Non ci viene adombrata una causa. Gregor, senza motivo e senza alcuna percezione, se non quella di un profondo sonno, durante la notte si trasforma in un orrendo insetto. L’autore, rigorosamente eterodiegetico, ci informa soltanto della preoccupazione per il fare tardi al lavoro. 

E’ evidente che pertanto la lettura che dobbiamo esercitare in un testo così inquietante non può prescindere dal concetto di alienazione che colpisce gran parte della narrativa di primo Novecento. Qui alienazione assume un carattere quasi etimologico, alius, altro, diverso: si tratta infatti di una regressione verso una forma lontanissima, invertebrata, e per di più considerata immonda dalla società, accentuata dall’essere dapprima chiusa, quindi nascosta in spazi angusti, ristretti, dove permangono oggetti altrettanto alienati (la foto di un’immagine femminile tratta da una rivista incastonata in una cornice dorata che lui cercherà di difendere con tutte le sue forze).

folon-kafka-4.jpgLa Metamorfosi di Kafka illustrata da Jean Michel Folon

Si ricrea qui, sotto forma letteraria quel rapporto malato e ambiguo tra lui, essere privo di forza e l’autorità, che abbiamo già letto nella Lettera al padre: qui l’autorità è rappresentata dal padre di Gregor che “uccide” il figlio con una mela (nel brano riportato bussa preoccupato, ma con un pugno), ma anche dal principale da cui vorrebbe scappare ma non può – inconsciamente non vuole – che ci viene raccontato come in cattedra, autoritario nell’alto della sua potenza.

Dopo aver vissuto gli ultimi anni a casa della sorella Ottla, attraversò un periodo buio di crisi religiosa, determinata anche dalla visione straziante dei reduci di guerra. Morì piuttosto giovane, a quarantuno anni, di turbecolosi. Il suo amico Max Brod venne meno alla promessa fatta di bruciare tutto ciò che non fosse stato già pubblicato, e vennero così alla luce i romanzi incompiuti Il processo, Il castello e Amerika.

Ecco la trama de Il processo:

Josef K., trent’anni, impiegato di banca, è dichiarato in arresto da due persone. Un processo è stato istruito nei suoi confronti. Dapprima sicuro di sé, poi via via schiacciato da una macchina processuale di cui gli sfuggono i meccanismi, Josef K. finisce per trascurare il lavoro fino a lasciarsi assorbire completamente dalle esigenze del processo. Abbandonato da tutti, si rassegna alla fine ad accettare una condanna che lui stesso, senza saperne il motivo, ritiene irrevocabile. All’alba del giorno del suo trentunesimo compleanno, altri due signori vestiti di nero si presentano davanti a casa sua, lo prelevano e lo conducono ai margini della città dove verrà giustiziato.

L’ARRESTO DI JOSEF K.

Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni giorno verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Non era mai successo prima. K. aspettò ancora un poco, guardò dal suo cuscino la vecchia che abitava di fronte e lo stava osservando con una curiosità del tutto insolita per lei, ma poi, stupito e affamato insieme, suonò il campanello. Subito bussarono e un uomo che K. non aveva mai visto prima in quella casa entrò. Era slanciato ma di solida corporatura, indossava un abito nero attillato che, come quelli da viaggio, era provvisto di varie pieghe, tasche, fibbie, bottoni e cintura, e dava quindi l’impressione, senza che si capisse bene a che cosa dovesse servire, di essere particolarmente pratico.
«Lei chi è?», chiese K. subito sollevandosi a metà nel letto. Ma l’uomo eluse la domanda, come se la sua comparsa fosse da accettare e si limitò a chiedere a sua volta: «Ha suonato?».
«Anna mi deve portare la colazione», disse K. e cercò, dapprima in silenzio, con l’osservazione e la riflessione, di stabilire chi mai fosse l’uomo. Ma questi non si espose troppo a lungo ai suoi sguardi, si volse verso la porta e l’aprì un poco per dire a qualcuno che stava evidentemente subito dietro: «Vuole che Anna gli porti la colazione».
Ci fu una risatina nella stanza accanto, dal suono non poteva essere sicuro che non venisse da più persone. Sebbene l’estraneo non potesse con questo aver appreso nulla che già non avesse saputo prima, disse a K. con il tono di una comunicazione: «È impossibile».
«Questa sarebbe nuova», disse K., saltò dal letto e s’infilò in fretta i pantaloni. «Voglio un po’ vedere che gente c’è nell’altra stanza e che giustificazione mi darà la signora Grubach per questa seccatura». Gli venne subito in mente che non avrebbe dovuto dire questo a voce alta, e che in tal modo riconosceva all’estraneo un qualche diritto di controllo, ma al momento la cosa non gli parve importante. L’estraneo, comunque, l’intese così, perché disse: «Non preferisce rimanere qui?».

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«Non voglio rimanere qui né che lei mi rivolga la parola finché non si sarà presentato».
«L’intenzione era buona», disse l’estraneo e aprì ora spontaneamente la porta. Nella stanza accanto, dove K. entrò più lentamente di quanto volesse, a un primo sguardo tutto pareva quasi immutato dalla sera prima. Era il soggiorno della signora Grubach, forse nella stanza stracolma di mobili, tessuti, porcellane e fotografie, c’era un po’ più spazio del solito, non lo si vedeva subito, anche perché il cambiamento principale consisteva nella presenza di un uomo, seduto vicino alla finestra con un libro da cui ora alzò lo sguardo.
«Sarebbe dovuto rimanere nella sua stanza! Non glielo ha detto Franz?».
«Ma lei che cosa vuole?», disse K., e volse lo sguardo dalla nuova conoscenza all’uomo chiamato Franz, che era rimasto sulla porta, e poi ancora all’altro. Dalla finestra aperta si vedeva di nuovo la vecchia che, con una curiosità veramente senile, si era adesso spostata alla finestra dirimpetto per continuare a vedere ogni cosa.
«Insomma, voglio la signora Grubach…», disse K., e fece un movimento come per divincolarsi dai due uomini, che pure stavano distanti da lui, e andarsene.
«No», disse l’uomo vicino alla finestra, gettò il libro su un tavolino e si alzò. «Lei non può andarsene, è in arresto».
«Si direbbe proprio», disse K. «E perché?», chiese poi.
«Non siamo autorizzati a dirglielo. Vada in camera sua e aspetti. Il procedimento è appena avviato, e lei saprà tutto a tempo debito. Vado oltre il mio incarico parlandole così amichevolmente. Ma spero che non ci senta nessuno al di fuori di Franz, e anche lui è gentile con lei contro ogni regola. Se continua ad avere la fortuna che ha avuta con l’assegnazione delle sue guardie, può sperare in bene».

Il_Processo_1962.pngAnthony Perkins nella parte di Josef K. nel film omonimo di Orson Welles del 1962

Se Gregor vive nella trasformazione/degradazione di sé il senso della propria alienazione Josef K. (Kafka?) vive la stessa da un esterno inspiegabile, altrettanto assurdo. A ben pensare quello che definisce il protagonista della storia è un non essere: l’inizio ex abrupto ci dice cosa succede, non chi lui sia né come siano le sue fattezze. E’ un nome (neppure un cognome). Una cosa fa, probabilmente in modo inconsapevole, vive e vive in una reiterata quotidianità, tanto che questa, quando viene meno, diventa piccolo dramma. Egli pertanto è colpevole perché vive e, avendo una colpa/non colpa avrà di conseguenza una imputazione/non imputazione altrettanto determinata: il suo essere è già di per sé una colpa. Per questo il suo percorso, raccontato esemplarmente assumendo il punto di vista del protagonista, fa in modo che il lettore si identifichi con lui. Josef è vittima del suo argomentare in modo raziocinante, quindi naturale ma ciò che si trova di fronte è il contrario della normalità. Ma sarà quest’ultima, attraverso il processo dell’inversione, che sarà raccontata “come cosa normale” mentre le rimostranze di Josef saranno sempre meno convincenti per gli altri e quindi anche per sé. Questa capacità kafkiana oserei dire di straniamento provocherà un senso d’angosciante assurdità cui Joseph deve sottostare e che lo condurrà inevitabilmente ad una condanna che la Legge gli infliggerà. 

Kafka è uno degli autori più problematici del Novecento, la cui interpretazione non è semplice. Egli tuttavia può essere considerato, nel complesso, come l’interprete della fragilità e dell’esilio dell’uomo contemporaneo. I protagonisti delle sue opere sono personaggi che non trovano spiegazione al loro agire, in quanto forniti d’inadeguatezza propositiva, ma soprattutto non trovano un senso non nel loro agire, ma nelle cose per le quali dovrebbero agire. La fragilità dell’uomo kafkiano non è nella sconfitta, cui è destinato, ma nell’impossibilità di comprenderla. Il gioco sta nel tentativo di comprendere logicamente le ragioni delle cose, ma quest’ultime sopraffanno l’uomo stesso, che si trova “invischiato” in un meccanismo più grande di lui. Tutto ciò è reso da Kafka con moduli narrativi e stilistici di grande originalità: egli infatti descrive le cose con estrema minuziosità, siano essi ambienti, o piccoli oggetti; tuttavia proprio questa attenzione fa sì che essi si carichino di implicazioni simboliche, di allusioni polisense. In un certo modo esasperando attraverso lo sguardo le cose, egli (come l’espressionismo) ce le fa apparire allucinate, con una fredda luce che ne toglie credibilità, illuminandole in un agghiacciante assurdo. Ladislao Mittner, studioso di letteratura tedesca, definisce il modo di scrittura kafkiano “realismo grottesco” e così spiega l’estraneità alla vita dell’autore praghese: “Chi vive fuori della realtà, trova assurda ed angosciante la realtà intera, e la trova tanto più assurda ed angosciante, quanto più perfettamente essa ubbidisce alla propria legge, quanto più è normale ed anche banale. Essendo impossibile ogni e qualsiasi possibilità reale, diventa per converso possibilissimo tutto quanto nella realtà concreta è impossibile. Assurdi sono gli eventi che colpiscono l’eroe kafkiano, ma la loro assurdità è narrata senza alcun pathos, in uno stile da relazione scientifica o addirittura da verbale giudiziario.” 

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Kafka in un disegno di Tullio Pericoli

Robert Musil

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Robert Musil è uno scrittore austriaco, nato nel 1880. Dopo il liceo si laurea in ingegneria meccanica, lavorando si da subito all’interno dell’università. Dopo pochi anni si trasferisce a Berlino, dove consegue una seconda laurea in Filosofia. Già precedentemente aveva dato alle stampe il suo primo romanzo I turbamenti del giovane Törless, a cui seguiranno un libro di racconti Incontri. Allo scoppio della prima guerra mondiale si arruola e viene spedito nel fronte italiano. Alla fine della guerra torna a Berlino, dove inizia la sua opera più importante L’uomo senza qualità. Tornato a Vienna nel 1935, l’abbandonerà a seguito dell’invasione tedesca. Contrario al nazismo si rifugiò in Svizzera, lavorando incessantemente al suo romanzo pur non riuscendo a terminarlo. Morirà a Ginevra nel 1942, dopo aver trascorso gli ultimi anni in forti ristrettezze economiche.

Come già detto il suo primo romanzo è I turbamenti del giovane Törless (1906), dettato dall’esperienza biografica di studio all’interno di un collegio militare (dove studierà anche Rilke)

La vita del giovane Törless, consegnato al collegio da una famiglia impeccabilmente borghese, scorre dapprima nella pigrizia e nell’inerzia. In questo stato di fragilità intellettuale Törless comincia a prendere coscienza degli enigmi incomprensibili, dei vuoti e delle contraddizioni che minano il compatto tessuto del reale. Con la vecchia prostituta Božena che, a servizio dai signori, ne ha conosciuto il mondo e la corruzione. Törless conosce la sessualità come degradazione ma anche come sfondamento dei limiti, e acquisisce la consapevolezza che il mondo dei propri genitori, apparentemente integro e casto, è anch’esso contaminato. Törless prende atto dell’esistenza di due mondi, uno chiaro e diurno, solitamente borghese in cui ogni cosa appare inserita in un ordine razionale, e un altro dissoluto, nudo e distruttivo, pieno di oscurità e sangue, come lo stanzino che due tra i peggiori allievi dell’istituto, Reiting e Beineberg, hanno scoperto e adibito a teatro della propria folle violenza. L’edificio della realtà appare a Törless instabile e sdrucciolevole, fondato sul nulla, e il pensiero gli si rileva un mezzo insufficiente, tanto che Törless, per indagare la vita, si affida non solo a una sensibile e acuta intelligenza, ma anche a un’ambigua e disponibile sessualità., la quale lo porta a sperimentare l’abiezione di un rapporto carnale con un debole compagno, già vittima di Reiting e Beineberg. Solo nella raggiunta consapevolezza che le cose vanno viste “ora con la ragione, ora altrimenti, senza confonderle, Törless, che abbandonerà il collegio, saprà dissociarsi dai suoi camerati ed emanciparsi dai propri turbamenti giovanili.

IL GIOVANE TÖRLESS IN COLLEGIO

Una piccola stazione, sulla linea ferroviaria che porta in Russia.
Dritte a perdita d’occhio quattro rotaie parallele correvano nelle due direzioni tra il pietrisco giallo dell’ampia massicciata; accanto a ciascuna, come un’ombra sporca, la striscia scura impressa sul terreno dai vapori di scarico.
Dietro il basso edificio della stazione pitturata a olio una strada larga, scavata dai solchi delle vetture, portava su fino alla rampa. I suoi bordi si perdevano nel terreno circostante, tutto calpestato, ed erano riconoscibili solo grazie a due filari di acacie che fiancheggiavano meste la strada con le foglie riarse e soffocate dalla polvere e dalla fuliggine.
Fosse l’effetto di questi tristi colori, fosse la luce debole e smorta del sole pomeridiano, illanguidita dalla foschia, le cose e le persone avevano un’aria apatica, fiacca e meccanica, quasi fossero uscite dallo scenario d’un teatro di burattini. Di tanto in tanto, a intervalli regolari, il capostazione usciva dal suo ufficio, risaliva con lo sguardo, girando sempre la testa nello stesso modo, la lunga linea ferroviaria e scrutava le cabine di segnalazione che ancora non si decidevano ad annunciare l’arrivo del diretto, in gran ritardo sin dal confine; poi, con un gesto sempre identico del braccio, toglieva l’orologio dal taschino, scuoteva la testa e scompariva di nuovo, come vengono e vanno le figure che allo scoccare dell’ora escono da certi antichi orologi delle torri.
Sulla larga striscia in terra battuta tra i binari e l’edificio una gaia compagnia di giovani passeggiava su e giù stringendosi attorno a una matura coppia di coniugi che formava il centro della conversazione piuttosto chiassosa. Ma anche l’allegria di questo gruppo non era proprio tale, il chiasso delle gioconde risate sembrava ammutolire due passi più in là e cadere a terra urtando contro un ostacolo invisibile e tenace.
La moglie del consigliere di corte Törless – era lei la signora sulla quarantina – nascondeva dietro la fitta veletta gli occhi tristi un po’ arrossati dal pianto. Era il momento dell’addio, e le pesava dover lasciare ancora una volta per tanto tempo il suo unico figlio tra gente estranea, senza la possibilità di vegliare lei sul suo beniamino.
La cittadina infatti, ben lontana dalla capitale, si trovava nella parte orientale dell’impero, in una regione agricola arida e non molto popolata.
La ragione per cui la signora Törless doveva rassegnarsi a sapere il suo ragazzo in un posto così lontano e inospitale era l’esistenza, in quella città, di un famoso collegio, che già dal secolo precedente, quand’era stato costruito sul terreno di un pio istituto, s’era deciso di tenere laggiù, certo per preservare i giovani, negli anni della loro maturazione, dagli influssi corruttori di una grande città. Là infatti i figli delle migliori famiglie del paese ricevevano la loro educazione, in attesa di entrare, una volta lasciato l’istituto, all’università o nella carriera militare o in quella burocratica, e in tutti questi casi, come pure per l’ammissione negli ambienti della buona società, l’esser cresciuti nel convitto di W. era un ottimo biglietto di presentazione.
Quattro anni prima ciò aveva indotto i signori Törless a cedere alle ambiziose insistenze del loro ragazzo e a ottenere la sua ammissione all’istituto.
Questa decisione, più tardi, era costata molte lacrime. Infatti, quasi a partire dal momento in cui il portone del collegio s’era irrevocabilmente chiuso dietro di lui, il piccolo Törless aveva cominciato a soffrire di una terribile, appassionata nostalgia. Né le lezioni, né i giochi sui grandi prati rigogliosi del parco, né le altre distrazioni che il convitto offriva ai suoi ospiti riuscivano a interessarlo. Vi partecipava appena, vedeva ogni cosa come attraverso un velo; anche di giorno durava spesso fatica a ricacciare in gola certi ostinati singhiozzi; di sera poi s’addormentava sempre tra le lacrime.
Scriveva lettere a casa quasi ogni giorno, e viveva solo in quelle lettere; tutte le sue altre occupazioni gli parevano solo fatti nebulosi e insignificanti, tappe del suo cammino indifferenti come le ore sul quadrante di un orologio. Invece quando scriveva sentiva in sé qualcosa di esclusivo che lo distingueva: come un’isola piena di soli e colori meravigliosi, in lui emergeva qualcosa dal mare di grigie sensazioni che giorno dopo giorno lo stringeva, freddo e indifferente. E quando, nel corso della giornata, durante i giochi o le lezioni, pensava che la sera avrebbe scritto la sua lettera, gli pareva di portare appesa a una catena invisibile una segreta chiave d’oro con cui, quando nessuno vedeva, avrebbe aperto la porta di meravigliosi giardini.
Il lato più singolare di tutto ciò era che quell’improvviso e divorante amore per i suoi genitori a lui per primo riusciva nuovo e sconcertante. Prima non ne aveva supposto l’esistenza, era entrato volentieri, spontaneamente in collegio, aveva addirittura riso quando al primo commiato sua madre non aveva saputo trattenere un gran pianto, e solo dopo, quand’era là ormai da vari giorni e s’era anche trovato abbastanza bene, gli era scoppiata dentro quella reazione improvvisa, elementare.
La credeva nostalgia, desiderio prepotente dei genitori. In realtà era qualcosa di assai più indefinito e composito. Perché l'”oggetto” di quello struggimento, l’immagine dei suoi genitori, a ben guardare non era più presente in esso. Intendo quel certo ricordo plastico di una persona amata che è fisico e non soltanto della memoria e che parla a tutti i sensi e viene custodito in ciascuno di essi, per cui non si può far niente senza sentirsi al fianco, invisibile e silenzioso, l’altro. Questo ricordo svanì presto, come un’eco che avesse vibrato solo per un breve tratto. In quel periodo, per esempio, Törless non riusciva più a evocare l’immagine dei suoi – così li chiamava per lo più tra sé – “cari, cari genitori”. Se ci si provava, invece di quella affiorava in lui, un dolore sconfinato, il cui anelito lo torturava e tuttavia lo teneva ostinatamente avvinto, perché le sue fiamme gli facevano male e l’estasiavano insieme. Il pensiero dei genitori divenne per lui sempre più un espediente per eccitare in sé quell’egoistica sofferenza che lo chiudeva nel suo orgoglio voluttuoso come nel segreto di una cappella dove da cento ceri accesi e da cento occhi di sacre immagini venisse sparso incenso tra gli spasimi dei flagellanti.
Quando, più tardi, la “nostalgia” divenne meno violenta e a poco a poco scomparve, questa sua natura si rivelò infatti abbastanza chiaramente. La sua scomparsa non portò una tranquillità a lungo attesa ma lasciò nell’animo del giovane Törless un vuoto. E da questo nulla, da questo vuoto che sentiva in sé egli capì che non gli veniva a mancare un semplice struggimento ma qualcosa di positivo, una forza interiore, qualcosa che col pretesto della sofferenza s’era sviluppato rigoglioso dentro di lui.
Ma ormai era tutto passato, e quella fonte di una prima eletta beatitudine gli s’era rivelata solo inaridendosi.
In questo periodo scomparvero di nuovo dalle sue lettere i segni appassionati del primo risveglio della sua anima; il loro posto fu preso da descrizioni particolareggiate della vita nell’istituto e dei nuovi amici. Lui, Törless, in questa situazione si sentiva impoverito e spoglio come un alberello che dopo una fioritura ancora senza frutto viva il suo primo inverno.
I genitori, invece, ne furono contenti. Lo amavano di una tenerezza forte, istintiva, animale. Ogni volta che lui tornava dal convitto per una vacanza, alla moglie del consigliere la casa appariva, dopo, di nuovo morta e vuota, e nei giorni che seguivano ognuna di quelle visite lei si aggirava per le stanze con le lacrime agli occhi, carezzando qua e là un oggetto che il suo ragazzo aveva tenuto tra le dita o su cui aveva posato l’occhio. Tutt’e due si sarebbero lasciati fare a pezzi per lui.
La goffa tenerezza e l’appassionata, caparbia afflizione delle sue lettere li impensierì e provocò in loro un’esaltazione sentimentale; la serena e soddisfatta superficialità che venne poi rallegrò anche loro; pensando che fosse il segno del superamento di una crisi la favorirono quanto più poterono. Né l’una né l’altra apparvero loro il sintomo di una precisa evoluzione psicologica: al contrario, essi accolsero sia la pena che l’acquietamento come una naturale conseguenza di quello stato di cose. Sfuggì loro che s’era trattato del primo, fallito tentativo dell’adolescente lasciato a se stesso di dispiegare le proprie energie interiori.

tor2.jpgScena del film del 1966 tratto dal libro di Musil

E’ la parte iniziale del romanzo, ma che ci fa già capire quali saranno le linee entro le quali l’autore svilupperà la sua narrazione: dapprima ci si mostra un ragazzo alla fermata di un treno con una madre apprensiva che lo lascia partire per la prima volta in un collegio esclusivo e all’interno della stazione Törless nota che le cose e le persone avevano un’aria apatica, fiacca e meccanica, quasi fossero uscite dallo scenario d’un teatro di burattini (sembra quasi che la percezione del giovanissimo protagonista riesca a cogliere l’apatia alienante dei viaggiatori, scoprendo in lui una capacità d’osservazione critica); passa quindi a sottolineare l’esclusività del luogo, per far meglio risaltate, durante la lettura come esso sia un microcosmo pieno d’ipocrisia e violenza. La pagina continua con le sue prime “fanciullesche” impressioni, lette come nostalgia per le figure genitoriali per poi colpirci con la repentina mutabilità psicologica per cui Questo ricordo svanì presto, come un’eco che avesse vibrato solo per un breve tratto, per lasciare un vuoto, vuoto che Törless dovrà imparare a riempire e che gli permetterà di dispiegare le proprie energie interiori.

I turbamenti del giovane Törless (ci piace pensarlo come il fratello di Tonio Kröger di Mann) è un Bildungsroman (romanzo di formazione) il cui protagonista è un giovane della borghesia tedesca: egli svilupperà un forte rapporto conflittuale con i genitori (a dimostrazione di un fallimento delle strategie educative di quella nazione); infatti ne hanno fatto un giovane debole di carattere che non saprà dir di no a violenze e ad aberrazioni anche sessuali verso i più deboli, ma anche con una profondità introspettiva che gli faranno capire il non senso di tale azioni, che lo porteranno infine ad abbandonare il collegio. 

Sembra proprio che la letteratura di lingua tedesca rifletta sulla separazione tra il mondo degli adulti contenti del loro raggiunto benessere borghese e quello dei giovani che si sente rispetto ad esso estraneo, lontano, alienato, quasi percepisse la strage che di lì a poco avrebbero proprio loro pagato a caro a prezzo. 

Ma il capolavoro di Musil è L’uomo senza qualità (1930, 1933, 1943):

22415911798.jpgEdizione originale di Der Mann ohne Eigenschaften (L’uomo senza qualità)

Il filo conduttore del complesso romanzo, che si articola intorno a tre temi centrali, è Ulrich, uomo senza qualità in quanto proteso verso tutte le possibilità intellettuali e quindi vanamente impegnato a costruire il senso della propria esistenza. Costui, un colto ex ufficiale, verso nella matematica, viene eletto segretario di un comitato di aristocratici messo in piedi per organizzare le celebrazioni del giubileo di Francesco Giuseppe nel 1913. La cosa però si trascina per le lunghe e finirà per risolversi in un clamoroso fiasco. In questo filone principale sono inserite varie storie individuali, come il racconto della crisi familiare di Walter e Clarissa, che finirà con l’impazzire (prima parte), e quello del complesso legame che unisce Ulrich alla sorella Agathe, unica persona capace di influenzare il paralizzante relativismo e possibilismo del fratello (terza parte); o vicende di più ampio significativo sociale, come il caso, che affascina Ulrich, del condannato a morte Moosbrugger, o la descrizione della decadenza dell’impero asburgico, chiamato ironicamente Kakania, e della stessa società borghese (seconda parte).  

UN SENTIMENTO STRANISSIMO

Ma mentre l’assurda vanità di tutti gli sforzi di cui si era gloriato lo commoveva quasi fino alle lacrime, lo sorprese nello stato di veglia notturna in cui si trovava, o sarebbe meglio dire lo sopraffece, un sentimento stranissimo. In tutte le stanze splendevano ancora i lumi che Clarisse, mentre era sola, aveva acceso dappertutto, e l’eccesso di luce inondava le pareti e gli oggetti, riempiendo lo spazio di qualcosa di vivo. E forse era la tenerezza contenuta in ogni stanchezza indolore che trasformava l’insieme delle sue sensazioni fisiche, perché quella consapevolezza del proprio corpo, sempre presente benché non curata, e ad ogni modo delimitata solo vagamente, trapassava ad uno stato più molle e più largo. Era un allenamento, come se si fosse slegato un laccio troppo stretto; e giacché nelle pareti e negli oggetti nulla v’era di realmente mutato, e nessun Dio entrava nella dimora di quell’infedele e Ulrich stesso rinunziava alla sua lucidità di giudizio (fin dove la stanchezza non l’ingannava) voleva dire che soggetto a quella trasformazione poteva essere soltanto il rapporto tra lui e l’ambiente, e di quel rapporto, a sua volta, non il lato oggettivo, né i sensi e la ragione che gli si adeguano oggettivamente; la metamorfosi era quella di un sentimento profondo come le acque del sottosuolo, sul quale questi pilastri della percezione oggettiva e del pensiero poggiavano di solito, mentre ora smossi, si allontanavano oppure si avvicinavano: questa distinzione infatti aveva perso nel momento stesso ogni significato. «E’ un altro comportamento, io subisco una metamorfosi, e quindi anche le cose che stanno in relazione con me!» pensò Ulrich, che credeva di osservarsi bene. Ma si sarebbe potuto anche dire che la sua solitudine – uno stato che si trovava non soltanto in lui ma anche intorno a lui e che quindi univa l’uno e l’altro – si sarebbe potuto dire, e lo sentiva lui stesso, che tale solitudine diventava sempre più fitta e sempre più grande. Passava attraverso i muri, invadeva la città, senza tuttavia allargarsi, invadeva il mondo. «Quale mondo?» egli pensò «Il mondo non esiste!» Gli pareva che quel concetto non avesse più senso. Ma si sorvegliava ancora abbastanza da sentire in pari tempo che quell’espressione esagerata era sgradevole; non cercò altre parole, al contrario, da allora si riavvicinò alla lucidità piena e dopo pochi secondi si mise in moto. Il giorno spuntava e mescolava il suo lividore alla chiarità sempre più smorta della luce artificiale che moriva rapidamente. 

“Il brano ci mostra Ulrich passare ad un altro strato di coscienza, rispetto al quale è lui a comportarsi da strumento e non viceversa. I legami ai quali la sua percezione obbediva sembrano allentarsi; il suo corpo non appare più solidale con il dominio dello spazio e del tempo: quel che cambia è la sensazione che costituisce la base fra il nostro corpo e l’ambiente intorno, con la conseguenza che la percezione e pensiero non si disttinguono più: la percezione si spiritualizza e il pensiero diventa percettivo: E se tanto Ulrich quanto le cose intorno a lui sono avvolte nella solitudine che non permette un contatto vero, pare però che qualcosa nei rapporti possa cambiare: la solitudine ingigantisce e questo è già un modo incipiente per riappropriarsi del mondo da creatore. Nella trasformazione di Ulrich si trasforma anche tutto ciò che lo circonda e con cui viene in rapporto. Poi una sua critica espressione verbale  rompe l’incantesimo. Il proseguimento interpreta  quel nuovo stato di coscienza: si trattato di un momento mistico, in cui le distinzioni fra le cose perdono significato e ci si trova nel cuore del mondo senza volontà di dominarlo e senza quella volontà di possesso che nasce dalla sfera dell’avarizia e della voracità.” (Enrico De Angelis).

UNA BELLA GIORNATA DI AGOSTO  

Sull’Atlantico un minimo barometrico avanza in direzione orientale incontro a un massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isòtere si comportavano a dovere. La temperatura dell’aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi della luna, di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo nell’aria aveva la tensione massima, e l’umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con una frase che quantinque un po’ antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella giornata d’agosto dell’anno 1913. 

JacK Visser (2013).jpgJack Visser: Der Mann ohne Eigenschaften (2013)

In Musil non vi è solo la crisi dell’uomo contemporaneo al quale mancano punti di riferimento certi con cui  identificarsi, facendo sì che la coscienza (propria) e la percezione (dell’esterno) si trovino completamente confuse, ma vi è anche una rivoluzione linguistica che tale confusione deve registrare. Ed è così che in questo brano la lingua non può registrare una sensazione, che basata su un’individuale percezione perde la sua capacità informativa: infatti se il mondo è sempre più complesso e stratificato, formato da miriadi singolari di percezioni, la lingua che lo rappresenta non può che risultare antiquata, e pertanto lo deve fare con l’unico strumento della lingua ancora possibile in quanto capace di andare al di là della singolarità percettiva e questa lingua è quella tecnica e scientifica.

Rainer Maria Rilke

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Rainer Maria Rilke nasce a Praga nel 1875, conterraneo quindi dell’amato Kafka, di cui fu un attento lettore. Ma se la città boema per l’autore de La metamorfosi fu il luogo in cui visse e morì, per Rilke fu il punto di partenza che fecero di lui più un apolide, trovando la patria solo dentro se stesso. Viaggiò molto infatti: conosciuta Lou Andres Salomé, letterata russa già amante di Nietzsche, andò in Russia dove conobbe il vecchio Tolstoj e Pasternak, quindi si spostò a Parigi, lavorando per l’artista Rodin. Non pago toccò paesi come l’Egitto, la Spagna, la Svezia, la Danimarca, l’Italia e la Svizzera. La sua attività letteraria lo porta ad esprimersi soprattutto nella poesia, dando vita a diversi capolavori come le Elegie duinesi, iniziate dal 1912 ma pubblicate nel 1922) e i Sonetti ad Orfeo, scritti in Svizzera nel 1923. Muore per leucemia nel 1926. 

Del 1910 è il suo romanzo Quaderni di Malte Laurids Brigge

Il protagonista, un giovane intellettuale inquieto, va ad abitare, malato e solo, a Parigi. Vi sperimenta la paura, la solitudine, la miseria, ma impara a vedere le cose, che mostrano certe parvenze per poi fluire in altre in un flusso continuo. E’ attratto dai derelitti, dai dementi e dai miserabili che finiscono col dare alla città contorni ossessivi e allucinati. Annota in un suo diario sogni e incubi, reminiscenze all’infanzia, momenti felici e dolorosi. Su tutto prevale il senso della morte e la ricerca di Dio.

ECCO, ANCORA, TUTTE LE PAURE DIMENTICATE

Ed ecco ancora di nuovo, quella malattia che mi ha sempre colpito in modo così singolare. Sono sicuro che non se ne valuta tutta la gravità, mentre invece si esagera l’importanza delle altre. Non ha nessuna caratteristica propria – ma assume quelle delle persone che attacca. Con una sicurezza da sonnambula fruga nel nostro profondo per trarne fuori il più riposto pericolo: sembrava superato – e ce lo pone nuovamente dinanzi, vicinissimo, nell’ora imminente. Uomini che, nella loro pubertà, sperimentarono il più desolato, forse, dei vizi, di cui inconsapevoli complici sono le povere e dure mani adolescenti – se lo trovano ancora davanti; ecco, di nuovo, una malattia già vinta nella fanciullezza; oppure si ripresenta un’abitudine dimenticata, un certo modo esitante di voltare il capo, come si faceva anni prima. E insieme con quanto ritorna ecco alzarsi una selva di confusi ricordi che si avviticchiano al tutto come un viscido fuco intorno a un oggetto sommerso. 
Vite di cui non avremo saputo mai nulla salgono alla superficie confondendosi con le cose realmente accadute – e cancellano così un passato che presumevamo conoscere; perché in quello che risale  è una nuova e riposata forza – mentre il resto è stanco degli appelli troppo ripetuti.
Sono disteso al letto, al mio quinto piano, – e il giorno da nulla interrotto, è simile a un quadrante senza sfere. Come una cosa a lungo creduta smarrita si trova intatta una mattina al suo posto, forse più nuova che il giorno della perdita, quasi qualcuno l’avesse curata: così, sulla coperta del mio letto sono sparse cose perdute della mia fanciullezza – che sono come nuove. Ecco, ancora, tutte le paure dimenticate.
La paura che un piccolo filo di lana uscente dall’orlo della coperta sia rigido e aguzzo come un ago; la paura che questo piccolo bottone della camicia da notte sia più grande della mia testa, più grande e pesante; la paura che questa briciola di pane, in procinto di cadere dal letto, diventi diventi di vetro e si frantumi nel raggiungere il sulo – e il pensiero angoscioso che con lei tutto vada in frantumi, tutto e per sempre; la paura che l’estremità lacerata di una busta sia qualche cosa di proibito che nessuno deve vedere, qualche cosa di indicibilmente prezioso per cui nessun posto è sicuro nella stanza; la paura di ingoiare, nell’addormentarmi, quel pezzo di carbone che è lì davanti alla stufa; la paura che nel mio cervello cominci a crescere una cifra qualsiasi, fino a non trovarvi più spazio; la paura che il letto in cui sono disteso sia di granito, di scuro granito; la paura di poter gridare e che accorrano alla mia porta e che infine l’abbattano; la paura di tradirmi e di dire tutto quello che mi spaventa – e la paura di non potere dire nulla perché tutto è indicibile – e tutte le altre paure… le paure.
Ho pregato per ritrovare la mia infanzia: è ritornata, è sento che è sempre dura come una volta e che a nulla è servito invecchiare. 

paula-modersohn-becker.jpgPaula Modersohn-Becker, Porträt Rainer Maria Rilke, 1906

E’ evidente dal passo che abbiamo riportato che la prosa di Rilke sia ispirata all’espressionismo: immagini forti, oniriche, malate come lo stesso protagonista del romanzo (fortemente autobiografico) che s’immagina in una Parigi disumanizzata. Infatti potremo dire che Malte, intellettuale danese, attraverso raffigurazioni oserei dire pittoriche evocando un’infanzia pieni di terrori, li riporti in vita, li senta ancora propri; il vivere non ha portato maggiore autonomia intellettiva, ma maggiore consapevolezza del male all’interno dell’uomo, che Rilke, come altri autori del primo Novecento, riporta con quello che nell’irlandese Joyce sarà lo stream of consciousness.

Opere in lingua inglese

James Joyce

James Joyce è il più radicale, almeno nel suo capolavoro l’Ulisse, sperimentatore delle capacità espressive del linguaggio, tanto da fare di quest’opera il punto più alto delle avanguardie di primo Novecento.

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Nasce a Dublino nel 1882. Importante è la figura del padre, autoritario ma al contempo scialacquatore e gran bevitore, che gli fornirà il ritratto di alcuni importanti personaggi dei suoi racconti. Riceve una rigida educazione cattolica, che rifiuterà negli anni universitari. Incontra Nora Bernacle, compagna di una vita, e che lei si sposta dapprima a Parigi, quindi in Italia (Joyce si dimostrerà sin da giovane età amante della letteratura italiana), dove prima a Roma quindi a Trieste conoscerà Italo Svevo, promuovendone anche l’attività letteraria. Pubblica nel 1914 Gente di Dublino, ma a già precedentemente aveva cominciato a scrivere abbozzando un racconto Stephen Hero che diventerà nel 1917 Ritratto di un artista da giovane. Allo scoppio della guerra si rifugia in Svizzera, quindi a Parigi dove, per l’interessamento di intellettuali come Pound, Eliot e Yeats, riuscirà a pubblicare la sua opera più importante l’Ulisse (1922). Non passerà una bella vecchiaia: la sempre maggiore incapacità visiva, la schizofrenia della figlia Lucia (affidata a Jung), il problema dell’alcolismo lo accompagneranno nella stesura dell’ultima opera La veglia di Finnegam (1939). Morirà nel 1941. 

Gente di Dublino, (Dubliners), sono 15 racconti, scritti tra il 1904 e il 1907, ma pubblicati nel 1914. La sua struttura è unitaria: tre racconti dell’infanzia, quattro dell’adolescenza, quattro della maturità, tre su Dublino e l’ultimo che sembra racchiuderli tutti, I morti.

E’ la storia di una notte in prossimità del Natale: le signorine Kate e Julia Morgan organizzano un ballo ed una cena a cui partecipano anche Gregor e la moglie Gretta; dopo aver descritto i partecipanti la storia si sofferma su questa coppia di giovani sposi: 

I MORTI

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Gabriel non era andato alla porta con gli altri. Era in una parte scura dell’ingresso e teneva gli occhi fissi sulle scale. C’era una donna in piedi vicino alla cima della prima rampa, anche lei nell’ombra. Non ne vedeva il viso ma vedeva i pannelli terra cotta e rosa salmone della gonna che l’ombra faceva sembrare neri e bianchi. Era sua moglie. Era appoggiata alla ringhiera e ascoltava qualcosa. Gabriel era stupito della sua immobilità e tese l’orecchio per ascoltare anche lui. Ma udiva poco tranne il rumore di risa e di discussioni sui gradini della facciata, qualche accordo suonato sul pianoforte e qualche nota di una voce maschile che cantava.
Rimase immobile nel buio dell’ingresso, cercando di afferrare l’aria che la voce cantava e tenendo gli occhi fissi sulla moglie. C’era grazia e mistero nell’atteggiamento di lei come se fosse un simbolo di qualcosa. Si chiese di cosa è simbolo una donna in piedi sulle scale nell’ombra, che ascolta una musica lontana. Fosse stato un pittore l’avrebbe dipinta in quell’atteggiamento, il cappello di feltro blu avrebbe messo in risalto il bronzo dei capelli contro l’oscurità e i pannelli scuri della gonna avrebbero messo in risalto i chiari. Musica lontana avrebbe chiamato il quadro se fosse stato un pittore.
La porta d’ingresso venne chiusa e zia Kate, zia Julia e Mary Jane vennero avanti nell’ingresso, ridendo ancora: «Be’, non è terribile Freddy?» disse Mary Jane. «È veramente terribile.»
Gabriel non disse niente, ma indicò le scale nella direzione dov’era la moglie. Ora che la porta d’ingresso era chiusa, la voce e il pianoforte si udivano più chiaramente. Gabriel alzò la mano perché tacessero. La canzone sembrava essere nell’antica tonalità irlandese e il cantante sembrava incerto sia nelle parole sia nella voce. La voce, resa lamentosa dalla lontananza e dalla raucedine del cantante, illuminava debolmente il ritmo dell’aria con parole che esprimevano dolore:

Cade la pioggia sui miei ricci grevi

E di rugiada son bagnata tutta,
Freddo giace il mio bimbo…

«Oh» esclamò Mary Jane. «È Bartell D’Arcy che canta, e non ha voluto cantare tutta la sera. Ah, gli farò cantare una canzone prima che se ne vada.»
«Oh, sì, Mary Jane» disse zia Kate.
Mary Jane passò davanti agli altri e corse verso la scala, ma prima che la raggiungesse il canto si fermò e il pianoforte venne chiuso bruscamente.
«Oh, che peccato! » gridò. «Sta scendendo, Gretta?»
Gabriel udì la moglie rispondere di sì e la vide scendere verso di loro. A pochi passi la seguivano il signor Bartell D’Arcy e la signorina O’Callaghan.
«Oh, signor D’Arcy» gridò Mary Jane «è una vera cattiveria interrompersi così quando eravamo tutti in estasi ad ascoltarla.»
«Gli sono stata dietro tutta la sera» disse la signorina O’Callaghan «e la signora Conroy pure, e ci ha detto che ha uno spaventoso raffreddore e che non può cantare.»
«Oh, signor D’Arcy» disse zia Kate «che grosse frottole racconta.»
«Ma non vede che sono rauco come una cornacchia?» disse il signor D’Arcy sgarbato.
Entrò nella dispensa in fretta e si infilò il cappotto. Gli altri, presi alla sprovvista dalle parole scortesi, non trovarono niente da dire. Zia Kate corrugò la fronte e fece segno agli altri di cambiare argomento. Il signor D’Arcy, in piedi, si avviluppava il collo accuratamente aggrottando le ciglia.
«E’il tempo» disse zia Julia, dopo una pausa. «Sì, tutti hanno il raffreddore» disse zia Kate prontamente «tutti.»
«Dicono» disse Mary Jane «che non abbiamo avuto una neve simile da trent’anni, e ho letto stamattina nei giornali che c’è neve in tutta l’Irlanda.»
«Amo tanto vedere la neve» disse zia Julia tristemente.
«Anch’io» disse la signorina O’Callaghan.
«Secondo me Natale non è mai veramente Natale se non c’è la neve.»
«Ma al povero signor D’Arcy la neve non piace» disse zia Kate, sorridendo.
Il signor D’Arcy uscì dalla dispensa, completamente avviluppato e abbottonato, e in tono pentito raccontò la storia del suo raffreddore. Tutti gli dettero consigli e dissero che era un gran peccato e lo esortarono a stare molto attento alla sua gola nell’aria notturna. Gabriel osservava la moglie, che non prendeva parte alla conversazione. Stava in piedi proprio sotto la lunetta polverosa e la fiamma del gas illuminava il bronzo vivido dei capelli, che le aveva visto asciugare al fuoco qualche giorno prima. L’atteggiamento era lo stesso e sembrava inconsapevole della conversazione intorno a lei. Alla fine si voltò verso di loro e Gabriel vide che aveva le guance colorite e gli occhi lucidi.
Dal cuore gli scaturì un’improvvisa ondata di gioia. «Signor D’Arcy» disse lei «come si chiama quella canzone che stava cantando?»
«Si chiama La fanciulla di Aughrim» disse il signor D’Arcy «ma non riuscivo a ricordarla bene. Perché? La conosce?»
«La fanciulla di Aughrim» lei ripeté. «Non riuscivo a ricordarne il nome.»
«E’ un’aria molto bella» disse Mary Jane. «Mi dispiace che lei fosse giù di voce stasera.»
«Su, Mary Jane» disse zia Kate «non seccare il signor D’Arcy. Non voglio che sia seccato.»
Vedendo che tutti erano pronti a partire li accompagnò alla porta, dove si augurarono la buona notte.
«Bene, buona notte, zia Kate, e grazie per la piacevole serata.»
«Buona notte, Gabriel. Buona notte, Gretta!»
«Buona notte, zia Kate, e grazie infinite. Buona notte, zia Julia.»
«Oh, buona notte, Gretta, non ti avevo vista.»
«Buona notte, signor D’Arcy. Buona notte, signorina O’Callaghan.»
«Buona notte, signorina Morkan.»
«Ancora buona notte.»
«Buona notte a tutti. Tornate a casa sani e salvi.»
«Buona notte. Buona notte.»
Il mattino era ancora buio. Un’opaca luce gialla covava sopra le case e il fiume; e il cielo sembrava abbassarsi. Per terra era fangoso, e sui tetti, sui parapetti del molo e sulle ringhiere dei seminterrati c’erano solo strisce e chiazze di neve. I lampioni mandavano ancora una luce rossa nell’aria scura e, dall’altra parte del fiume, il palazzo di giustizia si stagliava minaccioso contro il cielo plumbeo.
Lei camminava davanti con il signor Bartell D’Arcy, con le scarpe sottobraccio in un pacchetto marrone e le mani che sollevavano la gonna dalla fanghiglia. Non aveva più grazia di atteggiamento, ma gli occhi di Gabriel brillavano ancora di felicità. Il sangue gli scorreva a balzi nelle vene e i pensieri gli attraversarono in tumulto il cervello, orgogliosi, allegri, teneri, pieni di valore.
Lei camminava davanti così agile e così dritta che moriva dal desiderio di correrle dietro silenziosamente, afferrarla per le spalle e dirle qualcosa di sciocco e di affettuoso all’orecchio. Gli sembrava così fragile che desiderava difenderla contro qualcosa e poi rimanere solo con lei. Attimi della loro vita segreta insieme gli esplosero come stelle nella memoria. Una busta colore eliotropio stava accanto alla sua tazza della colazione e lui la carezzava con la mano. Gli uccelli cinguettavano nell’edera e la trama piena di sole della tenda mandava riflessi lungo il pavimento: non riusciva a mangiare dalla felicità. Erano in piedi sulla banchina affollata e lui le metteva un biglietto nel palmo caldo del guanto. Era in piedi con lei nel freddo, guardando attraverso la grata di una finestra un uomo che faceva bottiglie in una fornace ruggente. Era molto freddo. Il viso di lei, fragrante nell’aria fredda, era molto vicino al suo e improvvisamente lui gridò all’uomo alla fornace: «È caldo il fuoco, signore?».
Ma l’uomo non poteva udire per via del rumore della fornace. Tanto meglio. Avrebbe potuto rispondere sgarbatamente. Un’ondata di gioia ancora più tenera gli sfuggì dal cuore e gli scorse come un caldo flusso nelle arterie. Come il tenero fuoco di stelle attimi della loro vita insieme, di cui nessuno sapeva o avrebbe mai saputo, si scagliarono sulla sua memoria illuminandola. Desiderava rammentarle quegli attimi, farle dimenticare gli anni della noiosa vita in comune e ricordarle soltanto gli attimi di estasi. Perché gli anni, sentiva, non avevano spento la sua anima o quella di lei. I bambini, lo scrivere, le cure della famiglia non avevano spento tutto il tenero fuoco delle loro anime. In una lettera che le aveva scritto allora aveva detto: «Come mai parole come queste mi sembrano tanto fiacche e fredde? Forse perché non esiste per il tuo nome parola abbastanza tenera?».
Le parole scritte anni prima gli giunsero dal passato come una musica lontana. Moriva dal desiderio di rimanere solo con lei. Quando, andati via gli altri, lui e lei sarebbero stati nella loro camera in albergo, allora sarebbero stati soli insieme. L’avrebbe chiamata dolcemente: «Gretta!» Forse non avrebbe udito subito: si stava svestendo. Poi qualcosa nella sua voce l’avrebbe colpita. Si sarebbe voltata e lo avrebbe guardato…
All’angolo di via Winetavern trovarono una vettura. Era contento del fracasso che faceva perché gli impediva di conversare. Lei guardava fuori del finestrino e sembrava stanca. Gli altri dissero solo poche parole, indicando qualche edificio o strada. Il cavallo galoppava stracco sotto lo scuro cielo mattutino, trascinandosi dietro gli zoccoli la vecchia cassetta rumorosa, e Gabriel era di nuovo in vettura con lei, galoppando per prendere la nave, galoppando verso la loro luna di miele.
Mentre la vettura attraversava il ponte O’Connell, la signorina O’CalIaghan disse: «Dicono che non si attraversa mai il ponte O’Connell senza vedere un cavallo bianco».
«Vedo un uomo bianco stavolta» disse Gabriel.
«Dove?» chiese il signor Bartell D’Arcy.
Gabriel indicò la statua, su cui c’erano chiazze di neve. Poi la salutò familiarmente con un cenno della testa e agitò la mano.
«Buona notte, Dan» disse allegro.
Quando la vettura si fermò davanti all’albergo, Gabriel saltò giù e, malgrado le proteste del signor Bartell D’Arcy, pagò il conducente. Dette all’uomo uno scellino in più della tariffa.
L’uomo salutò e disse: «Un felice anno nuovo, signore».
«Anche a lei» disse Gabriel cordialmente.
Lei si appoggiò un istante al suo braccio uscendo dalla vettura e mentre stavano in piedi ai margini del marciapiede, augurando agli altri la buona notte. Si appoggiava leggera al suo braccio, leggera come quando aveva ballato con lui poche ore prima. Si era sentito orgoglioso e felice allora, felice che fosse sua, orgoglioso della sua grazia e del suo portamento di moglie. Ma ora, dopo il riaccendersi di tanti ricordi, il primo contatto con quel corpo, armonioso e strano e profumato, gli trasmise un’acuta fitta di sensualità. Con il pretesto del silenzio di lei si strinse quel braccio contro il fianco e, mentre stavano sulla porta dell’albergo, sentì che erano sfuggiti alle loro vite e ai loro doveri, sfuggiti alla casa e agli amici e scappati insieme con cuori selvaggi e radiosi verso una nuova avventura.
Un vecchio sonnecchiava in una poltrona a cupola nell’ingresso. Accese una candela nell’ufficio e li precedette alle scale. Lo seguirono in silenzio, e i loro piedi ricadevano con tonfi attenuati sulle scale coperte da uno spesso tappeto. Lei salì le scale dietro il portiere, chinando la testa mentre saliva, con le fragili spalle curve come sotto un peso e la gonna che la fasciava stretta. Avrebbe voluto circondarle i fianchi con le braccia tenendola ferma, perché le braccia gli tremavano dal desiderio di afferrarla e soltanto premendo le unghie contro le palme della mano tenne a freno l’impulso selvaggio del corpo. Il portiere si fermò sulle scale per sistemare la candela che colava. Si fermarono anche loro, sui gradini sotto. Nel silenzio Gabriel udiva cadere la cera liquefatta nel piattino e il battere tumultuoso del proprio cuore contro le costole.
Il portiere li guidò lungo un corridoio e aprì una porta. Poi depose la candela instabile su un tavolo da toletta e chiese a che ora volevano essere chiamati la mattina.
«Alle otto» disse Gabriel.
Il portiere indicò l’interruttore della luce elettrica e cominciò a borbottare una scusa, ma Gabriel tagliò corto.
«Non abbiamo bisogno di luce. Abbiamo abbastanza luce dalla strada. E senta» aggiunse, indicando la candela «porti pure via quel bell’oggetto, da bravo. »
Il portiere riprese la sua candela, ma lentamente, perché era stupito da un’idea così insolita. Poi mormorò buona notte e uscì. Gabriel tirò il paletto.
Dalla strada la luce spettrale del lampione si estendeva in una lunga lama da una finestra alla porta. Gabriel gettò cappotto e cappello su un divano e attraversò la stanza in direzione della finestra. Guardò giù nella strada in modo da lasciare calmare un po’ la sua emozione. Poi si volse appoggiandosi a un cassettone con la schiena alla luce. Lei si era tolta cappello e mantello e stava in piedi di fronte a un grande specchio girevole, sganciandosi il corpetto. Gabriel attese qualche istante, osservandola, poi disse: «Gretta!».
Lei distolse lentamente gli occhi dallo specchio e camminò lungo la lama di luce verso di lui. Il suo viso sembrava così serio e stanco che le parole non vollero uscire dalle labbra di Gabriel. No, non era ancora il momento.
«Sembravi stanca» disse.
«Lo sono un poco» rispose.
«Ti senti male o debole?»
«No, stanca: ecco tutto.»
Continuò verso la finestra e rimase lì, guardando fuori. Gabriel aspettò di nuovo, poi, temendo di essere sopraffatto dalla sfiducia, disse bruscamente: «A proposito, Gretta!».
«Che c’è?»
«Sai quel povero diavolo di Malins?» disse rapidamente.
«Sì. Che gli succede?»
«Be’, povero diavolo, è una brava persona, dopo tutto» continuò Gabriel con voce falsa. «Mi ha restituito quella sterlina che gli avevo prestato e non me l’aspettavo, veramente è un peccato che non voglia stare alla larga da quel Browne, perché non è un cattivo diavolo, veramente.»
Tremava adesso dall’irritazione. Perché sembrava così astratta? Non sapeva come cominciare. Era irritata, anche lei, per qualcosa? Se solo si fosse voltata o fosse venuta verso di lui spontaneamente! Prenderla com’era sarebbe stato brutale. No, doveva vederle un po’ d’ardore negli occhi prima. Moriva dal desiderio di dominare quello strano stato d’animo.
«Quando gli hai prestato la sterlina?» lei chiese, dopo una pausa.
Gabriel fece uno sforzo per trattenersi dallo scoppiare in parole brutali su quell’ubriacone di Malins e la sua sterlina. Moriva dal desiderio di gridarle dalla sua anima, di schiacciare quel corpo contro il suo, di dominarla. Ma disse: «Oh, a Natale, quando ha aperto quel negozietto di cartoncini natalizi, a via Henry».
Aveva addosso una tale febbre di rabbia e di desiderio che non la udì venire dalla finestra. Rimase in piedi davanti a lui per un istante, guardandolo in modo strano. Poi, alzandosi improvvisamente sulla punta dei piedi e appoggiandogli leggermente le mani sulle spalle, lo baciò. «Sei una persona molto generosa, Gabriel» disse.
Gabriel, tremando di gioia per l’improvviso bacio e la Jsingolarità della frase, le mise le mani sui capelli e cominciò a lisciarglieli indietro, toccandoli appena con le dita. La lavata li aveva resi fini e brillanti. Il cuore gli traboccava di felicità. Proprio quando lo desiderava era venuta da lui spontaneamente. Forse i pensieri di lei avevano seguito lo stesso corso dei suoi. Forse aveva sentito il suo violento desiderio e questo l’aveva resa incline all’abbandono. Ora che gli aveva ceduto così facilmente, si domandò il perché della sua sfiducia. Rimase in piedi, tenendole la testa fra le mani. Poi, facendole scivolare svelto un braccio intorno al corpo e attirandola a sé, disse dolcemente: «Gretta, cara, a che stai pensando?».
Non rispose né si abbandonò del tutto al suo braccio. Disse di nuovo, dolcemente: «Dimmi che c’è, Gretta. Credo di sapere cosa hai. Lo so?».
Non rispose subito. Poi disse scoppiando in lacrime: «Oh, sto pensando a quella canzone, La fanciulla di Aughrim».
Gli sfuggì e corse al letto e, gettando le braccia sulla spalliera di ferro, nascose il viso.
Gabriel per lo stupore rimase completamente immobile un attimo, poi la seguì. Mentre passava davanti allo specchio si vide dalla testa ai piedi, con lo sparato della camicia largo e ben teso, il viso la cui espressione lo rendeva sempre perplesso quando la vedeva in uno specchio e gli occhiali scintillanti dalla montatura dorata. Si fermò a qualche passo da lei e disse: «Perché la canzone? Come mai ti fa piangere?».
Lei sollevò la testa dalle braccia e si asciugò gli occhi con il dorso della mano come una bambina. Nella sua voce si insinuò una nota più gentile di quel che intendesse. «Come mai, Gretta?» chiese.
«Sto pensando a una persona che tanto tempo fa cantava quella canzone.»
«E chi era la persona di tanto tempo fa?» chiese Gabriel, sorridendo.
«Era una persona che conoscevo a Galway quando vivevo con la nonna» disse.
Il sorriso scomparve dal viso di Gabriel. Un’ira soffocata ricominciò ad accumularglisi in fondo alla mente e i fuochi soffocati della sensualità cominciarono ad avvampargli irosi nelle vene.
«Qualcuno di cui eri innamorata?» chiese ironico.
«Era un ragazzo che conoscevo» rispose «che si chiamava Michael Furey. Cantava quella canzone, La fanciulla di Aughrim. Era molto delicato.»
Gabriel tacque. Non voleva pensasse che quel ragazzo delicato lo interessava.
«Riesco a vederlo così chiaramente» lei disse, dopo un attimo. «Che occhi aveva: occhi grandi, scuri! E con una tale espressione… un’espressione!»
«Oh, allora eri innamorata di lui?» disse Gabriel.
«Uscivo a passeggio con lui» disse «quando stavo a Galway.»
Un pensiero attraversò fulmineo la mente di Gabriel. «Forse è per questo che volevi andare a Galway con quella ragazza Ivors?» disse freddamente.
Lei lo guardò e chiese meravigliata: «Perché mai?».
Quegli occhi imbarazzarono Gabriel. Alzò le spalle e disse: «Che ne so? Per vederlo, forse».
Lei in silenzio distolse lo sguardo da lui dirigendolo lungo la lama di luce verso la finestra.
«E’ morto» disse alla fine. «È morto quando aveva solo diciassette anni. Non è terribile morire così giovani?»
«Cos’era?» chiese Gabriel, ancora ironico.
«Era un operaio del gas» disse.
Gabriel si sentì umiliato dall’insuccesso della sua ironia e dall’evocazione dal mondo dei morti di quella figura, un ragazzo che era operaio del gas. Mentre lui era immerso nei ricordi della loro vita segreta insieme, pieno di tenerezza e gioia e desiderio, lei lo paragonava mentalmente a un altro. Lo assalì una vergognosa consapevolezza della propria persona. Si vide come una figura ridicola, una specie di galoppino delle zie, un sentimentale nervoso, bene intenzionato, che arringava persone volgari e idealizzava la sua grossolana sensualità, l’individuo pietoso e fatuo che aveva visto di sfuggita nello specchio. Istintivamente volse ancora di più la schiena alla luce per paura che lei potesse vedere la vergogna che gli ardeva in fronte. Cercò di mantenere il tono di freddo interrogatorio, ma la sua voce quando parlò era umile e indifferente. «Immagino che eri innamorata di questo Michael Furey, Gretta» disse.
«Andavamo molto d’accordo» disse.
La voce era velata e triste. Gabriel, sentendo ora quanto sarebbe stato vano cercare di condurla dove si era proposto, le carezzò una mano e disse, anche lui tristemente: «E di che cosa è morto così giovane, Gretta? Di tisi?».
«Credo che sia morto per me» rispose.
Un vago terrore afferrò Gabriel a questa risposta, come se, nell’ora in cui aveva sperato di trionfare, qualche essere inafferrabile e vendicativo gli venisse contro, radunando forze contro di lui nel suo mondo vago. Ma se ne liberò con uno sforzo della ragione e continuò a carezzarle la mano. Non la interrogò di nuovo, perché sentiva che gli avrebbe parlato di se stessa. La mano era calda e umida: non rispondeva al contatto, ma continuò a carezzarla proprio come aveva carezzato la sua prima lettera quella mattina di primavera.
«Era d’inverno» lei disse «press’a poco al principio dell’inverno, quando stavo per partire da casa della nonna e venire qui al convento. E a quel tempo era malato nel suo appartamentino a Galway e non volevano lasciarlo uscire, e avevano scritto ai suoi a Oughterard. Deperiva, dissero, o qualcosa del genere. Non l’ho mai saputo esattamente.»
Esitò un istante e sospirò. «Poveretto» disse. «Mi voleva molto bene ed era un ragazzo così dolce. Uscivamo insieme, a passeggio, sai, Gabriel, come si usa in provincia. Avrebbe studiato canto se non fosse stato per la sua salute. Aveva una bellissima voce, povero Michael Furey.»
«Bene, e allora?» chiese Gabriel.
«E allora quando venne per me il momento di partire da Galway e venire al convento, stava molto peggio e non mi permisero di vederlo, così gli scrissi una lettera dicendo che andavo a Dublino e sarei tornata in estate e speravo che allora sarebbe stato meglio.»
Esitò un istante per dominare la voce, poi continuò: «Allora la notte prima di partire, stavo in casa di mia nonna a Nun’s Island, facendo le valige, e udii gettare ghiaia contro la finestra. La finestra era così bagnata che non riuscivo a vedere, così corsi giù per le scale com’ero e sgattaiolai fuori da dietro in giardino e lì c’era quel poveretto in fondo al giardino, che rabbrividiva».
«E non gli hai detto di tornare a casa?»
«Lo supplicai di andare a casa subito e gli dissi che sarebbe morto con quella pioggia. Ma lui disse che non voleva vivere. Vedo i suoi occhi talmente bene! Era in piedi in fondo al muro dove c’era un albero.»
«E andò a casa?» chiese Gabriel.
«Sì, andò a casa. Ed ero in convento solo da una settimana quando morì e venne sepolto a Oughterard, di dove erano i suoi. Oh, il giorno che lo seppi, che era morto! » Si fermò, soffocando per i singhiozzi e, sopraffatta dall’emozione, si gettò a viso in giù sul letto, singhiozzando nella trapunta. Gabriel le tenne la mano ancora un attimo, indeciso, poi, timoroso di disturbarne il dolore, la lasciò cadere gentilmente e si diresse piano alla finestra.
Lei dormiva profondamente. Gabriel, appoggiandosi al gomito, contemplò qualche istante senza risentimento i capelli arruffati e la bocca semiaperta, ascoltandone il respiro profondo. Così aveva avuto quell’avventura romantica nella vita: un uomo era morto per amore suo. Pensare ora quale ruolo modesto lui, il marito, aveva interpretato in quella vita non lo faceva quasi più soffrire. La osservò mentre dormiva, come se non avessero mai vissuto insieme come marito e moglie. Gli occhi curiosi si posarono a lungo su quel viso e su quei capelli: e mentre pensava a cosa doveva essere stata allora, al tempo della sua prima bellezza adolescente, una strana, amichevole pietà per lei gli penetrò nell’anima. Non voleva dire nemmeno a se stesso che quel viso non era più bello, ma sapeva che non era più il viso per cui Michael Furey aveva sfidato la morte. Forse non gli aveva raccontato tutta la storia. Gli occhi si spostarono verso la sedia sulla quale lei aveva gettato parte dei vestiti. Il laccio di una sottoveste penzolava fino al pavimento. Uno stivaletto stava dritto, con la parte superiore floscia all’ingiù: l’altro giaceva su un fianco. Si meravigliò del tumulto di emozioni di un’ora prima. Da cosa era derivato? Dalla cena delle zie, dal suo discorso sciocco, dal vino e dal ballo, dall’allegria di quando si erano dati la buona notte nell’ingresso, dal piacere della passeggiata nella neve lungo il fiume. Povera zia Julia! Lei, pure, sarebbe stata presto un’ombra con l’ombra di Patrick Morkan e del suo cavallo. Le aveva colto per un istante quell’aria sofferente sul viso mentre cantava “Abbigliata per le nozze”. Presto, forse, sarebbe stato seduto in quello stesso salone, vestito di nero, con il cappello di seta sulle ginocchia. Le tende sarebbero state tirate e zia Kate, seduta vicino a lui, piangendo e soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato come era morta Julia. Avrebbe cercato qua e là nella mente qualche parola che potesse consolarla, e ne avrebbe soltanto trovate di fiacche e di inutili. Sì, sì: sarebbe accaduto molto presto. L’aria della stanza gli gelò le spalle. Si allungò cautamente sotto le lenzuola stendendosi accanto alla moglie. A uno a uno, stavano tutti diventando ombre. Meglio entrare in quell’altro mondo con audacia, nell’intensa gloria di una passione, che languire e appassire tristemente con gli anni. Pensò a come colei che gli giaceva accanto aveva custodito nel cuore per tanti anni l’immagine degli occhi dell’innamorato, quando le aveva detto che non desiderava vivere. Gli occhi di Gabriel si riempirono di lacrime generose. Non aveva mai provato niente di simile per nessuna donna, ma sapeva che un sentimento come quello doveva essere amore.
Gli occhi gli si riempirono ancora più di lacrime e nella parziale oscurità immaginò di vedere la figura di un giovane in piedi sotto un albero gocciolante. Altre figure erano vicine. La sua anima si era accostata a quella regione dove dimorano le vaste schiere dei morti. Era cosciente, pure non riuscendo a percepirla, della loro esistenza capricciosa e guizzante. La sua identità svaniva in un mondo grigio e inafferrabile: il mondo solido stesso, che quei morti avevano eretto un tempo e in cui avevano vissuto, si dissolveva e dileguava.
Pochi colpetti leggeri sul vetro lo fecero voltare verso la finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Guardò assonnato i fiocchi, argentei e scuri, che cadevano obliquamente contro la luce del lampione. Era venuto il momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i giornali avevano ragione: c’era neve in tutta l’Irlanda. Cadeva dovunque sulla scura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva dolcemente sulla palude di Allen e, più a occidente, cadeva dolcemente nelle scure onde ribelli dello Shannon. Cadeva anche dovunque nel cimitero isolato sulla collina dove Michael Furey era sepolto. Si posava in grossi mucchi sulle croci storte esulle lapidi, sulle lance del cancelletto, sugli sterili spini. La sua anima si abbandonò lentamente mentre udiva la neve cadere lieve nell’universo e lieve cadere, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.

Huston-The-Dead.jpgLa grandezza di questo racconto, considerato come una delle prove più alte dell’intera narrazione novecentesca, sta nell’incredibile capacità nel descrivere oserei dire in modo “realistico” un momento piccolo borghese quale una cena prenatalizia e di averlo disseminato di notazioni che invece lo facevano virare verso un’interpretazione di tipo simbolico. Una di esse è il concetto di “epifania” “come un’illuminazione improvvisa che rivela, a chi lo percepisce o la vive, un senso profondo e remoto di un evento, si tratta di situazioni, gesti, eventi per lo più minimi e insignificanti, nella considerazione abituale e agli occhi distratti degli uomini, che tuttavia, per un concorso particolare di circostante, vengono investiti da un fascio di luce, balzano in primo piano con tutta la loro carica di senso, doloroso e gioioso che sia, e determinano un movimento complesso della coscienza dei personaggi.” (Grosser). La vediamo dapprima investire Gretta: non è ancora l’atto finale, ma è come se una macchina da presa afferrata da Gabriel, riprendesse e “vedesse” la moglie per la prima volta: ascolta una musica e nell’ascoltarla diventa più leggera, radiosa, la melodia ne turba la coscienza. Tuttavia Gabriel, vedendola quasi illuminata, sembra non comprendere questa nuova luce che irradia nell’anima della moglie se non come oggetto di un forte desiderio sessuale che per il momento sembra invaderlo. Ma una volta soli, lui viene a sapere la motivazione per cui Gretta sia stata così sconvolta dalle note di una canzone: nel paese in cui precedentemente viveva quando aveva diciassette anni, un povero operaio del gas gliela cantava. Costui era morto giovane, era malato; ma il giorno prima che lei partisse per Dublino, durante la notte, sfidando il freddo era andato a salutarla. Tale gesto forse ne aveva affrettato la morte. Dopo averlo raccontato a Gabriel, Gretta si addormentò piangendo.  

Michael Frey, il nome dell’operaio, la notte che aveva salutato Gretta aveva gettato della ghiaia nei vetri per mostrare la sua presenza; uno sbruffo di neve sulla finestra illumina ora la coscienza di Gregor (seconda epifania). Il confronto è impietoso, un povero operaio aveva dato la sua vita per amore di Gretta. Lui l’aveva amata con la stessa intensità: no, il suo amore era mediocre e certamente anche lei ne era consapevole. Inevitabilmente il pensiero vaga ora sul mondo dei morti: è meglio morire vivendo una forte passione, piuttosto che condurre una vita insignificante. I morti del passato quindi ci chiamano, ci istigano a cercare dentro noi stessi un significato ulteriore per il nostro vivere, per questo continuiamo a comunicare condividendo insieme il freddo della neve che ci ricopre.   

13958.jpgL’Ulisse rappresenta un salto qualitativo non tanto nei contenuti (viene ripresa la descrizione della vita di Dublino), quanto nella tecnica compositiva.

E’ il racconto degli avvenimenti vissuti nel corso di una giornata da Leopold Bloom e Stephen Dedalus a Dublino, in un vagabondaggio che ripercorre le mitiche tappe dell’Odissea: l’uno è alla ricerca inconscia di un figlio che sostituisca quello che gli è morto bambino, l’altro ha bisogno, altrettanto inconsciamente, di una figura paterna che sia per lui punto di riferimento nelle sue inquietudini intellettuali. Stephen lascia la torre dove vive con Mulligan, disgustato dall’amico: Leopold, dopo aver fatto colazione con la moglie Molly, cantante, si reca a un funerale. Nel loro andirivieni per la città si incontrano brevemente nella sede di un giornale, alla Biblioteca nazionale e infine nel quartiere malfamato della città, dove Leopold-Ulisse opera una sorta di salvataggio di Stephen-Telemaco che, ubriaco, è assalito da due soldati inglesi. Poi Leopold si porta a casa Stephen, e lì i due parlano di letteratura, di donne, di assassini e di suicidi. Si è fatta notte fonda: Stephen se ne va e Bloom si corica. Molly è già a letto e il romanzo si conclude con un ininterrotto fluire, tra il ricordo e il sogno, delle immagini che le affollano la mente, immagini del passato, della giovinezza, del primo incontro con Molly.

MISTER BLOOM INIZIA LA GIORNATA

Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d’urina leggermente aromatica.
I rognoni erano nel suo pensiero mentre si moveva quietamente per la cucina, sistemando le stoviglie per la colazione di lei sul vassoio ammaccato. Luce e aria gelida nella cucina ma fuori una dolce mattina d’estate dappertutto. Gli facevano venire un po’ di prurito allo stomaco.
I carboni si arrossavano.
Un’altra fetta di pane e burro: tre, quattro: giusto. Non le piaceva il piatto troppo pieno. Giusto. Lasciò il vassoio, sollevò il bollitore dalla mensola e lo mise di sbieco sul fuoco. Stava, grullo e accosciato, col beccuccio sporgente. Tazza di tè fra poco. Bene. Bocca secca. La gatta interita girò attorno a una gamba del tavolo con la coda ritta.
«Mkgnao»
«Oh, sei qui» disse Mr Bloom, distogliendosi dal fuoco.
La gatta rispose miagolando e girò di nuovo interita intorno a una gamba del tavolo, miagolando. Proprio come quando incede impettita sulla mia scrivania. Prr. Grattami la testa. Prr.
Mr Bloom guardava curioso, gentile, la flessuosa forma nera. Pulita a vedersi: la lucidità del pelo liscio, il bottoncino bianco sotto la radice della coda, i lampeggianti occhi verdi. Si chinò verso di lei, mani sulle ginocchia.
«Latte per la miciolina» disse.
«Mrkgnao!» piagnucolò la gatta.
Li chiamano stupidi. Capiscono quello che si dice meglio di quanto noi non si capisca loro. Capisce tutto quel che vuole. Vendicativa anche. Chi sa che cosa le sembro io. Alto come una torre? No, mi salta benissimo.
«Ha paura dei polli lei» disse canzonatorio. Paura dei pìopìo Mai visto una miciolina così
sciocchina.
Crudele. La sua natura. Curioso che i topi non stridono mai. Sembra gli piaccia.
«Mrkrgnao!» disse forte la gatta.
Guardò in su con gli occhi avidi ammiccanti per la vergogna, miagolando lamentosamente e a lungo, mostrandogli i denti biancolatte. Egli guardava le fessure nere degli occhi che si restringevano per l’avidità fino a che gli occhi divennero pietre verdi. Poi s’avvicinò alla credenza, prese il bricco che il lattaio di Hanlon gli aveva appena riempito, versò il latte tepido gorgogliante in un piattino e lo posò lentamente in terra.
«Grr!» esclamò lei e corse a lambire.
Guardò i baffi splendere metallici nella debole luce mentre lei ammusava tre volte e leccava lievemente. Chissà se è vero che se glieli tagli non pigliano più topi. Perché? Risplendono al buio, forse, le punte. O una specie di antenne al buio, forse.
Tese l’orecchio al leccottìo. Uova e prosciutto, no. Niente uova buone con questa siccità. Ci vuole acqua fresca pura. Giovedì: non è nemmeno giornata per un rognone di castrato da Buckley. Fritto nel burro, un zinzino di pepe. Meglio un rognone di maiale da Dlugacz. Aspettando che l’acqua bolla. Leccò più lentamente, poi ripulì ben bene il piattino. Perché hanno la lingua così ruvida? Per leccare meglio, tutta buchi porosi. Niente da mangiare per lei? Si guardò intorno. No.
Con le scarpe che scricchiolavano in sordina salì la scala fino al vestibolo, si fermò alla porta della camera da letto. Forse le piacerebbe qualcosa di saporito. Fettine di pane imburrato le piacciono la mattina. Forse però: una volta tanto. Disse a bassa voce nel vestibolo vuoto: «Vado qui all’angolo, torno tra un minuto».
Udita la sua voce dir questo soggiunse: «Vuoi niente per colazione?»
Un debole grugnito assonnato rispose: «Mn».
No. Non voleva niente. Sentì poi un profondo sospiro caldo, più debole, mentre la donna si rivoltava e gli anelli d’ottone ballonzolanti della lettiera tintinnavano. Bisogna mi decida a farli riparare. Peccato. Fin quassù da Gibilterra. Dimenticato quel po’ di spagnolo che sapeva. Chissà quanto l’ha pagato suo padre. Vecchio stile. Eh sì, naturalmente. Comprato all’asta del governatore. Venduto al primo colpo. Tenace nel contrattare, il vecchio Tweedy. Sissignore. Fu a Plevna. Vengo dalla gavetta, signore, e ne sono fiero. Eppure aveva abbastanza cervello da far soldi coi francobolli. Questo si chiama esser previdenti.
La sua mano tolse il cappello dal piolo, sopra il suo cappotto pesante con le iniziali, e l’impermeabile usato comprato all’ufficio oggetti smarriti. Francobolli: figurine dal retro adesivo. Direi che un sacco d’ufficiali siano nel giro. Naturale. La scritta sudaticcia nell’interno del cappello gli disse muta: Plasto i migliori capp. Sbirciò rapido all’interno della banda di cuoio. Cartoncino bianco. Bene al sicuro. Sulla soglia si tastò nella tasca posteriore dei pantaloni per accettarsi se aveva la chiave. Non c’è. Nei pantaloni che mi sono cambiato. Devo prenderla. La patata c’è. L’armadio scricchiola. Inutile disturbarla. Quando si è rivoltata era piena di sonno. Si tirò dietro la porta d’ingresso molto piano, ancora un po’, finché la parte inferiore del battente ricadde piano sulla soglia, lento coperchio. Sembrava chiusa. Va bene finché torno comunque.

Attraversò dalla parte del sole, evitando la botola mal ferma della cantina del numero settantacinque. Il sole si avvicinava al campanile della chiesa di San Giorgio. Sarà una giornata calda immagino. Specialmente con questo vestito nero si sente di più. Il nero conduce, riflette (rifrange?), il calore. Ma non potevo uscire con quel vestito chiaro. Come andassi a un picnic. Le palpebre gli si abbassavano spesso dolcemente mentte camminava nel beato tepore. Il furgoncino del pane di Boland che distribuisce a domicilio in telai il nostro quotidiano ma lei preferisce le forme di pane di ieri rivoltate nel forno con la crosta superiore calda crocchiante.

969.jpgLeopold Bloom e Stephen Dedalus passeggiano

Leopold Bloom è certamente il protagonista, l’Ulisse di questa moderna epopea. Lo vediamo qui, di prima mattina, mentre fa colazione in cucina, la moglie dorme ed il gatto miagola. Quindi esce. Un altro autore, forse con più parole, avrebbe certamente racchiuso in pochi periodi questo evento. Joyce no. In lui il tempo si diluisce in una serie di attimi vissuti mescolati con attimi “pensati”. Ma in questo non c’è logicità: forse iperrealismo, nel momento in cui l’autore registra anche l’azione accompagnata dall’associazione libera di idee, dal dialogo impossibile tra uomo e animali, tra sensazioni di dover fare e nel contempo riflettere. No c’è, qui, a ben guardare, psicologia, la vita interiore di Leopold non è poi così ricca, è azione: prepara da mangiare, lo dà al gatto, sente il respiro della moglie nel letto; Leopold Bloom si prepara una giornata di vita.

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DEDALUS 

Un amabile sorriso si diffuse pacatamente sulle sue labbra.
«Che canzonatura, disse gaio. Quel tuo nome assurdo, da greco antico.
Lo segnò a dito con amichevole celia e Si avviò al parapetto, ridendo tra sé.
Stephen Dedalus venne su, lo seguì stancamente per un tratto e si sedette sull’orlo della piazzuola continuando a guardarlo mentre lui appoggiava lo specchio sul parapetto, intingeva il pennello nel bacile e si insaponava guance e collo.

La gaia voce di Buck Mulligan continuò: «Anch’io ho un nome assurdo: Màlachi Mùlligan, due dattili. Ma ha un certo qual suono ellenico, vero? Saltellante e solare proprio come un cerbiatto. Dobbiamo andare ad Atene. Ci vieni se riesco a far sborsare venti sterline alla zia?»
Mise giù il pennello e, ridendo di gusto, urlò: «Verrà lo sparuto gesuita?»
Chetatosi, cominciò a sbarbarsi con cura.
«Senti, Mulligan» disse piano Stephen.
«Parla, amor mio».
«Quanto tempo starà ancora Haines in questa torre?»
Buck Mulligan mostrò una gota rasata al disopra della spalla destra.
«Dio, ma quello è tremendo, no?» disse con franchezza. «Un sassone ponderoso. Non ti considera un gentiluomo. Dio, questi dannati inglesi. Crepano di quattrini e di indigestione. Perché lui viene da Oxford. Sai, Dedalus, tu hai tutto il tono di Oxford. Non arriva a capirti. Oh, ma il nome che ti ho dato è l’ideale: Kinch, lama di coltello».
Si faceva una cauta passata sul mento.
«Ha delirato tutta la notte di una pantera nera» disse Stephen. «Dov’è la fonda del suo fucile?»
«Un miserabile pazzo» disse Mulligan.
«Hai avuto fifa?»
«Eccome», disse Stephen con energia e con crescente paura.
«In un posto simile al buio con un uomo che non conosco, che delira e geme tra sé di sparare a una pantera nera. Tu hai salvato uomini che stavano per affogare. Ma io, non sono un eroe. Se resta qui lui me ne vado io».
Buck Mulligan guardò accigliato la spuma sulla lama del rasoio. Saltò giù dal suo trespolo e cominciò a frugarsi in fretta nelle tasche dei pantaloni.
«Taglia la corda» gridò con voce spessa.
Si avvicinò alla piazzuola e, cacciando una mano nel taschino di Stephen, disse: «Mollaci in prestito il tuo moccichino per asciugare il rasoio».
Stephen tollerò che tirasse fuori e tenesse in mostra per un angolo un fazzoletto sporco e gualcito. Buck Mulligan pulì diligentemente la lama. Poi, percorrendo con lo sguardo il fazzoletto, disse: «Il moccichino del bardo. Nuovo colore pittorico per i nostri poeti irlandesi: verdemoccio. Sembra di sentirselo in bocca, vero?
Risalì sul parapetto e percorse con lo sguardo la baia di Dublino, i biondi capelli querciapallida lievemente mossi.
«Dio» disse tranquillamente. Il mare è proprio come dice Algy: una dolce madre grigia, no? Il mare verdemoccio. Il mare scrotocostrittore. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, i Greci. Ti devo erudire. Li devi leggere nell’originale. Thalatta! Thalatta! E’ la nostra grande dolce madre. Vieni a vedere.
Stephen si alzò e si accostò al parapetto. Appoggiatosi abbassò lo sguardo sull’acqua e sul postale che usciva dall’imboccatura del porto di Kingstown.
«La madre nostra possente» disse Buck Mulligan.

maxresdefault.jpgStephen Dedalus e il preside Mr. Deasy

Stephen Dedalus è l’altro protagonista dell’Ulisse e non solo. Era anche il protagonista del romanzo autobiografico del Ritratto dell’artista da giovane: nell’Ulisse egli è il Telemaco, il figlio che, capovolgendo la storia omerica, troverà il padre Ulisse/Leopold e infine lo porterà per una sera a casa sua, dove troverà un Penelope/Milly dormiente. In questo brano, che rappresenta l’incipit del complesso romanzo, lo troviamo con l’amico da cui si distaccherà Mulligan. Sono entrambi studenti e pertanto il linguaggio joyciano si soggettivizza in una mimesi che sta tra la sfrontatezza giovanile e la conoscenza intellettuale. Da qui quasi una forma di pastiche: dal greco antico “epi oinopa ponton” (sul mare color del vino) o ancora Thalassa (mare) sino ad aggettivare lo stesso con “il mare dal colore verdemoccio” o indicarlo come “scrotocostrittore”. Anche in questo passo uno sperimentalismo linguistico ad adeguare il linguaggio descrittivo a quello dei personaggi.

Lo stesso accadrà nella sezione dedicata a Nausica:

UNA GIOVANE BELLEZZA IRLANDESE

Ma Gerty chi era? Gerty MacDowell che era seduta vicino alle compagne, perduta nei suoi pensieri, lo sguardo fisso nell’infinito, era a vero dire il più bell’esempio che si potesse desiderar di vedere di giovane bellezza irlandese. Era riconosciuta come una bellezza da tutti quelli che la conoscevano benché, come la gente soleva dire, fosse più una Giltrap che una MacDowell. La sua figurina era svelta e graziosa, un tantino esile se vogliamo ma quelle pastiglie di ferro che stava prendendo da qualche tempo le avevan fatto un mondo di bene molto meglio delle pillole per la donna della vedova Welch e stava molto meglio riguardo a quelle perdite che era solita avere e a quel senso di stanchezza. Il pallore cereo del volto aveva un che di spirituale nella sua eburnea purezza, per quanto la bocca a bocciolo di rosa fosse un vero arco di Cupido, di perfezione greca. Le sue mani erano di un alabastro finemente venato con dita affusolate bianche quanto avevano potuto renderle il sugo di limone e la regina delle pomate, però non era vero che si mettesse i guanti di camoscio quando era a letto o facesse i pediluvi di latte. L’aveva detto una volta a Edy Boardman Bertha Supple, mentendo spudoratamente, quando era ai ferri corti con Gerty (le amichette avevano naturalmente le loro questioncelle di tanto in tanto come tutti gli altri mortali) e le aveva detto di non far sapere qualsiasi cosa succedesse che gliel’aveva detto lei sennò non le avrebbe più rivolto la parola in vita sua. No. Rendiamo onore al merito. C’era un’innata raffinatezza, una languida regale hauteur in Gerty, di cui erano prove inequivocabili le sue mani delicate e il collo del piede inarcato. Se solo il fato benigno avesse voluto che nascesse gentildonna di alto rango al suo giusto posto e se solo avesse usufruito d’una buona istruzione, Gerty MacDowell sarebbe stata tranquillamente alla pari accanto a qualsiasi altra gran dama e la si sarebbe vista adorna di vesti preziose, con gioielli sulla fronte e nobili adoratori ai piedi in gara l’uno con l’altro a renderle devoto omaggio. E chissà che non fosse questo, l’amore che avrebbe potuto essere, a donare talora al suo volto dai lineamenti così dolci, quella intensità dai mille taciti significati, e a impartire uno strano senso di vaga nostalgia ai begli occhi quel fascino cui pochi sapevano resistere. Perché le donne hanno occhi così maliardi? Quelli di Gerty erano del più puro azzurro irlandese, messo in risalto da ciglia lucenti e nere sopracciglia espressive. Ci fu un tempo in cui quelle ciglia non erano così seriche e seducenti. Fu Madame Vera Verity, direttrice della Rubrica della Donna Bella di Novelle della Principessa, che per prima le consigliò di provare la ciglioleina che dava quell’espressione penetrante agli occhi, che stava tanto bene alle signore che dettavano legge in fatto di moda, e lei non aveva mai avuto da lamentarsene. Poi c’era il sistema di guarire scientificamente dalla tendenza ad arrossire e come diventare più alte aumentate la vostra statura e avete un bel visetto ma il naso? Quello andava bene per Mrs Dignam che ce l’aveva a patata. Ma ciò di cui Gerty andava a buon diritto più orgogliosa era l’abbondanza dei suoi meravigliosi capelli. Erano di un castano scuro con onde naturali. Se li era tagliati proprio quel giorno perché c’era la luna nuova e le ricadevano attorno alla testolina in una profusione di riccioli lussureggianti e poi si era tagliate le unghie, il giovedì porta abbondanza. E proprio ora alle parole di Edy, come un rossore rivelatore, delicato come il più tenue petalo di rosa, le imporporava le guance, ella appariva così graziosa nella sua dolce pudicizia virginale che di sicuro in tutta l’Irlanda bella, benedetta da Dio, non v’era di lei l’uguale.
Per un istante rimase silenziosa coi begli occhi tristi abbassati. Stava quasi per ribattere, ma qualcosa le trattenne le parole sulla punta della lingua. La sua indole le suggeriva di parlare apertamente: la sua dignità le disse di tacere. Le graziose labbra tennero il broncio per un po’, ma poi alzò gli occhi e scoppiò in una gaia risatina che aveva in sé tutta la freschezza di una prima mattina di maggio. Lo sapeva benissimo nessuno meglio di lei, che cosa faceva dire così a quella strabica di Edy: era perché lui era un po’ più freddo con lei e invece non erano altro che liti d’innamorati. Come accade in questi casi, qualcuno torceva il naso perché quel ragazzo con la bicicletta andava sempre su e giù davanti alle sue finestre. Solo che ora suo padre lo teneva a casa la sera a studiar sodo per una borsa dl studio delle scuole medie e lui sarebbe andato a studiare da dottore al Trinity College, quando finiva il liceo come suo fratello W. E. Wylie che era nella squadra ciclistica all’università di Trinity College. Forse lui si curava poco di quello che provava lei, quel vuoto doloroso nel cuore che ogni tanto la trafiggeva. Ma era giovane, e chi può dire se col tempo non avrebbe imparato ad amarla? Erano protestanti nella sua famiglia, e Gerty naturalmente sapeva Chi veniva per primo e dopo di Lui la santa Vergine e poi San Giuseppe. Ma egli era innegabilmente bello, con un naso perfetto ed era quel che sembrava, signore fino alla punta dei capelli, e poi la forma della testa da dietro senza berretto lei l’avrebbe riconosciuta dovunque tanto era fuor dell’ordinario e come svoltava al lampione in bicicletta senza mani e anche il buon odore di quelle sigarette e oltre a tutto erano alti uguali e per questa ragione Edy Boardman si credeva tanto furba perché lui non andava in su e in giù davanti a quel suo pezzetto di giardino.
Gerty era vestita semplicemente ma con il buon gusto istintivo d’una devota di Madonna Moda perché presentiva una certa probabilità che egli fosse in giro. Una bella camicetta blu elettrico, tinta con palline coloranti (perché l’Illustrazione Femminile riteneva che il blu elettrico sarebbe venuto di moda) con un’elegante scollatura a V fino al sommo dei seni e un taschino (in cui teneva sempre un po’ di ovatta imbevuta del suo profumo preferito perché il fazzoletto guasta la linea) e una gonna da passeggio a tre quarti blu scura non molto ampia mettevano in risalto alla perfezione la sua svelta, graziosa figurina. Portava un amoruccio di cappello sbarazzino di paglia cioccolato a larghe tese guarnito a contrasto con una sottotesa in ciniglia azzurro germano e di lato un nodo a farfalla in colore. Tutto il pomeriggio del martedì prima era andata alla caccia di qualcosa che intonasse con la ciniglia ma alla fine aveva trovato alla liquidazione estiva di Clery proprio quel che cercava, un fondo di magazzino leggermente macchiato ma non ce se ne accorge, alta sette dita, due scellini e un penny. L’aveva fatto tutto da sé, e che gioia fu la sua quando poi se lo provò, sorridendo al grazioso riflesso che lo specchio le rimandava indietro! E quando lo mise sulla caraffa dell’acqua perché mantenesse la forma sapeva bene che avrebbe fatto rider verde certe persone di sua conoscenza. Le sue scarpe erano l’ultimo grido in fatto di calzature (Edy Boardman andava orgogliosa d’esser molto petite ma non aveva mai avuto un piede come Gerty MacDowell, un trentadue, e acqua in bocca, lago, laghetto) con le punte di coppale e solo una fibbia elegante al collo del piede inarcato. La caviglia tornita mostrava le sue perfette proporzioni sotto la gonna e lo stesso si dica di quel tanto e non più degli arti perfetti inguainati in calze fini con talloni rinforzati e risvolto ampio. Quanto alla biancheria intima era la cura principale di Gerty e chiunque conosca le trepide speranze e le apprensioni dei bei diciassette anni (per quanto Gerty li avesse già salutati) come potrà avere il coraggio di biasimarla? Aveva quattro completini deliziosi, squisitamente ricamati, tre pezzi e in più le camicie da notte, e ognuno con nastri di diverso colore, rosa, azzurro pallido, lilla e verde pisello e li metteva ad asciugare e li sbiancava lei stessa quando tornavano dalla lavandaia e se li stirava e aveva un pezzo di mattone per posarci il ferro perché non si fidava delle lavandaie nemmeno se poteva tenerle d’occhio tanto bruciacchiavano la roba. Vestiva di blu perché portava fortuna, sperando contro ogni aspettativa, era il suo colore e il colore delle spose, anche, devono sempre aver qualcosa di blu addosso perché il verde che indossava otto giorni fa aveva portato scarogna perché suo padre lo aveva rinchiuso a studiare per quella borsa di studio delle medie e perché lei pensava che forse poteva essere in giro perché mentre si vestiva quella mattina si stava quasi infilando quel vecchio paio alla rovescia e questo era un buon segno e voleva dire che si incontrava l’innamorato se si mettevano alla rovescia o se si aprivano voleva dire che lui stava pensando a te purché non fosse di venerdì.

Joyce non viene meno alla registrazione dei pensieri Gerty, una bellezza irlandese. Nella spiaggia, fra le rocce insieme ad altre due amiche, ambedue con i loro pargoli. Solo lei, ancora ragazza a pensare e a pensarsi. E, secondo la tecnica joyciana il suo pensare è frutto della sua cultura: quindi tutta la pagina è intessuta del gergo delle riviste femminili e di moda del tempo.

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Cosimo Maiorelli: Molly Bloom

MOLLY BLOOM

eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel pezzetto di biscotti all’anice e era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finché non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare  pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulveyl e Mr Stanhope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa e Duke street e il mercato del pollame  un gran pigolio davanti a Larby Sharonl e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra sugli scalini  e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello vecchio di mill’anni sì e quei bei Mori tutti in bianco e turbanti come re /he ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas fulgidi occhi celava l’inferriata perché il suo amante baciasse le sbarre e le gargotte mezzo aperte la notte e le nacchere e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì dissi sì voglio sì.

Solo nell’ultima parte Joyce adotta integralmente lo stream of consciousness. Molly sta sul letto nel dormiveglia e cerca di focalizzare i suoi pensieri nel ricordo del primo incontro con Leopold. Il fluire di essi procede senza pause (nessun punto d’interpunzione) facendo emergere il cosciente ed il rimosso, il ricordo e la pulsione. Non per niente la pagina venne censurata. La critica, soprattutto per il flusso di coscienza, ha parlato della piena realizzazione della teoria psicoanalitica in letteratura mettendo in atto, nella scrittura, la libertà delle associazioni mentali in cui convergono sapori, odori, colori, paesaggi e parole del ricordo in una contemporaneità incosciente, quando il super io freudiano allenta e il subconscio mette in luce la vita interiore.

social_1470762973.jpgJoyce oggi

Nell’Ulisse l’interesse per la realtà interiore dei personaggi porta Joyce ad adottare il monologo interiore inteso come alogico fluire di ricordi, associazioni d’idee, di desideri, fantasticherie, in una parola un magma di pensieri che ribolle nella nostra mente al di là della nostra volontà (stream of consciousness):

  • I monologhi dei personaggi sono opportunamente differenziati a seconda del retroterra culturale: così in Dedalus, l’intellettuale, saranno fitti d’immagini poetiche ed auliche, mentre in Bloom, uomo prosaico, saranno opportunamente banali;
  • Nello scrupolo di “verità”, Joyce adotterà per ogni ambiente un “linguaggio” ed uno “stile” loro propri, che si rifà dai moduli medievali sino a quelli del romanzo rosa;
  • Egli inoltre applicherà nel suo romanzo un vero e proprio sperimentalismo linguistico, utilizzando la componente fonica, allusiva, simbolica della parola. Egli crea una vera e propria tessitura fitta di neologismi, parole straniere, fusioni di lingue differenti, onomatopeee, capace di suggerire, ogni volta, una gamma infinita di implicazioni ed interpretazioni.
  • Un romanzo di tal genere deve la sua importanza al fatto che l’autore ha compiuto nella sua opera un’operazione nella quale registra la “totalità del reale” nel suo esplicitarsi quotidiano;
  • La realtà del quotidiano che Joyce ci offre nella sua completezza è tuttavia desolante: nessun personaggio si salva, né Bloom che trova soltanto nell’ubriachezza al pub quel senso di cameratismo virile, fatto di fantasticherie, né sua moglie Molly, che pur apparendo esternamente soddisfatta, con il marito e un amante, appare realmente sola, intristita dalla mancanza d’amore cui è attorniata.
  • L’Ulisse è l’emblema dell’uomo moderno, opposto all’eroe omerico: il sig. Bloom, dileggiato, tradito dalla moglie, impossibilitato a realizzare una paternità spirituale (ha una figlia femmina, il maschio muore dopo undici giorni) è l’esatto opposto di Ulisse.

Virginia Woolf

virginiawoolf.jpgVirginia Woolf, nata Stephen, nasce a Londra nel 1882 da un critico letterario. La sua adolescenza è ricca di conoscenze letterarie, formate soprattutto da coloro che daranno vita al Circolo di Bloomsbury (gruppo di giovani laureati a Cambridge soprattutto ostili all’Inghilterra vittoriana ed edoardiana).  Nel 1912 sposa Leonard, con il quale darà vita ad una casa editrice che pubblicherà le sue maggiori opere, tra le quali ricordiamo La signora Dalloway (1925), Gita al faro (1927) e l’anno successivo Orlando; il suo impegno oltre che letterario, sarà anche civile, prendendo parte alle rivendicazioni femminili per i loro diritti. Ciò ci è testimoniato da Una stanza tutta per sé del 1929. Pubblicherà ancora il romanzo Le onde, ma verrà colpita da un forte esaurimento nervoso, accompagnato da momenti di depressione che la condurranno ad uccidersi annegando nel 1941.

La vicenda si svolge tutta in una giornata: Clarissa Dalloway va a comprare dei fiori per una festa che darà in serata. Ripensa a un amico d’infanzia, Peter, che è stato innamorato di lei e che è da poco tornato dall’India, e alla propria adolescenza; e nello stesso accoglie, con vivo senso di partecipazione, le immagini della vita che le scorre intorno. Di ritorno a casa Peter viene a salutarla e a risvegliare emozioni dimenticate; Elizabeth, la figlia che Clarissa teme di aver perduto perché presa da altri affetti e interessi, sente invece, quello stesso pomeriggio, l’impulso improvviso di tornare dalla madre; anche il marito, profondamente innamorato di lei, sente il bisogno di rivederla un attimo, nel bel mezzo di una giornata di lavoro. La festa della sera è come il punto di confluenza di tutti gli avvenimenti della giornata: riappare Peter, riappare una vecchia amica ora sposata e madre, riappare perfino, nelle parole di un ospite, un personaggio intravisto al parco che ha colpito Clarissa per il suo smarrimento, e del quale si viene a sapere che si è ucciso. 

MV5BYWMzYTJjMzEtOWQ1Zi00MzU3LTk3NWMtNTA1YjFlNDRhOGIzXkEyXkFqcGdeQXVyNjMwMjk0MTQ@._V1_.jpgLA SIGNORA DALLOWAY

La signora Dalloway disse che i fiori li avrebbe comperati lei.
Lucy ne aveva fin che ne voleva, del lavoro. C’era da levare le porte dai cardini; e per questo dovevano venire gli uomini di Rumplemayer. “E che mattinata!” pensava Clarissa Dalloway “fresca, pare fatta apposta per dei bimbi su una spiaggia.”
Che voglia matta di saltare! Così ella s’era sentita a Bourton: quando, col lieve cigolar di cardini che ancora le pareva di sentire, aveva spalancato le porte-finestre e s’era tuffata nell’aria aperta. Ma quanto più fresca e calma, e anche più silenziosa di questa era quell’altra aria, di buon mattino; come il palpito di un’onda; il bacio di un’onda; gelida e pungente eppure (per la fanciulla di diciott’anni ch’ella era allora) solenne: là alla finestra aperta, elle provava infatti un presagio di qualcosa di terribile ch’era lì lì per accadere; e guardava ai fiori, agli alberi ove s’annidavano spire di fumo, alle cornacchie che si libravano alte, e ricadevano; e rimaneva trasognata, fino a che udiva la voce di Peter Walsh: “Fate la poetica in mezzo ai cavoli?” – così aveva detto? – oppure: “Preferisco gli uomini ai cavolfiori” – aveva detto così? Doveva averlo detto una certa mattina a colazione, quando lei era uscita sul terrazzo… Peter Walsh! Sarebbe tornato dall’India quanto prima, a giugno o a luglio, ella non rammentava più, ché le sue lettere erano disastrosamente monotone. Erano i suoi motti che vi si imprimevano in mente; i suoi occhi, il suo temperino, il suo sorriso e, quando milioni d’altre cose erano interamente svanite – strano davvero! – poche parole, come quelle a proposito dei cavolfiori.
In attesa che passasse il furgone di Durnell, ella si irrigidì un poco, sull’orlo del marciapiede. Una donna graziosa, la giudicò Scrope Purvis (egli la conosceva come ci si conosce tra vicini; aveva in sé qualcosa di uccellino, della gazza, un che di verdazzurro, lieve, vivace, quantunque avesse varcato la cinquantina e fatto molti capelli bianchi dopo la sua malattia. In attesa di attraversare ella se ne stava là, dritta nella vita, come appollaiata su di un ramo; e non lo vide neppure.
Poiché il semplice fatto di vivere a Westminster – da quanti anni ormai? più di venti – impone indiscutibilmente (Clarissa lo affermava) seppur nel bel mezzo di un viavai dìuna piazza, o destandosi all’improvviso la notte, una particolare calma, anzi solennità, una pausa che non si potrebbe descrivere, un sostar della vita (ma questo poteva ben essere il cuore, indebolito dall’influenza) nell’attimo prima che Big Ben suoni le ore. Ecco il rintocco! Prima è un monito, musicale, poi l’ora irrevocabile. I plumbei circoli si dissolvevano per aria. Poveri di spirito che siamo, pensava Clarissa, attraversando Victoria Street. Dio solo sa perché l’amiamo così, la vediamo così, perché ce la facciamo così, costruendola attorno al nostro io per poi scomporla, e ricrearla da capo ogni momento; eppure l’ultima delle pitocche, i più sciagurati rifiuti umani seduti sui gradini delle porte (istupiditi dal bere) non farebbero altrimenti; e per quella precisa ragione non c’è legge né decreto che possa domarli: perché amano la vita. Negli occhi dei passanti, nella foga del brulichio cittadino, nel muggito e nel frastuono; nel trapestio e nell’ondeggiar di carrozze, automobili, omnibus, furgoni, uomini-sandwich; nelle bande e negli organetti, nella nota trionfante e nello strano altissimo canto di un aereo che ronzava su in cielo era ciò che ella amava: la vita, Londra, e quell’attimo di giugno.
Poiché si era a metà giugno. Finita ormai la guerra, fuorché per certuni, come la signora Foxcroft che iersera all’Ambasciata si mangiava il cuore perché quel bel ragazzo era caduto al fronte, e ora il vecchio maniero avito sarebbe andato a un cugino; o Lady Bexborough, della quale si diceva che avesse inaugurato una fiera di beneficienza tenendo in mano il telegramma che le anninciava la morte di John, il suo beniamino; ma insomma era finita; grazie al Cielo – finita. Si era a giugno, Le Loro Maestà erano a Palazzo. E ovunque, sebbene fosse ancora presto, c’era in aria uno scalpiccio inquieto di puledri galoppanti, un picchiar di mazze da cricket; Lords, Ascot, Ranelagh e gli altri campi apparivano tuttora velati nella lieve rete grigio azzurra dell’aria mattutina, che con lo snodarsi delle ore dirandasi avrebbe rivelato sui prati e giù per le chine i focosi cavallini che appena sfioravano con gli zoccoli il suolo e partivano d’un balzo; e giovani audaci e ridenti fanciulle in trasparenti vesti di mussola, le quali pur ora, dopo aver danzato tutta la notte, portavano a spasso certi buffi cani lanosi; e nonostante fosse ancora presto, discrete vecchie dame filavano via nelle automobili padronali, dirette a misteriose imprese; e i negozianti si davano da fare a mettere in mostra orpelli e diamanti falsi, e quelle graziose spille color verdemare, stile diciottesimo secolo, che tentano gli americani (“bisogna fare economia però, non fare spese pazze per Elizabeth”); e Clarissa, che per tutte queste cose nutriva un’assurda e fedele passione, e ne faceva parte – i suoi non erano stati cortigiani sotto l’uno o l’altro re Giorgio? – anche lei quella sera, avrebbe sfilato e brillato, dando la sua festa. Ma intanto la colpì il silenzio, all’entrar nel parco, la nebbia, e un ronzar d’insetti , e le anatre felici che nuotavano lente, e i trampolieri panciuti che si dimenavano goffi.

Il romanzo della Woolf, successivo all’Ulisse di Joyce, prende dall’opera dell’autore irlandese l’idea di raccontarci una sola giornata della signora Dalloway. Tuttavia, pur adottando ambedue la tecnica dello stream of consciousness, notiamo una differenza perché la scrittrice inglese conserva un maggior controllo narrativo e non si annulla per dar voce al personaggio. Troviamo, infatti varie tecniche narrative, che vanno dalla narrazione eterodiegetica al monologo indiretto al discorso indiretto, sino al discorso indiretto libero. Più importante è la molteplicità delle focalizzazioni, cui Clarissa non solo è soggetto ma anche oggetto di attenzioni.

Mrs-Dalloway-Vanessa-Redgrave-1997 (9).JPGTutto ciò è bene espresso nel brano iniziale: si parte dal comprare dei fiori e dalla constatazione che bisogna togliere le porte dai cardini, per innescare l’afflusso dei ricordi quando nella casa di campagna cambiava l’aria e ancora ragazza veniva corteggiata da Peter. Mentre attraversa la strada Clarissa è investita dal rumore della città, ma proprio allora sente il bisogno di focalizzare la sua attenzione sul rintocco dell’orologio, quindi sul passar del tempo. Anche i più sciagurati si attaccano a questo tempo perché amano la vita e l’amore per essa la conduce all’idea di giovani uomini morti in guerra. Ma i giovani ora sono pronti all’amore, negli ippodromi della città e le signore si fanno belle con gli orpelli messi in vendita (ma deve fare attenzione a non spendere troppo per sua figlia). Ma anche lei quella sera sarà bella.

La prosa è irregolare, frammentata: anch’essa ci riporta all’affollarsi dei pensieri di Clarissa: tuttavia la capacità di mescolare linguaggio informale, figurato, similitudini e metafore senza cadere in una disarmonia, innalza lo stesso in ritmo capace di toccare la levità, come lievi sono i pensieri della protagonista.

Un altro grande romanzo è Gita al faro:

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La famiglia Ramsey è in villeggiatura, con alcuni ospiti, in una delle isole Ebridi. E’ una sera del settembre del 1914; si progetta una gita al faro, che agli occhi di James, il più piccolo dei figli, si presenta come una meta di sogno, ricca di misteriosi significati. Ma la gita viene rimandata per il maltempo. Passano gli anni: la guerra tiene i Ramsey lontano dall’isola e la loro vecchia casa va in rovina. Muoiono la signora Ramsey, il figlio Andrew, la figlia Prue. Dopo dieci anni i Ramsey superstiti  e alcuni degli stessi ospiti di un tempo tornano all’isola. Il signor Ramsey e i due figli fanno finalmente la gita al faro: intanto una degli ospiti, la pittrice Lily Briscoe, finisce di dipingere un quadro cominciato dieci anni prima. Nelle due azioni si riallacciano  simbolicamente passato e presente, e i personaggi e i rapporti che li legano si collocano in una luce rivelatrice del loro più autentico significato.   

IL CALZEROTTO MARRONE

«E anche se domani non sarà bello» disse la signora Ramsay, alzando gli occhi su William Bankes e Lily Briscoe che passavano «ci andremo un altro giorno. E ora» disse, pensando che il fascino di Lily stava in quegli occhi cinesi, messi sghembi nella pallida faccina grinzosa, ma ci voleva un uomo intelligente per vederlo; «e ora alzati su, fammi misurare la gamba» perché alla fine magari sarebbero riusciti ad andare al Faro, e doveva vedere se allungare i calzerotti di qualche centimetro.
Sorridendo a un’eccellente idea che le era balenata in mente in quell’istante – William e Lily dovevano sposarsi – prese la calzerotto color dell’erica, col suo incrocio d’aghi all’imboccatura, e la misurò alla gamba di James.
«Sta’ fermo, caro!» disse, perché a James, per gelosia, non andava affatto di fare da modello per il figlio del custode, si scalpitava apposta; ma se scapitava, come faceva lei a vedere se era lungo, o corto? gli domandò.
Alzò gli occhi – quale demonio si era impossessato del suo piccolo, il suo prediletto? – e guardò la stanza, guardò le sedie, e pensò che erano spaventosamente logore. L’imbottitura, aveva detto Andrew l’altro giorno, invece che dentro stava fuori, sul pavimento. Ma a che serviva, si chiedeva, comprare delle sedie nuove per farle andare in malora d’inverno, quando la casa, custodita da una vecchia donna, gocciava addirittura per l’umidità? Che importava? L’affitto non arrivava a tre penny, i bambini l’amavano, a suo marito  faceva bene  a starsene a tremila, per la precisione erano trecento – miglia di distanza dalla biblioteca, le lezioni, gli studenti. E c’era posto anche per gli ospiti. Stuoie, brande, fantastici spettri di sedie e tavoli che avevano esaurito la loro funzione a Londra,  lì andavano benissimo: con in più qualche fotografia, e i libri. I libri, pensò, crescevano da soli. Non aveva mai tempo di leggerli. Peccato! Anche i libri che le venivano regalati con tanto di dedica dell’autore: “A colei i cui desideri sono legge…” “Alla più felice Elena dei nostri tempi…” si vergognava di dirlo, ma non li aveva mai letti. Il libro di Croom sulla mente, di Bates sui Costumi dei Selvaggi Polinesia ( «Sta’ fermo, caro» ripeté) – non li poteva certo mandare al Faro. A un certo punto, pensò, la casa sarebbe andata in malora, e avrebbero per forza dovuto fare qualcosa. Se avessero almeno imparato a pulirsi i piedi, invece di portare dentro casa tutta la sabbia – sarebbe già stato qualcosa. I granchi doveva pur permetterli, visto che Andrew li voleva dissezionare; e se Jasper aveva deciso che con le alghe si doveva fare la zuppa, non glielo poteva impedire; o così per gli oggetti di Rose, le conchiglie, le canne, i sassi. I suoi ragazzi erano tutti dotati, ognuno a suo modo. E il risultato era, sospirò, avvolgendo con lo sguardo tutta la stanza dal soffitto al soffitto, sempre tenendo il calzerotto appoggiato alla gamba di James, che da un’estate all’altra la casa diventava sempre più squallida. La stuoia s’era scolorita; la carta da parati si scollava, non si riconosceva neppure più se erano rose. D’altronde, a forza di lasciare le porte aperte, perché in tutta la Scozia non si trova un fabbro che sappia aggiustare un chiavistello, le cose si sciupano. A che serviva poggiare sull’orlo della cornice uno scialle di cachemire? In due settimane sarebbe diventato dello stesso colore del brodo di piselli. Ma erano le porte soprattutto che le davano fastidio; le porte lasciate aperte. Si fermò ad ascoltare: la porta del salotto era aperta; ed era sicuramente aperta anche la finestra sul pianerottolo, l’aveva aperta lei quella. Perché mai nessuno si ricordava di una cosa così semplice – le finestre dovevano stare aperte e le porte chiuse? Se andava nella stanza delle cameriere di notte le trovava sigillate come forni, eccetto quella di Marie, la ragazza svizzera, che avrebbe preferito fare a meno dell’acqua calda piuttosto che dell’aria fresca. Al suo paese aveva detto «le montagne sono così belle». L’aveva detto la sera prima, guardando fuori dalla finestra con le lacrime agli occhi: «Le montagne sono così belle.» Suo padre stava morendo laggiù, la signora Ramsay lo sapeva. Li avrebbe lasciati orfani. Era andata su per rimproverarla e darle  delle dimostrazioni (come si fa letto, come si apre la finestra, e muoveva come fosse una donna francese) ma quando la ragazza disse così, subito si quietò, come dopo un volo dispiegato nel sole si quietano le ali di un uccello, e l’azzurro delle piume da grigio acceso si fa rosso porpora chiaro. Era rimasta lì ferma in silenzio perché non c’era niente da dire. Aveva un cancro alla gola. A quel pensiero – al pensiero di com’era rimasta lì immobile, di come la ragazza aveva detto: «A casa mia le montagne sono così belle», no, non c’era speranza, nessuna – ebbe una contrazione irritata, e in tono brusco disse a James: «Sta’ fermo. Non essere noioso» e James si rese subito conto che quella severità era reale, allungò la gamba, e lei prese la misura.
La calzerotto era troppo corto, mancava almeno un centimetro anche tenendo conto che il bambino di Sorley era meno sviluppato di James.
«E’ troppo corto» disse «troppo corto.»

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Non succede nulla: Mrs Ramsey sta provando sulla gamba del suo figlio più piccolo un calzerotto che dovrà donare al figlio del custode del faro. All’interno di questa esiguità il flusso di pensieri della protagonista. Ciò permette lo sbalzo cronologico tra ciò che avviene all’esterno, oggettivo e reale e i vissuti soggettivi: Erich Auerbach, in Mimemis (1956) definendo questo fenomeno – tipico della cultura novecentesca – “spostamento del centro di gravità” ed aggiungendo “si attribuisce meno importanza alle grandi svolte esteriori e ai colpi del destino, come se da essi non possa scaturire nulla di decisivo (…); si ha fiducia invece che un qualunque fatto della vita scelto casualmente contenga in ogni momento e possa rappresentare la somma dei destini”.

Opere in lingua francese

Marcel Proust

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Marcel Proust nasce nel 1871 ad Auteuil, vicino Parigi, da una famiglia borghese. Di salute malferma, passa l’infanzia a Illiers e alla stazione balneare Trouville. Sin da giovane, dopo essersi inserito negli ambienti culturali della capitale francese, collabora a diverse riviste e pubblica alcune novelle. La morte dei genitori, il padre nel 1903, a madre nel 1905, crea in Proust quasi uno spartiacque tra cioè che è felicità (quindi passato) e la realtà presente. Da allora passa tutto il suo tempo nella realizzazione della sua opera Alla ricerca del tempo perduto, opera che si struttura in sette romanzi (Dalla parte di SwannAll’ombra delle fanciulle in fioreLa parte di GuermantesSodoma e GomorraLa prigionieraAlbertine scomparsaIl tempo ritrovato) opera monumentale  che diventa sin da subito paradigma di tutto ciò che verrà scritto dopo di lui. Muore nel 1922.

Alla ricerca del tempo perduto è un ciclo narrativo in sette volumi. Nella prima parte di La strada di Swann (1913) il Narratore, mosso da un’associazione fortuita, rievoca il mondo dell’infanzia a Combray con le care figure della madre, della nonna, della vecchia zia Lèonie, della fedele Françoise. Le passeggiate quotidiane lo portano in due direzioni opposte: la strada di Méséglise (dove abitano Swann con la figlia Gilberte e il musicista Vinteuil, genio ancora sconosciuto) e la strada dei Guermantes, i grandi aristocratici che appaiono remoti, quasi irreali al Narratore. Nella seconda parte, che costituisce quasi un racconto separato, Un amore di Swann, è rievocata la passione di Swann per la famosa demi-mondaine Odette de Crécy, poi diventata sua moglie: messo al bando dalla migliore società, Swann frequenta il salotto dei Verdurin, ricchi borghesi con pretese intellettuali. Nella terza parte il Narratore racconta le vicende del suo amore adolescente per Gilberte, sullo sfondo degli Champe Elysées. In All’ombra delle fanciulle in fiore (1919) il Narratore giovinetto conosce lo scrittore Bergotte e la grande attrice Berma, mentre l’amore per Gilberte svanisce lentamente. Si reca a Balbec, la grande spiaggia alla moda, e lì incontra il giovane Robert de Saint-Loup, imparentato con i Guermantes, che lo presenta allo zio, il barone di Charlus; ma il narratore è incantato soprattutto dal gruppetto delle “fanciulle in fiore”, Andreé, Albertine, Rosamonde e le loro amiche. In I Guermantes (1920-1921) il Narratore, ormai tornato a Parigi, va ad abitare con i suoi in un appartamento del palazzo dei Guermantes, appena intravisti nell’infanzia a Combray. Si innamora della duchessa e per poterla avvicinare si trasferisce per qualche giorno a Donciéres, la città dove presta servizio militare Saint-Loup. Fa la conoscenza dell’amante di Robert, la giovane attrice Rachel, e frequenta il salotto di Mme de Villeparisis. Muore la nonna materna; il Narratore rinnova l’amicizia con Albertine. In Sodoma e Gomorra (1922) appare per l’ultima volta Swann, condannato da un male incurabile. Il Narratore ha la rivelazione dell’omosessualità di Charlus. Le vicende dell’amore del barone per il violinista Morel e del Narratore per Albertine spostano la scena da Parigi a Balbec e poi a La Raspeliére, la villa dei Verdurin. Avendo ormai quasi dimenticato la morte della nonna, il Narratore si interroga sull’importanza dell’amore che le portava, e scopre “le intermittenze del cuore”. Quando viene a sapere che Albertine ha avuto rapporti omosessuali con Mlle Vinteuil, decide di riportarla a Parigi. La prigioniera (1923, postumo) e Albertine scomparsa (1925, postumo) sono dedicati all’amore per Albertine, che il Narratore tiene come prigioniera, in attesa di sposarla. La sua gelosia morbosa, i suoi sospetti e le sue paure sono rinfocolati dall’esempio di Charlus, tradito da Morel. Muore Bergotte, e Charlus precipita sempre più in basso: se queste vicende sottolineano la vanità della vita, il Settimino di Vinteuil conferma il Narratore nella certezza che essa è riscattata dall’eternità dell’arte. Ormai quasi indifferente ad Albertine, il Narratore si prepara a lasciarla quando la fuga e poi la morte accidentale della fanciulla rinfocolano la sua passione. Ma il tempo cancella anche questo amore: il Narratore si innamora di una giovane che, dapprima non riconosciuta, si rivela poi per Gilberte. Gilberte sposa Saint-Loup: le due strade, quella dei Guermantes e quella dei Méséglise si sono incontrate. Ma ben presto il Narratore scopre che Saint-Loup è omosessuale come suo zio Charlus. In Il tempo ritrovato (1927, postumo) il Narratore trascorre qualche giorno a Tansonville, nella villa di Gilberte. Insieme rievocano episodi dell’infanzia, ma Gilberte soffre per le infedeltà di Saint-Loup. Scoppia la guerra. Nella Parigi bombardata Charlus continua nella ricerca dei suoi piaceri particolari. Muore Saint-Loup, mentre l’astro dei Verdurin sale sempre di più sull’orizzonte mondano. Finisce la guerra: dopo un soggiorno di qualche mese in una casa di cura, il Narratore si reca a un ricevimento della principessa di Guermantes (che non è altri che Mme Verdurin, rimasta vedova e subito risposata). Incontra vecchi amici ma stenta a riconoscerli, segnati e trasformato dal tempo come sono. Una irregolarità del pavimento del cortile, il tintinnio di un cucchiaino posato sul piatto gli riportano di colpo momenti del passato, che lo riempiono di ineffabile gioia. Decide di cominciare a scrivere l’opera alla quale pensa sin dalla giovinezza per resuscitare il passato, di cui ha scoperto gli infiniti risvolti, nella poesia.

Cominciamo la lettura con uno dei passi più celeberrimi dell’intero romanzo, tratti dal primo romanzo La strada di Swann:

2f05fa4b20be7c59f31b54ed603121fb.jpgDavid Richardson: Proust e la madeleine

LA MADELEINE    

Così per molto tempo, quando, stando sveglio di notte, ripensavo a Combray, non ne rividi mai se non quella specie di lembo luminoso, che si tagliava in mezzo a tenebre indistinte, simili a quelle che la vampa d’un fuoco di bengala  o qualche proiettore elettrico illuminano e sezionano in un edificio, di cui le altre parti restino immerse nel buio: alla base, piuttosto larga, il salottino, la sala da pranzo, il richiamo dell’oscuro viale donde sarebbe giunto Swann, l’autore inconscio delle mie tristezze, il vestibolo per cui m’incamminavo verso il primo gradino della scala, che mi era tanto duro salire, e che costituiva da sola il tronco assai stretto di quella piramide irregolare; e in cima, la mia camera da letto col piccolo corridoio dalla porta a vetri per cui entrava la mamma; in una parola, sempre veduto alla stessa ora, isolato da ogni cosa che vi potesse essere intorno, stagliandosi solo nell’oscurità, lo scenario strettamente indispensabile (come quello che si vede indicato a capo delle vecchie commedie per le rappresentazioni in provincia) al dramma dello spogliarmi, come se Combray non fosse consistita che in due piani riuniti da un’angusta scala, e come se là non fossero mai state che le sette di sera.  A dire il vero, a chi m’avesse interrogato avrei potuto rispondere che Combray racchiudeva anche altre cose ed esisteva in altre ore.  Ma, poiché quel che avrei ricordato mi sarebbe stato offerto soltanto dalla memoria volontaria, la memoria dell’intelligenza, e poiché le notizie che essa dà sul passato non mi serbano nulla, non avrei mai avuto voglia di pensare a quel resto di Combray.  Tutto questo, in verità, era morto per me.
Morto per sempre?  Forse.

Il caso ha una grande parte in tutte queste cose, e un secondo caso, quello della nostra morte, spesso non ci permette d’attendere a lungo i favori del primo.  Mi sembra molto ragionevole la credenza celtica secondo cui le anime di quelli che abbiamo perduto sono prigioniere entro qualche essere inferiore, una bestia, un vegetale, una cosa inanimata, perdute di fatto per noi fino al giorno, che per molti non giunge mai, che ci troviamo a passare accanto all’albero, che veniamo in possesso dell’oggetto che le tiene prigioniere.  Esse trasaliscono allora, ci chiamano e non appena le abbiamo riconosciute, l’incanto è rotto.  Liberate da noi, hanno vinto la morte e ritornano a vivere con noi.
Così è per il passato nostro. E’ inutile cercare di rievocarlo, tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani.  Esso si nasconde all’infuori del suo campo e del suo raggio di azione in qualche oggetto materiale (nella sensazione che ci verrebbe data da quest’oggetto materiale) che noi non supponiamo.  Quest’oggetto, vuole il caso che lo incontriamo prima di morire, o che non lo incontriamo.
Già da molti anni di Combray tutto ciò che non era il teatro o il dramma del coricarmi non esisteva più per me, quando in una giornata d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, un po’ di tè.  Rifiutai dapprima, e poi, non so perché, mutai d’avviso.  Ella mandò a prendere una di quelle focacce pienotte e corte chiamate «madeleinine», che paiono aver avuto come stampo la valva scanalata d’una conchiglia.
Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d’un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «madeleine».  Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario.  Un piacere delizioso m’aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M’aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l’amore, colmandomi d’un’essenza preziosa: o meglio quest’essenza non era in me, era me stesso.  Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch’era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva?  Che significava?  Dove afferrarla?
Bevo un secondo sorso in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo dal quale ricevo meno che dal secondo. E’ tempo ch’io mi fermi, la virtù della bevanda sembra diminuire. E chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l’ha risvegliata, ma non la conosce, e non può che ripetere indefinitamente, con forza sempre minore, quella stessa testimonianza che io sono incapace d’interpretare e che voglio almeno poterle donare di nuovo e ritrovare a mia disposizione intatta, fra poco, per una spiegazione decisiva. Depongo la tazza e mi rivolgo al mio animo. Tocca a esso trovare la verità. Ma come? Grave incertezza, ogni qualvolta l’animo nostro si sente sorpassato da sé medesimo; quando lui, il ricercatore, è al tempo stesso anche il paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il suo bagaglio non gli servirà a nulla. Cercare? non soltanto: creare. Si trova di fronte a qualcosa che ancora non è, e che esso solo può rendere reale, poi far entrare nella sua luce.

E ricomincio a domandarmi che mai potesse essere quello stato sconosciuto, che non portava con sé alcuna prova logica, ma l’evidenza della sua felicità, della sua realtà dinanzi alla quale ogni altra svaniva. Voglio provarvi a farlo riapparire. Indietreggio col pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè.  Ritrovo lo stesso stato, senza una nuova luce. Chiedo al mio animo ancora uno sforzo, gli chiedo di ricondurmi di nuovo la sensazione che fugge. E perché niente spezzi l’impeto con cui tenterà di riafferrarla, allontano ogni ostacolo, ogni pensiero estraneo, mi difendo l’udito e l’attenzione dai rumori della stanza accanto. Ma, sentendo come l’animo mio si stanchi senza successo, lo costringo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a ripigliar vigore prima d’un tentativo supremo.  Poi, una seconda volta, gli faccio intorno il vuoto; di nuovo gli metto di fronte il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento in me trasalire qualcosa che si sposta e che vorrebbe alzarsi, qualcosa che si fosse come disancorata, a una grande profondità, non so che sia, ma sale adagio adagio; sento la resistenza, e odo il rumore delle distanze traversate.
Certo, ciò che palpita così in fondo a me dev’essere l’immagine, il ricordo visivo, che, legato a quel sapore, tenta di seguirlo fino a me. Ma si agita in modo troppo confuso; percepisco appena il riflesso neutro in cui si confonde l’inafferrabile turbinio dei colori smossi; ma non so distinguere la forma, né chiederle, come al solo interprete possibile, di tradurmi la testimonianza del suo contemporaneo, del suo inseparabile compagno, il sapore, chiederle di rivelarmi di quale circostanza particolare, di quale epoca del passato si tratti.
Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’attrazione d’un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso?  Non so.  Adesso non sento più nulla, s’è fermato, è ridisceso forse; chi sa se risalirà mai dalle sue tenebre?  Debbo ricominciare, chinarmi su di lui dieci volte. E ogni volta la viltà, che ci distoglie da ogni compito difficile, da ogni impresa importante, m’ha consigliato di lasciar stare, di bere il mio tè pensando semplicemente ai miei fastidi di oggi, ai miei desideri di domani, che si possono ripercorrere senza fatica.
E ad un tratto il ricordo m’è apparso. Quel sapore era quello del pezzetto di «madeleine» che la domenica mattina a Combray (giacché quel giorno non uscivo prima della messa), quando andavo a salutarla nella sua camera, la zia Léonie mi offriva dopo averlo bagnato nel suo infuso di tè o di tiglio.
La vista della focaccia, prima d’assaggiarla, non m’aveva ricordato niente; forse perché, avendone viste spesso, senza mangiarle, sui vassoi dei pasticcieri, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per unirsi ad altri giorni più recenti; forse perché di quei ricordi così a lungo abbandonati fuori della memoria, niente sopravviveva, tutto s’era disgregato; le forme – anche quella della conchiglietta di pasta – così grassamente sensuale sotto la sua veste a pieghe severa e devota – erano abolite, o, sonnacchiose, avevano perduto la forza d’espansione che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza.  Ma, quando niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più tenui ma più vividi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore, lungo tempo ancora perdurano, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sopra la rovina di tutto il resto, portando sulla loro stilla quasi impalpabile, senza vacillare, l’immenso edificio del ricordo.
E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di “madeleine” inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello.  E come in quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti, che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e i suoi dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè.

In questo brano troviamo il protagonista che inizia a recuperare il proprio passato attraverso il ricordo. Marcel è consapevole della differenza tra ricordo volontario e memoria involontaria. Il ricordo non si ottiene attraverso un processo cosciente, se non ottenendo immagini sterili, non emotive; solo l’emozione involontaria ed improvvisa, in questo caso suscitata da una madeleine è in grado di riportarlo ad un intero mondo che si credeva perduto. Questa memoria “liberata” dalla ragione, operando sulla coscienza, ci permette di ricercare per ritrovare noi stessi anche attraverso le azioni passate.

15PROUST1_SPAN-articleLarge.jpgPagina del manoscritto de “La strada di Swann”

Tutto questo ci viene detto da Proust in una prosa involuta, dove le proposizioni s’innestano una nell’altra, rallentando il ritmo narrativo. Eppure proprio nel momento in cui assapora la madeleine, gli basta una semplice frase che gli permette di comunicare l’improvvisa felicità emotiva e “la riconquista di un passato che emerge attraverso il potere evocativo delle sensazioni” (Barberi Squarotti)

Sempre da La strada di Swann, leggiamo ora i primi innamoramenti di Marcel:

GILBERTE

Françoise aveva troppo freddo per star ferma; ci spingemmo sino al Ponte della Concordia, a veder la Senna imprigionata, a cui tutti e perfino i bambini s’accostavano senza timore come a un’immensa balena arenata, senza difesa, e che sarà squartata fra poco.  Tornammo ai Champs-Elysées; io languivo di dolore tra i cavalli a legno immobili e il prato bianco caduto in prigionia nel reticolato nero dei viali dov’era stata rimossa la neve, sopra il quale la statua aveva in mano uno zampillo di ghiaccio aggiunto quasi a spiegazione del suo gesto. Perfino la vecchia signora , dopo aver ripiegato i suoi “Débats”, chiese l’ora a una bambinaia che passava e che ringraziò dicendo: «Come siete cortese!» poi, pregando il guardiano di dire ai suoi nipotini che tornassero perché lei aveva freddo, soggiunse: «Sarete mille volte buono. Davvero, ne sono confusa!». D’un tratto l’aria si lacerò: fra il teatrino delle marionette e il circo, all’orizzonte rifiorito, sul cielo dischiuso, avevo scorto, come un segno favoloso, la piuma azzurra della signorina. E già Gilberte correva a tutta velocità verso di me, sfavillante e rossa sotto un berretto di pelo di forma quadrata, animata dal freddo, dal ritardo e dalla voglia di giocare; un po’ prima d’avermi raggiunto, si lasciò scivolare sul ghiaccio e, sia per meglio tenersi in equilibrio, sia perché le pareva più grazioso, o per imitare il portamento di una pattinatrice, ella avanzava sorridendo con le braccia aperte, quasi vi avesse voluto accogliermi.
«Brava, brava! benissimo, direi come voi che è una cosa chic, una cosa audace, se non fossi di un altro tempo, del tempo dell’antico regime», esclamò la vecchia signora, prendendo la parola in nome dei Champs-Elysées silenziosi per ringraziare Gilberte d’essere venuta senza lasciarsi intimidire dal tempo. «Siete come me, fedele nonostante tutto ai vostri vecchi Champs-Elysées; siamo due donne intrepide. Se vi dicessi che li amo anche così. Questa neve, voi riderete di me, mi ricorda l’ermellino!» E la vecchia signora si mise a ridere.
Il primo di quei giorni, – a cui la neve, immagine delle forze che potevan privarmi della vista di Gilberte, dava la tristezza d’un giorno di separazione e perfino l’aspetto d’un giorno di partenza perché mutava le fattezze e quasi impediva l’uso del luogo consueto dei nostri soli incontri, ora trasformato, tutto coperto di neve, – quel giorno tuttavia fece progredire il mio amore, perché fu come un primo dolore ch’ella avesse condiviso con me. Della nostra brigata c’eravamo soltanto noi due, e trovarmi così solo con lei non soltanto era come un inizio d’intimità, ma anche, – quasi se, con un tempo simile, ella non fosse venuta che per me, – mi pareva altrettanto commovente da parte sua come se, uno di quei giorni in cui ella era stata invitata ad una festa, vi avesse rinunciato per venire ad incontrarmi ai Champs-Elysées; acquistavo maggior fiducia nella vitalità e nell’avvenire della nostra amicizia, che si manteneva vivace in mezzo al torpore, la solitudine e la rovina delle cose intorno; e, mentre lei mi metteva delle palle di neve nel collo, io sorridevo intenerito a quel che mi appariva al tempo stesso una predilezione ch’ella mi manifestava, tollerandomi come compagno di viaggio in quel paese invernale e nuovo, e una sorta di fedeltà che mi serbava nella sventura. Ben presto, una dopo l’altra, come passeri esitanti, arrivarono le sue amiche, nere nere sulla neve. Cominciammo a giocare, e, poiché quel giorno iniziatosi così tristemente doveva finire nella gioia, come io m’avvicinavo, prima di giocare a barriera, all’amica dalla voce breve che il primo giorno avevo udita gridare il nome di Gilberte, ella mi disse: «No, no, sappiamo bene che voi preferite stare  nel campo di Gilberte, del resto vedete, lei vi fa segno». Infatti, ella mi chiamava perch’io andassi sul prato coperto di neve, nel suo campo, al quale il sole dava riflessi rosa, il logoramento metallico dei broccati antichi, facendone un Campo del Drappo d’oro.
Quel giorno da me così temuto fu invece uno dei soli in cui non mi sentissi troppo infelice. Invero, io che non pensavo più che a non stare mai un giorno senza vedere Gilberte (al punto che una volta, come la nonna non era rientrata per l’ora di pranzo, non potei fare a meno di dirmi subito che, se era finita sotto una carrozza, per qualche tempo non sarei potuto andare ai Champs-Elysées; non amiamo più nessuno quando amiamo), tuttavia in quei momenti ch’ero presso di lei e che avevo atteso dal giorno prima con tanta impazienza, per i quali avevo tremato, ai quali avrei sacrificato tutto il resto, non erano per nulla felici; e lo sapevo bene, essendo quelli i soli momenti della mia vita su cui concentrassi un’attenzione meticolosa, intensa, la quale non vi scopriva un atomo di piacere. Tutto il tempo ch’ero lontano da Gilberte, avevo bisogno di vederla, perché, cercando incessantemente di rappresentarmi l’immagine sua, infine non vi riuscivo più, e non sapevo più con precisione a che cosa corrispondesse il mio amore. Poi, ella non mi aveva ancora mai detto che m’amava. Al contrario, aveva affermato sovente d’aver degli amici che preferiva a me, che io ero un buon compagno col quale giocava volentieri, benché troppo distratto, non abbastanza interessato al gioco; infine, m’aveva dato spesso segni evidenti di freddezza che avrebbero potuto turbare la fiducia ch’io possedevo d’essere per lei qualcosa di diverso dagli altri, se tal fiducia avesse tratto origine da un amore che Gilberte provasse per me, e non invece, com’era in realtà, dall’amore che io provavo per lei: il che la rendeva ben più resistente, facendola dipendere dal modo stesso in cui, per un’intima necessità, io mi trovavo costretto a pensare a Gilberte. Ma i miei sentimenti per lei, io stesso non glieli avevo ancora dichiarati. Certo, scrivevo all’indefinito il suo nome e il suo indirizzo su ogni pagina dei miei quaderni; ma alla vista di quelle vaghe linee che tracciavo senza che per questo lei pensasse a me, e per opera delle quali  prendeva tanto posto intorno a me apparentemente, senza trovarsi maggiormente unita alla mia esistenza, mi sentivo scoraggiato, perché non mi parlavano di Gilberte, che non le avrebbe neppure vedute, ma del mio desiderio, ch’esse parevamo mostrarmi come qualcosa di puramente personale, d’irreale, d’importuno e d’impotente. La cosa più urgente era che ci vedessimo, Gilberte ed io, e potessimo confessarci reciprocamente il nostro amore, che fino allora non avrebbe, per così dire, neppure avuto inizio. Senza dubbio, le svariate ragioni che mi rendevano così impaziente di vederla sarebbero state meno imperiose per un adulto. Più tardi avviene che, divenuti abili nella coltura dei nostri piaceri, ci accontentiamo del piacere provato nel pensare a una donna come io pensavo a Gilberte, senza curarci di sapere se questa immagine corrisponda alla realtà, e anche dal piacere di amarla senza una necessità d’una certezza che lei ci ami; o ancora avviene che noi rinunciamo al piacere di confessarle la nostra simpatia per lei per mantenere più viva la simpatia che lei ha per noi, imitando quei giardinieri giapponesi che per ottenere un fiore più bello ne sacrificano parecchi altri. Ma, nel tempo in cui amavo Gilberte, credevo ancora che l’Amore esistesse effettivamente fuori di noi; credo che, permettendoci tutt’al più di allontanare gli ostacoli, esso offrisse i suoi beni in un ordine in cui non vi fosse libertà di mutar nulla; mi pareva che se io, di mia volontà, avessi sostituito alla dolcezza della dichiarazione la simulazione dell’indifferenza, non soltanto mi sarei privato d’una delle gioie da me più sognate, ma mi sarei costruito a modo mio un amore fittizio e senza valore, senza comunicazione con l’amore vero, del quale avrei rinunciato a seguire le strade misteriose e preesistenti.

15PROUST2-popup.jpgProust con la madre e il fratello Robert

Gilberte è la prima esperienza sentimentale del Narratore e ci viene narrata quando lo stesso è diventato ormai adulto. Ciò permette a Proust una variazione di tipo stilistico che passa dalla descrizione analitica della prima parte, con i Champs-Elysées  innevati e, all’interno di essa una vecchietta d’altri tempi, di una gentilezza un po’ demodè, che sembrano anch’essi attendere l’arrivo di Gilberte, carica di ebbrezza giovanile, cui s’accompagnano in seguito, le sue amiche. Da questo punto lo stile cambia e diventa riflessivo, dove il suo atteggiamento viene vagliato alla luce dell’esperienza matura: quindi una serie di proposizioni ipotetiche in cui il nostro analizza il suo agire, qual era stato e quale sarebbe stato opportuno e le diverse conseguenze che tale agire ha e avrebbe avuto su Gilberte, mettendo in luce il tipico atteggiamento di Proust verso la materia narrata, che è sempre in lui una miscela tra narrazione vera e propria e riflessione. Ma quello che Proust in questo passo sottolinea è l’acquisizione da parte di un giovane Marcel di come l’amore sia ancora per lui un sentimento da oggettivare in un atto che lo dichiari, lo renda palese, insomma renda partecipe l’amata del sentimento provato. 

Questo brano invece lo traiamo da La prigioniera:

ALBERTINE, LA DEA DEL TEMPO

Negli occhi della mia amica, nel brusco infiammarsi del suo viso sentivo a tratti come un lampo di calore trascorrere furtivamente in regioni che erano per me più inaccessibili del cielo e nelle quali si muovevano i ricordi, a me ignoti, di Albertine. La bellezza che – pensando agli anni che s’erano succeduti da quando conoscevo Albertine, sia sulla spiaggia di Balbec che a Parigi – le avevo scoperto da poco, e che consisteva nel fatto che la sua persona si sviluppava su tanti piani e conteneva tanti giorni passati, quella bellezza acquistava allora qualcosa di straziante. Sotto quel viso che arrossiva sentivo che si nascondeva, simile a una voragine, la riserva inesauribile delle sere in cui ancora non conoscevo Albertine. Potevo, sì, prendermi Albertine sulle ginocchia, tenerle la testa fra le mie mani, potevo accarezzarla, passare a lungo le mie mani su di lei; ma, come se avessi maneggiato una pietra che racchiude la salsedine degli oceani o il raggio di una stella, sentivo di non toccare che l’involucro chiuso d’un essere che, dal suo interno, era in comunicazione con l’infinito. Quanto soffrivo della posizione cui ci ha ridotti l’oblio della natura che, istituendo la divisione dei corpi, non si è curata di rendere possibile l’interpretazione delle anime! E mi rendevo conto che Albertine, per me, non era nemmeno (giacché se il suo corpo era in potere del mio, il suo pensiero sfuggiva alla presa del mio pensiero) la meravigliosa prigioniera di cui avevo creduto d’arricchire la mia dimora, nascondendone per altro la presenza – anche a chi veniva a trovarmi e certo non la sospettava in fondo al corridoio, nella camera accanto – non meno perfettamente di quel personaggio di cui tutti ignoravano che tenesse la principessa della Cina rinchiusa in una bottiglia; era piuttosto come una grande dea del Tempo, che mi invitava in una forma pressante, crudele e senza scampo alla ricerca del passato. E se è stato necessario che perdessi per lei degli anni e il mio patrimonio – e ammesso) cosa – ahimè, tutt’altro che sicura) che lei non ci abbia a sua volta perduto – non ho niente, io, da rimpiangere. E’ probabile che meglio sarebbe valsa la solitudine, più feconda, meno dolorosa. Ma quanto alla vita del collezionista che Swann mi consigliava, che il signor di Charlus mi rimproverava di non conoscere quando con un misto di spirito, di insolenza e di compiacimento mi diceva: «Quant’è brutta la vostra casa!», quali mai statue, quali quadri lungamente perseguiti e infine posseduti o, nel migliore dei casi, contemplati con disinteresse, mi avrebbero, quanto la piccola ferita che si cicatrizzava abbastanza in fretta, ma che l’incosciente sbadataggine di Albertine, degli estranei, o dei miei stessi pensieri non tardava a riaprire, consentito l’accesso a quell’uscita fuor di se stessi, a quella via di comunicazione privata, ma destinata a immettersi nella grande strada dove passa ciò che ci è dato conoscere solo quando cominciamo a soffrire: la vita degli altri?
A volte c’era un così bel chiaro di luna che, appena un’ora dopo che Albertine s’era coricata, andavo fino al suo letto per dirle di guardare fuori dalla finestra. Sono sicuro che è per questo che andavo in camera sua, e non per accertarmi che lei ci fosse. Come avrebbe potuto andarsene, o anche desiderarlo? Ci sarebbe voluta una collusione, inverosimile con Françoise. Nella camera buia non vedevo, sul candore del cuscino, che un sottile diadema di capelli neri. Ma sentivo il respiro di Albertine. Il suo sonno era così profondo che esitavo ad accostarmi al letto; mi sedevo sul bordo; il sonno continuava a scorrere con lo stesso mormorio. Non è possibile dire quanto fossero allegri i suoi risvegli. La baciavo, la scuotevo. Subito lei smetteva di dormire e, senza un solo istante di intervallo, scoppiava a ridere, e annodandomi le braccia intorno al collo mi diceva: «Stavo giusto chiedendomi se non saresti venuto», e teneramente rideva a più non posso. Si sarebbe detto che la sua testa incantevole, quando dormiva, fosse piena soltanto d’allegria, di tenerezza e di risa. E che, svegliandola, io non avessi fatto altro, come quando si apre un frutto, che sprigionarne il suo succo zampillante che disseta. L’inverno, intanto, finiva; tornò la bella stagione, e spesso, quando Albertine m’aveva appena detto buonanotte e la mia camera, le tende, la parete al di sopra di esse erano ancora tutte nere, nel giardino del vicino convento, ricca e preziosa nel silenzio come l’armonium di una chiesa, sentivo la modulazione d’un uccello sconosciuto che già cantava mattutino secondo il modo lidio, illuminando le mie tenebre con la ricca nota di splendore di quel sole che già vedeva. Presto le notti si accorciarono, e prima di quelle ch’erano state le ore del mattino già vedevo il biancore quotidianamente incrementato del giorno filtrare dalle tende della finestra. Se mi rassegnavo a lasciare che Albertine facesse ancora quella vita in cui, malgrado i suoi dinieghi, sentivo che aveva l’impressione di essere prigioniera, era solo perché ogni giorno ero sicuro che l’indomani mi sarei messo, oltre che lavorare, ad alzarmi, a uscire di casa,  a fare preparativi per la partenza verso qualche proprietà che avremmo acquistata e dove Albertine avrebbe potuto condurre più liberamente, e senza inquietudine per me, la vita di campagna o di mare, di navigazione o di caccia, che le fosse piaciuta.
Senonché, l’indomani, quel passato che volta a volta amavo e detestavo in Albertine (giacché, mentre ancora è presente, ciascuno tende – per interesse, per cortesia, per pietà –  a tessere fra esso e noi  una cortina di menzogne che scambiamo per realtà – succedeva che, retrospettivamente, una delle ore che lo componevano, non escluso quelle che avevo creduto di conoscere, mi presentasse di colpo un aspetto che non si cercava più di velarmi e che era fatto diverso da quello sotto il quale m’era apparsa. Dietro quel certo sguardo c’era, al posto del pensiero buono che allora m’era apparso di vederci, un desiderio ancora inconfessato che si rivelava, alienandomi un’altra parte del cuore di Albertine che avevo creduto assimilato al mio.

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David Wesley Richardson: Albertine

Marcel non era ancora un uomo quando palpitava per Gilberte, ed arrivato alla conclusione che senza un’esplicita dichiarazione dell’amore provato, esso diventasse un sentimento dimezzato. In Albertine tale problema si è capovolto: non solo l’ha “rapita” per gelosia, non permette a nessuno di vederla e mettere a rischio la sua totale padronanza su di lei. Ma è una padronanza illusoria: egli può avere il corpo, ma non può possedere i suoi pensieri. L’amore allora non può essere totale, ma solo tendere verso un infinito irraggiungibile. Albertine, infatti, non è solo una donna, lì presente nella sua esclusività, e tale è perché lei è sì ciò che gli occhi desiderosamente guardano dormire, ma è anche il suo passato e i suoi ricordi che saranno solo suoi e che non può condividere. Se il recupero del passato è un atto difficile, frutto di quelle “intermittenze del cuore” che permettono di cogliere l’essenza di una vita, è impossibile cogliere la totalità di una vita altrui: ciò porta alla consapevolezza che se un essere, foss’anche un essere profondamente amato, di cui si crede che il cuore sia assimilato al proprio, costui gli è profondamente alienato, e questo ci è detto in una delle pagine più profonde del capolavoro proustiano.

Ed eccoci Al tempo ritrovato:

rawImage.jpgImmagine dal film “Il tempo ritrovato” (1999)

L’ARTE COME RIVELAZIONE 

La grandezza dell’arte vera, consiste nel ritrovare, nel riafferrare, nel farci conoscere quella realtà da cui viviamo lontani, da cui ci scostiamo sempre più via via che si acquista maggior spessore e impermeabilità la conoscenza convenzionale che le sostituiamo: quella realtà che noi rischieremmo di morire senza aver conosciuta, e che è semplicemente la nostra vita. La vita vera, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita quindi realmente vissuta, quella che, in un certo senso, dimora in ogni momento in tutti gli uomini altrettanto che nell’artista. Ma essi non la vedono, perché non cercano di chiarirla. E così il loro passato è ingombro d’innumerevoli lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha sviluppate. Riafferrare la nostra vita, e anche la vita altrui: giacché lo stile, per lo scrittore, come il colore per il pittore, è un problema non di tecnica, ma di visione. Esso è la rivelazione, impossibile con mezzi diretti e coscienti, della differenza qualitativa che esiste nel modo come ci appare il mondo: differenza che, se non ci fosse l’arte, resterebbe l’eterno segreto di ognuno. Solo grazie all’arte ci è dato uscire da noi stessi, sapere quel che un altro vede di un universo non identico al nostro e i cui paesaggi ci rimarrebbero altrimenti ignoti come quelli che possono esserci nella Luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi; e, quanto più sono gli artisti originali, tanti più sono i mondi a nostra disposizione, diversi gli uni dagli altri più ancora dei mondi roteanti dell’infinito; e molto secoli dopo che v’è spento il focolaio da cui emanavano – si chiamino Rembrandt o Vermeer – continuano a inviarci il loro raggio particolare.
Questo lavoro dell’artista, volto a cercar di scorgere sotto una certa materia, sotto una certa esperienza, sotto certe parole, qualcos’altro, è esattamente inverso a quello che, in ogni istante, allorché viviamo stornati da noi stessi, l’orgoglio, la passione, l’intelligenza e anche l’abitudine, compiono in noi, ammassando sopra le nostre genuine impressioni, per nascondercele, le nomenclature, gli scopi pratici, cui diamo erroneamente il nome di “vita”. Insomma, quest’arte così complessa è davvero la sola arte viva. Solo essa esprime agli altri e mostra a noi stessi la nostra propria vita, la vita che non si può “osservare”, le cui apparenze, che osserviamo, debbono venir tradotte e spesso lette a rovescio, e decifrate con grande fatica. Il lavoro compiuto dal nostro orgoglio, dalla nostra passione, dal nostro spirito imitativo, dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quel lavoro l’arte lo distruggerà, ci ricondurrà indietro, ci farà tornare agli abissi profondi dove quel che è esistito realmente giace ignoto. E, di certo, era una grande tentazione voler ricreare la vita, ringiovanire le impressioni. Ma esigeva coraggio di ogni genere, anche sentimentale. Infatti, significava, anzitutto, rinunciare alle più care illusioni, non creder più all’oggettività di quanto noi stessi abbiamo elaborato, e, in luogo di cullarsi un’ennesima volta al suono delle parole “era tanto cara”, leggere in trasparenza: “Mi piaceva baciarla”. Certo, quel che avevo provato io in quelle ore di amore, anche ogni altro uomo lo prova. La proviamo, ma quel che si è provato è simile a certe negative, dove non vediamo che nero finché non le accostiamo una lampada, e che vanno guardate anch’esse a rovescio: quel che abbiamo provato non sappiamo che cosa sia finché non l’abbiamo accostato all’intelligenza. Solo allora, quand’essa lo ha illuminato, lo ha intellettualizzato, distinguiamo, e sempre con stento, il volto di quel che si è sentito. 

Cos’è l’arte? Mi torna in mente il Dante del Convivio, quello secondo cui tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere; potremo dire che in Proust il “sapere” equivalga a conoscersi e quindi avere la consapevolezza della propria vita. Tale consapevolezza tuttavia è quasi cancellata dagli attimi del presente, inframezzati è vero anche dalla capacità del ricordo, che tuttavia in quanto passato ci appare come cronologicamente determinato e finito (il loro passato è ingombro d’innumerevoli lastre fotografiche, che rimangono inutili perché l’intelligenza non le ha sviluppate). Compito dell’artista è quello di riesumare tale passato affinché si arrivi alla conoscenza della nostra vera vita, attraverso un processo intellettuale che permetta di svelare e di svelarci la più intima realtà. Allora sarà l’artista che in grado di descrivere e far rivivere tutti gli attimi di un vissuto, ci darà l’integrità della vita e pertanto sarà l’arte l’unica realtà.

15f868e43ccad7a5041d7697322e8f22.jpgProust a Venezia

Alla ricerca del tempo perduto si presenta come un grandioso affresco della società aristocratica ed alto borghese francese tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. La Recherche contiene infinite pagine dedicate alla caratterizzazione dei personaggi, degli ambienti in cui vivono, dei loro gusti e della loro qualità della vita. Tuttavia l’opera non è un romanzo descrittivo e rappresentativo della realtà, anzi è il capolavoro dell’interiorità e tutto questo è determinato dalla tecnica narrativa proustiana. Per Proust le sensazioni e le cose sono immerse nel flusso della transitorietà del tempo. Bisogna dunque dar vita ad una lotta strenua contro il tempo per recuperare la nostra memoria, il patrimonio del nostro io più autentico. Già il filosofo Bergson aveva parlato della coesistenza nella nostra coscienza di un tempo interiore che dissolveva le categorie spazio-temporali. Anche Proust si muove all’interno di un tempo interiore e si affida per il recupero memoriale all’inconscio e ai rapporti analogici. Per l’autore francese esiste una memoria volontaria (o intellettuale), che richiama alla nostra intelligenza eventi del passato ma in termini logico-razionali, cioè senza ridarci l’insieme delle sensazioni di un determinato episodio, che lo hanno reso unico ed irripetibile; ma possediamo anche una memoria involontaria (o spontanea / sensoriale) che sollecitata da un profumo, un sapore, una musica, un colore, un paesaggio ci rituffa nel passato con un processo analogico che ci permette di sentire la “contemporaneità” di quell’evento passato. Egli chiama questa capacità di simultaneità tra presente e passato intermittenze del cuore, ed è attraverso esse che egli scrive la sua Recherche. Tutte le vicende presenti nei sette volumi non sono pertanto strutturati secondo un procedimento cronologico, ma attraverso ciò che le “intermittenze del cuore” dettano alla sua sensibilità. Tuttavia ciò non porta Proust ad una prosa irrazionale; sarà la coscienza dell’io che, una volta registrata “l’intermittenza”, la porterà alla nitezza e logicità della pagina proustiana. Essendo l’io a raccontare sia gli eventi che i personaggi perdono la loro oggettività, perché non sono che il riflesso dell’angolazione temporale con cui l’autore li osserva. Così Swann non lo vedremo nella sua “oggettiva” evoluzione temporale, ma nella soggettiva “temporalizzazione” dell’io narrante che lo vede in modo diverso a seconda del momento in cui lo racconta.

André Gide

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André Gide, intellettuale francese, nasce a Parigi nel 1869 da una famiglia facoltosa. Rimasto orfano di padre, ricevette, per volere materno, una rigida educazione puritana. Morta anche la madre nel 1895 Gide sposò la cugina Madelaine Rondeaux, con la quale aveva un intenso rapporto spirituale (non certo sessuale, essendo Gide omosessuale). Con alcuni intellettuali fondò, sin dal 1908 la Nouvelle Revue Française, che divenne nel periodo fra le due guerre, la più importante rivista letteraria europea. Dopo un viaggio in Congo, s’iscrisse nel 1932 al Partito Comunista per poi uscirne dopo un viaggio in URSS. Nel 1947 fu insignito del premio Nobel per la letteratura. Morì nel 1951.

Tra le sue opere ricordiamo L’immoralista e La porta stretta, romanzi rispettivamente del 1902 e del 1909 che potremo considerare complementari: infatti se nel primo l’esigenza di autorealizzazione di Michel, il suo nietzschismo, lo portano ad uccidere la giovane moglie, nel secondo Alissa percorre la strada opposta della rinuncia e dell’ascesi spirituale che terminerà con il proprio annullamento ottenuto col suicidio. Il suo capolavoro è considerato I sotterranei del Vaticano, famosi anche per la polemica anticattolica. In seguito pubblicherà ancora resoconti sui suoi viaggi come Viaggio in Congo e Ritorno dal Ciad (1928 e 1929), dove emerge una forte critica contro il colonialismo. Importantissimo è anche il romanzo I falsari (l’unico a cui Gide attribuì tale genere), opera fondamentale non soltanto per la Francia ma anche per l’intera cultura europea.

I sotterranei del Vaticano viene pubblicato nel 1914. Lafcadio Wluiti scopre di essere figlio naturale del vecchio conte Agénor de Baraglioul, con il quale avrà un commovente colloquio; e poco dopo, alla morte del conte, ne diverrà uno degli eredi. Frattanto a Pau, in Guascogna, un ex compagno di scuola di Lafcadio, Protos, ha inventato con la sua banda dei “Millepiedi”, un colossale imbroglio: che il papa Leone XIII è tenuto prigioniero nei sotterranei di Castel Sant’Angelo da una congiura di logge massoniche e che è stato sostituito da un sosia. Per estorcere denaro agli ingenui fedeli organizza una crociata. Fra le vittime di questo inganno c’è Amédée Fleurissoire, cognato di Julius Baraglioul, il fratellastro di Lafcadio. Una sera, sulla linea Roma-Napoli, Amedée muore vittima di un “atto gratuito” di Lafcadio che, viaggiando per una coincidenza fortuita nello stesso scompartimento, lo butta dal treno. Protos, testimone del fatto, ricatta Lafcadio, mentre Carola, ex amante di Lafcadio e ora donna di Protos, credendo quest’ultimo colpevole, lo denuncia. Protos la uccide prima che la polizia lo arresti. Lafcadio, ora sconvolto e in preda ai rimorsi, si rivolge al fratellastro Julius che gli consiglia di confessare il delitto e di cercare conforto nella fede. Lafcadio ancora esita. E Gènevieve, figlia di Julius, quella stessa notte si getta tra le braccia di Lafcadio e gli dichiara il suo amore, accrescendo così, la sua drammatica incertezza. 

L’ATTO GRATUITO

Lafcadio benché abbia gli occhi chiusi, non dorme; non riesce a dormire.
“Il vecchietto che sento lì, avanti a me, crede che io dorma” pensava. “Se socchiudessi gli occhi, lo vedrei che mi guarda. Protos diceva che è notevolmente difficile fingere di dormire spiando intorno; egli asseriva di poter discernere il falso sonno da quel leggero tremito delle palpebre… che io reprimo in questo momento. Ma anche Protos si ingannerebbe…”
Frattanto il sole era tramontato; già gli ultimi riflessi della sua gloria s’attenuavano e Fleurissoire li contemplava estatico. Improvvisamente, nel soffitto a volta del vagone, l’elettricità s’accese; illuminazione troppo brutale dopo quel tenero crepuscolo; e, anche per timore che essa disturbasse il sonno del suo vicino, Fleurissoire girò l’interruttore: ciò non fece l’oscurità completa, ma diramò la corrente, dalla lampada centrale, a una lampada azzurra da notte. Ma secondo Fleurissoire anche quella lampadina azzurra dava troppa luce; diede un altro giro alla chiavetta; la lampada azzurra si spense, ma si accesero immediatamente due lampade laterali, più abbaglianti della lampada centrale; un altro giro e ancora la lampada azzurra; si adattò a questa.
“La finirà di giocare con la luce?” pensava spazientito Lafcadio. “Che diavolo fa, adesso? (no, non alzerò le palpebre). E’ in piedi… Lo attirerebbe forse la mia valigia? Bravo! Egli constata che è aperta. Valeva proprio la pena che a Milano facessi applicare una serratura complicata, per essere costretto a farla forzare a Bologna, avendone perso subito la chiave! Un lucchetto almeno si sostituisce… Accidenti, si leva la giacca? E allora guardiamo!”.
Senza badare alla valigia di Lafcadio, Fleurissoire, occupato del suo nuovo colletto, s’era levato la giacca per poterlo abbottonare più comodamente; ma la tela inamidata, dura come cartone, resisteva a tutti i suoi sforzi.
“Non ha l’aria gaia” riprendeva per conto suo Lafcadio. “Deve avere una fistola o qualche altro male nascosto. Debbo aiutarlo? Credo che da solo non ci riuscirà…”
Eppure, sì. Il colletto ricevette finalmente il bottone. Allora Fleurissoire riprese sul sedile la cravatta che aveva posata presso il cappello, la giacca e i polsini, e, avvicinandosi al finestrino, cercò, come Narciso, di distinguere sul vetro il suo volto dal paesaggio.
“Non ci vede abbastanza”.
Lafcadio riaccese la luce. Il treno correva lungo una scarpata che attraverso il finestrino si scorgeva illuminata dalla luce che proiettava ogni scompartimento; questo faceva una fila di quadrati chiari che danzavano lungo la ferrovia e di deformavano ad ogni accidente del terreno. In mezzo ad uno di essi si scorgeva l’ombra buffa di Fleurissoire. Gli altri quadrati erano vuoti!
“Chi lo vedrebbe?” pensava Lafcadio. “Lì, vicinissimo alla mia mano, la doppia maniglia di chiusura che io posso smuovere facilmente; questa porta che, aprendosi improvvisamente, lo lascerebbe capitombolare in avanti; una piccola spinta basterebbe; egli cadrebbe nella notte come un masso; non si udirebbe nemmeno il suo grido… E domani, in strada per le isole!… Chi lo saprebbe?”
La cravatta era messa; un piccolo nodo già fatto; in quel momento Fleurissoire aveva ripreso un polsino e lo adattava al suo braccio destro; e facendo ciò, esaminava, al di sopra del posto in cui era stato seduto poco prima, la fotografia (una delle quattro che ornavano lo scompartimento) di un palazzo in riva al mare.
“Un delitto senza scopo” continuava Lafcadio “che imbarazzo per la polizia! Ma in fondo, chiunque potrebbe vedere da uno scompartimento vicino, nel riflesso sulla scarpata, uno sportello che s’apre e l’ombra cinese che fa una capriola: meno male che le tende del corridoio sono chiuse… Non è tanto degli avvenimenti che sono curioso, quanto di me stesso. Ci sono tanti che si credono capaci di tutto, ma al momento d’agire si tirano indietro… Che enorme distanza tra l’immaginazione e il fatto!… Ed è come nel gioco degli scacchi: pezzo toccato, pezzo giocato! Ma a prevedere tutti i rischi, il gioco perderebbe d’interesse!… Tra l’immaginazione del fatto e… Guarda! La scarpata cessa. Siamo su un ponte, credo; un fiume.”
Sul fondo del vetro, nero adesso, i riflessi apparivan più chiari e Fleurissoire si chinò per rettificare la posizione della sua cravatta.
“Lì, sotto la mia mano, la doppia maniglia (mentr’egli è distratto e guarda lontano) si apre, già! più facilmente di quanto avessi creduto. Se posso contar sino a dodici, senza affrettarmi, prima di vedere qualche lume nel paesaggio, il tapiro è salvo. Comincio: uno, due, tre, quattro (lentamente! lentamente!) cinque, sei, sette, otto, nove… dieci, una luce…”
Fleurissoire non gettò nemmeno un grido: sotto la spinta di Lafcadio e dinanzi all’abisso bruscamente aperto ai suoi piedi, egli fece un gran gesto per trattenersi, la sua mano sinistra afferrò lo stipite liscio dello sportello, mentre egli, per metà voltato, gettava la destra indietro, lontana al di sopra di Lafcadio, mandando a rotolare sotto il sedile, all’altra estremità del vagone, il secondo polsino che stava mettendo a posto.
Lafcadio sentì un artiglio orribile abbattersi sulla sua nuca; abbassò la testa e diede una seconda spinta, più impaziente della prima; e Fleurissoire non trovò più nulla cui aggrapparsi a eccezione del cappello di castoro  che afferrò disperatamente e portò con sé nella caduta.
“E ora, sangue freddo” disse tra sé Lafcadio. “Non sbattiamo lo sportello; nel vagone vicino potrebbero sentire.”
Tirò a sé lo sportello, controvento, con un certo sforzo, poi lo richiuse pian piano.
“Mi ha lasciato il suo orribile cappello di paglia; ancora un po’ e con una pedata lo mandavo a raggiungere il suo padrone; ma egli mi ha preso il mio, e deve bastargli. Ottima precauzione quella che ho avuto di togliere le iniziali!… Ma nella fodera rimane la marca del cappellaio, al quale certo non si ordinano tutti i giorni i cappelli di castoro… Tanto peggio, la mossa è fatta… E non potranno nemmeno credere a un incidente, perché ho richiuso lo sportello… Far fermare il treno? Suvvia, Cadio, niente ritocchi: tutto è come tu lo hai voluto. Per provarmi che sono perfettamente padrone di me cominciamo col guardare che cosa rappresenta questa fotografia, che il vecchio contemplava poco fa… Miramare!… Non ho nessuna voglia di andarlo a vedere. Qui manca l’aria”. Aprì il finestrino.

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Si potrebbe dire che qui Gide imiti il Dostoevskij di Delitto e castigo, eppure l’atto gratuito di Lafcadio è completamente diverso da quello di Raskol’nikov: se alla base dell’omicidio del personaggio russo vi è il nichilismo, qui l’atto gratuito è nicciano figlio della teorizzata morte di Dio del filosofo tedesco. Nasce, se così si può dire, da un monologo interiore che il protagonista svolge durante il viaggio in treno (non è un caso la scelta di un treno: durante il viaggio non c’è né spazio, né tempo definito, ergo non c’è altrettanto alcuna morale definita). La scommessa è quella di mettere sotto scacco non solo le capacità della polizia, ma, di fronte ad un’azione delittuosa immotivata, la morale di una società. Ma Lafcadio mette in gioco un altro elemento fondamentale: il suo delitto è frutto di una scelta irrazionale, pertanto laddove non c’è morale, non vi è neanche ragione. Quindi se è un atto irrazionale a Nietzsche bisogna aggiungere Freud, il quale afferma che gli atti gratuiti sono figli del nostro inconscio sede degli istinti più elementari fra i quali predominano quello sessuale e aggressivo.

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L’opera dello scrittore francese, ed anche in questa opera, riprende in parte il processo di decostruzione della trama tipica del romanzo contemporaneo, ma come sostiene Stefano Agosti, in Gide c’è una differenza sostanziale rispetto ad altri scrittori che hanno utilizzato la stessa tecnica narrativa: “Le plurispettazioni dell’oggetto corrispondono qui non tanto a volontà di disarticolazione del reale per successiva restituzione plenaria dello stesso al di là della progressione temporale lineare e univoca (come accade in celebri testi del Novecento, da Virginia Woolf a Faulkner), quanto invece a necessità di rilanciare l’intreccio da una situazione collaterale, che diventa, a sua volta, centrale e così via. Praticamente le plurispettazioni corrispondono al progetto di esaurire intenzionalmente il maggior numero di possibilità relativamente agli elementi presenti in una data situazione. 

A ciò si aggiunga il fatto che Gide non chiude mai le sue storia, lasciando sempre un finale aperto: anche di Lafcadio non sapremo cosa farà dopo l’omicidio: si denuncerà o continuerà come nulla fosse successo?

Opere in lingua spagnola e portoghese

Miguel de Unamuno

GO7P29F1_20546.jpgMiguel de Unamuno è uno scrittore e filosofo spagnolo, più precisamente nativo della regione Basca. Nasce infatti a Bilbao nel 1880. Fu un uomo che da giovane viaggiò sia in Francia che in Italia e al suo ritorno ricoprì la cattedra di lingua e cultura greca nell’università di Salamanca. Divenne rettore nel 1901, ruolo che ricoprì fino al 1914 quando fu destituito per la sua attività contro la monarchia. Dopo dieci anni venne esiliato per la sua opposizione al regime di Primo de Rivera. Fuggì e su una nave francese raggiunse il suolo transalpino dove rimase sino al 1930. Allo scoppio delle guerra civile appoggiò il franchismo, pur criticando l’atteggiamento terroristico  dei militari. Per averli attaccati viene un ennesima volta destituito e messo agli arresti domiciliari. Muore d’infarto nel 1936. 

Da un punto di vista filosofico potremo così sintetizzare il suo pensiero, che anticipa i temi dell’esistenzialismo:

  • l’ansia di immortalità  che anima ogni individuo e ne determina la sua religiosità, la quale non coincide necessariamente con il cattolicesimo;
  • la dottrina dell’uomo concreto (“in carne ed ossa”) con la sua singolarità e e la sua solitudine, condizionato sì dalla vita circostante, ma in pari misura dal sentimento della ragione;
  • l’attenzione concessa ao motivi dell’espressione e della lingua, con la conseguenza che la filosofia vive più nei poeti che nella speculazione astratta;
  • il senso dell’angoscia che tinge di amarezza e di conflittualità l’esistenza umana. 

Da un punto di vista letterario egli viene fortemente influenzato da Pirandello e occuperà ogni genere come nell’autobiografico Pace nella guerra (1897) o nel romanzo Nebbia (1914). Importanti sono anche le Tre novelle esemplari (1920). Scrisse anche per il teatro, senza tuttavia raggiungere grandissimi esiti. Migliori gli esiti poetici dove si avvicinò al simbolismo, aggiungendo tuttavia un forte scavo interiore, come nelle raccolte  Romancero dell’esilio (1928) il Canzoniere, diario poetico, pubblicato postumo nel 1955.

Nebbia parla del personaggio di Augusto Pérez giovane ricco ed introverso. Innamoratosi di Eugenia vista mentre attraversa la strada, decide di corteggiarla, aiutato dai membri della famiglia della ragazza, che cercano così di risollevare i problemi finanziari della nipote. Eugenia rifiuta la corte del ragazzo, visto che è già impegnata in una relazione con Mauricio. Augusto provvede al pagamento dell’ipoteca di Eugenia senza che ella lo sappia, ma invece che ottenere l’effetto sperato, la ragazza si sente offesa dal suo gesto. Successivamente, Augusto si invaghisce di un’altra ragazza, Rosario, e quindi inizia a chiedersi se fosse mai stato innamorato di Eugenia. Dopo aver parlato con alcuni amici Augusto decide di fare comunque la proposta di matrimonio ad Eugenia che accetta. Pochi giorni prima del matrimonio, però viene a sapere che lei è andata a vivere con Mauricio. Augusto, devastato dalla notizia, decide di uccidersi, ma prima di farlo, decide di contattare Unamuno (l’autore del romanzo) che aveva scritto sul suicidio. Il fatto è che Augusto è un personaggio creato da Unamuno, e per questo non può uccidersi in quanto non è reale. Augusto pur sapendolo afferma di esistere, si rivolge duramente ad Unamuno, dicendogli che non è l’autore supremo e quindi  ritornerà a casa, dove morirà ucciso dall’autore. Il libro termina con un monologo del cane di Augusto, Orfeo, che si commuove di fronte alla morte del padrone ed alla situazione degli esseri umani in generale.

LA PARTITA A SCACCHI

«Oggi sei in ritardo» disse Victor ad Augusto «tu sei sempre così puntuale!»
«Cosa vuoi, impegni…»
«Impegni tu? Credi forse che abbiano impegni soltanto gli agenti di borsa? La vita è molto più complessa di quanto tu possa immaginare».
«Più semplice di quanto tu possa credere…»
«Può essere».
«Bene, gioca!»
Augusto fece avanzare di due posti un pezzo, e invece di canterellare, come faceva altre volte un brano d’opera, disse a se stesso: “Eugenia, Eugenia, Eugenia mia, scopo della mia vita, splendore di stelle gemelle fra la nebbia: combatteremo! Sì, vi è una logica nel gioco degli scacchi e, tuttavia, come tutto è nebuloso, fornito in fin dei conti! Sarà anche la logica qualcosa di fortuito, qualcosa d’accidentale? E quest’apparzione della mia Eugenia, non sarà qualcosa di logico? Non obbedirà ad un divino gioco di scacchi?”
«Ma, perbacco» lo interruppe Victor «non sai che non vale ritirare la mossa? Pezzo toccato, pezzo giocato!»
«Lo so, sì».
«E se muovi così ti mangio gratis l’alfiere».
«E’ vero, è vero! Mi ero distratto».
«E non distrarti; chi gioca non deve fare altro. E poi lo sai: pezzo toccato, pezzo giocato».
«Sì, l’irreparabile!»
«Così è; in questo consiste l’insegnamento del gioco»
“Perché uno non dovrebbe distrarsi durante il gioco?» Diceva fra sé Augusto. “E non è un gioco la vita? E perché non vale ritirare la mossa?  Questa è logica! Forse a quest’ora la lettera è già nelle mani di Eugenia. Alea iacta est! Quello che è fatto, è fatto. E domani? Il domani è Dio. E lo ieri di chi è? di chi è lo ieri? Oh! Ieri tesoro dei forti. Santo ieri, sostanza della nebbia quotidiana!”
«Scacco!» lo interruppe nuovamente Victor.
«E’ vero, è vero… vediamo… ma come ho fatto a lascia giungere le cose a questo punto?»
«Distraendoti, come sempre. Se non fossi tanto distratto, saresti uno dei nostri migliori giocatori».
«Ma dimmi, Victor, la vita è un gioco o una distrazione? »
«Il gioco non è altro che distrazione».
«E allora cosa importa distrarsi in un modo o nell’altro?»
«Perbacco, se si gioca, bisogna giocar bene».
«E perché non giocar male? Perché non possiamo muovere questi pezzi in modo diverso da come li muoviamo?»
«Questa è la tesi, caro Augusto; come tu, quale tu, illustre filosofo, mi hai insegnato».
«Bene; devo darti una grande notizia».
«Ben venga!»
«Però preparati, carissimo».
«Io non sono di quelli che si meravigliano a priori o in anticipo».
«Allora: sai cosa mi capita?»
«Che sei sempre distratto».
«Mi capita che mi sono innamorato».
«Bah, questo lo sapevo!»
«Come facevi a saperlo?»
«Tu sei innamorato ab initio; da quando sei nato, possiedi la capacità d’innamorarti».
«Sì, l’amore nasce quando noi nasciamo».
«Non ho detto amore, ma capacità d’innamorarsi, ed io, senza che tu me lo dicessi, sapevi che eri innamorato o piuttosto che ti sei preso una cotta».
«Ma di chi? Dimmi: di chi?»
«Questo non lo sappiamo né tu né io».
«Sta zitto, forse hai ragione».
«Non te l’ho detto? E piuttosto, dimmi: è bionda o bruna?»
«Veramente non lo so. tuttavia immagino che non sia né l’uno né l’altro. Ecco, così, castana.
«E’alta o bassa?»
«Non ricordo bene, però dev’essere normale. Ma che occhi, caro mio, che occhi ha la mia Eugenia!»
«Eugenia?»
«Sì, Eugenia Domenico dell’Arco, via dell’Alameda 58».
«La professoressa di piano?»
«Lei. Ma…»
«La conosco. E adesso… scacco un’altra volta!»
«Ma…»
«Scacco ho detto!»
«E va bene…»
E Augusto coprì il re col cavallo. E finì per perdere la partita. Quando si salutarono, Victor, appoggiando la destra sul collo dell’amico, come un giogo, gli sussurrò all’orecchio: «E così la piccola Eugenia, la pianista, vero? Bene, Augustino, bene, sarai padrone dell’universo».
«Questi diminutivi» pensò Augusto «questi terribili diminutivi…». E uscì per strada.

JOSÉ GUTIÉRREZ SOLANA.jpgJosé Gutiérrez Solana: Unanumo in finestra con vista a Salamana 

Niebla (Nebbia)  è il romanzo più illustre di Unamuno. Attraverso questo termine l’autore può metaforizzare lo stato indeterminato, per meglio dire indefinito dell’individuo e del suo esistere. Per superare ciò Unanumo ricorre spesso al dialogo, tecnica narrativa assai usata dallo scrittore spagnolo (non dimentichiamo inoltre che il suo lavoro intellettuale è soprattutto di tipo filosofico per cui il dialogo, sin dai tempi di Platone è la forma prediletta).

unamuno-knT-U902695859440kD-1248x770@Diario Sur.jpgUnanumo e il paradosso scacchistico

Nel brano ad essere al centro è il gioco degli scacchi, o per meglio dire in spagnolo dell’ajedrez, lotta tra bianchi e neri che, metaforizzati, sono immagine sia dei diversi personaggi del romanzo, sia delle opposte tensioni all’interno dell’animo del protagonista Augusto Pérez. Il protagonista gioca con il suo amico Vìctor Goti, personaggio quest’ultimo che rappresenta colui con il quale Augusto riflette e ragiona. Nella partita qui presentata la finalità del gioco diviene la finalità della vita di Augusto, ovvero la donna amata, Eugenia; ma gli scacchi sottintendono la logica che potrebbe diventare azzardo;  ma allora l’azzardo riguarderà la vita di Augusto, ma egli gioca distrattamente, senza logica per cui  la logica sarà perfetta e chiara soltanto se è divina e quindi impossibile da comprendere. Si può andare solo alla ricerca di una possibile comprensione della razionalità di Dio attraverso la scacchiera materiale su cui l’uomo gioca. Il gioco e la vita sono metafora l’uno dell’altra: “pezzo toccato, pezzo giocato”, non si può ripetere la mossa, la vita non può tornare indietro neanche di un minuto, la vita diventa un percorso in cui, se si sbaglia, se si gioca distrattamente, veniamo battuti da un definitivo scacco matto.

Fernando Pessoa

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Fernando Pessoa nasce a Lisbona nel 1988. Orfano di padre all’età di sette anni, dopo le seconde nozze della madre con il console portoghese a Durban, si trasferisce con la famiglia in Sudafrica, studiando nell’Università di Città del Capo. Ciò gli permise di conoscere la lingua inglese che gli permise di poetare in quella lingua sin dall’adolescenza. Nel 1905 tornò a Lisbona, diventando animatore di circoli letterari attraverso riviste da lui fondate. Importante, attraverso la sua figura, l’inserimento della cultura portoghese al modernismo europeo. A livello umano la personalità di Pessoa è estremamente complessa: ad una vita sorprendentemente piatta, risponde una difficoltà dell’espressione dell’io che si riconosce in vari personaggi (eteronimia) ad alcuni dei quali Pessoa diede una data di nascita, uno stile e l’attribuzione di vere e proprie opere – non dimenticando di aver già determinato per alcuni di essi la data di morte. I più importanti di essi sono: Alberto Caerio (poeta bucolico), Ricardo Reis (poeta ellenistico e oraziano), Alvaro de Campos, (modernista e futurista).

A un altro eteronomo Bernardo Soares Pessoa assegnò la composizione de Il libro dell’inquietudine “il più bel diario del nostro secolo”. E’ un libro non realizzato, fatto di frammenti, che la critica ha raccolto e ha cercato di sistemare: molto presumibilmente alcuni sono appunti che dovevano far parte di un vero e proprio romanzo il cui titolo è certamente quello con cui questi frammenti vengono editi, altri appartengono ad altri lavori (tra i quali riconosciamo quelli riferiti al poeta turco Omar Khayyam).

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FRAMMENTI

Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno. Nel balenio del lampo quella che avevo creduto essere una città era una radura deserta; e la luce sinistra che mi ha mostrato me stesso non ha rivelato nessun cielo sopra di essa. Sono stato derubato dal poter esistere prima che esistesse il mondo. Se sono costretto a reincarnarmi, mi sono reincarnato senza di me, senza essermi reincarnato. Io sono la periferia di una città inesistente, la chipsa prolissa di un libro non scritto

… Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona che fosse capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo: contemplare le cose come se io fossi il viaggiatore adulto arrivato oggi alla superficie della vita! Non aver imparato molto fino dalla nascita e attribuire significati usati a tutte queste cose; poter separare l’immagine che è stata loro imposta (…) Capire tutto per la prima volta, non in modo apocalittico, come se fosse una rivelazione del Mistero, ma direttamente, come una fioritura della Realtà.

filme_do_desassossego.jpgFilm portoghese tratto dall’opera di Pessoa

Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta.

Ah, chi mi salverà dall’esistere? Non è la morte che voglio, né la vita: è quel qualcosa che brilla nel fondo dell’inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. E’ tutto il peso e tutta la pena di questo universale reale e impossibile, di questo cielo vessillo di un esercito sconosciuto, di questi toni che vanno impallidendo nell’aria fittizia di cui l’immaginaria falce crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e insensibilità.

Pensando mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi, mi sono moltiplicato (…) Vivo di impressioni che mi appartengono, dissipatore di rinunce, altro nel mio essere io. 

Almada-Negreiros-Fernando-Pessoa.jpgAlmada Negreiro: Fernando Pessoa

Anche in questo libro non compiuto “emergono le difficoltà tipiche delle narrazioni novecentesche. Anch’esso è testimonianza di quell’isolamento dell’individuo che rende la scrittura una forma di preghiera che salva la vita (come in Kafka). Anch’esso riesce a parlare solo per frammenti, come molte delle scritture primonovecentesche (Eliot, Pound). Anch’esso dimostra di non riuscire a contenere e a riprodurre la mobile complessità del mondo (come in Joyce). Il frammento è la forma di pensiero e di scrittura più autentica di Pessoa: solo una parola scheggiata, straziata può esprimere il dolore di un mondo senza più fondamenti di verità e di saldezza, nel quale ogni individuo vive una sconfinata solitudine, un’inguaribile frammentazione della coscienza che può tradursi in dispersione dell’io nella realtà, sia in concentrazione assoluta sulla propria derelitta esistenza”.  (Bologna, Rocchi)

LA FINE DELLA REPUBBLICA

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Tra la morte di Silla, 79 a.C. e il trionfo di Augusto su Antonio 29 a.C., che mette fine alle guerre civili, passano 50 anni, ricchi di avvenimenti, capovolgimenti politici, guerre esterne ed interne che fanno di questo periodo un periodo fervido sia sul piano politico che su quello culturale. Questo periodo viene anche definito come “età di Cesare”, col nome di colui che è stato, nel bene e nel male, non solo uno dei più grandi uomini politici, ma anche uno dei più grandi letterati del tempo. Infatti si ha qui la presenza di un forte binomio tra la grandezza degli avvenimenti e degli uomini (si pensi allo stesso Cesare, ma anche a Pompeo, Catilina, Spartaco, Marco Antonio, Cleopatra e così via), ma anche di letterati che hanno dato a Roma uno dei momenti più alti della sua cultura (Lucrezio, Catullo, Cicerone, Sallustio). Bisognerà aspettare il periodo successivo, quello augusteo, per avere una così grandi messe di opere e di autori, ma, se è possibile dirlo, sarà costituito da un solo uomo.

Gerard_van_Kuijl_-_Quintus_Sertorius_and_the_horse_tail_1638.jpgGerard van Kuijl – Quinto Sertorio (1630)

L’ascesa di Pompeo

Alla morte di Silla, il Senato, che le riforme dello stesso dictator avevano rafforzato, si dimostra assolutamente incapace di gestire i problemi che gli si presentavano di fronte. Tali problemi sono:

  • Ribellione di Sertorio (seguace di Mario) in Spagna;
  • Riapertura delle ostilità in Oriente;
  • Guerra servile

Per risolvere i seguenti fatti il Senato si rivolge, nuovamente, a uomini forti: la guerra in Spagna viene affidata e vinta da un rappresentante aristocratico, Pompeo, quella contro il gladiatore Spartaco, impiegando ben otto legioni, fu affidata a Crasso, uomo che con spregiudicate speculazioni era fra i più ricchi di Roma. Forti dei successi essi chiesero il consolato, in deroga anche alla legge sillana che richiedeva come requisito l’aver percorso il cursus honorum. Per ottenerlo essi avevano bisogno dei popolari e promisero e mantennero, una volta eletti, leggi che ripristinavano i loro diritti come la presenza degli equites nei tribunali, il diritto di veto per le leggi considerate lesive per la plebe e via discorrendo. Ottenuto ciò Pompeo venne nominato per risolvere la situazione in Oriente. Dapprima gli furono attribuiti poteri straordinari contro i pirati che spadroneggiavano sulle coste meridionali dell’Asia minore e quindi debellò definitivamente la situazione sottomettendo in modo definitivo a Roma il mondo greco-ellenistico e organizzando la Palestina come stato autonomo sotto il suo protettorato. Come contropartita Pompeo chiese al Senato di ratificare le decisioni sulla sistemazione da lui attuate in Oriente e un lotto di terreno per i suoi soldati. Il Senato respinse per paura che egli assumesse su di sé troppo potere

 

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Alain Decaux: La morte dei gladiatori

Crisi istituzionale e politica

Durante l’assenza di Pompeo, impegnato nelle guerre orientali, forte si fa il conflitto tra gli optimates ed i populares: a rappresentare i primi ci sono Marco Tullio Cicerone, (sebbene nell’occasione del processo contro il pretore Verre lo denunciò per corruzione e quindi accusò un senatore) che pensa che sia loro compito difendere le istituzioni messe in pericolo dal partito avverso e Marco Porcio Catone (nipote di Catone il Censore) aristocratico intransigente. A favore dei populares si schierano Crasso (che aveva collaborato con Pompeo), Cesare e Catilina. A caratterizzare quest’ultima impresa sono i soldi di Crasso (incapace politicamente, ma ricco), la discendenza di Cesare da una delle famiglie fondatrici l’Urbe e quindi l’alone che ne derivava (gens Iulia), la nobiltà diseredata e con voglia di riscatto di Catilina (aveva pagato in modo “forse” troppo severo le scelte di Silla). E fu proprio la sua congiura a caratterizzare questo periodo.

Della giovinezza di questo nobile poco si sa, cominciamo infatti dai due anni in cui, come governatore in Africa, si procurò l’accusa di concussione (de repetundis). Ciò gli impedì di presentare la sua candidatura al consolato nel 65. Ci riprovò l’anno successivo, ma, nonostante le promesse demagogiche che egli fece alla plebe, fu sconfitto per pochi voti da Cicerone. Non domo si ripresentò per la terza volta, ma la controffensiva aristocratica riuscì a bloccarlo nuovamente. Disperando di poter raggiungere il potere legalmente, provò con un’insurrezione armata. Il suo tentativo, venne smascherato in una celebre orazione di Cicerone chiamata appunto Catilinaria. Egli propose infatti la condanna a morte, senza fare appello al popolo, vista la tragicità degli avvenimenti.

Messo alle strette, Catilina fuggì. Chiamò intorno a sé un folto numero non solo di nobili diseredati, ma anche di uomini liberi poveri o schiavizzati in quanto oppressi dai debiti. Ma fu sconfitto, pur combattendo valorosamente, a Pistoia nel 62 a. C.

L’astro di Cesare

L’ascesa di Cesare avvenne dopo la sua esperienza di propretore in Spagna. Al rientro mirò al consolato (60 a.C.), ma per raggiungerlo aveva bisogno di soldi, che ottenne grazie a Crasso, e di un buon numero di voti che gli garantì, inaspettatamente, Pompeo. Quest’ultimo, infatti, dopo il diniego del Senato rispetto alle sue richieste, s’appoggiò per la loro approvazione proprio a Cesare. Si giunse così al primo consolato, un vero accordo privato di cittadini, che prevedeva:

  • L’elezione di Cesare al consolato;
  • L’approvazione, proprio grazie a Cesare, dei provvedimenti di Pompeo;
  • Un contributo finanziario per dare le terre ai veterani di Pompeo.

Eletto Cesare, egli onerò gl’impegni presi e ne formulò altri a favore della plebe per un più stretto controllo sul fisco proveniente dalle provincie. Quindi fece approvare il suo comando proconsolare sull’intera Gallia, ma prima d’iniziare le operazioni sistemò la situazione a Roma. Allontanò dapprima Catone con il pretesto del possesso dell’isola di Cipro, quindi fece esiliare, con l’aiuto di Clodio, uomo violento e fazioso, il suo nemico più pericoloso, Cicerone (accusato di aver condannato a morte un cittadino senza il consenso del popolo). Solo allora Cesare partì per la Gallia che conquistò dal 58 al 52 a.C. Tali operazioni ebbero tuttavia una piccola pausa, infatti Cesare nel 56 fu costretto a tornare in Italia. La situazione nella penisola si era fatta preoccupante: i popolari, spalleggiati da Clodio, ingaggiavano dei veri e propri scontri armati con gli aristocratici che, per contrapporsi, avevano dato carta bianca ad un certo Milone. Nel contempo Pompeo, preoccupato dall’eccessivo potere cui i populares aspiravano, fece in modo, riuscendoci, di far rientrare a Roma Cicerone. Di fronte a tale situazione Cesare, nel 56, rientrò a Lucca e strinse un nuovo accordo che prevedeva l’elezione al consolato per il 55 di Pompeo e Crasso, che avrebbero in seguito ottenuto il proconsolato uno sulla Spagna, l’altro sull’Illiria, mentre lui, per altri cinque anni, avrebbe portato avanti il suo compito in Gallia. Nonostante l’accordo preso, Pompeo non volle lasciare la capitale dell’Impero, ben consapevole che la partita del potere si sarebbe lì svolta. L’occasione si presentò quando, venuta meno la figura di Crasso ucciso in Oriente (53 a.C.), Milone assassinò Clodio. Il clima di violenza era talmente incandescente che il senato nominò Pompeo consul sine collega con un proprio esercito a controllare la città. Quando Cesare, portato a termine il suo compito in Gallia, propose la sua candidatura per l’anno successivo, il Senato gli pose come condizione quella di smobilitare l’esercito. Fatto lecito per lui, se anche Pompeo lo avesse contestualmente fatto. Il rifiuto di quest’ultimo diede inizio alla seconda guerra civile.

Seconda guerra civile

Allora Cesare ruppe gli indugi e nel 49 a.C. varcò il limes dello Stato con il proprio esercito, varcando il Rubicone e pronunciando la famosa frase alea iacta est (il dado è tratto). Il percorso di Cesare dal fiume a Roma avvenne senza ostacoli, anzi, col sostegno di molti simpatizzanti tanto da cogliere Pompeo impreparato e costringerlo alla fuga in Macedonia. Come un fulmine Cesare non diede il tempo al suo avversario di preparare la controffensiva: recatosi in Spagna per sconfiggere le molti legioni pompeiane,  andò poi a Farsalo dove riuscì a sconfiggerlo definitivamente. Pompeo cercò rifugio in Egitto, ma fu lo stesso re Tolomeo XIII ad ucciderlo e a offrire la testa a Cesare. Quest’ultimo, ritenendo il gesto del sovrano egiziano vile, lo eliminò a favore della sorella Cleopatra, cui s’invaghì.

ae5f4f50edc04c60997269e865d19893.jpgAnna Pennati: Cesare e Cleopatra

L’impero di Cesare

Dopo la sconfitta di Pompeo, Cesare venne nominato “padre della patria” dal Senato, inoltre si fece nominare dictator a vita e ricevette l’inviolabilità tribunizia. Sebbene egli lasciasse in vita tutte le istituzioni repubblicane, tutti i poteri militari, religiosi, civili erano nelle sue mani, ma egli li esercitò con un forte senso di responsabilità. Pur offrendo per un intero anno pace e tranquillità, pur favorendo attraverso leggi una maggior giustizia sociale, pur promuovendo le attività che permettevano un diffuso benessere, l’aristocrazia senatoria, sconfitta da lui ma da lui blandita, temeva che con lui la repubblica sarebbe stata sconfitta a favore di un regime assolutistico. In questo clima un gruppo di congiurati, tra cui il suo figlio adottivo Giunio Marco Bruto, il 15 marzo del 44 lo uccisero con ventitré colpi di pugnale.

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Marco Antonio e Cleopatra

L’eredità di Antonio

Se i congiurati avevano sperato in una sollevazione popolare in loro favore per la riconquistata libertà, rimasero fortemente delusi. Il favore dei cittadini romani verso Cesare venne rafforzato con la sua morte ed anche l’esercito non conobbe alcuna defezione. Di fronte a tale situazione il Senato rimase inerme, incapace di affrontare la situazione. A prendere l’inizia fu, appunto, un luogotenente di Cesare, Antonio, che cercò di accreditarsi come suo successore. Le sue richieste furono due: lasciar liberi i congiurati, per ottenere l’appoggio dei Senatori e la conferma dello stato voluto da Cesare, per non scontentare i populares. Ogni altra decisione sarebbe stata presa dopo l’apertura del testamento di Cesare. Quando il popolo seppe che lui aveva lasciato ad ogni proletario e legionario trecento sesterzi, la folla assaltò le case dei congiurati che furono costretti a  fuggire.

Ottaviano

Ma il colpo che sia Antonio che il Senato dovettero subire fu la nomina del pronipote Ottaviano come erede testamentario diretto di Cesare. Quando gli giunse la notizia egli si trovava in Epiro e decise, senza porre alcun freno, di raggiungere Roma. Al diniego di Antonio di consegnarli il denaro con cui far fronte al regalo che Cesare aveva promesso sia ai cittadini che ai soldati, vendette le sue proprietà e lo ottemperò. La sua stella tra il popolo divenne immensa. Ma, contemporaneamente, cercò di guadagnarsi la simpatia di Cicerone, che degli aristocratici romani restava il più illustre campione. Molto intelligentemente aveva fatto sì, con questa mossa, di sostituire Antonio negli occhi della plebe, rendendolo inoltre isolato perché inviso agli aristocratici. Antonio, nel frattempo,  aveva ottenuto l’incarico di governare una provincia lontana, ma, per non star lontano dalle operazioni, fece approvare una legge de permutatione provinciarum e con un plebiscito fece votare per il suo governatorato sulla Gallia contro Delio Bruto che lo aveva ottenuto con regolarità. Contro i modi attraverso cui Antonio aveva imposto le sue leggi, intervenne Cicerone che lo accusò di essere un nemico della patria nelle celeberrime Filippiche per la veemenza con cui vennero pronunciate. Al rifiuto di Decio Bruto, Antonio si mosse contro di lui con l’esercito, ma in aiuto al regolare governatore si unirono le truppe consolari e quelle raccolte da Ottaviano. Antonio, raggiunto a Modena, venne sconfitto e si rifugiò nella Gallia Narborense dove si unì a Lepido, suo fedele amico. Ambedue vennero dichiarati nemici della patria. La paura per una politica individualista che il Senato sperava di aver annientato in Antonio, si riaffacciò con la persona di Ottaviano: infatti, quando il giovane si presentò per combattere contro Antonio insieme all’esercito consolare, gli venne ordinato di smobilitare l’esercito. Ma egli, capendo che gli aristocratici desideravano usarlo ai loro fini, si volse contro di loro, alleandosi con il suo vecchio nemico e si fece eleggere dai comizi da lui convocati nel 43 a.C., tanto da riuscire a diventare console a soli vent’anni. Quindi, riunitosi a Bologna con Antonio e Lepido diede vita al secondo triumvirato. Quest’ultimo aveva la caratteristica di essere un atto ufficiale della durata di cinque anni con cui i contraenti si distribuivano, con poteri illimitati, territori ed eserciti ed con il compito di riscrivere la costituzione. Il primo atto politico che i triumviri presero fu quello di eliminare i loro nemici: Antonio chiese la testa di Cicerone che l’aveva così infamato nelle Filippiche e l’ottenne. Quindi rivolsero insieme le armi contro i cesaricidi, che protetti dagli aristocratici erano riusciti, fino ad ora, a farla franca. Sconfitti, per non seguire il carro dei vincitori preferirono uccidersi. Bisognava ora ripagare le truppe che avevano aiutato loro nell’impresa: Antonio doveva requisire terre in Oriente, mentre ad Ottaviano toccava la penisola italiana per ripagare i soldati. Ed è in tale frangente che venne la prima rottura. Ad opporsi alla confisca dei terreni in Italia si schierarono la moglie Fulvia ed il fratello Lucio di Marco Antonio. A spingere la situazione fino alla definitiva rottura pare sia stata Fulvia che, gelosa per il fascino che intanto Cleopatra suscitava nel marito, voleva ad ogni costo la guerra. Sconfitti entrambi da Ottaviano, il triumviro non si accanì contro di loro, mandando il fratello di Antonio in Spagna e la moglie dello stesso in Grecia, dove morì poco dopo. A pagare le conseguenze fu invece la città dove si svolse lo scontro, Perugia, che per aver dato ospitalità ai nemici di Ottaviano venne rasa al suolo.

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Antonio, Lepido e Ottaviano: II trimvirato

Scontro tra Ottaviano ed Antonio

Vista la situazione creatasi si decise che sarebbe stato meglio rafforzare l’accordo con un nuovo patto stipulato a Brindisi, in cui entrò anche Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno che aveva cercato d’ostacolare i nuovi protagonisti della storia romana con atti pirateschi nel Mediterraneo. A patto di permettere una navigazione tranquilla alle navi mercantili fu affidato a lui il governo delle isole maggiori mediterranee (Sicilia, Sardegna, Corsica). Quindi a Lepido il governo forse meno importante, quello d’Africa, mentre lui e Antonio si spartivano l’Occidente e l’Oriente. A sancire il patto Antonio avrebbe sposato Ottavia, sorella d’Ottaviano, mentre quest’ultimo avrebbe preso in moglie Scribonia, nipote di Gneo Pompeo.

Antonio in Egitto, recatosi lì per la riscossione dei tributi delle popolazioni orientali, subì il fascino della regina Cleopatra e ne assecondò la politica muovendosi in modo autonomo da Roma. Ottaviano, in Occidente rinfocolava l’astio nei suoi confronti, alimentando la diceria che egli cercava di costruirsi un regno autonomo nell’impero orientale a scapito della madrepatria e della sua legittima moglie. Inoltre il giovane generale aveva rafforzato la sua autorità sconfiggendo Gneo Pompeo, che non aveva affatto rispettato i patti ed inoltre, di fronte ad un tentativo di Lepido di ribellarsi, lo aveva sconfitto e senza umiliarlo lo nominò pontefice massimo fino alla morte. Ottaviano era de facto proprietario dell’Occidente.

Guerra e fine d’Antonio

Castro_Battle_of_Actium.jpgLa battaglia di Azio

Il disegno di Antonio di staccarsi da Roma e costituire una monarchia ellenistica di tipo orientale cominciò a cessare quando, venuto in possesso di un suo testamento, Ottaviano lesse in Senato le sue decisioni: come se le terre orientali fossero proprie egli le lasciava in eredità ai figli avuti con la regina d’Egitto. Tutto il Senato si indignò e, col consenso del popolo, dichiarò la guerra. Fu incaricato lo stesso Ottaviano di esserne il generale, il quale, in modo estremamente intelligente, per non dar vita ad una nuova guerra fratricida, la dichiarò direttamente alla regina d’Egitto. A comandare la flotta Ottaviano scelse Agrippa, già vincitore contro Sesto Pompeo. Ottaviano fece schierare le navi di fronte al promontorio di Azio, nel mar Ionio. Quanto Antonio cercò inutilmente di forzarle per raggiungere l’Italia, Cleopatra fuggì inseguita da Antonio. Ottaviano intanto mise sotto assedio Alessandria d’Egitto. Nella confusione che regnava in città, girò la voce che Cleopatra fosse morta ed Antonio, resosi conto che senza di lei il suo progetto non aveva alcuna possibilità di riuscita, si uccise. Cleopatra, che morta non era, ma resosi conto d’esser sola, per non dover seguire il carro del vincitore come sconfitta nella marcia trionfale, s’uccise con un aspide. Ottaviano era rimasto solo, il padrone di Roma era lui, la repubblica era finita.

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Cultura

E’ questo un periodo denso di avvenimenti, tutti estremamente importanti per Roma e la sua storia, sia politica che culturale. Non è un caso infatti che alla ricchezza di episodi corrisponda un’altrettanta ricchezza di opere che costituiscono ancora oggi, insieme a quelle augustee, dei veri e propri punti di riferimento.

Roma, infatti, da una parte perfezionerà, da un’altra inaugurerà vari generi letterari:

  • dal periodo sillano troverà la massima espressione la poesia lirica, che Catullo porterà alla massima espressione partendo da coloro che la iniziarono in quell’età e che vengono, per questo, definiti preneoterici;
  • sempre da quel periodo si svilupperà l’oratoria, ma non più solo come tecnica pratica per imparare a diventare un peritus loquendi, come ancora era nella Rhetorica ad Herennium a torto a lui attribuita, ma come vera e propria pratica con la quale affermarsi nel mondo del potere; l’utilizzo di questo genere da parte di Cicerone farà sì che egli diventerà il punto da cui partire e con cui confrontarsi per chi verrà dopo di lui;
  • La nascita della monografia storica con Cesare e Sallustio, anch’essi, diventati nel tempo punti di riferimento per la loro qualità stilistica;
  • La capacità di Cicerone di trasportare e, quindi, di far entrare nella storia della cultura latina la filosofia;
  • La grande ed unica esperienza, di per sé monumentale, di fare di un tema filosofico, un grande e straordinario poema da pare di un personaggio ancora fortemente avvolto nel mistero come Lucrezio.

Sono questi i grandi meriti culturali di questa età che ci consegneranno, da parte dei suoi intellettuali, la visione completa del modo non solo in cui si governava, ma anche si viveva e pensava.

DIVINA COMMEDIA: PARADISO


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Il Paradiso Dante lo scrive negli ultimi sei anni della sua vita, dal 1315 al 1321, anni in cui il poeta fiorentino si era trovato dapprima a Verona, sotto il magnanimo Cangrande della Scala e in seguito, più precisamente gli ultimi tre anni, da Guido da Polenta, a Ravenna dove spirò a causa di febbri malariche.

Il Paradiso rappresenta un cantico la cui scrittura prevedeva una serie di difficoltà maggiori rispetto alle due che l’avevano preceduta, la prima delle quali è certamente quella di non essere “fisicamente tangibile”: se l’inferno presenta un vero e proprio luogo, con fiumi da attraversare, pareti da ascendere (si pensi alla necessità di un vero e proprio “ascensore” quale quello di Gerione che trasporta Dante nel fondo del baratro, o ancora alla ricerca di un varco per salire i balzi purgatoriali, immaginati proprio come se si trovassero in una erta montagna), il Paradiso è un luogo che non esiste nella realtà immaginativa perché tutto comprende.

Un altro aspetto è certamente quello dell’incontro del poeta con le anime, anime che, essendo tutte beate, risiedono nell’unico luogo (seppur più lontane o vicine a Dio secondo il grado di felicità) loro destinato che è l’Empireo. Ciò dovrebbe far venir meno la gradualità dell’incontro, ma Dante lo risolve attraverso l’escamotage per cui sono le anime che scendono, spinte dalla carità, incontro a Dante, nel cielo che meglio le caratterizza e parlano con lui in un dialogo un po’ surreale, in quanto esse conoscono perfettamente che ciò che Dante chiede perché lo leggono precedentemente nella mente di Dio che tutto sa.

Il lettore, che segue le vicende del Dante agens, si rende conto del suo ascendere attraverso un processo luminoso: egli osserva l’intensificarsi dell’intensità della luce negli occhi di Beatrice: tale facoltà, che prescinde quella umana, fa sì che Dante viva un’esperienza oltre l’umano. Ma questo essere oltre l’umano non permette nel contempo a Dante di riportare con parole umane ciò che ha vissuto, perché ciò che ha visto è inesprimibile e perché lo deve riportare ad esperienza vissuta, quindi nel ricordo che è esso stesso facoltà umana, di contro all’esperienza divina.

Per ciò lo stile del Paradiso, oltre che naturaliter  “elevato” è fortemente lirico: non vi è alcuna azione descrittiva, ma solo l’impressione che l’io riporta nel suo animo.

A livello strutturale il Paradiso si configura in 7 cieli, rispettivamente quelli della Luna (spiriti che mancarono i voti), di Mercurio (spiriti attivi per desiderio di gloria), di Venere (spiriti amanti), del Sole (spiriti dei sapienti), di Marte (spiriti militanti), di Giove (spiriti dei giusti), di Saturno (spiriti contemplativi).

A questi si aggiunge l’VIII cielo che non contiene spiriti e che gira più lentamente degli altri e riceve l’impulso del movimento dal IX cielo dal cielo primo mobile. L’ultimo “luogo”, il X, ma che invero costituisce l’intero Paradiso è l’Empireo, sede di Dio.

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CANTO I
(Paradiso terrestre – Sfera del fuoco)

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’ mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi”.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi”.
Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo”.
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.

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La gloria di Dio, che tutto muove, si diffonde in tutto l’universo, risplendendo in alcuni luoghi di più ed in altri di meno. Nel cielo che riceve più della sua luce, l’Empireo,  arrivai, e vidi là cose che raccontare non sa né può chi da lassù scende sulla terra; perché avvicinandosi tanto all’oggetto del suo desiderio, la nostra mente si addentra tanto nel mistero di Dio, che la memoria non riesce a tenergli dietro. Ciononostante, quanto del regno di Dio riuscii a raccogliere allora nella mia memoria, sarà ora argomento di questa nuova cantica. Oh buon Apollo, per questa ultima fatica, fammi ricettacolo del tuo valore, quanto ne richiedi per offrire la tanto desiderata corona d’alloro. Fino a questo punto l’aiuto delle Muse, che abitano una cima del monte Parnaso, mi è stato più che sufficiente; ma ora è bene che affronti con entrambe le cime (Nisa e Cirra) la prova ancora da superare. Entra nel mio petto, nel mio cuore, ed ispirami con quella potenza con cui Marsia, da te sconfitto nel canto, scorticasti poi delle sua stessa pelle. Oh virtù divina, se mi sostieni tanto che io possa descrivere l’immagine del regno dei beati, rimasta impressa nella mia memoria, mi vedrai arrivare ai piedi del tuo sacro alloro, ed incoronarmi con le foglie delle quali mi renderanno degno l’argomento trattato e tu stesso. Sono così rare le volte, Apollo, in cui si colgono dei rami dalla tua pianta per celebrare il trionfo di un imperatore o di un poeta, per colpa dei vergognosi desideri umani, tanto che dovrebbe dare felicità al sereno dio di Delfi, il fatto che il ramo peneio (di alloro, in quanto Dafne, trasformata in alloro, era la figlia del fiume Peneo) sia tanto desiderato da qualcuno. Talvolta una piccola scintilla genera un grande incendio: forse dopo di me, con un canto migliore, invocheranno Apollo, che abita l’altra cima, Cirra, affinché risponda. Sorge sulla gente mortale da diversi punti, a seconda della stagione, il Sole, luce del mondo;  ma quando sorge da quel punto, ad oriente, in cui si congiungono i quattro cerchi dell’equatore, durante gli equinozi, formando tre croci, da una migliore stagione e da costellazioni più favorevoli è allora accompagnato, e la Terra, come fosse cera, plasma e segna nella maniera più efficace. Là, in quella parte, sul Purgatorio, nel punto in cui si trovavano Dante e Beatrice, (emisfero australe) era sorto il mattino mentre qua, sulla Terra (emisfero boreale), in cui sono io, era calata la sera; quasi completamente illuminato era quell’emisfero mentre l’altro era ormai buio, quando mi accorsi che Beatrice era rivolta alla sua sinistra e guardava il sole: nessuna aquila lo fissò mai tanto intensamente. E come un raggio riflesso deriva necessariamente da quello originario e risale verso l’alto, allo stesso modo di un falco pellegrino che vuole tornare in quota dopo la picchiata, così, dal gesto di Beatrice, penetrato nella mia fantasia attraverso gli occhi, derivò un mio eguale gesto, e fissai quindi anche io lo sguardo al sole, oltre ogni possibilità umana. Molte cose sono là consentite che qui invece non sono permesse alle nostre facoltà, in grazia di quel luogo creato da Dio come dimora propria dell’umanità. Io non resistetti molto alla luce, ma non così poco da non vedere il sole mandare intorno scintille infuocate, come il ferro quando viene tolto ancora incandescente dal fuoco; ed subito mi sembrò che l’intensità della luce del giorno raddoppiasse, come se Dio, che tutto può, avesse fatto dono al cielo di un altro sole. Beatrice teneva fissi ai cieli i propri occhi; ed io fissai i miei nei suoi, dopo aver dopo averlo allontanato dal sole. Guardandola provai dentro di me una sensazione simile a quella che provò Glauco mentre assaporava l’erba che lo rese un Dio, compagno delle altre divinità marine. L’atto di elevarsi sopra i limiti umani non può essere descritto con le parole; basti perciò l’esempio di Glauco a coloro ai quali la grazia divina concederà di provare tale esperienza. Se in quel momento ero solamente ciò che avevi creato di me per ultimo (cioè l’anima), oh Dio che regni nei cieli, lo sai tu, dal momento che sei stato tu ad innalzarmi al cielo con la tua luce. Quando il moto circolare dei cieli, che rendi perpetuo con il desiderio di te, ebbe richiamato su di sé la mia attenzione con quella sua musica che tu regoli e moduli, mi sembrò che la luce del sole accendesse una parte del cielo ben più grande di quella occupata da qualsiasi lago, formato dalla pioggia o da un fiume. La novità del suono e l’intensa luce suscitarono in me un forte desiderio di conoscerne la ragione, più forte di quanto avessi mai provato. Per cui Beatrice, che capiva i miei pensieri così come me stesso, per calmare il mio animo turbato, prima ancora che io potessi domandare, aprì la bocca ed iniziò a spiegare: «Tu stesso ottundi la tua mente con false supposizioni, così da non riuscire poi a vedere ciò che vedresti senza quel pensiero sbagliato. Non ti trovi in questo momento sulla Terra, così come credi; ma un fulmine, allontanandosi dal suo punto di origine, non si mosse mai tanto velocemente quanto tu ti stai movendo adesso verso il Paradiso.» Se fui allora liberato dal primo dubbio, grazie a quelle poche parole pronunciate da una sorridente Beatrice, fui però successivamente colto da un nuovo dubbio e dissi quindi: «Sono ormai soddisfatto rispetto alla mia più grande perplessità; ma mi stupisco ora di come possa, con ancora il peso del corpo, levarmi attraverso questi corpi leggeri.»Per cui lei, dopo un lungo sospiro di pietà, alzò i propri occhi verso di me con uno sguardo simile a quello con cui una madre si rivolge al proprio figlio colto dalla febbre, cominciò quindi a dire: «Tutte le cose esistenti sono sottoposte ad un ordine, che è il principio che rende l’universo somigliante a Dio. In quell’ordine le creature superiori vedono l’impronta, il segno, della potenza di Dio, che è anche il fine ultimo a cui aspira l’ordine stesso a cui accenno. In questo universo ordinato del quale parlo, ricevono una certa predisposizione tutte le creature, a seconda delle loro diverse condizioni, più o meno vicine al loro creatore, a Dio; perciò esse si dirigono verso destinazioni differenti, attraverso il grande mare della vita, ciascuna creatura guidata dall’istinto a lei assegnato. Quest’ordine spinge il fuoco a salire verso il cielo della luna; questo regola le funzioni vitali negli esseri privi di ragione; che tiene unita e compatta la terra; ma non soltanto le creature prive di ragione sono spinte da quest’ordine verso il loro fine, ma anche le creature dotate di intelligenza e di volontà. La provvidenza divina, che è ha capo di questo ordine, con la propria luce rende appagato il cielo dell’Empireo, nel quale ruota la più veloce delle sfere celesti; ed ora lì, nell’Empireo, luogo ordinato come nostro fine, che ci porta la potenza di quella predisposizione, di quell’ordine provvidenziale, che indirizza ogni creatura verso il proprio fine, che sarà per essa fonte di gioia. È comunque vero che il risultato non corrisponde molte volte a quella che era l’intenzione dell’artefice, perché la materia non è disposta a comprenderla, e così a volte si allontana da questo ordine naturale l’uomo, avendo il potere di rivolgersi altrove, pur essendo stato indirizzato verso il bene; e così come è possibile vedere cadere il fuoco in forma di saetta da una nube, allo stesso modo l’inclinazione naturale rivolge verso terra l’uomo, naturalmente spinto verso il cielo, quando è traviato una falsa immagine del bene. Non devi quindi meravigliarti, come credo tu faccio, del fatto che stai salendo al cielo, più di quanto tu possa farlo per il fatto che un fiume scenda dall’alto di un monte fino a valle. Ti saresti dovuto piuttosto meravigliare se, libero da ogni impedimento, tu fossi rimasto inchiodato giù, come un fuoco vivo che rimane quieta a terra.» Detto questo, rivolse quindi al cielo il proprio viso.
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Già dalle prime parole del testo ci accorgiamo della diversa costruzione del canto, determinata dall’elevatezza del contenuto e del tono con cui si esprime. Basti per tutto a confrontarli con gli altri due incipit: se per l’Inferno bastavano le sole Muse, nel Purgatorio vi era la necessità che fosse Calliope, musa della poesia epica, ma qui occorre il dio della poesia stessa che con ambedue le ispirazioni, la terrena e la divina, rappresentate metaforicamente dalle due cime del monte Parnaso, lo sovvenga a tale difficile compito.

Se ciò è fondamentale per capire il concetto dello sforzo sovrumano cui si accinge Dante, lo stesso ce lo annuncia con una diversa proporzione nell’introdurre la cantica: ben 12 versi per la propositio, 24 per l’invocatio. (Nell’Inferno rispettivamente 6 e 3 nel 2° canto;  nel Purgatorio 6 e 6, nel 1° canto). Simile invece tra la seconda cantica e questa è la punizione per l’arroganza di chi ha voluto sfidare nel canto la facoltà divina: lo hanno saputo bene le Pieridi trasformate in gazze, prese ad esempio, nella montagna purgatoriale e qui il satiro Marsia, che viene addirittura scuoiato dal dio stesso. Ma tale professione d’umiltà non tocca la sfera dell’umano: consapevole della grandezza ed eccezionalità del compito cui si accinge egli sa di poter meritare l’alloro poetico, sebbene attenui tale posizione con l’affermazione che forse qualcuno, migliore di lui, potrà meglio rappresentare il mondo divino, non senza una nota polemica sullo stato della poesia, volto più a trarre benefici terreni che divini.

Ma, con una capacità limitata, in quanto dettata dalla potenza umana, egli riesce a darci l’ “idea” della luce, attraverso il concetto di luce riflessa, e quindi attraverso l’intensificarsi di essa, il suo ascendere e il suo trasformarsi “trasumanare”, neologismo con cui indica l’andare oltre se stesso e, pur nel ricordo, riesce a ricordare la “lezione” teologica di Beatrice che lo disgrossa riguardo il tendere verso Dio. Tutte le creature originate da Dio naturalmente sono tese a tornare da Lui, tra di esse anche quella umana. Non sempre, tuttavia quest’ultima segue la sua natura, ma spinta da falsi piaceri, da Lui si diparte, cadendo nel peccato, in questo modo Dante ribadisce il concetto di “libero arbitrio” come fondamentale del suo pensiero, pensiero reso vivido dalla metafora dell’arco e del fulmine. 

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CANTO II
(Cielo I – Luna)

Il canto si apre con un nuovo prologo rivolto al lettore:

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.

O voi che avete seguito con la vostra piccola barca il mio vascello che cantando si fa strada nei mari, tornate indietro, a rivedere la spiaggia da dove siete salpati; non vi avventurate in mare aperto, perché, forse, perdendo me di vista, vi trovereste smarriti. L’acqua che ora io prendo a solcare non è stata mai percorsa da nessuno; Minerva spira nelle vele della nave, Apollo è il mio nocchiero e le nove muse mi indicano le stelle dell’Orsa per orientarmi. Voi altri pochi, che per tempo vi volgeste al pane degli angeli, del quale qui si può vivere sì, ma senza saziarsene mai, voi potete ben avventurare per l’alto mare il vostro naviglio, seguendo la mia scia prima che l’acqua ritorni liscia com’era., cancellando la traccia del mio passaggio. Quei gloriosi Argonauti che per mare raggiunsero la Colchide non si stupirono come voi farete, quando videro Giasone trasformarsi in contadino.

Come nel primo canto, anche qui Dante sottolinea l’eccezionalità dell’argomento e dell’ispirazione che chiede un pubblico capace di seguirlo. Non è arroganza del poeta, ma consapevolezza dell’arduo “cammino” e quindi compito che il poeta s’accinge a percorrere. E’ evidente che pertanto solo si può avvicinare al canto chi si è già nutrito “del pan degli angeli”, di quella conoscenza dottrinale e teologica che è qui è necessaria per la piena comprensione: sicuramente una posizione diversa rispetto al più “democratico” Convivio, dove Dante offriva, a chi non aveva le possibilità “briciole” di sapienza.

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Il canto quindi prosegue affrontando due nodi dottrinali:

  • l’impenetrabilità dei corpi;
  • le macchie lunari.

Mentre salgono velocissimamente, Dante si trova immerso nel cielo della luna, chiedendosi come mai al suo penetrare in esso non sia corrisposto uno spostamento di materia lunare. E’ evidente che per Dante mondo terreno e mondo astronomico sono nettamente separati, pertanto anche la loro composizione è diversa. Il suo penetrare è frutto di quell’unione di umano e divino che ha permesso a Cristo di possedere le due nature e che di cui Dio gli ha fatto dono allora per “conoscere” il luogo sede di Dio.

Per le macchie lunari, Beatrice dà luogo ad una dimostrazione sillogistica: dapprima confuta quando già detto da Dante nel Convivio che individua la ragione nella minore o maggiore densità dei corpi, in quanto se così fosse quelle meno dense dovrebbero o attraversare il cielo della luna stessa o lasciar passare la luce nel caso d’eclissi. Quindi dimostra come la diversità dipende dalla virtù di Dio che piove dal Primo mobile fino al cerchio lunare, attraversando tutti i cieli e imprimendo loro la stessa virtù che muta al mutare della sostanza su cui si poggia e dal grado di beatitudine che essi stessi esprimono.

CANTO III
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte.
Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo pueril coto,
poi sopra ‘l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che li appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi». 

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
grazioso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.
E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face».
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ‘l terzo e l’ultima possanza».
Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo. 

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Beatrice, sole che sin dall’inizio mi aveva colpito il cuore, mi aveva rivelato il dolce aspetto della verità, dimostrando la verità (sulle macchie lunari) e confutando l’errore; ed io per dimostrare d’aver corretto (la falsa opinione) e di esser sicuro, sollevai più in alto il capo, quanto più convenientemente per parlare, ma mi apparve una visione che mi catturò così tanto l’attenzione da non ricordare più la mia confessione. Come attraverso vetri trasparenti e puliti oppure attraverso acque così chiare e tranquille, non tanto profonde da rendere invisibili i fondali, si riflettono le immagini dei nostri visi  così deboli che una perla bianca sulla fronte non giunge meno evidente al nostro sguardo, allo stesso modo vidi io volti pronte a parlare; per cui mi imbattei nello stesso errore di quello di Narciso che fece innamorare l’uomo della fonte. Immediatamente, quando mi accorsi di loro, immaginandole immagini riflesse , mi volsi indietro per vedere chi fossero e, non vedendo nulla, rivolsi lo sguardo a Beatrice, che, sorridendo,  risplendeva nei santi occhi. Mi disse: «Non meravigliarti del mio sorridere a seguito del tuo puerile pensiero, dal momento che ancora non si basa sopra la verità, ma ti fa girare a vuoto, come al solito: quelle che tu vedi sono veri spiriti, qui confinati, per esser mancati ai voti. Perciò parla loro, ascoltale, e credi ciò che dicono, perché la vera luce che le soddisfa non permette loro di allontanarsi da se se stessa». Ed io mi rivolsi all’ombra che sembrava più desiderosa di parlare e cominciai come una persona a cui la troppa voglia toglie lucidità: «O spirito, eletto alla salvezza eterna, che senti la dolcezza dei raggi della vita eterna che, se non gustata, non la si può provare, mi sarebbe graditi se mi contentassi di rivelare il tuo nome e la vostra condizione». E lei, pronta e con occhi ridenti: «La carità di noi elette nella grazia, non chiude le porte ad un giusto desiderio, non diversamente come la carità di Dio che rende tutto il suo regno simile a Lui. Io fu nel mondo una monaca, e se la tua mente guarda con attenzione, non ti celerà che io, pur più bella, son Piccarda Donati, che, messa qui, fra gli altri beati, sono nel cerchio più lento, quello della luna.  I nostri sentimenti che ardono solo in ciò che piace allo Spirito Santo, godono in quanto corrispondono all’ordine da lui stabilito. E la sorte che ci ha confinato qui perciò ci è stata assegnata, perché non furono rispettati i nostri voti e mancanti in alcune parti». Ed io a lei: «Nei vostri meravigliosi aspetti risplende un non che di divino che vi trasfigura rispetto alle immagini che di voi abbiamo in terra; per questo non fui pronto a riconoscerti: ma ora mi aiuta ciò che dici, tanto che a ricordar la tua figura mi è più semplice. Ma dimmi, voi che avete in questo cielo il vostro grado di felicità, desiderate un luogo più alto (vicino) per farvi vedere e farvi riconoscere da Dio?». Con le altre anime dapprima sorrise un po’, quindi mi risposa con così tanta gioia da sembrare infiammata da amore divino: «Fratello, la nostra volontà appaga la nostra virtù di carità, che fa s^ che noi desideriamo solo quello che possediamo, senza bisogno d’altro. Se desiderassimo cose superiori, i nostri desideri sarebbero discordi dal volere di colui che qui ci ha destinato; cosa che tu vedrai non essere in questi giri , se essere in carità è qui necessario e se osservi bene la natura di questa carità. E’ anzi essenziale a questo essere in beatitudine attenersi alla volontà di Dio, per cui le nostre voglie diventano una sola con lei; cosicché piace a tutto il Paradiso che noi appariamo di cielo in cielo, allo stesso modo di un re che fa piacere ciò che lui vuole. Nella sua volontà è la nostra pace: essa è quel mare verso cui ogni cosa che è creata si muove o che fa  la natura. Allora mi fu chiaro come il Paradiso è dovunque, sebbene la Grazia non piova ugualmente. Ma così come succede che un cibo sazia e di un altro rimane ancora il desiderio, del secondo si chiede e del primo si ringrazia, così feci io negli atteggiamenti e nel chiedere, per sapere quale fu la trama che non riuscì a portare a termine». «Santità di vita e nobili meriti pone in alto una donna», mi disse «alla cui norma nel mondo si veste e mette il velo monacale, affinché, fino alla morte vegli e dorma con Gesù  che accetta tutti i voti conformi alla carità. Scappai dal mondo, giovinetta, per seguire la sua regola divenni monaca e promisi di seguire la via del suo ordine. Ma poi degli uomini, usi a far del male più che il bene, mi portarono fuori dal dolce chiostro: lo sa Dio quale vita in seguito condussi. E quest’altra anima illuminata, che ti si mostra alla mia destra e che si illumina della luce di questo cielo, ebbe la mia stessa sorte; fu suora, allo stesso modo le fu strappato dal capo il velo che le ombreggiava il viso: Ma dopo che fu riportata al mondo contro il suo volere e contro ogni norma morale, non sciolse mai il velo che custodiva in cuore. Questa è la luce della buona Costanza d’Altavilla che da Enrico VI (secondo potenza di Svezia, in quanto il primo è Federico Barbarossa), generò la terza potenza e l’ultima potenza (cioè Federico II, che fu il terzo, ma anche l’ultimo regnante della famiglia degli Svevi)». Così parlò e poi cantando svanì come un oggetto pesante nell’acqua scura. Il mio sguardo la seguì finché poté, poi si rivolse all’oggetto del mio desiderio e si protese completamente verso Beatrice; ma lei abbagliò il mio sguarda tanto che in principio non lo soffrii e ciò mi fece essere più tardivo nel porre domande.

Gustave_Doré_-_Paradiso,_Canto_III.jpgSe i primi due canti ci avevano introdotti nell’atmosfera paradisiaca, il primo in cui Dante si era “trasumanato” (neologismo dal forte valore semantico) ed il secondo, pur così teologico, ci aveva illustrato il problema delle macchie lunari,  è qui nel terzo che Dante incontra i primi personaggi che sono così diversi dalle immagini sia infernali che purgatoriali, da non rendersi conto nemmeno della loro “spiritualità”. Il loro essere è tanto diafano da essere scambiato per immagine riflessa e sarà solo Beatrice a chiarire la loro vera essenza. A parlare con lui sarà Piccarda Donati, sorella e figlia di quella famiglia che tanto dolore procurerà a Dante. Avevamo incontrato, non da molto, il di lei fratello, Forese, in un bel dialogo amicale nel XXIII canto del Purgatorio. Ed era stato proprio lui ad informare Dante dell’abisso infernale in cui era caduto Corso e della beatitudine della sorella (quasi a rappresentare una scala in cui il fratello maggiore era punito per la sua prepotenza, il mediano, Forsese scontava, pentendosi, il peccato di gola e la piccolina, Piccarda, si era salvata). Tuttavia nelle sue parole notiamo una incredibile violenza di cui i maschi si macchiavano nei confronti delle donne. Scelta la via delle Clarisse, quasi a sfuggire il clima di violenza che la circondava, Piccarda si trova strappata alla sua volontà di essere monaca per giacere al fianco di un uomo che non desiderava per problemi politici; stessa sorte sembra subire Costanza – la cui luminosità maggiore è forse determinata dall’importanza del personaggio – a cui venne strappato il velo. Il fatto è che per quest’ultima Dante sembra seguire una “diceria” piuttosto che la verità, in quanto è accertato che Costanza non si sia mai monaca. Ma non importa se Dante abbia qui dato retta ad una voce mandata in giro dai Guelfi per screditare il partito imperiale. Quello che importa è che egli disegni, con i tratti tenui che vogliono caratterizzare la femminilità, una forma non detta di stupro verso il mondo femminile.

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Un’ultima notazione riguarda le figura di Piccarda il cui modo di raccontare la sua storia l’apparenta a Pia dei Tolomei: è nel loro non detto che nasce la fascinazione per questi due personaggi femminili.

CANTO IV
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)

Dante è assalito da due dubbi, derivati entrambi dal dialogo avuto con Piccarda: il primo riguarda il luogo in cui sono posti i beati:

D’i Serafin colui che più s’india, 
Moisè, Samuel, e quel Giovanni 
che prender vuoli, io dico, non Maria, 
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro, 
né hanno a l’esser lor più o meno anni; 
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita 
per sentir più e men l’etterno spiro. 
Qui si mostraro, non perché sortita 
sia questa spera lor, ma per far segno 
de la celestial c’ha men salita.

Quel Serafino che è più vicino a Dio, Mosè, Samuele, Giovanni Battista o Evangelista, addirittura Maria, hanno la loro sede nello stesso Cielo (Empireo) di questi spiriti che ti sono appena apparsi, né la loro permanenza lì ha una durata più lunga o più breve; ma tutti loro adornano il Cielo più alto, e hanno un grado di felicità diverso a seconda che sentano più o meno lo Spirito Santo. Ti sono apparsi qui nel I Cielo non perché esso sia assegnato loro come sede, ma per manifestare visibilmente il loro minor grado di beatitudine.

il secondo il perché di una “minore santità” se a non compiere pienamente il bene si è portati da una forza esterna violenta:

Se violenza è quando quel che pate 
niente conferisce a quel che sforza, 
non fuor quest’alme per essa scusate; 
ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco, 
se mille volte violenza il torza. 
Per che, s’ella si piega assai o poco, 
segue la forza; e così queste fero 
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.

Se la violenza sussiste quando colui che la subisce non asseconda in nulla colui che la compie, allora queste anime non furono scusate per essa; infatti la volontà, se non vuole, non viene meno, ma fa come il fuoco che tende per natura a salire, anche se mille volte la violenza (del vento) lo spinge in basso. Infatti, se la volontà si piega poco o molto, asseconda la violenza; e così fecero queste anime, dal momento che potevano tornare nel loro convento. Se la loro volontà fosse stata integra, come quella che tenne san Lorenzo sulla graticola e quella che indusse Mucio Scevola ad essere severo con la sua mano, essa le avrebbe riportate sulla strada da cui erano state portate via, non appena libere dall’impedimento fisico; ma una volontà suprema di tal genere è troppo rara.

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Quello che emerge in questo canto è che l’immagine che Dante ci descrive in realtà non esiste: le anime si presentano per la grazia che il Signore gli ha concesso e per continuare quell’ufficio “didattico” che il suo viaggio deve gli fornisce; interessante è inoltre l’aspetto sulla “colpa” che tali anime potrebbero avere. Il poeta divide tra volontà assoluta e volontà relativa: ma ponendo tale ambiguità tra le due non fa che illuminarci sui nostri limiti morali.

CANTO V
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena)

Il canto prosegue senza soluzione di continuità nel discorso dottrinale sul rispetto del voto, che, come detto, presenta il problema morale del suo compimento sulla base della volontà. Dante chiede se vi è possibilità, a fronte di una irrealizzabilità dello stesso, del mutamento dell’oggetto del voto. Beatrice precisa che il voto non è che una abdicazione volontaria della propria libertà. Quando esso si esprime vi è un rapporto, in questo caso, tra il fedele e Dio, che non può venir meno; in casi eccezionali potrebbe accadere, ma solo attraverso l’intermediazione della Chiesa.

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Dopo queste ulteriori spiegazioni dottrinali i due ascendono velocemente nel cielo di Mercurio. Appena giunti vengono circondati dalle anime che, seppur luminose, continuano ad avere un aspetto riconoscibile. Subito uno di essi si mostra ansioso di voler condividere con Dante uno scambio di cordialità, che fa sì che, nel parlare, la stessa luminosità prende il sopravvento, cancellando la labile ombra che denotava ancora il personaggio.

CANTO VI
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena)

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«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse, 

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ‘l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;

ma ‘l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;

e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’al sacrosanto segno
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone.

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, 
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi 
ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Annibale passaro 
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’esso giovanetti triunfaro
Scipione e Pompeo; e a quel colle 
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno, 
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna 
e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo, 
che nol seguiteria lingua né penna.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse 
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’Ettore si cuba; 
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba; 
onde si volse nel vostro occidente, 
ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente, 
Bruto con Cassio ne l’inferno latra, 
e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra, 
che, fuggendoli innanzi, dal colubro 
la morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro; 
con costui puose il mondo in tanta pace, 
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face 
fatto avea prima e poi era fatturo 
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro, 
se in mano al terzo Cesare si mira 
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva giustizia che mi spira, 
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, 
gloria di far vendetta a la sua ira. 
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse 
de la vendetta del peccato antico.
E quando il dente longobardo morse 
la Santa Chiesa, sotto le sue ali 
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Omai puoi giudicar di quei cotali 
ch’io accusai di sopra e di lor falli, 
che son cagion di tutti vostri mali.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli 
oppone, e l’altro appropria quello a parte, 
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte 
sott’altro segno; ché mal segue quello 
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l’abbatta esto Carlo novello 
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli 
ch’a più alto leon trasser lo vello.
Molte fiate già pianser li figli 
per la colpa del padre, e non si creda 
che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli!
Questa picciola stella si correda 
di buoni spirti che son stati attivi 
perché onore e fama li succeda:
e quando li disiri poggian quivi, 
sì disviando, pur convien che i raggi 
del vero amore in sù poggin men vivi. 
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi 
col merto è parte di nostra letizia, 
perché non li vedem minor né maggi. 
Quindi addolcisce la viva giustizia 
in noi l’affetto sì, che non si puote 
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci fanno dolci note; 
così diversi scanni in nostra vita 
rendon dolce armonia tra queste rote.
E dentro a la presente margarita 
luce la luce di Romeo, di cui 
fu l’ovra grande e bella mal gradita. 
Ma i Provenzai che fecer contra lui 
non hanno riso; e però mal cammina 
qual si fa danno del ben fare altrui. 
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, 
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece 
Romeo, persona umìle e peregrina. 
E poi il mosser le parole biece 
a dimandar ragione a questo giusto, 
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto; 
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe 
mendicando sua vita a frusto a frusto, 
assai lo loda, e più lo loderebbe».

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«Dopo che Costantino portò l’aquila imperiale contro il corso del cielo (da Occidente a Oriente), che essa seguì dietro a Enea che prese in sposa Lavinia, l’uccello divino rimase più di duecento anni nell’estremità dell’Europa, vicino ai monti della Troade dai quali iniziò il suo volo; e lì governò il mondo all’ombra delle penne sacre, passando di mano in mano, fino a giungere nelle mie. Fui imperatore romano e mi chiamo Giustiniano: sono colui che, ispirato dallo Spirito Santo, eliminai dalle leggi ciò che era superfluo e ciò che era inutile. E prima che mi dedicassi a quest’opera, credevo che in Cristo ci fosse la sola natura divina, ed ero contento di questa fede; ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi indirizzò alla vera fede con le sue parole. Io gli credetti; e ora vedo ciò che era nella sua fede così chiaramente, come tu vedi che in un giudizio contraddittorio c’è una frase vera e una falsa. Non appena rientrai in seno alla Chiesa, Dio volle per sua grazia ispirarmi l’alta opera (il Corpus iuris civilis) e io mi dedicai anima e corpo ad esso; e affidai le armi al mio generale Belisario, che fu assistito dal cielo a tal punto che ciò fu segno che io dovessi fermarmi. Ora qui termina la mia prima risposta; ma ciò che ho detto mi induce a far seguire una aggiunta, affinché tu veda quanto ingiustamente agiscano contro il sacrosanto simbolo dell’aquila sia coloro che se ne appropriano (i Ghibellini), sia coloro che gli si oppongono (i Guelfi). Vedi quanta virtù ha reso il segno degno di riverenza; e ciò iniziò dal giorno in cui Pallante morì per assicurargli un regno. Tu sai che esso dimorò più di trecento anni ad Alba Longa, fino al momento in cui Orazi e Curiazi lottarono ancora per lui. E sai cosa fece dal ratto delle Sabine fino all’oltraggio a Lucrezia, all’epoca dei sette re di Roma, vincendo i popoli circonvicini. Sai che cosa fece, portato dai nobili Romani contro Brenno e Pirro, e contro altre repubbliche e monarchi dell’Italia; per cui Torquato e Quinzio Cincinnato, che fu detto così per la chioma trascurata, nonché Deci e Fabi ebbero la fama che io volentieri onoro. Esso abbatté l’orgoglio dei Cartaginesi che al seguito di Annibale passarono le Alpi, dalle quali tu, o fiume Po, discendi. Sotto di esso trionfarono, da giovani, Scipione e Pompeo; e parve amaro a quel colle (Fiesole) sotto il quale tu sei nato. Poi, quando fu vicino il tempo in cui il Cielo volle far diventare tutto il mondo sereno a sua immagine (per la nascita di Cristo), Cesare assunse il segno dell’aquila per volere di Roma. E ciò che esso (con Cesare) fece in dal fiume Varo fino al Reno, lo videro l’Isère, la Loira, la Senna e ogni valle di cui è pieno il Rodano. Quello che fece dopo essere uscito da Ravenna ed aver passato il Rubicone, fu un volo così veloce che né la lingua né la penna potrebbero descriverlo. Rivolse le truppe contro la Spagna e poi verso Durazzo, e colpì Farsàlo a tal punto che il dolore arrivò sino al caldo Nilo. L’aquila rivide il porto di Antandro e il fiume Simoenta da cui si mosse, e il sepolcro di Ettore; e poi ripartì per l’Egitto, con nefaste conseguenze per Tolomeo. Da lì scese come una folgore contro Giuba, re di Mauritania, e poi si portò nell’Occidente del vostro mondo, dove sentiva la tromba dei Pompeiani. Di quello che esso fece col successore di Cesare (Ottaviano), Bruto e Cassio ancora latrano nell’Inferno e Modena e Perugia ne furono dolenti. Ne piange ancora la triste Cleopatra, che, fuggendogli davanti, si diede la morte improvvisa e atroce col serpente. Con Ottaviano l’aquila corse fino al Mar Rosso; con lui ridusse il mondo in pace, al punto che fu chiuso il tempio di Giano. Ma ciò che il segno di cui parlo aveva fatto in precedenza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che gli è sottomesso, diventa poca cosa in apparenza se lo si paragona a ciò che fece col terzo imperatore (Tiberio), se si guarda con chiarezza e sincerità; infatti la giustizia divina che mi ispira gli concesse, in mano a Tiberio, la gloria di punire il peccato originale (con la crocifissione di Cristo). Ora prendi ammirazione per ciò che aggiungo: in seguito con Tito corse a vendicare la vendetta dell’antico peccato (con la distruzione di Gerusalemme). E quando la violenza dei Longobardi si rivolse contro la Santa Chiesa, Carlo Magno la soccorse sotto le ali dell’aquila, sconfiggendo quel popolo. Ormai puoi giudicare la condotta di quelli che ho accusato prima e le loro colpe, che sono causa di tutti i vostri mali. Gli uni (i Guelfi) oppongono al simbolo imperiale i gigli gialli della casa di Francia, e gli altri (i Ghibellini) se ne appropriano per la loro parte politica, così che è arduo stabilire chi sbagli di più.  Ghibellini facciano la loro politica sotto un altro simbolo, giacché chi lo separa sempre dalla giustizia ne fa un cattivo uso; e non creda di abbatterlo coi suoi Guelfi Carlo II d’Angiò, ma abbia timore dei suoi artigli che scuoiarono leoni più feroci di lui. Molte volte i figli hanno già pagato per le colpe dei padri, e quindi non creda Carlo che Dio cambi il proprio simbolo con i suoi gigli! Questo piccolo pianeta (Mercurio) accoglie i buoni spiriti che sono stati attivi nella ricerca dell’onore e della fama: e quando i desideri sono rivolti a questo, così deviando dal loro fine, è inevitabile che l’amore sia meno rivolto verso Dio. Tuttavia, se paragoniamo i nostri premi col nostro merito, ciò ci induce letizia, poiché non li vediamo né minori né maggiori. In tal modo la giustizia divina addolcisce il nostro sentimento, così che esso non può mai essere rivolto a un pensiero malvagio. Diverse voci producono dolci melodie; così i diversi gradi della nostra beatitudine rendono una dolce armonia in questi Cieli. E dentro questa stella risplende la luce di Romeo di Villanova, la cui opera bella e grande fu poco apprezzata. Ma i Provenzali, che agirono contro di lui, non hanno riso (furono puniti) e dunque percorre una cattiva strada chi è invidioso e considera un proprio danno le buone azioni degli altri. Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, ognuna sposa di re, e ciò fu il risultato dell’opera di Romeo, persona umile e straniera. E poi le parole invidiose dei cortigiani lo indussero a chiedere conto dell’operato di quel giusto, che aveva accresciuto le rendite statali, per cui Romeo se ne andò povero e vecchio; e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già non faccia»
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E’ questo l’unico canto dell’intera Commedia in cui un personaggio prende la parola per gli interi 142 versi di cui è composto. Infatti nel V canto, quest’anima aveva sollecitato Dante a chiedere chi fosse e chi fossero i compagni in questo cielo di Mercurio ed ora risponde alle sue domande. Quello che tuttavia colpisce è che quest’anima non si presenta da subito, ma pone un altro protagonista, l’aquila imperiale, che diventa il centro ed il fulcro dell’intero canto. Ci troviamo infatti nel VI canto, quindi il canto politico che, come già visto, si distribuisce strutturalmente nelle tre cantiche:
  1. Inferno, Ciacco che parla della città dipartita, cioè Firenze;
  2. Purgatorio, in cui l’incontro con Sordello da Goito sollecita una riflessione sull’Italia;
  3. Paradiso, Giustiniano che ci parla dell’Impero e del suo “declino”, foriero di un futuro nebuloso ed oscuro;

La scelta di affidare la riflessione a Giustiniano non è casuale, non solo egli ha dato il “Corpus iuris civilis”, ma questo stesso era stato già richiamato nel Purgatorio come causa delle lotte interne nella lotta politica; inoltre Giustiniano è stato quell’imperatore che, con la guerra contro i Goti ha riportato all’unità l’Impero che Costantino alla sua morte aveva diviso.

Ed è proprio da Costantino che parte, “colpevole” – sebbene Dante non lo dica esplicitamente – d’aver “politicizzato” la Chiesa (Dante credeva nel documento, poi rivelatosi falso della donazione di Costantino ) e di aver diviso l’impero.

Dante quindi fa una lunga carrellata della storia di Roma partendo da:

  1. Pallante, figlio di Evandro, ucciso da Turno, come ci racconta nei versi finali l’Eneide di Virgilio;
  2. La battaglia tra Orazi e Curiazi per il predominio tra Albalonga e Roma;
  3. Il periodo regio con il ratto delle Sabine ed il sacrificio di Lucrezia, violata dal figlio di Tarquinio il Superbo
  4. Il sacco di Roma con Brenno e l’impresa fallimentare di Pirro;
  5. Le guerre contro i Latini vinti da Tito Manlio Torquato e gli Equi, sconfitti da Lucio Quinzio Cincinnato, e il sacrificio dei tre fratelli della famiglia dei Deci ed i trecento Fabi.
  6. La guerra contro Cartagine, il cui comandante Annibale venne battuto da Scipione l’Africano e da Pompeo Magno
  7. L’insegna imperiale in mano Cesare che conquisto la Gallia (qui indicata col nome dei principali fiumi)
  8. Il passaggio del Rubicone: l’uccisione dei pompeiani in Spagna, l’inseguimento di Pompeo a Durazzo la sconfitta a Farsalo, quindi il passaggio nella vecchia Troade e poi di nuovo in Egitto. 
  9. La guerra contro Giuba, il re della Mauritania;
  10. L’uccisione di Cesare ed il potere ad Augusto che uccide a Modena Marco Antonio e a Perugia la sorella col marito.
  11. Potere augusteo chiusura della porta di Giano;
  12. Passaggio a Tiberio 
  13. Tito, diaspora ebraica.

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Quello che tuttavia interessa è che tale carrellata non si esaurisce nella raffigurazione di alcune “cartoline” con i più grandi personaggi della storia di Roma, ma che loro non sono che strumenti del potere di Dio rappresentato dall’aquila imperiale che non solo ideologicamente ma anche sintatticamente fa da soggetto (tu sai ch’el fece; E sai ch’el fé; Sai quel ch’el fé;). E l’aquila lo stemma della Chiesa ed è per questo che inizia questa carrellata deprecando sia i Ghibellini, che se ne appropriano e lo strumentalizzano, sia chi lo combatte.

CANTO VII
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena) 

E’ questo uno dei canti che Benedetto Croce, critico idealistica, avrebbe definito di non poesia, che in altri termini, vuol dire dottrinale: dopo un’incipit in cui riprende il canto VI, non avendo potuto il poeta chiosare le sue parole, in quanto il discorso di Giustiniano lo occupa per intero, lo riprende qui, con un movimento di danza del grande imperatore che, raddoppiando in lui la luminosità lo allontana, nonostante il poeta invitasse Beatrice a parlarle ancora e a risolvere un dubbio che le sue stesse parole gli aveva instillato. Tale dubbio ce lo spiega il Landino (lettore del ‘400 della poesia dantesca): “se giusta fu la morte del Cristo pel peccato dei primi parenti, ingiusta fu la vendetta presa da’ Giudei. E se la vendetta presa contro i Giudei fu giusta, adunque fu ingiusta la morte di Cristo”.

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Beatrice teologa per Dante

Tutto il canto consiste nella risposta di Beatrice che si muove su alcuni concetti derivati dalla patristica:

Adamo “uomo non nato” ha, con il suo peccato, fatto perdere all’intera umanità il Paradiso Terrestre, gettandola in una condizione d’infermità morale intrinseca ad ognuno. Cristo si è fatto uomo, pertanto anch’egli è entrato nell’intera umanità, ma la sua carne è pura in quanto è Dio fatto carne: per cui la sua morte è giusta da un punto di vista puramente umano è ingiusta da un punto di vista divino. Ma era proprio necessario il sacrificio di Cristo? Sì perché è un atto d’amore di Dio verso l’uomo, sacrificando per una nuova libertà umana il proprio figlio. D’altra parte il suo sacrificio e la sua resurrezione dimostrano all’uomo che alla fine dei tempi diverrà immortale, non nell’anima, com’egli stesso dimostra, ma con il corpo.

CANTO VIII
(Cielo III – Venere – Spiriti amanti)

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Il canto prende l’avvio dall’ascesa verso il cielo di Venere di Dante e Beatrice, ascesa testimoniata dal maggiore splendore dell’accompagnatrice. Qui vedono anime luminose girare intorno a maggiore o minore velocità, cantando “Osanna”. Una di esse, vedendo Dante, spinto da carità si mosse, chiedendogli di esprimere ogni sua voglia a voler comunicare, trovandosi egli con colui che aveva scritto: Voi ch’entendo il terzo ciel movete.

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,
rivolsersi a la luce che promessa
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa
E quanta e quale vid’ io lei far piùe
per allegrezza nova che s’accrebbe,
quando parlai, a l’allegrezze sue!
Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava,
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;
ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
carcata più d’incarco non si pogna.
La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».
«Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,
per te si veggia come la vegg’ io,
grata m’è più; e anco quest’ ho caro
perché ’l discerni rimirando in Dio.
Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’ esser può, di dolce seme, amaro».
Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.
Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
E non pur le nature provedute
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:
per che quantunque quest’ arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.
Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;
e ciò esser non può, se li ’ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.
Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».
Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».
«E puot’ elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».
Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
se non vincesse il proveder divino.
Or quel che t’era dietro t’è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t’ammanti.
Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
E se ’l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone;
onde la traccia vostra è fuor di strada»

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Dopo aver rivolto con rispetto gli occhi verso Beatrice e dopo che lei li ebbe rassicurati e confermati del suo assenso, li voltai verso l’anima splendente che si era offerta tanto generosamente e «Dimmi, ti prego, chi siete?», furono le mie parole segnate da ardente desiderio. E quanto più grande e più splendente io vidi quell’anima diventare, per la nuova gioia che s’aggiunse, per le mie parole, alla sua letizia! Così diventata, mi rispose: «Vissi poco tempo sulla terra, e se fossi vissuto più a lungo, non ci sarebbero molti mali che invece avverranno. Mi tiene nascosta a te la mia beatitudine, che emana luce tutto intorno a me e mi vela come quell’animale che si fascia della sua seta. Mi hai amato profondamente, e ne hai avuto buon motivo; poiché se io fossi rimasto in terra, ti avrei dimostrato ben più delle foglie del mio affetto. La regione posta su quella sponda sinistra che si bagna nel Rodano dopo che vi è affluito il Sorga (la Provenza), mi attendeva come suo re al tempo dovuto, e pure quella parte dell’Italia che ha per città Bari, Gaeta e Catona, da dove il Tronto e il Verde sfociano nel mare. Mi risplendeva già nel capo la corona d’Ungheria, il paese che il Danubio bagna dopo aver lasciato le rive della Germania. E la bella Sicilia che si copre di caligine tra capo Pachino e capo Teloro, su quel golfo che subisce il colpo più forte dallo Scirocco, non a causa del gigante Tifeo, ma per le emanazioni di zolfo, ancora oggi attenderebbe come suoi re i discendenti, attraverso me, di Corrado e di Rodolfo, se il malgoverno, che opprime continuamente i popoli sottomessi, non avesse spinto i palermitani all’urlo di rivolta “Muoia, muoia!”. E se mio fratello sapesse prevedere ciò, rifuggirebbe sin d’ora dalla gretta avarizia dei catalani, perché non gli recasse danno, poiché davvero lui, o qualcun altro dovrebbe prendere provvedimenti affinché nel suo regno, già troppo carico (di oneri, problemi, debito), non si pongano altri pesi. la sua indole che discende avara da una stirpe liberale, avrebbe bisogno di collaboratori che non mirassero ad accumulare tesori negli scrigni. «Poiché, o mio signore, io so per fede che la profonda gioia che le tue parole mi infondono tu le vedi in Dio, dove ogni cosa ha inizio e fine, così come io la sente in me, essa mi è ancora più gradita; e anche quest’altra cosa mi è di gran piacere, il fatto che la vedi contemplando in Dio. mi hai già reso felice, e così chiarisci, dato che il tuo discorso mi ha fatto nascere un dubbio, come può essere che da un seme buono nasca una pianta cattiva.» Questo domandai; ed egli mi rispose: «Se io riuscirò a mostrarti una verità, tu avrai di fronte la risposta al dubbio, così come adesso gli volti le spalle. Dio, il sommo bene che muove e allieta i cieli che tu stai ascendendo, predispone che la sua Provvidenza si faccia virtù informante in queste vaste sfere celesti. E nella mente di Dio, che è perfetta di per se stessa, si provvede non solo alla creazione delle nature, ma al loro essere e al loro benessere: per cui qualunque cosa quest’arco scocca, giunge predisposto per uno scopo determinato, come una freccia indirizzata al suo bersaglio. Se non avvenisse così, il cielo che stai percorrendo produrrebbe i suoi effetti in maniera tale che non sarebbero benefici ma dannosi; e questo non può avvenire, a meno che le sfere celesti non siano imperfette e imperfetto il primo mobile che non le ha ben compiute. Vuoi che ti chiarisca di più questa verità?». Risposi: «No davvero, perché so che è impossibile che la natura venga meno in ciò che è necessario». Quindi replicò: «Adesso dimmi: per l’uomo sulla terra, sarebbe peggio se non vivesse in società». Risposi: «Certo, e di questo non chiedo spiegazioni». «E ciò può avvenire, se sulla terra ognuno non vivesse in modo diverso con compiti differenziati? No, se scrive bene il vostro maestro Aristotele». Così giunse ragionando fino a questo punto; quindi concluse: «Pertanto è necessario che le vostre azioni siano varie: per questo uno nasce Solone (legislatore) un altro Serse (guerriero), un altro Melchisedech (sacerdote), e un altro come Dedalo che, volando per il cieli, perse il figlio. Le influenze celesti che si imprimono nella materia terrena, compiono bene la loro funzione, ma non fanno distinzioni tra una casa e l’altra. Così accade che Esaù sia diverso per virtù ingenita da Giacobbe, e Romolo nasce da un genitore di così bassa condizione che viene attribuito (come figlio) a Marte. La natura dei discendenti seguirebbe sempre la stessa strada dei genitori, se la provvidenza divina non fosse più forte. Ora quello che ti era oscuro, è davanti ai tuoi occhi; ma affinché tu sappia che ti ho molto a cuore, desidero che un’ulteriore verità ti ricopra. L’inclinazione naturale dà sempre cattiva prova di sé se si scontra con un destino a lei contrario, proprio come qualsiasi seme che cada fuori dal terreno adatto. E se gli uomini sulla terra considerassero attentamente l’inclinazione che la virtù dei cieli infonde e l’assecondassero, ne otterrebbero persone migliori. Invece voi uomini costringete a diventare ecclesiastico chi è nato con la vocazione del guerriero e innalzate al trono chi ha la natura del predicatore, per cui il cammino umano è fuori dalla retta via».

E’ un canto importante per due motivi:

  1. intimo: probabilmente vi era stata una conoscenza diretta tra Dante e Carlo Martello, nel 1294, ed il giovane principe angioino aveva mostrato un certo interesse per l’attività letteraria del giovane Dante, se lo apostrofa citando una sua poesia; è in questo modo che dobbiamo intendere la presenza del figlio di Carlo II d’Angiò nel cielo degli spiriti amanti, cioè quello di un affetto fraterno tra due giovani ragazzi.
  2. L’aspetto più specificatamente teologico, in cui il nostro dà parola a Carlo Martello che spiegherà aspetti teologici che tuttavia avranno esiti terreni e quindi politici.

Il principe Carlo Martello, su cui è centrato l’intero canto, muore giovanissimo: nasce infatti nel 1271 e muore nel 1295 ad appena 24 anni. Dante percepisce in lui colui che avrebbe potuto portare la pace in Italia: si sperava infatti in un matrimonio tra lui, erede angioino con la figlia Clemenza di Rodolfo d’Asburgo, cioè mettere d’accordo i guelfi alleati storici degli Angioini francesi con i ghibellini dalla parte degli Asburgo. La morte precoce di Carlo fa fallire il piano di pace ed egli, che dall’alto dei cieli può osservare il prosieguo della storia, non può che vederla piena di errori per colpa del padre che ha così mal governato in Sicilia da dar vita alla ribellione popolare (i Vespri siciliani del 1282) e del fratello, che non reso edotto dello sbaglio paterno, continua a circondarsi di collaboratori avidi ed incapaci. Da qui sorge il dubbio dantesco: come può nascere da un ramo sano (quello degli avi angioini, così liberali e cortesi) una mala pianta come il fratello Roberto? Vi è un ordine cosmico voluto da Dio, amministrato grazie alla mediazione delle sfere celesti. Quest’ultime influiscono sul mondo terreno cercando di imprimergli armoniosità. Essendo l’uomo un essere sociale (riprende la filosofia aristotelica) tale armonia si ottiene attraverso la varietà che ogni cives rappresenta all’interno di essa, facendo ognuno di essi un’attività diversa ma che utile agli altri rende unita l’intera civitas. Se ne deduce che ogni uomo, attraverso la propria indole, dovrebbe scegliere il compito che la divina provvidenza ha fatto piovere dal cielo, non “ereditarlo”, poiché tale indole non si trasmette di padre in figlio. Da qui l’amara constatazione finale della “ruina” dell’Italia dantesca: quella di un re che fa le veci di un ecclestiatico e di quest’ultimo che riceve la corona regale.

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CANTO IX
(Cielo III – Venere – Spiriti amanti)

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Il canto non interrompe quello precedente: stesso cielo e stessi beati. Colui che aveva terminato di parlare, continua anche ora con una piccola chiosa che profetizza un futuro infausto per i suoi degeneri discendenti. Ed è proprio questo il motivo che innerva l’intero canto che viene scandito da tre personaggi, appunto Carlo Martello come si è detto, Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia e dalle rispettive invettive.
Cunizza, dopo il topos delle descrizioni storiche geografiche, sottolinea la tirannide luciferina di suo fratello Ezzelino e, dopo aver narrato come abbia trasceso dall’amore terreno a quello spirituale, profetizzando (chiaramente post eventu), la sonora sconfitta che, nel 1314, i Padovani subiranno dai Vicentini e Veronesi.
Subentra quindi il terzo personaggio, il trovatore Folchetto da Marsiglia, il cui splendore riflette il gaudio della raggiunta beatitudine. Anche lui ha sublimato l’amore terreno in amore celeste, quindi presenta a Dante l’anima più alta e luminosa in quel cielo, quella della prostituta Raab, la prima a raggiungere il Paradiso dopo la discesa di Cristo, lei che per prima conquistò la città di Gerico allo stato d’Israele. Il compito del trovatore è infatti quello di sottolineare come i pontefici ed i cardinali siano disinteressati a quella terra, presi solo dalla cupidigia di potere e di denaro. Folchetto nel parlare del personaggio biblico sottolinea come nel cielo nel quale essi sono, come naturalmente quelli sui quali già hanno hanno attraversato la luminosità di Dio, finisce il cono d’ombra proiettato dalla terra, che in un certo qual modo “oscura” la luminosità divina.
 
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Renato Guttuso: Cunizza da Romano

CANTO X
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

Con una lunga precisazione astronomica di ben 27 versi, Dante ci comunica che abbandonati il cielo di Venere lui e Beatrice ascendono verso il cielo del Sole, per dirla con le ultime parole di Folchetto, abbandonano i cieli nei quali la terra ha ancora influenza (Luna, mancanti ai voti; Mercurio, Spiriti attivi per gloria terrena; Venere, Spiriti amanti) per innalzarli verso la sapienza che “illuminando” loro, glorificano Dio. Dodici di essi, come gli apostoli, brillanti più del sole, si presentano a Dante e a Beatrice ponendosi in cerchio intorno a loro, danzando e cantando.
 
 
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Da una delle luci esce una voce, quella di Tommaso d’Aquino, che con estrema semplicità, non prima di aver nominato lo spirito a lui accanto di Alberto Magno, si presenta come uno de la santa greggia che Domenico mena per cammino u’ ben s’impingua se non si vaneggia (dell’ordine che San Domenico guida con la sua regola, dove ci si arricchisce se non si va dietro le case vane). Quindi invita Dante a seguire con lo sguardo le anime che lui nomina: Francesco Graziano (maestro allo Studio di Bologna, che pose le basi del diritto canonico); Pietro Lombardo (teologo, autore dei Libri quattuor Sententiarum, testo ufficiale della dogmatica cristiana); Salomone, autore del Cantico dei Cantici; Dionigi L’Areopagita, il cui libro De coelesti hierarchia venne utilizzato da Dante per la questione delle Intelligenze motrici; Paolo Orosio, difensore nei suoi scritti dei christiana tempora; Severino Boezio, il suo De consolatione philosophiae fu uno dei testi più importanti del medioevo; Isidoro di Siviglia; Beda, il Venerabile, monaco benedettino sassone; Riccardo di San Vittore, agostiniano scozzese e Sigieri di Bramante, il più grande rappresentante dell’averroismo latino. Su quest’ultimo s’accanisce la critica dantesca: infatti Sigieri di Bramante venne combattuto proprio da Tommaso che lo fece processare dall’Inquisizione (vi era in lui la pericolosa teoria della separazione tra filosofia e teologia, pur lasciando a quest’ultima l’ultimo approdo per una verità sicura). Ci piace poter dire che “in questo cielo intellettualmente così aperto, così libero, così potentemente invaso dalla luce della ragione, Dante abbia voluto fare posto anche a chi quella ragione in buona fede si era sentito di seguire fino in fondo, anche attirandosi disapprovazione, odio, avversione. Piacerebbe poter dire che la carità di Dio sia più grande, più divinamente indulgente, delle scuole di pensiero filosofiche.” (Riccardo Bruscagli)
 
 
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CANTO XI
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)
 

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
«Così com’ io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,
ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
e qui è uopo che ben si distingua.

thomas.jpgSan Tommaso

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ ad un fine fur l’opere sue.
Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro.
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;
e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.
Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.
Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.
Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta
“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».

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Giotto: L’approvazione dell’ordine di San Francesco

Oh uomini, quanto sono insensate le vostre preoccupazioni, quanto sono imperfetti i vostri ragionamenti, che vi fanno rivolgere agli interessi terreni! Chi si occupa della scienza del diritto e chi della medicina, chi insegue qualche carica religiosa senza averne vocazione e chi il dominio politico ottenuto con la violenza o con l’inganno, chi si occupa di rubare e chi segue gli affari civili, chi si affanna intento a soddisfare il piacere della carne e chi si dedica all’ozio, mentre io, libero da tutti questi vani interessi terreni, lassù in cielo, in compagnia di Beatrice, venivo tanto gloriosamente accolto in Paradiso. Dopo che tutte le anime beate furono tornate nel punto del cerchio in cui si trovavano inizialmente, si fermarono, fissandosi come una candele in un candeliere. Ed io sentii dentro quella luce, che mi aveva prima parlato, sorridendo e diventando ancora più pura, più luminosa, ricominciare a parlare: «Dal momento che la mia luminosità deriva dalla luce di Dio, così, guardando in essa, posso conoscere l’origine di tutti i tuoi pensieri. Tu hai dei dubbi e vorresti che vengano meglio spiegate, nel linguaggio più chiaro e più semplice possibile, così da agevolare la tua comprensione, le mie parole, quando prima ti ho detto: “Dove si ingrassa bene”, e anche dove dissi: “Non nacque il secondo”; ed ora è necessario che ti spieghi meglio le due affermazioni. La provvidenza divina, che regola il mondo con quella sapienza che la facoltà intellettiva di ogni creatura non può arrivare a comprendere a fondo, affinché potesse andare incontro al suo tenero amante la sposa, la Chiesa, di colui, Cristo, che con alte grida la prese in sposa versando il proprio sangue sulla croce, più sicura di sé ed anche più fedele a lui, istituì due uomini eccellenti che la servissero e che dall’una (nella sapienza) e dall’altra parte (nella carità) le facessero da guida. L’uno, San Francesco, fu simile ad un angelo Serafino nel suo ardore di carità; l’altro, San Domenico, fu in Terra uno splendore di sapienza come un Cherubino. Parlerò solo del primo, dal momento che di entrambi si parla comunque se si loda uno qualunque dei due, poiché le loro opere furono indirizzate verso un medesimo fine. Tra il fiume Tupino e il corso d’acqua, il fiume Chiascio, che scende dal colle prescelto da Ubaldo per la sua vita da eremita, si trova il fertile versante dell’alto monte Subasio, dal quale Perugia riceve, a seconda delle stagioni, freddo e caldo da Porta a Sole; mentre dall’altro lato sono oppresse da quell’alto monte le città di Nocera e Gualdo Tadino. Su questo versante, dalla parte in cui la montagna diviene meno ripida, nacque un uomo destinato ad illuminare il mondo, tanto luminoso e fertile quanto il sole durante l’equinozio di primavera. Perciò, chi parla di quel luogo non dica Assisi, perché direbbe troppo poco di esso, ma dica Oriente, origine del sole, se vuole essere preciso. Non era ancora molto in là con gli anni (lontano dalla nascita), che cominciò a fare sentire alla sua patria i benefici della sua grande virtù; poiché, ancora in giovane età, per amore di una donna, la Povertà, si oppose al proprio padre, una donna che, come si fa con la morte, nessuno ha il piacere ad accogliere; e così, di fronte alla curia episcopale di Assisi ed in presenza del padre, si unì con lei in matrimonio; e l’amo poi sempre di più giorno dopo giorno. Questa donna, rimasta vedova del suo primo marito, Gesù, per più di mille anni era stato trascurata e disprezzata, e fino all’arrivo di questo uomo era rimasta senza pretendenti; non valse a niente l’aver appreso della sicurezza che poté godere con lei, in compagnia anche di Amiclate, Cesare, colui che da tutto il mondo era temuto; non le valse a niente neanche l’essere stata tanto fedele e coraggiosa, laddove Maria era dovuta rimanere giù, da salire e piangere con Cristo dall’alto della croce. Ma affinché non continui in questo discorso troppo oscuro, San Francesco e la Povertà sono i due amanti ai quali faccio riferimento nel mio discorso. La loro concordia e i loro volti lieti, l’amore, l’ammirazione e i loro dolci sguardi davano origini e pensieri santi, puri; tanto che il venerabile Bernardo fu il primo che si tolse i sandali e dietro ad una tale pace corse e, per correndo, gli sembrava di essere in ritardo. Oh ricchezza sconosciuta! Oh grande abbondanza di virtù! Si tolse i sandali Egidio e se li tolse anche Silvestro per seguire lo sposo, Francesco, tanto piacque la sposa, la Povertà. Francesco, padre e maestro, andò quindi a Roma dal papa con la sua donna, Povertà, e con quel gruppo di fratelli che già si legavano alla vita l’umile cordone. Non abbassò lo sguardo per la vergogna di essere figlio di un semplice mercante, Pietro Bernardone, né per il proprio abito tanto spregevole da suscitare meraviglia; ma, al contrario, dichiarò con parole dignitose la propria dura regola religiosa a papa Innocenzo III, e da lui ricevette la prima approvazione per il nuovo ordine. Dopo che crebbe in numero il gruppo di seguaci senza beni materiali, sul suo esempio, la cui incredibile vita sarebbe degna di essere cantata dagli angeli del Paradiso, un seconda corona, una seconda approvazione, fu data dallo Spirito Santo, tramite papa Onorio III, al santo volere di questo pastore, all’ordine di San Francesco. E dopo che, per l’intenso desiderio di testimoniare, anche con il proprio sacrificio, la fedeltà a Gesù, in presenza del superbo Sultano d’Egitto predicò la dottrina di Cristo e dei suoi apostoli, trovando non ancora matura per la conversione quella gente, per non rimanere senza fare nulla, ritornò in Italia, dove la sua azione prometteva maggiori frutti, sulla cima rocciosa del monte Verna, tra la sorgente del Tevere e quella dell’Arno, e prese da Cristo le stigmate, l’ultimo sigillo al suo operato, che portò sul proprio corpo per due anni, fino alla morte. Quando a Dio, che lo aveva prescelto per compiere tanto bene, piacque di condurlo a sé per dargli la ricompensa che si era meritato vivendo, per vocazione, nella povertà, ai frati suoi seguaci, come legittimi eredi, raccomandò la sua più cara donna, la Povertà, e comandò loro di amarla fedelmente; e dal grembo di lei l’anima gloriosa di Francesco volle separarsi, per tornare al suo creatore, a Dio, e per il suo corpo non volle altro come sepoltura, se non il grembo di lei, posto nudo a terra. Pensa dunque ora a chi fu colui che fu prescelto come degno collega di San Francesco per mantenere la barca di Pietro, la Chiesa, sulla giusta rotta anche in alto mare, nelle grosse difficoltà; questo uomo fu il nostro patriarca, San Domenico, il fondatore del nostro ordine; perciò chi segue i suoi insegnamenti puoi ben capire quale ricco tesoro spirituale acquisisca. Ma il suo gregge è ormai diventato avido di un nuovo nutrimento, tanto che non può che disperdersi per diversi pascoli selvatici; e quanto più le sue pecorelle si allontanano per vagabondare lontano da lui, dai suoi insegnamenti, tanto più ritornano poi all’ovile prive di latte, di ricchezza di spirito. Ci sono anche frati che temono le conseguenze dell’allontanamento e si stringono quindi al pastore; ma sono così pochi che occorre poco panno per cucire i loro mantelli. Ora, se le mie parole non sono di difficile comprensione, se le hai ascoltate attentamente, se richiami alla mente ciò che ti ho detto, sarà stato in parte soddisfatto il tuo desiderio di sapere, perché vedrai come si stia guastando la pianta dell’ordine domenicano e capirai il significato della frase oscura “in cui si riceve un ricco nutrimento spirituale, se non ci si perde in cose futili”».

E’ il canto di San Francesco, qui nel cielo del Sole, dettato dalle parole di un altissimo rappresentante di un ordine diverso, a sottolineare ancora una volta come in questa cantica sia centrale il tema della carità. 

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Beato Angelico: San Domenico e San Francesco

Il canto inizia con una riflessione dantesca che se da una parte si richiama fortemente al verso di Persio O cura hominum! o quantum est in rebus inane non dimentica tuttavia il concetto ecclesiastico della vanitas vanitatum delle cose terrene, messa in relazione alla gioia delle danze e dei canti espressi dagli spiriti sapienti. Una volta tornate al punto del cerchio in cui erano, san Tommaso riprende il discorso dalla frase cui si era interrotto u’ ben s’impingua se non si vaneggia (dove ci si arricchisce se non si va dietro le case vane), per giungere al panegirico si San Francesco.

Per Dante non era semplice parlare del Santo d’Assisi: circolavano già leggende sulla sua vita (il suo parlare agli animali, il bacio al lebbroso) e Giotto aveva già affrescato la Basilica Superiore della sua città descrivendo gli aspetti più noti e favolistici della sua vita. Si trattava dunque di scegliere quale immagine e come inserirla all’interno di un discorso più ampio sul ruolo della Chiesa in quel preciso momento storico. 

Per questo Dante sceglie, foss’anche in modo polemico con la Chiesa (da Bonifacio VIII a Celestino V) il tema della povertà e lo fa scegliendo la via della metafora: egli infatti come un cavaliere cortese, contro la volontà paterna, innamoratosi di madonna povertà, si unisce a lei, rinunciando a tutto e si mette al suo servizio. Quindi, mostrando ad ognuno la loro saldezza, riescono ad unire intorno a sé un gran numero di seguaci. E’ curioso il termine con cui Dante si riferisce parlando della richiesta ad Innocenzo III per l’approvazione del suo ordine: regalmente contrariamente alle fonti che parlano di umiltà humiliter. Non dimentichiamoci che egli viene descritto come cavaliere e pertanto l’avverbio tende a sottolineare la sua magnificenza e generosità. Quindi ci riferisce del suo viaggio in Medio Oriente (le fonti storiche contraddicono qui il poeta, affermando che Francesco venne accolto con onore e non con superbia), da dove ritornò non riuscendo a convertire quelle popolazioni; la creazione dell’ordine, le stigmate e la morte sulla nuda terra.

1280px-Nicodemo_ferrucci,_morte_di_san_francesco,_1620-24_ca._03.jpgNicodemo Ferrucci: La morte di Francesco

A ripercorrere il canto non troviamo il Francesco delle Laudes creaturarum, nessun verso che lo richiami, se non appunto il voler rientrare in contatto con la terra, quasi a significare quel contatto con la natura che ha sempre caratterizzato la vita e l’opera del santo.

CANTO XII
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

canto-xii

Gustave Doré: XII canto

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.
Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori,
e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s’allaga:
così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.
Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi;
del cor de l’una de le luci nove
si mosse voce, che l’ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove;
e cominciò: «L’amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l’altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella.
Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.
L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire,
non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga:
dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;
e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta.
Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.
Ben parve messo e famigliar di Cristo:
ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.
Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: ’Io son venuto a questo’.
Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!
Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.
Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.
La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;
e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l’arca li sia tolta.
Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;
ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio
, che ne’ grandi offici

sempre pospuosi la sinistra cura.
Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Natàn profeta e ’l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch’a la prim’ arte degnò porre mano.
Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia».

unnamedSan Domenico

Non appena la fiamma benedetta di San Tommaso ebbe pronunciato l’ultima parola, il cerchio delle anime sante ricominciò a ruotare; nella sua danza non finì il primo giro che fu subito circondato da un altro cerchio di anime, e le si accordò sia nel movimento che nel canto; canto così superiore alla nostra poesia e alle sirene in quei dolci strumenti,  quanto la luce diretta rispetto a quella riflessa. Come si incurvano nel cielo attraverso una nuvola trasparente due arcobaleni concentrici e dello stesso colore, quando Giunone ordina alla sua messaggera Iride, e l’arco esterno nasce da quello interno, come la voce dell’errabonda ninfa Eco che per amore si consumò come fa il sole con la nebbia, e rendono la gente della Terra certa che la terra non verrà mai più allagata, grazie al patto che Dio fece con Noè; e così quei eterni cerchi giravano intorno a noi, e così quella più esterna si adeguò a quella interna. Dopo che la danza ed il grande ardore del canto, svolti all’unisono e con un rispondersi a vicenda nello splendore tra quelli luci beate e caritatevoli, si arrestarono nello stesso momento e con volontà unanime, come solo gli occhi, reagendo allo stimolo che li stimola, riescono a chiudersi e ad aprirsi insieme; dall’interno di una delle luci appena arrivate uscì una voce, che mi fece somigliare all’ago della bussola, nel mio voltarmi verso di lei; e cominciò: «La carità, che mi fa risplendere di bellezza, mi induce a parlarti del fondatore dell’altro ordine (S. Domenico), che ha spinto altri a tessere le lodi del fondatore del mio di ordine (San Francesco). E’ giusto che dove si parli di uno si ricordi anche l’altro: in modo che, così come essi combatterono per lo stesso fine, così risplenda insieme la loro gloria. L’esercito dei cristiani, che fu rifondata ad un così caro prezzo, seguiva lenta, dubbiosa e scarsa l’insegna della Santa Chiesa quando Dio, imperatore eterno, venne in soccorso ai suoi soldati, che erano incerti del futuro, non perché degni, ma spinto solo dalla sua carità; e, come è già stato detto, venne in soccorso alla Chiesa con due grandi combattenti, intorno alle cui opere e parole si raccolse la cristianità smarrita. In quella parte del terra, dove il dolce vento di Zefiro si leva a far germogliare le verdi foglie con cui si riveste l’Europa, non molto lontano dalle coste del mare, dietro le quali, dopo il suo lungo corso estivo, il sole tramonta per tutti gli uomini, si trova la fortunata città di Calaruega, protetta dalla gloriosa insegna nella quale appaiono due leoni uno in alto e uno in basso: in quella città vi nacque l’appassionato amante della fede cristiana, il santo atleta benevolo verso i suoi simili e spietato verso i nemici della fede; e non appena creata, la sua anima fu riempita di virtù tale da rendere, quando ancora era nel suo ventre, sua madre profeta. Dopo che furono celebrate le nozze con la Fede alla fonte battesimale, dove si scambiarono reciproca salvezza, la sua madrina, che diede il consenso per lui al battesimo, vide in sogno il mirabile risultato che avrebbe dovuto compiersi attraverso lui ed i suoi eredi; e poiché diventasse ciò che era stato concepito da Dio per lui, si mosse lo Spirito a chiamarlo con l’aggettivo  il suo nome potesse esprimere la sua natura, dal cielo discese l’ispirazione di chiamarlo con l’aggettivo possessivo a cui egli apparteneva nella sua interezza (anima e corpo). Fu chiamato Domenico; ed io ne parlo come dell’agricoltore che Cristo scelse per aiutarlo a coltivare il suo orto. Giustamente apparve inviato e servo di Cristo, tanto che il suo primo desiderio che egli manifestò fu il primo consiglio che gli diede Cristo (umiltà e povertà).  Spesse volte fu trovato giacere silenzioso e sveglio a terra dalla sua balia, come se dicesse: “Io sono venuto al mondo per questo.” Davvero fu Felice suo padre (nel possedere tale nome)! Oh veramente una Giovanna sua madre, se davvero si interpreta il significato del suo nome come “Grazia di Dio”! Non per onori terreni , per cui oggi ci si affanna a studiare diritto ecclesiastico di Enrico di Susa, detto l’Ostiense, e Taddeo d’Alderotto, famoso medico, ma solo per amore del cibo spirituale Domenico diventò in poco tempo un gran teologo; tanto che iniziò subito a vegliare, girandogli intorno, sulla vigna di Dio (la Chiesa), che presto si secca se il vignaiolo è cattivo. Ed alla Santa Sede, che in passato fu più generosa verso i poveri onesti, non per colpa sua ma per colpa di colui che la occupa e che tradisce il suo compito, domandò non le rendite della prima curia libera, non le decime, che sono dei poveri di Dio, ma chiese invece soltanto il permesso di combattere per quella fede da cui nacquero le ventiquattro anime che ora ti circondano. Poi, con sapienza religiosa ed insieme con zelo, con il mandato del Papa iniziò la sua opera come un torrente sospinto da una corrente di cascata; e contro l’erbaccia dell’eresia scagliò il proprio impeto, più violentemente laddove trovava una maggiore resistenza. Da lui si staccarono poi diversi fiumi, che arano il campo della Chiesa, in modo che le sue tenere piante siano più resistenti. Se dunque tale fu una delle due ruote della biga (san Domenico) con cui la Santa Chiesa si difese e vinse in battaglia la sua guerra civile contro gli eretici, dovresti ben comprendere l’eccellenza dell’altra ruota (San Francesco), di cui S. Tommaso ti ha parlato con tanta cortesia. Ma la strada tracciata dalla parte esterna sua ruota è abbandonata, cosicché c’è ora la muffa là dove prima c’era il tartaro. I suoi seguaci di S. Francesco, hanno talmente cambiato direzione, da camminare in senso contrario, e presto ci si accorgerà della cattiva coltivazione del raccolto, quando l’erbaccia si lamenterà  di non poter entrare nel granaio (quando lo sviamento dei Frati non permetterà loro di entrare in Paradiso). Credo che chi cercasse tra i francescani, foglio per foglio, come in un libro, potrebbe ancora trovare qualche pagina su cui poter leggere “Io sono umile come ero solito essere”; ma non saranno certamente i francescani seguaci di Ubertino da Casale né di Matteo d’Acquasparta, da dove proviene chi la Regola la elude e chi la irrigidisce. Io sono l’anima di Bonaventura da Bagnoregio, e rispetto alle grandi cariche ecclesiastiche che rivestii, misi sempre in secondo piano la cura dei beni terreni. Ci sono qui anche Illuminato e Agostino, che furono i primi poverelli scalzi, ad essere benvoluti da Dio per il rispetto della Regola. Qui con loro ci sono anche Ugo di San Vittore, Pietro Mangiatore e Pietro Ispano, la cui fama risplende ancora nei dodici libri delle Summulae logicales; il profeta Natan ed il vescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, Anselmo d’Aosta e quel Donato che si occupò della prima delle arti liberali, la grammatica. C’è qui Rabano Mauro, e risplende al mio fianco l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di spirito profetico. Ad elogiare un così grande paladino della fede mi spinse l’ardente cortesia di San Tommaso ed il suo sapiente discorso; che seppe accendere di gioia anche queste anime che sono in mia compagnia».

maxresdefaultFrancesco e Domenico

Questo canto, insieme all’XI, dà vita ad una vero e proprio dittico, in quanto risulta evidente come Dante li abbia concepiti specularmente a partire dalla definizione di entrambi, come due pilastri voluti da Dio, per difendere la Chiesa.

La complementarietà dei due canti si può così riassumere:

  1. Panegirico rispettivamente di Francesco nell’XI e San Domenico nel XII: parallelamente, ma incrociata, la polemica degli ordini di cui loro sono i fondatori;
  2. Sono costruiti a chiasmo: San Tommaso, domenicano, tesse le lodi di Francesco, San Bonaventura, francescano, tesse le lodi di Domenico
  3. Le biografie e la polemica sono parallele: premessa nella prima parte del canto, biografie e loro azioni nella parte centrale, invettiva per la degenerazione per l’ordine di chi parla ultima parte;
  4. Il compito dei due santi parallelo: combattere la corruzione e l’eresia;
  5. I due matrimoni: Francesco con la povertà, Domenico con la Fede.

Beato Angelico San Domenico adora il crocefissoSan Domenico

Certo la biografia di Domenico presenta meno curiosità di quelle di Francesco, per cui una maggiore insistenza sul significato della nascita; anche il linguaggio usa un repertorio lessicale diverso, nel primo prevale il concetto di cortesia, d’amore, dove la Povertà assume le caratteristiche di una donna fedele; nel secondo il registro è maggiormente militaresco, a sottolineare la battaglia che Domenico deve compiere per liberare la Chiesa dal peccato.

CANTO XIII
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

San-Tommaso-dAquino-1San Tommaso

Il canto XIII è una dei maggiormente dottrinali del Paradiso dantesco, che ha diviso la critica definendolo da parte di alcuni “come il più povero” (Momigliano) altri come “dei più appassionati e appassionanti” (Toffanin). Questo alla luce di una lunghissima introduzione astronomica (tutta infarcita di sapienza medievale), in cui si parte dalle ventiquattro stelle, scisse in due nuove costellazioni, quindi esse si trasformano a formare due figure geometriche in movimento, come cerchi rotanti in senso contrario, che evocano  la trinità e l’incarnazione. Il loro armonioso canto cessa con sincronia insieme alla danza che lo accompagnava. La parte centrale è occupata da san Tommaso, che spiega a Dante la frase, apparsa nel X canto in cui parlando della stella in cui rifulge l’anima di Salomone, afferma che entro v’è l’alta mente u’ si profondo / saver fu messo, che, se ‘l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo. Infatti come può l’anima di Salomone essere la più sapiente del mondo? Tale qualità non spetta infatti al primo uomo, prima di essere cacciato dal Paradiso Terrestre? o meglio ancora a Gesù in qualità di uomo? La risposta riguarda una “sapienza relativa”: certamente Salomone non è il più sapiente di tutti gli uomini, lo è di tutti i re. Ciò porta Tommaso ad ammonire l’uomo riguardo la comprensione delle cose divine, che dovrebbero mostrare maggiore prudenza e a non incorrere negli errori della filosofia antica o degli eretici moderni le cui conclusioni sembrano non avere alcuna differenza con i chiacchiericci popolari.

CANTO XIV
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti

Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

E’ un canto di passaggio in cui Dante attraversa il cielo del Sole dove ha parlato con gli spiriti sapienti di Domenico e Tommaso e il cielo di Marte dove gli appariranno gli spiriti combattenti per la fede in cui incontrerà Cacciaguida, figura centrale dell’intero percorso paradisiaco dantesco. Prima di questa parte importantissima, ultimo tra i sapienti, Dante vedrà l’anima di Salomone, evocato alla fine del canto precedente, re biblico di leggendaria sapienza, che risolverà un dubbio dantesco, rivoltogli con voce soave da Beatrice: dopo la resurrezione dei corpi le anime beate conserveranno la luminosità paradisiaca eternamente? Se ciò avvenisse come potranno i corpi sostenere una tale intensità di luce e come potrà la vista sostenere un così forte bagliore? 

E’ evidente che qui Dante sposi la teoria classica della resurrezione in cui i corpi, il giorno del giudizio universale, materialmente si riuniranno alle anime conservando intatte le caratteristiche fisiche, sebbene perfezionate al massimo grado. Saranno pertanto corpi veri, riconoscibili, ma irradianti luce divina. La gioia delle anime a questo annuncio, denota una carica di umanità che trascende il dato puramente teologico: la certezza di ridiventare “individui riconoscibili”, offre un nuovo modo con cui i credenti possono pensare ai loro cari nell’aldilà, dando maggiore forza e maggiore letizia immaginandoli nel loro essere a fianco a Dio.

Si giunge quindi alla seconda parte del canto, l’ascesa al cielo di Marte: essa inizia nel cielo del Sole, quando le anime dei sapienti si dispongono in cerchio emanando un così forte splendore che Dante deve chinare il viso; riacquistata la forza di risollevare lo sguardo, attraverso lo sguardo di Beatrice, si rende conto di ascendere al cielo rosseggiante di Marte, in cui vede le anime luminose muoversi lungo i bracci di una croce, sulla quale lampeggia per un attimo la passione di Cristo, che provoca un canto di lode da parte di tutti i beati. 

CANTO XV
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

All’improvviso il santo coro si tace, per permettere a Dante di poter dialogare con le anime beate. Un’anima si stacca, percorrendo un braccio della croce, pronunciando:

O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Dei, sibï tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa

attirando l’attenzione del poeta. Dapprima parla in modo per cui lo stesso Dante non riesce a comprenderlo, cioè in un linguaggio che trascende la capacità umana, quindi, torna ad un eloquio comprensibile:

(…)
la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, 
che nel mio seme se’ tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume 
du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume 
in ch’io ti parlo, mercè di colei 
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei 
da quel ch’è primo, così come raia 
da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei;
e però ch’io mi sia e perch’io paia
più gaudioso a te, non mi domandi, 
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi 
di questa vita miran ne lo speglio 
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché ‘l sacro amore in che io veglio
con perpetua vista e che m’asseta 
di dolce disiar, s’adempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta 
suoni la volontà, suoni ‘l disio, 
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio 
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno 
che fece crescer l’ali al voler mio.
Poi cominciai così: «L’affetto e ‘l senno,
come la prima equalità v’apparse, 
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ‘l sol che v’allumò e arse, 
col caldo e con la luce è sì iguali, 
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali, 
per la cagion ch’a voi è manifesta, 
diversamente son pennuti in ali;
ond’io, che son mortal, mi sento in questa 
disagguaglianza, e però non ringrazio 
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia preziosa ingemmi, 
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi 
pur aspettando, io fui la tua radice»: 
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’anni e piùe 
girato ha ‘l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue: 
ben si convien che la lunga fatica 
tu li raccorci con l’opere tue.

Quindi l’anima racconta la bellezza e l’alta moralità della Firenze ai tempi del bisnonno di Dante, quando non si conosceva ancora l’arroganza del potere mostrata attraverso il lusso ed i costumi erano morigerati. Ne furono testimonianza i nobili del tempo e le loro donne con abiti semplici e con gesti legati all’amore familiare.

A così riposato, a così bello 
viver di cittadini, a così fida 
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo 
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo; 
mia donna venne a me di val di Pado, 
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo ‘mperador Currado; 
ed el mi cinse de la sua milizia, 
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia 
di quella legge il cui popolo usurpa, 
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu’ io da quella gente turpa 
disviluppato dal mondo fallace, 
lo cui amor molt’anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».

O sangue mio, o sovrabbondante grazia di Dio, a chi mai come a te la porta de cielo è stata dischiusa due volte?

(…) la prima cosa che compresi fu quando disse: «Benedetto sia tu, o Dio uno e trino, che sei tanto cortese verso il mio discendente!» Poi continuò: «Tu, o figlio, hai finalmente esaudito in questa luce in cui io ti parlo il gradito e lontano desiderio che avevo tratto leggendo dal gran volume (la mente divina) dove ogni cosa è immutabile, grazie a colei (Beatrice) che ti ha dato le ali per questo alto volo. Tu credi che il tuo pensiero venga a me da quello divino, così come dall’uno, se lo si conosce, derivano il cinque e il sei; e dunque non mi chiedi chi sono e perché sembri più felice per la tua presenza, rispetto a chiunque altro in questa beata schiera. Tu pensi il vero; infatti le anime più e meno beate del Paradiso osservano nella mente divina, come in uno specchio, nella quale, prima ancora che tu pensi, si riflette il tuo pensiero; tuttavia, affinché l’ardore di carità che io provo sempre grazie alla continua contemplazione di Dio e che mi accende di dolce desiderio si adempia perfettamente, la tua voce sicura, senza incertezze e lieta esprima la tua volontà, faccia risuonare il desiderio al quale la mia risposta è stata già decretata!» Io mi rivolsi a Beatrice e lei capì prima che parlassi, e mi sorrise con un cenno che fece crescere le ali al mio desiderio. Poi cominciai a dire: «Il sentimento e l’intelletto, non appena Dio vi apparse, si fecero per voi dello stesso peso, poiché il sole (Dio) che vi illuminò e scaldò è uguale nel suo sapere e nel suo amore, al punto che ogni altra uguaglianza è imperfetta. Ma sentimento e intelletto nei mortali hanno mezzi ben diversi, per la ragione che vi è nota; perciò io, che sono mortale, mi sento in questa insufficienza, dunque ringrazio solo col cuore per la festosa accoglienza. Ora ti supplico, splendente topazio che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce), di rivelarmi il tuo nome». Egli iniziò così a rispondermi: «O mio discendente, in cui mi sono compiaciuto anche solo aspettando, io fui il capostipite della tua famiglia». Poi proseguì: «Colui dal quale deriva il tuo cognome e che gira da più di cent’anni nella I Cornice del Purgatorio, fu mio figlio e il tuo bisnonno: è opportuno che tu abbrevi la sua lunga fatica con le tue preghiere. (…)  In una convivenza così pacifica e bella, in una comunità così unita di cittadini, in una così bella dimora mi fece nascere mia madre, invocando Maria nelle grida del parto; e nel vostro antico Battistero di S. Giovanni fui battezzato col nome di Cacciaguida. Miei fratelli furono Moronto ed Eliseo; mia moglie venne dalla Valpadana, e da lei ebbe origine il tuo cognome, Alighieri. Poi seguii l’imperatore Corrado III; ed egli mi fece cavaliere, a tal punto gli piacqui con il mio retto operare. Lo seguii in Terrasanta, contro la malvagità di quella religione (l’Islam) il cui popolo usurpa quei luoghi, a causa della trascuratezza dei pontefici. Lì quella gente maledetta mi strappò dal mondo fallace (mi uccise), il cui amore svia molte anime; e venni da quel martirio direttamente a questa pace».
 
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Giovanni Di Paolo: Canto XV

E’ questo il primo di una triade di canti dedicati all’antenato di Dante Cacciaguida. L’importanza di questa figura all’interno del percorso itinerale dantesco è dapprima strutturale, in quanto tale triade è posta al centro del Paradiso, quindi in essa convergono e si completano alcuni interrogativi del poeta sul compito e sul futuro che l’attende. Non è un caso che Dante abbia voluto riferirsi ad un antenato che era morto per la fede e non al padre oscuro mercante. Il compito di Cacciaguida di combattere e vincere, pur vinto, contro l’infedele diventa quindi exemplum del compito del poeta che deve combattere per riportare Firenze e i suoi concittadini alla moralità di un tempo, vero specchio di un retto modus vivendi che porta alla beatitudine. 

Tutto questo avviene nella narrazione attraverso tre fasi:

  • l’apostrofe latina che sottolinea l’estrema letizia con cui Cacciaguida accoglie un suo discendente cui Dio ha concesso la somma grazia di percorrere da vivo i suoi regni;
  • la descrizione della Fiorenza dentro la cerchia antica che fa da contrasto alla boria dei costumi attuali, resa ancora più incisiva dalla nostalgia della sua patria perduta per via dell’esilio;
  • lo svelamento del nome e in poche parole il suo martirio, martirio che acquista per l’eternità la pace dei beati.

CANTO XVI
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

E’ questo il secondo momento dedicato a Cacciaguida, che lo ha lasciato ricordando, quasi gloriandosi, il suo martirio. Ciò permette a Dante di riflettere  sulla nobiltà di sangue, di cui non ci deve vergognare in terra se è motivo di orgoglio in cielo, ma nel contempo non dev’essere fondata sull’eredità del nome, se non si fortifica con opere degne, come quella di Cacciaguida morto per la fede.

Quindi il nostro domanda come era Firenze ai tempi della sua gioventù: 

dissemi: «Da quel dì che fu detto ’Ave’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.
Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
eran il quinto di quei ch’or son vivi.
Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.
Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;
sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade
,

come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

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Dante e Beatrice con l’anima di Cacciaguida

mi disse: “Dal giorno dell’Annunciazione, in cui l’arcangelo Gabriele disse “Ave”, al giorno in cui mia madre, ora tra i beati in Paradiso, mi partorì, sotto il segno del Leone per ben cinquecentottanta volte ritornò il pianeta Marte a risplendere (passarono 1091 anni). I miei antenati ed io stesso nascemmo nel luogo di Firenze in cui si trova l’ultimo sestiere di quelli che corrono il vostro palio annuale di San Giovanni. Dei miei antenati ti basti sapere questo: chi essi fossero e da dove giunsero poi a Firenze, è più opportuno tacerlo. A quel tempo, tutti quelli che a Firenze, tra la statua di Marte sul Ponte Vecchio ed il Battistero, era buoni per le armi, erano complessivamente solo un quinto di quelli di adesso. Ma la cittadinanza, che ora è mischiata con genti di Campi Bisenzio, di Certaldo e di Figline Valdarno, allora l’avresti potuta vedere pura fino al più umile artigiano. Oh quanto sarebbe meglio poter avere solo come vicini quelle genti che ho appena nominato, ed avere i confini della città in corrispondenza delle borgate Trespiano e Galluzzo, piuttosto che averle dentro le mura e dover sopportare la puzza di quel campagnolo di Aguglione, o di quella di Signa, che ha l’occhio pronto quando c’è da ingannare! Se la gente, i papi ed i vescovi, che più si allontanano dalla via assegnata loro, non si fossero comportati come una matrigna nei confronti dell’imperatore, ma piuttosto come una madre amorevole nei confronti del proprio figlio, non sarebbero diventati fiorentini, esercitando il cambio ed il commercio, ed avrebbero continuato a vivere nel contado di Semifonte, dove i loro antenati erano mercanti itineranti; Montemurlo sarebbe ancora in mano ai Conti; i Cerchi vivrebbero ancora nel gruppo di parrocchie di Acone in val di Sieve, e forse i Buondelmonti in val di Greve. La mescolanza di stirpi diverse è sempre stata l’origine del male della città, che il cibo che va a sovrapporsi nello stomaco a quello non ancora digerito; ed un toro cieco cade prima di un agnello cieco; e molte volte taglia di più e meglio una spada sola che cinque spade. Se consideri come le città di Luni e Urbisaglia sono poi andate a finire, e come le stanno seguendo nella sorte Chiusi e Senigallia, il sentire come le stirpi si estinguano tanto facilmente non ti sembrerà cosa né strana né difficile, dal momento che anche le città hanno una loro fine. Tutte le cose umane sono destinate a morire, così come voi uomini; solo che in alcune la morte non si vede, perché durano molto, mentre le vostre vite sono brevi. E come il corso della luna determina il flusso delle maree, abbassando e diminuendo continuamente il livello sulle coste, così fa la Fortuna con Firenze: non ti deve perciò sembrare incredibile ciò che ti dirò riguardo agli illustri fiorentini, la cui fama è stata cancellata dal tempo.

Potremmo quasi commentare come questo discorso faccia da pendant a quello già iniziato nel quindicesimo, in cui si raccontava la bellezza e l’onesta della Firenze antica. Qui egli precisa: lui è nato nel 1091 al tempo in cui Firenze si limitava tra la statua di Marte sul ponte Vecchio e il Battistero, corrispondente al cuore della città vecchia. Quindi, a confortare il suo discorso, parla  del declino derivato dall’inurbamento di “genti del contado”. Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare che qui Cacciaguida, e Dante con lui, ricerchi quasi una purezza etnica del popolo fiorentino, ma a leggere bene, attentamente il testo “possiamo dire che Dante non cade nella generalizzazione che invece è caratteristica di ogni politica d’esclusione; senza voler sottovalutare il suo senso di disgusto per l’imbastardimento del popolo fiorentino, è sintomatico però che, come sempre, egli additi responsabilità individuali precise, delitti e crimini civili dei singoli. Semmai, il fenomeno più generale che il discorso di Cacciaguida deplora (e questo sì, di grande peso ideologico e storico) è l’inurbamento come conseguenza del disfarsi dell’antica rete di castelli signorili in Toscana, specie dopo la disfatta imperiale di Benevento. E’ un fenomeno già presente nell’invettiva-compianto all’Italia del canto VI del Purgatorio e qui torma distintamente riconoscibile. Ancora una volta la responsabilità è attribuita alla Chiesa, noverca, cioè matrigna invece che madre amorosa, nei confronti del potere imperiale, da lei caparbiamente osteggiato” (Bruscagli-Giudizi)

CANTO XVII
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».
«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi
 le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».
Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».

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Con la stessa ansia con cui si rivolse a Cimene, per accertarsi di ciò che aveva sentito dire su di sè, (Fetonte), sul cui esempio ancora oggi i padri sono prudenti nell’acconsentire troppo facilmente ai desideri dei figli; allo stesso modo ero ansioso io, e si accorse del mio stato sia Beatrice che quell’anima santa di Cacciaguida che per parlare con me aveva lasciato il suo posto presso la croce luminosa. Disse pertanto la mia donna: «Manifesta il tuo ardente desiderio, così da esprimere l’intima richiesta: non perché per comprenderlo meglio abbiamo bisogno delle tue parole, ma perché così ti abitui ad esporre le tue richieste, in modo che vengano soddisfatte.» «O mia cara radice che ti elevi tanto in alto che, come gli uomini riescono a comprendere che due angoli ottusi non possono essere contenuti in un triangolo, con la stessa chiarezza tu puoi conoscere gli eventi prima che accadano guardando in Dio, il luogo in cui tutto il tempo è presente; durante la mia salita insieme a Virgilio sulla montagna del Purgatorio, dove le anime si purificano e scendendo quindi nel regno dei morti nel peccato, mi furono rivolte parole preoccupanti riguardo il mio futuro, per quanto io mi senta preparato alle disgrazie della fortuna;  per questo il mio desiderio sarebbe appagato se potessi conoscere quale è la sorte che mi attende: perché una freccia prevista colpisce più lentamente.» Dissi queste parole a quella anima luminosa che poco prima mi aveva parlato; e come volle Beatrice, confessai quindi apertamente il mio desiderio. Non con il linguaggio ambiguo degli oracoli, nel quale le menti pagane si invischiavano già prima che ci fosse il sacrificio dell’Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo, ma con parole chiare ed con un discorso diretto mi rispose quel padre amorevole, avvolto e visibile nella propria gioia: «Tutte le cose contingenti, che sono proprie soltanto del vostro mondo materiale, sono presenti nella mente di Dio; ma non per questo assumono carattere di necessità,  così come non dipende dallo sguardo di chi la osserva, il movimento di una nave che scende lungo un torrente. Dalla mente di Dio, così come giunge ad un orecchio la dolce melodia emessa da un organo, allo stesso modo giungono alla mia vista gli avvenimenti che ti attendono. Come Ippolito fu costretto a fuggire da Atene a causa della spietata e malefica matrigna, allo stesso modo dovrai allontanarti da Firenze. Questo si vuole e questo si cerca già di attuare, e presto verrà fatto da chi trama dove si fa mercato della religione cristiana. L’offesa, come è solito, sarà addossata a gran voce ai vinti; ma la vendetta di Dio sarà testimonianza della verità che la dispensa. Tu dovrai abbandonare tutte le cose che ami di più; e questo è il primo dolore che l’esilio provoca. Proverai così quanto è amaro il pane altrui, e quanto è faticoso salire e scendere per scale che non sono tue. Quello che ti renderà però l’esilio più duro, sarà la compagnia malvagia e divisa dei Bianchi, con la quale tu condividerai questa miseria; poiché si mostrerà tutta ingrata, irragionevole e crudele nei tuoi confronti; ma, subito dopo, sarà quella compagnia, e non tu, a doversene vergognare. La loro follia sarà dimostrata dal loro comportamento; così che sarà onorevole per te esserti isolato da loro. Il tuo primo rifugio e la tua prima dimora sarà presso il generoso signore di Verona (Bartolomeo della Scala), che nello stemma porta raffigurata l’aquila imperiale; avrà verso di te un atteggiamento tanto benevolo, che tra il chiedere ed il fare, tra i voi due, avverrà per primo il suo fare. Quando sarai presso la sua corte incontrerai colui (Cangrande) che, nascendo, ricevette l’influsso di questo pianeta in maniera così decisa da rendere memorabili le sue imprese. Il popolo non si è ancora accorto di questa sua eccezionalità a causa della sua giovane età, poiché per solo nove anni hanno girato questi cieli intorno a lui (ha solo nove anni); ma prima che il papa Clemente V possa ingannare Arrigo VII, i primi segnali del suo valore si manifesteranno nel suo disprezzo verso il denaro e verso ogni fatica. Le sue eccellenti virtù saranno allora manifeste, così che neanche i suoi nemici potranno fare a meno di parlarne. Riponi la tua fiducia in lui e nei suoi suoi benefici; la condizione di molte persone cambierà grazie a lui, scambiando di posto i ricchi con i mendicanti; conserva nella tua mente ciò che ti dico di lui, ma non lo dirlo a nessuno»; e disse poi cose che appariranno incredibili anche a chi le vivrà in prima persona. Aggiunse poi: «Figliolo, questa è la spiegazione di quello che ti è stato detto da altri; queste sono le insidie che ti aspettano in agguato nel giro di pochi anni. Non voglio però che tu nutra rancore nei confronti dei tuoi concittadini, dal momento che la tua vita durerà abbastanza per vedere la punizione che li attende per le loro malvagità.» Dopo che quell’anima santa, ormai in silenzio, si mostrò libera dal compito di dare una spiegazione a quei miei dubbi che le avevo esposto, cominciai io a parlare come chi, nel dubbio, desidera un consiglio da una persona che conosce le cose e vuole il bene e ama: «Capisco, padre mio, come incalzi il tempo contro me, per darmi un tale colpo che è ancora più grave a chi si lascia abbattere dalla sua forza; per cui è bene che io mi armi di previdenza affinché, se perdo il luogo a me tanto caro, non perda anche gli altri per colpa della mia poesia. Giù per l’amara voragine infernale e il monte dalla cui cima mi sollevarono gli occhi della mia donna e quindi in Paradiso di pianeta in pianeta io ho conosciuto cose che se dovessi ridirle, a molti riusciranno di sapore molto aspro, se dovessi essere restio a dirle, ho paura di non sopravvivere tra coloro che chiameranno questo tempo antico». La luce in cui gioiva l’amato antenato che io trovai in quel cielo, si fece prima più luminosa, come un raggio di sole su una lamina dorata, quindi rispose: «Una coscienza offuscata da una vergognosa colpa propria o di congiunti, sentirà certamente la durezza della tua parola. Nonostante questa, eliminata ogni menzogna, rendi manifesta ciò hai visto, e lascia che si gratti chi ha la rogna. Perché ciò che tu dirai, se in un primo momento sarà molesto, in seguito diventerà cibo nutriente una volta digerito. Questo tuo grido accusatore sarà come il vento, che colpisce le cime più alte, e questo non è piccolo motivo d’onore. Per questo ti sono state mostrate in questi cieli, nel monte purgatoriale e nella valle infernale soltanto anime di persone famose, perché le persone che le ascoltano, non si sofferma né crede chi non sia conosciuto e viva nascosto, o di altro argomento che non appaia evidente.» 

E’ questo il canto dell’exsul immeritus e non è a caso che, terzo del lungo episodio dedicato a Cacciaguida, venga messo al centro dell’itinerario paradisiaco. Qui infatti convergono tutte le profezie che sin dall’inferno Ciacco, Farinata e Brunetto Latini; nel viaggio purgatoriale Corrado Malaspini e Oderisi da Gubbio le avevano annunciato. Le riunisce in un diretto ed accorato discorso l’antenato che in modo chiaro non solo designerà l’immeritata cacciata della città, ma gli predirà altresì l’accoglienza nella famiglia veronese dei Della Scala. Si può dire che il canto dell’auctor riveda la vita del Dante agens quasi a chiarirne e a rafforzarne le scelte politiche, come quella di isolarsi dal partito dei Bianchi, il cui tentativo di rientrare a Firenze dapprima condiviso e poi rifiutato, vuole sottolinearlo alla luce di un rigorismo morale cui i suoi presunti compagni sarebbero venuti meno mostrando la loro malvagità e divisione. Ma tale canto è diventato famoso per la celeberrima terzina Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. Si guardi infatti all’uso verbale sia dell’episodio precedente che di questa terzina: a dominare è il futuro, un futuro che l’auctor ha già vissuto e sta vivendo ma che nella struttura paradisiaca dovrà ancora avvenire, dotando il canto di un continuo colloquio tra Dante che scrive (presente), ricorda gli episodi salienti della sua vita (passato), proiettandoli nella predizione di Cacciaguida (futuro).

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Il canto è inoltre importante per il discorso che Dante fa sulla poesia: essa è tale se veritiera, se non nasconde e palesa la realtà, se mostra rigidità di giudizio quando si ha convinzione del  giusto: solo questo permette quella  gloria che nel I canto egli avoca a sé grazie al suo poema. Ma ancora più importante è l’idea che la sua poesia possa durare oltre la sua vita, dando vita, nella letteratura italiana, a quel concetto secondo cui la grande arte non muore con l’autore, ma continua a diffondere la sua voce nei lettori di domani, e a tale scopo il nostro utilizza una splendida parola infutura che ci dà il segno di come, grazie anche alle definitive parole di Cacciaguida egli costituisca l’exemplum per una rigenerazione politica e sociale dell’umanità.

CANTO XVIII
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Il canto inizia proseguendo il precedente: si tratta infatti del congedo di Cacciaguida che, prima di tornare alla croce luminosa, svela a Dante chi sono i personaggi che condividono con lui la beatitudine, da Giosué a Carlo Magno, da Goffredo di Buglione a Roberto il Guiscardo, chi, come il primo, legato al popolo d’Israele, chi difensore della fede e del Santo Sepolcro.

Quindi Dante ascende, senza che se accorga, al cielo di Giove e qui viene accolto da uno spettacolo stupefacente:

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.
E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.
O diva Pegasëa che li ’ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,
illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.

Io vidi in quella luminosa sfera la luce sfavillante dell’amore lì presente comporre davanti ai miei occhi, segni del nostro parlare umano. E come gli uccelli s’innalzano dall’acqua come a festeggiare il loro pasto, mettendosi in cerchio o in altra forma, allo stesso le anime beate, fasciate della loro luce, cantavano volteggiando, formando con le loro figure ora una D, ora una I o una L. Prima si muovevano seguendo il loro canto, poi diventando uno di questi segni, si fermavano un poco e tacevano. O musa, che ti abbeveri alla fonte del fiume Pegaso, sul Parnaso, che gli ingegni dei poeti fai gloriosi e li rendi immortali e questi, grazie a te, rendono immortali le città e i regni, illuminami con la tua virtù tanto che io riesca a descrivere le loro forme così come le ho impresse nella mente: si dimostri la tua forza in questi piccoli versi! Mi mostrarono dunque trentacinque forme di vocali e consonanti; ed io annotai nella mente le singole lettere nell’ordine in cui apparivano. DILIGITE IUSTITIAM, furono il primo verbo ed il primo nome della raffigurazione; seguirono QUI IUDICATIS TERRAM. Quindi le anime si fermarono alla lettera M, tanto che il cielo di Giove si mostrava d’argento trapuntato d’oro. Vidi scendere altre anime là nel punto più alto della M e qui fermarsi inneggiando il bene, mi pare, che li attira a sé. Poi, allo stesso modo nel colpire tizzoni ardenti emergono numerose scintille, da cui gli ignoranti traggono auspici, mi parve risalissero più di mille anime luminose, chi più chi meno, si come ha destinato Dio, e fermata ciascuna nel luogo scelto, vidi la testa ed il collo di un’aquila raffigurati da quegli splendori. Colui che disegna tali figure in Paradiso, non ha maestro, ma è lui stesso maestro e modello e da lui si riconosce quella potenza che imprime la forma, in potenza, fin dal suo “annidarsi”.

“Particolarmente interessanti sono gli ultimi tre versi. L’idea di Dio creatore-artista, demiurgo, è affiorata altre volte (…). Ma qui vi è un’aggiunta: l’aquila che si vede nel cielo di Giove è più bella di quelle che si possono vedere in terra perché essa stessa è l’idea dell’aquila, che le cose terrene semplicemente e debolmente ricordano. Non da Platone, ma da una tradizione neoplatonica e agostiniana molto ampia Dante riceve questa nozione, che è divenuta quasi un luogo comune ma è anche riferimento stabile della sua cultura” (Riccardo Scrivano).

Il canto prosegue con un invettiva verso la corruzione della Chiesa; d’altra parte le espressioni formate dal movimento delle anime a formare il simbolo della giustizia, “amate la giustizia, voi che giudicate la terra,” rimandano proprio a quel Giovanni XXII, nemmeno nominato, se non con un “ma tu”, odiato da Dante per aver confermato la scelta di Avignone come sede papale e per aver oltraggiato la Chiesa con il commercio delle indulgenze.

CANTO XIX
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Il canto inizia con lo stupore, più che visivo uditivo, che viene prodotto dalla molteplicità delle anime illuminate che all’unisono parlano emettendo tuttavia una sola voce. Occasione unica per Dante per risolvere alcuni dubbi che i beati leggono nella sua mente, senza che lui li esprima.

Dopo che l’aquila rivela che è formata dagli spiriti giusti di uomini che furono famosi in terra per rettitudine, Dante, più che esprimere il primo dubbio, sapendo già che quei beati glielo leggono nella mente, gli rispondono relativamente alla giustizia divina, cui l’aquila stessa non può che affermare l’imperscrutabilità del modo in cui Dio giudica, salvando e punendo.

Ma è proprio qui che si pone il quesito forse più impellente e, in qualche modo ancora oggi attualissimo, che Dante questa volta chiede possa essere risolto:

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.
Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?
Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
(…)
«A questo regno
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Perché tu ti chiedevi: «Un uomo che nasce presso la sponda dell’Indo e in questo luogo non vi è nessuno che predichi né che insegni né che scriva di Cristo, e tutte le sue intenzioni e azioni siano buone, per quanto può vedere la mente umana, senza peccato nelle azioni e nelle parole. Questi muore senza battesimo e senza fede: qual è la giustizia che lo condanna? Che colpa ha se non ha la possibilità di credere?» Chi sei tu , che ti ergi a giudice per giudicare cose lontanissime con la vista non più lunga di una spanna? Certo avrebbe motivi di dubbio chi cerca di ragionare sottilmente come se non avesse a vegliare su di lui le Sacre Scritture. O esseri mortali! O menti ottuse! La volontà divina, che è per se stessa buona, da sé, che è il bene sommo, non si è mai allontanata. Pertanto è giusto ciò che si accorda a lei: nessun bene creato la può attirare, ma, al contrario, deriva da essa irradiata dai suoi raggi». (…) «Al Paradiso non salì mai chi non credette in Cristo né venturo né venuto. Ma guarda: molti che gridano “Cristo, Cristo!”, nel giorno del giudizio si troveranno meno vicini a Lui di altri che non lo conobbero; e un tal cristiano sarà condannato da un Etiope, quando si divideranno le due schiere, una eternamente ricca (di beatitudine), l’altra povera (dannata).

Il passo riportato ci conduce ad una riflessione che è tipica di ogni cristiano: che colpa ha chi non ha avuto la possibilità di conoscere Cristo e quindi essere battezzato, tanto da non essere salvato? La risposta è chiara: chi sei tu che giudichi con mente umana ciò che è divino? L’errore, o il dubbio dantesco, sta nel non aver rovesciato la prospettiva e nel voler giudicare da uomo la volontà divina.

Segue a questa riflessione un lungo elenco di principi che la giustizia divina non ha salvato, dall’imperatore Alberto a Carlo d’Angiò.

CANTO XX
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Ancora nel cielo di Giove, dove l’aquila, simbolo di Dio, sempre parlando con voce unica da parte dei suoi beati, ci mostra ora il suo occhio, formato da sei eminenti spiriti gioviali:

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,
perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.
L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.
E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».

Quella parte di me che nelle aquile terrene regge la vista del sole, cominciò a dirmi: «Ora devi osservare con attenzione, poiché degli spiriti luminosi che formano la mia figura, quelli per i quali l’occhio sul capo risplende, sono le anime più nobili dell’intera schiera. Colui che brilla al centro come pupilla, fu Davide, che cantò ispirato dallo Spirito Santo e trasportò l’Arca Santa di città in città: ora conosce il merito del suo canto perché la ricompensa è ad esso misurata. Delle altre cinque anime che formano il mio sopracciglio, quella più vicino al becco è lo spirito di Traiano di cui già in Purgatorio (X canto) si racconta come egli, re dei Romani, seppe consolare una povera vedova per la morte del figlio; ora sa quanto si paghi nel non seguire Cristo, per l’esperienza di questa vita paradisiaca e per l’opposta. L’anima successiva, nella parte più alta del sopracciglio, è quella di Ezechia che allontanò la morte con la vera penitenza; ora sa che il giudizio che il giudizio di Dio non cambia, quando una degna preghiera rimanda all’indomani ciò che dovrebbe accadere oggi. Lo spirito seguente, Costantino, con le leggi e con me (insegna imperiale), con l’ottima intenzione di donare terre al pontefice si trasferì in Oriente; ora sa che sebbene la sua buona azione abbia procurato cattive conseguenze, non è stato a lui dannoso, per quanto da esso in mondo sia stato rovinato. L’anima posta nella parte discendente del sopracciglio è quella di Guglielmo II d’Altavilla (re di Napoli e di Puglia) che le terre rimpiangono e che ora sono tenute da Carlo d’Angiò e Federico II; ora riconosce come il cielo premia un re giusto, e lo dimostra nell’aspetto del suo splendore. Chi penserebbe giù nel mondo peccaminoso, che il troiano Rifeo sia il quinto tra gli spiri beati del mio occhio? Ora conosce bene quello che l’uomo non può comprendere della grazia di Dio, per quanto la sua capacità intellettuale non sappia scorgere le ragioni ultime dell’operare divino».

Sembra questa parte del canto rispondere al quesito che Dante aveva posto nel canto precedente riguardo la “non colpa” di chi non aveva potuto conoscere Cristo. Di fronte alla risposta dell’aquila e dei componenti della sua parte così importante come quella dell’occhio, Dante non può non meravigliarsi vedendo sue anime “pagane”, l’imperatore Traiano e il troiano Rifeo. E’ che il primo, mentre era al Limbo, per intercessione del papa Gregorio Magno, potette ritornare in vita per poter ricevere la verità di Cristo, e Rifeo, visse in modo così esemplare e giusto che venne illuminato dalla sua grazia, tanto da poter prevedere l’arrivo di Cristo.

Al di là delle spiegazioni (in parte convalidate dalla filosofia e dalle credenze medievali) la salvazione di due anime beate inducono Dante a riflettere sull’imperscrutabilità della giustizia divina che non può essere spiegata secondo la ragione e la concezione che l’uomo ha dell’Aldilà) tipiche della mente umana. Si affaccia il discorso della predestinazione divina che va letta secondo la “loro” giustizia; infatti per i beati (tutti i beati sino qui incontrati) la giustizia divina è accordarsi alla sua volontà: essendo lui il Sommo Bene non vi può essere che infinita bontà nel premiare e infinita giustizia nel punire.

CANTO XXI
(Cielo VII – Saturno – Spiriti contemplativi)

Gustave Doré: Il canto XXI

Siamo all’ultimo pianeta, quello di Saturno, in cui si mostrano a Dante gli spiriti contemplativi, di limpidissima e trasparente luce. All’arrivo in questo cielo, non vi è stata la consueta accresciuta luminosità di Beatrice, ma lo stesso Dante sottolinea che lei “non ridea”; ciò è determinato dal fatto che, arrivata a questo punto nell’ascesa paradisiaca, le sue facoltà travalicherebbero quelle ancora umane del pellegrino, tanto che Dante rischierebbe di rimanere incenerito. Inoltre in questo assoluta trasparenza non vi è nemmeno musica ed è proprio in questo incredibile silenzio scendono da una scala dorata che s’innalza verso il cielo una schiera di beati, chi volteggiando, chi volando, chi rimanendo sul posto. Il loro silenzio viene motivato allo stesso modo con cui Beatrice ha motivato la sua mancanza di riso. Tra tali anime, una in particolare, facendo pulsare la sua luminosità, mostra di voler parlare con Dante e richiesto del perché mostri tale desiderio, egli risponde che non dipende da lui, ma dalle volontà di Dio, senza alcun motivo e la scelta, pur essendoci anime altrettanto caritatevoli come la sua, è solo legata all’imperscrutabilità della volontà di Dio. L’anima è quella di San Pier Damiani:

«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’ una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».

«Tra la costa tirrenica e quella adriatica si innalzano dei monti, non così distanti dalla tua patria, tanto che le folgori scoppiano con fragore più basso, e formano una protuberanza, chiamata Catria, sotto la quale vi è un eremo benedetto, il quale era dsolito esser consacrato a Dio». In questo modo ricominciò a rivolgermi la terza parte del discorso; e poi continuando disse: «Qui mi consacrai con ferma determinazione a Dio e mangiando cibi conditi solamente con olio, trascorrevo felicemente sia i periodi estivi che quelli invernali, contento solo di meditazione contemplativa. Quel chiostro produceva in modo fruttuoso anime sante, ora è diventato sterile, tanto che tra breve è necessario si riveli la sua infruttuosità. In quel luogo vissi io Pietro Damiano e nella casa di Nostra Signora sul lido Adriatico fui conosciuto come Pietro Peccatore. Ero sul finire della mia vita terrena, quando fui chiamato ed innalzato alla dignità cardinalizia, che ora passa da persone indegne ad altre peggiori. Vissero poveri San Pietro e San Paolo, cibandosi del pane offerto da ogni casa. Ora i moderni prelati vogliono servi ciascuno da ogni lato che li sorreggano tanto sono obesi e dietro qualcuno che alzi loro il mantello cardinalizio. Cioprono con il mantello stesso i loro cavalli tanto che sotto una coperta vi sono due animali. Oh pazienza divina che tolleri tanta vergogna.»

Forse le fonti dantesche sulla figura di Pier Damiani non furono così attendibili, tanto da indurlo a confondere fra due monaci di Ravenna (città nella quale il poeta soggiornò nell’ultima parte della sua vita), un certo Pier Damiani e un Pietro Peccatore fondendoli in un unico personaggio. Cero Dante seppe della sua azione riformatrice, tanto nel Papato che dell’Impero, con la fondazione di numerosi monasteri. Ma più nota è la sua lotta contro la corruzione e l’avidità della Chiesa, qui evidenziata dal sarcasmo con cui raffigura i prelati del tempo del pellegrino, durante le processioni, in pompa magna, accusa avvalorata dalle grida di approvazioni delle anime sante.

CANTO XXII
(Cielo VII – Saturno – Spiriti contempletivi)
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Le grida di approvazione spaventano Dante, che verrà confortato da Beatrice, rivelando che dietro quel grido vi erano, per lui incomprensibili, parole che predicevano la vendetta divina contro coloro che in terra tradivano la missione affidata loro.

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Tra le anime che mostrano di aver letto il desiderio di Dante ve n’è una:

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;
e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

Quel monte che ha sul suo versante la città di Cassino, fu frequentato un tempo sulla vetta da gente pagana e contraria alle fede cristiana, ed io sono colui che portai lassù per primo il nome di Cristo che tanto ci solleva; e una così intensa grazia divina mi illuminò che riuscii ad allontanare i villaggi vicini dal sacrilego culto pagano che traviò il mondo.

La presentazione di San Benedetto non si discosta molto da quella di Pier Damiani, il quale dopo essersi presentato e aver indicato a Dante le anime benedette così luminose di carità in quella scala santa, non può non rivolgere, come il predecessore, una critica alla situazione del suo monastero, come si era trasformato da luogo di santificazione a luogo di corruzione:

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de’ monaci sì folle;
ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d’altro più brutto.
La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.
Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui ’l soccorso»

«Le mura che erano soliti esser conventi, sono ora diventati covi di ladroni, e i sai monacali sono sacche ripiene di farina guasta. Ma nessuna grave forma di usura va contro la volontà divina quanto impossessarsi delle rendite conventuali che rendono il cuore dei monaci così cattivo, perché dovunque la Chiesa guardi, Dio comanda che tutto sia dato ai poveri, non ai parenti o a persone turpi. La natura degli uomini è tanto debole, che un’opera ben iniziata non dura un periodo sufficiente a quello che intercorre tra la nascita di una quercia e il suo fruttificare. San Pietro iniziò senza oro e senza argento, io con preghiere e digiuni, San Francesco il suo ordine con umiltà, e se ora guardi come hanno iniziato bene (con l’apostolato, gli ordini benedettini e francescani) e dopo fai attenzione a come sono arrivati, vedrai il bianco esser diventato scuro. In verità il ritirarsi del fiume Giordano e l’aprirsi del Mar Rosso, quando Dio volle, furono miracoli più stupefacenti di quanto il suo intervento d’aiuto in questo caso»

La struttura è la stessa, sebbene di minore lunghezza, con il canto XI e XII, se lì infatti avevamo visto il parallelismo tra San Francesco e e San Domenico, qui tale parallelismo è tra Pier Damiani e san Benedetto. Il fatto che si tratti di una vera e propria diade è testimoniato da una struttura simile: da una parte la fondazione, voluta dal Signore, quindi il sottolineare la povertà come modello di vita, facendo riferimento il primo a San Pietro e San Paolo, e lo stesso Benedetto cita la povertà di San Pietro e San Francesco, cui aggiunge la propria scelta. Ma ciò che interessa è che in questi spiriti contemplanti, tutti rivolti verso Dio, non si perde mai il riferimento alla storia della terra, il loro sguardo verso il mondo così diverso da quello paradisiaco.

Questi ci viene proprio dimostrato nell’ascesa verso il cielo delle Stelle Fisse, qui Dante incontra la sua costellazione, quella dei Gemelli, cui dedica un’apostrofe perché è grazie a lei che ha potuto dedicarsi alla poesia (secondo l’astrologia medievale la costellazione dei Gemelli presiedeva agli studi e alle arti liberali); poi su invito di Beatrice volge lo sguardo al percorso fatto:

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com’ si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;
e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Con lo sguardo riattraversai i sette cieli inferiori, e vidi la terra in tale modo che mi spinse a sorridere per il suo aspetto meschino, e approvo quel consiglio che la considera poco e chi pensa a cose ulteriori chiamo saggio. Vidi la luna (figlia di Latona) luminosa senza quelle macchie lunari che mi fecero pensare alla sua maggiore e minora densità. Sostenni con lo sguardo la vista del Sole (figlio della luna) e vidi anche come si muovono i cieli a lui vicini, quello di Mercurio e Venere. Di lì mi apparve Giove, che attenua il calore posto com’è tra il padre Saturno ed il figlio Marte e quindi mi furono chiari i loro movimenti e tutti e sette mi mostrarono nella loro grandezza e velocità quanta distanza c’è tra di loro. La piccola aia (la terra abitata dagli uomini) che ci rende così crudeli, girando insieme alla costellazione dei Gemelli, mi apparve interamente dalle montagne ai mari, quindi rivolsi lo sguardo verso gli occhi di Beatrice.

E come se lo sguardo definitivo verso il percorso fatto e soprattutto verso la terra “vile”, “aiuola che ci fa tanto crudeli”, segni una definitiva rottura fra ciò che umano, terreno e ciò che è divino. Al pellegrino Dante ormai non rimane che l’ascesa verso l’Empireo, la sede di Dio.

CANTO XXIII
(Cielo VIII – Stelle fisse)

E’ un canto che segna il distacco totale di Dante dall’Universo al Paradiso, dai pianeti a Dio. Tale esperienza richiede una nuova voce, un nuovo modo di rendere percepibile ai lettori la sua straordinaria esperienza, basata sulla visione, così come sulla luce, splendore, riflesso, ed altri termini riferentesi a questo campo semantico, primeggiano in quest’ultima parte del “sacrato poema”.

Infatti è solo per Beatrice, al fatto che lei infonda in lui maggiore grazia “illuminante”, per mezzo del suo splendore che Dante può ammirare il trionfo di Cristo:

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.
Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».
Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s’atterra,
la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.

Come nelle notti serene di plenilunio, la luna splende tra le altre stelle immortali che illuminano il cielo in ogni parte, così io vidi al di sopra di quelle innumerevoli luci un sole che le faceva risplendere tutte quante, come fa il nostro sole quando accende le stelle del cielo e per il vivo splendore traspariva in modo così lucente l’essenza di quella luce davanti ai miei occhi che io non riuscivo a sostenerla. Beatrice, dolce e chiara guida!. Lei mi disse: «Quello che ti sovrasta e una forza virtuosa da cui nulla può trovare riparo. Qui vi è la sapienza e la forza (di Cristo) che fecero da tramite tra il cielo e la terra (che ristabilirono la pace tra Dio e l’uomo) per cui il desiderio di lui si attese molto a lungo». Come un fulmine si sprigiona da una nuvola per il fatto che i vapori di cui è formato non possono più essere contenuti, tanto che, contro sua natura, si scaglia verso terra, così la mia mente, esaltata da quelle visioni (vivande) divine, uscì fuori da se stessa e che cosa facesse allora non è più in grado di ricordare.

Dante può, ma non sa come, osservare il trionfo di Cristo, tanto da doversi quasi scusare per la sua incapacità espressiva:

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’ esso trema:
non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

Ma chi riflettesse sull’onerosa materia e sulla spalla umana che se ne fa carico, non farebbe rimproveri se sotto il suo peso vacilla: non è un piccolo tratto di mare per una piccola imbarcazione , quello che la mia coraggiosa nave sta percorrendo, né da nocchiere che si risparmi la fatica.

Franz Bayros: Illustrazione per il XXIII canto del Paradiso

Il trionfo di Cristo, così lontano dal concetto di triumphus classico, (un dux seguito da soldati), si configura come puro splendore formato dalla luminosità di tutte le anime che tutte le sovrasta. Di fronte a tale inusuale paesaggio, al Paradiso frutto della mente dantesca, del suo impegno intellettuale e conoscenza biblica e teologica, non può essere “definito”, servono comparazioni che ne danno solo una pallida immagine: il plenilunio, la folgore, immagini che possono solo evocare non rappresentare e questo ci testimonia il poeta.

Il canto prosegue con l’elevarsi di Cristo per permettere a Dante l’osservazione del trionfo della Madonna, baciata dai raggi del figlio. I beati ne cantano le lodi e un angelo (forse l’arcangelo Gabriele la incorona); quando anch’ella si librerà verso il cielo tutte le anime la seguiranno per raggiungerla nell’Emireo.

CANTO XXIV
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Il canto inizia con la preghiera di Beatrice ai beati perché rendano partecipi il pellegrino della loro sapienza: loro infatti rappresentano un “ecclesia” di santi che danzano intorno a loro due, con maggiore o minore velocità, secondo il grado di beatitudine. Da essi si stacca l’anima di San Pietro, chiamata dalla dolce guida di Dante:

Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.
S’elli ama bene e bene spera e crede,
non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
dov’ ogne cosa dipinta si vede;
ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».
Sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ’l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione.
«Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond’ io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.
«La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
comincia’ io, «da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi».
E seguitai: «Come ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,
fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».
Allora udi’: «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti».
E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,
che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
e però di sustanza prende intenza.
E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’ avere altra vista:
però intenza d’argomento tene».

Simone Martini: San Pietro

E lei: «O anima luminosa del grande uomo, a cui Cristo consegnò le chiavi, che portò giù sulla terra da questo luogo di gioia meravigliosa, metti alla prova questo uomo su questioni secondari ed essenziali, come credi più opportuno, sull’argomento della fede, grazie alla quale tu camminasti sulle acque. Non ti è nascosto se egli possiede la carità, la speranza e la fede, in quanto il tuo sguardo è rivolto al volto di Dio dove appare ogni verità, ma poichè questo regno ha creato i suoi cittadini attraverso l’adesione alla vera fede, è opportuno che che a lui tocchi di parlarne al fine di gloriarla». Come il baccelliere (dottorando in teologia) si prepara e non parla fino al momento in cui il professore non pone la domanda, per fornire delle argomentazioni, non per concluderla (compito del maestro), così mi preparavo io di tutte le cose da dire, mentre Beatrice parlava, per esser pronto a un tale interrogante e auna tale materia. «Di’, buon cristiano, rendi palese la tua credenza: che cos’è la fede?» Per cui io alzai il viso verso quella luce da cui uscivano queste parole; poi mi rivolsi a Beatrice, e lei mi fece cenno affinché facessi sgorgare al di fuori l’acqua dal mio interno (facessi uscire all’esterno le mie conoscenze). Cominciai: «La Grazia che mi offre la possibilità di professare la mia fede richiestami da chi ne fu il primo comandante, renda le mie argomentazioni bene espresse.» E continuai: «Come la verace penna del tuo caro fratello San Paolo, che con te indirizzò il popolo nella retta via, ha scritto, la fede è il principio fondamentale di quello che speriamo e prova delle cose che non cadono sotto i nostri sensi; e questa mi sembra essere la sua essenza». Allora sentii dirmi: «Giustamente pensi, se ben hai compreso perché san Paolo la mise prima tra le sostanze e poi tra le prove». Per cui io. «Le profonde verità che qui, in Paradiso, mi offrono la vista del loro aspetto, sono tanto inacessibili agli occhi sulla terra che la loro realtà risiede soltanto nella loro credenza, sopra la quale si fonda la nobile speranza ed è per questo prende nome di sostanza. E da questa speranza che giù in terra è necessario ragionare, senza avere altra conoscenza, per questo prende nome di argomento».

Il brano proposto metaforizza quello che in realtà era un vero e proprio esame universitario: l’alunno /Dante deve mostrare di conoscere non soltanto i termini paolini relativi alla “sostanza” e all’ “argomento”, ma anche come, attraverso la filosofia tomistica, egli ne sia entrato in possesso. E’ pur vero che è un canto dottrinale, ma la poesia è proprio in questa volontà di insegnare la verità al lettore, affinché esca dall’errore di una vita fatta di corruzione ed egoismi, e lo conduca verso la “retta via”.

San Pietro e Dante

Il canto prosegue con l’interrogatorio di San Pietro che, dopo aver appurato la conoscenza di Dante rispetto alla verità sulla fede, domanda al nostro del suo possesso, e rispostogli affermativamente, il santo gli chiede come vi è arrivato, e saputo che vi è giunto dalle Sacre Scritture, vuol sapere come mai le ritiene parola di Dio; “per i miracoli che ne seguirono”. Soltanto dopo l’ultima risposta dantesca, le anime fanno risuonare un “Lodiamo il Signore”. L’esame di San Pietro ora si fa più intenso: non le basta aver sentito parole veritiere circa la fede, vuole ora che Dante esprima la sostanza del suo credere, tanto che il canto si chiude con “Il credo” del poeta.

CANTO XXV
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Pur essendo in Paradiso, Dante, forse perchè giunto alla piena maturità e saggezza, può guardare, senza più acrimonia, alla sua patria, con struggente nostalgia:

Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
dal bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello,
ritornerò poeta, ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
però che ne la Fede, che fa conte
l’anime a Dio, qui intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.

Se un giorno accadrà che il poema sacro, alla quale ha posto mano sia la dottrina divina sia la scienza umana, tanto che per molti mi ha logorato, vincerà l’ingiusta violenza chi mi tiene lontano dalla dolce patria dove io passai la giovane età, inviso soltanto ai malvagi, allora con maggiore fama, con capelli incanutiti, ritornerò con il nome di poeta e sulla fonte battesimale riceverò l’alloro poetico, poiché lì ricevetti la fede, che rende le anime gradite a Dio e qui san Pietro, per quella fede, ha cinto il mio capo con la sua luce.

William Blake: San Pietro incontra San Giacomo

L’esordio del canto sembra interrompere la narrazione dell’iter paradisiaco del Dante agens e soffermarsi sul Dante auctor, che, di fronte all’esser cinto sul capo da San Pietro, spera che tale atto le venga offerto dai suoi cittadini di Firenze. Non è un caso che tale passo funga da cerniera tra il canto della fede e quello di speranza; la nostalgia della patria, la maturità anagrafica e la consapevolezza di aver dato vita ad un’opera in cui ha posto mano terra e cielo, gli fa sperare che i cittadini, lasciando alle spalle il passato, lo accolgano e lo incoronino come grande poeta.

Quindi a San Pietro si unisce con letizia l’anima di san Giacomo, che si pone di fronte al poeta per il secondo interrogatorio:

«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
dì quel ch’ell’ è, dì come se ne ’nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì ’l secondo lume ancora.
(…)
«Spene», diss’ io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».

«Dal momento in cui la grazia di Dio, il nostro imperatore, vuole che tu incontri, prima di morire, nel posto più riposto del Paradiso, i suoi dignitari, cosicchè, visto la verità di questo regn, tu possa rafforzare in te e negli altri la speranza, che in terra attira al vero amore, dimmi cosa essa sia, di come se ne abbellisce il tuo animo, e da dove ti giunge». Così continuò a parlare ancora San Giacomo (…) «La speranza è l’attesa sicura della nostra salvezza, e che giunge dalla grazia di Dio e dalle nostre azioni già acquisite. Questa verità mi giunge da molti padri; ma colui che la istillò per la prima volta nel mio cuore fu il più grande poeta di Dio (Davide, autore dei Salmi). Egli scrive nel suo canto a Dio: “Sperino in te, chi conosce il nome tuo”: e chi non lo conosce, se egli possiede la stessa fede? Tu mi instillasti (la fede nella speranza), attraverso la sua ispirazione, ed anche nella sua lettera, tanto che io ne sono così pieno, da riversare in altri la vostra grazia (pioggia)

Anche il secondo interrogatorio, come quello di San Pietro, si struttura come una vera e propria risposta teologica, ma qui è più “personale”, col sottolineare la “sua prima volta” in cui ha ricevuto il dono della seperanza e con quell’interrogativa retorica, che attenua l’elevatezza del riferimento all’autore dei Salmi, appunto.

CANTO XXVI
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Il canto XXVI si apre con l’appatizione di San Giovanni che sottopone Dante al terzo interrogatorio, quello sulla carità. Infatti a lui si deve l’affermazione, nelle Lettere dell’apostolo, Deus caritas est. L’esame lo svolge privo della vista, perchè acceccato dalla luminosità dell’evangelista, ed è meno “impegnativo” rispetto a quello sulla fede e sulla speranza, in quanto non chiede la definizione teologica, ma a chi tale carità si rivolga. Questa è la risposta di Dante:

E io: «Per filosofici argomenti
e per l’autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me s’imprenti.
ché il bene, in quanto ben, come s’intende
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontade in sé comprende.
Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è che un lume di suo raggio,
più che in altra convien che si muova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
Tal vero a l’intelletto mio sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
Sternel la voce del verace autore
che dice a Moisé, di sé parlando:
‘Io ti farò vedere ogni valore’.
Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
di qui la giù sovra ogni altro bando».

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Ed io: «Attraverso ragionamenti filosofici e dall’autorità che deriva da qui (Paradiso) tale amore di carità è naturale che sia impresso in me: perché il bene, in quanto bene, appena si prova, fa nascere il sentimento amoroso, ed è tanto più grande, quando ha in sé maggiore bontà. Perciò l’intelletto di ogni uomo in grado di distinguere la verità sulla quale si basa questa argomentazione deve di necessità volgersi con amore, piuttosto che a uno diverso, all’Essere così favorito dal fatto che ogni bene a Lui estraneo non è se non una luce riflessa del suo splendore. Questa verità la spiega alla mia mente colui (Aristotele) che mi dimostra l’esistenza di un primo amore a cui tendono tutti gli esseri immortali. Me la spiega la parola di Dio, autore delle Scritture, che dice a Mosé “Io ti farò vedere ogni cosa buona”. E me la spieghi ancora tu, col sublime manifesto che rivela più solenne di ogni altra voce, i misteri celesti là nel mondo più di ogni altro messaggio».

L’argomentazione prodotta da Dante può sorprendere perché sembra citare Aristotele a cui l’intero medioevo attribuiva (erroneamente) l’opera De causis, che faceva derivare tutte le cose da un principio. Quindi l’amore che egli prova deriva da Dio stesso. D’altra parte è proprio Giovanni che nell’incipit del suo Vangelo aveva detto “In principium erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, Deus erat Verbum.” individuando la fonte da cui tutto deriva grazie all’amore / carità dell’essere supremo.

San Giovanni apostolo

Il canto prosegue con la riconquista di Dante della vista, tanto da poter incontrare l’anima di Adamo, che racconta al pellegrino di sé, di come fu creato, di quanto tempo rimase in Purgatorio, quale sia stata la natura del suo peccato e in che lingua parlò. Da qui l’occasione per Dante di riflettere sulla lingua:

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.
Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.

La lingua che parlai era già del tutto sparita prima che la gente di Nembròt si fissasse all’opera destinata a rimanere incompiuta (la torre di Babele); perché nessun prodotto della ragione umana, per il gusto degli uomini che continuamente cambia, seguendo il corso dei cieli, durò mai in eterno. Fatto naturale è che l’uomo parli; ma quanto al modo, la natura lascia poi che decidere all’uomo, nel modo che vi piace. Prima che io scendessi nelle sofferenze dell’Inferno (Limbo), sulla terra il nome di Dio, sommo bene, da cui proviene la luce che mi fascia, era I; poi si chiamo El, e questo è naturale, dal momento che l’uso delle cose umane è come a quello della foglia sul ramo, che quando cade un’altra vi spunta.

Adamo di fronte a Dante

Il discorso sulla lingua dantesco in questo passo mostra una maturazione del nostro rispetto a quanto detto nel De vulgari eloquentia. “Mentre nel De vulgari è, al pari del latino, sottratto alla deperibilità del parlato in quanto prodotto divino e perciò immutabile e perfetto, il linguaggio adamitico nel Paradiso, ricondotto com’è all’iniziativa personale del parlante, rientra nelle leggi di instrinseca variabilità che presiedono ad ogni lingua. Qui, e chiaramente, si prospetta una soluzione generale al problema delle lingue antiche e moderne, si sostiene che, se è naturale che l’uomo si esprima con un sistema significante di parole, la scelta espressiva, cioè l’adozione di questa o quella lingua, è opera fatale dell’arbitrio umano. L’asserita mobilità, la caducità effimera di ogni linguaggio, spinge Adamo a rapida esemplificazione personale ed empirica: la distinzione tra i nomi con i quali Dio si chiamava nell’idioma primitivo (I) e in quello ebraico (El) gli serve per ribadire la morte della lingua adamitica, avvenuta prima della confusione babelica, e la nascita di quella ebraica, sorta dopo sulle ceneri dell’originaria e prima” (Antonio Quaglio).

CANTO XXVII
(Cielo VIII – Stelle fisse)
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Le anime luminose insieme a quelle di Pietro, Giacomo, Giovanni e Adamo, ora innalzano un “gloria” a Dio, a festeggiare la promozione di Dante, dopo aver superato le interrogazioni dei santi. Ma l’anima di san Pietro improvvisamente si “arrossa”, per esprimere la sua rabbia per la corruzione della Chiesa di cui lui è stato padre. In seguito tutti i beati ascendono in cielo, sparendo dallo sguardo del poeta: Beatrice chiede a Dante di gettare per l’ultima volta uno sguardo sulla terra, prima di salire al Primo Mobile o Cristallino. Beatrice, al colmo della felicità, spiega a Dante le principali caratteristiche del nono cielo, il più esterno del mondo fisico ed è quello da cui dipende il movimento e il tempo unioversale.

 

Quindi anche Beatrice rivolge un’invettiva alla corrutibilità dell’animo umano, che nasce con il naturale desiderio di bene per poi cominciare a decadere moralmente sin dall’adolescenza. Ma la stessa termina il discorso con un’espressione di speranza, perché Dio interverrà a riportare giustizia e ordine nel mondo.

 

CANTO XXVIII
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Il canto inizia con l’apparizione di un punto luminosissimo in cui si manifesta la divinità:

E com’io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che il viso ch’egli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
partrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si colloca
.

E come mi girai ed il mio sguardo fu colpito da quello che appariva in quel cielo, ogni volta che si osservi a fondo il suo movimento circolare, vidi un punto che emetteva una luce così intensa, che è necessario che l’occhio che esso illumina si chiuda a causa della grande intensità di quella; ed ogni stella che dalla terra appare più piccola, sembrerebbe grande coma la luna, vicino a quel punto come se si collocasse una dstella vicina a un’altra.

La divinità è circondata da nove cerchi angelici, illustrati a Dante da Beatrice:

E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno;
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente ’Osanna’ sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’ io.
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri».

E Beatrice, colei che leggeva nel mio pensiero i miei dubbi, mi disse: «I primi due cerchi luminosi ti hanno mostrato i Serafini e i Cherubini. Essi seguono così velocemente i loro legami per poter identificarsi a Dio quanto più possono, e lo possono in quanto sono perfetti nella loro visione di Dio. Gli spiriti che girano intorno a loro si chiamano Troni di Dio e loro furono posti a chiudere la prima triplice gerarchia celeste. Devi apprendere che tutti costoro hanno la loro felicità quanto si profonda la loro visione in Dio, verità in cui ogni mente trova pace. Da questo si può comprendere come la beatutudine si basa sulla visione e non sull’amore, che la segue; e la misura della capacità di vedere il merito che la Grazia e la buona volontà generano: così si accresce in beatitudine. L’altra gerarchia formata da tre cori angelici, che fiorisce rigogliosa in questa eterna primavera celeste che non c’è autunno che possa far appassire, canta in eterno Osanna con tre melodie, che risuonano in tre cori angelici in cui essi si compongono. In questa gerarchia ci sono altri divinità angeliche: prima le Dominazioni, poi le Virtù ed il terzo ordine è quello delle Potestà. Poi nel terzultimo e penultimo ordine ruotano con tripudio i Principati e gli Arcangeli; l’ultimo cerchio è composto da angeli festanti. Tutti questi ordini angelici tendono verso Dio e verso il basso esercitano la loro influenza affinché tutti vengano attirati e attirino loro stessi verso Dio. E Dionigi l’Areopagita con grande desiderio si mise a contemplare tali gerarchie angeliche dando loro nome, così come io te li ho riportati. Ma Gregorio Magno in seguito dissentì da lui, per cui, non appena si rese conto qui in Paradiso del suo errore, sorrise di se stesso. E non voglio che tu ti ammiri che un uomo mortale nel mondo terreno poté annunciare una verità tanto sublime, poiché glielo rivelò San Paolo, che vide qui in cielo insieme a tante altre sfere celesti.  

“Dionigi Areopagita è figura di grande spicco nella trasmissione del sapere antico e nella costituzione della teologia cristiana. Convertito  da San Paolo nel 52, fu poi vescovo di Atene e morì nel 95. Gli vennero attribuite molte opere, tra cui la più frequentata, anche da da Dante, è il De coelesti hierarchia, ma oggi si sa bene che sono tutte apocrife e che furono stese nel V secolo da un neoplatonico. E infatti le teorie dello pseudo-Dionigi sono una combinazione di neoplatonismo e di cristianesimo, cioè di emanatismo, secondo il quale Dio si manifesta nell’universo e tutto l’universo tende a ritornare a lui, e di creazionismo, per cui l’universo è opera diretta e istantanea di Dio. Gran parte della teologia tardoantica e medievale si era aggirata su questi temi, che giungono a penetrare anche la cultura protorinascimentale, anche se allora tutto ciò sarà complessivamente a contatto con motivi addirittura contrari.” (Riccardo Scrivano) 

CANTO XXIX
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Quasi come in un dittico, prosegue la spiegazione sull’angelologia di Beatrice. Dopo aver illustrato a Dante la loro il loro ordine e la loro gerarchia, ora la bella guida gli spiega l’ubi ed il quando della creazione, che chiaramente non avviene perché Dio avesse bisogno della loro creazione per sentirsi maggiormante perfetto, in quanto la perfezione è parte della sua essenza divina, ma dalla gratuita espansione de suo essere, con cui loro stessi possono dire subsisto (io esisto). Dio crea tutto: la forma (le pure intelligenze angeliche), la materia (la materia prima del mondo sublunare) e la sussistenza di intelligenza e materia che sono i cieli. Non è lecito chiedersi cosa vi era prima, perchè il prima non esisteva non esistendo il tempo. Quindi Beatrice parla della ribellione di Lucifero, ma solo per dirci che, contrariamente a lui, ci sono angeli buoni. Questi non hanno memoria, perchè contemplano tutto nell’eterno presente della luce divina. Il canto si conclude con la critica piuttosto puntuta contro chi, predicando in modo errato e non seguendo le Sacre Scritture disvia dalla verità e chi, per conquistare numerosi uditori per ottenere indulgenze, riempe le sue prediche di “ciance” e “motti”.

 

  CANTO XXX
(Cielo IX - Primo Mobile o Cristallino)

(Cielo X - Empireo)

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano,
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia».

Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’ a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest’ acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso».

In un luogo distante circa seimila miglia (da questo) arde il mezzogiorno e in esso la terra proietta già il cono d’ombra quasi all’altezza del nostro orizzonte , quando l’atmosfera del cielo, alta sopra di noi comincia a farsi tale che qualche stella comincia a esser visibile fin quaggiù sulla terra, e via via che l’aurora avanza, luminosa ancella del Sole, progressivamente il cielo sembra nascondere le sue stelle, sino alla più luminosa. Non diversamente i cori degli angeli che in eterno tripudiano intorno al punto dalla cui luce fui sopraffatto, che circondano e sono al contempo circondati, a poco a poco svanirono dalla mia vista: per cui il non vedere nulla e l’affetto mi spinsero a rivolgere gli occhi verso Beatrice. Se si potesse concetrare tutto in un’unica espressione di lode, questa sarebbe inadeguata ad esaurire tale compito. La bellezza che io vidi va al di là delle nostre capacità umane, ma solo Dio creatore può gioirne appieno. Mi dichiaro vinto da questo passaggio del mio poema, più che mai poeta comico o tragico si sentisse sovrastato da qualche punto del tema assunto a oggetto della sua poesia, perché come la luce del sole batte su occhi traballanti, alòlo stesso modo il sorriso di Beatrice fa venir meno il mio intelletto a me stesso. Dal giorno in cui vidi il suo viso nella vita terrena, sino a questa visione, non sono stato impedito dal seguire precisamente il mio canto, ma ora è inevitabile che il mio poetare venga meno nel seguire la sua bellezza, come ciascun poeta quando arriva al limite della sua capacità espressiva. Così, rispetto al mio fare poetico, che sta portando a termine l’ardua impresa,  l’affido a poeta in grado di poterla cantare nel modo in cui, con atteggiamento e parole di sicura guida riniziò a dirmi: «Noi siamo usciti fuori dal Primo Mobile verso il cielo che è pura luce: luce intellettuale (non fisica), piena d’amore, amore del vero bene, che infonde pienezza di gioia, gioia che sovrasta ogni dolcezza. Qui vedrai i beati e gli angeli del Paradiso ed i primi con l’aspetto che prenderanno nel giorno del giudizio universale». Come un lampo improvviso che disperda sin da subito la capacità visiva, privando l’occhio dal cogliere oggetti diventati troppo intensi per lui, così una luce intensa mi circondò col suo splendore e mi lasciò fasciato da talò luminosità da non poter veder nulla. «La carità di Dio, che riempie della sua pace questo cielo, accoglie vsempre in sé chi vi entri con un siffatto saluto, affinché l’anima possa ricevere il suo ardore, come una candela la fiamma». Queste poche parole non mi giunsero più velocemente di quanto io compresi di quanto di sollevarmi al di sopra delle mie capacità, e ripresi a vedere con una più accentuata capacità visiva tale che non vi è luce così fulgenre che i miei occhi non potessero osservare; e vidi una luce riplendente di fulgore che scorreva tra due rive adorne di mirabile fioritura primaverile. Da tale fiume emergevano faville vive che si posavano sui fiori come rubini incastonati nell’oro, poi, come inebriate dal profumo, si rigettavano nel fiume e mentre esse si immergevano altre sgorgavano all’esterno. «Il grande desiderio che ora arde in te e ti stimola, di sapere cos’è ciò che vedi, tanto mi piace quanto più cresce d’intensità; ma è necessario che tu beva quest’acqua, prima che la sete (il tuo desiderio) possa essere saziata», così mi disse la luce degli occhi miei. E quindi aggiunse: «Il fiume e le faville splendenti come pietre preziose che entrano eed escono nell’acqua del fiume, costituiscono velate prefigurazioni del loro autentico essere. Non perchè tali cose siano imperfette, ma per ancora tua incapacità, che non possiedi occhi così potenti». Non vi è bambino che corra velocemente verso la mammella materna se si sveglia un po’ più tardi del solito, di quanto feci io, per rendere i miei occhi più efficaci, chinandomi sull’acqua del fiume che scorre perché ci si renda migliori, e come gli occhi miei bevvero di quell’acqua, mi parve che il fiume da lungo diventasse circolare (allagasse l’intero spazio). Poi come persone sotto la maschera, diverse da come sembrano essere, se si svestono di essa, allo stesso modo i fiori e le faville si trasformarono in uno spettacolo ancora più festante, in quanto eserciti di Dio. Oh, splendore di Dio, grazie al quale potei osservare l’alto trionfo dell’autentico regno, dammi la forza affinché affinché rioesca a descriverlo così come lo vidi! Luce è lassù che rende visibile il Creatore a colui che nel contemplarlo trova il suo appagamento.  Questa luce si estende in forma circolare tanto che la siua circonferenza sarebbe troppo grande a contenere il sole. L’insieme di tale luminosità deriva da un unico raggio proveniente da Dio che si riflette sulla superficie esterna del Primo Mobile, ricevendo così la vita e la forza, tali da essere trasmessi ai cieli inferiori. E come un pendio che si riflette in uno specchio d’acqua ai suoi piedi , quasi per compiacersi della sua bellezza quando, in primavera, è verde e ricco di fiori , così allo stesso modo vidi tutte le anime beate, stando sopra tutt’intorno a quella luce, rispecchiarsi in essa disposti in innumerevoli gradini. E se l’ultimo gradino contiene una tale quantità di luce, quanta ne accoglie nei petali più lontani dalla luce, quindi più estesi! La mia capacità visiva non si smarriva per la vastità e la profondità, ma riusciva a cogliere la quantità e la qualità di quella beatitudine. Nell’Empireo il concetto di lontananza e vicinanza non hanno valore, perché dove Dio governa senza altro mezzo, le leggi fisiche non contano. Nel giallo (luogo degli stami e dei pistilli) della candida rosa che si distende progressivamente amplisandosi ed emana un profumo di lode al Signore, come persona che non dice ma desidera, mi condusse Beatrice e disse: «Osserva quanto è numerosa la riunione dei beati! Guarda la nostra città per quanto si estende; osserva i seggi come sono pieni, c he poca gente manca a riempirli. Ed in quel gran seggio su cui hai posto gli occhi, su cui è posta la corona imperiale, prima che tu ti sieda a questo banchetto di felicità eterna (prima della tua morte) si poserà l’anima che sarà nel mondo Augusta (imperiale) del nobile Arrigo, che giungerà in Italia per riportarla sulla retta via, prima di quanto essa sia preparata ad accoglierlo. La sordida avarizia che vi strega vi ha reso simili ad un infante che piuttosto muore di fame, pur di scacciare la balia. E in quel tempo sarà a capo della Chiesa un tale (Clemente V) che apertamente e nascostamente si distaccherà dal suo cammino. Ma Dio lo sopporterà poco a capo della Chiesa, tanto da essere gettato nel profondo là dove paga il suo peccato di simonia Niccolò III, facendo sprofondare più in basso Bonifacio VIII». 

Con questo canto Dante entra nel Paradiso vero e proprio, uscendo da quel luogo fisico che ancora il Primo mobile rappresentava. E lo fa attraverso la “difficile” descrizione di ciò che la sua vista può permettergli di ammirare: cioè, per meglio dire, della capacità visiva che, grazie a Dio, fuori da quella umana, consentirà a lui di osservare la “verità” che solo gli angeli e i beati “conoscono perchè la vivono”. Tale facoltà visiva, tuttavia, sembra contrastare con la capacità della parola: tanto aumenta l’una quanto diminuisce l’altra. Infatti dapprima riesce a percepire l’allontanamento degli angeli, lasciando il cielo vuoto, a preparare un nuovo spettacolo; quando si rivolge a Beatrice affinché possa illustrare ciò che accade, la sua bellezza o la sua essenza divina è talmente forte da non poter trovare parole umane che la possano rappresentare; riappare, cioè il topos dell’ineffabile. E questo accade anche quando, dopo un momentaneo accecamento, riacquisendo la facoltà visiva, si trova di fronte ad un lago di luce in cui ciò che era si trasformerà in ciò che sarà per sempre. Infatti Beatrice gli rivelerà che lui sta assistendo a ciò che avverrà il giorno del giudizio universale, quando corpo e anima si riuniranno a cantare le lodi del Signore. Dopo tanta ineffabile poesia, dopo essere stati invasi da immagini che rimandavano alla luce, allo splendore, a raggi riflessi, non poteva mancare un “accenno” a chi parteciperà a tale esplosione di gioia e luce e a chi ne sarà escluso: torna la storia, l’urgenza politica e Clemente V e Arrigo VII riceveranno da Dio pena e gloria, ma nella realtà tale esito non avrà effetti.

CANTO XXXI
(Cielo X – Empireo)

Il canto esprime l’estasi con cui Dante osserva la candida rosa. Angeli, con ali dorate, che vanno e tornano dagli eletti a Dio, comunicando pace e carità. Lo sguardo del poeta è rapito ed estasiato, e per fare in modo che il lettore possa partecipare a ciò che anche per lui è ineffabile, etereo, puro nel suo splendore, ricorre ad esempi umili, come quello dell’uomo dei paesi del nord che prova meraviglia di fronte allo splendore della città eterna, o di un pellegrino che si ritrova nel santuario che aveva deciso di visitare. Allo stesso lui, muto e stupefatto di fronte all’eccezionale spettacolo che Dio gli offre, volge lo sguardo per chiedere a Beatrice, lei non c’è più:

Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.

Pensavo di rivolgermi ad una persona e mi rispose un’altra: credevo di vedere Beatrice e vidi un vecchio vestito come un beato. Era diffusa negli occhi e nel volto una amorevole gioia, nell’atto caritatevole come dev’essere un tenero padre. E subito io gli domandai: «Dov’è lei?» E lui: «A terminare il tuo desiderio, Beatrice mi ha fatto venire qui dal posto in cui ero, e se guardi in alto nel gradino più alto , tu potrai vederla nel seggio che i suoi meriti le hanno destinato». Senza rispondergli, volsi lo sguardo e la vidi che si circondava di un’aureola di luce riflettendo i raggi di luce divina. Da quella zona del cielo in cui più in alto risuonano i tuoni non è lontana la vista di nessun uomo, neanche di quello che più s’immerge nel mare, tanto quanto distava la mia da Beatrice in quel luogo, ma questo non aveva effetto, giacché la sua immagine non mi raggiungeva offuscata da elementi fisici. «O donna, per la quale si rafforza la mia speranza, e che hai sopportato di lasciare le tue impronte nel luogo infernale per la mnia salvezza, di tutte le cose che ho vedute, riconosco che la Grazia e la Virtù sono derivate dalla tua forza e dalla tua bontà. Tu da servo mi hai portato alla libertà per tutte quelle vie e con tutti i mezzi di cui tu possedevi il potere. Conserva in me la tua magnificenza, di modo che l’anima mia che hai reso pura, si separi dal corpo a te gradita». Così pregai, e Beatrice da tanto lontana come appariva, sorrise e mi guardò, quindi si rivolse a Dio, fonte infinita di grazia. 

L’assenza improvvisa di Beatrice e al suo posto l’apparizione di un vecchio, non produce su Dante lo sesso effetto che ebbe la scomparsa, anch’essa improvvisa di Virgilio, in quanto essa dà al nostro soltanto una sensazione di vuoto, che si colma subito vedendola divisa da uno spazio inesistente, seduta circondata dal raggio di Dio. Solo ora si innalza una preghiera che sembra portare a compimento ciò che nella Vita nuova “Apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. E sembra che la preghiera in suo onore sia la degna chiusura di un rapporto, con un cambio pronominale che la rende più vicina in quanto è proprio grazie a lei che egli ora è giunto da “schiavo” a “libero”. E dopo averlo ringraziato, Beatrice si allontana da lui, rivolgendosi a Dio. Nel volgere lo sguardo verso il Signore, la donna prediletta si allontana definitivamente con un congedo che equivale a un addio.

Il “sene” è San Bernardo di Chiaravalle. Egli è scelto da Dante per due motivi: la ripresa della sua visione mistica con angeli e beati in mezzo ai fiori nel suo De diligendo Deo, dall’altra nel suo essere devoto in particolar modo a Maria, come attesta in altri scritti. La sua opera e il suo ruolo ebbero molta fama nel Mediovo come promotore della seconda crociata, consigliere di papi, critico verso il razionalismo di Abelardo, ma soprattutto per il suo rigoroso ascetismo.

Sarà san Bernardo che chiederà a Dante di sollevare lo sguardo per osservare là dove sedeva Maria Vergine il cui splendore vinceva quello dell’ultimo gradino. Intorno a lei gli angeli facevano festa che ricevevano a loro volta il suo splendore. Il santo visto che il suo nuovo discepolo guardava con occhi ardenti lo splendore di Maria, rivolse anch’egli gli occhi alla Madonna.

CANTO XXXII
(Cielo X – Empireo)

In questo canto San Bernardo si fa precettore ed illustra l’Empireo a Dante. Vi è un anima ritta ai piedi di Maria, è Eva; quindi da una parte donne antiche sia bibliche che ebree, dall’altra in modo corrispondente uomini; queste anime sono ulteriormente divise tra coloro che credettero in Cristo venturo e in Cristo venuto. Inoltre al centro di questo empireo a forma sia di petali che di anfiteatro vi sono i bimbi morti in grazia di Dio, pur non avendo potuto esercitare il libero arbitrio. Infanti tutti loro hanno ricevuto una forma di “battesimo” a seconda il periodo in cui nacquero. Al tempo di Adamo ed Eva bastava seguire la fede genitoriale; da Abramo a Gesù fu necessaria la circoncisione e quindi dopo l’arrivo di Gesù il battesimo. Quindi come se ci trovassimo in una corte medievale, Bernardo illustra coloro che sono più vicini a Dio. Ma nel frattempo invita il pellegrino a prepararsi per la visione finale di Dio.

Paradiso 32 – Digital Dante

CANTO XXXIII
(Cielo X – Empireo)

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

«Vergine madre, figlia di tuo figlio, la più umile e la più nobile di ogni essere creato, fine e scopo predestinati del volere divino, tu sei colei che hai talmente nobilitato l’intera umanità, che il suo creatore non rifiutò di diventar creatura. Nel tuo seno si accese nuovamente l’amore di Dio per l’uomo (interrotto dopo il peccato originale) grazie al calore del quale è germinato questo fiore dei beati. Qui sei per noi (angeli e beati) fiaccola di carità e giù, tra i mortali, sei perenne fontana di speranza. Signora, sei così grande e di così grande virtù, che chiunque desidera Dio e non si rivolge a te, il suo desiderio è destinato a fallire. La tua volontà di bene non solo corre in soccorso a chi lo chiede, ma spesso previene spontaneamente la domanda. In te misericordia, in te disposizione al bene, in te magnificenza, in te si raccoglie tutto ciò che di virtuoso c’è in un essere creato. Ora costui, che dal punto più basso dell’universo (l’inferno) ha fino qui visto gli stati delle anime nelle vita ultraterrena, ti supplica, per grazia, tanta virtù affinché possa elevarsi più in alto verso l’estrema salvezza. Ed io, che mai arsi di più per vedere Dio di quanto faccia per lui, ti porgo tutte le mie preghiere, e prego che non siano insufficienti, affinché tu con le tue preghiere lo liberi da ogni tenebra della sua natura mortale, di modo che Dio si sveli integralmente di fronte alla sua presenza. Ti prego ancora, o madre regina, che puoi realizzare ciò che vuoi che, dopo tale vista, lui conservi puri i suoi sentimenti. Vinca la tua protezione le sue passioni terrene, vedi come Beatrice, insieme a tanti beati, congiunga le mani alla mia preghiera». Gli occhi della Vergine, amati e venerati dallo stesso Dio, rivolti verso l’oratore, ci dimostrarono quanto siano a lei gradite le devote preghiere; quindi si rivolsero direttamente verso Dio, in cui non bisogna credere che si possa guardare in modo così chiaro (come quelli della Madonna) da parte di quasiasi altro essere creato (beati ed angeli). Ed io che mi avvicinavo al termine di tutti i miei desideri, così come doveva essere, sentii in me il massimo ardore di tale desiderio. Bernardo mi faceva segno, e sorrideva, per farmi guardar in alto, ma io già lo facevo di mia iniziativa: perché la mia capacità visiva, acquisendo chiarezza, penetrava via via con maggior forza dentro il raggio della profonda luce che per la sua essenza è veritiera. Da qui in poi il mio vedere fu maggiore di quanto la mia parola possa mostrare, che non regge di fronte ad un oggetto che eccede la possibilità per una visione a cui anche la stessa facoltà del ricordo si arrende. Come accade a colui che sogna e che, dopo il sogno, rimane impressa la sensazione di esso, ma non le immagini, allo stesso modo sono ora io, in quanto è svanito l’oggetto della mia visione, ma ancora permane nel mio animo una stilla della dolcezza scesa da quella visione. Così la neve si scioglie al sole, così la sentenza della Sibilla si perdeva nelle foglie colpite dal vento. O somma luce che così in alto ti sollevi dai pensieri umani, ridona un po’ alla mia mente come mi apparisti, e rendi la mia lingua tanto potente di modo che possa lasciare ai lettori futuri solamente una favilla della tua gloria; perché se ritornerà anche solo una piccola parte del mio ricordo e risuonerà parzialmente nei miei versi (ciò che io vidi) gli uomini comprenderanno meglio la tua sublime eccellenza. Io credo, per l’intensità del raggio luminoso che mi colpì, che sarei perduto (rimasto abbagliato) se avessi allontanato gli occhi da lui. E mi ricordo che appunto per questo motivo osai con maggior coraggio persistere a sopportare quell’intenso splendore, al punto da congiungere il mio sguardo con la divina essenza. Oh generosa grazia divina per merito della quale io ardii spingere lo sguardo attraverso la luce di Dio, tanto che vi impegai l’intera mia capacità visiva! Nella profondità delll’essenza divina vidi internarsi riunito con amore in un solo legame in un tutt’uno tutto quello che nell’universo appare distinto: le realtà che esistono per se stesse e il modo in cui esplicano la loro essenza e le loro reciproche relazioni, come intimamente compenetrati, di modo che il io modo di rappresentarlo è appena un piccolo barlume del vero. Il principio primo di tale compenetrazione credo di averlo visto, perché solo nell’affermarlo mi sento pieno di gioia. Un solo istante della visione è causa di maggiore oblio che venticinque secoli per l’impresa che fece stupire Nettuno nel vedere l’ombra della nave Argo. Allo stesso modo la mia mente, tutta assorta, guardava fissa, ferma e concentrata e sempre cresceva l’ardore della contemplazione. Sotto l’effetto di una luce così ci si diventa, che è impossibile assentire di volgere lo sguardo per un altro oggetto; per il fatto che il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie completamente in essa e quello che in questa luce (in lei) è perfetto, è imperfetto fuori di lei. Ormai sarà più inadeguato il mio dire, rispetto a ciò che costituisce il mio ricordo, di quanto un bimbo che suggelli ancora il latte da una mammella. Non perché vi fosse più di un solo aspetto nella luce vivida di Dio che io contemplavo, che anzi è eternamente tale e quale è sempre stata; ma a causa della mia facoltà visiva che in me s’accresceva di potenza mediante la contemplazione, una sola immagine, mutandomi io, si trasformava di fronte al mio sguardo. Nella profonda e luminosa essenza mi apparevero tre cerchi rotanti di tre colori e di una stessa dimensione; ed il secondo di questi pareva riflesso dal primo, come un arcobaleno si raddoppia da un altro, mentre il terzo sembrava un giro di fuoco che venisse alimentato dai primi due in pari misura (figura in cui si rivela la Trinità Padre Figlio e Spirito Santo). Oh quanto è inadeguato il mio dire e come è incolore il concetto rispetto a quello che della visione ho inteso e ciò, a paragone di quanto ho veduto è di tal misura che non è sufficiente affermare che è poco. O luce eterna che stai in te sola, sola ti comprendi (Padre) e intesa da te e intendendo te (Figlio) gioisci d’amore (Spirito Santo). Quel cerchio che in te appariva generato quale luce riflessa, osservato attentamente dal mio sguardo per un certo periodo, mi sembrava effigiato della nostra stessa natura umana: per cui il mio viso si era tutto affissato in lei. Come il matematico che si concentra con tutte le capacità intellettuali nel tentativo di trovare la quadratura del cerchio, ma non riesce a rinvenire, pur arrovellandosi strenuamente, il principio matematico risolutore del quale ha bisogno, allo stesso modo ero io di fronte a quella nuova visione: volevo vedere come la figura umana poteva adattarsi alla forma del cerchio e come in essa si collochi; ma le mie forze intellettuiali non erano sufficienti per svelare il mistero: ed ecco che la mia mente fu colpita da un lampo di luce; grazie al quale il suo desiderio fu esaudito. Alla mia forza immaginativa che si era sollevata così in alto, venne meno a questo punto la forza: ma già Dio, sommo amore che fa girare il sole e le altre stelle, faceva già girare il mio desiderio e la mia volontà, imprimendo in esse lo stesso movimento.  

E’ questo non solo il canto con cui si chiude la cantica del Paradiso, ma quello che conclude l’intera Comedìa. Era stato Virgilio a promettere a Dante (altro viaggio, dirà nel I canto infernale) che egli sarebbe stato tra le beati genti, guidato da Beatrice, ma soprattutto come nel II canto sarà la Vergine Maria a sollecitare Beatrice affinchè vada in soccorso a colui che per lei uscì dalla volgare schiera. Ed è proprio dalla Vergine Maria, a cui Bernardo nel canto precedente aveva invitato Dante a rivolgere lo sguardo, che prende avvio il canto, con una preghiera umanissima, in cui si sottolinea la gioia provata da Lei nel beneficare e quindi Le chiede di intercedere affinché il pellegrino possa ora trovare compimento al suo viaggio osservando la Dei imago. 

Da questo punto in poi la Commedia diventa un racconto in cui il Dante auctor cerca di ricordare ciò che il Dante agens ha vissuto, ma di tale elevatezza che il Dante “odierno” rammenta appena un’ombra, ma che neppure essa può essere rappresentata dalla limitatezza della parola umana. Il topos secondo cui il trasumanar significar per verba non si poria si alterna ad una descrizione iperbolica in cui alla luce accecante segue una descrizione – in linea con l’ortodossia cattolica – della trinità rappresentata con la visione di tre cerchi. Ed è proprio all’interno di essi che si verifica la metamorfosi in cui s’inscrive l’incarnazione divina nell’uomo: ma ciò che egli intuisce non può essere vissuto umanamente, in quanto egli ha provato l’excessus mentis o meglio una visione mistica in cui si è trovato in armonia con il creatore e le cose create.  

 
 

ROMANTICISMO

La Restaurazione: il prodotto del Congresso di Vienna - laCOOLtura

L’Europa nel 1815

Nel 1815 il Congresso di Vienna restituiva all’Europa una fisionomia che, da punto di vista politico e geografico, tentava di ripristinare la situazione presente prima della Rivoluzione Francese. I grandi ministri, tuttavia, stettero attenti a non umiliare completamente la Francia, affinché non si alterasse troppo il peso di ogni nazione all’interno del continente. Con la Grande Alleanza (Austria, Prussia e Russia)  le potenze cercarono di ripristinare le legittime dinastie all’interno degli stati: la loro politica tuttavia mirava a rafforzarsi, ritagliandosi zone di influenza su cui operare: la Russia voleva sbalzare l’Impero Ottomano e aver mano libera nel Bosforo; la Francia e l’Inghilterra – che si era tenuta al di fuori dall’accordo, mantenendo la monarchia costituzionale – aiutarono la Grecia nell’ottenere l’indipendenza (quindi il controllo sul Mediterraneo), mentre la Prussia rinforzava la sua politica all’interno della sfera germanica. Anche l’Italia subì la stessa sorte, con poche modificazioni rispetto all’assetto politico precedente, fra le quali le più importanti furono il passaggio delle Repubbliche di Venezia e di Genova rispettivamente ai domini austriaci e al regno di Sardegna.

Tuttavia questo “ritorno al passato” non poteva avvenire senza alcuna conseguenza: non era possibile, infatti, cancellare con un tratto di penna l’esperienza napoleonica, tanto più che essa aveva mostrato, pur con tutti i limiti e le contraddizioni “insite” nel sistema stesso, i benefici di uno stato amministrativamente forte ed accentrato. Si creava così, da parte dell’intellettualità più preparata e progressista, una nostalgia tanto più forte rispetto all’immobilismo e alla pochezza dei sistemi restaurati; ma un altro fattore, non meno importante del primo, contribuiva a creare quel clima di risentimento che darà vita ad insurrezioni d’ispirazione liberale che coinvolsero i paesi meridionali del Mediterraneo: la Spagna, il Regno delle Due Sicilie e, come già detto, la Grecia. In Italia tale fermento liberale costituirà la base del nostro Risorgimento formato da uomini che esprimevano l’esigenza di una crescita economica e civile della nostra borghesia, di nuovo censurata e mortificata dallo spezzettamento territoriale e dal clima autoritario che in ciascuno dei vecchi stati s’era costituito.

Già durante i primi decenni il dibattito politico/ideologico si era concentrato sul costituzionalismo, il riformismo e l’identità nazionale: dalle lotte per l’affermazione di questi principi si giunse alla proclamazione d’indipendenza greca del ’30 e al regno di Filippo d’Orleans che diede vita in Francia ad una monarchia costituzionale. Anche in Italia, a livello ideologico, si affermano le esigenze di libertà e di difesa nazionale, che stanno alla base dei primi moti insurrezionali che costellano la nostra storia tra il ’20 e il ’48 e che fanno della “questione italiana” un aspetto della “questione europea” delle nazionalità oppresse (polacchi, serbi, ungheresi) che rappresenta uno dei problemi politici più scottanti del nostro Ottocento.

Diploma di filiazione alla Carboneria (1820)

Tra il 1820 ed il 1831, in Italia le cospirazioni sono in gran parte organizzate dalla Carboneria che in varie forme e filiazioni ereditano le esperienze delle leggi massoniche già operanti nel ‘700 e durante il periodo napoleonico. Essa esprime, grosso modo, l’esigenza di quella impostazione di stampo liberale e costituzionale già avvertita, negli anni precedenti, ad esempio da Vincenzo Cuoco: il suo programma consiste nel tentare d’imporre ai sovrani, attraverso l’attività segreta e la ribellione, una costituzione che garantisca le libertà fondamentali senza mettere in discussione, tuttavia, né l’assetto istituzionale (la monarchia), né quello sociale dello Stato.

Giuseppe Mazzini - Wikipedia

Giuseppe Mazzini

L’opposizione ferma e decisa dei governi locali e degli austriaci, se da un lato frustrano le aspettative, dopotutto moderate, della borghesia, dall’altra radicalizzano le opposizioni favorendo il costituirsi di un’ala democratica e repubblicana, egemonizzata all’inizio da Giuseppe Mazzini e dalla sua organizzazione, la Giovane Italia.

Su questo quadro s’innesta la politica dei Savoia che protesa nella prosecuzione di una politica espansionistica, intravede la possibilità di sfruttare l’aspirazione alla nazionalità e all’indipendenza per un aumento di potere della propria casata. Accolgono, infatti, all’interno dei loro confini, i settori più moderati dell’opinione pubblica nazionale i quali, pur essendo contro i sovrani restaurati, temono che un rivolgimento politico possa determinare anche un rivolgimento sociale.

File:Donghi 5 giornate 1848.jpg - Wikipedia

Felice Dondi: Le cinque giornate di Milano (1845)

Su questo sfondo s’inseriscono le rivoluzioni francesi del 1830 e del 1848, la guerra regia del Piemonte contro l’Austria (1848/1849) e l’esperienza delle Repubbliche popolari di Roma e di Venezia, caratterizzate, soprattutto la prima, dalla predicazione mazziniana.

Un uomo e una donna davanti alla luna - WikipediaCaspar David Friedrich: Uomo e donna di fronte alla luna (1820)

Il Romanticismo, prima di essere italiano, fu prima di tutto un aspetto della cultura europea.

Germania

In Germania il Romanticismo nacque ufficialmente nel 1799, grazie al filosofo Schlegel, al poeta Novalis e soprattutto la rivista Athenäum quando a Berlino lo stesso Schlegel indicherà con romantik un aspetto della sensibilità moderna in antitesi a quella legata al mondo classico.

WILHELM AUGUST VON SCHLEGEL
POESIA CLASSICA E POESIA ROMANTICA

Alcuni filosofi, i quali però s’accordano con noi nella nostra maniera di riguardare il genio particolare de’ Moderni hanno creduto che il carattere distintivo della poesia del Nord fosse la melancolia; la quale opinione, dove sia chi bene la intenda, non s’allontana dalla nostra. Appo i Greci, la natura umana bastava a se stessa, non presentiva alcun vòto, e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma quanto a noi, una più al­ta dottrina c’insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo il posto che gli era stato originariamente destinato, non ha sulla terra altro fine che di ricuperarlo; al che tuttavia non può giugnere, s’egli resta abbandonato alle sue proprie forze. La religione sensuale de’ Greci non promette­va che beni esteriori e temporali. L’immortalità, se pur vi credevano, non era da essi che appena ap­pena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida immagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgoreggiante. Sotto il punto di vista cristiano, tutto è precisamente l’opposito; la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha de’ limiti; la vita presente si è sepolta nella notte, ed oltre alla tomba soltanto brilla l’interminabile giorno dell’esistenza reale. Una simile religione risveglia tutti i presentimenti che ri­posano nel fondo dell’anime sensitive, e li mette in palese; ella conferma quella voce segreta la qual ne dice che noi aspiriamo ad una felicità cui non si può aggiugnere in questo mondo, che nessun oggetto caduco può mai riempire il vòto del nostro cuore, che ogni piacere non è quaggiù ch’una fugace illusione. Allorché dunque, simile agli schiavi Ebrei, i quali prostesi sotto i salci di Babilonia fa­cevano risonare dei loro lamentevoli canti le rive straniere, la nostr’anima esiliata sulla terra sospira la sua patria, quali possono mai essere i suoi accenti, se non quelli della melanconia? E però la poesia degli Antichi era quella del godimento, la nostra è quella del desiderio; l’una si stabiliva nel presente, l’altra si libra fra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire. Nondimeno non bisogna credere che la melanconia si vada al continuo esalando in monotone querimonie, né ch’ella si esprima sempre distintamente. Nella stessa maniera che la tragedia fu sovente appresso de’ Greci energica e terribile ad onta dell’aspetto sereno sotto cui essi riguardavano la vi­ta, anche la poesia romantica, come l’abbiamo pur anzi dipinta, può passare per tutti i tuoni, da quello della tristezza infino a quello della gioia; ma sempre trovasi in essa un certo che d’indefinibile che dinota l’origine sua; il sentimento è in essa più intimo, l’immaginazione meno sensuale, il pensiero più contemplativo. Contuttociò in realtà i limiti si confondono alcuna volta, e gli oggetti non si mostrano mai interamente distaccati gli uni dagli altri, e quali siamo costretti di rappresentarceli per averne un’idea distinta. I Greci vedevano l’ideale della natura umana nella felice proporzione delle facoltà e nel loro armo­nico accordo. I Moderni all’incontro hanno il profondo sentimento d’una interna disunione, d’una doppia natura nell’uomo che rende questo ideale impossibile ad effettuarsi: la loro poesia aspira di continuo a conciliare, ad unire intimamente i due mondi, fra’ quali ci sentiamo divisi, quello de’ sen­si e quello dell’anima: ella si compiace tanto di santificare le impressioni sensuali coll’idea del miste­rioso vincolo che le congiugne a’ sentimenti più elevati, quanto di manifestare a’ sensi i movimenti più inesplicabili del nostro cuore e le sue più vaghe percezioni. In una parola, essa dà anima alle sensa­zioni, corpo al pensiero. Non è dunque maraviglia che i Greci ne abbiano lasciato, in tutti i generi, de’ modelli più finiti. Essi miravano ad una perfezione determinata, e trovarono la soluzione del problema che s’avevano pro­posto: i Moderni a riscontro, il cui pensiero si slancia verso l’infinito, non possono mai compiutamen­te soddisfare se stessi, e rimane alle loro opere più sublimi un non so che d’imperfetto, che l’espone al pericolo d’essere male apprezzate.

August Wilhelm von Schlegel - Wikipedia

August Wilhelm Schlegel

Vi è nel passo di Schlegel la consapevolezza di superare quella dicotomia che ancora era presente nella cultura di fine Settecento tra cultura classica e cultura romantica. Egli lo sottolinea nel passo (riportato in una traduzione ottocentesca) in cui contrappone la “finitezza” della cultura classica contro “l’infinitezza” della cultura romantica: la prima era determinata dall’imminenza, dal proiettarsi nel presente terreno, in quello che egli definisce “godimento” e quindi soddisfazione del proprio io nel mondo; il secondo dal “vuoto” verso cui si tende, quindi da quella “melanconia” che si produce nella proiezione verso un infinito indeterminato. Schlegel ne fa quasi una distinzione di paesaggio connotativo dell’essere: alla solarità del primo che porta l’uomo classico alla percezione dell’armonia del creato o della possibilità di esso (d’altra parte le stesse speculazioni filosofiche di Aristotele e di Platone vertevano sull’idea di un “di qua”) al notturno della sensibilità moderna, che vede appunto nei paesaggi lunari sia il senso dell’indefinito, come detto, sia il senso del mistero e del non conoscibile, come in parte la stessa filosofia kantiana aveva presagito.

La cultura tedesca conosce, sia a livello lirico che sull’arte del racconto dei veri e propri capolavori romantici. Uno degli più rappresentativi, anche alla luce della sua esperienza biografica, è certamente Friedrich Hölderlin. Nato a Lauffen in Svezia, studia a Tubinga, avendo come condiscepoli, e quindi amici, Schelling e Hegel. Traferitosi dapprima a Jena, quindi a Weimer, diviene precettore nella casa di un banchiere, ma s’innamora di sua moglie, che canta col nome di Diotima, come una fanciulla greca. Vaga dapprima in Svizzera, quindi a Bordeaux, facendo sempre il precettore; ma saputo della morte della musa, attraversa la Francia a piedi, cercando di tornare in Germania. Comincia a soffrire di malattia mentale, che lo portò dapprima in una clinica psichiatrica che lo affida ad un falegname, che lo alloggia in una torre sulla riva di un fiume. Lì vive per 37 anni, suonando il pianoforte e componendo liriche e strani versi, che firma con il nome di Scardanelli.

DA ICH EIN KNABE WAR

Da ich ein Knabe war,
Rettet’ ein Gott mich oft
Vom Geschrei und der Rute der Menschen,
Da spielt’ ich sicher und gut
Mit den Blumen des Hains,
Und die Lüftchen des Himmels
Spielten mit mir.
Und wie du das Herz
Der Pflanzen erfreust,
Wenn sie entgegen dir
Die zarten Arme strecken,
So hast du mein Herz erfreut,
Vater Helios! und, wie Endymion,
War ich dein Liebling,
Heilige Luna!
O all ihr treuen,
Freundlichen Götter!
Dall ihr wüsstet,
Wie euch meine Seele geliebt!
Zwar damals rief ich noch nicht
Euch mit Namen, auch ihr
Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nennen,
Als kennten sie sich.
Doch kannt’ ich euch besser
Als ich je die Menschen gekannt,
Ich verstand die Stille des Äthers,
Der Menschen Worte verstand ich nie.
Mich erzog der Wohllaut
Des säuselnden Hains
Und lieben lernt’ ich
Unter den Blumen.
In Arm der Götter wuchs ich gross.

Quand’ero un fanciullo / spesso un dio mi salvava / dalle verghe e dagli urli dei grandi. / Sicuro e buono giocavo / coi fiori del bosco, / e le aurette del cielo /  giocavano con me. / E come tu allieti / il cuor delle piante, / quand’esse ti protendono / le tenere braccia, / così allietavi me pure, / Elio padre! e al par di Endimione / ero il tuo beneamato, / o santa Luna. / O voi tutti, fedeli, Amici iddii! / Quanto più siete deserti, / più vi ama l’anima mia! / Né allora io vi chiamavo / coi vostri nomi, né voi / davate un nome a me, come gli uomini fanno / se tra lor si conoscono. / Pure, io vi conoscevo / assai meglio che gli uomini; / comprendevo il silenzio dell’etere: / le umane parole mai non compresi. / Mi allevò l’armonia / del susurrante bosco, / e appresi ad amare / tra i fiori. / Crescevo in braccio agli dèi.

E’ una poesia giovanile di Hölderlin, dove, anche attraverso la cultura dello Sturm und Drang egli vede il mondo greco come mondo mitico, così come avevamo già visto in Keats e nel nostro Foscolo. Ma qui il poeta tedesco mette qualcosa in più che non è il concetto di “armonia perduta” quanto qualcosa che si rivolge all’assoluto: alla negatività del mondo degli uomini egli contrappone il mondo assoluto della divinità al di fuori dell’umano, quell’accordo universale “naturale” quindi, a-razionale che permette al giovane di vivere l’esperienza della totalità, grazie al Sole che gli permette di “sentire l’afflato divino” che grazie alla luna che aveva dato il sonno (sospensione della vita) al suo amato (Endemione) gli permette di continuare a vivere. Il romanticismo, nel giovane Hölderlin sta nel riuscire a capire il cielo ma non gli uomini.

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Franz Carl Hiemer: Friedrich Hölderlin (1794)

Altro importantissimo rappresentante del Romanticismo tedesco è il poeta Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardemberg), nato nel 1772 in Baviera e morto giovanissimo, a soli 29 anni, a causa della tisi. Influenzato dal pietismo (visione profondamente religiosa che ha del luteranesimo “tradizionale” una visione maggiormente mistica) egli vedeva nella ripresa del Cristianesimo la base della modernità, come afferma in un saggio Cristianità o Europa e soprattutto negli Inni alla notte, raccolta poetica nella quale auspica il ritorno non di un semplice Dio, ma di un Dio capace di risollevare misticamente il mondo degli uomini.

HYMNEN AN DIE NACHT (VI) 

Hinunter in der Erde Schooß,
Weg aus des Lichtes Reichen,
Der Schmerzen Wuth und wilder Stoß
Ist froher Abfahrt Zeichen.
Wir kommen in dem engen Kahn
Geschwind am Himmelsufer an.

Gelobt sey uns die ewge Nacht,
Gelobt der ewge Schlummer.
Wohl hat der Tag uns warm gemacht,
Und welk der lange Kummer.
Die Lust der Fremde ging uns aus,
Zum Vater wollen wir nach Haus.

Was sollen wir auf dieser Welt
Mit unsrer Lieb’ und Treue.
Das Alte wird hintangestellt,
Was soll uns dann das Neue.
O! einsam steht und tiefbetrübt,
Wer heiß und fromm die Vorzeit liebt.

Die Vorzeit wo die Sinne licht
In hohen Flammen brannten,
Des Vaters Hand und Angesicht
Die Menschen noch erkannten.
Und hohen Sinns, einfältiglich
Noch mancher seinem Urbild glich.

Die Vorzeit, wo noch blüthenreich
Uralte Stämme prangten,
Und Kinder für das Himmelreich
nach Quaal und Tod verlangten.
Und wenn auch Lust und Leben sprach,
Doch manches Herz für Liebe brach.

Die Vorzeit, wo in Jugendglut
Gott selbst sich kundgegeben
Und frühem Tod in Liebesmuth
Geweiht sein süßes Leben.
Und Angst und Schmerz nicht von sich trieb,
Damit er uns nur theuer blieb.

Mit banger Sehnsucht sehn wir sie
In dunkle Nacht gehüllet,
In dieser Zeitlichkeit wird nie
Der heiße Durst gestillet.
Wir müssen nach der Heymath gehn,
Um diese heilge Zeit zu sehn.

Was hält noch unsre Rückkehr auf,
Die Liebsten ruhn schon lange.
Ihr Grab schließt unsern Lebenslauf,
Nun wird uns weh und bange.
Zu suchen haben wir nichts mehr –
Das Herz ist satt – die Welt ist leer.

Unendlich und geheimnißvoll
Durchströmt uns süßer Schauer –
Mir däucht, aus tiefen Fernen scholl
Ein Echo unsrer Trauer.
Die Lieben sehnen sich wohl auch
Und sandten uns der Sehnsucht Hauch.

Hinunter zu der süßen Braut,
Zu Jesus, dem Geliebten –
Getrost, die Abenddämmrung graut
Den Liebenden, Betrübten.
Ein Traum bricht unsre Banden los
Und senkt uns in des Vaters Schooß.

Novalis_1.jpgFranz Gareis: Novalis (1799)

Laggiù nel suo grembo, lontano / dai regni della luce, ci accolga / la terra! Furia di dolori e spinta / selvaggia è segno di lieta partenza. / Dentro l’angusta barca è veloce / l’approdo alla riva del cielo. // Sia lodata da noi l’eterna notte, sia lodato il sonno eterno. / Ci ha riscaldati il torrido giorno, / ci ha fatto avvizzire il lungo affanno. / Non ci attraggono più le terre straniere, / vogliamo tornare alla terra del Padre. // Qui nel mondo che fare se la nostra / fedeltà più non conta né l’amore? / L’antico è già da tutti abbandonato / e noi del nuovo siamo incuranti. / Sta solitario, in preda allo sconforto, / chi ardente e devoto ama il passato. // Il tempo in cui gli spiriti ardevano / luminosi in altissime fiamme, / e gli uomini conoscevano ancora / la mano e il volto del Padre. / Qualche nobile spirito incorrotto / alla sua prima immagine era eguale. // Il tempo, in cui fiorivano ancora, / smaglianti i ceppi antichissimi, / e per il regno del cielo i fanciulli / si votavano al martirio, alla morte. / E se anche parlavano vita e piacere, / più di un cuore si spezzò per amore. // Il tempo, in cui Dio stesso agli uomini / si è rivelato in giovane ardore, / e ha consacrato la sua dolce vita / per forza d’amore a morte immatura. / E angoscia e dolore non ha respinto / da sé, soltanto per esserci caro. // Con ansia struggente vediamo il passato / avvolto in notte profonda, / non sarà mai placata l’ardente / sete nel nostro tempo caduco. / E noi dovremo tornare in patria / per vedere questo sacro tempo. // Che cosa indugia il nostro ritorno? / Già riposano in pace i più cari. / Conclude il corso della nostra vita / la loro tomba: siamo ansiosi e tristi. / Più nulla abbiamo qui da cercare – il cuore è sazio – il mondo è vuoto. // Per ogni vena ci trascorre un dolce / brivido, misterioso e infinito – mi sembra di udire, da lontananze / profonde, un’eco del nostro lutto. / Per noi sospirano anche gli amati, / ci mandano il soffio del loro anelito. // Laggiù ci accolga la sposa / soave, e Gesù prediletto – / Consolato spunta il crepuscolo / per gli amanti i cuori afflitti. / un sogno spezza i nostri legami / e ci immerge nel grembo del Padre.

Il testo è tratto dagli Inni alla notte; opera che potremo definire diseguale (alcuni Inni scritti in versi, altri in prosa ritmica), composta nel 1800 a seguito della morte dell’amata Sophie von Kuhn e del prediletto fratello Erasmus.  Essi costituiscono una riflessione filosofico/religiosa, in cui il poeta tedesco riflette sulla morte e sul significato che essa ha come ricongiungimento alla vera vita che è quella del ritorno al Padre (Vater). Da qui la profonda nostalgia verso il mondo antico in cui questo rapporto si viveva nel mondo, in modo diretto, (paragonato qui al vivere fanciullesco) e la necessità di restaurarlo in una contemporaneità che lo ha dimenticato. Non dimentichiamo che tale riflessione nasce anche da una profonda esperienza biografica: la morte dei cari e il suo essere malato: non solo una riflessione romantica ma anche una biografia romantica.

Figura importantissima della cultura tedesca fu certamente quella di Friedrich Schiller (1759 – 1805). Figlio di un modesto ufficiale, studiò giurisprudenza e medicina, ma sin da giovane provò una forte attrazione per la letteratura. Frutto di questo amore è l’opera teatrale I Masnadieri – opera da inserire più allo Sturm und Drang che al Romanticismo – la cui rappresentazione ebbe un successo straordinario. Il contenuto rivoluzionario dell’opera gli alienò gli appoggi politici che lo costrinse a rifugiarsi a Tubinga: qui, grazie all’amicizia con Goethe, Hölderlin si avvicinò anche alla riflessione estetica e filosofica, il cui frutto è il saggio del 1800 Sulla poesia ingenua e sentimentale. Nella maturità si diede al dramma storico, tra cui spiccano il Don Carlos e la Maria Stuarda. Interessante è il Guglielmo Tell dove tenta, anche secondo i dettami della cultura romantica, di unire il dramma storico al sentimento popolare. Ci piace ricordare che gli appartiene anche l’Inno alla gioia del 1785, musicato da Ludwig van Beethoven. Muore per la tubercolosi a soli 46 anni.

Il suo capolavoro è universalmente individuato nel dramma Maria Stuarda (1801):

Maria Stuarda, rinchiusa nel castello di Fotheringhay sotto l’accusa di aver congiurato contro la regina Elisabetta, è condannata a morte. innocente della colpa che le è stata attribuita per sbarazzarsi di lei – legittima pretendente al trono e sostenitrice della fede cattolica – Maria è oppressa dal senso di colpa per l’antica debolezza di concedersi al conte di Bothwell, uccisore di suo marito, Lord Darnely. Il conte di Leicester , favorito di Elisabetta ma segretamente innamorato della bella e affascinante rivale della regina, propone un incontro di pacificazione, mentre un altro ammiratore di Maria, Mortimer, trama per liberarla. Nel colloquio, dapprima Maria si piega fino a chiedere grazia; ma davanti all’atteggiamento beffardo di Elisabetta, piena di sdegno, le rinfaccia la sua nascita illegittima. Con ciò la sua fine è irrevocabilmente segnata. Frattanto il complotto a favore di Maria viene svelato e Leicester, che lo appoggiava, si salva gettando tutte le accuse su Mortimer. Questi si uccide col nome di Maria sulle labbra. Si sparge voce di un nuovo complotto contro la regina. Il popolo reclama la punizione dei colpevoli. Elisabetta si risolve a firmare, su istigazione di Burleigh, l’esecuzione immediata della sentenza capitale. Maria, che ora appare animata da una volontà tragicamente priva di speranza, si avvia nobilmente al patibolo come alla liberazione di una condizione umiliante per la sua regalità e, nello stesso tempo, a una necessaria espiazione.

 

L’ULTIMO COLLOQUIO TRA MARIA E ELISABETTA
Atto III, scena 4

Elisabetta, Maria, Shrewsbury e Leicester […]

Maria si fa forza e vuole avvicinarsi ad Elisabetta, ma a metà strada si ferma rabbrividendo. I suoi gesti tradiscono la lotta più violenta.
ELISABETTA: Ma come, signori? Chi mi parlava di una donna prostrata e sottomessa. Io vedo una donna altera, per nulla piegata dalla sventura.
MARIA: E sia! Mi assoggetterò anche a queste! Vattene, inutile fierezza dell’animo! Dimenticherò chi sono e tutto quello che ho patito, mi abbasserò di fronte a chi mi ha gettato in questa vergogna. (Si rivolge alla regina) Il cielo è dalla tua parte, sorella! La vittoria incorona il tuo capo fortunato e io adoro in te la divinità che ti innalza. (Le cade ai piedi) Ma ora sii generosa, sorella! Non lasciarmi qui vergognosamente prostrata, tendi la mano, la tua destra regale, e rialzami dalla mia caduta.
ELISABETTA: (ritraendosi) Siete al posto che vi siete meritata, Lady Maria, e io lodo la grazia del mio Dio, che non ha permesso che giacessi io ai vostri piedi come voi ora ai miei!
MARIA: (con crescente intensità) Pensa all’instabilità di tutto ciò che è umano. C’è una divinità che punisce l’orgoglio! Venerala e temila, questa terribile forza divina che mi getta ora ai tuoi piedi… Ma per gli estranei che ci guardano, onora in me te stessa, non sconsacrare, non esporre alla vergogna il sangue dei Tudor, che scorre nelle mie vene, come nelle tue! O Dio del cielo! Non rimanere rigida e inaccessibile, come lo scoglio a cui il naufrago cerca invano, lottando, di aggrapparsi! Tutto per me, la mia vita, il mio destino, dipende dalle mie parole, dalla forza delle mie lacrime: scioglimi il cuore che possa toccare il tuo! Se mi fissi con quello sguardo di ghiaccio, il cuore mi si stringe rabbrividendo, le lacrime indurite non scorrono più, e lo sgomento trattiene la supplica nel petto raggelato.
ELISABETTA: (fredda e severa) Cos’avete da dirmi, Lady Stuard? Volevate parlarmi? Io ora dimentico di essere la regina che avete gravemente offeso, per adempiere solo ad un compito pietoso di sorella e vi concedo la consolazione della mia presenza. Per ascoltare l’invito della generosità, mi espongo ad un giusto biasimo per essere scesi così in basso… sapete bene che volevate farmi uccidere.
MARIA: Come posso cominciare, come posso disporre, le mie parole, perché ti tocchino il cuore, ma non l’offendano. O Dio, da’ forza alle mie parole e togli loro ogni aculeo che potrebbe ferire! Non posso parlare in mio favore senza accusarti duramente, e proprio questo non voglio… Mi hai trattata ingiustamente, perché io sono una regina come te, e tu mi hai tenuta prigioniera; io sono venuta a te supplicando e tu hai sprezzato le sante leggi dell’ospitalità e il sacro diritto delle genti e mi hai rinchiuso tra le mura di un carcere. Mi hanno sottratto crudelmente amici e servitori, mi hanno costretta a indegna privazione e infine trascinata davanti ad un tribunale vergognoso… Ma non ne voglio parlare più! Un eterno oblio ricopra tutte le crudeltà che ho patito. Ma sì, attribuirò tutto al destino; tu non sei colpevole, e neppure io lo sono, uno spirito maligno è salito dagli abissi e ha acceso nei nostri cuori quell’odio che fece di noi, ancor fanciulle, due nemiche. Esso è cresciuto con noi, e uomini malvagi hanno attizzato col fiato l’infausta fiamma. Pazzi fanatici si sono armati, non richiesti, di spada e pugnale. È il destino dei sovrani: le loro discordie precipitano nell’odio il mondo intero e ogni loro dissidio scatena le furie. Ora non c’è più tra di noi una bocca estranea (le si avvicina confidenzialmente e le parla in tono accarezzante), ora siamo solo noi, una di fronte all’altra. Parla ora, sorella! Dimmi la mia colpa, voglio dartene piena soddisfazione. Ah, mi avessi prestato orecchio allora, quando imploravo di vederti! Non si sarebbe giunti a questo punto, e non sarebbe questo triste parco il luogo del nostro doloroso incontro.
ELISABETTA: La mia buona stella mi ha preservata, allora dal mettermi la serpe in seno con le mie stesse mani. Non accusate le stelle, ma la vostra anima nera e la selvaggia ambizione della vostra casa. Fra noi non c’era ombra di discordia, allorquando vostro zio, quel prete superbo e avido di dominare, che non cessa di allungare la mano verso le corone degli altri, mi lanciò la sfida, e indusse voi ad assumere il mio stemma, ad impossessarvi del mio titolo regale e ad iniziare con me un duello all’ultimo sangue. E chi non ha cercato di aizzare contro di me? La lingua dei preti e la spada dei popoli, e tutte le armi terribili del fanatismo religioso, perfino qui, nella pace del mio impero, ha attizzato le fiamme della sommossa… Ma Dio è con me, e quel prete superbo non è padrone del campo… Il suo colpo mirava al mio capo, ma sarà il vostro a cadere!
MARIA: Sono nelle mani di Dio. Non approfitterai in modo così cruento della tua potenza.
ELISABETTA: E chi mi lo impedirà? Vostro zio ha mostrato a tutti i re del mondo come si fa la pace coi propri nemici: la mia scuola sia la notte di San Bartolomeo! Che m’importa dei vincoli del sangue e dei diritti dei popoli? La chiesa affranca da ogni legame, la chiesa santifica regicidio e spergiuro. Io non faccio che applicare gli insegnamenti dei vostri preti. Ma dite, su, che pegno garantirebbe per voi, se generosa vi togliessi le catene? Quale serratura terrebbe custodita la vostra parola, che le chiavi di San Pietro non possano aprire? Nella forza sta la mia sola sicurezza, non si può scendere a patti con i viscidi serpenti.
MARIA: Oh, credimi, sei tu la causa del nostro dissidio, con questa tua triste, cupa diffidenza! Vedesti sempre in me un’estranea, una nemica: se tu mi avessi dichiarata tua erede, come mi spetta, amore e gratitudine avrebbero fatto di me una fedele amica e una cara parente.
ELISABETTA: Non son qui i vostri amici, Lady Stuard, la vostra casa è il papato, vostri fratelli i monaci… Voi mia erede! Volete mettermi in trappola! E io dovrò permettere che voi, mentre sono ancora in vita, seduciate il mio popolo con le vostre arti da Armida, e irretiate la nobile gioventù del mio regno nei vostri lacci lascivi; dovrò sopportare che tutti si volgano al nuovo astro che sorge, mentre io…
MARIA: Governa in pace! Rinuncio ad ogni mia pretesa su questo regno. Ahimè, le ali del mio spirito sono spezzate, la grandezza non mi attira più. Ci sei riuscita: non sono che l’ombra della Maria di un tempo. L’orgoglio del mio animo ha ceduto all’onta del lungo carcere… Hai raggiunto lo scopo, mi hai distrutto in piena fioritura. Ma ora poni fine al tormento, sorella! Dilla, la parola per la quale sei venuta, ché non posso credere che tu sia qui di fronte alla tua vittima solo per beffarti di lei. Pronuncia questa parola! Dimmi: «Sei libera, Maria! Hai provato la mia forza, ora venera la mia grandezza d’animo». Dillo, e io riceverò vita e libertà come un dono dalle tue mani… Una parola, e il passato è cancellato. L’attendo, oh, non farmela aspettare troppo a lungo! Guai a te se non la pronuncerai! Ché se non te ne andrai via da me come una splendente divinità apportatrice di salvezza, sorella!, né per tutta questa terra ricca e benedetta, né per tutte le terre che il mare circonda, vorrei mai star io davanti a te, come tu ora davanti a me!
ELISABETTA: Così vi riconoscete vinta, finalmente? Avete finito di tessere intrighi? Non ci sono assassini in agguato? Non ci sono più avventurieri che si addossino il triste compito di essere vostri paladini? Sì, è finita, Lady Maria, non sedurrete più nessuno. Il mondo ha altri crucci. Non alletta nessuno la prospettiva di essere il vostro quarto marito, perché, mariti o pretendenti, voi li uccidete tutti!
MARIA: (sussultando) Sorella! Sorella! Oh Dio, fa’ che possa trattenermi!
ELISABETTA: (la guarda a lungo con disprezzo e alterigia) Così, Lord Leicester, queste sarebbero le seduzioni che nessun uomo può contemplare impunemente, con cui nessuna donna può osare confrontarsi! Eh, certo… È una fama conquistata a buon mercato: non costa nulla essere per tutti una bellezza, se si accetta di essere la bellezza di tutti.
MARIA: Questo è troppo!
ELISABETTA: (ridendo sprezzante) Ora mostrate il vostro vero viso, finora non era che una maschera.
MARIA: (infiammata dall’ira, ma con dignità) Ho errato come errano gli esseri umani. Ero giovane, allora, e il potere mi seduceva. Ma non l’ho mai tenuto nascosto: ho sempre amato la lealtà e sdegnato le false apparenze. Il mondo conosce il peggio di me, ma io posso dire: sono migliore della mia fama. Guai a te, invece, se un giorno alzerai il mantello di onorabilità che ricopre le tue azioni e sotto il quale nascondi ipocritamente l’ardore sfrenato di passioni clandestine! Non è certo l’onore l’eredità di tua madre: tutti sanno per quali virtù Anna Bolena salì il patibolo!
SHREWSBURY: (s’intromette tra le due regine) Dio del cielo! A questo punto si doveva arrivare! È questo la moderazione, l’umiltà, Lady Maria?
MARIA: Moderazione! Umiltà! Ho sopportato tutto quello che un essere umano può sopportare. Ora vattene, calma pecorile, torna al cielo, paziente sopportazione, spezza finalmente i vincoli che ti trattengono, vieni fuori dal tuo nascondiglio, ira troppo a lungo repressa… Tu, che desti al basilisco infuriato lo sguardo che uccide, concedi alla mia lingua la freccia avvelenata…
SHREWSBURY: È fuori di sé! Perdona le sue smanie, è stata provocata!
LEICESTER: (tenta agitatissimo di condur via Elisabetta) Non ascoltarla, è fuor di senno! Via, via da questo luogo infausto!
MARIA: Il trono d’Inghilterra è sconsacrato da una bastarda, il nobile popolo inglese ingannato da un’astuta ciarlatana! Se regnasse giustizia saresti tu ora davanti a me nella polvere, perché io sono la tua regina.
Elisabetta esce in fretta. I lords la seguono coi segni del più profondo sgomento.

512px-Gerhard_von_Kügelgen_001.jpgGerhard von Kügelgen: Friedrich Schiller (1808)

La storia di Maria Stuarda non era certo nuova per Schiller: gli esempi gli venivano dalla letteratura italiana, durante il ‘600 da Della Valle, più recentemente per lui, certo l’opera di Alfieri.  Ci sono tuttavia nella tragedia di Schiller alcuni elementi che lo fanno apparire all’interno della poetica romantica:

  • l’abolizione delle tre unità aristoteliche
  • la riflessione tra amore e potere, che, con altre declinazioni, come libertà e potere, tanta parte ebbero nella sua riflessione letteraria.

In questo brano tratto dal terzo atto del dramma, che è nella realtà storica non è mai avvenuto, s’immagina che Maria, spinta da Leicester, s’incontri con Elisabetta per indurla ad un atto pietoso. Ciò serve all’autore per mettere a confronto le figure di due donne che non rappresentano più, come nelle opere precedenti, la riflessione sulla fredda ragione di stato e la cristiana umiltà, ma su due forti passioni; la scena è costruita come se ci fosse un combattimento tra le due: all’inizio Maria è sulla difensiva, cerca di non offendere Elisabetta, la chiama sorella per sottolineare il legame di sangue che le unisce. La regina, tratta forse in inganno dall’atteggiamento sottomesso di Maria, ne approfitta per attaccare: le sue parole sono sempre più sferzanti e non concedono nulla all’avversaria; la sovrana sembra acquietarsi solo quando Maria si dice vinta e disposta a rinunciare al trono, non più attirata dalla grandezza politica. Nemmeno con la dichiarazione di sconfitta e dopo l’ennesima richiesta di conciliazione, però, la regina si sente appagata e passa addirittura agli insulti. La situazione allora si capovolge, l’ira di Maria rimonta e le sue parole, estremamente dignitose, rivendicano la sua sincerità e smascherano l’ipocrisia di Elisabetta, che non è più sorella, ma bastarda e ciarlatana. Schiller, nel costruire la scena mantiene la tensione costantemente alta, lasciando nel dubbio lo spettatore circa la volontà di Elisabetta di perdonare o meno: quindi lo scontro avverrà sulle capacità oratorie delle due donne. Il tutto è costruito con la tecnica del crescendo: alle parole di umiliazione di Maria e quindi all’atteggiamento sprezzante di Elisabetta viene sapientemente ribaltato fino alla “quasi” fuga di Elisabetta: attraverso l’espediente scenico del capovolgimento, che avviene sempre al culmine di un’azione e la rende più tragica, Schiller risolve il conflitto tra le due protagoniste e ci suggerisce la sua tesi, secondo cui l’eroe è puro e nobile, mentre chi vuole occuparsi di politica deve per forza risultare impuro, rinunciando all’integrità morale. Alla fine dell’incontro le due donne raggiungono ognuna uno scopo, una sul piano umano, l’altra su quello politico.

Maria_Stuarda_si_avvia_al_patibolo.jpgScipione Vannutelli: Maria Stuarda si avvia al patibolo (1861)

Sul versante della prosa romantica tedesca, l’autore maggiormente rappresentativo è Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, scrittore e musicista. Nasce nel 1776, rimasto orfano, è avviato dallo zio a studi giuridici. Ma sin da giovane si sentì attratto dalla letteratura e dalla musica. Fece da giovane vita dissipata, cercando di far coincidere biografia e arte: ciò lo percepiva soprattutto nella composizione musicale, cui sentiva quasi un rapimento trascendentale che lo portava a considerare la musica stessa quasi una forza diabolica, capace di rapire l’animo. Tale concezione lo portò ad approfondite temi legati al mistero, l’occulto, il diabolico, arrivando nella sua produzione a preconizzare l’inconscio. Per questo atteggiamento egli fu amato da scrittori come Poe e Baudelaire, ma non è un caso che un attento studioso della sua arte fu, un secolo dopo, Sigmund Freud, che, proprio dal racconto Sandmann (L’uomo della sabbia) elaborò la teoria del perturbante. 

Il racconto prende l’avvio da una lettera che Nathaniel scrive all’amico Lotatio, narrandogli che, durante la fanciullezza, sovente veniva evocato “l’uomo della sabbia” per spaventare i bambini che non avevano voglia di andare a dormire. Chiesta la motivazione di questo nome, la mamma risponde che tale nome non è che la  metafora degli occhi che non riescono a stare aperti, “come se vi avessero gettato della sabbia”; mentre la fantesca gli riferisce di una figura spaventosa che, a bambini restii ad andare a letto, rubava gli occhi e li offriva ai suoi figli che li beccavano con il becco ricurvo come quello delle civette. Il bambino ne rimase a tal punto impressionato da non passare le notto in preda al terrore. Ma la curiosità fu più forte. Egli lo identifica con un ospite, figura assai inquietante, che, quando giunge in casa, si avvia direttamente nello studio paterno senza che i bimbi, comandati di andare nelle loro camere, possano vederlo. Un giorno Nathaniel decide di nascondersi nello studio del padre, per “vedere” l’uomo della sabbia. Lo riconosce in un vecchio amico di famiglia, dott. Coppelius, ma la cui figura è fortemente significante. Mentre l’uomo ordina al padre di aprire un vecchio armadio si disvela una camera oscura per ricerche scientifiche: all’interno sicuramente un fuoco, l’evocazione inquietante “A me gli occhi” e la scoperta della sua presenza; Coppeluis lo afferra, quasi gli disarticola e avvicina i suoi occhi alla fiamma; solo la preghiera accorata del padre lo salva. In una successiva visita il padre di Nathaniel rimane ucciso, e della figura dello strambo scienziato si perdono le tracce. Passano gli anni e Nathaliel diventa studente universitario. Gli sembra di aver riconosciuto in un venditore ambulante Giuseppe Coppola, il vecchio Coppelius, facendogli risvegliare l’incubo. In questo periodo s’innamora di Olimpia, figlia del suo professore di scienze, prof. Spallanzani, ma la ragazza ha qualcosa di strano: sguardo vitro e gesti meccanici: Per lei dimentica la sua fidanzata, Clara. Un giorno vede terrorizzato il corpo di Olimpia disputato da Spallanzani e Coppola: tale corpo non è che un automa, costruito dal professore con gli occhi applicati dal venditore ambulante. Nathaliel, a seguito della visione, viene colto da un accesso di follia, rimane a lungo ricoverato. Guarito decide di sposare Clara; insieme a lei e a suo fratello vanno su un’alta torre per osservare il panorama. Narthaliel, affacciatosi, rivede Coppola e, preso da raptus folle, tenta di gettare nel vuoto Clara, che viene salvata dal fratello, mentre lui cade nel vuoto gridando “Begli occhi!”.

ETA_Hoffma_51517549.jpgAutoritratto di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann

L’UOMO DELLA SABBIA

Durante tutta la giornata, all´infuori del pranzo, io e mia sorella vedevamo molto di rado nostro padre. Doveva essere molto occupato nel suo lavoro. Dopo cena, che secondo una vecchia abitudine si consumava già alle sette, noi tutti con la mamma andavamo nel suo studio e ci sedevamo intorno a un tavolo rotondo. Il babbo fumava e beveva un grosso bicchiere di birra. Spesso ci raccontava storie meravigliose e vi si entusiasmava talmente da lasciar spegnere la pipa, e io dovevo riaccendergliela con un pezzo di carta a cui avevo dato fuoco: il che era per me un vero divertimento. Spesso invece ci metteva dinanzi dei libri illustrati, sedeva muto e pensieroso nella sua poltrona e soffiava attorno a sé dense nuvole di fumo, tanto che ci sembrava di nuotare nella nebbia. In quelle sere la mamma era molto triste e appena battevano le nove ci diceva: «Su, ragazzi, a letto, a letto! Viene l’uomo della sabbia, già mi pare di vederlo!». E io ogni volta sentivo veramente un passo lento e pesante che saliva su per le scale: doveva essere l’uomo della sabbia! Una volta quel camminare cupo e rintronante mi fece venire i brividi e alla mamma che ci conduceva via chiesi: «Mamma, chi è mai quel cattivo uomo della sabbia che ci allontana sempre dal babbo? Che aspetto ha?».
«Non esiste nessun uomo della sabbia, figliolo mio» rispose la mamma «quando io vi dico che viene l’uomo della sabbia, voglio solo dire che voi siete assonnati e che non potete tenere più aperti gli occhi, come se vi avessero gettato della sabbia.»
La risposta della mamma non mi soddisfece; anzi, nella mia mente infantile sempre più chiaro si fece il pensiero che la mamma volesse negare l’esistenza dell’uomo della sabbia solo perché noi non dovessimo averne paura, tanto è vero che lo sentivo sempre salire le scale. Desideroso di voler vedere più da vicino questo uomo della sabbia e di sapere quali erano i suoi rapporti con i bambini, chiesi infine alla vecchia cui era affidata la mia sorellina minore chi mai esso fosse.
«Oh, Niele» rispose costei «non lo sai ancora? È un uomo cattivo, che viene dai bambini che non vogliono andare a letto e butta loro negli occhi manciate di sabbia sino a farglieli schizzare sanguinanti fuori dal capo; poi li prende, li mette in un sacco e li porta sulla luna in pasto ai suoi figlioletti; questi stanno lassù in un nido e hanno il becco ricurvo come le civette e con questo beccano gli occhi dei bambini cattivi.»
L’orribile immagine di quell’uomo crudele si impresse così nella mia mente, e quando alla sera io lo sentivo salire le scale, tremavo dall’angoscia e dal terrore. Mia madre riusciva solo a cavarmi dalla bocca questo grido balbettato tra le lacrime: «L’uomo della sabbia! L’uomo della sabbia!». Correvo quindi nella camera da letto e tutta la notte ero torturato dalla paurosa visione dell’uomo della sabbia.
Quando fui abbastanza grande per comprendere che tutto ciò che mi era stato raccontato dalla governante dell’uomo della sabbia e della sua nidiata di figlioli sulla luna non aveva nessun fondamento, l’uomo della sabbia per me continuava a essere un fantasma pauroso ed ero sempre preso da vero terrore quando lo sentivo non solo salire le scale ma anche aprire la porta dello studio di mio padre ed entrarvi. Qualche volta non si faceva vivo per molto tempo, ma poi veniva più volte di seguito. La cosa durò parecchi anni, e io non riuscivo ad abituarmi all’idea di quel fantasma la cui immagine odiosa non riuscì a impallidire nella mia mente. I suoi rapporti con mio padre finirono con l’ossessionare la mia fantasia. Avrei voluto interrogare mio padre, ma un terrore invincibile me lo impediva. Io stesso, io solo, dovevo indagare nel mistero, dovevo vedere il favoloso uomo della sabbia: questo fu il mio più vivo desiderio che col passare degli anni sempre più si radicò in me. L’uomo della sabbia mi aveva messo sulla strada dell’avventura, del meraviglioso, che così facilmente si annida nell’animo dei fanciulli. Niente mi attirava di più che ascoltare o leggere le paurose storie di folletti, di streghe, di gnomi, ma in cima a tutti stava sempre l’uomo della sabbia, che io andavo ovunque, con il gesso o con il carbone, disegnando nei più strani e orribili atteggiamenti su tavoli, su armadi e pareti.
Quando ebbi dieci anni, mia madre mi fece passare dalla camera dei fanciulli in una piccola stanza che si apriva sul corridoio vicino a quella di mio padre. Come sempre quando battevano le nove e si sentiva lo sconosciuto in casa nostra, noi dovevamo in tutta fretta allontanarci. Dalla mia cameretta lo sentivo entrare dal babbo e subito dopo mi sembrava che per la casa si diffondesse un vapore dall’odore strano. Con la curiosità, sempre più cresceva in me il coraggio di fare in qualche modo la conoscenza dell’uomo della sabbia. Spesso, appena la mamma era già passata oltre, dalla mia cameretta sgusciavo nel corridoio, ma non riuscivo a vedere nulla perché l’uomo della sabbia, quando raggiungevo il punto da dove avrei potuto vedere, era già entrato nella camera del babbo. Alla fine, spinto da un impulso irresistibile, decisi di nascondermi proprio nella camera del babbo per aspettarvi l’uomo della sabbia.
Una sera, dal silenzio del babbo e dalla tristezza della mamma, compresi che l’uomo della sabbia sarebbe venuto. Con la scusa che ero molto stanco, lasciai prima delle nove la stanza e mi nascosi in un nascondiglio vicino alla porta.
Il portone di casa cigolò: dal vestibolo, su, verso la scala, rintronarono i passi lenti e pesanti. La mamma mi passò dinanzi con la sorellina. Piano piano aprii la porta della stanza del babbo. Egli come al solito se ne stava seduto muto e rigido, volgendo le spalle alla porta e non si accorse di me. Fui subito dentro e mi cacciai dietro la tendina, che era tesa su un armadio aperto, vicino alla porta, dove il babbo teneva i suoi abiti. Sempre più vicino… sempre più vicino risuonavano i passi… ecco!… di fuori un tossire, uno scalpicciare, un borbottio strano. Nell’attesa angosciosa il cuore mi tremava. Ecco, proprio vicino alla porta un passo serrato… un colpo violento sulla maniglia… la porta si spalanca con rumore! Facendomi animo, con cautela sporgo la testa. L’uomo della sabbia sta nel mezzo della stanza, davanti a mio padre: la luce chiara delle candele gli illumina il viso! L’uomo della sabbia, il tanto temuto uomo della sabbia, è il vecchio avvocato Coppelius, che qualche volta a mezzogiorno viene a mangiare da noi.
Ma nessuna figura più mostruosa avrebbe potuto atterrirmi come quella di Coppelius. Immaginati un uomo alto, dalle spalle larghe, con una grossa testa informe, il viso terreo, le sopracciglia grigie e cespugliose, sotto le quali lampeggiano due occhi da gatto verdastri e pungenti e un naso grande e grosso cadente sopra il labbro superiore. La sua bocca si torce spesso in un sorriso malvagio; si vedono allora sulle guance due macchie scarlatte e uno strano sibilo gli passa attraverso i denti stretti. Coppelius compariva sempre con una giacca color cenere di taglio antiquato, il panciotto e i calzoni dello stesso colore, ma portava calze nere e le scarpe con piccole fibbie ornate di pietre. La piccola parrucca gli copriva a stento il cocuzzolo, i cernecchi gli stavano appiccicati sopra le grandi orecchie rosse e una larga reticella per i capelli saltava fuori dalla nuca, lasciando vedere il fermaglio d´argento che teneva fissata la cravatta pieghettata. Tutto il suo aspetto era stomachevole e odioso; ma soprattutto a noi bambini facevano senso le sue mani pelose e nodose tanto che rifiutavamo tutto ciò che toccava. Egli se ne era accorto e si divertiva a toccare con un pretesto qualsiasi ora un pezzo di torta, ora un frutto dolce che la nostra buona mamma ci aveva messo sul piatto, cosicché, piangendo per lo schifo e per il ribrezzo, rinunciavamo a quelle ghiottonerie che dovevano darci gioia. La stessa cosa faceva nei giorni di festa, quando il babbo ci mesceva un bicchierino di vino dolce: allora egli subito vi posava la mano oppure si portava addirittura il bicchiere alle labbra e rideva diabolicamente quando non riuscivamo a manifestare la nostra rabbia se non attraverso sommessi singhiozzi. Era abituato a chiamarci bestiole. Lui presente, non dovevamo dire neppure una parola e non potevamo fare altro che maledire quel cattivo, odioso uomo che ci rovinava apposta anche il piacere più innocente. Anche la mamma sembrava che odiasse quel ripugnante Coppelius appena infatti egli appariva, tutta la sua serenità, la sua natura gaia e semplice si mutava in una cupa tristezza. Mio padre invece di fronte a lui si comportava come davanti a un essere superiore di cui si devono sopportare le scortesie e che occorre mantenere a ogni costo di buonumore. Bastava che quello vi accennasse perché subito si preparassero cibi prelibati e si servissero vini scelti.
Quando dunque vidi Coppelius, provai orrore e raccapriccio, perché solo lui poteva essere l´uomo della sabbia. Ma l´uomo della sabbia per me non era certo lo spauracchio delle fole della governante, quello che veniva a prendersi in pasto gli occhi dei bambini per le civette sulla luna, no, certo: era un mostro orribile che, dove arrivava, portava con sé dolori e miserie, momentanei o perpetui.
Ero come affascinato. Con il pericolo di essere scoperto e quindi severamente punito, rimasi dove ero, e origliavo sporgendo la testa dalla tendina. Mio padre accolse Coppelius con molto rispetto. «Su, al lavoro» fece questi, con voce stridula, deponendo la giubba. Il babbo cupo e silenzioso si tolse la veste da camera, ed entrambi indossarono lunghe tuniche nere. Dove le avessero prese non riuscii a vedere. Mio padre aprì le ante di un armadio a muro; ma vidi che quello che per tanto tempo avevo creduto un armadio era una caverna nera in cui stava un piccolo focolare. Coppelius si avvicinò e vi accese una fiamma azzurra e scoppiettante. Attorno vi stavano vari e strani oggetti. Dio mio! come era mutato mio padre mentre si chinava sul fuoco! Si sarebbe detto che un dolore tremendo e lancinante avesse trasfigurato i suoi lineamenti dolci e nobili in quelli di un demonio brutto e riluttante. Ora assomigliava a Coppelius. Questi con tenaglie arroventate toglieva dal denso fumo materiali sfavillanti che poi con grande energia martellava. Mi sembrava di vedere tutto attorno visi umani, ma senza occhi, e al posto di questi impressionanti cavità nere. «Qua gli occhi, qua gli occhi» gridava Coppelius con voce cupa e tonante.
Preso da una paura selvaggia, mandai un grido e saltai fuori dal mio nascondiglio. Coppelius mi afferrò: «Bestiola, bestiola!» belò digrignando i denti… Mi sollevò, mi buttò nel fuoco e la fiamma cominciò a bruciarmi i capelli. «Ora abbiamo gli occhi, gli occhi… un bel paio di occhi di fanciullo.» Così sussurrava Coppelius e con le mani prese dalla fiamma alcuni granelli incandescenti che voleva buttarmi negli occhi. Mio padre implorando alzò le mani e gridò: «Maestro, maestro, lascia gli occhi al mio piccolo Nataniele, lasciaglieli».
Coppelius rise in modo stridulo e disse: «Li tenga pure gli occhi il ragazzo per frignare nel mondo; ma ora osserviamo un po´ il meccanismo delle mani e dei piedi». E mi afferrò con violenza, le giunture scricchiolarono, mi svitò mani e piedi che andava poi rimettendo a posto: «Non tutti vanno bene, era meglio prima! Il vecchio aveva capito bene!» così sibilava e bisbigliava Coppelius, ma intorno a me vi erano le tenebre: una specie di spasmo mi attraversò i nervi e le ossa e non sentii più nulla.
Un dolce alito caldo mi accarezzò il viso. Mi ripresi come da un sonno mortale, la mamma stava china su di me. «È ancora qui l’uomo della sabbia?» balbettai.
«No, figliolo caro: ormai se ne è andato, non può più farti del male» così diceva la mamma accarezzando e baciando il suo caro figliolo ritrovato.
Ma perché annoiarti oltre, mio carissimo Lotario? Perché raccontarti così estesamente ogni particolare, quando mi rimane ancora tanto da dire? Basta. Fui scoperto a origliare e maltrattato da Coppelius. La paura e l’angoscia mi fecero venire un febbrone per cui me ne stetti a letto qualche settimana. «L’uomo della sabbia è ancora qui?» Queste furono le mie prime parole sensate, e furono il segno della mia guarigione, della mia salvezza.

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Disegno a penna dello Stesso Hoffmann per L’uomo della sabbia

Su tale racconto commenta lo studioso di letteratura tedesca, prof. Luigi Forte: “Sdoppiamenti e dissociazioni, travestimenti e metamorfosi, che testimoniano la problematica presenza dell’uomo nel carcere terreno e la distanza tra io e natura, attingono con dovizia all’armamentario del fantastico: alberi tramutati in uccelli, pappagalli in maggiordomi, serpi in fanciulle, salamandre in archivisti… Mentre un armadio a muro, come nell’Uomo della sabbia, può d’improvviso dilatarsi in una nera caverna dove si celebrano riti alchemici (…) Già Freud, fornendo un’interessante e classica interpretazione dell’Uomo della sabbia, insisteva sulla dualità del suo mondo: di qui l’incertezza nel definire la consistenza reale o fantastica dei personaggi. La paura originaria del bambino Nataniele, che teme di essere derubato dei propri occhi dal mago sabbiolino, che secondo il racconto della nutrice li porterebbe in un lontano nido sulla luna per offrirli in pasto ai suoi figlioletti dal becco ricurvo come le civette, si condensa, col passare del tempo, in un’ossessione, di cui Hoffmann scandisce, con ritmo impareggiabile le varie tappe. L’Uomo della sabbia  vuole essere non solo l’analisi dell’anima di un alienato, ma, secondo i suggerimenti freudiani, la registrazione dei movimenti di un meccanismo innestato dal complesso di castrazione: come se tutto – mago sabbiolino alias avvocato Coppeluis, a sua volta aspetto negativo dell’imago paterna che confluisce nell’ottico Coppola e nel professor Spallanzani – germinasse nell’identità incrinata di Nataniele, dal suo fissarsi su un’immagina narcisistica (la bambola Olimpia) che lo distoglie da un reale oggetto d’amore (la fidanzata Clara). Hoffmann, utilizzando uno spezzone di romanzo epistolare, tratteggia magistralmente, la regressione di Nataniele, la sua resistenza a crescere e maturare psicologicamente e la conseguente attrazione verso il feticcio Olimpia, che sempre più gli appare come una promesse du bonheur (promessa di felicità) non inficiata dalla inconciliabilità di sogno e realtà.”

Inghilterra

L’Inghilterra, ufficialmente, precede la Germania nella nascita del Romanticismo, ma la nuova sensibilità presente nel paese tedesco con lo Sturm und Drang, nonché la poesia ossianica dello scozzese Macpherson fanno sì che in esso si concentrino le nuove istanze che troveranno la loro sintesi nell’opera Lyrical Ballads (Ballate liriche) pubblicate nel 1798 da William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge.

Benjamin_Robert_Haydon_-_Wordsworth_on_Helvellyn_-_WGA11208.jpgBenjamin Robert Haydon:  Wordsworth sull’Helvellyn

William Wordsworth nasce nel 1770 a Cockermouth, nella regione dei laghi (non per niente, sia lui che Coleridge vennero definiti, all’inizio per spregio, poeti “laghisti”). Da giovane viaggia in Francia, durante la Rivoluzione, ma rimane sfavorevolmente impressionato e quando ritorna in Inghilterra si ritira, insieme alla sorella, a vita appartata insieme alla sorella, consumando anche il rapporto amicale che aveva, da giovane, instaurato con Coleridge. Dopo il matrimonio si avvicina sempre più ad un liberalismo di tipo conservatore, aderendo, quindi in età matura, alla politica della regina Vittoria. Muore nel 1850.

Dalle Ballate liriche, prendiamo la fondamentale prefazione, opera di Wordsworth:

UNA POESIA DI SANGUE E CARNE

Lo scopo principale che ho avuto scrivendo queste poesie è stato quello di rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni, rintracciando in essi, fedelmente ma non forzatamente, le leggi fondamentali della nostra natura, specialmente per quanto riguarda il modo in cui noi associamo le idee in uno stato di eccitazione. La vita umile e rurale è stata scelta generalmente perché, in questa condizione, le passioni essenziali del cuore trovano un terreno più adatto alla loro maturazione, sono soggette a minori costrizioni, e parlano un linguaggio più semplice ed enfatico; perché in questa condizione i nostri sentimenti elementari esistono in uno stato di maggiore semplicità e di conseguenza possono essere contemplati più accuratamente e comunicati con più forza; perché il comportamento della vita rurale nasce da questi sentimenti elementari, e, dato il carattere di necessità delle attività rurali, è più facilmente compreso ed è più durevole; e, finalmente, perché in questa condizione le passioni degli uomini fanno tutt’uno con le forme stupende e imperiture della natura. Si è pure adottato il linguaggio di questi uomini, (certo purificato da quelle che appaiono le sue reali improprietà e da tutte le permanenti e ragionevoli cause di avversione o di disgusto), perché proprio essi comunicano continuamente con le cose migliori, dalle quali proviene originariamente la parte migliore della lingua, e anche perché, a causa della loro posizione sociale e della uniformità e ristrettezza dei loro rapporti interpersonali, soggiacendo in minor misura all’azione della vanità sociale, essi comunicano i loro sentimenti e le loro idee con espressioni semplici e non elaborate. (…) Le poesie di questo volume si distingueranno almeno per un elemento, cioè per il fatto che ciascuna di esse ha un nobile intento. Non dico d’aver ogni volta cominciato a scrivere con un chiaro progetto compiutamente delineato, ma credo che la mia propensione meditativa abbia a tal punto plasmato i miei sentimenti, che la mia descrizione di quegli oggetti che suscitano questi intensi sentimenti recherà con sé, assieme ad essi, un intento. Se in ciò mi sbaglio ho allora ben pochi diritti di chiamarmi un poeta. Tutta la buona poesia è infatti spontaneo traboccare di forti emozioni, ma benché ciò sia vero, nessuna poesia di un qualche valore fu mai scritta su un qualsivoglia argomento se non da un autore che, dotato di una sensibilità organica superiore al comune, avesse anche pensato a lungo e profondamente. Le nostre ininterrotte effusioni di sentimento sono infatti modificate e guidate dai nostri pensieri, che sono invero i rappresentanti di tutti i nostri passati sentimenti. (…) Dopo questo lungo discorso sui temi e sugli scopi di queste poesie, chiedo al lettore di poter informarlo di alcune particolarità che si riferiscono al loro stile, per non essere accusato, tra le tante cose, di aver fatto ciò che non ho mai cercato di fare. Ad eccezione di pochissimi esempi, il lettore non troverà personificazioni di idee astratte in questo volume. Non che io intenda criticare le personificazioni: esse possono essere certo adatte a taluni generi poetici, ma in queste poesie mi sono proposto di imitare, e per quanto mi è stato possibile di adottare, il linguaggio proprio degli uomini, e non penso che tali personificazioni facciano parte naturale di questo linguaggio. Voglio che il lettore rimanga in compagnia della carne e del sangue, convinto che così facendo posso meglio interessarlo. Ciò non significa affermare che altri poeti che battono strade diverse lo interessino meno: non voglio interferire con i loro propositi, voglio solo preferirne uno diverso e tutto personale. Si troveranno inoltre ben pochi esempi in questo libro di quella che viene normalmente chiamata « dizione poetica »: mi sono sforzato di evitarla tanto quanto altri poeti si sforzano di adottarla, e ho fatto questo per la ragione già detta, che è di avvicinare la mia lingua a quella degli uomini, e poi perché il piacere che mi sono riproposto di comunicare è di una natura molto differente da quello che molti suppongono lo scopo primario della poesia.

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E’ evidente che il testo di Wordsworth affronti il tema fondamentale del romanticismo e non solo quell’inglese: nel momento in cui egli afferma di voler “rendere interessanti gli avvenimenti di tutti i giorni“, afferma l’idea di una poesia anticlassica che pertanto abbia come punto di riferimento la realtà quotidiana. Ma compito del poeta non è quella di raffigurarla, ma di “leggerla” con parole dettate dall’emozione, dall’interiorità, per questo esse cercheranno di dare una visione “simbolica” della realtà stessa perché saranno frutto dell’esplosione dell’interiorità trasfigurata in parola; da qui la ricerca di una naturalità e quindi di una semplicità del lessico poetico in cui debba trasparire “il sangue e la carne del poeta” che, in quanto poeta, dovrà essere in grado di toccare “il sangue e la carne del lettore”.

Samuel Taylor Coleridge nasce nel 1772 e come il suo amico Wordsworth, condivide, in gioventù, l’idea di libertà sbandierata dalla Rivoluzione francese. Sposatosi nel 1794, insieme alla moglie nel 1880 si trasferisce con la moglie e Wordsworth nel Keswick, nel distretto dei laghi”. Si ammala e diventa dipendente dall’oppio: sotto l’effetto della droga scrive il Kubla Khan, poema visionario, ma non è lontano da esso nemmeno il suo capolavoro The rime of ancient mariner (La ballata del vecchio marinaio), in cui si narra come un vecchio marinaio, che ha ucciso senza motivo un misterioso albatro che gli faceva da guida, sia condannato a viaggiare in eterno, come l’ebreo errante, raccontando la vicenda che ha causato il naufragio e la morte dell’equipaggio della sua nave e la propria condanna senza fine.

La produzione poetica di Coleridge possiamo definirla maggiormente elaborata, da un punto di vista contenutistico, rispetto a quella di Wordsworth; già nel sua opera più importante il poeta inglese aveva dato sfogo ad ardite simbologie che mettevano a dura prova la capacità del lettore; più diretta è invece la sua produzione lirico-meditativa, che troviamo presente nella pubblicazione delle Lyrical Ballads

FROST AT MIDNIGHT

The Frost performs its secret ministry, 
Unhelped by any wind. The owlet’s cry 
Came loud—and hark, again! loud as before. 
The inmates of my cottage, all at rest, 
Have left me to that solitude, which suits 
Abstruser musings: save that at my side 
My cradled infant slumbers peacefully. 
‘Tis calm indeed! so calm, that it disturbs 
And vexes meditation with its strange 
And extreme silentness. Sea, hill, and wood, 
This populous village! Sea, and hill, and wood, 
With all the numberless goings-on of life, 
Inaudible as dreams! the thin blue flame 
Lies on my low-burnt fire, and quivers not; 
Only that film, which fluttered on the grate, 
Still flutters there, the sole unquiet thing. 
Methinks, its motion in this hush of nature 
Gives it dim sympathies with me who live, 
Making it a companionable form, 
Whose puny flaps and freaks the idling Spirit 
By its own moods interprets, every where 
Echo or mirror seeking of itself, 
And makes a toy of Thought. 

                      But O! how oft, 
How oft, at school, with most believing mind, 
Presageful, have I gazed upon the bars, 
To watch that fluttering stranger ! and as oft 
With unclosed lids, already had I dreamt 
Of my sweet birth-place, and the old church-tower, 
Whose bells, the poor man’s only music, rang 
From morn to evening, all the hot Fair-day, 
So sweetly, that they stirred and haunted me 
With a wild pleasure, falling on mine ear 
Most like articulate sounds of things to come! 
So gazed I, till the soothing things, I dreamt, 
Lulled me to sleep, and sleep prolonged my dreams! 
And so I brooded all the following morn, 
Awed by the stern preceptor’s face, mine eye 
Fixed with mock study on my swimming book: 
Save if the door half opened, and I snatched 
A hasty glance, and still my heart leaped up, 
For still I hoped to see the stranger’s face, 
Townsman, or aunt, or sister more beloved, 
My play-mate when we both were clothed alike! 

         Dear Babe, that sleepest cradled by my side, 
Whose gentle breathings, heard in this deep calm, 
Fill up the intersperséd vacancies 
And momentary pauses of the thought! 
My babe so beautiful! it thrills my heart 
With tender gladness, thus to look at thee, 
And think that thou shalt learn far other lore, 
And in far other scenes! For I was reared 
In the great city, pent ‘mid cloisters dim, 
And saw nought lovely but the sky and stars. 
But thou, my babe! shalt wander like a breeze 
By lakes and sandy shores, beneath the crags 
Of ancient mountain, and beneath the clouds, 
Which image in their bulk both lakes and shores 
And mountain crags: so shalt thou see and hear 
The lovely shapes and sounds intelligible 
Of that eternal language, which thy God 
Utters, who from eternity doth teach 
Himself in all, and all things in himself. 
Great universal Teacher! he shall mould 
Thy spirit, and by giving make it ask. 

         Therefore all seasons shall be sweet to thee, 
Whether the summer clothe the general earth 
With greenness, or the redbreast sit and sing 
Betwixt the tufts of snow on the bare branch 
Of mossy apple-tree, while the night-thatch 
Smokes in the sun-thaw; whether the eave-drops fall 
Heard only in the trances of the blast, 
Or if the secret ministry of frost 
Shall hang them up in silent icicles, 
Quietly shining to the quiet Moon.

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Samuel Taylor Coleridge

Il gelo officia il suo ministero segreto / non aiutato da alcun vento. Il grido  della giovane civetta / s’è fatto più alto, ascolta, ancora! alto come prima. / I degenti nella mia casa , tutti riposano, / mi hanno lasciato in questa solitudine / che si addice / alle meditazioni più astruse: tranne che al mio fianco /  il mio bambino cullato dorme pacifico. / C’è calma davvero! una calma che disturba / ed irrita la riflessione col suo strano / ed estremo silenzio. Mare, e collina, e bosco, / con tutte le innumerevoli cose che continuano a vivere,  / muti come sogni! La sottile fiamma blu / giace nel mio fuoco spento, e non guizza; / solo questa pellicola, che svolazza sulla griglia, / ancora svolazza lì, la sola cosa inquieta. / Credo che il suo movimento in questo silenzio della natura / le dia oscure corrispondenze con me che vivo, / facendone una forma amica / i cui minuscoli battiti e i capricci lo Spirito ozioso / interpreta secondo i suoi umori, ovunque / cercando eco o specchio di se stesso, e fa del pensiero giocattolo. // Ma, oh! / quante volte, quante volte, a scuola, con la più fiduciosa mente, piena di presagi, ho fissato le sbarre, / per vedere questo fluttuante straniero! E quante volte / con le labbra socchiuse/ avevo già sognato / il mio dolce luogo natale, e il vecchio campanile, / le cui campane, sola musica del povero, suonavano / da mattino a sera, in tutto il caldo giorno di mercato, / così dolcemente che mi agitavano e possedevano / con un selvaggio piacere, giungendo al mio orecchio / ancor più come articolati suoni delle cose a venire! / Così stavo a occhi aperti, Finché le placide cose, sognavo,  mi cullavano nel sonno, / e il sonno prolungava i miei sogni!  / E così rimuginavo tutto il mattino seguente, / spaventato dal viso severo del precettore, il mio occhio / fissato con finta attenzione sul mio libro che scivolava: / solo che se la porta si apriva a mezzo, / ed io gettavo / uno sguardo affrettato, e ancora il mio cuore sussultava, / perché ancora speravo di vedere il volto dello straniero / cittadino / o zia, o la sorella più amata/ la mia compagna di giochi / quando eravamo vestiti uguali! // Caro bambino che dormi cullato al mio fianco, / il cui respiro gentile, udito in questa profonda calma / riempie i vuoti sparpagliati, / e le momentanee pause del pensiero! / Il mio bellissimo bambino! Mi fa fremere il cuore / di tenera gioia il guardarti così, / e pensare che tu imparerai molte altre cose, / ed in molti altri scenari! Poiché io sono stato educato / nella grande città, chiuso in oscuri chiostri / e non vedevo nulla di bello tranne il cielo e le stelle. / Ma tu, bambino mio! / Vagherai come la brezza / per laghi e spiagge, sotto le rupi / di antichi monti, e sotto le nubi, / che riproducono  nella loro massa laghi e spiagge / e rupi montane:  così tu vedrai e sentirai  / le belle forme e i suoni intellegibili / di questo eterno linguaggio che il tuo Dio / emette, che dall’eternità insegna / se stesso in tutto, e tutte le cose in se stesso. / Grande maestro dell’universo! Lui modellerà il tuo spirito / e dando forma esso chiede. // Perciò ogni stagione sarà dolce per te, / sia che l’estate rivesta tutta la terra, / di verde o che il pettirosso si posi e canti / tra i fiocchi di neve sul ramo spoglio / del melo molle di muschio, mentre il vicino tetto di paglia / per disgelo fumiga al sole, sia che sgrondino gocciole / udite soltanto nella tregua della bufera / o che il segreto ministero del gelo / le sospenda in silenti ghiaccioli / quieti scintillando alla quieta luna.

Possiamo dividere in quattro parti corrispondenti alle stanze di cui è composto:

  1. Il poeta è seduto a fianco di Hartley, suo secondo figlio, mentre dorme. Fuori il gelo, all’interno il fuoco morente di un camino e intorno solo silenzio. La mente comincia a vagare attraverso le bellezze del mondo naturale e nel camino una scheggia che guizza e quindi vive allo stesso modo del pensiero del poeta.
  2. Il dualismo si ricrea nell’immaginazione riandando a lui bambino, giovane scolaro, che, disattento, riandava al rumore del paese, alle campane, al mercato e temeva lo sguardo severo del maestro di fronte alla sua “svagatezza”; a aspettava con ansia l’arrivo di uno zio o di una sorella che, infine, lo portasse via
  3. Anche il suo bambino imparerà: ma non nel chiuso di una città, ma all’aperto dove potrà immergersi nelle spirito creativo di Dio attraverso il pensiero che non solo sarà modellato, ma modellerà lui stesso il creato;
  4. Per questo il mondo sarà a lui benigno in ogni stagione e in ogni aspetto di cui la natura lo rivestirà.  

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the redbreast sit and sing / Betwixt the tufts of snow on the bare branch 
il pettirosso si posi e canti / tra i fiocchi di neve sul ramo spoglio

Il testo di Coleridge ci offre il suo contributo per una definizione dell’estetica romantica:  si tratta cioè della sua concezione di imagination (immaginazione) come potere creativo della poesia, distinta dalla fancy (fantasia). Per lui esistono due tipi di immaginazione: l’immaginazione primaria, cioè la facoltà creativa alla base dell’atto della percezione, ripetizione dell’atto divino della creazione; l’immaginazione secondaria, o poetica, che può modificare o ricreare la creazione di Dio usando i dati della percezione in nuovi rapporti, forme e schemi. La mente non solo è attiva, come dimostra l’immaginazione primaria, ma anche creativa di una nuova realtà.
Ora essendo l’immaginazione secondaria individuale, non può imitare fedelmente il mondo ma utilizzerà proprie categorie di pensiero; per questo due individui non potranno mai avere la stessa visione del mondo, che sarà sempre unica e originale. Questa concezione e definizione dell’immaginazione era sicuramente debitrice a Kant e ai filosofi idealisti Fichte e Schelling.

Nella letteratura inglese si suole indicare come poeti della seconda generazione romantica coloro i quali sono accumunati soprattutto da uno atteggiamento titanico e ribelle che li coinvolge non solo letterariamente ma anche biograficamente.

George Gordon Byron nasce nel 1778 da un aristocratico piuttosto stravagante, facendo trascorrere al giovane figlio un’infanzia non proprio felice. Sin da giovane si dedica alla letteratura, ma le prime opere non riescono ad ottenere il successo sperato. Insofferente verso la ristretta società inglese comincia a viaggiare fermandosi per più di un anno in Spagna ed in Oriente. Al ritorno pubblica Childe Harold’s pilgrimage (Il pellegrinaggio del giovane Aroldo) opera che lo rende celebre. Costretto ad abbandonare l’Inghilterra (si parla di un rapporto incestuoso con la sorella, che determinò anche la fine del suo matrimonio, celebrato un anno prima) lo porta in Italia, dove aggiunse altre parti al suo  capolavoro. Scrisse altre opere di minore importanza, ma fu viceversa importante il suo impegno per l’indipendenza greca; partito per combattere contro l’impero Ottomano, morì di febbri a Missoloungi (comune della Grecia meridionale). 

Aroldo, dopo una lunga vita di piaceri, intraprende un viaggio che lo porta dal Portogallo al Giura, dopo aver visitato la Spagna, Albania e Belgio. Esule volontario e ribelle appassionato, di volta in volta egli medita sulle situazioni e le memorie che i vari luoghi gli suggeriscono: la triste condizione di schiavitù in cui versa la Grecia, Napoleone a Waterloo, Rousseau e Jolie. Nel quarto canto il poeta dimessa la funzione del pellegrino parla in prima persona dell’Italia e dei suoi grandi: da Petrarca a Boccaccio, da Tasso a Scipione e Rienzi, contrapponendo il passato storico e splendente al presente indegno.   

L’EROE ROMANTICO

But soon he knew himself the most unfit
Of men to herd with Man; with whom he held
Little in common; untaught to submit
His thoughts to others, though his soul was quell’d
In youth by his own thoughts; still uncompell’d,
He would not yield dominion of his mind
To spirits against whom his own rebell’d;
Proud though in desolation; which could find
A life within itself, to breathe without mankind.

Where rose the mountains, there to him were friends;
Where roll’d the ocean, thereon was his home;
Where a blue sky, and glowing clime, extends,
He had the passion and the power to roam;
The desert, forest, cavern, breaker’s foam,
Were unto him companionship; they spake
A mutual language, clearer than the tome
Of his land’s tongue, which he would oft forsake
For Nature’s pages glass’d by sunbeams on the lake.

But in Man’s dwellings he became a thing
Restless and worn, and stern and wearisome,
Droop’d as a wild-born falcon with clipt wing,
To whom the boundless air alone were home:
Then came his fit again, which to o’ercome,
As eagerly the barr’d-up bird will beat
His breast and beak against his wiry dome 
Till the blood tinge his plumage, so the heat
Of his impeded soul would through his bosom eat.

Self-exil’d Harold wanders forth again,
With nought of hope left, but with less of gloom;
The very knowledge that he lived in vain,
That all was over on this side the tomb,
Had made Despair a smilingness assume,
Which, though ’twere wild, – as on the plunder’d wreck
When mariners would madly meet their doom
With draughts intemperate on the sinking deck,
Did yet inspire a cheer, which he forbore to check. 

lord-byron.jpgLord Byron

Ma si riconobbe presto come il meno adatto / tra gli uomini a entrare nel gregge dell’Uomo, col quale ebbe / poco in comune; incapace di sottoporre / i suoi pensieri ad altri, sebbene la sua anima fosse soffocata / in giovinezza dai suoi stessi pensieri; spontaneo ancora, / non voleva concedere il dominio della sua mente / a spiriti a cui il suo si ribellava; / orgoglioso nella sua solitudine, sapeva trovare / una vita in se stesso, per esistere fuori dall’umano. // Dove si elevano i monti, là aveva amici; / dove rombava l’oceano, là era la sua dimora; / dove un cielo s’offre azzurro, e un clima raggiante, / sentiva la passione e la forza di girovagare; / il deserto, la foresta, la caverna, la schiuma dei frangenti / gli facevano compagnia; parlavano / un linguaggio comune, più limpido del volume / della lingua della sua terra, a cui spesso rinunciava / per le pagine della Natura dai raggi del sole riflesse sul lago. // […] //  Ma nella dimora dell’Uomo divenne una cosa / irrequieta e estenuata, e severo e tedioso, / disperato come un falcone nato libero che si spezzi le ali // al quale solo l’aria illimitata fosse dimora: // gli tornò allora quel parossismo e per superarlo, // come l’uccello in gabbia suole battere con ardore / il petto e il rostro contro la volta metallica / finché il sangue non gli lorda il piumaggio, così la collera / della sua anima reclusa gli devastava il petto. // Aroldo esule volontario vagabonda ancora, / di ogni speranza privo, ma con minore tristezza; / la stessa consapevolezza di vivere invano, / giacché tutto era compiuto al di qua della tomba, /  aveva fatto assumere alla Disperazione un’aria sorridente, /  sebbene fosse feroce – come sul relitto saccheggiato / quando i marinai resi folli vanno incontro al loro destino /  con sorsi sfrenati sul ponte che affonda – /  pure ispirava un’allegrezza, che lui si asteneva dal contenere.

Analizziamo il passo attraverso l’analisi di Barbari-Squarotti:

  • Un Romanticismo aristocratico: nella prima strofa, Byron offre un ritratto di Aroldo che vive da solo, separato dal gregge dell’Uomo. Orgoglioso, Aroldo vive nella tipica condizione di isolamento dell’individuo romantico, già prefigurata da Alfieri in Italia, ma ne accentua un aspetto: il disprezzo verso i propri simili, espresso attraverso il termine gregge.
  • La natura amica: nella seconda strofa, Byron rivela i veri amici e interlocutori dell’uomo romantico: la natura nei suoi paesaggi più solitari ed estremi (i monti, l’oceano, il deserto, la foresta, la caverna). Prevale qui il tipico tema romantico della solitudine nella natura, che rispecchia le passioni umane. Da notare la metafora del libro della natura, le cui pagine sono paesaggi riflessi nell’acqua del lago.
  • Byron e Baudelaire: nella strofa successiva, Byron descrive la condizione di sofferenza dell’eroe romantico nella vita comune. Egli soffre nella quotidianità; la sua condizione è espressa dalla similitudine dell’uccello in gabbia che si scaraventa contro le sbarre fino a sanguinare (Charles Baudelaire, precursore del Decadentismo, dopo la seconda metà del secolo, nella raccolta I fiori del male, attribuirà una condizione simile all’albatro, simbolo del poeta). La soluzione è fuggire, vagabondare per il mondo, sempre oppresso e infelice, per evitare la disperazione, personificata con un sorriso feroce e con il paragone dei marinai che si ubriacano – per dimenticare l’angoscia – sulla nave che affonda, simbolo dell’esistenza umana.

800px-Joseph_Mallord_William_Turner_-_Childe_Harold's_Pilgrimage_-_1995-16_-_Auckland_Art_Gallery.jpgJoseph Mallord William Turner – Childe Harold’s Pilgrimage

Percy Bysshe Shelley nasce nel 1792 da una ricca e importante famiglia inglese, con la quale ruppe a seguito di un matrimonio con la sedicenne Harriet Westbrook, senza mai più riallacciare i rapporti. Si lega a Godwin, di cui sposerà la figlia, dopo il suicidio di Harriet, accostandosi così a teorie piuttosto razionali ed ateisti. Si trasferisce dapprima in Svizzera, dove incontrerà Byron, quindi in Italia, pubblicando le sue opere più importanti, come I Cenci, o il dramma lirico Il Prometeo incatenato. Muore annegato nel golfo di La Spezia, di ritorno di una gita in barca, nel 1822. 

800px-Percy_Bysshe_Shelley_by_Alfred_Clint.jpgAlfred Clint: Percy Bysshe Shelley

L’Ode al vento occidentale, una delle liriche più importanti dell’intero romanticismo europeo, viene pubblicata postuma.

ODE TO THE WEST WIND

I
O wild West Wind, thou breath of Autumn’s being, 
Thou, from whose unseen presence the leaves dead 
Are driven, like ghosts from an enchanter fleeing, 

Yellow, and black, and pale, and hectic red, 
Pestilence-stricken multitudes: O thou, 
Who chariotest to their dark wintry bed 

The winged seeds, where they lie cold and low, 
Each like a corpse within its grave, until 
Thine azure sister of the Spring shall blow 

Her clarion o’er the dreaming earth, and fill 
(Driving sweet buds like flocks to feed in air) 
With living hues and odours plain and hill: 

Wild Spirit, which art moving everywhere; 
Destroyer and preserver; hear, oh hear! 

II 

Thou on whose stream, mid the steep sky’s commotion, 
Loose clouds like earth’s decaying leaves are shed, 
Shook from the tangled boughs of Heaven and Ocean, 

Angels of rain and lightning: there are spread 
On the blue surface of thine aëry surge, 
Like the bright hair uplifted from the head 

Of some fierce Maenad, even from the dim verge 
Of the horizon to the zenith’s height, 
The locks of the approaching storm. Thou dirge 

Of the dying year, to which this closing night 
Will be the dome of a vast sepulchre, 
Vaulted with all thy congregated might 

Of vapours, from whose solid atmosphere 
Black rain, and fire, and hail will burst: oh hear! 

III 
Thou who didst waken from his summer dreams 
The blue Mediterranean, where he lay, 
Lull’d by the coil of his crystalline streams, 

Beside a pumice isle in Baiae’s bay, 
And saw in sleep old palaces and towers 
Quivering within the wave’s intenser day, 

All overgrown with azure moss and flowers 
So sweet, the sense faints picturing them! Thou 
For whose path the Atlantic’s level powers 

Cleave themselves into chasms, while far below 
The sea-blooms and the oozy woods which wear 
The sapless foliage of the ocean, know 

Thy voice, and suddenly grow gray with fear, 
And tremble and despoil themselves: oh hear! 

IV 

If I were a dead leaf thou mightest bear; 
If I were a swift cloud to fly with thee; 
A wave to pant beneath thy power, and share 

The impulse of thy strength, only less free 
Than thou, O uncontrollable! If even 
I were as in my boyhood, and could be 

The comrade of thy wanderings over Heaven, 
As then, when to outstrip thy skiey speed 
Scarce seem’d a vision; I would ne’er have striven 

As thus with thee in prayer in my sore need. 
Oh, lift me as a wave, a leaf, a cloud! 
I fall upon the thorns of life! I bleed! 

A heavy weight of hours has chain’d and bow’d 
One too like thee: tameless, and swift, and proud. 


Make me thy lyre, even as the forest is: 
What if my leaves are falling like its own! 
The tumult of thy mighty harmonies 

Will take from both a deep, autumnal tone, 
Sweet though in sadness. Be thou, Spirit fierce, 
My spirit! Be thou me, impetuous one! 

Drive my dead thoughts over the universe 
Like wither’d leaves to quicken a new birth! 
And, by the incantation of this verse, 

Scatter, as from an unextinguish’d hearth 
Ashes and sparks, my words among mankind! 
Be through my lips to unawaken’d earth 

The trumpet of a prophecy! O Wind, 
If Winter comes, can Spring be far behind?

I. O tu vento selvaggio occidentale, alito / della vita d’Autunno, oh presenza invisibile da cui / le foglie morte sono trascinate, come spettri in fuga / da un mago incantatore, gialle e nere, / pallide e del rossore della febbre, moltitudini / che il contagio ha colpito: oh tu che guidi / i semi alati ai loro letti oscuri, / dell’inverno in cui giacciono freddi e profondi / come una spoglia sepolta nella tomba, / finché la tua azzurra sorella della Primavera / non farà udire la squilla sulla terra in sogno / e colmerà di profumi e di colori vividi / il colle e la pianura, nell’aria i lievi bocci conducendo / simili a greggi al pascolo; oh Spirito selvaggio, / tu che dovunque t’agiti, e distruggi e proteggi: ascolta, ascolta! //  II. Tu nella tua corrente, nel tumulto / del cielo a precipizio, le nuvole disperse / sono spinte qua e là come foglie appassite / scosse dai rami intricati del Cielo e dell’Oceano, / angeli della pioggia e del fulmine, e si spargono / là sull’azzurra superficie delle tue onde d’aria / come la fulgida chioma che s’innalza / sopra la testa d’una fiera Monade, dal limite / fioco dell’orizzonte fino alle altezze estreme dello zenit, / capigliatura della tempesta imminente. Canto funebre / tu dell’anno che muore, al quale questa notte che si chiude / sarà la cupola del suo sepolcro immenso, sostenuta a volta, / da tutta la potenza riunita dei vapori / dalla cui densa atmosfera esploderà una pioggia / nera con fuoco e grandine: oh ascolta! // III. Tu che svegliasti dai loro sogni estivi / le acque azzurre del Mediterraneo, dove / si giaceva cullato dal moto dei flutti cristallini / accanto a un’isola tutta di pomice del golfo / di Baia e vide in sonno gli antichi palazzi e le torri / tremolanti nel giorno più intenso dell’onda, sommersi / da muschi azzurri e da fiori dolcissimi al punto / che nel descriverli il senso viene meno! / Tu per il cui sentiero la possente / superficie d’Atlantico si squarcia / e svela abissi profondi dove i fiori / del mare e i boschi fradici di fango, che indossano / le foglie senza linfa dell’Oceano, conoscono / la tua voce e si fanno all’improvviso grigi / per la paura e tremano e si spogliano: oh, ascolta! // IV. Fossi una foglia appassita che tu potessi portare; / fossi una rapida nuvola per inseguire il tuo volo; / un’onda palpitante alla tua forza, e potessi / condividere tutto l’impulso della tua potenza, / soltanto meno libero di te, oh tu che sei incontrollabile! / Potessi essere almeno com’ero nell’infanzia, compagno / dei tuoi vagabondaggi alti nei cieli, come quando / superare il tuo rapidi passo celeste / sembrava appena un sogno; non mi rivolgerei / a te con questa preghiera nella mia dolente / necessità. Ti prego, levami come un’onda, come / una foglia o una nuvola. Cado / sopra le spine della vita e sanguino! Un grave / peso di ore ha incatenato, incurvato / uno a te troppo simile: indomito, veloce ed orgoglioso. // V. Fa’ di me la tua cetra, com’è della foresta; che cosa importa se le mie foglie cadono / come le sue! Il tumulto / delle tue forti armonie leverà a entrambi un canto / profondo e autunnale, e dolcemente triste. / Che tu sia dunque il mio spirito, o Spirito fiero! / Spirito impetuoso, che tu sia me stesso! / Guida i miei morti pensieri per tutto l’universo / come foglie appassite per darmi una nascita nuova! / E con l’incanto di questi miei versi disperdi / come da un focolare non ancora spento, / le faville e le ceneri, le mie parole tra gli uomini! / E alla terra che dorme, attraverso il mio labbro / tu sia la tromba d’una profezia! Oh, Vento, / se viene l’Inverno, potrà la Primavera esser lontana?  

Il brano di Shelley può essere strutturato in due parti distinte, corrispondenti la prima alle stanze I – III, l’altra alle due rimanenti. Ciò è chiaramente indicato dal finale del distico di ogni stanza, il cui verso si rivolge al vento usando la seconda persona invitandolo ad ascoltare la voce del poeta che canta la sua forza tumultuosa e distruttrice, l’energie vitale che lo contraddistingue e che dà vita al grandioso mutare del tempo. Nelle ultime due stanze il poeta desidera diventare esso stesso voce, come il vento, capace di emularne la forza per la preparazione di un’eterna primavera. Sembra quasi che Shelley voglia metaforizzare con il vento i moti rivoluzionari che in quel periodo attraversavano l’Europa per preparare un futuro di libertà indicato con la domanda retorica in cui seppur lontana verrà la Primavera, cioè la libertà per i popoli.

800px-Sir_Henry_Raeburn_-_Portrait_of_Sir_Walter_Scott.jpgHerny Raeburn : Sir Walter Scott

Non si può terminare un discorso sul romanticismo inglese senza parlare della narrativa per la eco che esso ebbe sul futuro del romanzo in Europa: basti pensare che il nostro I promessi sposi, nasce dalla suggestione che Manzoni subì dalla lettura dell’Ivanhoe di Walter Scott.

Walter Scott (1771- 1832) è un scrittore scozzese, in principio dedito all’attività dell’avvocatura. Spinto da amore per la letteratura tedesca, dapprima si fece traduttore, conoscendone bene la lingua, e quindi scrivendo poemi narrativi ottenendo grande successo. Grazie a ciò divenne ricco, ma con abile capacità imprenditoriale seppe rinnovarsi quando il suo fare letterario venne oscurata dalla presenza di Byron; si dedicò pertanto alla narrativa, allontanandosi dal romanzo gotico e, inserendo l’idea di avventura già presente nell’opera di Defoe, in quello che verrà definito romanzo storico. La sua opera maggiormente rappresentativa è l’Ivanhoe (1820), che rappresenta appieno le istanze romantiche vigenti allora in Inghilterra e nella stessa Europa. 

La vicenda si colloca nell’Inghilterra del XII secolo sullo sfondo dei contrasti tra sassoni e normanni. Wilfred di Ivanhoe, figlio di Cedric, ama lady Rowena, pupilla del padre, e ne riamato. Ma Cedric ha deciso di dare Rowena in moglie ad Athelstane di Coningsburgh per riportare una stirpe sassone sul trono, e perciò bandisce Ivanhoe, legato da amicizia con il re normanno Riccardo Cuor di Leone. Il giovane va crociato al seguito di Riccardo. Ma in assenza del re, Giovanni, suo fratello, usurpa il trono. Al ritorno dei crociati Ivanhoe, al gran torneo di Ashby-de-la-Zouche batte tutti i campioni dell’usurpatore. Ma i nobili normanni lo fanno prigioniero con Cedric e Rowena, Athelstane, la bella Rebecca e il padre di lei Isaac: vengono liberati da re Riccardo e Robin Hood, alla testa di sassoni e fuorilegge. Ivanhoe e Rowena si sposano: Rebecca, che ha sempre amato Ivanhoe, lascia l’Inghilterra col padre.  

LA DESCRIZIONE DI GURTH E WAMBA
CAPITOLO I

Il sole stava tramontando su di una erbosa radura di quella foresta che abbiamo citato all’inizio del capitolo*. Centinaia di querce frondose, dal tronco corto e dai grandi rami, che forse avevano visto la marcia trionfale dei soldati romani, allungavano le braccia nodose su un folto tappeto di deliziosa erba verde. In alcuni punti le querce si alternavano ai faggi, agli agrifogli, a un sottobosco di piante diverse, così folto da intercettare i raggi obliqui del sole al tramonto; in altri, le querce si distaccavano le une dalle altre formando quei viali lunghi e spaziosi nel cui intrico l’occhio ama perdersi, mentre l’immaginazione li trasforma in sentieri verso luoghi ancor più selvaggi di silvestre solitudine. Qui i rossi raggi del sole inviavano una luce rotta e incolore che cadeva sui rami spezzati e sui tronchi muschiosi degli alberi, illuminando di macchie brillanti quelle parti di prato che riuscivano a raggiungere. Nel mezzo di questa radura c’era un ampio spazio aperto che sembrava esser stato destinato nei tempi antichi ai riti della superstizione druidica. Infatti, sulla cima di una collinetta, così regolare da sembrare artificiale, restava ancora parte di un cerchio di grosse dimensioni formato da massi rozzi e irregolari. Sette erano ancora eretti, gli altri erano stati spostati dalle loro sedi, probabilmente dallo zelo di qualche convertito al cristianesimo, e giacevano lì vicino o sul fianco della collina. Un solo grosso masso era rotolato fino in fondo e, bloccando il corso di un ruscelletto che scorreva placidamente ai piedi dell’altura, dava origine a un debole mormorio in quel placido e altrimenti silenzioso rivolo d’acqua. Completavano il paesaggio due figure umane che con le loro vesti e il loro aspetto ben si accordavano al carattere rustico e selvaggio tipico a quei tempi delle zone boscose del West-Riding, nello Yorkshire. Il più anziano dei due aveva un aspetto duro, primitivo e selvaggio. Il suo vestito era estremamente semplice: una giacca chiusa, con maniche, di pelle conciata, sulla quale originariamente doveva esserci stato il pelo, ma così consunta che sarebbe stato difficile distinguere dai ciuffi rimasti a quale animale fosse appartenuto. Questo abito primitivo lo copriva dalla gola alle ginocchia e svolgeva contemporaneamente tutte le funzioni di ogni altro capo di vestiario. L’apertura al collo era grande quanto bastava a far passare la testa; se ne poteva dedurre che lo si indossava facendolo scivolare dalla testa e sulle spalle, come una camicia moderna o un’antica cotta di maglia. Dei sandali, legati da lacci di pelle di cinghiale, gli proteggevano i piedi, e una fascia di cuoio sottile era avvolta intorno alle gambe fino al polpaccio, lasciando scoperte le ginocchia all’uso dei montanari scozzesi. Affinché aderisse il più possibile al corpo, la giacca era stretta in vita da una larga cintura di cuoio chiusa da una fibbia di bronzo; a un lato di questa era appesa una sorta di bisaccia e all’altro un corno di montone fornito di un’imboccatura per poterlo suonare. Nella stessa cintura era infilato uno di quei coltelli lunghi, larghi appuntiti e a due tagli, dal manico di corno, che erano fabbricati nella zona e venivano fin da allora chiamati coltelli di Sheffield. L’uomo non portava nulla sulla testa, che era riparata esclusivamente dai folti capelli arruffati, bruciati dal sole a tal punto da apparire di color rosso ruggine in contrasto con la barba piuttosto giallastra che gli cresceva sulle guance. Un’ultima parte del suo abbigliamento resta da descrivere ed è troppo importante per essere tralasciata: un anello di bronzo, simile al collare di un cane, ma senza apertura, ben saldato intorno al collo, abbastanza largo da non impedirgli la respirazione ma sufficientemente stretto da non poter essere tolto salvo che per mezzo di una lima. Su questo strano collare era incisa, in caratteri sassoni, la seguente iscrizione: «Gurth, figlio di Beowulph, è nato schiavo di Cedric di Rotherwood». Accanto a questo guardiano di porci, poiché tale era l’occupazione di Gurth, era seduto su uno dei massi druidici caduti a terra un uomo apparentemente più giovane d’una decina d’anni, il cui abito, sebbene simile nella forma a quello del compagno, era di materiale migliore e di fattura più bizzarra. La giacca era di un brillante color porpora e su di essa si era cercato di dipingere grottesche decorazioni in diverse tinte. Oltre alla giacca portava un corto mantello che gli arrivava appena a metà coscia, di stoffa rossa, pieno di macchie, bordato in giallo brillante; e poiché poteva passarlo da una spalla all’altra o, volendo, avvolgerselo intorno l’ampiezza a confronto della scarsa altezza ne faceva un indumento alquanto stravagante. Sulle braccia portava dei sottili braccialetti d’argento e al collo un collare dello stesso metallo con la scritta: «Wamba, figlio di Witless, è schiavo di Cedric di Rotherwood». 

* Il romanzo viene introdotto da una premessa nella quale l’autore informa il lettore del luogo in cui si svolge la vicenda (la foresta presso Sheffield, nello Yorkshire)

Il testo presentato offre la tecnica con cui Scott opera per la stesura del suo romanzo, la fusione tra romance (“narrazione fittizia in prosa o in versi, il cui interesse s’impernia su fatti inconsueti e meravigliosi”) e novel (“narrazione fittizia che differisce dal romance perché i fatti vengono adattati al corso ordinario delle vicende umane e alla moderna situazione della società”). Tale fusione erano state presentate in un saggio dello stesso scrittore scozzese nel Saggio sul romance del 1824 e da cui abbiamo tratto le citazioni. Tale tecnica richiede uno scrittore onnisciente in grado di guidare il lettore non solo nei meandri della storia in sé, ma anche nella descrizione del modo di vestire e di pensare dei personaggi. In questo passo colpisce la capacità analitica in cui il modo con cui l’autore ci presenta il modo di vestire dei due, voglia offrirci anche il loro quadro sociale e “storico”.

30339586409.jpgEdizione italiana dell’Ivanhoe

IL TORNEO
CAPITOLO XII

Non appena Rowena fu seduta, uno squillo di trombe parzialmente soffocato dalle grida della folla, salutò la sua nuova dignità. Intanto il sole caldo e luminoso splendeva sulle lucenti armature dei cavalieri delle due fazioni che si affollavano ai lati opposti del recinto e discutevano vivacemente sul miglior modo di condurre il combattimento e di sostenere lo scontro.
Poi gli araldi ordinarono il silenzio per ripetere le regole del torneo. Queste erano state calcolate in modo da ridurre in parte i pericoli del combattimento, precauzione tanto più necessaria in quanto lo scontro si sarebbe svolto con spade affilate e lance appuntite.
Ai campioni era proibito di usare la spada di punta e si dovevano limitare a menare colpi. Fu annunciato che potevano usare la mazza o l’ascia di guerra a piacere, ma il pugnale era un’arma proibita. Un cavaliere disarcionato poteva riprendere il combattimento a piedi con qualsiasi altro della fazione avversaria che si trovasse nelle stesse condizioni, ma i cavalieri a cavallo, in questo caso, non dovevano attaccarlo. Quando un cavaliere riusciva a spingere l’avversario ai confini del campo fino a fargli toccare la palizzata col corpo o con le armi, questi era obbligato a dichiararsi vinto e la sua armatura e il suo cavallo passavano a disposizione del vincitore. A un cavaliere che fosse stato così sopraffatto non era più concesso di prendere parte alla lotta. Se un combattente veniva buttato a terra e non era in grado di rialzarsi, il suo scudiero o paggio poteva entrare nel campo e portar fuori dalla mischia il padrone, ma in tal caso il cavaliere era considerato vinto e le sue armi e il suo cavallo erano dichiarati confiscati. Il combattimento doveva aver termine non appena il principe Giovanni avesse abbassato il bastone di comando, questa precauzione veniva di solito presa per evitare l’inutile spargimento di sangue causato dal protrarsi di uno sport tanto violento. Il cavaliere che avesse infranto le regole del torneo o comunque trasgredito quelle dell’onore cavalleresco poteva essere privato delle armi ed essere messo, con lo scudo rovesciato, a cavalcioni della palizzata ed esposto al pubblico disprezzo come punizione per un comportamento indegno di un cavaliere. Gli araldi conclusero queste avvertenze esortando ogni buon cavaliere a fare il suo dovere e a meritare il favore della regina della bellezza e dell’amore.
Fatto questo annuncio, gli araldi ritornarono ai loro posti. I cavalieri, entrando in un lungo corteo dai due lati del campo si disposero in doppia fila, gli uni esattamente di fronte agli altri, con il capo di ciascuna fazione al centro della prima fila; questi tuttavia andarono a occupare i loro posti solo dopo aver sistemato con cura le file del proprio gruppo e aver controllato la posizione di ciascuno.
Era una scena stupenda e al tempo stesso inquietante vedere tanti valorosi cavalieri a cavallo di ottimi destrieri e splendidamente armati, pronti ad affrontare uno scontro così formidabile, seduti sulle loro selle come tanti pilastri di ferro, in attesa del segnale d’inizio con lo stesso ardore dei loro generosi cavalli che, nitrendo e scalpitando, davano segni d’impazienza.
I cavalieri tenevano ancora alzate le loro lunghe lance, e le punte lucenti di queste scintillavano al sole mentre le banderuole di cui erano ornate sventolavano sopra le piume degli elmi. Rimasero in questa posizione mentre i marescialli di campo ispezionavano le file con la massima attenzione per controllare che ciascuna fazione avesse né più né meno del numero di uomini prestabilito. Il conteggio risultò esatto. Allora i marescialli si ritirarono dal campo e William de Wyvil con voce tonante pronunciò le parole del segnale: Laissez aller! Mentre parlava le trombe squillarono, le lance dei campioni furono immediatamente abbassate e messe in resta, gli sproni furono conficcati nei fianchi dei cavalli, e le due prime file di ciascun gruppo si slanciarono l’una contro l’altra a gran galoppo scontrandosi a metà campo con un urto il cui frastuono fu sentito a un miglio di distanza. La fila successiva delle due fazioni avanzò a passo più lento per aiutare i cavalieri che erano stati sopraffatti e per approfittare del successo dei vincitori. Non fu possibile vedere immediatamente i risultati dello scontro poiché la polvere sollevata dal calpestio di tanti cavalli aveva offuscato l’aria, ci volle un minuto perché gli ansiosi spettatori potessero vederne l’esito. Quando il campo divenne visibile, metà dei cavalieri di ciascun gruppo erano a terra disarcionati: alcuni dall’abilità della lancia del loro avversario, altri dalla mole e dalla potenza dell’antagonista che aveva gettato a terra cavallo e cavaliere alcuni giacevano sul terreno come se non dovessero rialzarsi mai più, altri si erano rimessi in piedi e affrontavano avversari nelle stesse condizioni, altri ancora, da entrambe le parti, erano feriti in modo tale da non poter proseguire il combattimento e cercavano di fermare il sangue con le sciarpe e di uscire dalla mischia. I cavalieri ancora a cavallo le cui lance si erano quasi tutte spezzate nella violenza dello scontro, si battevano Walter Scott – Ivanhoe 123 www.writingshome.com da presso con le spade, lanciando grida di guerra e scambiandosi colpi, come se l’onore e la vita dipendessero dall’esito del combattimento. La mischia aumentò ulteriormente con l’arrivo della seconda fila di ciascun gruppo che, agendo da riserva, si era precipitata in aiuto dei compagni. I seguaci di Brian de Bois-Guilbert gridavano: «Ah, Beau-séant! Beauséant! Per il Tempio! Per il Tempio!». La fazione avversa gridava in risposta: «Desdichado! Desdichado!», grido di guerra che avevano preso dal motto sullo scudo del loro condottiero.
I campioni si andavano così scontrando con estrema violenza e con alterne fortune, e la marea della battaglia sembrava spostarsi ora verso il lato meridionale ora verso quello settentrionale del campo, a seconda che prevalesse l’una o l’altra fazione. Frattanto il fragore dei colpi e le grida dei combattenti si confondevano paurosamente con gli squilli delle trombe e soffocavano i lamenti di coloro che erano caduti andando a rotolare senza protezione alcuna sotto le zampe dei cavalli. Le splendide armature dei combattenti erano ormai sporche di polvere e di sangue e cedevano sotto i colpi di spada e di ascia. I vivaci piumaggi, strappati dai cimieri, volavano nell’aria come fiocchi di neve. Tutto ciò che era bello ed elegante nell’abbigliamento marziale era scomparso, e quello che ora si vedeva non ispirava altro che terrore o compassione.
Eppure tanta è la forza dell’abitudine che non solo gli spettatori più grossolani che sono naturalmente attratti dagli spettacoli orripilanti, ma anche le dame di rango che affollavano le tribune seguivano il combattimento con eccitato interesse e senza desiderio alcuno di distogliere lo sguardo da uno scenario così terribile. Qua e là, in effetti, capitava di vedere una bella guancia impallidire, di udire un grido soffocato, quando un amante, un fratello o un marito venivano buttati giù da cavallo. Ma in generale le dame incoraggiavano i combattenti non solo battendo le mani e agitando veli e fazzoletti, ma anche esclamando: «Ottima lancia! Buona spada!», allorché qualche buon colpo veniva portato a segno sotto i loro occhi.
Se tale era l’interesse del gentil sesso per questo gioco sanguinario, ancora più comprensibile è quello degli uomini. Si manifestava con forti acclamazioni a ogni mutamento della sorte, e gli occhi di tutti erano così polarizzati sul campo che gli spettatori sembravano essi stessi dare e ricevere i colpi che con tanta abbondanza venivano inferti. E durante ogni pausa si sentiva la voce degli araldi che esclamavano: «Combattete, valorosi cavalieri! L’uomo muore, ma la gloria vive! Combattete! Meglio la morte che la sconfitta! Combattete, valorosi cavalieri! Occhi luminosi osservano le vostre gesta!». 
In mezzo alle alterne vicende del combattimento, gli occhi di tutti cercavano di rintracciare i capi delle due fazioni, i quali, nel folto della mischia, incoraggiavano i compagni con la voce e con l’esempio. Entrambi davano grandi prove di coraggio, e né Bois-Guilbert né il cavaliere Diseredato avevano trovato nelle file avversarie un campione che potesse essere loro pari.
Ripetutamente avevano cercato di affrontarsi, spinti da reciproco astio e consapevoli che la caduta dell’altro poteva essere decisiva per la vittoria. Ma la folla e la confusione erano tali che durante la prima parte del combattimento i loro sforzi per incontrarsi erano stati vani, e ripetutamente erano stati separati dalla furia dei seguaci ansiosi di farsi onore misurando la propria forza con il capo della fazione avversaria. Ma quando il campo cominciò a spopolarsi di coloro che, in ciascuna fazione, si erano dichiarati vinti o erano stati spinti ai margini del recinto o erano comunque impossibilitati a continuare la lotta, il Templare e il cavaliere Diseredato si trovarono alla fine di fronte con tutta la furia che un astio mortale unito a una rivalità d’onore può suscitare. Tale era l’abilità di ciascuno nel parare e nel colpire che gli spettatori proruppero in un grido involontario e unanime che esprimeva la loro gioia e la loro ammirazione.
Ma in quel momento la fazione del cavaliere Diseredato stava avendo la peggio; il braccio gigantesco di Front-de-Boeuf da un lato e la forza poderosa di Athelstane dall’altro abbattevano e disperdevano coloro che li affrontavano direttamente. Quasi nello stesso momento parve che entrambi, trovandosi liberi da avversari, decidessero che la cosa migliore per dare un vantaggio decisivo al loro gruppo fosse aiutare il Templare nello scontro con il rivale. Perciò, voltati i cavalli nello stesso istante, il normanno spronò da una parte contro il cavaliere Diseredato e il sassone dall’altra. Sarebbe stato assolutamente impossibile per il cavaliere Diseredato sostenere un attacco così impari e inaspettato se non fosse stato messo in guardia dal grido unanime degli spettatori che non potevano non prendere a cuore un campione esposto a tale svantaggio.
«Attento! Attento! Cavaliere Diseredato!», gridavano tutti, tanto che questi si accorse del pericolo e, dopo aver rifilato un duro colpo al Templare, fece indietreggiare il cavallo in modo da evitare la carica di Athelstane e di Front-de-Boeuf. I due cavalieri, visto il loro tentativo così vanificato, irruppero da opposte direzioni tra l’oggetto del loro attacco e il Templare, rischiando quasi di far scontrare i cavalli prima di poterne frenare la corsa. Quando ne ebbero ripreso il controllo, li fecero voltare, e tutti e tre si unirono nello scopo di abbattere il cavaliere Diseredato.
Nulla avrebbe potuto salvarlo, salvo la forza straordinaria e la mobilità del nobile destriero che aveva vinto il giorno precedente.
Ciò gli fu di grande vantaggio poiché il cavallo di Bois-Guilbert era ferito e quelli di Front-de-Boeuf e di Athelstane erano entrambi sfiniti dal peso dei loro giganteschi padroni, ricoperti da capo a piedi delle armature, e dalle fatiche del giorno precedente. La sua bravura di cavaliere e la destrezza del nobile animale che montava consentirono al cavaliere Diseredato di tenere a bada i tre avversari per alcuni minuti, girandosi e roteando con l’agilità di un falcone in volo tenendo il più possibile separati i nemici, attaccando ora l’uno ora l’altro e menando fendenti con la spada senza rimanere ad attendere quelli a lui diretti. Ma benché il campo risuonasse degli applausi alla sua bravura era evidente che alla fine sarebbe stato sopraffatto, e i nobili che attorniavano il principe Giovanni lo implorarono tutti di abbassare il bastone e di salvare un cavaliere così coraggioso dalla sventura di essere sconfitto dal numero.
«No, per la luce del cielo!», rispose il principe; «questo giovanotto, che nasconde il suo nome e disprezza le nostre offerte d’ospitalità, ha già guadagnato un premio e può ben lasciare il turno agli altri». Ma mentre così parlava, un avvenimento inatteso cambiò le sorti della giornata.
C’era nelle file del cavaliere Diseredato un guerriero in armatura nera, in sella a un cavallo nero di grossa corporatura, alto, forte e potente nell’aspetto quanto il cavaliere che lo montava. Questi, che non aveva alcuna insegna sullo scudo aveva fino a quel momento mostrato scarso interesse per l’esito del combattimento e aveva respinto con apparente facilità gli avversari che l’avevano attaccato, senza tuttavia sfruttare il suo vantaggio e senza assalire nessuno. In poche parole, aveva fino allora recitato la parte dello spettatore piuttosto che quella di partecipante al torneo, fatto che gli aveva procurato da parte del pubblico il nome di Le Noir Fainéant, Il Nero Fannullone.
Improvvisamente, allorché vide il capo della sua fazione tanto duramente attaccato, questo cavaliere sembrò liberarsi dell’apatia e, dando di sprone al cavallo che era ancora fresco, si precipitò in suo aiuto come un fulmine, gridando con voce che sembrava uno squillo di tromba: «Desdichado, alla riscossa!». Appena in tempo, poiché, mentre il cavaliere Diseredato incalzava il Templare, Front-de-Boeuf gli si era avvicinato con la spada alzata. Ma prima che questa scendesse, il Cavaliere Nero gli assestò un colpo in testa che scivolando sul lucido elmo, si abbatté con violenza sul frontale del cavallo, e Front-deBoeuf rotolò a terra insieme al destriero, entrambi tramortiti dalla violenza dell’urto. Poi Le Noir Fainéant girò il cavallo verso Athelstane di Coningsburgh, e, siccome gli si era spezzata la spada nell’incontro con Front-de-Boeuf, strappò di mano al massiccio sassone l’ascia di guerra e, da combattente esperto nell’uso di quest’arma, gli diede un tal colpo sul cimiero che anche Athelstane rimase a terra privo di sensi. Compiuta questa duplice impresa, per la quale fu molto applaudito proprio perché del tutto inaspettata da parte sua, il cavaliere sembrò riprendere lo stato d’indolenza precedente e se ne ritornò lentamente verso il lato settentrionale della lizza lasciando il suo capo ad affrontare come meglio poteva Brian de Bois-Guilbert. Ma la cosa non era più così difficile come prima. Il cavallo del Templare aveva perso molto sangue e cedette alla carica del cavaliere Diseredato. Brian de Bois-Guilbert ostacolato dalle staffe da cui non riusciva a liberare il piede, rotolò sul campo. Il suo avversario saltò a terra, levò la spada fatale sopra la sua testa e gli ordinò di arrendersi. Allora il principe Giovanni, impietosito dalla situazione critica del Templare più di quanto lo fosse stato di fronte a quella del suo rivale, lo salvò dall’umiliazione di dichiararsi vinto abbassando il bastone e mettendo fine allo scontro.
Era ora compito del principe Giovanni nominare il miglior cavaliere della giornata, ed egli decise che l’onore toccava al cavaliere che la voce popolare aveva soprannominato Le Noir Fainéant. Fu fatto notare al principe, criticando la sua decisione, che la vittoria era stata conseguita in realtà dal cavaliere Diseredato che nel corso della giornata aveva abbattuto da solo sei campioni e che aveva poi disarcionato e fatto cadere a terra il capo della fazione avversaria. Ma il principe Giovanni rimase del suo parere, sostenendo che il cavaliere Diseredato e il suo gruppo avrebbero perso il torneo se non fosse stato per il potente aiuto del cavaliere dalla nera armatura, al quale perciò insisté di aggiudicare il premio.
Tuttavia, con sorpresa di tutti i presenti, non si riuscì a trovare il cavaliere prescelto da nessuna parte. Aveva lasciato il campo immediatamente dopo la fine del torneo ed era stato visto da alcuni spettatori scendere lungo una radura della foresta con lo stesso passo lento e gli stessi modi svogliati e indifferenti che gli avevano procurato l’epiteto di Fannullone Nero. Dopo che l’ebbero chiamato due volte con squilli di tromba e proclami degli araldi, fu necessario nominare un altro per ricevere gli onori che a lui erano stati destinati. Il principe Giovanni non aveva ormai altri pretesti per opporsi alla nomina del cavaliere Diseredato che fu quindi eletto campione della giornata. Attraverso il campo reso scivoloso dal sangue e ingombro di armature rotte e dei corpi di cavalli uccisi o feriti, i marescialli condussero di nuovo il vincitore ai piedi del trono del principe Giovanni.
«Cavaliere Diseredato», disse questi, «poiché solo con questo nome volete essere conosciuto, vi conferiamo per la seconda volta gli onori di questo torneo e vi annunciamo il diritto di richiedere e di ricevere dalle mani della regina dell’amore e della bellezza la corona che il vostro valore vi ha giustamente meritato». Il cavaliere si inchinò profondamente e con eleganza, ma non rispose nulla.
Mentre le trombe squillavano, mentre gli araldi si sfiatavano a tributare onore ai valorosi e gloria al vincitore, mentre le dame agitavano i fazzoletti di seta e i veli ricamati, e mentre tutti i presenti si univano in rumorose grida di esultanza, i marescialli condussero il cavaliere Diseredato attraverso il campo fino ai piedi del trono d’onore occupato da Lady Rowena. Il campione fu fatto inginocchiare sul gradino più basso. In effetti, dalla fine del combattimento il suo comportamento sembrava determinato più dall’intervento di coloro che gli erano intorno che dalla sua volontà, e fu visto barcollare mentre per la seconda volta veniva condotto attraverso la lizza. Rowena, scendendo dal trono con passo aggraziato e fiero, stava per mettere la corona che aveva in mano sull’elmo del campione quando i marescialli esclamarono: «Così non va… dev’essere a capo scoperto». Il cavaliere mormorò debolmente qualche parola che andò perduta nella cavità dell’elmo, ma che sembrava esprimere il desiderio che non gli fosse tolto.
I marescialli, non si sa se per amore del cerimoniale o per curiosità, non fecero caso alla sua riluttanza e gli tolsero l’elmo tagliando i lacci del casco e aprendo le fibbie della gorgiera. Quando l’elmo fu tolto, si videro i bei lineamenti, abbronzati dal sole, di un giovane uomo di circa venticinque anni in mezzo a una profusione di corti capelli biondi. Il volto era pallido come quello di un morto e segnato da una o due macchie di sangue.
Rowena, non appena lo vide, gettò un debole grido, ma immediatamente, facendo appello alla sua forza di carattere e imponendosi di continuare mentre tremava tutta per la violenza dell’improvvisa emozione, pose sulla testa china del vincitore la splendida corona premio della giornata, e con voce chiara e distinta pronunciò queste parole: «Io vi conferisco questa corona, signor cavaliere, come ricompensa al valore destinata al vincitore della giornata». A questo punto si fermò e poi con tono fermo aggiunse: «E mai corona cavalleresca potrebbe essere messa su fronte più degna!».
Il cavaliere abbassò il capo e baciò la mano della bella sovrana che aveva premiato il suo valore e poi, piegandosi ancora più in avanti, crollò ai suoi piedi.
La costernazione fu generale. Cedric, ammutolito dall’improvvisa apparizione del figlio che aveva bandito, si lanciò verso di lui come se volesse separarlo da Rowena. Ma ciò era già stato fatto dai marescialli di campo, i quali, intuendo la causa dello svenimento, si erano affrettati a togliergli l’armatura e avevano scoperto che la punta di una lancia era penetrata nel pettorale della corazza e aveva ferito a un fianco Ivanhoe.

Ivanhoe - stampa da The Grafic.JPGImmagine tratta da un’edizione illustrata dell’Ivanhoe 

Il brano proposto ci mostra ancora un aspetto aperto da Scott che prevede la fedeltà storica, a tale scopo egli pone particolare attenzione all’elemento informativo/didattico sulle regole di un torneo medievale; scritto su ciò la sua prosa vira su elementi emozionali determinati sia nella crudezza descrittiva degli scontri sia sulla tecnica della suspence ottenuta scrivendo l’episodio da un punto di vista dello spettatore. Ma forse la parte più interessante è certamente il centrare l’attenzione verso due personaggi anonimi: essi sono anonimi sia per gli spettatori del torneo che per i lettori, facendo aumentare in loro la curiosità e quindi la voglia di continuare a leggere. Nello svelamento di uno dei due, cioè Ivanhoe, l’autore non può non far notare come l’eroe sia gravemente ferito, eccitando il lettore nel voler conoscere il prosieguo della sua vicenda; quindi gioca con la figura del personaggio del Fannullone, la cui anonimità è giustificata “narrativamente” in quanto nasconde la figura del legittimo re Riccardo. 

Altro romanzo inglese d’enorme importanza sia per la tematica che per la eco che ancora oggi riceve è di Mary Shelley: Frankenstein o il moderno Prometeo del 1818:

mary-shelley-e-la-maledizione-del-lago.jpgMary Shelley

Mary Shelley (1797) nasce da William Godwin, filosofo dalle idee radicali, e Mary Wollstonecraft, autrice di A Vindication of the Rights of Woman, che morì nel darla alla luce. Aveva appena sedici anni quando incontrò Shelley che sposò in seguito, condividendo con lui una vita fatta di avventure e pericoli. Quando Shelley morì in mare, rimase vedova ad appena venticinque anni e, tornata in Inghilterra, dopo il successo straordinario del suo romanzo giovanile, appunto Frankenstein, riprese l’attività letteraria, di cui ci piace ricordare un altro notevole romanzo L’ultimo uomo del 1826.

Frankenstein, giovane svizzero studioso di filosofia naturale, servendosi di parte anatomiche sottratte a vari cadaveri, costruisce una creatura mostruosa, cui riesce, con procedimenti di cui lui solo ha il segreto, ad infondere la scintilla della vita. Atterrito per la creatura che ha creato, Frankenstein non riesce ad accudirlo e quindi il mostro fugge, non prima di avergli ucciso il fratellino. Lo scienziato lo ritrova sul Monte Bianco e, nonostante l’aspetto terrificante, la creatura si rivela la quintessenza della bontà di cuore e della mitezza. Ma quando si accorge del disgusto e della paura che suscita negli altri, la sua natura, incline alla bontà, subisce una totale trasformazione ed egli diviene un’autentica forza distruttiva: per questo chiede al suo creature di dar vita ad una compagna capace di amarlo e di placare la sete di vendetta verso gli uomini. Frankenstein promette ma non mantiene, inorridito dall’idea di una progenie di mostri. La creatura si vendica uccidendogli due amici, e viene infine raggiunto dal suo creatore nei ghiacci dell’Artico. Qui Frankenstein muore, dopo aver raccontato la storia ad un vecchio marinaio. Sulla sua tomba il mostro mostrerà la rabbia ma anche l’infinito amore per “suo padre” e quindi fuggirà alla ricerca dell’annientamento di sé.

 

L’APPARIZIONE DEL MOSTRO
(Capitolo V)

Fu in una tetra notte di novembre che vidi il compimento delle mie fatiche. Con un’ansia simile all’angoscia radunai gli strumenti con i quali avrei trasmesso la scintilla della vita alla cosa inanimata che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva lugubre contro i vetri, la candela era quasi consumata, quando, tra i bagliori della luce morente, la mia creatura aprì gli occhi, opachi e giallastri; trasse un respiro faticoso e un moto convulso ne agitò le membra.
Come posso descrivere la mia emozione a quella catastrofe, descrivere l’essere miserevole a cui avevo dato forma con tanta cura e tanta pena? Il corpo era proporzionato e avevo modellato le sue fattezze pensando al sublime. Sublime? Gran Dio! La pelle gialla a stento copriva l’intreccio dei muscoli e delle vene; i capelli fluenti erano di un nero lucente e i denti di un candore perlaceo; ma queste bellezze  rendeva ancor più orrido il contrasto con gli occhi acquosi, grigiognoli come le orbite in cui affondavano, il colorito terreo, le labbra nere e tirate.
La vita non offre avvenimenti tanto mutevoli quanto lo sono i sentimenti dell’uomo. Avevo lavorato duramente per quasi due anni al solo scopo di infondere la vita a un corpo inanimato. Per questo avevo rinunciato al riposo e alla salute. L’avevo desiderato con intensità smodata, ma ora che avevo raggiunto la meta il fascino del sogno svaniva, orrore e disgusto infiniti mi riempivano il cuore. Incapace di sostenere la vista dell’essere che avevo creato, fuggii dal laboratorio e a lungo camminai avanti e indietro nella mia camera da letto, senza riuscire a dormire. Alla fine lo spossamento subentrò al tumulto iniziale e mi gettai vestito sul letto, cercando qualche momento di oblio. Invano! Dormii, è vero, ma agitato da sogni più strani. Mi sembrava di vedere Elisabeth, nel fiore della salute, per le strade di Ingolstadt. Sorpreso e gioioso, l’abbracciavo; ma come imprimevo il primo bacio sulle sue labbra, queste si facevano livide, color di morte; i suoi tratti si trasformavano e avevo l’impressione di stringere tra le braccia il cadavere di mia madre, avvolto nel sudario. I vermi brulicavano tra le pieghe del tessuto. Mi risvegliai trasalendo d’orrore; un sudore freddo mi imperlava la fronte, battevo i denti e le membra erano in preda a una tremito convulso quando – al chiarore velato della luna che si insinuava attraverso le persiane chiuse – scorsi la miserabile creatura, il mostro da me creato. Teneva sollevate le cortine del letto e i suoi occhi, se di occhi si può parlare, erano fissi su di me. Aprì le mascelle emettendo dei suoni inarticolati mentre un sogghigno gli raggrinzava le guance. Forse aveva parlato, ma non udii; aveva allungato una mano, come per trattenermi, ma gli sfugii precipitandomi giù per le scale. Mi rifugiai nel cortile della casa e vi passai il resto della notte, continuando a percorrerlo, agitatissimo, e tendendo l’orecchio a ogni rumore che annunciasse l’arrivo del diabolico cadavere al quale avevo sciaguratamente dato vita.
Oh! Nessun mortale avrebbe potuto sostenere l’orrore del suo aspetto! Una mummia riportata in vita non sarebbe risultata raccapricciante come quell’essere repulsivo. Lo avevo osservato quando non era ancora ultimato; anche allora era sgradevole, ma quando i muscoli e le giunture avevano assunto capacità di moto era diventato qualcosa che neppure Dante avrebbe saputo concepire.
Trascorsi una nottata infernale. A volte il mio polso batteva così rapido e violento che potevo sentire il palpitare di ogni arteria; altre volte l’estrema debolezza e il languore quasi mi facevano crollare a terra. Insieme all’orrore provavo l’amarezza della disillusione; sogni che a lungo erano stati stati il mio cibo e il mio ristoro si erano trasformati in incubi; e il rovesciamento era stato così rapido, così completa la disfatta!
Sorse il mattino, triste e piovoso, e mostrò ai miei occhi insonni e dolenti la chiesa di Ingolstadt, il suo bianco campanile e l’orologio che segnava le sei. Il guardiano aprì i cancelli del cortile, che era stato il mio asilo quella notte e uscii nelle strade percorrendole a passo svelto come per sfuggire al mostro che temevo mi si parasse dinanzi a ogni angolo. Non avevo il coraggio di tornare al mio alloggio, mi sentivo sospinto a camminare nonostante la pioggia che cadeva da un cielo nero e sconfortante mi bagnasse fino alle midolla.
Continuai così, sperando che l’esercizio fisico alleggerisse il peso che mi opprimeva la mente. Traversavo le strade senza avere idea di dove fossi,  di cosa facessi. Sentivo il cuore  stretto nella morsa dell’angoscia, e mi affettavo con passo irregolare, senza osare guardarmi attorno:

Come uno che, per strada deserta,
cammina tra paura e terrore,
e guardatosi intorno una volta, va avanti
e non volta mai più la testa
perché egli sa, un orrendo demonio
a breve distanza lo segue.*

*Versi tratti dalla Ballata del vecchio marinaio di Coleridge

L’opera di Mary Shelley presenta una serie di tematiche fondamentali del pensiero contemporaneo, che travalicano il tempo in cui l’opera fu scritta, ma continua ad illuminarci grazie alle trasposizioni cinematografiche e teatrali che si effettuano ancora oggi. Certamente essa non può che inserirsi all’interno del Romanticismo, laddove la figura titanica di Frankenstein, novello Dio, creatore di vita, non può che pagare la sua ybris, tracotanza e orgoglio, finendo per essere vittima di sé, come fosse il protagonista di una tragedia greca che abbia subito una nemesis da parte degli dei. Ma l’opera che la Shelley scrisse appena diciannovenne (frutto di una scommessa tra amici, i quali dovevano portare a termine un racconto gotico) non può essere compresa se non la si inserisce all’interno del processo dell’industrializzazione inglese; essa infatti, attraverso la trasformazione della natura e la produzione di qualcosa di nuovo, attraverso la sua continua modernizzazione, attraverso la “trasformazione” dell’uomo in un tutt’uno con la macchina produttrice sembra essere simboleggiato dalla figura della Creatura, ponendo l’interrogativo sul limite che la scienza deve porsi nella sua volontà di scoperta. A questo va aggiunto certamente il problema etico della diversità, dell’esclusione: se la Creatura è violenta è perché non è stato accettato e amato e tale non accettazione avviene dal punto di vista esteriore, non interiore. La sua anima pura contrasta con la deformità e questo tema illuminerà un altro grande romanzo della cultura europea Notre-Dame de Paris (1831) del francese Victor Hugo.

Francia

Il Romanticismo in Francia viene inaugurato dall’intellettuale ginevrina Madame de Staël con il testo De l’Allemagne (La Germania). In esso la scrittrice non fa altro che far conoscere ai francesi l’opera di Lessing, Goethe, Shiller, Novalis, nonché i teorici della nuova filosofia (si pensi a Fichte). Più che una teorica, la sua funzione vuole essere quella di “operatore culturale”, capace com’era di conoscere i più alti rappresentanti liberali e democratici, tessere rapporti, e costituire il fulcro di un dibattito culturale europeo. Ma non bisogna dimenticare che la Francia, pur essendo la capitale delle teorie razionaliste ed illuminate, aveva a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, una personalità come Jean-Jacques Rousseau che con Julie ou la Nouvelle Héloïse aveva aperto la strada, come d’altra parte aveva fatto Goethe con I dolori del giovane Werther ed in Italia Foscolo con lo Jacopo Ortis.

L’aria culturale nuova in Francia l’aveva raccolta François-René de Chateabriand che già nel 1802 aveva scritto Le génie du Christianisme (Il genio del Cristianesimo) opera capitale per il risveglio cattolico d’Europa, apprezzato soprattutto in seguito, dopo il Congresso di Vienna, e due brevi romanzi Atala e René.

Nasce nel 1768 da nobile famiglia. Viene avviato alla carriera militare e nel 1791, si reca negli Stati Uniti. Al ritorno in Francia si unisce allo schieramento controrivoluzionario e si rifugia in Inghilterra dove rimane fino al 1800. La morte della madre e della sorella lo spingono verso una profonda conversione spirituale, scriverà infatti opere che avranno al centro la riflessione religiosa. Accostatosi alla vita politica alla fine dell’Esperienza napoleonica, vi resterà fino al 1830, quando salirà al potere Luigi Filippo. Si ritira quindi a vita privata, scrivendo opere di carattere autobiografico e storico. Si spegnerà a Parigi nel 1848.

François-René-de-Chateaubriand-por-Anne-Louis-Girodet-de-Roussy-Trioson-c.-1808-1068x1355.jpgFrançois-René de Chateabriand

René, rifugiatosi nella colonia dei Natchez, in Louisiana, per vivere in solitudine, rivela all’amico Chactas e al missionario Souël le ragioni della sua malinconia e della sua scelta. Rievoca così i giorni della sua adolescenza, le lunghe passeggiate in compagnia della sorella Amélie. Già preda di una inestinguibile sete d’infinito. René cercava invano una ragione per pacificare la propria anima. Era arrivato perfino a intravvedere una soluzione nel suicidio, dal quale però era stato dissuaso dalla sorella. Ma Amélie, colpita da una strana crisi, aveva improvvisamente deciso di rinchiudersi in convento. Qui, ascoltando una sommessa invocazione della sorella a Dio, René aveva colto il segreto della sua “criminale passione” per lui. Sconvolto, si era imbarcato per l’America, dove un giorno l’ha raggiunto la notizia della morte prematura di Amélie. Chactas consola il giovane amico, mentre padre Souël gli ricorda severamente che “chiunque abbia ricevuto delle forze le deve consacrare al servizio dei suoi simili”.

L’EROE IN FUGA DA SE STESSO

Ben invano dunque avevo sperato di trovar nel mio paese di che calmare quest’inquietudine, quest’ardore che mi segue dovunque. Lo studio del mondo non mi aveva insegnato nulla, eppure non avevo più la dolcezza dell’ignoranza.
Mia sorella, con un modo di comportarsi inesplicabile, sembrava che si compiacesse d’aumentare il mio affanno: ella aveva lasciato Parigi qualche giorno prima del mio arrivo. Le scrissi che contavo di andare a raggiungerla; s’affrettò a rispondermi per distogliermi da questo proposito, col pretesto che non sapeva dove la chiamerebbero i suoi affari. Che tristi riflessioni feci allora sull’amicizia, che la presenza intiepidisce, che la lontananza cancella, che non resiste alla sventura, e ancor meno alla prosperità!
Mi trovai ben presto più solo nella mia patria di quel che fossi stato in una terra straniera. Per qualche tempo volli gettarmi in un mondo che non mi diceva niente e da cui non ero compreso. L’anima mia, che nessuna passione non aveva ancora logorata, cercava un oggetto a cui attaccarsi; ma mi accorsi che davo più di quel che ricevevo. Non mi si chiedeva un linguaggio elevato, né un sentimento profondo. Non facevo altro che rimpicciolire la mia vita per metterla alla pari con la società. Trattato da per tutto come uno spirito romantico, vergognoso della parte che recitavo, sempre più disgustato delle cose e degli uomini, presi il partito di ritirarmi in un sobborgo, per vivervi totalmente ignorato.
Trovai da principio abbastanza piacere in quella vita oscura e indipendente. Sconosciuto, mi confondevo tra la folla, vasto deserto di uomini!
Sovente, seduto in una chiesa poco frequentata, passavo intiere ore in meditazione. Vedevo povere donne venir a prostrarsi davanti l’Altissimo, o peccatori inginocchiarsi al Tribunale della penitenza. Nessuno usciva da quei luoghi senza un viso più sereno, e i sordi clamori che giungevano da fuori sembravano i flutti delle passioni e le tempeste del mondo che venivano a morire ai piedi del tempio del Signore. Gran Dio, che vedesti in segreto colar le mie lagrime in quei sacri ritiri, tu sai quante volte mi gettai a’ tuoi piedi per supplicarti di scaricarmi del peso dell’esistenza, o di cambiare in me il vecchio uomo!
Ah! chi non ha sentito qualche volta il bisogno di rigenerarsi, di ringiovanire alle acque del torrente, di ritemprare la sua anima alla fontana della vita! Chi non si sente qualche volta spossato dal peso della sua propria corruzione, e incapace di fare alcunché di grande, di nobile, di giusto!
Quando la sera era venuta, riprendendo la strada del mio ritiro, mi fermavo sui ponti per veder tramontare il sole. L’astro infiammando i vapori della città, sembrava oscillare lentamente in un fluido d’oro, come il pendolo dell’orologio dei secoli. Poscia mi ritiravo con la notte, a traverso un labirinto di strade solitarie. Guardando i lumi accesi nelle case degli uomini, mi trasportavo col pensiero in mezzo alle scene di dolore e di gioia che essi rischiaravano, e pensavo che, sotto tanti tetti abitati, io non avevo un amico. In mezzo alle mie riflessioni, l’ora batteva a colpi misurati sulla Torre della cattedrale gotica, e andava ripetendosi su tutti i toni, sempre più lontano, di chiesa in chiesa. Ahimè! ogni ora, nel mondo, apre una tomba e fa versare lacrime!
Quella vita, che m’aveva sulle prime sedotto, non tardò a diventarmi insopportabile. Quel ripetersi delle medesime idee mi stancava. Mi misi a scandagliare il mio cuore, a domandarmi che cosa desideravo. Non lo sapevo; ma a un tratto credetti che i boschi sarebbero la mia delizia. Eccomi in un subito risoluto di terminare in un esilio campestre un corso di vita appena cominciato e nel quale avevo già divorato dei secoli. 
Abbracciai questo progetto con l’ardore che metto in tutti i miei disegni; partii precipitosamente per seppellirmi in una capanna, come altra volta ero partito per fare il giro del mondo. Mi si accusa d’aver gusti incostanti, di non poter godere a lungo della medesima chimera, d’essere preda di una immaginazione che si affretta a giungere al fondo dei miei piaceri, come se si stancasse della loro durata; mi si accusa di sorpassar sempre la mèta che posso toccare: ahimè! io cerco soltanto un bene sconosciuto il cui istinto m’insegue. È colpa mia se dappertutto trovo limiti, se ciò che è finito non ha alcun valore per me? Pure io sento che amo la monotonia dei sentimenti della vita, e se avessi ancora la follia di credere nella felicità, la cercherei nell’abitudine.
La solitudine assoluta, lo spettacolo della natura presto m’immersero in uno stato che quasi non è possibile descrivere. Senza parenti, senza amici, solo, per così dire, sulla terra, senz’aver ancora amato, ero oppresso da una sovrabbondanza di vita. Certe volte arrossivo subitamente e sentivo scorrere nel mio cuore come rivi di lava ardente: certe altre gettavo gridi involontari e le mie notti, sia che sognassi, sia che vegliassi, erano ugualmente agitate. Mi mancava qualche cosa, per riempire l’abisso della mia esistenza: discendevo nella valle, mi spingevo su per la montagna, invocando con tutta la forza dei miei desideri l’ideale oggetto d’una fiamma futura; l’abbracciavo nei venti, credevo udirlo nei gemiti del fiume: tutto era quell’immaginario fantasma, e gli astri nei cieli, e lo stesso principio della vita nell’universo. Pure quello stato di calma e d’inquietudine, d’indigenza e di ricchezza, non era senza attrattive: un giorno m’ero divertito a sfogliare una rama di salcio su d’un ruscello, e ad unire una idea a ogni foglia che la corrente portava via. Un re che tema di perdere la corona per un’improvvisa rivoluzione non prova angosce più vive delle mie a ogni accidente che minacciava i frammenti del mio ramoscello. O debolezza dei mortali! o infanzia del cuore umano che non invecchia mai! Ecco dunque a qual grado di puerilità può discendere la nostra superba ragione! E tuttavia molti uomini legano il loro destino a cose tanto da nulla quanto le mie foglie di salcio.
Ma come esprimere quella folla di sensazioni fuggitive che provavo nelle mie passeggiate? I suoni che rendono le passioni nel vuoto d’un cuore solitario somigliano al mormorio dei venti e delle acque nel silenzio d’un deserto: lo si gode, ma non lo si può ritrarre.

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Ci troviamo di fronte ad un tipico rappresentante della letteratura che trova per gli antecedenti che conosciamo il suo più fulgido esempio nell’opera alfieriana; come il nostro astigiano, René, che certo non può che rappresentare l’autore stesso, si sente superiore agli altri, capace più degli altri di una sensibilità eccezionale. Ma essa è frustrata dalla realtà che lo circonda che è soprattutto legata da interessi economici. Per questo cerca di allontanarsi dalla città, fulcro di una borghesia gretta ed avida, per rifugiarsi in campagna, per cancellare la propria identità e confondersi con la gente semplice. La voglia di annullarsi e trovare se stesso la prova tuttavia all’interno della chiesa, dove l’Altissimo si configura per lui come l’Assoluto, non tuttavia capace di placarlo, ma di provocare in lui una continua tensione per trovare una motivazione per vivere. Se infatti la tensione verso l’assoluto alfieriana è legata all’idea laica, potremo dire, di libertà, se quella wertheriana ed ortisiana sancisce il suo fallimento con il suicidio, in Chateabriand diventa rincorsa verso il sublime divino.

Anche nella poesia la lirica francese s’inserisce nel rinnovamento europeo romantico, non dimenticando che, sul piano della cultura nazionale, tale aspetto letterario era stato messo un po’ da parte nella temperie illuminista. Fra i poeti più importanti ricordiamo Gerard De Nerval, di cui riportiamo una delle più belle, ma al tempo stesso più arcane poesie:

EL DESDICHADO

Je suis le Ténébreux, – le Veuf, – l’Inconsolé,
Le Prince d’Aquitaine à la Tour abolie :
Ma seule Étoile est morte, – et mon luth constellé
Porte le Soleil noir de la Mélancolie.

Dans la nuit du Tombeau, Toi qui m’as consolé,
Rends-moi le Pausilippe et la mer d’Italie,
La fleur qui plaisait tant à mon cœur désolé,
Et la treille où le Pampre à la Rose s’allie.

Suis-je Amour ou Phébus ?… Lusignan ou Biron ?
Mon front est rouge encor du baiser de la Reine ;
J’ai rêvé dans la Grotte où nage la sirène…

Et j’ai deux fois vainqueur traversé l’Achéron :
Modulant tour à tour sur la lyre d’Orphée
Les soupirs de la Sainte et les cris de la Fée.

Io sono il Tenebroso, – il Vedovo, – lo Sconsolato, / Il Principe d’Aquitania dalla torre abolita: / La mia unica Stella è morta, – e il mio liuto costellato / Porta il Sole nero della Malinconia // Nella notte del Sepolcro, Tu che mi hai consolato, / Restituiscimi Posillipo e il mare d’Italia, / Il fiore che piaceva tanto al mio cuore desolato, / E la spalliera dove la vite si intreccia alla rosa. // Sono Amore o Febo?… Lusignano o Biron? / La mia fronte è ancora rossa per il bacio della Regina; / Ho sognato nella Grotta dove nuota la Sirena… // E per due volte vincitore ho attraversato l’Acheronte: / Modulando di volta in volta sulla lira di Orfeo / I sospiri della Santa e le grida della Fata.

default.jpgGustave Doré: La morte di Gerard De Nerval

Poesia di difficilissima interpretazione: qualcuno ha voluto vedere in essa riferimenti all’alchimia, all’astrologia, ai tarocchi (i primi tre versi potrebbero essere riferiti agli arcani XV-XII: Diavolo, Torre e Stella), altri ancora riferimenti al mito della famiglia e degli antenati dello stesso Nerval; nessuna interpretazione è riuscita a cogliere appieno il significato ultimo del dettato poetico, ma forse era proprio questo quello a cui tendeva Nerval (poeta minato psicologicamente a causa della morte della madre avvenuta quando lui aveva solo due anni, lutto mai superato, morto suicida a soli 47 anni). Importante sul piano dell’inserimento del poeta e del brano proposto nel Romanticismo è la sua propensione al mito, al concetto di magia della parola poetica. D’altra parte qui ci troviamo di fronte ad un Nerval che di fronte al fallimento della vita risponde con la forza salvifica della poesia, nella quale troviamo mitizzate figure femminili capaci di risolvere tutte le sue contraddizioni.

Altro importante poeta del romanticismo francese è certamente Alfred de Vigny. figura emblematica di come i più sensibili intellettuali francesi percepiscono il periodo che va dalla fine dell’avventura napoleonica attraversando quasi tutta la prima metà dell’Ottocento francese. Nato nel 1797, per tradizione familiare si accosta alla vita militare, senza rinunciare tuttavia a frequentare ambienti intellettuali che giravano attorno alla figura di Victor Hugo. Sposatosi con una ragazza inglese, dopo esser passato dalla Loira a Parigi, assistette dapprima alla Rivoluzione del 1830, diviso tra politica umanitaria e fedeltà al regnante, sino al 1848, dove presentatosi alle elezioni e battuto, si ritirò a vita privata. Muore nel 1863.

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La poesia proposta viene tratta dal libro in versi I Destini, iniziati nel 1838, ma pubblicati postumi nel 1863.

LA MORT DU LOUP

I
Les nuages couraient sur la lune enflammée
Comme sur l’incendie on voit fuir la fumée,
Et les bois étaient noirs jusques à l’horizon.
Nous marchions, sans parler, dans l’humide gazon,
Dans la bruyère épaisse et dans les hautes brandes,
Lorsque, sous des sapins pareils à ceux des Landes,
Nous avons aperçu les grands ongles marqués
Par les loups voyageurs que nous avions traqués.
Nous avons écouté, retenant notre haleine
Et le pas suspendu. — Ni le bois ni la plaine
Ne poussaient un soupir dans les airs; seulement
La girouette en deuil criait au firmament;
Car le vent, élevé bien au-dessus des terres,
N’effleurait de ses pieds que les tours solitaires,
Et les chênes d’en bas, contre les rocs penchés,
Sur leurs coudes semblaient endormis et couchés.
Rien ne bruissait donc, lorsque, baissant la tête,
Le plus vieux des chasseurs qui s’étaient mis en quête
A regardé le sable en s’y couchant; bientôt,
Lui que jamais ici l’on ne vit en défaut,
A déclaré tout bas que ces marques récentes
Annonçaient la démarche et les griffes puissantes
De deux grands loups-cerviers et de deux louveteaux.
Nous avons tous alors préparé nos couteaux,
Et, cachant nos fusils et leurs lueurs trop blanches,
Nous allions, pas à pas, en écartant les branches.
Trois s’arrêtent, et moi, cherchant ce qu’ils voyaient,
J’aperçois tout à coup deux yeux qui flamboyaient,
Et je vois au delà quatre formes légères
Qui dansaient sous la lune au milieu des bruyères,
Comme font chaque jour, à grand bruit sous nos yeux,
Quand le maître revient, les lévriers joyeux.
Leur forme était semblable et semblable la danse,
Mais les enfants du Loup se jouaient en silence,
Sachant bien qu’à deux pas, ne dormant qu’à demi,
Se couche dans ses murs l’homme, leur ennemi.
Le père était debout, et plus loin, contre un arbre,
Sa Louve reposait comme celle de marbre
Qu’adoraient les Romains, et dont les flancs velus
Couvaient les demi-dieux Rémus et Romulus.
Le Loup vient et s’assied, les deux jambes dressées,
Par leurs ongles crochus dans le sable enfoncées.
Il s’est jugé perdu, puisqu’il était surpris,
Sa retraite coupée et tous ses chemins pris;
Alors il a saisi, dans sa gueule brûlante,
Du chien le plus hardi la gorge pantelante,
Et n’a pas desserré ses mâchoires de fer,
Malgré nos coups de feu qui traversaient sa chair,
Et nos couteaux aigus qui, comme des tenailles,
Se croisaient en plongeant dans ses larges entrailles,
Jusqu’au dernier moment où le chien étranglé,
Mort longtemps avant lui, sous ses pieds a roulé.
Le Loup le quitte alors et puis il nous regarde.
Les couteaux lui restaient au flanc jusqu’à la garde,
Le clouaient au gazon tout baigné dans son sang;
Nos fusils l’entouraient en sinistre croissant.
Il nous regarde encore, ensuite il se recouche,
Tout en léchant le sang répandu sur sa bouche,
Et, sans daigner savoir comment il a péri,
Refermant ses grands yeux, meurt sans jeter un cri.

II
J’ai reposé mon front sur mon fusil sans poudre,
Me prenant à penser, et n’ai pu me résoudre
A poursuivre sa Louve et ses fils, qui, tous trois,
Avaient voulu l’attendre; et, comme je le crois,
Sans ses deux Louveteaux, la belle et sombre veuve
Ne l’eût pas laissé seul subir la grande épreuve;
Mais son devoir était de les sauver, afin
De pouvoir leur apprendre à bien souffrir la faim,
A ne jamais entrer dans le pacte des villes
Que l’homme a fait avec les animaux serviles
Qui chassent devant lui, pour avoir le coucher,
Les premiers possesseurs du bois et du rocher.

III
Hélas ! ai-je pensé, malgré ce grand nom d’Hommes,
Que j’ai honte de nous, débiles que nous sommes !
Comment on doit quitter la vie et tous ses maux,
C’est vous qui le savez, sublimes animaux !
A voir ce que l’on fut sur terre et ce qu’on laisse,
Seul le silence est grand; tout le reste est faiblesse.
– Ah ! je t’ai bien compris, sauvage voyageur,
Et ton dernier regard m’est allé jusqu’au cœur !
Il disait : « Si tu peux, fais que ton âme arrive,
A force de rester studieuse et pensive,
Jusqu’à ce haut degré de stoïque fierté
Où, naissant dans les bois, j’ai tout d’abord monté.
Gémir, pleurer, prier est également lâche.
Fais énergiquement ta longue et lourde tâche
Dans la voie où le sort a voulu t’appeler,
Puis, après, comme moi, souffre et meurs sans parler. »

306.jpgAutografo di Alfred De Vigny

LA MORTE DEL LUPO 
I. Le nubi sulla luna infiammata correvano / Come sull’incendio si vede salire il fumo, / E i boschi erano neri fino all’orizzonte. / Marciavamo, sul prato umido, silenziosamente, / Tra le edere intricate e tra le alte fronde, / Finché, sotto pini simili a quelli delle Lande, / Abbiamo scorto i segni delle unghie lasciati / Dai lupi errabondi che avevamo braccati. / Ci siam messi in ascolto, trattenendo il fiato / E col passo leggero. — Né il bosco né il prato / Emettevano un sospiro nell’aria; sola / Gridava luttuosa al ciel la banderuola; / Poiché il vento, che ben alto sulla terra soffiava, / Solo le torri solitarie coi suoi piedi sfiorava, / E le querce dabbasso, contro le rocce scoscese, / Sui gomiti parevano addormentate e distese. / Nulla si muoveva, dunque, finché, chinando la testa, / Il più vecchio dei cacciatori che seguivano la pista / Ha osservato la terra inginocchiato; ben presto, / Lui che sbagliarsi qui mai è stato visto, / Ha dichiarato sussurrando che le tracce recenti / Annunciavano il passaggio e gli artigli possenti / Di due lupi adulti e di due ancora cuccioli. / Noi tutti abbiamo allora sguainato i pugnali, / E, celando i fucili dai traditori barlumi, / Avanzavamo pian piano, scostando i rami. / In tre si fermano, ed io, cercando cosa vedano, / Scorgo d’un tratto due occhi che fiammeggiano, / E poi vedo al di là quattro forme leggere / Che danzavano alla luna in mezzo alle brughiere, / Come fanno ogni dì, davanti a noi in gran confusione, / I levrieri festanti, quando torna il padrone. / Simile la loro forma e simili i movimenti, / Ma i piccoli del Lupo danzavano silenti, / Ben sapendo che a due passi, con sonno leggero, / Dorme tra le sue mura l’uomo, nemico loro. / Il padre era sdraiato, e più in là, a un tronco appoggiata, / La sua Lupa riposava, come quella scolpita / Che adoravano i Romani, il cui i fianco lanoso / I semidei Remo e Romolo copriva amoroso. / Il Lupo avanza e si ferma, le due gambe dritte, / Piantate nella sabbia con le unghie ritorte. / S’è visto perduto, poiché è stato sorpreso, / La sua fuga stroncata e ogni passaggio chiuso; / Allora ha azzannato, nella sua gola ardente, / Del cane più ardito la gola ansimante, / E le mascelle d’acciaio non ha disserrato, / Malgrado i nostri spari l’avessero colpito, / E, come tenaglie, i nostri aguzzi coltelli / S’incrociassero piombandogli nei muscoli, / Fino all’ultimo istante, quando il cane strangolato, / Morto assai prima di lui, ai suoi piedi è stramazzato. / Allora il Lupo lo lascia e poi ci fissa. I coltelli gli restavano nel fianco, fino all’elsa, / Lo inchiodavano al prato del suo sangue cosparso; / I nostri fucili lo accerchiavano in un crescendo avverso. / Lui ci guarda ancora, quindi si ristende, / Leccandosi il sangue d’intorno alle sue zanne, / E, senza degnarsi di sapere per cosa sia perito, / Chiudendo i grandi occhi, muore senza un grido.
II. Ho chinato il capo sul fucile scarico di polvere, / Preso a riflettere, e non mi son potuto risolvere / Ad inseguire la Lupa e i cuccioli, che, tutti e tre, / Avevano voluto aspettarlo; e, penso tra me, / Se non fosse stato per i Cuccioli, la bella e triste vedova / Non l’avrebbe lasciato solo al momento della prova; / Ma il suo dovere era di salvarli, al fine / Di potergli insegnare a sopportare la fame, / A non vincolarsi mai con i patti civili / Stipulati dall’uomo con le bestie servili / Che cacciano avanti a lui, in cambio di cucce, / Loro, una volta signore di boschi e di rocce.
III. Ahimè! ho pensato, malgrado il gran nome di Uomini, /  Che vergogna ho di noi, per quanto siamo infimi! / Come si debban lasciare la vita e tutti i suoi mali, / Siete voi a saperlo, o sublimi animali! / Se a ciò che in terra fu e si lascia si pensa, / Solo il silenzio è grande; tutto il resto è debolezza. / – Ah! Ti ho ben inteso, selvaggio viaggiatore, / E il tuo ultimo sguardo m’è penetrato fino al cuore! / Diceva: «Se puoi, fa sì che l’anima tua pervenga, / A forza di ristarsene pensierosa e attenta, / Di stoica fierezza a quel siffatto punto / Cui io, nato nei boschi, subito son giunto. / Gemere, piangere, pregare è ugualmente indegno. / Compi il tuo lungo e arduo compito con impegno / Sulla via in cui la sorte ti ha voluto chiamare, / Poi, dopo, come me, soffri e muori senza fiatare.»

E’ il racconto in versi baciati, diviso in tre strofe di lunghezza ineguale, in cui Vigny descrive una caccia notturna contro i lupi. Risulta abbastanza evidente come il poeta francese utilizzi la storia sotto un punto di vista simbolico: l’uomo con i cani rappresenta il “mondo civile” dimentico della natura e delle sue eterne leggi; anche l’animale che l’accompagna ha perso dignità, si è fatto servo in cambio di una cuccia; ad emergere, viceversa, sono gli occhi fieri del lupo, occhi di sfida di chi sa che deve morire, ma muore per salvare i suoi lupacchiotti e la madre. Mentre azzanna un levriero, l’uomo lo colpisce: non c’è dolore, neanche rassegnazione, ma naturale accettazione del destino di chi, nato libero, sa di dover morire. Questo insegnamento ha tratto il cacciatore, affrontare stoicamente il destino dell’uomo. 

America 

L’America diventa nazione culturale quando riesce a mescolare i principi dei padri fondatori con il romanticismo già sviluppato in Europa. Potremo meglio dire che alla base della cultura di ogni buon cittadino americano ci sia stata da una parte la Bibbia (recepita nella versione pietistica) e il Robinson Crusoe di Defoe, massimo esempio, per loro del self made men espressione con la quale ancora oggi indicano il mito dell’uomo che partendo dal basso raggiunge da solo per meriti propri il successo, la ricchezza e la celebrità, come hanno in effetti fatto i padri pellegrini. 

A riuscire in questa forma di proficua fusione possiamo indicare un gruppo di intellettuali che diedero vita a ciò che il critico letterario statunitense Francis Otto Matthiessen definirà “Rinascimento americano” e sono il poeta Walt Whitman ed i romanzieri Nathaniel Hawthorne, James Fenimore Cooper e Herman Melville. Non si inserisce in questo novero l’opera tuttavia contemporanea di Edgar Allan Poe.

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Walt Withman

Walt Whitman nasce nel 1819, da padre carpentiere. Lasciati gli studi in tenera età, diventa prima tipografo (attività che gli permette di leggere molti autori) e in seguito maestro elementare. Passa quindi al giornalismo, attraverso il quale diffonde le proprie idee democratiche e libertarie. Nello stesso anno (1848) viaggia per gli Stati Uniti, raggiungendo il lontano Ovest. La vista di luoghi naturali e incontaminati saranno alla base del suo lavoro Foglie d’erba del 1850, che conobbe un’enorme eco. Muore nel 1892.

SONG OF OPEN ROAD

Afoot and light-hearted I take to the open road, 
Healthy, free, the world before me, 
The long brown path before me leading wherever I choose. 

Henceforth I ask not good-fortune, I myself am good-fortune, 
Henceforth I whimper no more, postpone no more, need nothing, 
Done with indoor complaints, libraries, querulous criticisms, 
Strong and content I travel the open road. 

The earth, that is sufficient, 
I do not want the constellations any nearer, 
I know they are very well where they are, 
I know they suffice for those who belong to them. 

(Still here I carry my old delicious burdens, 
I carry them, men and women, I carry them with me wherever I go, 
I swear it is impossible for me to get rid of them, 
I am fill’d with them, and I will fill them in return.) 

A piedi e con cuore leggero m’avvio per la libera strada / in piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi, / il lungo sentiero marrone pronto a condurmi ove voglia. // D’ora in avanti non chiederò più buona fortuna, sono io la buona fortuna, / d’ora in avanti non voglio più gemere, non più rimandare, non ho più bisogno di nulla, / finiti i lamenti celati, le biblioteche, le querule critiche, / forte e contento m’avvio per libera strada. // La terra, e tanto mi basta, / le stelle non scendan più accosto, / so che stanno assai bene dove sono, / so che bastano a quelli che appartengono ad esse. // (Eppure io porto anche qui i miei antichi, soavi fardelli, / li porto, uomini e donne, li porto con me dove vado, / dichiaro che mi è impossibile riuscire a disfarmene, / io sono colmo di essi e li colmerò a mia volta).

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Il passo costituisce una parte di un piccolo poemetto dal titolo Il canto della strada all’interno dell’opera Foglie d’erba. E’ un canto assolutamente nuovo, anche rispetto alla poesia romantica europea: Whitman utilizza il verso libero e ad espressioni sublimi, alterna espressioni appena sussurrate, così come appare nell’inciso. In esso vi è tutta la poetica del poeta americano e dello spirito americano: è un canto on the road, l’uomo in cammino sul The long brown path è un uomo felice ed assapora la piena libertà accompagnata da una soddisfazione di sé; ma tale libertà non può essere scissa dal suo passato: per Withman la conquista della frontiera non può avvenire senza il portato della lezione della memoria e della tradizione culturale.

Ancora più famosa. soprattutto per l’incipit è quest’altra lirica di Withman:

O CAPTAIN! MY CAPTAIN

O Captain! My Captain! our fearful trip is done;
The ship has weather’d every rack, the prize we sought is won;
The port is near, the bells I hear, the people all exulting,
While follow eyes the steady keel, the vessel grim and daring:
      But O heart! heart! heart!
            O the bleeding drops of red,
                  Where on the deck my Captain lies,
                        Fallen cold and dead.

O Captain! My Captain! rise up and hear the bells;
Rise up—for you the flag is flung—for you the bugle trills;
For you bouquets and ribbon’d wreaths—for you the shores a-crowding;
For you they call, the swaying mass, their eager faces turning;
      Here captain! dear father!
            This arm beneath your head;
                  It is some dream that on the deck,
                        You’ve fallen cold and dead.

My Captain does not answer, his lips are pale and still;
My father does not feel my arm, he has no pulse nor will;
The ship is anchor’d safe and sound, its voyage closed and done;
From fearful trip, the victor ship, comes in with object won;
      Exult, O shores, and ring, O bells!
            But I, with mournful tread,
                  Walk the deck my captain lies,
                        Fallen cold and dead.

O Capitano! mio Capitano! il nostro viaggio tremendo è finito, / La nave ha superato ogni tempesta, l’ambito premio è vinto, / Il porto è vicino, odo le campane, il popolo è esultante, / Gli occhi seguono la solida chiglia, l’audace e altero vascello; / Ma o cuore! cuore! cuore! / O rosse gocce sanguinanti sul ponte / Dove è disteso il mio Capitano / Caduto morto, freddato. // O Capitano! mio Capitano! alzati e ascolta le campane; alzati, / Svetta per te la bandiera, trilla per te la tromba, per te / I mazzi di fiori, le ghirlande coi nastri, le rive nere di folla, / Chiamano te, le masse ondeggianti, i volti fissi impazienti, / Qua Capitano! padre amato! / Questo braccio sotto il tuo capo! / E’ un puro sogno che sul ponte / Cadesti morto, freddato. // Ma non risponde il mio Capitano, immobili e bianche le sue labbra, / Mio padre non sente il mio braccio, non ha più polso e volere; / La nave è ancorata sana e salva, il viaggio è finito, / Torna dal viaggio tremendo col premio vinto la nave; / Rive esultate, e voi squillate, campane! / Io con passo angosciato cammino sul ponte / Dove è disteso il mio Capitano / Caduto morto, freddato.

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La poesia nasce dall’emozione che su Withman ha avuto la notizia della morte di Lincoln, che, nel 1860, grazie l’approvazione della legge abolì lo schiavismo ma per questo, provocò l’immediata secessione degli stati del Sud e, dopo la loro sconfitta, la morte per mano degli assassini. Qui Withman, contrariamente al suo solito, reintroduce uno schema classico, strofe di otto versi con i primi quattro a rima baciata a due a due e gli altri quattro che formano come un ritornello. La poesia è costruita a livello metaforico (anch’esso classico): la nave come la nazione, il suo capitano il presidente, le tempeste le guerre civili; anche l’amore del popolo è reso con l’immagine della folle trionfante al ritorno della nave in porto. E’ che qui Withman si vuole porre come cantore della giovane patria, ma attraversata da tensioni e lutti. Eppure nessuna forza contraria è riuscita a limitare il suo anelito di libertà.

Ci piace concludere le poche parole spese su Withman con una riflessione tratta dall’Enciclopedia Garzanti della letteratura. “La poesia di Withman si radica profondamente in quel pianeta americano da cui ogni singola “foglia d’erba” trae energia vitale. Nella loro straordinaria intensità i versi di Withman riescono, grazie a una precisione elencatoria che non si fa mai pura cronaca né compiaciuta descrittività, a raggiungere un profondo misticismo. sia quando cantano un amore paganamente puro, sia quando si soffermano attoniti di fronte allo spettacolo della morte, sia quando tracciano figure di operai e di cocchieri in una notte d’inverno, o celebrano il progresso nella vigorosa immagine della ferrovia, essi trascendono il proprio oggetto per immergerlo in un campo di energia ritmica e psichica ben più vasto. Ed è questa la lezione che Withman trametterà ai suoi eredi più recenti, i poeti della «beat generation» e in particolare ad Allen Ginsburg”

lattimo-fuggente-maxw-1280.jpgOh capitano! Mio capitano! da L’attimo fuggente di Peter Weir (1989)

Anche la narrativa presenta delle opere la cui eco varcherà i confini nazionali; tuttavia il romanzo americano presenta all’interno di sé una componente culturale e religiosa che prende il nome di “trascendentalismo”. Carlo Izzo, anglista, lo definisce “un generico idealismo che si rifaceva a grandi linee a Platone e a Kant; l’affermazione della profonda rispondenza del microcosmo al macrocosmo, o dall’anima individuale con l’anima dell’universo…; un individualismo spinto in alcuni dei maggiori rappresentanti all’estremo; un’imprecisa aspirazione, in alcuni, a creare un’organizzazione sociale basata su principi di assoluta uguaglianza di diritti e di doveri”.

Tali aspetti si possono trovare nella figura di Nathaniel Hawthorne, nato nel 1804, da genitori discendenti dai primi colonizzatori puritani. Rimasto orfano del padre, fu costretto dalla madre ad una vita reclusa che lo iniziò con severità alla conoscenza e al culto delle tradizioni puritane. Pochi i fatti notevoli: sicuramente sei mesi nella Brook Farm dei trascendentalisti, la sua profonda amicizia con Melville, l’incarico come console in Inghilterra dal 1853 al 1857, due anni in Italia. Muore nel 1864. La sua opera maggiore è La lettera scarlatta del 1850:

Nathaniel_Hawthorne_by_Brady,_1860-64.jpgNathaniel Hawthorne

La vicenda  – che l’autore, nell’introduzione dichiara di aver tratto da un documento scoperto negli archivi della dogana di Salem – si svolge nella Boston puritana del sec. XVII. Hester Prynne, che ha preceduto nel Massachusetts il marito, un anziano scienziato inglese, ha avuto una figlia, la piccola Pearl, da un amore “illegittimo” e viene crudelmente punita secondo le leggi del tempo: esposta sul palco della gogna, è condannata a portare per tutta la vita sul petto la simbolica lettera A (Adultera), da lei stessa ritagliata in un “bel panno scarlatto” e bordata da ricami bizzarri e arabeschi dorati. Interrogata, Hester continua ostinatamente a tacere il nome del suo amante. Il marito, dato per morto in un naufragio, è riuscito invece a scampare al mare e agli indiani; e arriva a Boston in tempo per assistere alla punizione di Hester. Le impone di non rivelare la sua presenza e, sotto il falso nome di Chillingworth, si mette alla ricerca del complice dell’adulterio della moglie. Riesce a scoprirlo: si tratta del giovane reverendo Dimmesdale, che soffre profondamente del suo peccato ma è troppo orgoglioso per accusarsi. Alla fine, tormentato dalla persecuzione di Chillingworth, che lo segue dappertutto implacabile, Dimmesdale cede: confessa pubblicamente la propria colpa e muore, stroncato dall’emozione.

 

NEGLI OCCHI DELLA FIGLIA

La verità è che questi piccoli puritani, figli della razza più intransigente che sia mai vissuta, indovinavano in quella madre e in quella figlia qualcosa di strano, di singolare, di dissimile da loro, le disprezzavano e non si peritavano di esprimere spesso ad alta voce il loro disprezzo. Pearl intuiva questo sentimento e lo ricambiava con un odio così profondo quale sembrava non poter allignare in un cuore di bimba. Questi scoppi d’ira erano, in un certo senso, di conforto per Hester, perché presupponevano una persona di carattere, più di quanto le ambigue manifestazioni di Pearl potessero far supporre. Ma in ciò essa vedeva pure il riflesso di quell’angoscia che una volta l’aveva perseguitata, perché la piccola aveva ereditato tutto quell’odio e quella collera che in altri tempi avevano straziato il suo cuore. Madre e figlia vivevano al bando della comunità sociale, e nella natura della piccina sembrava perpetuarsi quello stato d’animo che aveva caratterizzato Hester prima della nascita di Pearl e di cui la maternità  cominciava ora a smorzare la violenza.
Quando giocava attorno alla capanna, Pearl non sentiva affatto della mancanza di una compagnia infantile. Da lei si sprigionava come un incantesimo di vita che si comunicava agli oggetti circostanti, come una torcia che propaga il fuoco a tutto ciò che sfiora. Al tocco fatato della sua mano, le cose più disperate – uno bastone, uno straccio, un fiore – senza mutare nella del loro aspetto esterno, divenivano com per incanto spiritualmente adatte commedia che in quel momento si rappresentava. La sua voce infantile era la voce di una moltitudine di personaggi, vecchi e giovani. I pini, annosi, cupi e solenni, che stormivano o sussurravano al vento, si trasformavano nei maggiorenti dei puritani, mentre le erbacce erano i loro ragazzi, e contro di essi  specialmente si accaniva l’ira di Pearl. Ma  in questi giochi meravigliosi cui si abbandonava la mente, non esisteva un linea di continuità: ora, infatti, essa si dava a correre e a danzare, quasi in preda ad uno stato di sovreccitazione, ora si accasciava in terra, quasi esausta da quella rapida e febbrile attività, per abbandonarsi subito dopo seguite a un altro scoppio d’energia. Tutto ciò richiamava in un certo modo alla mente i fantasmagorici giuochi dell’aurora boreale. Non che Pearl, per fantasia ed umore si differenziasse molto dagli altri ragazzi: sotto un certo punto di vista, era logico che essa in mancanza di compagni di gioco, si abbandonasse ai fantasmi della propria immaginazione: la stranezza consisteva nell’ostilità con cui essa considerava tutte queste creature del suo cuore e della sua mente. Mai uno di questi esseri le fosse amico! Sembrava godesse a seminare il terreno di denti del drago e che da ciascuno di essi nascesse un nemico contro il quale ella si scagliava con disperata energia. Nulla di più triste per il cuore di una madre che ne conosce la causa, di vedere questa visione di un mondo perennemente ostile in una creatura tanto giovane, di queste energie tese continuamente a difendere i propri diritti in immaginarie contese!
Osservando Pearl, spesso Hester Prynne posava il lavoro sulle ginocchia e gemeva, con una angoscia che tentava invano di nascondere: «O Padre Celeste – se ancora posso chiamarti mio Padre – chi è questo essere che ho messo al mondo?». E Pearl che udiva questa preghiera, o che, per qualche misterioso intuito, si rendeva conto di quell’angoscia, volgeva il viso alla madre, le sorrideva in modo misterioso e tornava di nuovo ai suoi giuochi.
Ma non abbiamo ancora parlato di una singolarità della bimba. La prima che parve interessarla e preoccuparla non fu, no, il sorriso della madre, a cui gli altri bimbi con quella smorfia della piccola bocca, intorno alla quale nascono tante discussioni per stabilire se sia stato o no un sorriso. La prima cosa di cui Pearl sembrò rendersi conto  fu – indovinate? – la lettera scarlatta sul petto della madre. Un giorno, mentre Hester si chinava sulla sua culla, gli occhi della piccola si fissarono sul ricamo d’oro che circondava quel simbolo d’infamia; e  le sue piccole mani si stesero per afferrarlo, mentre il suo volto s’illuminava di un sorriso, ma di  un sorriso singolare che la faceva apparire stranamente  più vecchia. Trattenendo il respiro, Hester aveva nascosto con un movimento istintivo quel segno fatale tentando di strapparlo, tanto quel gesto della piccina la straziava, ma Pearl, come se la madre scherzasse, l’aveva fissata negli occhi sorridendo. Da quel momento era cominciato per Hester un supplizio continuo, che aveva tregua solo quando la bambina dormiva. A volte, è vero, passavano intere settimane senza che lo sguardo di Pearl si posasse sulla lettera scarlatta; poi un giorno, all’improvviso, i suoi occhi la fissavano e il suo volto s’illuminava di quello strano sorriso che tanto male faceva a Hester.
Una volta, mentre, come le madri amano spesso fare, Hester cercava la sua immagine negli occhi della figlia, in questi balenò ad un tratto quello sguardo misterioso e crudele, ed essa – le donne sole e turbate si abbandonano spesso a sili fantasie – credette di scorgere in quel piccolo specchio nero non la sua immagine rimpicciolita, ma un altro volto, ostile, pieno di sorridente malizia, un volto che essa ben conosceva, ma che raramente aveva visto sorridere e mai esprimere tale cattiveria. Era come se uno spirito maligno si fosse impossessato della bimba e si divertisse a dimostrare la propria esistenza. Questa illusione si ripeté altre volte, sebbene in modo molto più confuso.
Un pomeriggio d’estate, Pearl, che era già abbastanza grande per camminare da sola, si divertiva a raccogliere fiori di prato e a gettarli in grembo alla madre, abbandonandosi a movenze di gioia degne di un elfo ogni volta che le capitasse di colpire la lettera scarlatta. Il primo impulso di Hester era stato quello di coprirsi il petto con le mani, sia per orgoglio, sia per rassegnazione, sia perché credesse che questa nuova pena la rendesse più meritevole agli occhi di Dio, dominò il suo istinto e, fissando tristemente gli occhi folli di Pearl, rimase a sedere, dritta e pallida come una morta. La piccina continuò a gettare fiori, prendendo sempre come bersaglio il simbolo di infamia ed infliggendo al cuore di quella povera madre che nulla poteva rimarginare su questa terra e che persino nell’altra vita l’avrebbero ancora tormentata. Alla fine, esauriti i proiettili, Pearl si fermò, guardando Hester in silenzio, mentre nei suoi profondi occhi neri (così almeno sembrò alla donna) balenava quella nota, sorridente immagine di spirito maligno.
«Figlia mia, chi sei tu?» gridò la madre.
«Sono la tua piccola Pearl!» rispose la bimba, e nel pronunciare queste parole rideva e saltava come un diavoletto che stesse per involarsi dalla cappa del camino.
«Sei davvero mia figlia?» insistette Hester, né la sua era una vana domanda, perché dubitava di venire a capo di quella specie di incantesimo che circondava l’esistenza della sua creatura.
«Sì, sono la tua piccola Pearl!» ripeté la bimba, continuando nei suoi giochi.
«Tu non sei mia figlia! Tu non sei la mia Pearl!» proruppe la madre, quasi in tono scherzoso, poiché spesso una specie di strana ilarità si mescolava al suo dolore. «Dimmi dunque chi sei e chi ti ha mandato qui».
«Dimmelo tu, mamma!» – rispose la bimba, seria,  avvicinandosi a Hester e abbracciandole le ginocchia. «Dimmelo tu!»
«Ti ha mandato il tuo Padre Celeste».
Ma la brava esitazione che aveva preceduto queste parole, non sfuggì a Pearl che, spinta dalla sua bizzarria ed ispirata da qualche cattivo demone, sollevò la piccola mano e indicò la lettera scarlatta.
«E’ questo che mi ha mandato! – gridò pronta. «Io non ho un Padre Celeste!»
«Zitta, Pearl, zitta! Non parlare così!» – ribatté Hester, trattenendo a stento le lacrime. «Solo Lui ci ha messi tutti a questo mondo. Solo Lui ha messo al mondo me, che sono tua madre, e poi, molto tempo dopo, anche a te. E se non fosse così, da dove saresti venuta tu, piccolo e strano folletto?»
«Dimmelo! dimmelo!» ripeté Pearl, che non era più seria come prima, ma già rideva e ricominciava a cogliere fiori. «Proprio tu devi dirmelo! »
Ma Hester non poteva rispondere perché il suo animo era pieno di dubbi. Ricordava tra un sorriso e un brivido,  le ciarle della gente che, notando lo strano carattere della bimba ed ignara della sua origine, la diceva figlia del demonio, uno di quegli esseri che, sin dai primi tempi del cattolicesimo, si favoleggiava fossero sparsi sulla terra, nati da un peccato di donna e destinati a mal operare. Lutero, secondo l’accusa dei monaci suoi nemici, apparteneva a questa razza infernale; né, fra quei puritani della Nuova Inghilterra, Pearl era la sola sospettata di così infausti natali.

la-lettera-scarlatta.jpgImmagine tratta da una scena del film tratta dal romanzo (1995)

Questo passo si può definire emblematico all’interno del percorso non solo narrativo, ma morale di Hawthorne: la figura di Pearl non è “reale”, ma proiezione del senso di colpa di Hester: potremo addirittura affermare che se il narratore è esterno, la focalizzazione è interna. Per questo troviamo il brano proposto è piuttosto inquietante, ma è la stessa inquietudine della protagonista che vede nella piccola Pearl (il cui significato è Perla, così come appare in molte traduzioni) una trasfigurazione diabolica che, oltre alla “A”, le rinfaccia il suo peccato. Ma ci piace notare che l’animo di Hester, il suo senso di colpa, la fermezza ed il “necessario” dolore con la quale lo affronta (al contrario di Dimmesdale, padre della bambina, non in grado di sostenerlo e quindi lo pagherà in modo maggiore, con la morte) rappresenta lo stessa meditazione religiosa dell’autore che, sulla base del suo avvicinamento al trascendentalismo, vorrebbe liberare Esther dal peccato in quanto “la natura è la sola amica dell’uomo… affannarsi sui problemi del peccato, della predestinazione, della dannazione è inutile” (Cunliffe), ma la sua formazione pietista lo porta a considerare che l’espiazione del peccato è necessaria per ottenere la vera libertà.

Amico carissimo di Nathaniel Hawthorne è Herman Melville, autore di racconti marinareschi, tra i quali spicca il Moby Dick.

Herman_Melville_by_Joseph_O_Eaton.jpgHerman Melville

Herman Melville nasce a New York nel 1819: lui stesso ci afferma che la sua università è stata il mare; s’imbarca infatti giovanissimo a 17 anni e per otto anni attraversa gli oceani, riportando varie avventure e l’esperienza di paesi visitati. Tutto ciò farà parte della sua produzione letteraria che all’inizio comprenderà opere come Taipi e Omoo di largo successo. Del 1851 scrisse il suo capolavoro, il Moby Dick, ma l’opera non ebbe un buon riscontro, portando lo scrittore a vivere con difficoltà per far fronte ai suoi problemi familiari. Cerca una più stabile condizione economica e diventa per questo doganiere, attività che condurrà fino alla fine dei suoi giorni. Muore nel 1891.

Il giovane Ishmael, narratore e testomone, salpa sulla baleniera “Pequod”, capèitanata da Achab. Questi ha giurato vendetta a Moby Dick, una possente e maligna balena bianca che in un viaggio precedente gli ha troncato una gamba. L’equipaggio teme il diabolico mostro, ma è ipnotizzato dalla sete di vendetta del capitano e lo segue. Inizia così un inseguimento che si protrae sui mari di tre quarti del globo. Il clima snervante di attesa  offre lo spunto per lunghe riflessioni di carattere filosofico, in cui la bianchezza dell’ineffabile balena diventa metafora di realtà trascendenti la comprensione umana. L’indiano Queequeg, l’unico vero amico di Ishmael, morirà prima della fine della vicenda, dopo essersi costruito una bara su cui intarsia strani geroglifici. La caccia vera e propria è descritta soltanto negli ultimi tre capitoli: Moby Dick, avvistata e poi arpionata, trascina in una folle corsa le lance della baleniera, annientando nave ed equipaggio, e trascinando nell’abisso lo stesso Achab, crocefisso sul suo dorsi dalle corde degli arpioni. L’unico sopravvissuto è Ishmael, che scampa alla morte utilizzando la bara di Queequeg come imbarcazione di fortuna.

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L’ULTIMA GIORNATA DI CACCIA

«Fermi, marinai! Il primo che soltanto fa il gesto di saltar giù da questa mia lancia, io lo rampono». Voi non siete altri uomini, ma siete le mie braccia e le mie gambe: perciò obbeditemi… Dov’è la balena? Di nuovo sott’acqua?»
Ma guardava troppo vicino alla lancia, perché Moby Dick, come se intendesse fuggire con il cadavere che portava, e come se il particolare luogo dell’ultimo incontro non fosse stato che una tappa nel suo viaggio a sottovento, aveva ripreso a nuotare risolutamente, ed aveva quasi superato la nave; quest’ultima, sinora, aveva fatto vela nella direzione contraria alla sua, quantunque in quel preciso momento fosse ferma. La balena pareva nuotare alla massima velocità, intenta soltanto a seguitare dritta per la sua strada, sul mare.
«Oh! Achab!» gridò Starbuck «nemmeno ora, nemmeno il terzo giorno, è troppo tardi per desistere. Guarda! Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu, che insensato cerchi lei». Disponendo la vela al vento che si alzava, la lancia solitaria fu spinta rapidamente a sottovento, dai remi e dalle vele insieme. Ed infine, quando Achab fu così vicino alla nave da poter chiaramente distinguere la faccia di Starbuck mentre si sporgeva dalla ringhiera, lo chiamò dicendogli di virare la nave e seguirlo, non troppo in fretta, ad una giusta distanza. Guardando in alto, vide Tashtego, Queequeg e Daggoo che montavano la guardia, attenti, alle tre teste d’albero, mentre i rematori oscillavano nelle due lance sfondate che erano state allora issate di fianco, affaccendati a ripararle. Mentre filava via, Achab ebbe, uno dopo l’altro, una rapida visione di Stubb e Flask attraverso i portelli, anch’essi indaffarati in coperta in mezzo a fasci di ferri nuovi e lance. Mentre vedeva tutto questo, mentre udiva i colpi di martello nelle imbarcazioni schiantate, fu come se ben altri martelli gli conficcassero un chiodo nel cuore. Ma raccolse le forze. E allora, accortosi che la banderuola, o vessillo, era sparita dalla testa dell’albero maestro, urlò a Tashtego, che proprio allora era arrivato su quel posatoio, di scendere di nuovo per prendere un’altra bandiera, un martello e dei chiodi e così inchiodarla all’albero.
Sia che la balena fosse affaticata dalla caccia di tre giorni e dalla resistenza che opponevano al suo nuoto le pastoie annodate in cui si trovava, sia che vi fossero in lei perfidie e malizie nascoste, comunque fosse la verità, la velocità della Balena Bianca prese a diminuire, almeno così parve dal fatto che la lancia le si riavvicinava rapidamente; quantunque, in verità, l’ultima corsa dell’animale non fosse stata così lunga quanto la prima. E sempre, mentre Achab correva sulle onde, i pescecani spietati lo accompagnavano, e con tanta ostinazione si attaccavano alla lancia, e così di continuo mordevano i remi arrancanti, che le pale furono tutte intaccate e schiacciate, lasciando piccole schegge nel mare, quasi a ogni tuffo.
«Non badateci! Quei denti fanno soltanto da nuove scalmiere ai vostri remi. Vogate! È un sostegno migliore la mascella del pescecane che l’acqua cedevole». 
«Ma ad ogni morso, signore, le pale diventano sempre più piccole!»
«Dureranno lunghe quanto basta! Vogate!… Ma chi può dire – mormorò – se questi pescecani nuotano per pascersi della balena o di Acab?… Ma vogate! Sì, tutti all’erta, adesso, le siamo vicini. Il timone! Prendi il timone, fammi passare» e così dicendo, due rematori lo aiutarono ad andare sulla prora, mentre la lancia continuava la sua corsa.
Finalmente, mentre l’imbarcazione, gettata da un lato, arrivò correndo ad allinearsi al fianco della Balena Bianca, questa parve stranamente indifferente al suo arrivo, come le balene talvolta fanno, ed Achab si trovò proprio dentro alla montagna nebbiosa di vapore che, gettata dallo sfiatatoio della balena, si ravvolgeva intorno alla sua grande gobba da Monadnock.
Così vicino le era giunto Acab quando, con il corpo inarcato all’indietro e tutt’e due le braccia alzate e distese, per equilibrarsi, scagliò il ferro feroce e la maledizione ancor più feroce verso l’odiata balena. Mentre acciaio e maledizione affondavano fino al manico, come succhiati in una palude, Moby Dick si contorse sul fianco, spasmodicameme sfregò il fianco che le era più vicino contro la prua e, senza produrvi la minima falla, rovesciò così all’improvviso la lancia che, se non fosse stato per la parte elevata del parabordo cui si era aggrappato, Achab sarebbe stato scaraventato in mare un’altra volta. Accadde invece che tre rematori, che non conoscevano l’istante preciso del lancio, ed erano perciò impreparati ai suoi effetti, vennero sbalzati fuori; ma caddero in tal modo che, in un attimo, due di essi afferrarono il parabordo e, sollevandosi al livello della lancia sulla cresta di un’onda, vi si buttarono nuovamente dentro di peso, mentre il terzo cadeva senza scampo a poppa, ma rimaneva sempre a galla, nuotando.
Quasi contemporaneamente, con una possente decisione di totale, istantanea velocità, la Balena Bianca si gettò nel mare ribollente. Ma quando Achab gridò al timoniere di dar nuovamente volta alla lenza e di tenerla così, e comandò all’equipaggio di voltarsi sui sedili e di tirare la lancia fino al segno, la lenza traditrice, nel momento in cui sentì il doppio sforzo e la tensione si ruppe nell’aria vuota!
«Che cosa si spezza in me? Qualche nervo si spacca!… Tutto a posto, di nuovo! I remi, i remi! Balzatele addosso!»
Udendo lo slancio terribile dell’imbarcazione che squassava il mare, la balena si rigirò per presentare la pallida fronte a difesa, ma in quell’evoluzione, scorgendo lo scafo nero della nave che si avvicinava, e apparentemente vedendo in esso la fonte di tutte le sue persecuzioni, considerandolo, forse, un nemico più grande e più nobile, improvvisamente discese sulla sua prua avanzante sbattendo le mascelle tra impetuosi rovesci di spuma.
Achab vacillò, si batté la fronte con la mano: «Divento cieco: oh, mie mani! Allungatevi davanti a me, che io possa ancora trovare a tastoni la strada. È vicina?
«La balena! La nave!» urlarono i rematori annientati.
«I remi, i remi! Mettiti a pendio verso i tuoi abissi, o mare, che, prima che sia troppo tardi, Achab possa scivolare quest’ultima volta al suo segno! Io vedo: la nave! La nave! Balzate innanzi marinai! Non salverete la mia nave?»
Ma mentre i rematori forzavano violentemente la lancia attraverso i marosi che erano come magli, le estremità di prua di due tavole, precedentemente colpite dalla balena, si schiantarono, e, in un attimo, la lancia, momentaneamente immobilizzata, giacque quasi al livello delle onde mentre l’equipaggio, mezzo in acqua e ammollato, cercava in ogni modo di chiudere la falla e riversare fuori l’acqua che irrompeva.
Frattanto, nell’attimo in cui la scorse, a Tashtego, sulla testa d’albero, il martello rimase sospeso in mano, e la bandiera rossa, che lo avvolgeva a mezzo come un mantello, scivolò via da lui, come se fosse il suo cuore a volar via, mentre Starbuck e Stubb, ritti sul bompresso sotto, s’avvidero insieme con lui del mostro che sopraggiungeva.
«La balena, la balena! Timone a sopravvento, timone a sopravvento! Oh, tutte voi, dolci potenze dell’aria, abbracciatemi stretto! Che Starbuck non muoia, se deve morire, in un deliquio da donna! Timone a sopravvento, dico… a voi, sciocchi, la mascella! La mascella! È questa la fine di tutte le mie ardenti preghiere? Di tutte le mie fedeltà, lunghe una vita? Oh, Achab, Achab, ecco cosa hai fatto! Fermo, timoniere, fermo! No, no! Timone a sopravvento, di nuovo! Si volta per venirci incontro! Oh, la sua fronte implacabile avanza alla volta di uno cui il dovere dice che non può andarsene. Mio Dio, stammi vicino, ora!»
«Non starmi accanto, ma sotto, chiunque tu sia che ora aiuterai Stubb: perché Stubb, anche lui, rimane qui. Io ghigno a te, a te ghignante balena! Chi mai ha aiutato Stubb, o ha tenuto sveglio Stubb, se non l’occhio vigile di Stubb? Ed ora, il povero Stubb se ne va a letto su un materasso che è fin troppo soffice: se fosse imbottito di rovi! Io ghigno a te, a te ghignante balena! Attenti, voi, sole, luna e stelle, io vi dichiaro assassini di uno dei più buoni compagni che mai abbia sfiatato la sua anima. Con tutto ciò io tuttavia brinderei con voi, se soltanto voi porgeste la coppa! Oh, oh, oh! Tu balena ghignante! Ma presto ci saranno gran gorgoglii! Perché non fuggì, Achab? Quanto a me, via le scarpe e la giacca: che Stubb muoia in mutande! La morte più muffita e un po’ troppo salata, però; ciliegie! Ciliegie! Ciliegie! Oh, Flask, se avessimo una ciliegia rossa, prima di morire!
«Ciliegie? Io desidererei soltanto che fossimo là dove crescono. Oh, Stubb, spero che la mia povera madre abbia già ritirato la mia parte di paga, altrimenti adesso le toccherebbero quattro soldi, perché il viaggio è finito».
Sulla prua della nave, quasi tutti i marinai ciondolavano ora inerti; martelli, pezzi di tavole, lance e ramponi, tenuti macchinalmente in mano, così come erano accorsi dalle loro varie occupazioni, tutti gli occhi incantati fissi sulla balena che, vibrando stranamente la testa predestinata da parte a parte, gettava avanti a sé, mentre correva, una larga fascia di schiuma che si spargeva a semicerchio. Castigo, rapida vendetta ed eterna malvagità apparivano in tutto il suo aspetto, e ad onta di tutto quanto l’uomo mortale potesse fare, il massiccio contrafforte bianco della sua fronte urtò sulla destra la prua della nave, tanto che uomini e travi vacillarono. Alcuni caddero a faccia in giù. Come pomi d’albero spostati, arriva, le teste dei ramponieri dondolarono sui loro colli taurini. Sentirono le acque scrosciare attraverso la falla, come torrenti di montagna in una gola.
«La nave! Il carro funebre, il secondo carro funebre!» gridò Achab dalla lancia.
«Il suo legno non poteva essere che americano!»
Tuffandosi sotto la nave che si abbassava, la balena passò per il lungo sotto la chiglia, che rabbrividì; poi, rivoltandosi sott’acqua, risalì veloce alla superficie, lontano, dall’altra parte della prua, ma a poche yarde dalla lancia di Acab, dove, per qualche tempo, giacque tranquilla.
«Io volto la schiena al sole. Oh, Tashtego, fammi udire il tuo martello. Oh, voi, mie tre guglie non arrese, tu, chiglia intatta e tu, scafo, minacciato soltanto da un dio; tu, sicura coperta, tu timone superbo, e tu prua, puntata sulla Stella Polare! Nave gloriosa fino alla morte! Devi dunque perire, e senza di me? Devo io essere privato dell’ultimo caro orgoglio che anche i più vili capitani naufraghi hanno? Oh, solitaria morte di una vita solitaria! Oh, io sento che ora la mia maggiore grandezza dimora nel mio più grande dolore. Oh, oh! Da tutti i vostri limiti più lontani, riversatevi ora qui, voi arditi flutti della mia vita trascorsa, e coronate questo grande maroso della mia morte! Io mi volgo verso di te, balena distruggitrice ma non vincitrice, fino all’ultimo io lotto con te: dal cuore dell’inferno io ti trafiggo; in nome dell’odio, io vomito il mio ultimo respiro su di te. Affondino tutte le bare e tutti i carri funebri in una pozza comune! E poiché né l’una né l’altra di queste due cose sono per me, che io allora ti rimorchi in pezzi, mentre continuo a darti la caccia, quantunque legato a te, a te dannata balena! Così, io scaglio il lancione!»
Il rampone venne lanciato, la balena colpita fuggì innanzi, con la velocità del fuoco, la lenza corse nella scanalatura, ma si imbrogliò. Achab fece per districarla: la sciolse, ma la volta volante lo afferrò intorno al collo e in silenzio, come i muti di Turchia strangolano la vittima, lo fece schizzare fuori dalla lancia, prima che l’equipaggio si rendesse conto che era sparito.
L’istante seguente, il pesante occhiello impiombato all’estremità del cavo volò via dal tino completamente vuoto, abbatté un rematore, e, colpendo il mare, disparve negli abissi.
Per un momento, l’equipaggio della lancia, impietrito, rimase immobile, poi tutti si voltarono. «La nave? Gran Dio, dov’è la nave?»
Presto, attraverso un’atmosfera vaga e nebbiosa, videro il suo fantasma obliquo che svaniva, come nei vapori della Fata Morgana; soltanto l’albero più alto era ancora fuori dall’acqua, mentre, inchiodati dall’infatuazione, o dalla fedeltà o dal Fato ai loro posatoi un tempo superbi, i ramponieri pagani mantenevano le vedette affondanti nel mare. Ed ora, cerchi concentrici si impadronirono anche della lancia solitaria, e di tutto il suo equipaggio, di ogni remo fluttuante, e di ogni palo di lancia, e facendo girare rapidamente in un vortice le cose animate e inanimate, trascinarono anche la più piccola scheggia del Pequod fuori vista.
Ma mentre gli ultimi flutti si rovesciavano a tratti sul capo sommerso dell’indiano all’albero maestro, lasciando ancora visibili pochi pollici dell’eretta alberatura, insieme con lunghe yarde sventolanti della bandiera che ondeggiava calma, assecondando i marosi distruggitori che quasi la toccavano, in quell’istante, un braccio rosso e un martello si levarono all’indietro nell’aria libera, nell’atto di inchiodare più saldamente la bandiera all’albero affondante. A uno sparviero marino che beffardamente aveva seguito il pomo di maestro nella sua discesa dalla sua naturale dimora fra le stelle, beccando la bandiera e disturbando Tashtego – a quest’uccello capitò di far passare la grande ala vibrante fra il legno e il macello: e contemporaneamente, sentendo quell’etereo sussulto, il selvaggio sommerso, di sotto, nel suo anelito di morte tenne fermo il martello, e così l’uccello dei cieli, con strida ultraterrene, il becco imperiale allungato in su e tutto il corpo prigioniero avvolto nella bandiera di Achab, andò a fondo con la nave, che, come Satana, non volle sprofondare nell’inferno finché non ebbe trascinato con sé una parte vivente del cielo, per farsene un elmo.
Ora piccoli uccelli volarono stridendo sul vortice ancora spalancato; una tetra spuma bianca sbatté contro i suoi orli precipiti, poi tutto si calmò, e il grande sudario del mare si distese come già si stendeva cinquemila anni fa.

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Testo di difficile comprensione, come del resto l’intero romanzo. La difficoltà è nella quasi impossibilità di poter dare un significato simbolico definitivo ai due protagonisti del brano: Achab e Moby Dick. Achab potrebbe sia rappresentare l’uomo contemporaneo che tenta di prevaricare la natura, sia quella di un moderno Ulisse (di derivazione dantesca) che vuole conoscere l’inconoscibile, il segreto ultimo della natura e come Ulisse finirà per esserne inghiottito – la nave dell’eroe infernale fa l’identica fine della nave di Achab. La balena bianca, proprio per il suo biancore potrebbe rappresentare Dio, un Dio tuttavia vendicativo che, attraverso la citazione sempre dantesca di un contrappasso, si vendica dell’uomo che vuole vendicarsi, ma si vendica altresì di chi vuole sfidarlo, come un moderno Capaneo, oppure il suo contrario, rappresentante del demonio che mette sulla sua croce Achab che muore, come figura Christi, crocefisso dalle corde sulla sua schiena. Ma è la conclusione è di puro pessimismo: non solo l’uomo viene sconfitto nell’impari lotta, ma di quest’ultima non rimane traccia, lo stesso simbolo di Dio, l’uccello, rimane inchiodato sull’albero della nave, inabissandosi con essa: il mare ricopre ogni cosa e cancella le tracce. 

Ma forse lo scrittore che ebbe maggiore influenza nella cultura europea fu Edgar Allan Poe: egli infatti, tramite la mediazione del padre della lirica moderna, Charles Baudelaire, insegnò al vecchio continente a superare le istanze romantiche, soprattutto laddove esse scadevano in un vago sentimentalismo, per entrare all’interno dell’inconscio, anticipando, un po’ alla stessa maniera di Hoffmann , Freud.

Edgar_Allan_Poe,_circa_1849,_restored,_squared_off.jpgEdgar Allan Poe

Nasce a Boston nel 1809, da genitori attori girovaghi che lo abbandonano a due anni presso un ricco mercante, John Allen, che tuttavia non lo adottò. Il concetto di abbandono non lo abbandonerà mai e verrà in qualche modo amplificato dalla morte, in giovane età, della madre, inasprendo in tal modo, in modo inconscio, la paura dell’abbandono. Studia nella città dove gli Allen si spostano, frequentando in ultimo l’Università della Virginia. Accusato di debiti gioco torna a Boston, dove decide di arruolarsi, ma viene cacciato per palese indisciplina. Raggiunge la zia a Baltimora e comincia l’attività di giornalista, ma dove comincia a pubblicare le sue prime prove, senza mai ottenere una stabilità economica. Ha ventisei anni quando decide di sposarsi con la cugina quattordicenne, Maria Clemm, ma costei, come la madre, è una bellezza destinata a spegnersi con la morte, che avviene nel 1847, lasciando il poeta preda delle sue ossessioni; datosi all’alcool, venne trovato, privo di sensi  in una strada di Baltimora, portato in ospedale, vi morirà pochi giorni per un attacco di delirium tremens: siamo nel 1849, Poe aveva appena 40 anni.  

IL CROLLO DELLA CASA USHER

Durante un giorno triste, cupo, senza suono, verso il finire dell’anno, un giorno in cui le nubi pendevano opprimentemente basse nei cieli, io avevo attraversato solo, a cavallo, un tratto di regione singolarmente desolato, finche’ ero venuto a trovarmi, mentre già si addensavano le ombre della sera, in prossimità della malinconica Casa degli Usher. Non so come fu, ma al primo sguardo ch’io diedi all’edificio, un senso intollerabile di abbattimento invase il mio spirito. Dico intollerabile poiché questo mio stato d’animo non era alleviato per nulla da quel sentimento che per essere poetico è semipiacevole, grazie al quale la mente accoglie di solito anche le più tetre immagini naturali dello sconsolato o del terribile. Contemplai la scena che mi si stendeva dinanzi, la casa, l’aspetto della tenuta, i muri squallidi, le finestre simili a occhiaie vuote, i pochi giunchi maleolenti, alcuni bianchi tronchi d’albero ricoperti di muffa; contemplai ogni cosa con tale depressione d’animo ch’io non saprei paragonarla ad alcuna sensazione terrestre se non al risveglio del fumatore d’oppio, l’amaro ritorno alla vita quotidiana, il pauroso squarciarsi del velo. Sentivo attorno a me una freddezza, uno scoramento, una nausea, un’invincibile stanchezza di pensiero che nessun pungolo dell’immaginazione avrebbe saputo affinare ed esaltare in alcunché di sublime. Che cos’era, mi soffermai a riflettere, che cos’era che tanto mi immalinconiva nella contemplazione della Casa degli Usher? Era un mistero del tutto insolubile; né riuscivo ad afferrare le incorporee fantasticherie che si affollavano intorno a me mentre così meditavo. Fui costretto a fermarmi sulla insoddisfacente conclusione che mentre, senza dubbio, eistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno il potere di così influenzarci, l’analisi tuttavia di questo potere sta in considerazioni che superano la nostra portata. Poteva darsi, riflettei, che una piccola diversità nella disposizione dei particolari della scena, o in quelli del quadro sarebbe bastata a modificare, o fors’anche ad annullare la sua capacità a impressionarmi penosamente; e agendo sotto l’influsso di questo pensiero frenai il mio cavallo sull’orlo scosceso di un oscuro e livido lago artificiale che si stendeva con la sua levigata e lucida superficie in prossimità dell’abitazione, e affissai lo sguardo, con un brivido però che mi scosse ancor più di prima, sulle immagini rimodellate e deformate dei grigi giunchi, degli spettrali tronchi d’albero, delle finestre aperte come vuote occhiaie. 
Eppure in questa lugubre casa io ora mi proponevo di soggiornare per alcune settimane. Il suo proprietario, Roderick Usher, era stato uno dei miei lieti compagni di infanzia, ma molti anni erano trascorsi dal nostro ultimo incontro. Una sua lettera mi aveva tuttavia raggiunto in un luogo remoto del paese, una lettera che, dato il carattere insistentemente importuno del mittente, non ammetteva risposta che di persona. Questo scritto rivelava una viva agitazione nervosa. Usher parlava di una acuta malattia fisica, di un disordine mentale che l’opprimeva, e di un impaziente desiderio di vedermi, essendo io il suo migliore, anzi il suo unico amico intimo, nella speranza di ottenere un sollievo al proprio male grazie alla serenità della mia presenza. Era il modo con cui tutto ciò, e molt’altro ancora, era detto, era il cuore che apparentemente accompagnava una tale richiesta, che non mi permise di esitare; ecco perché avevo obbedito senza indugio a quella che seguitavo a considerare tuttora come una piuttosto strana ingiunzione. 
Benché da ragazzi fossimo stati direi persino intimi, in realtà io sapevo assai poco del mio amico. La sua riservatezza abituale era sempre stata eccessiva. Sapevo però che la sua famiglia, di origine antichissima, era sempre stata conosciuta per una particolare sensibilità di temperamento che si era manifestata attraverso le età in molte opere di un’arte esaltata, e si era recentemente rivelata in ripetute e munifiche elargizioni benefiche, per quanto discrete, come pure in un fervore appassionato per le complicazioni, quasi più che per le bellezze ortodosse e facilmente riconoscibili, della scienza musicale. Ero pure al corrente di un particolare assai notevole, che cioè la stirpe degli Usher, pur vetusta qual era, non aveva mai fatto germogliare alcun ramo duraturo; in altre parole, la discendenza dell’intera famiglia si era tramandata sempre in linea diretta, e questo sin dai tempi più remoti, a eccezione di qualche variante trascurabile e del tutto temporanea. Era forse questa mancanza, rimuginavo mentre riandavo col pensiero all’accordo perfetto tra il carattere del luogo e il carattere universalmente noto delle persone che vi abitavano (e frattanto riflettevo sul possibile influsso che il primo, in cosi’ lungo trascorrere di secoli, poteva avere esercitato sul secondo), era forse questa mancanza di rami collaterali e la conseguente invariata trasmissione diretta da padre in figlio del patrimonio col nome, ad avere in fine talmente identificate le due cose, il luogo e la famiglia, da confondere il titolo originario della proprietà nello strano ed equivoco appellativo di “Casa degli Usher”, un appellativo che sembrava racchiudere, nella mente del contadiname che lo usava, tanto la casata quanto il maniero familiare. 
Già ho detto che il solo risultato del mio esperimento alquanto puerile di affissare cioè lo sguardo nelle cupe acque dello stagno, era stato quello di approfondire la mia prima curiosa impressione. Non può esservi dubbio che la consapevolezza del rapido aumentare della mia superstizione, – infatti, per quale motivo dovrei definirla altrimenti? – era servita principalmente ad accelerare quest’aumento. Tale, lo sapevo da tempo, è l’assurda legge di tutti i sentimenti aventi come base il terrore. E poteva essere stato per questo motivo soltanto che, allorché tornai ad alzare gli occhi verso la casa, distogliendoli dall’immagine di essa riflessa nello stagno, subentrò nella mia mente un pensiero bizzarro, talmente bizzarro e paradossale, che lo riferisco unicamente per dimostrare quanto fosse intensa la forza delle sensazioni che mi opprimevano. Avevo talmente esaltata la mia fantasia al punto di credere realmente che su tutta la dimora e sulla tenuta pendesse un’atmosfera caratteristica ad esse e alle immediate vicinanze, atmosfera che non aveva alcuna affinità con l’aria del cielo, ma che si esaltava dagli alberi ammuffiti, dal grigio muro, dal silenzioso stagno, come un vapore pestilenziale e mistico a un tempo, opaco, tardo, appena percettibile, soffuso di una sfumatura plumbea. 
Scuotendomi dall’animo quel che doveva essere stato un sogno, ripresi a osservare più da vicino l’aspetto reale dell’edificio. Il suo tratto più caratteristico sembrava consistere in una estrema vecchiezza. Lo scolorimento del tempo era stato enorme. Tutta la facciata esterna era ricoperta di una fungosità minutissima che pendeva dalle gronde come una intricata finissima ragnatela. Tutto ciò era nondimeno in dipendente da un decadimento vero e proprio. La muratura era rimasta intatta, e sembrava esservi una strana incongruenza tra le parti ancora perfettamente unite della costruzione, e lo stato di rovina delle singole pietre. In questo elemento caratteristico vi era molto che mi rammentava l’aspetto totale tipico di una vecchia opera in legno che sia rimasta per lunghi anni a marcire in un sotterraneo abbandonato, senza essere in alcun modo intaccata dall’aria esterna. Ma all’infuori di questo indice di decadenza dell’insieme, la costruzione non rivelava gravi tracce di instabilità. Forse l’occhio di un osservatore attento avrebbe saputo discernere una fessura appena percettibile che partendo dal tetto, sulla facciata dell’edificio, attraversava il muro in direzione obliqua sino a perdersi nelle imbronciate acque dello stagno. 
Dopo aver notato tutte queste cose mi diressi verso la casa, lungo un breve viale selciato. Un domestico mi prese il cavallo, e io entrai sotto l’arcata gotica dell’ingresso. Un valletto dal passo felpato mi condusse da lì, silenziosamente, attraverso molti anditi bui, labirintici, sino allo studio del suo padrone. Molto di quel che incontrai sul mio cammino contribuì, non so perché, ad avvalorare quel senso di vaga paura cui già ho alluso. Mentre gli oggetti che mi circondavano, le decorazioni del soffitto, le fosche tappezzerie delle pareti, la nerezza d’ebano dei pavimenti, i trofei allucinanti e le armature che vibravano al mio passaggio con secco rumore metallico, erano cose alle quali, anche in altro ambiente, io ero stato abituato sin dall’infanzia, mentre non esitavo a riconoscere l’aspetto familiare di tutti questi oggetti, seguitavo tuttavia ad avvertire quanto straniate dal mio spirito fossero invece le fantasticherie che queste immagini, pur note, evocavano in me. Su una delle scale d’accesso incontrai il medico di famiglia. Ebbi l’impressione che il suo aspetto riflettesse un’espressione mista di bassa astuzia e di perplessità. Mi passò accanto trepidante e proseguì innanzi. Subito dopo il domestico spalancò un uscio e m’introdusse alla presenza del suo padrone. 
La camera in cui venivo così a trovarmi era molto ampia e altissima. Le finestre lunghe, strette, a sesto acuto, erano talmente sopraelevate sul pavimento di quercia nera da risultare del tutto inaccessibili dall’interno. I deboli bagliori di una luce soffusa di vermiglio s’infiltravano attraverso i pannelli intrecciati e servivano a rendere sufficientemente distinti gli oggetti più in vista sparsi per la stanza; l’occhio si sforzava tuttavia invano di raggiungere gli angoli più riposti del locale, o i recessi del soffitto a volta tutto adorno di fregi. Dalle pareti pendevano scuri drappeggi. Il mobilio era sovraccarico, scomodo, antico, in cattivo stato. Sparsi tutt’attorno giacevano molti libri e strumenti musicali, i quali non riuscivano però a dare alcuna vitalità alla scena. Ebbi l’impressione di respirare un’atmosfera di dolore. Un senso di tetraggine greve, profonda, irriducibile, pendeva su tutto e tutto permeava. 
Al mio entrare, Usher si alzò da un divano sul quale si trovava completamente sdraiato, e mi accolse con una vivacità e un calore in cui mi parve a tutta prima di intuire una cordialità eccessiva, un poco troppo rassomigliante allo sforzo obbligato dell’annoiato uomo di mondo. Mi bastò tuttavia uno sguardo al suo viso per convincermi della sua perfetta sincerità. Ci mettemmo a sedere e rimanemmo silenziosi per alcuni istanti, mentre io l’osservavo con un sentimento misto a pietà e quasi di paura. Certo non avevo mai veduto nessuno che in così breve periodo di tempo avesse subita una così spaventosa trasformazione quanto quella che vedevo nella persona di Roderick Usher! Stentavo ad ammettere a me stesso che quell’essere svanito che mi stava dinanzi era il compagno della mia prima giovinezza. Eppure il suo viso era sempre stato assai caratteristico. Una carnagione cadaverica; occhi grandi, liquidi, oltremodo luminosi; labbra alquanto sottili e pallidissime, ma delineate con insuperabile perfezione; un naso delicato, di profilo ebraico, ma con un’ampiezza di narici insolita in modelli analoghi; un mento finemente cesellato che rivelava nella sua eccessiva rotondità una mancanza di energia morale; capelli di una tenuità e di una sofficità addirittura vaporose; tutti questi tratti, insieme con un’espansione insolita delle regioni temporali, contribuivano a formare nel loro complesso una fisionomia non facilmente dimenticabile. Ed ecco che proprio nell’esagerazione del carattere prevalente di questi tratti, e dell’espressione che essi erano soliti rendere, consisteva l’enorme mutamento che mi faceva dubitare della identità di colui col quale stavo parlando. Ma soprattutto il pallore spettrale della pelle e la luminosità irreale dell’occhio mi colpì e persino mi impaurì più di ogni altra cosa. Anche i serici capelli erano stati lasciati crescere senza cura, e così scarmigliati e rabbuffati come se fossero intessuti di lievissimi fili di ragno, più che ricadere intorno al viso vi fluttuavano intorno, tanto da non permettermi, sia pure con uno sforzo, di connettere quella loro impressione di arabesco a un’idea purchessia di umanità vera e propria. 
In quanto ai modi del mio amico fui subito colpito da una specie di incoerenza, di inconsistenza in essi, e ben presto mi accorsi che ciò derivava da tutta una successione di deboli e vani tentativi per padroneggiare uno stato di trepidazione abituale, un’agitazione nervosa eccessiva. In realtà ero stato preparato a questo lato del suo carattere non tanto dalla sua lettera, quanto dalle reminiscenze di certe sue caratteristiche infantili e dalle conclusioni che avevo tratte dalla sua costituzione fisica e dal suo temperamento specialissimi. I suoi gesti erano a volte vivaci, a volte pigri e scontrosi. La sua voce passava rapidamente da un tono di tremula indecisione (allorché gli spiriti animali sembravano completamente soggiogati) a quella specie di concisione energica, quell’eloquio brusco, pesante, tardo, cavo, quella pronunzia plumbea, perfettamente equilibrata e modulata, gutturale, che si riscontra nel bevitore incorreggibile o nell’incallito fumatore d’oppio, nei momenti in cui l’eccitazione della droga è particolarmente intensa.
Fu con questi accenti che egli mi parlò dello scopo della mia visita, del suo ardente desiderio di vedermi, e del conforto che si riprometteva da me. Si dilungò quindi a descrivermi quello che secondo lui era il carattere della sua malattia. Si trattava, mi spiegò, di un male costituzionale ed ereditario, e al quale disperava di trovare un rimedio; una semplice affezione nervosa, si affrettò a soggiungere, che senza dubbio si sarebbe ben presto dileguata. Questo disturbo si manifestava con una sequela di sensazioni innaturali: e alcune tra queste, a mano a mano che egli me le elencava, mi interessavano e mi stupivano, benché forse la loro efficacia risiedesse solo nelle parole e nel tenore generale della narrazione. Usher soffriva assai di una ipersensibilità morbosa; poteva sopportare soltanto il cibo più insipido; poteva indossare soltanto indumenti di un certo tessuto; il profumo di un qualsiasi fiore gli era intollerabile; anche la luce più debole era una tortura per i suoi occhi, e non vi erano che pochi suoni speciali, e soltanto quelli di alcuni strumenti a corda, che non lo riempissero di orrore. 
Mi avvidi che era schiavo, legato mani e piedi, di una forma anomala di terrore. «Io morirò,» mi disse, «dovrò morire in questa disperata follia. Così, così, non altrimenti, mi perderò. Temo gli avvenimenti del futuro non di per se stessi, ma per i loro risultati. Rabbrividisco al pensiero di un fatto qualsiasi, anche il più comune che possa operare su questa agitazione intollerabile del mio spirito. In realtà non rifuggo dal pericolo, se non nel suo effetto assoluto, cioè il terrore. In questo stato di smarrimento dei nervi, in questa pietosa condizione, sento che sopraggiungerà presto o tardi il momento in cui mi vedrò costretto ad abbandonare la vita e la ragione insieme in qualche conflitto con il sinistro fantasma della paura. 
Appresi inoltre per tratti e attraverso accenti rotti e ambigui, un altro curioso aspetto delle sue condizioni mentali. Usher si sentiva incatenato da certe superstiziose impressioni alla casa in cui dimorava e dalla quale più non usciva da molti anni, per un influsso la cui forza superstiziosa era resa in termini troppo incerti per essere qui ridescritti; un influsso ispiratogli nell’animo, mi disse, semplicemente da alcune caratteristiche nella forma e nella sostanza della sua dimora familiare; era un effetto, insomma, che l’elemento fisico delle grigie mura e delle torri e del cupo stagno in cui tutte queste cose si riflettevano aveva infine prodotto sull’elemento morale della sua esistenza. 
Ammetteva tuttavia, se pure con esitazione, che gran parte della caratteristica tristezza che così lo affliggeva poteva essere fatta risalire a un’origine più naturale e assai più tangibile, cioè alla grave e prolungata malattia, o , per meglio dire, alle condizioni sempre più prossime alla morte, di una sorella teneramente amata che da molti anni era la sua unica compagna e la sua sola ed ultima parente sulla terra. «La sua morte», – mi diceva con un’amarezza che non potrò mai dimenticare, «lascerebbe me inutile e debole, ultimo superstite dell’antica razza degli Usher». Mentre parlava, lady Madeline (così si chiamava la sorella di Roderik) attraversò lentamente un tratto lontano della stanza, e senza aver notato la mia presenza scomparve. Io la guardai con indicibile stupore, cui si mescolava un guizzo di paura, senza che tuttavia mi fosse possibile spiegarmi questo mio stato d’animo. Mentre i miei occhi seguivano i suoi passi allontanantisi, mi sentii invadere da una sensazione di stupore. Quando finalmente un uscio si chiuse alle sue spalle, il mio sguardo cercò istintivamente e ansiosamente il volto del fratello, ma questi aveva nascosto la faccia tra le mani e io potei soltanto notare che le sue dita emaciate si erano fatte ancora più esangui e che erano irrorate da molte lagrime appassionate. 
Il male di lady Madeline da molto tempo metteva a dura prova la perizia dei suoi medici. Una composta apatia, un consumarsi graduale della persona, attacchi frequenti sebbene transitori di natura parzialmente catalettica ne costituivano l’insolita diagnosi. Fino a quel momento ella aveva resistito contro l’incalzare del male, e non si era mai messa a letto definitivamente, ma sul finire di quella sera in cui ero giunto alla casa, fu costretta a cedere (come suo fratello mi riferì durante la notte in preda a un’agitazione indescrivibile) al potere distruttore del male; e seppi che l’occhiata fuggevole con cui avevo colto la sua persona sarebbe stata probabilmente l’ultima poiché la giovane donna, almeno finché fosse vissuta, non sarebbe più stata visibile. 
Durante alcuni giorni consecutivi il suo nome non venne più pronunciato né da Usher né da me, e in questo periodo di tempo io feci del mio meglio per alleviare la malinconia del mio amico. Dipingevamo e leggevamo insieme, oppure io restavo ad ascoltare, come perduto in un sogno, le sconnesse improvvisazioni della sua chitarra parlante. E così, mentre una sempre più stretta intimità mi permetteva di entrare ancora più addentro ai recessi del suo spirito, con sempre maggiore amarezza io ero costretto a constatare la vanità di ogni tentativo di rallegrare una mente da cui le tenebre si riversavano come una qualità positiva e insita su tutti gli oggetti dell’universo morale e fisico, in un’unica incessante irradiazione di mestizia. 
Porterò sempre con me la memoria delle lunghe ore solenni da me trascorse così in solitudine insieme al signore della Casa degli Usher. Fallirei tuttavia se tentassi di rendere comunque l’idea esatta del carattere, degli studi o delle occupazioni di cui egli mi metteva a parte o nei quali mi faceva da guida. Su tutto una idealità sovraeccitata e profondamente turbata gettava un chiarore sulfureo. Le sue lunghe estemporanee lamentazioni funebri echeggeranno in eterno entro le mie orecchie. Fra tante altre cose rammento soprattutto in modo particolarmente doloroso una certa strana perversione e amplificazione dello sfrenato motivo dell’ultimo valzer di Weber. Riguardo ai dipinti, su cui la sua complessa fantasia si lambiccava, e che svanivano a ogni tocco in una indefinitezza di cui io rabbrividivo tanto più profondamente quanto meno capivo il motivo del mio rabbrividire, riguardo a questi dipinti (per nitide che siano ora dinanzi a me le loro rappresentazioni) tenterei invano di descrivere più di quel poco che può essere racchiuso entro il cerchio delle semplici parole scritte. La scarna semplicità, la nudità dei suoi disegni fermavano e colpivano l’attenzione. Se mai essere mortale riuscì a dipingere un’idea, questo mortale è stato Roderick Usher. Per me almeno, nelle circostanze che allora mi attorniavano, si levava dalle pure astrazioni che il misantropo riusciva a fissare sulla propria tela, una tale intensità di terrore arcano e intollerabile, quale mai avevo sofferto, sia pur lontanamente, nemmeno nella contemplazione delle indubbiamente scintillanti e tuttavia troppo concrete bizzarrie fantastiche di Füssli. 
Una però di queste concezioni fantasmagoriche del mio amico che meno rigidamente delle altre partecipava dello spirito dell’astrazione può essere adombrata con parole, sia pure inadeguatamente. Si trattava di un piccolo quadro rappresentante l’interno di una volta o galleria rettangolare, immensamente lunga, dai muri bassi, bianchi, lisci, senza alcuna interruzione o fregio. Alcuni punti accessori del disegno servivano efficacemente a suggerire l’impressione che questo scavo s’ingolfasse a profondità prodigiosa sotto la superficie della terra. In tutta la sua vasta estensione non era possibile notare alcuna via di uscita, ne’ era discernibile torcia alcuna, o altra fonte artificiale di luce; e tuttavia si diffondeva ovunque un fiotto di raggi intensissimi che immergevano il tutto in uno splendore abbagliante e spettrale. 
Già ho accennato a quello stato morboso del nervo auricolare che rendeva intollerabile al paziente ogni specie di musica, a eccezione di alcuni effetti di strumenti a corda. Erano forse questi confini ristrettissimi entro i quali egli si rinchiudeva, limitandosi al solo uso della chitarra, a dare origine in gran parte al carattere fantastico delle sue esecuzioni. Non era pero’ possibile spiegare in tal modo la fervida facilità dei suoi improvvisi. Questi devono essere stati, ed erano in realtà, nelle note, come pure nelle parole delle sue vagabonde fantasie (poiché non di rado egli si accompagnava con improvvisazioni verbali rimate), il risultato di quella padronanza intensa di sé e di quella concentrazione mentale cui già ho alluso e che è osservabile soltanto in alcuni particolari momenti, allorché l’eccitamento artificiale raggiunge il suo colmo. Sono riuscito a ricordare facilmente le parole di una di queste rapsodie. Forse ne fui tanto più fortemente impressionato perché mentre egli me le recitava, nella corrente sotterranea o mistica del suo significato, mi parve di notare, e per la prima volta, una piena consapevolezza da parte di Usher del vacillare della sua ragione. Questi versi, che egli aveva intitolati  “Il palazzo incantato”, correvano pressapoco così: 

Nella più verde delle nostre valli,

da buoni angeli visitata,
un tempo un bello e solenne palazzo,
radioso palazzo, ergeva la sua fronte.
Nel regno del monarca Pensiero
esso si ergeva!
Mai serafino levò le ali
su struttura più bella. 

Stendardi gialli, di gloria e d’oro,
sul suo tetto sventolavano
e garrivano (ciò’, tutto ciò, accadeva negli antichi,
antichissimi tempi lontani),
e ogni dolce brezza che indugiava,
in quel dolce giorno,
lungo i contrafforti piumati e pallidi,
un odore alato disperdeva. 

Visitatori di quella valle felice
attraverso due luminose finestre
videro spiriti muoversi musicalmente,
all’intonato ritmo di un liuto,
intorno a un trono, dove seduto
(Porfirogene!)
in pompa addicentesi alla sua gloria,
appariva il governante del regno. 

E tutta di perle e di rubini scintillante
era la stupenda porta del palazzo,
attraverso cui giungeva fluente, fluente,
fluente e in eterno sfavillante,
una coorte di Echi, il cui dolce compito
era soltanto di cantare,
con voci di ineguale bellezza,
l’ingegno e la saggezza del loro re. 

Ma creature malvage, in vesti di lutto,
assalirono l’eccelsa dimora del monarca
(ah, piangiamo, poiché mai un domani
spunterà per lui, abbandonato!),
e, tutt’attorno alla sua dimora, la gloria
che sfavillava e lussureggiava
non é che una favola vagamente ricordata
dell’antico tempo sotterrato. 

E ora i viaggiatori in quella valle,
attraverso le finestre soffuse di rosso lucore,
vedono vaste forme muoversi fantastiche
al suono di una melodia discorde;
mentre, simile a un fiume rapido e irreale,
attraverso la pallida porta,
una folla ripugnante si riversa precipite,
senza sosta, e ride; ma più non sorride. 

usher_01.pngScena di un film di Epstein del 1928 ispirato alla novella di Poe

Ricordo perfettamente che le riflessioni provocate da questa ballata ci portarono lungo un corso di pensieri in cui si manifestò un’opinione di Usher che io cito non tanto per la sua originalità (poiché altri l’hanno manifestata parimenti), quanto per l’ostinatezza con cui egli l’affermava. Quest’opinione, così grosso modo, verteva sulla sensibilità di tutte le cose vegetali. Ma nella sua alterata fantasia questo concetto aveva assunto un carattere più audace, violando, entro determinate condizioni, il regno dell’inorganico. Mi mancano le parole per esprimere appieno tutto il sincero abbandono del suo convincimento. Questa sua certezza tuttavia era collegata (come già ho accennato) alle grigie pietre della dimora dei suoi padri. Le condizioni di sensibilità erano state qui adempiute, così egli immaginava, dal sistema di collocamento di queste pietre, dall’ordine della loro disposizione, nonché dal modo con cui le molte fungosità che le ricoprivano si erano predisposte, e dalla posizione degli alberi putrescenti che circondavano la dimora, ma soprattutto dalla lunga indisturbata durevolezza di questa sistemazione, e dal suo rifrangersi e sdoppiarsi nelle immote acque dello stagno. La prova di ciò, la prova della sensibilità, era rintracciabile, mi disse (e qui mentre egli parlava io trasalii), nella lenta e tuttavia certa condensazione di un’atmosfera propria emanante dalle acque e dalle mura. Tale risultato era scopribile, soggiunse, nella silente, e tuttavia conturbante e terrificante influenza che per secoli aveva plasmato i destini della sua famiglia, e che aveva fatto di lui quello che io ora vedevo, quello che egli era. Opinioni come queste non hanno bisogno di commento, ne’ io ne tenterò alcuno. 
I nostri libri, libri che da anni costituivano non piccola parte dell’esistenza mentale dell’invalido, erano, come è facile supporre, in stretto rapporto con questo elemento fantastico. Insieme consultavamo opere quali la Vervet et Chartreuse di Gresset, Belfagor di Machiavelli; il Cielo e inferno di Swedenborg; il Viaggio sotterraneo di Nicholas Klimm di Holberg; la Chiromanzia di Robert Flud,  Jean d’Indagine e De La Chambre; il Viaggio nella distanza azzurra di Tieck; e La città del sole di Campanella. Il nostro volume preferito era una piccola edizione in ottavo del Directorium Inquisitorium, del domenicano Eymeric de Gironne; e vi erano alcuni passi di Pomponio Mela, intorno agli antichi satiri ed egipani africani, sui quali Usher soleva riflettere, sognando, per lunghe ore. Il suo maggior diletto consisteva però nello studio assiduo di un volume in-quarto gotico straordinariamente raro e curioso, il manuale cioè di una chiesa dimenticata intitolato Vigiliae mortuorum secundum Chorum Ecclesiae Maguntinae
Non potevo fare a meno di meditare ripetutamente sui misteriosi riti descritti in quest’opera e sui loro probabili influssi sull’ipocondriaco, allorché una sera, dopo avermi annunciato bruscamente che lady Madeline più non viveva, mi dichiarò la sua intenzione di conservarne il cadavere per un periodo di quindici giorni (prima dell’inumazione definitiva) in una delle numerose cripte che si aprivano sotto i muri maestri dell’edificio. La ragione naturale che egli mi diede di questo suo singolare modo di agire era tale ch’io non mi sentii in grado di discuterla. Egli era stato spinto a questa decisione (così mi spiegò) in considerazione del carattere insolito della malattia che aveva minato l’esistenza di sua sorella, nonché di alcune indiscrete e impazienti richieste da parte dei medici, e infine in considerazione della posizione lontana e scomoda in cui si trovava il luogo di sepoltura avito. Non negherò che rammentandomi l’aspetto sinistro del personaggio da me incontrato sulle scale il giorno del mio arrivo alla casa, non provai alcun desiderio di controbattere quella che consideravo una precauzione tutt’al più innocua, e per nulla affatto innaturale. Su richiesta di Usher lo aiutai personalmente a predisporre ogni cosa per quella tumulazione temporanea. Dopo aver posato il corpo nella bara lo trasportammo noi due soli sino al luogo del suo riposo. La cripta in cui lo riponemmo (e che era rimasta chiusa talmente a lungo che le nostre torce, semi soffocate in quell’atmosfera opprimente, ci concessero ben poca possibilità di fare indagini) era piccola, umida, totalmente sprovvista di aperture che permettessero ammissioni di luce, essendo scavata a grande profondità proprio sotto quella parte dell’edificio in cui si trovava la mia stanza da letto personale. Doveva essere probabilmente servita, negli antichi tempi feudali, agli oscuri e biechi scopi cui sono destinate le prigioni sotterranee, e in epoca più recente doveva essere stata usata come deposito di polveri, o di qualche altra sostanza ad alto potere combustibile, poiché un tratto del pavimento della cripta, e tutta la parte interna di un lungo passaggio coperto attraverso il quale si raggiungeva la cripta stessa, erano accuratamente ricoperti di lamine di rame. Anche la porta, in ferro massiccio, era stata parimenti protetta. Il suo peso immenso faceva sì che ogniqualvolta essa si muoveva sui cardini si udiva un suono raschiante, insolitamente aspro. 
Dopo aver posato su alcuni trespoli il nostro funebre carico, affidandolo a quel luogo di orrore, scostammo parzialmente il coperchio non ancora avvitato della bara e ci fermammo a contemplare il volto della morta. In quel momento, per la prima volta, la mia attenzione fu attratta dalla somiglianza sorprendente che esisteva tra il fratello e la sorella, e Usher, indovinando forse il mio pensiero, borbottò alcune parole dalle quali compresi che lui e la morta erano stati gemelli, e che tra essi erano sempre esistiti legami di affinità di natura difficilmente comprensibile. I nostri sguardi pero’ non si soffermarono a lungo sulla defunta, che non potevamo fissare senza un arcano timore. La malattia che aveva condotto alla tomba la dama nel fiore della giovinezza aveva lasciato, come accade di solito in tutti i disturbi gravi di carattere tipicamente catalettico, la beffa di un debole rossore sul seno e sul volto, e quel sorriso misteriosamente indugiante sul labbro che è così terribile nella morte. Richiudemmo il coperchio e lo avvitammo, e dopo aver chiuso a chiave la porta di ferro risalimmo faticosamente verso gli appartamenti poco meno tetri della parte superiore della casa. E ora che erano trascorsi alcuni giorni di amaro dolore, subentrò nel disordine mentale del mio amico un mutamento sensibile. I suoi modi soliti erano scomparsi: le sue occupazioni ordinarie trascurate o dimenticate. Errava di stanza in stanza con passo affrettato, ineguale, senza una meta. Il pallore del suo volto aveva assunto se possibile una sfumatura ancora più spettrale, ma la luminosità del suo sguardo si era completamente spenta. Non avevo più inteso l’asprezza cava che di quando in quando assumeva la sua voce, ma adesso le sue parole erano abitualmente caratterizzate da un tremolio vibrante, come se egli vivesse di continuo in uno stato di terrore estremo. Vi erano momenti, in verità, in cui io pensavo che la sua mente senza posa agitata, fosse travagliata da qualche segreto divorante, e che egli lottasse con se stesso per trovare il coraggio necessario a rivelarlo. A volte invece ero costretto ad addossare ogni cosa alle inesplicabili divagazioni della pazzia, poiché lo sorprendevo a fissare nel vuoto per lunghe ore, in atteggiamento di attenzione profondissima, come se ascoltasse qualche suono immaginario. Non è da stupire se questo suo stato terrorizzasse e contagiasse anche me. Mi sentivo invadere per gradi lenti ma sicuri, dei forsennati influssi delle sue fantastiche e tuttavia ossessionanti superstizioni. 
Fu soprattutto nel ritirarmi per la notte, la sera del settimo ed ottavo giorno dopo la deposizione nella cripta di lady Madeline, che io sperimentai tutta la violenza di tali sensazioni. Il sonno non giunse sino al mio letto, mentre le ore andavano dileguandosi, lente e inutili. Cercavo di combattere l’inquietudine nervosa che si era impadronita di me. Mi sforzavo di pensare che buona parte del mio stato d’animo era dovuto all’influsso deprimente del tetro mobilio che arredava la stanza, ai panneggi cupi e gualciti i quali ondeggiavano bizzarramente contro le pareti, torturati dal fiato impetuoso di un temporale prossimo, frusciando inquieti intorno alle decorazioni del letto. Ma i miei tentativi erano vani. A poco a poco tutto il mio essere fu pervaso da un tremito incontenibile e alla fine un vero e proprio incubo gravò sul mio cuore terrorizzandomi senza ragione. Riuscii a scuotermelo di dosso gemendo e dibattendomi strenuamente, mi rizzai a sedere sui cuscini, e appuntando ansiosamente lo sguardo nelle fitte tenebre che avvolgevano la stanza tesi l’orecchio (non so per quale ragione, se non forse perché ne fui suggerito da un impulso istintivo) a misteriosi rumori sommessi, indefiniti, che giungevano a lunghi intervalli, tra le pause dell’uragano, non sapevo da dove. Sopraffatto da un disperato senso di orrore, inspiegabile e tuttavia intollerabile, mi rivestii precipitosamente (poiché capivo che per quella notte non avrei più potuto dormire) e tentai con tutte le mie forze di strapparmi allo stato pietoso in cui ero caduto, mettendomi a passeggiare rapidamente innanzi e indietro per la stanza. Mi aggiravo così da pochi istanti, allorché un passo leggero sulla scala vicina attrasse la mia attenzione. Lo riconobbi quasi subito per il passo di Usher. Un istante dopo egli bussava con tocco discreto alla mia porta ed entrava reggendo una lampada. Il suo aspetto era come al solito cadavericamente esangue, ma adesso leggevo nei suoi occhi come una folle ilarità, e vi era evidentemente in tutto il suo comportamento come una contenuta isteria. I suoi modi mi atterrirono; ma tutto era preferibile alla solitudine che avevo sino a quel momento sopportata e anzi accolsi la sua presenza con un sospiro di sollievo. 
«E tu non l’hai veduto?» mi chiese bruscamente dopo essersi guardato attorno per alcuni attimi in silenzio. «E tu non l’hai veduto dunque?… Ma, aspetta! Lo vedrai». Così dicendo e dopo avere accuratamente schermata la lampada si avvicinò a uno dei finestroni e lo spalancò completamente alla tempesta. La furia impetuosa dell’uragano irrompente per poco non ci sollevò da terra. Era in verità una notte tempestosa e pure paurosamente bella, e di una misteriosa stranezza nel suo affascinante terrore. Evidentemente doveva essersi raccolto in tutta la sua forza, nei dintorni, un turbine, poichè il vento subiva frequenti e violenti mutamenti di direzione, e l’estrema densità delle nubi (che pendevano tanto basse da premere addirittura contro le torri stesse della casa) non ci impediva di scorgere la velocità pazzesca con la quale accorrevano da ogni punto per cozzare le une contro le altre, senza mai disperdersi in lontananza. Ripeto che nemmeno la loro straordinaria densità ci impediva di notare questo, benché non ci fosse possibile scorgere né la luna né le stelle, né vi fosse alcun guizzo di folgore a illuminare la scena. Tuttavia le superfici inferiori di quella massa enorme di vapori in tumulto, come pure tutti gli oggetti terrestri che immediatamente ci circondavano, risplendevano di una luce innaturale per una esalazione gassosa, vagamente luminescente eppur distintamente visibile, che avvolgeva e avviluppava la dimora come un fosforescente sudario. 
«Tu non devi… bisogna assolutamente che tu non veda questo!» dissi rabbrividendo a Usher mentre lo riconducevo con dolce violenza dalla finestra a un sedile. «Queste apparizioni che ti sconvolgono non sono che fenomeni elettrici tutt’altro che rari, a meno che non abbiano la loro paurosa origine nei miasmi fetidi dello stagno. Richiudiamo la finestra; l’aria è fredda e pericolosa per la tua salute. Ecco qui uno dei tuoi libri favoriti. Io leggerò, e tu rimarrai ad ascoltarmi; e così potremo superare insieme questa notte spaventosa. 
L’antico volume che io avevo intanto preso in mano era il Mad Trist di sir Launcelot Canning, ma io lo avevo definito il preferito di Usher più in un attimo di scherzosa malinconia che con intenzione seria; poiché in realtà vi era ben poco nel suo andamento prolisso, anti immaginativo e grottesco che potesse produrre un vero e proprio interesse sull’animo altamente idealistico e spirituale del mio amico. D’altronde era il solo libro che avessi immediatamente a portata di mano, e mi cullavo nella vaga speranza che l’agitazione che attualmente torturava l’ipocondriaco potesse trovare sollievo persino in quel paradosso di follia che mi accingevo a leggere (poiché la cronaca dei disordini mentali è piena di anomalie siffatte). Se avessi potuto infatti giudicare dall’apparenza di eccessiva e ipertesa vivacità con la quale ascoltava, o pareva ascoltare, le parole del racconto, mi sarei ben potuto congratulare con me stesso della riuscita del mio tentativo. Ero giunto a quel noto brano della vicenda in cui Ethelred, l’eroe del Trist, dopo aver tentato invano di essere ammesso pacificamente nell’abitazione dell’eremita, si accinge a entrarvi a viva forza. Qui, si rammenterà, le parole del racconto sono queste:

Ed Ethelred, che era di natura di valoroso cuore, e si sentiva ora più che mai vigoroso, causa la potenza del vino che egli aveva bevuto, non attese di parlamentare oltre con l’eremita, il quale invero era di una natura maligna e ostinata, ma sentendo la pioggia cadergli sulle spalle e temendo lo scatenarsi della tempesta, sollevò alta la sua mazza e a suon di colpi si aprì rapidamente una breccia sulle assi dell’uscio per farvi passare la sua mano guantata di ferro; ed ecco che tirando con questa energicamente spezzò e lacerò e divelse ogni cosa sinché il rumore del legno secco e cavo rimbombò e si ripercosse per tutta la foresta”. 

Al termine di questa frase sussultai e tacqui per un istante, poiché mi sembro’ (pur concludendo immediatamente che la mia fantasia eccitata mi aveva ingannato), mi sembrò, dico, che da un punto imprecisato e lontanissimo della dimora mi giungesse vagamente alle orecchie quella che sarebbe potuta essere, in modo esattamente affine, l’eco (pur soffocata e sorda) proprio del rumore cricchiante e lacerante tanto minuziosamente descritto da sir Launcelot. Fu senza dubbio questa semplice coincidenza ad attrarre la mia attenzione, poiché tra lo sbatacchiare delle intelaiature delle finestre e i soliti rumori confusi del temporale vieppiù aumentati, questo rumore di per se stesso non aveva certamente nulla che altrimenti potesse interessarmi o turbarmi. Proseguii nella lettura: 

Ma il prode campione Ethelred nell’entrare di là dalla soglia si adirò e si stupì di non scorgere alcun segno del maligno eremita; ma invece di costui un drago di aspetto squamoso e prodigioso, dalla lingua di fiamma, che sedeva a guardia di un palazzo d’oro dal pavimento d’argento; e sul muro era appeso uno scudo di scintillante bronzo adorno del seguente motto: 
Colui che quivi entra, conquistatore e’ stato;
chi il drago uccide lo scudo otterrà 

Ed Ethelred sollevo’ la sua mazza e colpi’ al capo il drago che cadde ai suoi piedi esalando il suo fiato pestilenziale con un urlo cosi’ orrido e aspro e al tempo stesso cosi’ penetrante, che Ethelred fu costretto a turarsi le orecchie con le mani contro quello spaventoso rumore di cui mai aveva inteso prima l’uguale” 

Qui mi fermai di nuovo bruscamente, e adesso con un senso di smarrito stupore, poiché non vi era dubbio (per quanto da che direzione provenisse mi era impossibile dire) che in quel preciso istante anch’io sentivo inequivocabilmente un rumore sommesso e apparentemente lontano, ma aspro, prolungato, raschiante e forse stranamente urlante: l’esatta riproduzione insomma di quello che già la mia fantasia aveva evocato come l’urlo innaturale del drago qual era descritto dal novellatore. 
Per quanto sgomentato di questa seconda e veramente straordinaria coincidenza, nonché da mille sensazioni contrarie e contrastanti, in cui predominava una meraviglia e un terrore estremi, conservai tuttavia sufficiente presenza di spirito per evitare di acuire con una mia qualsiasi osservazione lo stato di ipersensibilita’ nervosa del mio compagno. Non ero affatto certo che egli avesse notato questi rumori, sebbene una strana alterazione fosse in quegli ultimi pochi minuti avvenuta in tutto il suo aspetto. Da una positura iniziale che lo aveva tenuto di fronte a me, egli aveva a poco a poco mosso la sua seggiola in modo da sedere con la faccia rivolta all’uscio della stanza, dimodo che’io non potevo scorgere i suoi lineamenti che in parte, benché vedessi che le sue labbra tremavano come se egli mormorasse qualcosa intelligibilmente. Aveva lasciato ricadere la testa sul petto; ma capivo che non dormiva dal suo occhio spalancato, in una fissità quasi rigida, di cui potevo cogliere una visione fuggevole di profilo. Anche il movimento del suo corpo era in contrasto con questa eventualità, poiché si dondolava innanzi e indietro con un’oscillazione lieve ma al tempo stesso costante e uniforme. Dopo aver notato rapidamente tutto cio’, ripresi la lettura del racconto di sir Launcelot, che così procedeva: 

E ora il campione sfuggito alla terribile furia del drago e pensando allo scudo di bronzo e alla rottura dell’incantesimo che incombeva su di esso, scostò dal suo cammino la carogna del mostro e avanzò valorosamente sul pavimento argenteo del castello verso il punto in cui lo scudo pendeva dalla parete, ed esso in verità non attese il suo giungere, ma cadde ai suoi piedi sul pavimento d’argento, con un fragore possente, spaventosamente rimbombante. 

Le mie labbra avevano appena proferito queste ultime sillabe, che (come se uno scudo di bronzo fosse veramente caduto in quel medesimo istante con improvviso fragore sul pavimento d’argento) io avvertii una vibrazione distinta, cava, metallica, squillante, benché apparentemente soffocata. Incapace di dominare più a lungo i miei nervi, balzai in piedi, ma il moto misurato oscillante di Usher proseguì imperturbato. Accorsi alla seggiola in cui sedeva. Aveva gli occhi fissi dinanzi a sé e da tutto il suo aspetto emanava una rigidità petrigna. Ma non appenagli ebbi posato una mano sulla spalla sentii l’intero suo corpo vibrare di un brivido intenso; un sorriso malsano gli aleggiò sulle labbra e io vidi che egli mormorava sommessamente, frettolosamente, parole sconnesse, quasi fosse totalmente ignaro della mia presenza. Mi chinai sudi lui e alla fine compresi il pauroso significato delle sue parole. – Non l’ho udito? Certo che l’ho udito. E lo odo ancora. Da tanto…tanto… tanto… da molti minuti, da molte ore, da molti giorni, io lo odo, e tuttavia non ho osato… oh, pietà di me, miserabile sciagurato che sono! Non osavo… non osavo parlare! L’abbiamo calata nella tomba viva! Non ti dicevo che i miei sensi sono acutissimi? Ebbene ti dico adesso che io ho inteso persino i suoi primi deboli movimenti nella cavità del sarcofago. Li ho avvertiti… molti, molti giorni fa… e tuttavia non osavo… non osavo parlare! Ed ecco che… stanotte…Ethelred… ah! ah! L’abbattersi dell’uscio dell’eremita, e l’urlo di morte del drago, e il clangore dello scudo!… Vuoi dire piuttosto l’infrangersi della sua bara, il suono stridente dei cardini di ferro della sua prigione, il suo dibattersi entro l’arcata foderata di rame della cripta! Oh, dove fuggirò? Non sarà ella qui tra poco? Non sta forse affrettandosi per rimproverarmi la mia precipitazione? Forse che non ho inteso il suo passo sulle scale? Non distinguo forse lo spaventoso pesante battito del suo cuore? Pazzo! – A questo punto balzò in piedi come una furia e urlò queste parole come se nello sforzo esalasse tutta la sua anima: – Pazzo! Ti dico che ella sta ora in piedi fuori dell’uscio! 
Quasi che la sovrumana energia della sua voce contenesse la potenza evocatrice di un incantesimo, gli enormi antichi pannelli che egli additava, di schiusero lentamente, in quel medesimo istante, le loro poderose nere fauci. Fu senza dubbio l’opera dell’uragano infuriante; ma ecco che fuor di quell’uscio si ergeva veramente l’alta ammantata figura di lady Madeline di Usher. Il suo bianco sudario era macchiato di sangue, e su tutto il suo corpo emaciato apparivano evidenti i segni di una disperata lotta. Per un attimo ella rimase tremante, vacillante sulla soglia, poi con un gemito sommesso e prolungato cadde pesantemente sul corpo del proprio fratello e nei suoi violenti e ormai supremi spasimi agonici lo buttò al suolo cadavere, vittima dei giustificati terrori che lo avevano agitato. 
Da quella camera e da quella casa io fuggii inorridito. L’uragano infuriava ancora in tutta la sua collera mentre io attraversavo l’antico sentiero selciato. A un tratto rifulse sul viottolo una luce abbagliante e io mi volsi a guardare donde poteva provenire un così insolito fulgore, poiché dietro di me avevo soltanto l’immensa casa e le sue ombre. Il chiarore proveniva dalla luna calante, al suo colmo, sanguigna, che ora splendeva vividamente attraverso l’unica fessura appena discernibile di cui ho già parlato e che si stendeva dal tetto dell’edificio in direzione irregolare, serpeggiante, sino alla sua base. Mentre guardavo, questa fessura rapidamente si allargò, il turbine di vento infuriò in un supremo anelito, tutta l’orbita del satellite si rivelo’ improvvisa alla mia vista, il mio cervello vacillò, mentre i miei occhi vedevano le possenti mura spalancarsi, s’intese un lungo tumultuante urlante rumore simile al frastuono di mille acque, e il profondo stagno ai miei piedi si chiuse cupo e silenzioso sui resti della “Casa degli Usher”. 

harry-clarke-duo-967-kb.jpgHarry Clarke: Illustrazione per il racconto Il crollo della casa degli Usher

Il racconto si sviluppa attraverso un narratore interno alla storia, che ce la mostra nel modo in cui lui la percepisce. Attraverso questa tecnica, secondo cui il lettore ne sa quanto il narratore, Poe riesce a creare quel clima di tensione tipico di gran parte dei suoi racconti, attraverso i quali insegnerà sia la struttura della narrazione orrorifica, sia quella che in Italia prende il nome di gialla. Il protagonista è un intellettuale, nevroticamente malato che ha una sorella altrettanto malata, che ci appare in modo talmente ineffabile, da perdere qualsiasi consistenza. Essa più che una persona, sembra essere la personificazione dell’idea di morte, che si proietta all’interno della psiche ossessionata di Roderick. Si è che i due fratelli gemelli, la cui malattia funziona come se ci trovassimo di fronte alla teoria dei vasi comunicanti, non sono altro che la proiezione dell’idea di morte, verso il cui abisso precipitano, portando dietro sé la casa e tutto ciò che essa contiene. La critica psicoanalitica ha parlato di “rimosso” e di Madelaine (sorella di Roderick) come l’idea stessa di morte verso cui tende la pulsione dell’inconscio malato, e del suo io più profondo (saranno queste istanze che avvicineranno Poe più verso quella poetica maledetta dei poeti francesi e dei nostri scapigliati che all’interno della poetica romantica, non dimenticando, tuttavia che «l’arte di Poe, specie nei suoi racconti, è una delle espressioni più profonde di un’essenziale tendenza romantica: l’esplorazione della zona buia della psiche, dove si annidano i “mostri”, i terrori, le angosce, gli impulsi inconfessabili. E’ questa la caratteristica di quel filone della letteratura romantica che abbiamo definito “nero”. I racconti di Poe sono dominati da atmosfere allucinate, stravolte, dense di mistero, talvolta ottenute con grande economia di mezzi, talvolta invece puntando sul macabro e l’orroroso. Poe fu anche il creatore di un genere destinato ad immensa fortuna, il racconto poliziesco, fondato su un misterioso delitto e sulla ricerca dell’assassino da parte di un acuto investigatore (Gli omicidi della Rue Morgue)» (Guido Baldi)   

Russia

Già all’inizio del Settecento la cultura russa si era aperta all’influenza europea, durante il cosiddetto “periodo pietroburghese” (nel 1713, Pietro il Grande trasportò la capitale a San Pietroburgo); in seguito grazie a Caterina II che permette entrino nel suo paese istanze illuminate e neoclassiche. Lo stesso si può dire per quanto riguarda la cultura romantica: ciò che tuttavia lo caratterizza è la vera e propria mitizzazione di Byron, preso ad esempio di una vita romantica. Ma non bisogna sminuire la cultura russa, come se fosse un semplice plagio di quella europea – in particolare francese o inglese; l’inserimento di elementi tipici della loro tradizione saranno preparatori per la grandissima stagione della letteratura russa durante la seconda metà dell’Ottocento.

Il romanticismo russo si esplicita sia sul piano lirico che su quello narrativo, generi sui quali si ispireranno sia Michail Jur’evič Lermontov che Aleksandr Sergeevič Puškin.

Mikhail_lermontov.jpgMichail Jur’evič Lermontov

Michail Jur’evič Lermontov nasce a Mosca nel 1814. A sedici anni si iscrive all’Università di Mosca, ma l’abbandona per abbracciare la carriera militare. Si getta con entusiasmo nella vita mondana di Pietroburgo, ostentando pose anticonformiste e di scherno veerso la società del tempo, cercando d’imitare il suo mito, Byron. Muore appena a 27 anni a seguito di un duello.

Tra le sue opere più importanti ci piace ricordare il poema Il demone (pubblicato dopo la morte) e Il novizio. Appaiono in ambedue figure come quella demoniaca, esiliata da un paradiso e alla ricerca di un assoluto, e che per questo si rifiuta di mescolarsi al mondo e alla grettezza della gente. Lo stesso argomento potremo trovarlo nel suo romanzo, Un eroe del nostro tempo (1840), inserito, tuttavia, in un ambiente più realista: 

Un eroe del nostro tempo, ambientato nel Caucaso, è composto da cinque novelle che hanno in comune il protagonista, il giovane ufficiale Pečorin. Le prime due (Bela; Maksim Maksimyč, si fingono narrate all’autore da un amico di Pečorin, appunto Maksim Maksimyč. Le restanti (Taman; La principessa Mary; Il fatalista) appaiono tratte da un diario di Pečorin. Bela è una principessa tartara rapita con l’astuzia da Pečorin e uccisa per una vendetta dal tartaro Kasbič; Maksim Maksimyč è il fuggevole incontro di Pečorin con l’amico al quale affida il diario. Dopo una breve avvertenza in cui si informa il lettore della morte di Pečorin, si passa a Taman, storia di un agguato teso all’ufficiale da una bella contrabbandiera. Nella Principessina Mary, sullo sfondo della città termale di Piatigorks, Pečorin tesse una trama futile e perversa ai danni di due donne innamorate di lui, la sua antica amante Vera e la giovane Mary. Il tenente Grušnickij, innamorato di Mary, lo sfiderà e verrà da lui ucciso. Nel fatalista l’ufficiale Vulič, per dimostrare di credere al destino, sperimenta su di sé, di fronte a Pečorin, la “roulette russa”. La pistola fa cilecca, ma Pečorin gli ha letto in volto la morte e glielo dice. La sera stessa Vulič viene ucciso da un tartaro ubriaco incontrato per caso.

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Edizione russa dell’opera di Lermontov

IN COMPAGNIA DELLA SIGNORINA MARY

La sera una numerosa compagnia si è avviata a piedi verso l’orrido. Secondo l’opinione degli scienziati locali quest’orrido non è altro che un cratere spento; esso si trova sulle pendici del Mašùk, a una versta dalla città. Vi si giunge per uno stretto sentiero tra rocce e arbusti; mentre salivamo la montagna ho porto il braccio alla principessina e lei non l’ha più lasciato per tutta la durata della passeggiata.
La nostra conversazione ha preso avvio dalle maldicenze: ho cominciato a passare in rassegna i nostri conoscenti, presenti e assenti, mettendone in evidenza dapprima i tratti ridicoli e poi i difetti. Mi si è eccitata la bile: avevo cominciato scherzando e ho terminato in preda a un autentico furore. Dapprima ciò l’ha divertita, ma poi l’ha spaventata.
«Siete un uomo pericoloso!» mi ha detto, «preferirei finire in un bosco sotto il coltello di un assassino piuttosto che sulla vostra lingua tagliente… Vi chiedo senza scherzi: il giorno che vi venisse in mente di parlare di me, prendete piuttosto un coltello e sgozzatemi: penso che non vi sarebbe così difficile.»
«Ho forse l’aspetto di un assassino?…»
«Siete peggio.»
Mi sono impensierito un momento e poi ho detto, assumendo un’aria profondamente commossa: «Sì, questa è stata la mia sorte fin dalla mia prima infanzia! Tutti leggevano sul mio viso i segni di brutte qualità che non avevo; ma le supponevano, e così sono nate. Ero riservato: mi rimproveravano di essere malizioso; così sono diventato chiuso. Sentivo profondamente il bene e il male; nessuno mi coccolava, tutti mi offendevano: così sono diventato permaloso; ero cupo mentre gli altri bambini erano allegri e chiacchieroni; io mi sentivo superiore a loro, e loro mi consideravano inferiore. Sono diventato invidioso. Ero pronto ad amare tutto il mondo, ma nessuno mi ha capito: allora ho imparato ad odiare. La mia giovinezza incolore è trascorsa nella lotta contro me stesso e il mondo; i miei sentimenti migliori, per timore di venire deriso, li ho sepolti nel profondo del cuore: e lì sono morti. Dicevo la verità, ma non mi credevano. Ho cominciato ad ingannare; dopo aver conosciuto bene il mondo e le molle della società mi sono fatto esperto dell’arte del vivere e ho visto che gli altri erano felici senz’arte, godevano gratis di quei vantaggi che io cercavo di ottenere così instancabilmente. Allora nel mio petto è nata la disperazione: non quella disperazione che si cura con un colpo di pistola, ma una disperazione fredda, impotente, nascosta dietro l’amabilità e un sorriso benevolo. Sono diventato un invalido morale: una metà della mia anima non esisteva, si era disseccata, era evaporata, era morta, io l’ho amputata e gettata via; invece l’altra reagiva e viveva al servizio di ognuno, ma questo nessuno l’ha notato, perché nessuno sapeva dell’esistenza dell’altra metà morta; ma adesso voi me ne avete suscitato il ricordo, e io vi ho recitato il suo epitaffio. Di solito gli epitaffi sembrano tutti ridicoli alla maggior parte della gente, ma non a me, in particolare quando mi ricordo di cosa cova sotto di essi. Del resto non vi chiedo di condividere la mia opinione: se la mia uscita vi pare ridicola, prego, ridete pure: vi avverto che non me ne addolererò affatto».
In quell’istante ho incontrato i suoi occhi: erano pieni di lacrime; la sua mano, appoggiata sopra la mia, tremava, le sue gote ardevano… le facevo pena! La compassione, sentimento a cui così facilmente soggiacciono le donne, aveva affondato i propri artigli nel suo cuore inesperto. Per tutta la durata della passeggiata è stata distratta, non ha civettato con nessuno e questo è un grande segno!
Siamo giunti all’orrido; le dame hanno lasciato il braccio dei loro cavalieri, ma lei non ha abbandonato il mio. Le arguzie dei dandies locali non la facevano ridere; lo strapiombo dell’abisso, sull’orlo del quale si trovava, non la spaventava, mentre le altre signore lanciavano gridolini e si coprivano gli occhi.
Sulla strada del ritorno non ho ripreso la nostra triste conversazione, ma alle mie domande e ai miei scherzi frivoli lei rispondeva brevemente e distrattamente.
«Avete amato?», le ho chiesto infine.
Lei mi ha guardato fissamente e ha scosso la testa… e di nuovo si è fatta pensierosa; era evidente che aveva voglia di dire qualcosa, ma che non sapeva da che parte cominciare; il suo petto era in agitazione Che fare? Una manica di mussolina è una debole difesa e una scintilla elettrica scoccò dal mio braccio al suo; quasi tutte le passioni cominciano così e sovente inganniamo noi stessi pensando che la donna ci ami per le nostre doti fisiche o morali; certamente esse preparano, predispongono il loro cuore ad accogliere il sacro fuoco, ma è tuttavia il primo contatto che decide la faccenda.
«Non è vero che oggi sono stata molto gentile?», mi ha domandato la principessina con un sorriso forzato al ritorno dalla passeggiata.
Ci siamo congedati…
E’ scontenta di sé: si accusa di freddezza! Oh, questo è il primo, importante trionfo! Domani ella vorrà ricompensarmi. Tutte queste cose le so già a memoria, ecco quel che è noioso!

MV5BZWYyMTI5MDAtMWJhOC00YWE5LTg0MWItOTg4NDRmOTI3NjQyXkEyXkFqcGdeQXVyMzY1MzQyOTY@._V1_.jpgPečorin in una fiction della tv russa

Nel brano sembra riecheggiare l’eco del grande romanzo del libertinismo francese Le relazioni pericolose: se tuttavia il racconto dell’atto di seduzione del visconte di Valmont verso l’austera Mme de Tourvel aveva per Laclos un significato di tipo moralista, nel caso di Lermontov ci troviamo, viceversa in un’azione in cui si vuole descrivere il vuoto entro cui si trova l’intellighenzia russa dopo il fallimento della rivoluzione decabrista del 1825. L’azione di  Pečorin, non solo nel brano presentato, è condotta per noia “Tutte queste cose le so già a memoria, ecco quel che è noioso!“. Egli infatti è il rappresentante dell’uomo che non crede più a nulla; “medicina e veleno” lo definisce lo stesso Lermontov: medicina perché attraverso la mostra di sé può illustrare la vacuità e quindi la possibilità di riscatto; veleno perché denota quasi l’impossibilità dell’uomo a risorgere dallo stato in cui versa la Russia di allora. Romanticamente potremo definire Pečorin come un demonio, ma se tale demonio nelle opere precedenti cercava l’assoluto, nell’Eroe del nostro tempo denuncia la vacuità anche dell’uomo superiore.

Altro grande narratore è certamente Aleksandr Sergeevič Puškin, anch’egli autore di liriche, ma soprattutto del romanzo in versi Evgenij Oneghin e La figlia del capitano.

AleksandrPushkin.jpgAleksandr Sergeevič Puškin

Anche Puškin nasce a Mosca, nel 1799, da un famiglia di letterati: se pertanto la sua giovinezza si nutre della ricca biblioteca familiare, così non si può dire per quanto riguarda l’aspetto affettivo. Del suo primo periodo, oltre a precettori francesi e tedeschi, gli rimane in mente la “njanja” Arina Radionovna, che gli racconta antiche fiabe popolari. Entrato in liceo, si accosta ad idee riformatrici, che lo fanno allontanare dalla capitale. Andato in esilio, viaggia in Crimea, nel Caucaso, in Moldavia, per terminare ad Odessa. Richiamato dalla corte (affinché potesse essere controllato meglio) sposa la bellissima Natal’ja Gončarova, da cui ebbe quattro figli; ma il suo comportamento frivolo, gli porta più di un dispiacere, tanto da sfidare a duello un barone francese: ferito a morte, muore dopo due giorni, nel 1837.

“Ma perché è così importante, Puškin? Tutti conosciamo i grandi romanzieri russi dell’otto e del novecento, ma prima, nel settecento, chi erano i romanzieri russi? Non c’erano: quei pochi, come Karamzin, scrivevano imitazioni dei romanzi francesi, perché i romanzi russi non esistevano. Era una cosa esotica, per un russo, scrivere romanzi, nel settecento, ed era esotico anche, per la classe colta, parlare in russo, perché la lingua madre della maggior parte dei nobili russi dei tempi di Puškin non era il russo, era il francese, il russo lo parlavano i servi della gleba, che erano la maggioranza della popolazione ma non sapevano leggere e scrivere. A Puškin era molto simpatica la sua njanja, la sua bambinaia, Arìna Rodiònovna, che era una serva della gleba e che gli ha insegnato una lingua che era parlata e compresa dalla stragrande maggioranza dei russi, ma che non aveva una letteratura. Puškin ha usato questa lingua per fondare la letteratura russa moderna, le ha dato una dignità letteraria, ha usato, per primo, questo strumento così duttile, così tenero e così violento, dando il via a una stagione letteraria stupefacente.” (Paolo Nori)

81TIfzOOr1L.jpgEdizione russa dell’Evgenij Oneghin

Nell’Evgenij Oneghin (1832), romanzo in versi, il protagonista è un dandy pietroburhese che rifiuta l’amore della bella e giovane Tatjana. Solo dopo molti anni la rincontra e stavolta s’innamora di lei, ma la donna nel frattempo si è sposata. Pur contraccambiando il suo amore, lo rifiuta per rispetto al marito. Più complessa la trama de La figlia del capitano (1834):

Romanzo storico. A raccontare la storia è l’ufficiale Grinjov, che ha assistito ai fatti e li descrive filtrandoli attraverso la sua sensibilità e cultura. Grinjov è di stanza nella fortezza di Belogòrsk, dove incontra e s’innamora di Mar’ja, la figlia del capitano Mirònov che è a capo dell’avamposto. La storia ha il suo culmine nell’attacco di Pugačëv al forte e nella sua conquista. Il capo dei ribelli fa giustiziare Mirònov, ma risparmia Grinjov per il coraggio dimostrato nel dichiararsi fedele all’imperatrice, e anzi lo libera. Grinjov viene per questo sospettato di tradimento e solo l’intervento di Mar’ja convincerà in seguito l’imperatrice  a concedergli la grazia. Non vi sarà invece scampo per Pugačëv, di lì a poco orrendamente giustiziato.

IL FAZZOLETTO BIANCO

Quella notte non dormii e non mi spogliai. Avevo intenzione di recarmi all’alba verso la porta della fortezza da dove Mar’ja Ivànovna sarebbe dovuta uscire e là dirle addio per l’ultima volta. Sentivo in me un gran cambiamento: l’agitazione della mia anima mi era molto meno penosa della malinconia nella quale ancora poco tempo prima ero sprofondato. Alla tristezza della separazione si univano in me anche confuse ma dolci speranze e l’impaziente attesa dei pericoli e il sentimento di una nobile ambizione. La notte passò inavvertitamente. Volevo già uscire di casa quando la mia porta si aprì e si presentò da me un caporale con la notizia che i nostri cosacchi di notte avevano lasciato la fortezza prendendo con sé a forza Jùlaj e che attorno alla fortezza si aggiravano degli sconosciuti. Il pensiero che Mar’ja Ivànovna non avrebbe fatto in tempo a uscire mi terrorizzava; diedi velocemente al caporale alcune istruzioni e mi precipitai dal comandante.
Si faceva ormai giorno. Volavo per strada quando sentii che mi si chiamavano. Mi fermai. «Dove va?» disse Ivàn Ignat’ič, raggiungendomi. «Ivàn Kuzmič è sul bastione e mi ha mandato a cercarla. E’ arrivato Pugàč». «Se n’è andata Mar’ja Ivànovna?» chiesi con un tremito al cuore. «Non ha fatto in tempo» rispose Ivàn Ignat’ič, «la strada per Orenbùrg è interrotta; la fortezza è accerchiata. Andiamo male, Pëtr Andreič!»
Andammo sul bastione: un’altura naturale fortificata con delle travi di legno. Là si ammassavano già tutti gli abitanti della fortezza. La guarnigione era in armi. Il cannone l’avevano trasferito lì il giorno prima. Il comandante andava avanti e indietro di fronte al suo esiguo schieramento. La vicinanza del pericolo aveva animato il vecchio militare di uno straordinario vigore. Nella steppa, a poca distanza dalla fortezza si aggirava una ventina di uomini a cavallo. Sembravano dei cosacchi, ma tra loro si trovavano anche dei baschiri, che si potevano facilmente riconoscere dai cappelli di lince e dalle faretre. Il comandante faceva il giro del suo esercito dicendo ai soldati: «Be’, bambini, difendiamo oggi la mammina imperatrice e dimostriamo a tutto il mondo che siamo gente brava e onorata!». I soldati manifestarono ad alta voce il loro zelo. Švabrin stava accanto a me e guardava fisso i nemici. Gli uomini che si aggiravano per la steppa, notando dei movimenti nella fortezza si riunirono in gruppo e si misero a parlare tra loro. Il comandante ordinò a Ivàn Ignat’ič di dirigere il cannone sul loro gruppo e accostò egli stesso la miccia. La palla fischiò e volò sopra di loro senza fare alcun danno. I cavalieri, disperdendosi, sparirono al galoppo e la steppa si vuotò.
Allora comparve sul bastione Vasilisa Egòrovna e con lei Maša, che non aveva voluto separasi da lei. «Be’?» disse la moglie del comandante «come va la battaglia? Dove sarebbe il nemico?» «Il nemico è vicino» rispose Ivàn Ignat’ič: «Se Dio vuole, tutto andrà bene. Be’, Maša, hai paura?» «No, babbo» rispose Mar’ja Ivànovna «a casa da sola è peggio.» Allora gettò uno sguardo su di me e con uno sforzo sorrise . Involontariamente strinsi l’elsa della mia spada ricordando che il giorno prima l’avevo ricevuta dalle sue mani, come a difendere la mia amata. Il mio cuore ardeva. Mi immaginavo di essere il suo cavaliere. Bramavo di dimostrare che ero degno della sua fiducia, e con impazienza mi misi ad aspettare il momento decisivo.
Intanto, da un’altura che si trovava a mezza versta dalla fortezza erano sbucate nuove masse a cavallo e presto la steppa fu popolata da una folla di uomini armati di lance e di archi. Tra di loro su un cavallo bianco c’era un uomo in caffettano rosso e in mano la spada sguainata: era Pugačëv in persona. Si fermò; lo circondarono, e, era evidente, per ordine suo quattro uomini si allontanarono e a tutta velocità galopparono fino alla fortezza. Riconoscemmo in loro i nostri traditori. Uno di essi teneva sopra al cappello un foglio di carta; un altro teneva sulla lancia la testa di Julàj, che, con uno scrollone, ci gettò attraverso la palizzata. La testa del povero calmucco cadde ai piedi del comandante. I traditori gridavano: «Non sparate; uscite incontro al sovrano. Il sovrano è qui!»
«Adesso ve lo do io»! gridò Ivàn Kuzmič «ragazzi fuoco!» I nostri soldati spararono una salva. Il cosacco che aveva la lettera barcollò e cadde da cavallo; gli altri galopparono indietro. Gettai uno sguardo a Mar’ja Ivànovna. Colpita dalla vista della testa insanguinata di Julàj, stordita dalla salva, sembrava senza sensi. Il comandante chiamò un caporale e gli ordinò di prendere il foglio dalle mani del cosacco ucciso. Il caporale uscì dal campo e ritornò conducendo per le briglie il cavallo dell’ucciso. Consegnò la lettera al comandante. Ivàn Kuzmič la lesse tra sé e poi la fece in pezzi. Nel frattempo i rivoltosi si preparavano evidentemente all’azione. Presto le pallottole cominciarono a fischiare alle nostre orecchie e alcune frecce si conficcarono attorno a noi per terra e sulle travi di legno. «Vasilisa Egòrovna!» disse il comandante «questa non è faccenda da donne; porta via Maša; vedi: la ragazza è più morta che viva.»
Vasilisa Egòrovna, resa docile dalle pallottole, gettò uno sguardo alla steppa, nella quale c’era un gran movimento; poi si voltò verso il marito e gli disse: «Ivàn Kuzmič, la vita e la morte dipendono dalla volontà di Dio: benedici Maša. Maša avvicinti a tuo padre!»
Maša, pallida e tremante, si avvicinò a Ivàn Kuzmič, si mise in ginocchio e gli si inchinò fino a terra. Il vecchio comandante le fece tre volte il segno della croce; poi la fece alzare e, baciandola, le disse con voce mutata: «Be’, Maša sii felice. Prega Dio: non ti abbandonerà. Se troverai un  uomo buono, che Dio vi dia amore e accordo. Vivete come abbiamo vissuto io e Vasilisa Egòrovna. Be’, addio Maša. Vasilisa Egòrovna, portala via, presto.» (Maša gli si gettò al collo e scoppiò in singhiozzi). «Baciamoci anche noi» disse, scoppiando a piangere la moglie del comandante «Addio, mio Ivàn Kuzmič. Perdonami se in qualche volta ti ho fatto arrabbiare!» «Addio, addio mammina!» disse il comandante abbracciando la sua vecchia. «Be’, basta! Andate, andate a casa; e se fai in tempo, metti a Maša il “sarafan”». La moglie del comandante si allontanò con la figlia.  Seguii con lo sguardo Mar’ja Ivànovna. Lei si girò a guardare e mi fece un segno con la testa. A questo punto Ivàn Kuzmič si voltò verso di noi e tutta la sua attenzione si fissò sui nemici. I rivoltosi si strinsero intorno al loro capo e d’un tratto cominciarono a scendere da cavallo. «Adesso tenetevi forte,» disse il comandante «ci sarà l’assalto…» In quel momento si sentirono uno strillo e delle grida; i rivoltosi correvano a piedi verso la fortezza. Il nostro cannone era caricato a mitraglia. Il comandante li fece arrivare aala più breve distanza possibile e all’improvviso sparò ancora. La mitraglia colpì al centro della folla. I rivoltosi si spostarono da entrambi i lati e indietreggiarono. Il loro capo rimase solo in testa… Agitò la spada e sembrava che cercasse di persuaderli con calore. Le strilla e le grida, che per un momento avevano taciuto, subito ricominciarono. «Be’, ragazzi», disse il comandante, «adesso apri la porta e batti il tamburo! Ragazzi, avanti, alla sortita, con me!»
Il comandante, Ivàn Ignat’ič e io in un attimo eravamo oltre il bastione della fortezza; ma la guarnigione intimorita non si mosse. «Cosa state fermi, bambini?» gridò Ivàn Kuzmič, «se c’è da morire, moriamo: siamo soldati!» In quel momento i rivoltosi erano arrivati fino a noi e irruppero nella fortezza. Il tamburo tacque; la guarnigione gettò i fucili; mi spinsero a terra, ma mi rialzai ed entrai con i rivoltosi nella fortezza. Il comandante, ferito alla testa, era in piedi tra un mucchio di delinquenti che gli chiedevano le chiavi. I stavo per gettarmi in suo aiuto; alcuni cosacchi robusti mi presero e mi legarono con delle cinture, dicendo: «Adesso vi danno quel che vi meritate, disubbidienti al sovrano!» Ci trascinarono per le strade; gli abitanti uscivano dalle case con il pane e il sale. Echeggiò il suono delle campane. All’improvviso nella folla gridarono aspettava in piazza i prigionieri e riceveva il giuramento. La folla si riversò in piazza; spinsero là anche noi.
Pugačëv sedeva in poltrona sul terrazzino d’ingresso della casa del comandante. Aveva un rosso caffettano da cosacco con i galloni cuciti. Un alto cappello di zibellino con nappe dorate era calcato sui suoi occhi scintillanti. Il suo viso mi sembrò conosciuto. I capi cosacchi lo circondavano. Padre Gherasim, pallido e tremante, stava sul terrazzino con una croce in mano e sembrava che lo supplicasse in silenzio per le vittime imminenti. Sulla piazza alzarono in fretta una forca. Quando ci avvicinammo, i baschiri dispersero la folla ci presentarono a Pugačëv. Il suono delle campane tacque; si fece un profondo silenzio. «Qual è il comandante?» chiese l’impostore. Il nostro sottufficiale uscì dalla folla e indicò Ivàn Kuzmič. Pugačëv guardò minaccioso il vecchio e gli chiese: «Come hai osato opporti a me, il tuo sovrano?» Il comandante, sfinito dalla ferita, raccolse le ultime forze e rispose con voce ferma: «Tu a me non sei sovrano; tu sei un ladro e un impostore, hai capito?» Pugačëv si accigliò cupamente e sventolò un fazzoletto bianco. Alcuni cosacchi afferrarono il vecchio capitano e lo trasportarono fino alla forca. Sulla traversa stava a cavallo il baschiro che avevamo interrogato alla vigilia. Teneva in mano la corda e un istante dopo vidi il povero Ivàn Kuzmič appeso all’aria. Allora condussero da Pugačëv Ivàn Ignat’ič. «Presta giuramento» gli disse Pugačëv «al sovrano Pëtr Feòdorovič!» «Tu a noi non sei sovrano» rispose Ivàn Ignat’ič, ripetendo le parole del suo capitano, «tu, zietto, sei un ladro e un impostore!» Pugačëv scosse ancora il fazzoletto e il buon tenente si librò in aria accanto al suo vecchio capo.
La fila era arrivata a me. Guardai coraggiosamente Pugačëv preparandomi a ripetere la risposta dei miei generosi compagni. Allora, con mio indescrivibile stupore, vidi tra i capi dei rivoltosi Švabrin, coi capelli tagliati in tondo e un caffettano cosacco. Si avvicinò a Pugačëv e gli disse all’orecchio alcune parole. «Appenderlo!» disse Pugačëv senza  guardarmi. Mi gettarono al collo un cappio. Cominciai a recitare tra me una preghiera recando a Dio un sincero pentimento di tutti i miei peccati e pregandolo per la salvezza di tutti coloro che erano vicini al mio cuore. Mi trascinarono sotto la forca. «Non aver paura, non aver paura» mi ripetevano i carnefici, desiderando forse davvero farmi coraggio. A un tratto sentii il grido: «Fermi, maledetti, aspettate!» I carnefici si arrestarono. Guardai: Savel’ič giaceva ai piedi di Pugačëv. «Padre mio!» diceva il povero servo «cosa ti viene dalla morte di un signorino? Lascialo libero; ti daranno un riscatto; e come esempio e per far paura ordina di appendere magari me che son vecchio!» Pugačëv fece un segno e mi slegarono e liberarono subito. «Il nostro babbino ti risparmia» mi dissero. In quel momento non posso dire che mi rallegrai della mia salvezza, non dirò tuttavia che me ne dispiacqui. I miei sentimenti erano troppo confusi. Mi portarono ancora dall’impostore e mi posero davanti a lui in ginocchio. Pugačëv mi tese la sua mano fitta di vene. «Bacia la mano, bacia la mano!» si diceva intorno a me. Ma io avrei preferito la pena più atroce a questa vile umiliazione. «Babbino Pëtr Andreič!» sussurava Savel’ič che stava dietro di me e mi spingeva: «non ostinarti! Cosa ti costa? Sputaci su e bacia al malf… (bah!) baciagli la mano.» Non mi muovevo. Pugačëv lasciò andare la mano dicendo con un sogghigno: – Sua signoria a quanto pare è ingrullito per la gioia. Alzatelo. Mi alzarono e mi lasciarono libero. Io misi a guardare il seguito dell’orribile commedia.

800px-Перов_Суд_Пугачева_(ГИМ).jpgL’esecuzione di Pugačëv

Il passo rispecchia certamente l’intero romanzo: ciò che emerge è il contrapporsi tra due forme di violenza sia di chi difende, sia di chi attacca. Puškin non giudica, presenta e per far questo adotta la tecnica dello straniamento: a raccontare è Grinjov che fedele all’imperatrice ma al contempo legato da un rapporto di sincerità con Pugačëv (lo incontra come contadino che lo aiuta a ritrovare la strada perduta durante una tormenta) non può prendere posizione, come il suo autore. Per lui, molto presumibilmente, alla luce della violenza contro il capitano della fortezza di Pugačëv e la sua terribile morte per mano dell’imperatrice, è necessario un mondo più tollerante, fatto di una politica più umana, quale nella Russia di Alessandro I e Nicola I non garantivano.

Italia

In Italia la poetica romantica accoglie in modo propositivo le istanze che giungono dalla cultura europea, ma mette anche a frutto gli insegnamenti sia del Monti con i suoi squarci notturni che del Foscolo, il cui romanzo epistolare funge, se così si può dire, da tramite tra le istanze di un preromanticismo già patriottico e le più mature battaglie insurrezionali e politiche che costelleranno la nostra storia nazionale.

I punti del romanticismo italiano sono:

  • la critica ma non l’abiura delle istanze illuministiche (critica al razionalismo più spinto, ma non alla verità);
  • la riscoperta del Medioevo (sulla stregua anche della lettura del romano di Walter Scott, Ivanhoe),
  • la rinascita religiosa (legata chiaramente anche al recupero dell’età di mezzo, in cui la credenza in Dio sovrintendeva ogni sapere ed ogni atto della vita) 
  • l’idea di Patria che s’accosta a quelle precedenti: non è un caso che sia proprio il Medioevo a porre fine all’Universalismo romano, e che le nuove realtà nazionali nascano proprio intorno all’anno 1000.

Sulla_maniera_e_la_utilità_delle_traduzioni.pdf.jpeg

Articolo della De Staël

Alla fine dell’esperienza napoleonica, i nuovi governanti austriaci, attraverso il ministro  Bellegarde, cercarono di convogliare su di sé l’approvazione della classe intellettuale di Milano, allora capitale culturale della penisola, attraverso la nascita di una rivista letteraria la Biblioteca Italiana, le cui pubblicazioni iniziarono nel 1814 e terminarono nel 1840. Nella città meneghina si trovavano Monti, Foscolo ed il giovane Manzoni; quest’ultimi rifiutarono, non così Monti che ne divenne direttore. Il Romanticismo italiano nesce nel gennaio del 1816 quando su questa rivista la ginevrina M.me De Staël pubblicò un articolo dal titolo Sulla maniera e sull’utilità delle traduzioni:

GLI ITALIANI SI RINNOVINO TRADUCENDO

L’Europa certamente non ha una traduzione omerica, di bellezza e di efficacia tanto prossima all’originale, come quella del Monti: nella quale è pompa ed insieme semplicità; le usanze più ordinarie della vita, le vesti, i conviti acquistano dignità dal naturale decoro delle frasi: un dipinger vero, uno stile facile ci addomestica a tutto ciò che ne’ fatti e negli uomini d’Omero è grande ed eroico. Niuno vorrà in Italia per lo innanzi tradurre la Iliade; poiché Omero non si potrà spogliare dell’abbigliamento onde il Monti lo rivestì: e a me pare che anche negli altri paesi europei chiunque non può sollevarsi alla lettura d’Omero originale, debba nella traduzione italiana prenderne il meglio possibile di conoscenza e di piacere. Non si traduce un poeta come col compasso si misurano e si riportano le dimensioni d’un edificio; ma a quel modo che una bella musica si ripete sopra un diverso istrumento: né importa che tu ci dia nel ritratto gli stessi lineamenti ad uno ad uno, purché vi sia nel tutto una eguale bellezza.
Dovrebbero a mio avviso gl’Italiani tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche; onde mostrare qualche novità a’ loro cittadini, i quali per lo più stanno contenti all’antica mitologia: né pensano che quelle favole sono da un pezzo anticate, anzi il resto d’Europa le ha già abbandonate e dimentiche. Perciò gl’intelletti della bella Italia, se amano di non giacere oziosi, rivolgano spesso l’attenzione al di là dall’Alpi, non dico per vestire le fogge straniere, ma per conoscerle; non per diventare imitatori, ma per uscire di quelle usanze viete, le quali durano nella letteratura come nelle compagnie i complimenti, a pregiudizio della naturale schiettezza. Che se le lettere si arricchiscono colle traduzioni de’ poemi; traducendo i drammi si conseguirebbe una molto maggiore utilità; poiché il teatro è come il magistrato della letteratura. Shakspeare tradotto con vivissima rassomiglianza dallo Schlegel, fu rappresentato ne’ teatri di Germania, come se Shakspeare e Schiller fossero divenuti concittadini. E facilmente in Italia si avrebbe un eguale effetto: né parmi a dubitare che sul bel teatro milanese non fosse gradita l’Atalía*, se i cori fossero accompagnati dalla stupenda musica italiana. Mi si dirà che in Italia vanno le genti al teatro, non per ascoltare, ma per unirsi ne’ palchetti gli amici più famigliari e cianciare. E io ne conchiuderò che lo stare ogni dì cinque ore ascoltando quelle che si chiamano parole dell’opera italiana, dee necessariamente fare ottuso, per mancanza di esercizio, l’intelletto d’una nazione. (…) In questa continua ed universale frivolezza di tutte le pubbliche e private radunanze, dove ognuno cerca l’altrui compagnia per fuggire sè stesso e liberarsi da un grave peso di noia, se voi poteste per mezzo a’ piaceri mescere qualche util vero e qualche buon concetto, porreste nelle menti un poco di serio e di pensoso, che le disporrebbe a divenire buone per qualche cosa.
Havvi oggidì nella Letteratura italiana una classe di eruditi che vanno continuamente razzolando le antiche ceneri, per trovarvi forse qualche granello d’oro: ed un’altra di scrittori senz’altro capitale che molta fiducia nella lor lingua armoniosa, donde raccozzano suoni vôti d’ogni pensiero, esclamazioni, declamazioni, invocazioni, che stordiscono gli orecchi, e trovan sordi i cuori altrui, perché non esalarono dal cuore dello scrittore. Non sarà egli dunque possibile che una emulazione operosa, un vivo desiderio d’esser applaudito ne’ teatri, conduca gl’ingegni italiani a quella meditazione che fa essere inventori, e a quella verità di concetti e di frasi nello stile, senza cui non ci è buona letteratura, e neppure alcuno elemento di essa?
Piace comunemente il drama in Italia: e degno è che piaccia sempre più, divenendo più perfetto e utile alla pubblica educazione: e nondimeno si dee desiderare che non impedisca il ritorno di quella frizzante giocondità onde per l’addietro era sì lieto. Tutte le cose buone devono essere tra sè amiche.
Gl’Italiani hanno nelle belle arti un gusto semplice e nobile. Ora la parola è pur una delle arti belle, e dovrebbe avere le qualità medesime che le altre hanno: giacché l’arte della parola è più intrinseca all’essenza dell’uomo; il quale può rimanersi piuttosto privo di pitture e di sculture e di monumenti, che di quelle imagini e di quegli affetti ai quali e le pitture e i monumenti si consacrano. Gl’Italiani ammirano e amano straordinariamente la loro lingua, che fu nobilitata da scrittori sommi: oltreché la nazione italiana non ebbe per lo più altra gloria, o altri piaceri, o altre consolazioni se non quelle che dava l’ingegno. Affinché l’individuo disposto da natura all’esercizio dell’intelletto senta in sè stesso una cagione di mettere in atto la sua naturale facoltà bisogna che le nazioni abbiano un interesse che le muova. Alcune l’hanno nella guerra, altre nella politica: gl’Italiani deono acquistar pregio dalle lettere e dalle arti; senza che giacerebbero in sonno oscuro, d’onde neppur il sole potrebbe svegliarli.

*Tragedia di Racine rappresentata in Italia nel 1692

Madame_de_Stael_4.jpgM.me De Staël

L’analisi della De Staël sulla cultura italiana è piuttosto attenta:

  • loda l’idioma, elogiando la musicalità della versificazione del Monti nella sua traduzione dell’Iliade omerica rispetto a tutte quelle europee;
  • critica l’esagerata venerazione verso gli autori antichi;
  • disapprova l’uso di tutta la tradizione mitologica, diventata vuota forma, capace di parlare all’intelletto ma non al cuore.

E’ evidente che l’appunto che fa l’intellettuale ginevrina va a colpire i fondamenti su cui si è basata sinora la nostra tradizione letteraria, la quale non ha voluto solamente “abbellire” con i riferimenti l’opera letteraria, ma dare ad essi la forza per il superamento dello spazio e del tempo che la cancellazione di essi e l’attenzione verso il presente porterebbero.

giordani_185d49f482d0e118d928168ede995943-2.jpgPietro Giordani

A lei risponde, sempre nella Biblioteca Italiana Pietro Giordani, nell’aprile del 1816:

UN ITALIANO RISPONDE A M.ME DE STAËL

Fra gli studi veramente utili ed onorevoli all’Italia porremo noi le traduzioni de’ poemi e de’ romanzi oltramontani? Sarà veramente arricchita la nostra letteratura adottando ciò che le fantasie settentrionali crearono? Così dice la baronessa, così credono alcuni italiani; ma io sto con quelli che pensano il contrario. Consideriamo prima la loro fondamentale ragione: ci vuole novità. Ma io dico: oggetto delle scienze è il vero, delle arti il bello. Non sarà dunque pregiato nelle scienze il nuovo, se non in quanto sia vero, e nelle arti, se non in quanto sia bello. Le scienze hanno un progresso infinito, e possono ogni dì trovare verità prima non sapute. Finito è il progresso delle arti: quando abbiano e trovato il bello, e saputo esprimerlo, in quello riposano. Né si creda sì angusto spazio, benché sia circoscritto. Se vogliamo che ci sia bello tutto ciò che ci è nuovo, perderemo ben presto la facoltà di conoscere e di sentire il bello. Gli artisti del disegno delirarono nel secolo decimosettimo, cercando nelle pitture, nelle statue, negli edifizi le più stravaganti novità; e uscirono affatto dalla bellezza e dalla convenienza; dove l’età nostra molto saviamente è ritornata. Ma l’arte di scrivere, che nel Seicento fu da moltissimi difformata per la stessa follia di novità, ha veramente mutato nel secol nostro, ma forse in peggio; in quanto che si è allontanata non pur dall’antico, ma dal nazionale. Ché almeno i seicentisti avevano una pazzia originale e italiana: la follia nostra è di scimie, e quindi tanto più deforme. Già si potrebbe molto disputare se sia veramente bello tutto ciò che alcuni ammirano ne’ poeti inglesi e tedeschi; e se molte cose non siano false, o esagerate, e però brutte; ma diasi che tutto sia bello; non per questo può riuscir bello a noi se lo mescoliamo alle cose nostre. O bisogna cessare affatto d’essere italiani, dimenticare la nostra lingua, la nostra istoria, mutare il nostro clima e la nostra fantasia, o, ritenendo queste cose, conviene che la poesia e la letteratura si mantenga italiana: ma non può mantenersi tale, frammischiandovi quelle idee settentrionali, che per nulla si possono confare alle nostre. Questa mescolanza di cose insociabili produrrebbe (come già troppo produce) componimenti simili a’ centauri, che l’antichità favolò generati dalle nuvole. Non dico per questo che non possa ragionevolmente un italiano voler conoscere le poesie e le fantasie de’ settentrionali, come può benissimo recarsi personalmente a visitare i lor paesi; ma nego che quelle letterature (comunque verso di sé belle e lodevoli) possano arricchire e abbellire la nostra, perché sono essenzialmente insociabili. Altro è andar nel Giappone per curiosità di vedere quasi un altro mondo dal nostro: altro è, tornato di là, volere fra gl’italiani vivere alla giapponese. Io voglio concedere a’ cinesi che abbia eleganza il loro vestire, abbia decoro il loro fabbricare, abbia grazia il loro dipingere. Ma se uno ci consigliasse di edificare e dipingere e vestire come i cinesi; poiché già è invecchiato il modo che noi teniamo di queste cose, parrebbeci buono il consiglio? Quante ragioni addurremmo di non doverlo né poterlo seguire! E della letteratura settentrionale oltre le ragioni abbiamo pur anche avviso dalla ’sperienza, che, innestata contro natura alle nostre lettere, ne ha fatto scomparire quel pochissimo che vi rimaneva d’italiano. Ognuno ponga mente come si scriva  in Italia, dappoiché vi regna Ossian; dietro cui è venuta numerosa turba di simili traduttori. E bello è che questi appassionati di Milton, o di Klopstok, non conoscono poi Dante, e non conosciuto lo disprezzano: cosa da far molto ridere e gl’inglesi e i tedeschi. Troppo è vero che agli stranieri debbano parere isterilite oggidì in Italia le lettere; ma questa povertà nasce da pigrizia di coltivare il fondo paterno; né per acquistar dovizia ci bisogna emigrare e gittarci sulle altrui possessioni, i cui frutti hanno sapore e sugo che a noi non si confà. Studino gl’Italiani ne’ propri classici, e ne’ latini e ne’ greci; de’ quali nella italiana più che in qualunque altra letteratura del mondo possono farsi begl’innesti; poiché ella è pure un ramo di quel tronco; laddove le altre hanno tutt’altra radice; e allora parrà a tutti fiorita e feconda. Se proseguiranno a cercare le cose oltramontane, accadrà che sempre più ci dispiacciano le nostre proprie (come tanto diverse) e cesseremo affatto dal poter fare quello di che i nostri maggiori furono tanto onorati; né però acquisteremo di saper fare bene e lodevolmente ciò che negli oltramontani piace; perché a loro il dà la natura, che a noi altramente comanda; e così in breve condurremo la nostra letteratura a somigliare quel mostro che Orazio descrisse nel principio della Poetica*.

*Orazio all’inizio dell’Ars Poetica immagina, come corrispettivo di un testo di troppo libera invenzione fantastica, un mostro con testa di donna, cervice equina e membra prese ad ogni sorta di animali e ricoperte di piume.

La lettera di Giordani viene posta all’interno della posizione critica di alcuni letterati italiani di fronte all’argomentazione della De Staël, posizione che, per facilità, inseriremo all’interno dei “classicisti”. Eppure, al di là della pacata argomentazione del Giordani, che riprende il concetto della atemporalità dell’arte (finito è il progresso delle arti: quando abbiano e trovato il bello, e saputo esprimerlo, in quello riposano), lo stesso sottolinea il concetto di “italianità” nell’utilizzo del classico per le nostre lettere; in effetti il Giordani, che approfondirà in seguito il suo liberalismo e patriottismo, teme lo snaturamento della tradizione culturale e quindi dell’italianità, in un momento storico in cui il tema dell’identità nazionale è centrale nell’ideologia risorgimentale.  

A favore della De Staël è invece Giovanni Berchet, che sempre nel 1816 scrive la fondamentale, per la poetica romantica, Lettera semiseria di Grisostomo per il suo figliolo: 

Giovanni_Berchet.jpgGiovanni Berchet

Il “PUBBLICO” ROMANTICO

Tutti gli uomini, da Adamo in giù fino al calzolaio che ti fa i begli stivali, hanno nel fondo dell’anima una tendenza alla poesia. Questa tendenza, che in pochissimi è attiva, negli altri non è che passiva, non è che una corda che risponde con simpatiche oscillazioni al tocco della prima.
La natura, versando a piene mani i suoi doni nell’animo di que’ rari individui ai quali ella concede la tendenza poetica attiva, pare che si compiaccia di crearli differenti affatto dagli altri uomini in mezzo a cui li fa nascere. Di qui le antiche favole sulla quasi divina origine de’ poeti, e gli antichi pregiudizi sui miracoli loro, e l’«est deus in nobis». Di qui il più vero dettato di tutti i filosofi: che i poeti fanno classe a parte, e non sono cittadini di una sola società ma dell’intero universo. E per verità chi misurasse la sapienza delle nazioni dalla eccellenza de’ loro poeti, parmi che non iscandaglierebbe da savio. Né savio terrei chi nelle dispute letterarie introducesse i rancori e le rivalità nazionali. OmeroShakespeare, il Calderon, il Camoens, il Racine, lo Schiller per me sono italiani di patria tanto quanto Dante, l’Ariosto e l’Alfieri. La repubblica delle lettere non è che una, e i poeti ne sono concittadini tutti indistintamente. La predilezione con cui ciascheduno di essi guarda quel tratto di terra ove nacque, quella lingua che da fanciullo imparò, non nuoce mai alla energia dell’amore che il vero poeta consacra per instituto dell’arte sua a tutta insieme la umana razza, né alla intensa volontà per la quale egli studia colle opere sue di provvedere al diletto ed alla educazione di tutta insieme l’umana razza. Però questo amore universale, che governa l’intenzione de’ poeti, mette universalmente nella coscienza degli uomini l’obbligo della gratitudine e del rispetto; e nessuna occasione politica può sciogliere noi da questo sacro dovere. Finanche l’ira della guerra rispetta la tomba d’Omero e la casa di Pindaro.
Il poeta dunque sbalza fuori delle mani della natura in ogni tempo, in ogni luogo. Ma per quanto esimio egli sia, non arriverà mai a scuotere fortemente l’animo de’ lettori suoi, né mai potrà ritrarre alto e sentito applauso, se questi non sono ricchi anch’essi della tendenza poetica passiva. Ora siffatta disposizione degli animi umani, quantunque universale, non è in tutti gli uomini ugualmente squisita.
Lo stupido ottentoto, sdraiato sulla soglia della sua capanna, guarda i campi di sabbia che la circondano, e s’addormenta. Esce de’ suoi sonni, guarda in alto, vede un cielo uniforme stendersegli sopra del capo, e s’addormenta. Avvolto perpetuamente tra ’l fumo del suo tugurio e il fetore delle sue capre, egli non ha altri oggetti dei quali domandare alla propria memoria l’immagine, pe’ quali il cuore gli batta di desiderio. Però alla inerzia della fantasia e del cuore in lui tiene dietro di necessità quella della tendenza poetica.
Per lo contrario un parigino agiato ed ingentilito da tutto il lusso di quella gran capitale, onde pervenire a tanta civilizzazione, è passato attraverso una folta immensa di oggetti, attraverso mille e mille combinazioni di accidenti. Quindi la fantasia di lui è stracca, il cuore allentato per troppo esercizio. Le apparenze esterne delle cose non lo lusingano (per così dire); gli effetti di esse non lo commovono più, perché ripetuti le tante volte. E per togliersi di dosso la noia, bisogna a lui investigare le cagioni, giovandosi della mente. Questa sua mente inquisitiva cresce di necessità in vigoria, da che l’anima a pro di lei spende anche gran parte di quelle forze che in altri destina alla fantasia ed al cuore; cresce in arguzia per gli sforzi frequenti a’ quali la meditazione la costringe. E il parigino di cui io parlo, anche senza avvedersene, viene assuefacendosi a perpetui raziocini o, per dirla a modo del Vico, diventa filosofo.
Se la stupidità dell’ottentoto è nimica alla poesia, non è certo favorevole molto a lei la somma civilizzazione del parigino. Nel primo la tendenza poetica è sopita; nel secondo è sciupata in gran parte. I canti del poeta non penetrano nell’anima del primo, perché non trovano la via d’entrarvi. Nell’anima del secondo appena appena discendono accompagnati da paragoni e da raziocini: la fantasia ed il cuore non rispondono loro che come a reminiscenze lontane. E siffatti canti, che sono l’espressione arditissima di tutto ciò che v’ha di più fervido nell’umano pensiero, potranno essi trovar fortuna fra tanto gelo? E che maraviglia se, presso del parigino ingentilito, quel poeta sarà più bene accolto che più penderà all’epigrammatico?
Ma la stupidità dell’ottentoto è separata dalla leziosaggine del parigino fin ora descritto per mezzo di gradi moltissimi di civilizzazione, che più o meno dispongono l’uomo alla poesia. E s’io dovessi indicare uomini che più si trovino oggidì in questa disposizione poetica, parmi che andrei a cercarli in una parte della Germania.
A consolazione non pertanto de’ poeti, in ogni terra, ovunque è coltura intellettuale, vi hanno uomini capaci di sentire poesia. Ve n’ha bensì in copia ora maggiore, ora minore; ma tuttavia sufficiente sempre. Ma fa d’uopo conoscerli e ravvisarli ben bene, e tenerne conto. Ma il poeta non si accorgerà mai della loro esistenza, se per rinvenirli visita le ultime casipole della plebe affamata, e di là salta a dirittura nelle botteghe da caffè, ne’ gabinetti delle Aspasie, nelle corti de’ principi, e nulla più. Ad ogni tratto egli rischierá di cogliere in iscambio la sua patria, ora credendola il capo di Buona speranza, ora il cortile del Palais-royal. E dell’indole dei suoi concittadini egli non saprà mai un ette.
Ché s’egli considera che la sua nazione non la compongono que’ dugento che gli stanno intorno nelle veglie e ne’ conviti; se egli ha mente a questo: che mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne’ teatri; può essere che a lui si schiarisca innanzi un altro orizzonte, può essere che egli venga accostumandosi ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni.
L’annoverare qui gli accidenti fisici propizi o avversi alla tendenza poetica; il dire minutamente come questa, del pari che la virtù morale, possa essere aumentata o ristretta in una nazione dalla natura delle instituzioni civili, delle leggi religiose e di altre circostanze politiche; non fa all’intendimento mio. Te ne discorreranno, o carissimo, a tempo opportuno, i libri ch’io ti presterò. Basti a te per ora il sapere che tutte le presenti nazioni d’Europa — l’italiana anch’essa né più né meno — sono formate da tre classi d’individui: l’una di ottentoti, l’una di parigini e l’una, per ultimo, che comprende tutti gli altri individui leggenti ed ascoltanti, non eccettuati quelli che, avendo anche studiato ed esperimentato quant’altri, pur tuttavia ritengono attitudine alle emozioni. A questi tutti io do nome di «popolo».

Cosa afferma Berchet in questa celeberrima lettera? Il letterato lombardo parte da Giovambattista Vico, il quale afferma che dapprima gli uomini sono poeti e poi filosofi, definendo tale passaggio come crescita; Berchet la rovescia, dando la palma alla capacità poetica umana che è universale. Tuttavia tale capacità può essere distribuita in tre tipologie umane differenti:

  • passiva: gli ottentotti, originariamente popolazione dell’Africa meridionale, per Berchet coloro che non possono e non sanno sollevarsi al di sopra di semplici bisogni fisici;
  • spenta: i parigini, figli dell’illuminismo raziocinante e classicisti, così abituati alle raffinatezze letterarie da non saper più parlare “al cuore e alla fantasia”
  • attiva: quella parte della popolazione a cui l’attività poetica non è ancora stata spenta, ma non trova corrispondenza letteraria che possa ravvivarla: tale compito spetta alla letteratura romantica.

Berchet non ne parla, ma è evidente che il suo discorso non può prescindere dall’attenzione che la cultura romantica deve alla lingua da utilizzare: infatti la lingua poetica sinora utilizzata, per Berchet,  non può essere che quella “dei parigini”; quella per il romanzo, genere di nessuna tradizione nelle nostre lettere, – lo Jacopo Ortis foscoliano è, linguisticamente parlando, lirico) non esiste ancora (ci penserà, appunto, Manzoni). 

12137967030.jpgIl vocabolario della Crusca del 1806

Ma perché nell’Ottocento diventa cruciale il discorso linguistico? Semplicemente perché l’Italia non è unita né politicamente né linguisticamente ed è sotto il controllo straniero; se il Romanticismo, ed il Risorgimento ad esso legato, mettono al centro della loro riflessione politica e culturale l’identità di nazione, risulta evidente che essa va cercata anche e soprattutto in una unificazione linguistica. Tre sono le teorie che qui velocemente riportiamo:

  • Il purismo di Antonio Cesari e Basilio Puoti, secondo il quale la lingua letteraria deve riprendere i grandi trecentisti sino agli scrittori rinascimentali; aspra è la sua battaglia contro i francesismi (d’illuministica memoria), che assumono tuttavia anche valore politico;
  • Moderatismo classicista i cui maggiori esponenti furono Vincenzo Monti e Pietro Giordani, secondo i quali non è corretto escludere tutta la tradizione letteraria; la lingua pertanto dovrà essere modellata sull’esempio dei grandi scrittori, ma non dovrà escludere le sollecitazioni che gli giungono dall’età presente (si pensi al linguaggio medico e tecnico)
  • Moderno e nazionale, così come la vogliono i romantici, capace di sollecitare il pubblico offrendo loro un prodotto che parli al cuore e alla fantasia. Tale proposito l’affronterà in seguito il Manzoni che non interverrà in modo diretto sulla “questione della lingua”, quanto, piuttosto, in modo “pratico”; I promessi sposi sono infatti un esempio probante di una lingua nazionale e popolare, ottenuta utilizzando il toscano parlato dalle persone colte.

Il Romanticismo italiano, al pari e forse più dell’Illuminismo, coinvolto, come già detto, alla storia nazionale, non può prescindere dalla diffusione di idee, progetti, così come non può fare a meno di discussioni culturali e/o politiche. Per questo egli riprende e accentua l’importanza delle riviste: come per il ‘700 illuminato era stato fondamentale Il Caffè, per la cultura romantica saranno fondamentali Il Conciliatore, l’Antologia ed il Politecnico.

Il_Conciliatore_1818.jpg

Il Conciliatore o Foglio azzurro per il colore delle sue pagine, durò soltanto un anno, dal 1818 al 1819, perché mal visto dall’autorità austriaca che vedeva in esso uno strumento politico più che letterario. Il suo programma si basa sul concetto di utilità generale, dice Borsieri, nel primo numero della rivista, a nome dell’intera redazione:

L’utilità generale deve essere senza dubbio il primo scopo di chiunque vuole in qualsiasi modo dedicare i suoi pensieri al servizio del Pubblico; e quindi i libri e gli scritti di ogni sorta, se dalla utilità vadano scompagnati, possono meritamente assomigliarsi a belle e frondose piante che non portano frutto, e che il buon padre di famiglia esclude dal suo campo. Partendo da questo principio parve agli Estensori del “Conciliatore” che due cose fossero da farsi nella scelta delle materie. Preferire in prima quelle, le quali sono immediatamente riconosciute utili dal maggior numero; ed unirle ad altre che, oltre l’essere dilettevoli di lor natura, avvezzano altresì gli uomini a rivolgere la propria attenzione sopra se stessi, e possono quando che sia recar loro una utilità egualmente reale, quantunque non egualmente sentita.

Il Conciliatore nasce con l’intenzione di riunire gli intellettuali italiani, fossero anche di estrazione diversa ad un progetto comune, per meglio dire conciliare differenti sensibilità per agire per il progresso del paese.  Ma il nome della rivista, che chiaramente si opponeva alla filogovernativa Biblioteca Italiana, voleva anche “conciliare” la volontà di progresso tipica dell’Illuminismo con lo spirito romantico (aspetto che sarà tipico dei nostri maggiori romantici, Manzoni e Leopardi). Tuttavia l’idea di rinnovamento culturale e sociale non poteva non incontrare dapprima il contrasto, quindi l’opposizione del governo austriaco, che decise di convocare il direttore Silvio Pellico e di bandirlo da Milano se avesse continuato a pubblicare articoli “politici”. Pertanto la redazione decise di chiudere la rivista.

Giovan_Pietro_Vieusseux.jpgGiampiero Viesseux

L’Antologia può definirsi come l’erede della rivista milanese. Pubblicato nel tollerante Granducato di Toscana di Ferdinando III tra il 1821 ed il 1832, quando fu chiusa dopo i moti del ”31 in un nuovo clima di sospetto e repressioni. Più moderata del Conciliatore, la rivista tuttavia per chi vi collaborò mostrava chiaramente un ispirazione liberale e cattolica. Essa nacque dall’incontro tra Gino Capponi e Giampiero Viesseux e si riuniva appunto nel “Gabinetto scientifico-letterario Viesseux”, (gabinetto da cabinet francese piccolo luogo; ancora oggi si usa a livello politico: gabinetto di governo, cioè consiglio dei ministri) e venne frequentati da famosi letterari del tempo fra i quali ricordiamo Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni ed il francese Stendhal.

Vieusseux-salaFerri.jpg  Il Gabinetto Viesseux oggi (Sala Ferri)

La poesia romantica in Italia, al di là dell’esperienza leopardiana e manzoniana, per il resto è piuttosto caduca; potremo parlare tuttavia di diversi indirizzi: quello prettamente romantico, per citare i più rappresentativi, del Berchet e Grossi; il maggiormente politico, si pensi a Goffredo Mameli; l’importante (forse non nazionale) poesia dialettale di Carlo Porta (milanese) e Giuseppe Gioacchino Belli (romano); quella del secondo romanticismo, maggiormente sentimentale di Prati e Aleardi.

Cominciamo con Giovanni Berchet, di cui abbiamo già visto l’intervento teorico a sostegno della De Staël.  Nato a Milano nel 1873, sin da giovane si accosta  al romanticismo letterario per poi approdare alla carboneria durante i moti del ’21. Costretto a fuggire prima a Parigi e poi a Londra per una quindicina d’anni, fu lì, in esilio, che scrisse le sue principali opere. Tornato partecipò alla rivolta milanese del ’48. Al fallimento del moto rivoluzionario riparò in Piemonte, dove venne eletto deputato. Morì nel 1851.

IL TROVATORE

Va per la selva bruna 
solingo il Trovator 
domato dal rigor 
della fortuna. 

La faccia sua sì bella 
la disfiorò il dolor; 
la voce del cantor 
non è più quella. 

Ardea nel suo segreto; 
e i voti, i lai, l’ardor 
alla canzon d’amor 
fidò indiscreto. 

Dal talamo inacesso 
udillo il suo Signor: 
l’improvido cantor 
tradì se stesso. 

Pei dì del giovanetto 
tremò alla donna il cor,  
ignora fino allor 
di tanto affetto. 

E supplice al geloso, 
ne contenea il furor: 
bella del proprio onor 
piacque allo sposo. 

Rise l’ingenua. Blando 
l’accarezzò il signor; 
ma il giovan trovator 
cacciato è in bando. 

De’ cari occhi fatali 
più non vedrà il fulgor, 
non berrà più da lor 
l’obblio de’ mali. 

Varcò quegli atri muto 
ch’ei rallegrava ognor 
con gl’inni del valor, 
col suo liuto. 

Scese, varcò le porte; 
stette, guardolle ancor; 
e gli scoppiava il cor 
come per morte. 

Venne alla selva bruna: 
qui erra il trovator, 
fuggendo ogni chiaror 
fuor che la luna. 

La guancia sua sì bella 
più non somiglia a un fior; 
la voce del cantor 
non è più quella.

5005829.jpgEdizione inglese delle “Romanze” di Berchet

Il Trovatore, considerato da molti il capolavoro del Berchet, si presenta in modo paradigmatico riguardo la poetica romantica italiana; in esso infatti troviamo:

  • tema sentimentale: un amore descritto in modo etereo, vago, in cui un giovane trovatore,
    innamorato della della donna del Signore, viene scoperto e quindi bandito dalla patria;
  • tema nazionale: il passo viene letto attraverso un’allegoria politica: il Signore rappresenta l’Austria, la castellana l’Italia ed il trovatore i patrioti costretti vagare lontano dalla patria. Ci piace ricordare che a fianco alla lettura (forse un po’ forzata) politica vi è anche quella autobiografica;
  • tema storico: la riscoperta del Medioevo;
  • La popolarità della lettura: Berchet ottiene la popolarità scegliendo come genere la romanza, dal carattere musicale ottenuto con l’utilizzo di stanze di quattro versi di cui i primi tre settenari e il quarto quinario con rime alternate di cui la terza e quarta in monorime. Continuo l’utilizzo delle parole tronche a dare velocità ed armonia al testo. Il lessico, pur ricercato, rifugge da ogni forma di mitologia e di intellettualismo spinto, riuscendo pertanto comprensibile ai lettori.

Giuseppe_Giusti_1.jpgGiuseppe Giusti

Giuseppe Giusti è un poeta toscano, nato da agiata famiglia presso Pistoia nel 1809. Conobbe a Milano Alessandro Manzoni ed altri intellettuali lombardi. La loro amicizia lo avvicinò ad ideologie liberali. Partì per Firenze dove partecipò ai moti del ’48. Morì di tisi a casa di un suo amico nel 1840.

IL RE TRAVICELLO

Al Re Travicello
piovuto ai ranocchi,  
mi levo il cappello
e piego i ginocchi;
lo predico anch’io
cascato da Dio: 
oh comodo, oh bello
un Re Travicello!

Calò nel suo regno
con molto fracasso;
le teste di legno
fan sempre del chiasso:
ma subito tacque,
e al sommo dell’acque
rimase un corbello
il Re Travicello.

Da tutto il pantano
veduto quel coso, 
«È questo il Sovrano
così rumoroso?
(s’udì gracidare).
Per farsi fischiare
fa tanto bordello
un Re Travicello?

Un tronco piallato 
avrà la corona? 
O Giove ha sbagliato, 
oppur ci minchiona: 
sia dato lo sfratto 
al Re mentecatto, 
si mandi in appello 
il Re Travicello.»

Tacete, tacete;
lasciate il reame,
o bestie che siete,
a un Re di legname.
Non tira a pelare,
vi lascia cantare,
non apre macello
un Re Travicello.

Là là per la reggia
dal vento portato,
tentenna, galleggia,
e mai dello Stato
non pesca nel fondo:
Che scienza di mondo!
Che Re di cervello
è un Re Travicello!

Se a caso s’adopra
d’intingere il capo,
vedete? di sopra
lo porta daccapo
la sua leggerezza.
chiamatelo Altezza,
chè torna a capello
a un Re Travicello.

Volete il serpente
che il sonno vi scuota?
Dormite contente
costì nella mota,
o bestie impotenti:
per chi non ha denti,
è fatto a pennello
un Re Travicello!

Un popolo pieno
di tante fortune,
può farne di meno
del senso comune.
Che popolo ammodo
che Principe sodo
che santo modello
un Re Travicello!

La poesia del Grossi, formata da 9 strofe di otto versi senari con rima alternata per i primi quattro e baciata per gli altri quattro versi, unisce alla cosiddetta “popolarità” il sarcasmo tipico della cultura toscana. La prima è ottenuta riprendendo una celeberrima favola di Esopo, rielaborata in seguito anche in lingua latina da Fedro, nella quale si racconta appunto che alle rane di uno stagno che con insistenza chiedevano un re, Zeus gettò un pezzo di legno, un travicello, appunto, che venne accolto con tutti gli onori. Non passò tuttvia molto tempo che, stanche di vederlo galleggiare immobile e muto, le rane ripresero a protestare vivacemente; allora Zeus inviò loro un serpente che le divorò tutte. Giusti cambia il finale, adattandolo alla sua allegoria: sembra infatti che il poeta volesse alludere al granduca di Toscana Leopoldo II che con la sua politica attendista e fortemente tollerante cercava di “addormentare” i fermenti di ribellione presenti in Toscana.

Di carattere chiaramente politico è il testo di Goffredo Mameli, (morto giovanissimo a 22 anni nella difesa della Repubblica Romana) musicato in seguito da Michele Notaro:

D Induno, Mameli.jpgGoffredo Mameli

CANTO DEGLI ITALIANI

Fratelli d’Italia
l’Italia s’è desta,
dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l’Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.

Fratelli d’Italia / L’Italia si è svegliata, / si è messa in capo l’elmo di Scipione (che aveva conquistato l’Africa) / Dov’è la vittoria? / (La vittoria) porga il capo (all’Italia) / che Dio la creò schiava di Roma // Stringiamoci a coorte (suddivisione compatta di una legione romana) / siamo pronti a morire / l’Italia ci ha chiamato // Noi siamo da secoli / calpestati, derisi / perché non non siamo un popolo / perché siamo divisi / ci raccolga un’unica / bandiera, un’unica speranza / è arrivata già l’ora di unirci tutti insieme. // Stringiamoci a coorte (suddivisione compatta di una legione romana) / siamo pronti a morire / l’Italia ci ha chiamato // Uniamoci, amiamoci / l’unione politica e l’amore / mostrano al popolo / la via di Dio, / chi può allora vincerci? // Stringiamoci a coorte (suddivisione compatta di una legione romana) / siamo pronti a morire / l’Italia ci ha chiamato // Dalle Alpi sino alla Sicilia / dovunque è Legnano (dove si mostrò lo spirito che condusse la Lega Lombarda a sconfiggere l’imperatore Federgo Barbarossa nel 1176) / ogni uomo ha il coraggio di Ferruccio (militare che nel 1530 morì in difesa della Repubblica di Firenze contro le truppe imperiali) / i bambini d’Italia si chiamano Balilla (Giovanni Battista Perasso, soprannominato Balilla, nel 1746, lanciando una pietra contro un ufficiale, diede l’avvio a Genova alla rivoluzione che cacciò gli Austriaci dalla città) / i suoni di ogni tromba / ci richiama ad unirci (come in Sicilia, quando nel 1282, i palermitani si rivolsero contro gli Angioini, episodio storico che prende il nome di Vespri siciliani) // Le spade (dei mercenari) / sono giunchi che si piegano / ah, l’aquila imperiale / sta perdendo le penne / che ha bevuto / il sangue d’Italia / ed insieme alla Russia / il sangue di Polonia / ma quel sangue gli ha bruciato il cuore.

Quello che nel 1946 era ancora un Inno provvisorio, ma venne composto alla vigilia dell’insurrezione di Milano.  In esso si notano le principali caratteristiche della poesia – in questo caso consapevolmente canzone – risorgimentale: aulicità del dettato con ripetute inversioni, l’uso della prosopopea, ancora il richiamo a diversi momenti storici, dalla storia romana fino al ‘700, anche con accenni certamente intuibili dai rivoluzionari. Il testo del Mameli è chiaramente d’ispirazione mazziniana, così come si comprende dal riferimento alla benedizione divina per l’azione rivoluzionaria.

(Vi riporto gli ultimi anni dell’iter incredibile che fece diventare questo testo il nostro Inno nazionale: Il 29 giugno 2016, sulla scia del provvedimento del 23 novembre 2012, è stata presentata alla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati una proposta di legge per rendere il Canto degli Italiani inno ufficiale della Repubblica Italiana. Il 25 ottobre 2017, la Commissione Affari costituzionali della Camera ha approvato tale proposta di legge, coi relativi emendamenti e il 27 ottobre, il disegno di legge è passato all’omologa commissione del Senato della Repubblica. Il 15 novembre 2017 il disegno di legge che riconosce il Canto degli Italiani di Goffredo Mameli e di Michele Novaro quale inno nazionale della Repubblica Italiana è stato approvato in via definita dalla Commissione Affari costituzionali del Senato.  Visto che le due citate commissioni parlamentari hanno approvato il provvedimento in “sede legislativa”, quest’ultimo è stato direttamente promulgato dal Presidente della Repubblica Italiana il 4 dicembre 2017 come “legge nº 181” senza la necessità dei consueti passaggi nelle aule parlamentari. Il 15 dicembre 2017 l’iter si è concluso definitivamente, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della legge nº 181 del 4 dicembre 2017, avente titolo “Riconoscimento del «Canto degli italiani» di Goffredo Mameli quale inno nazionale della Repubblica”, che è entrata in vigore il 30 dicembre 2017. I due commi che compongono la legge recitano:
«1. La Repubblica riconosce il testo del «Canto degli italiani» di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale.
2. Con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera ii), della legge 12 gennaio 1991, n. 13, sono stabilite le modalità di esecuzione del «Canto degli italiani» quale inno nazionale. La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.»
Data a Roma, addì 4 dicembre 2017

La seconda generazione romantica vide la luce dopo il fallimento dei moti rivoluzionari del ’48. In essa, soprattutto nella lirica, si nota un ripiegamento delle istanze precedentemente presenti sia sul piano del contenuto, dove, seppure si affrontava il discorso politico, spesso si cadeva nella retorica, oppure se il tema toccava i sentimenti si poteva scivolare nel lezioso.

I più rappresentativi poeti di questo periodo possiamo individuarli in Aleardo Aleardi (nato nel 1812) e Giovanni Prati (nato nel 1814), amici e collaboratori del periodico Il caffé Petrocchi. Impegnati politicamente ambedue vissero momenti di contrasto, conclusi con un temporaneo arresto da parte degli austriaci, ed ambedue conclusero la loro vita come senatori del Regno. Muoiono a Roma, il primo nel 1873, Prati nel 1884.

Portrait-of-Aleardo-Aleardi-Domenico-Induno-Oil-Painting.jpgDomenico Induno: Ritratto di Aleardo Aleardi

ALEARDO ALEARDI: LE TRE SORELLE

Morían l’autunno e il giorno; ed io sedea
s’una eminente pietra
al passo de la tetra
via che mena a la selva. Una serena
primizia di crepuscolo scendea
su la valle profonda,
dove flotta del glauco Adige l’onda;
mentre ancora sul monte
scintillavano i vetri
d’un paesel lontano,
e il sol dall’orizzonte
saettava sul piano
purissimo del Garda
una striscia d’instabili splendori,
quasi magico ponte, onde le nostre
mutue speranze varchino e i dolori
da la veneta sponda a la lombarda.

Poscia di sotto a un padiglion di foco
tremolando la spera
calava a poco a poco;
calar pareva dietro a la pendice
d’un de’ tuoi monti fertili di spade,
Niobe guerriera de le mie contrade,
leonessa d’Italia,
Brescia grande e infelice.
Accese nuvolette di corallo
rideano ancor per gli ampi
spazi del cielo; ma col mesto riso
del moribondo pio
che accenna col sereno occhio un addio,
movendo al paradiso.

E dal sentïer che adduce
giù da la selva io vidi
a la quieta luce
venire una fanciulla
pur sotto il fascio de le legne altera;
bruna la faccia e il crine
e la pupilla nera,
come frutto di spine.
Ella piangea. «Dimmi l’affanno, o bella
fanciulla, che ài nel core.»
Io le richiesi; ed ella
Risposemi: «Signore,
ieri legato al par d’un omicida
m’ànno condotto a la prigione il padre,
perchè lo colser là, con la sua fida
canna che fulminava una pernice.
Io penso all’infelice,
io penso a la cadente avola mia».
E più non disse, e seguitò la via.

Qui sono riportate le prime due sezioni su cinque di cui è composto l’intero testo poetico. Vi si immagina che il poeta, seduto meditabondo sull’alta costa di un monte da cui si domina la valle dell’Adige e il lago di Garda (descrizione delle prime due stanze) e quindi incontri tre fanciulle (la prima è qui riportata nella terza stanza), tutte colpite da una pena inflitta loro dagli austriaci. Il testo ci offre la possibilità di analizzare come nell’Aleardi vengano compendiate tutte le reminiscenze poetiche tipiche dell’esperienza romantica, dagli idilli leopardiani alle ballate e canzoni popolareggianti. 

effc873eee7044339c8261a4a298357a-1.jpgGiovanni Prati

GIOVANNI PRATI: NOTTE

Chiusa è la stanza; il lumicino è spento;
tacita è l’ombra; e qui pensoso io giaccio.
L’andar dell’oriuolo, altro non sento;
e cadrò presto a’ vani sogni in braccio.

Saprà darmi letizia o turbamento
il fantastico mondo, a cui m’affaccio?
e il cardellino o la procella o il vento
mi solverà da l’incantato laccio?

Vedrò il domani e i miei ? vedrò la stanza
rivisitata da l’ambrosia luce?
Vegli su me la carità de’ numi.

Sebben, dolce sarebbe oltr’ogni usanza,
dentro un sogno d’amor che al ciel conduce,
chiudere al tempo e non aprir più i lumi. 

“In Psiche, raccolta poetica in cui è inserito questo sonetto, i toni della poesia di Prati si fanno dolenti e malinconici. Vibra il senso del fallimento delle ambizioni personali e degli ideali storico-politici, e il poeta si rifugia nella dimensione privata del quotidiano (la presenza rassicurante delle cose di tutti i giorni, l’orologio, il cardellino, il vento…, che sembrano anticipare alla lontana Pascoli). L’aspirazione dell’animo, pervaso di vittimismo, è quella ad evadere nel sogno e in luoghi incantati, dove dimenticare le delusioni della vita. Nel finale, il sonetto si apre ad una prospettiva vagamente religiosa, in una recuperata sintonia con il tutto che si pone a mezzo tra il Romanticismo tedesco e certa estenuata religiosità decadente. Tuttavia è inutile cercare una qualche responsabilità ideologica: Prati mescola i numi di classica ascendenza con il sogno d’amor, così rivelando come la sua sia una fantasticheria innanzi tutto letteraria. (…) Il linguaggio permane troppo letterario, sospeso com’è tra la leziosità (il lumicino, l’oriuolo) e il sublime classicheggiante (l’ambrosia luce, i numi).” (Barbéri Squarotti).

Il Romanticismo lirico, oltre le naturali altissime esperienze di Manzoni e Leopardi, lo dobbiamo ricercare nella poesia dialettale. Infatti la scelta di inserirsi nel dibattito linguistico attraverso il dialetto raggiungeva due obiettivi fondamentali: quello della “reale” popolarità, dove il popolo non è il borghese di Berchet, ma quello reale che l’italiano non lo parla e si esprime solo nel linguaggio materno; l’altro la maggiore aderenza verso il reale, non come obiettivo da raggiungere, com’era per l’illuminismo, ma come rappresentazione dei reali sentimenti del popolo.

Carlo_Porta_1844.jpg

Carlo Porta

Carlo Porta raggiunge con la sua poesia vette elevatissime. Egli appartiene alla prima generazione romantica, essendo nato nel 1775. Di padre borghese, si allontana da Milano solo in due occasioni: una in Baviera, per imparare il tedesco, l’altra a Venezia, dove si diverte, spendendo gran parte del proprio denaro. Torna a Milano ma, con l’arrivo dei Francesi (1800), viene allontanato dagli incarichi pubblici cui si era appena avviato. Li riprende con Napoleone, che gli affida il compito di cassiere generale al Monte (che lo metterà a contatto con la parte più debole della popolazione). Manterrà tale funzione anche con il ritorno degli austriaci. Morirà deluso, perché gli viene attribuito un testo di violenta satira contro il potere che lo metterà in seri guai con l’amministrazione austriaca (in realtà lo scrisse Porta), e malato di gotta, nel 1821.

OFFERTA A DIO

Donna Fabia Fabron de Fabrian
l’eva settada al foeugh sabet passaa
col pader Sigismond ex franzescan,
che intrattant el ghe usava la bontaa 
(intrattanta, s’intend, che el ris coseva)
de scoltagh sto discors che la faseva.

«Ora mai anche mì don Sigismond
convengo appien nella di lei paura
che sia prossima assai la fin del mond,
ché vedo cose di una tal natura,
d’una natura tal, che non ponn dars
che in un mondo assai prossim a disfas.

Congiur, stupri, rapinn, gent contro gent,
fellonii, uccision de Princip Regg, 
Violenz, avanii, sovvertiment
de troni e de moral, beffe, motegg
contro il culto, e perfin contro i natal
del primm Cardin dell’ordine social.

Questi, Don Sigismond, se non son segni
del complemento della profezia,
non lascian certament d’esser li indegni
frutti dell’attual filosofia;
frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar
tutto l’amaro, come or vò a narrar.

Essendo ieri venerdì de marz
fui tratta dalla mia divozion
a Sant Cels, e vi andiedi con quell sfarz
che si adice alla nostra condizion;
il mio copè con l’armi, e i lavorin
tanto al domestich quanto al vetturin.

Tutte le porte e i corridoi davanti
al tempio eren pien cepp d’una faragin
de gent che va, che vien, de mendicanti,
de mercadanti de librett, de immagin,
in guisa che, con tanto furugozz,
agio non v’era a scender dai carrozz.

L’imbarazz era tal che in quella appunt
ch’ero già quasi con un piede abbass,
me urtoron contro un pret sì sporch, sì unt
ch’io, per schivarlo e ritirar el pass,
diedi nel legno un sculaccion sì grand
che mi stramazzò in terra di rimand.

Come me rimaness in un frangent
di questa fatta è facil da suppôr:
e donna e damma in mezz a tanta gent
nel decor compromessa e nel pudôr
è più che cert che se non persi i sens
fu don del ciel che mi guardò propens.

E tanto più che appena sòrta in piè
sentii da tutt i band quej mascalzoni
a ciuffolarmi dietro il va via vè!
risa sconc, improperi, atti buffoni,
quasi foss donna a lor egual in rango,
cittadina… merciaja… o simil fango.

Ma, come dissi, quell ciel stess che in cura
m’ebbe mai sempre fino dalla culla,
non lasciò pure in questa congiuntura
de protegerm ad onta del mio nulla,
e nel cuor m’inspirò tanta costanza
quant c’en voleva in simil circostanza.

Fatta maggior de mì, subit impongo
al mio Anselm ch’el tacess, e el me seguiss,
rompo la calca, passo in chiesa, giongo
a’ piedi dell’altar del Crocifiss,
me umilio, me raccolgh, poi a memoria
fò al mio Signor questa giaculatoria:

“Mio caro buon Gesù, che per decreto
dell’infallibil vostra volontà
m’avete fatta nascere nel ceto
distinto della prima nobiltà,
mentre poteva a un minim cenno vostro
nascer plebea, un verme vile, un mostro:

io vi ringrazio che d’un sì gran bene
abbiev ricolma l’umil mia persona,
tant più che essend le gerarchie terrene
simbol di quelle che vi fan corona
godo così di un tal grad ch’è riflession
del grad di Troni e di Dominazion.

Questo favor lunge dall’esaltarm,
come accadrebbe in un cervell leggier,
non serve in cambi che a ramemorarm
la gratitudin mia ed il dover
di seguirvi e imitarvi, specialment
nella clemenza con i delinquent.

Quindi in vantaggio di costor anch’io
v’offro quei preghi, che avii faa voi stess
per i vostri nimici al Padre Iddio:
ah sì abbiate pietà dei lor eccess,
imperciocché ritengh che mi offendesser
senza conoscer cosa si facesser.

Possa st’umile mia rassegnazion
congiuntament ai merit infinitt
della vostra accerbissima passion
espiar le lor colpe, i lor delitt,
condurli al ben, salvar l’anima mia,
glorificarmi in cielo, e così sia.” 

Volendo poi accompagnar col fatt
le parole, onde avesser maggior pes,
e combinare con un po’ d’eclatt
la mortificazion di chi m’ha offes
e l’esempio alle damme da seguir
ne’ contingenti prossimi avvenir,

sorto a un tratt dalla chiesa, e a quej pezzent,
rivolgendem in ton de confidenza,
quanti siete, domando, buona gent?…
siamo ventun, rispondon, Eccellenza!
Caspita! molti, replico,… Ventun?…
Non serve: Anselm?… Degh on quattrin per un.» 

Chi tas la Damma, e chì Don Sigismond
pien come on oeuv de zel de religion,
scoldaa dal son di forzellinn, di tond,
l’eva lì per sfodragh on’orazion,
che se Anselm no interromp con la suppera
vattel a catta che borlanda l’era!

Donna Fabia Fabroni di Fabriano sabato scorso era seduta al fuoco col padre Sigismondo ex francescano che nel frattempo (cioè mentre il riso cuoceva) le usava la bontà di ascoltare il discorso che lei veniva facendo. «Oramai anch’io, don Sigismondo, convengo pienamente nella sua paura che la fine del mondo sia assai vicina, perché vedo le cose di una natura tale che non possono aver luogo se non in un mondo in disfacimento. Congiure, stupri, rapine, popoli contro popoli, fellonie, uccisioni di Principi Regi, violenze, angherie, sovvertimenti di troni e di morale, beffe, motteggi contro il culto e perfino contro i natali del primo Cardine dell’ordine sociale. Questi, don Sigismondo, se non sono segni dell’adempimento della profezia, sono però degni frutti della filosofia attuale, frutti di cui, purtroppo, ebbi a ingoiare tutto l’amaro, come le racconterò. Ieri, essendo venerdì di marzo, dalla mia devozione fui tratta a San Celso, e vi andai con quello sfarzo che si addice alla nostra condizione: il mio coupé con lo stemma, e gli alamari tanto ai domestici quanto al cocchiere. Tutte le porte e i corridoi davanti al tempio erano pieni zeppi di una farragine di gente che va e viene, di mendicanti, di mercatanti di libretti e di immagini così che, con tanto trambusto, non v’era agio per scendere dalle carrozze. L’imbarazzo era tale che proprio mentre avevo già quasi in terra un piede mi spinsero contro un prete così sporco, così unto che io, per schivarlo e ritirare il passo, diedi nella carrozza una sederata tanto grande che di rimando mi fece stramazzare a terra. Come mi rimanessi in un simile frangente è facile da supporre: donna e dama, in mezzo a tanta gente, compromessa nel decoro e nel pudore, è più che certo che se non persi i sensi fu dono del cielo che mi guardò benevolmente. E ciò tanto più che appena sorta in piedi sentii da tutte le parti quei mascalzoni zufolarmi alle spalle il ‘va via vè!’ Risa sconce, improperi, atti di scherno, come se fossi una donna di rango uguale al loro, cittadina, merciaia o simile fango. Tuttavia, come Le ho detto, quel cielo stesso che mi ebbe sempre in cura fino dalla culla anche in questa congiuntura non tralasciò di proteggermi malgrado il mio nessun valore e mi spirò nel cuore tanta costanza quanta ce ne voleva in una simile situazione. Fatta maggiore di me, subito impongo al mio Anselmo che tacesse e mi seguisse: rompo la calca, passo in chiesa, giungo ai piedi dell’altare del Crocefisso, mi umilio, mi raccolgo, poi a memoria faccio al mio Signore questa giaculatoria ‘Mio caro buon Gesù, che per decreto dell’infallibile vostra volontà mi avete fatto nascere nel ceto distinto della prima nobiltà mentre a un minimo cenno vostro potevo nascere plebea, un vile verme, un mostro; io vi ringrazio che abbiate ricolma la mia umile persona di un così grande bene, tanto più che essendo le gerarchie terrene simbolo di quelle che vi fanno corona godo di un grado che è riflessione del grado dei Troni e delle Dominazioni. Tale favore, lungi dall’esaltarmi, come accadrebbe in un cervello leggero, serve invece soltanto a ricordarmi la mia gratitudine e il dovere di seguirvi e imitarvi, soprattutto nella clemenza verso i delinquenti. A pro di costoro quindi anch’io vi offro quelle preghiere, che voi stesso avete fatto a Dio Padre per i nemici vostri: ah sì, abbiate pietà dei loro eccessi, perché ritengo che mi abbiano offesa senza sapere cosa facessero. Che questa umile mia rassegnazione, congiuntamente ai meriti infiniti della vostra acerbissima passione, possa espiare le loro colpe, i loro delitti, condurli al bene, salvare la mia anima, glorificarmi in cielo, e così sia’. Volendo poi accompagnare con i fatti le parole, perché avessero maggior peso, e combinare con un po’ di éclat la mortificazione di chi mi ha offeso e l’esempio da seguire per le dame in futuro, esco rapidamente dalla chiesa e rivolgendomi a quei pezzenti in tono di confidenza: ‘Quanti siete, domando, buona gente? Siamo ventuno, rispondono, Eccellenza! Caspita, molti, replico… ventuno? Non serve: Anselmo? date loro un quattrino per ciascuno’. Qui tace la dama e qui don Sigismondo, pieno come un uovo di zelo di religione, scaldato dal suono delle forchette, dei piatti, era lì lì per sfoderarle un’orazione che, se Anselmo con la zuppiera non l’interrompe, vattelapesca che sproloquio era!

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In questo testo, (schema metrico: sestine di endecasillabi, secondo lo schema ABABCC) uno dei più famosi del Porta, il poeta utilizza la struttura dell’antifrasi del Giorno, seguendo così quella linea lombarda di Parini che è un punto di riferimento importante. Infatti il testo viene illuminato proprio dal sarcasmo messo in luce dalle parole della donna che considera la nobiltà e i privilegi sociali di cui gode come fondati nella volontà stessa di Dio: per lei, le gerarchie terrene sono simbolo e riflesso di quelle celesti. E’ evidente pertanto che tutta la storia che anima i moti risorgimentali è un radicale sovvertimento dell’ordine voluto da Dio, tale da preannunciare la fine del mondo. La nobildonna quando deve parlare di popolo usa  termini quali merciaja… o simil fango e descrivendo l’incidente, la culata contro la carrozza, per evitare di venire a contatto con un prete sudicio, cadendo così a terra, tra l’ilarità generale) utilizza riferimenti evangelici in modo assolutamente blasfemo (perdonali perché non sanno quello che fanno). Il linguaggio è estremamente composito e sperimentale, tanto che si può a buon diritto parlare di pastiche linguistico. La strofa del prologo e quella dell’epilogo, scritte in milanese popolare e schietto, esprimono il punto di vista del poeta, che idealmente associa al suo giudizio il popolo cittadino. In mezzo si colloca il monologo della protagonista, Donna Fabia, il cui modo di esprimersi è una caricatura della lingua dei ceti elevati milanesi, chiamata lingua corrente o parlar finito, forma linguistica intermedia fra dialetto e italiano, che tradisce sia la spontaneità e la sincerità dell’uno, sia la correttezza formale dell’altro. L’uso maldestro e insieme pretenzioso della lingua della nobildonna, che si innalza ulteriormente al momento della preghiera sacrilega, si confà perfettamente alla rappresentazione della sua ignoranza e arrogante superbia.

Giuseppe_Gioachino_Belli.jpgGiuseppe Gioacchino Belli

La vita Giuseppe Gioachino Belli è più movimentata di quella del collega milanese: nasce a Roma nel 1791 da famiglia benestante, ma presto cade in miseria per la morte di peste del padre (1802) e quella della madre (1807). Ha appena sedici anni e si riduce a cercare qualche piccolo impiego ed ospitalità presso i prelati della città. Nel 1816 sposa una donna di dieci anni più grande, che lo aiuterà e lo proteggerà facendogli anche ottenere un lavoro più stabile presso la Curia papale. Rimessosi economicamente viaggia, raggiungendo Venezia, Milano (dove incontra Porta), Firenze che lo avvicina alle idee moderal liberali del Gabinetto Viesseux. La morte della moglie lo riporta a Roma, dove riprende il lavoro interrotto anni prima. A livello letterario la sua attività sembra scindersi in una ufficiale, con poesie disimpegnate e prone al potere costituito ed in una privata nelle poesie delle quali, dalla diffusione ristretta e circoscritta ad amici, attacca il governo e la religione. Alla proclamazione della Repubblica romana (1848), per la sua attività ufficiale cade in sospetto della nuova autorità, tale da portarlo ad assumere un atteggiamento sempre più reazionario, fino alla morte, avvenuta nel 1863.

Il suo itinerario poetico è stato ricostruito a posteriori dalla critica che ha sottolineato come il Belli abbia utilizzato per la sua produzione “il punto di vista” del popolo che appare a volte disincantato, privo di qualsiasi prospettiva futura, foss’anche consolatoria sul piano fideistico, sia arrabbiata, ma impotente contro il potere costituito della Chiesa.

LI PRELATI E LI CARDINALI

Pijete gusto: guarda a uno a uno
tutti li Cardinali e li Prelati;
e vederai che de romani nati
ce ne so ppochi, o nun ce n’è gnisuno.

Nun ze sente che Napoli, Belluno,
Fermo, Fiorenza, Genova, Frascati…
E qualunque città li ppiù affamati
li manna a Roma a cojonà er diggiuno.

Ma ssarìa poco male lo sfamalli:
er pegg’è che de tanti che ce trotteno
li somari sò ppiù de li cavalli.

E Roma, indove viengheno a dà ffonno,
e rinneghino Iddio, rubben’ e ffotteno,
è la stalla e la chiavica der monno.

Togliti la soddisfazione: osserva ad uno ad uno / tutti i cardinali ed i preti, / e vedrai che di quelli nati a Roma / ce ne sono proprio pochi, o addirittura non c’e nessuno. // Non si sente che gente di Napoli, Belluno (Veneti), / Fermo (Marchigiani), Firenze, Genova, Frascati (Laziali) /  ed ogni città manda a Roma / i più affamati, a mangiare ad abbuffarsi // Ma sarebbe poco male sfamarli / il peggio è che di tanti che ci stanno / sono più i somari che i cavalli // e Roma, dove vengono a prendersi tutto / rinnegano Dio, rubano, fottono / è la stalla e la fogna del mondo.

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Domenico Purificato: una litografia tratta dai sonetti del Belli

Il sonetto (ABBA, ABBA, CDC, EDE) appartiene a quella vis polemica contro il clero di Roma: qui viene sottolineata la non appartenenza alla città (d’altra parte l’internazionalismo era una caratteristica della Chiesa), ma tale sottolineatura indica proprio lo sguardo un po’ invidioso e rancoroso di chi ritiene che la rovina di Roma sia determinata dal disinteresse della città. Lo sguardo è sarcastico: la metafora equina tra asini e cavalli (non si capisce se il poeta voglia sottolineare la bassezza culturale o morale o, addirittura, ambedue), il climax degli ultimi due versi (bestemmiano, rubano, scopano / stalla, fogna). Il genere potrebbe essere associato all’invettiva di memoriale medievale contro il clero corrotto: ma lì vi era la ricerca di un rinnovamento; qui vi è solo l’esasperazione di un popolo sfruttato e offeso.

ER GIORNO DER GIUDIZZIO

Quattro angioloni co le tromme in bocca
Se metteranno uno pe cantone
A ssonà: poi co ttanto de vocione
Cominceranno a dì: «Fora a chi ttocca».

Allora vierà su una filastrocca
De schertri da la terra a ppecorone,
Pe ripijà ffigura de perzone
Come purcini attorno de la biocca.

E sta biocca sarà Dio benedetto,
Che ne farà du’ parte, bianca, e nera:
Una pe annà in cantina, una sur tetto.

All’urtimo uscirà ‘na sonajera
D’angioli, e, come si ss’annassi a letto,
Smorzeranno li lumi, e bona sera.

Quattro grandi angeli con le trombe in bocca / si metteranno uno per ogni angolo (del mondo) / a suonare: poi con gran vocione / cominceranno a dire: «Sotto a chi tocca». // Allora verrà su una fila / di scheletri dalla terra camminando a carponi / come pecore, per riprendere l’aspetto di persone, / come pulcini attorno alla chioccia. // E questa chioccia sarà Dio benedetto, / che ne farà due parti, bianca e nera: / una per andare in cantina (all’Inferno), una sul tetto (in Paradiso). // Alla fine uscirà un gran numero / di Angeli, e, come se si andasse a letto, / spegneranno le luci, e buona sera.

Gioacchino_belli.JPGStatua del Belli a Trastevere

Il tema de Il giudizio universale riguarda il post mortem e lo fa, come dice Vigolo, “attraverso la dismisura gigantesca e quasi sognata delle fantasie infantili” di un immaginario tipicamente secentesco, come il paesaggio della città belliana, piena di riferimenti del barocco ecclesiale. Tuttavia il poeta romano sposa l’immaginifico delle raffigurazioni con il degrado della cultura triviale e popolare: gli angeli stanno ai quattro cantoni (gioco infantile); gli scheletri vanno a pecoroni, le anime pulcini e Dio una gallina, l’inferno la cantina e il paradiso il tetto. Tutto questo senza alcun sentimento di trascendenza: la chiusa così prosaica di e bona sera, rimanda ad un nichilismo di fondo.

ER CAFFETTIERE FILOSOFO

L’ommini de sto monno sò ll’istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.

Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss’incarzeno, tutti in zu l’ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.

E ll’ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;

E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.

Gli uomini di questo mondo sono come come / chicchi di caffé nel macinino: / uno prima, uno dopo, e un altro in seguito, / tutti quanti però vanno verso un medesimo destino. // Spesso cambiano posto, e spesso caccia / il chicco grosso quello piccolo, / e s’incalzano tutti nell’imboccatura / del ferro che li riduce in polvere. // E gli uomini in questo modo vivono nel mondo / mescolati per mano della sorte / che se li gira tutti in tondo in tondo; / e muovendosi ognuno, o piano, o forte, / senza mai capirne la ragione calano in fondo / per cadere nella gola della morte.

Anche in questo sonetto troviamo una meditazione sul finis vitae. Se quello precedente illustrava con fantasmagorica fantasia la corte divina, qui i colori si fanno scuri, il macinino ed i chicchi di caffè metafore entrambe dell’inutilità della vita. E’ che tale inutilità è condivisa dall’intera umanità che è qui vista in lotta l’un con l’altro per ottenere un non so che cosa che non servirà a nulla, se è destino finire come polvere (qui la metafora sembra quasi annullarsi). Torniamo al nichilismo puro, un nichilismo su cui stava riflettendo, con esiti letterari e filosofici diversi, Giacomo Leopardi.

Il romanzo in Italia avrà maggiori difficoltà ad imporsi, e questo è certamente causato da due fattori fondamentali:

  • la mancanza di una tradizione;
  • la frammentazione politica e quindi linguistica che non permette il possesso di una lingua media, adatta al genere romanzo;
  • l’assenza di una diffusa classe borghese.

Possiamo dire che i primi tentativi che si fecero in Italia riguardarono il genere storico e derivarono tutti dalla lettura dapprima di Ivanhoe di Walter Scott, che, grazie anche all’apporto degli esuli, diede origine ad un vero e proprio scottismo, ed in seguito dal successo dei Promessi sposi.

D’altra parte, con meno complessità dell’opera manzoniana, il romanzo storico poteva essere piegato a fini patriottici/nazionalistici e quindi possedere quel fine educativo che permetteva loro di rafforzare l’idea risorgimentale. Non per niente i periodi storici sono per D’Azeglio il Rinascimento, per Grossi il Medioevo.

Francesco_Hayez_048-e1484182021865.jpgFrancesco Hayez: Massimo D’Azeglio

Massimo D’Azeglio, nasce da nobile famiglia a Torino, nel 1798. Sin da giovane si lega ai circoli liberali italiani, diventando senatore del regno piemontese dal 1849 al 1852 e infine governatore di Milano nel 1860. Sposa Giulia, figlia di Manzoni, e, culturalmente non è solo autore di opere storiche e autobiografiche, ma anche un discreto pittore.

La sua opera più famosa è Ettore Fieramosca, pubblicato nel 1833, con grande successo.

La vicenda, ambientata durante la guerra tra Francesi e Spagnoli per il dominio su Napoli, ha come fulcro l’episodio della disfida di Barletta, causato dall’insulto di codardia rivolto da un cavaliere francese agli italiani, militanti nell’esercito spagnolo. Al motivo patriottico si affianca il tema amoroso: Ettore Fieramosca ama la bella Ginevra di Monreale, costretta a sposare Grajano d’Asti – combattente per denaro nelle truppe francesi – ed insidiata dal duca di Valentino. Dopo la sfida, che vede vincitori gli italiani e morto Grajano, Fieramosca scopre che Ginevra è stata rapita, violentata e uccisa dal duca, e sparisce misteriosamente, in preda al dolore.

LA DISFIDA

Gli uomini d’arme intanto accoppiatisi combattevano spada a spada, e così due a due dando e ribattendo quei grandissimi colpi, e volteggiandosi intorno scambievolmente per torre il lor vantaggio, venivan dilatando la zuffa serrata dal primo assalto; la polvere cacciata dal vento più non toglieva la vista dei combattenti; si conobbe che l’uomo d’armi scavalcato era Martellin de Lambris. Fanfulla, per disgrazia del Francese, gli si trovò contra, e con quella sua pazza furia, nella quale era pur molta virtù e somma perizia, gli appiccò alla visiera la lancia in modo che lo spinse quant’era lunga a fargli assaggiar s’era soda la terra, e nel fare il bel colpo alzò la voce in modo che s’udì fra tanto strepito, e gridò: «E uno!» poi vedendosi non lontano La Motta che al colpo di Fieramosca avea perduta una staffa, seguitava: «I danari non basteranno… sono pochi i danari…». Ed allargatasi poi la zuffa, disse al vinto: «Tu sei mio prigione…» ma l’altro rimessosi in piè gli rispose d’una stoccata che strisciò sulla corazza lucente del Lodigiano: non era scorso un secondo, e già la spada di Fanfulla era caduta a due mani sull’elmo del suo nemico, il quale sgangherato dalla prima percossa, a stento si resse in piedi; e Fanfulla gliene appoggiò un’altra, e un’altra, ed ogni volta gridava: «Son pochi i danari… son pochi… son pochi…» e lo sforzo del colpo gli faceva pronunziar la parola con quella specie d’appoggiatura che udiamo uscir dal petto degli spaccalegna quando calan l’accetta.
Colui non si potè riavere mai da questa tempesta malgrado i suoi sforzi: venne a terra mezzo stordito, ma non volea perciò sentir parlar di resa; onde Fanfulla, invelenito, gli diede l’ultima, cogliendo il tempo in cui provava a rizzarsi in ginocchio, e lo distese immobile sul sabbione dicendogli: «Sei contento ora?»
Bajardo, visto che colui si sarebbe fatto ammazzare inutilmente, mandò un re d’armi, il quale gettando il suo bastone fra i due guerrieri gridò ad alta voce: «Martellin de Lambris prisonnier.» Corsero alcuni uomini che l’ajutarono alzarsi, e sorreggendolo vennero a presentarlo al signor Prospero.
«Dio ti benedica le mani!» gridò questi al vincitore.
E diede ai suoi sergenti in guardia il barone francese che non volle lasciarsi toglier la barbuta, si gettò a giacere al piede d’una quercia, e vi rimase muto e immobile.
Fanfulla avea voltato il cavallo, e messolo di mezzo galoppo per tornar nella battaglia, guardava intorno ove potesse giovar l’opera sua, e veniva per giuoco facendo in aria colla spada mulinelli, nel quale esercizio avea la più destra e spedita mano dell’esercito.
Dando un’occhiata generale alla zuffa, vedeva che la fortuna non inclinava punto pei nemici, e che gli uomini d’arme italiani facevano molto bene il dovere: allora alzò più che mai il grido, chiamando a nome La Motta, e ricominciando la novella de’ danari son pochi; e queste tre parole le veniva cantando sull’aria d’una canzone che si udiva allora per le strade dai ciechi: onde l’atto del cavalcare in un certo suo modo sbadato e bizzarro, quel giocar di spada tanto mirabile, e pur fatto come scherzando, e ‘l tuono della voce, tutt’insieme dava a quella canzonatura un non so che di così curioso, che persino la seria fisonomia del signor Prospero dovette un momento lasciarsi aprire ad un sorriso.
Nel tempo impiegato a conseguir questa prima vittoria, Ettore Fieramosca aveva bensì colla lancia fatto staffeggiare La Motta, ma non gli era riuscito scavalcarlo. Era d’altra forza, e d’altro valore che il prigioniere di Fanfulla. Fieramosca geloso dell’onore riportato da questo, avea cominciato colla spada a lavorare in modo che lo sprezzatore degli Italiani con tutta la sua virtù a stento potea stargli contra. Le ingiurie profferite da lui la sera della cena, quando avea detto che un uomo d’arme francese non si sarebbe degnato aver un Italiano per ragazzo di stalla, tornarono in mente a Fieramosca; e mentre spesseggiava stoccate e fendenti, schiodando e rompendo l’arnese del suo nemico, e talvolta ferendolo, gli diceva con ischerno: «Almeno la striglia la sappiamo menare? Ajutati, ajutati, che ora son fatti, e non parole.»
Non potè colui sopportar lo scherno, e menò un colpo al capo con tal furia che, non giugnendo Ettore ad opporre lo scudo, tentò ribatterlo colla spada; ma non resse, volò in pezzi, e quella del Francese cadendo sul collarino della corazza lo tagliò netto, e ferì la spalla poco sopra la clavicola. Fieramosca non aspettò il secondo: spintosi sotto, l’abbracciò tentando batterlo in terra; l’altro lasciata la spada pendente, tentava di sferrarsi. Ciò appunto volea Fieramosca: sviluppatosi da lui prima che avesse potuto riprender la spada, dato di sprone al cavallo, lo fece lanciarsi da una parte; ed ebbe tempo di spiccar l’azza che pendea dall’arcione, colla quale tornò addosso all’avversario.
Il buon destriere di Fieramosca ammaestrato ad ogni qualità di battaglia, cominciò, avvertito da un leggier cenno di briglia e di sprone, a rizzarsi come un ariete che voglia cozzare, e far volate avanti, senza mai scostarsi tanto dall’avversario che il suo signore non lo potesse giungere. Vedendolo lavorare con tanta intelligenza, pensava Fieramosca: “Ho pur fatto bene a condurti meco!”. E si portò tanto virtuosamente coll’azza, che venne riacquistando sul Francese il vantaggio che aveva perduto.
La zuffa di questi antagonisti che potean dirsi i migliori delle due parti, se non decideva della somma della battaglia, quasi però avrebbe deciso dell’onore. Sarebbe stato doppio biasimo per La Motta esser vinto, avendo egli manifestato tanto disprezzo pe’ suoi nemici; doppia gloria a Fieramosca il riportarne vittoria. I suoi compagni, conoscendo che egli era atto a tal impresa, si guardarono dal prendervi parte; si guardavano anche i Francesi dal porgere ajuto al loro campione, onde non si dicesse che dopo tanti vanti non gli era bastata la vista di star contra un solo. Perciò, quasi senz’avvedersene, per alcuni minuti restaron tutti dal combattere fissando gli occhi ne’ due guerrieri. In questi pensieri che abbiam accennati produssero un incredibile impegno di vincere, e combattevano con un accanimento, un’attenzione a non commetter errori, un’alacrità a profittar dei vantaggi, che la loro zuffa poteva dirsi un modello dell’artecavalleresca.
Diego Garcia di Paredes, che avea passata la sua vita nei fatti d’arme, pur colpito da maraviglia alla vista di così maestrevole battaglia, non potendo più star alle mosse, si era alzato in piedi; poi, venuto sull’estremo ciglio del greppo che dominava il campo, gli stava guardando avidamente. Veduto da lontano, con quel suo busto gigantesco piantato su due gambe erculee, e colle braccia naturalmente pendenti, pareva immobile al pari d’una statua; ma, ai vicini, il contrarsi de’ muscoli sotto le strette vesti di pelle che portava, lo stringer delle pugna, e più di tutto lo sfavillar degli occhi, palesavano quanto bollisse internamente, e si rodesse di non poter essere ivi altro che spettatore.
I riguardi che impedivano agli altri di turbar questa battaglia, o non vennero in mente, o non furon curati da Fanfulla che, lasciato il signor Prospero, veniva scorrendo pel campo; punse il cavallo, e colla spada in alto si serrò contro La Motta. Se n’avvide Ettore e gli gridò: «Indietro!» ma ciò non bastando, spinse il cavallo in traverso a quello del Lodigiano, e col calcio dell’azza gli diede a man rovescia sul petto onde con poco buon garbo gli fece rattener le briglie: «Basto io per costui, e son di troppo,» gli disse istizzito.
Fu da tutti lodato l’atto cortese verso La Motta fuorché da Fanfulla, che prorompendo in una di quelle esclamazioni italiane che non si possono scrivere  disse, mezzo in collera mezzo in riso: «Hai la lingua nelle mani!»
Voltò il cavallo, e messosi a guisa di pazzo fra i nimici, gli sconvolse senza assalirne nessuno in particolare; e finito così quel momento d’inazione, si rinnovò più calda che mai la battaglia. Fin dal principio, Brancaleone fisso nel suo proposito avea corso la lancia con Grajano d’Asti, e la fortuna si era mostrata uguale fra loro. Venuti alla spada, si mantennero ancora senza deciso vantaggio per nessun de’ due: Brancaleone era forse superiore al suo nemico per robustezza ed anche per maestria, ma il Piemontese era gran giocator di tempo; e chi conosce l’arte dello schermire, sa quanto sia utile questa qualità.
Fra i combattenti dell’altre coppie la vittoria era per tutto in forse, e quantunque la battaglia non durasse che da un’ora e mezzo circa, era stata però tanto ostinata e calda che si poteva facilmente conoscere gli uomini ed i cavalli aver bisogno d’un breve respiro, che venne loro conceduto di comune accordo dai giudici. La tromba ne diede il segno, ed i re d’armi entrando in mezzo spartirono i combattenti.
Quel bisbiglio che udiamo sorger istantaneo nei nostri teatri al calar del sipario dopo uno spettacolo che si sia cattivata l’attenzione degli spettatori, nacque egualmente fra le turbe che circondavano il campo. I cavalieri tornati alla prima ordinanza scavalcarono: chi si traea la barbuta per rinfrescarsi la fronte e tergerne il sudore; chi, trovando l’arnese o la bardatura de’ cavalli guasta in qualche parte, s’ingegnava di racconciarla. I cavalli, scotendo il capo e dimenando le mascelle, cercavan sollievo al dolore cagionato dalle scosse de’ freni. E non sentendo più l’uomo in sella, si piantavan sulle quattro zampe, ed a capo basso davano un crollo prolungato facendo risonare le loro armature. I venditori del contorno trovandosi a polmoni freschi, alzarono più alte le grida, e i due padrini, mossi i cavalli, vennero a trovare i loro guerrieri. Per la prigionia d’uno de’ Francesi, e per trovarsi gli altri malmenati e feriti quasi tutti, fu giudicato da ognuno, gli Italiani aver la meglio; e fra i molti che aveano scommesso per l’una o per l’altra parte, quelli che tenevan pe’ primi cominciavano ad accigliarsi ed a dubitare. Il buon Bajardo aveva troppa esperienza di simili fatti per non accorgersi che le cose voltavan male pe’ suoi. Studiando di non mostrar questo sospetto, gli incoraggiava, li poneva in ordinanza e veniva ricordando ad ognuno le regole dell’arte, i colpi da tentarsi ed il modo di difendersi.
Prospero Colonna che vedeva i suoi avere minor bisogno di riposo per esser meno maltrattati dei nemici, dopo una mezz’ora, domandò che si riprendesse la battaglia, ed i giudici ne fecero dare il cenno. I cavalli, ai quali un ansar frequente facea ancora battere i fianchi, stimolati dallo sprone rialzarono il capo; e si lanciaron di nuovo gli uni contra gli altri. Ormai la vittoria si dovea decidere in pochi momenti: crebbe il silenzio, l’immobilità negli spettatori, l’accanimento e la furia nei combattenti. Le gale del vestire, le penne, gli ornamenti eran volati in brani, o bruttati di polvere e di sangue. Dal fianco di Fieramosca pendeva tagliata da un fendente la sua tracolla azzurra, l’elmo era rimasto nudo e basso, ma egli, ferito soltanto leggermente nel collo, si sentiva gagliardo del resto, e stringeva La Motta col quale si era di nuovo accozzato. Fanfulla avea a fronte Jacques de Guignes. Brancaleone seguitava la sua battaglia con Grajano, avvisando al modo di coglierlo sull’elmo, e gli altri compagni qua e là per il campo si raggiravano accoppiati coi Francesi combattendo la maggior parte coll’azza, e stringendoli mirabilmente.
A un tratto s’alzò un grido fra gli spettatori: tutti, e persino i combattenti, volgendosi per conoscerne la causa, videro che la zuffa tra Brancaleone e Grajano era finita. Questi, curvo sul collo del destriere, coll’elmo ed il cranio aperti pel traverso, perdeva a catinelle il sangue che scorreva nei buchi della visiera sull’arme e giù per le gambe del cavallo, il quale stampava le pedate sanguigne. Rovinò in terra alla fine, e risonò sul suolo come un sacco pieno di ferraglia. Brancaleone alzò l’azza sanguinosa brandendola sul capo, e gridò con voce maschia e terribile: «Viva l’Italia: e così vadano i traditor rinnegati»: ed insuperbito, si cacciò menando a due mani sui nemici che ancora facevan difesa. Ma non durò a lungo il contrasto. La caduta di Grajano parve desse il crollo alla bilancia. Fieramosca accanito per la lunga ed ostinata difesa di La Motta, raddoppiò la forza de’ colpi con tanta rapidità, che lo sconcertò, lo sbalordì, e privato dello scudo, con mezza spada in mano e l’arnese schiodato e rotto, lo percosse sul collo coll’azza di tanta forza, che lo fe’ rannicchiarsi stordito sull’arcione dinnanzi, e quasi smarrita la luce degli occhi.
Prima che si riavesse, Fieramosca, il quale gli stava a destra, buttandosi lo scudo dietro le spalle, l’afferrò colla manca alle corregge che sulla spalla reggono il petto della corazza, e stringendo le cosce, diede di sproni al cavallo. Questi si lanciò avanti, e così il cavaliere francese fu violentemente tratto giù dalla sella. Quando si stese in terra, Fieramosca che avea colto il tempo e s’era buttato da cavallo, gli si trovò sopra colla daga sguainata, ed appuntandogliela alla vista in modo che un poco gli toccava la fronte, gli gridò: «Renditi o sei morto.» Il barone, ancor mezzo fuor di sé, non rispondeva; e questo silenzio potea costargli la vita: gliela salvò Bajardo, gridandolo prigione.
Condotto via La Motta da’ suoi famigli che lo consegnarono al signor Prospero, Fieramosca si voltò per risalire a cavallo: il cavallo era scomparso: girò lo sguardo per la battaglia e vide che Giraut de Forses, essendogli stato morto il suo, aveva tolto il destriere dell’Italiano e stava fra’ suoi facendo ancor testa agli uomini d’arme nemici. Il buon Ettore conobbe che solo e a piedi non avrebbe potuto riaver il cavallo. L’aveva nutrito ed allevato di sua mano, ed addestrato a seguirlo alla voce; onde non si confuse: fattosegli più presso che potè, cominciò a chiamarlo, battendo il piede come era usato di fare quando voleva dargli la biada. Il cavallo si mosse per venire a quel cenno, e volendo il cavaliere contrastargli, prima cominciò ad impennarsi, poi si mise a salti, e senza che colui potesse né opporglisi né governarlo, lo portò suo malgrado fra gli Italiani che, circondatolo, l’ebber prigione senza colpo di spada. Scendendo dal cavallo sul quale tosto saltò Fieramosca, malediceva la sua fortuna; ma questi, resagli per la punta la spada che gli era stata tolta, gli disse: «Fatti con Dio, fratello, piglia le tue armi e torna fra’ tuoi, che i prigioni gli abbiamo per forza d’arme, e non per arti da ciurmadori.»
Il Francese, che ogn’altra cosa s’aspettava, restò molto maravigliato. Pensò un momento, poi rispose: «S’io non m’arrendo alle vostre armi, m’arrendo alla vostra cortesia.» E, presa la sua spada alla metà della lama, andò a deporla a terra avanti al signor Prospero: e fu detto da tutti quelli che lodavano l’atto cortese di Fieramosca, anche il Francese aver operato e parlato saviamente. Per la qual cosa esso solo fu poi rimandato senza che pagasse il riscatto.
La parte francese era scemata di quattro delle sue migliori spade, mentre l’italiana contava ancora i suoi tredici uomini a cavallo: e si poteva facilmente conoscere in qual modo la cosa dovesse andar a finire. Nonostante, i Francesi scavalcati, che erano cinque, si serrarono insieme; ai loro lati si posero due per parte i quattro a cavallo, e così ordinati si disposero a far testa di nuovo agli Italiani, i quali rannodando per la terza volta la loro battaglia, fecero impeto tutt’insieme sugli avversarj.
Non venne in mente ad alcuno che questi vi potessero reggere, ma ammirando tuttavia la costanza e l’arte di quella brava gente, crebbe negli spettatori l’ansiosa curiosità di veder l’esito del loro ultimo disegno; e quasi ad alcuni sapeva male, che con tanto valore dovessero cimentarsi con grandissimo rischio della loro vita ad un giuoco tanto disuguale. Ma per questo non temevano i Francesi: pesti, feriti, coperti di polvere e di sangue, pur offrivan fiero ed onorato spettacolo, stando arditi ad aspettare la rovina che veniva loro addosso di tanti cavalli, e pareva dovesse ridurli in polvere. Si mossero alla fine gl’Italiani, non colla prima celerità, che la stanchezza lo vietava ai cavalli, molti dei quali per le violente scosse dei freni avean la bocca coperta di spuma sanguigna. Alzarono i cavalieri più forte il grido di “Viva Italia!” e malgrado l’instare degli sproni, vennero a ferire d’un galoppo grave e sonante. Nonostante le leggi promulgate al principio, fu tale la smania di curiosità che invase a quel punto gli spettatori, che il cerchio formato da loro all’intorno s’andò progressivamente stringendo. Gli uomini che avean la cura di mantener l’ordine, curiosi più degli altri, anch’essi seguiron quel moto concentrico, come vediamo succedere quando in piazza si caccia il toro, che al principio ognuno sta saldo al suo luogo, ma quando un cane comincia ad attaccarsegli all’orecchio, e poi se n’attacca un altro, e quasi hanno fermato il loro nemico, nessun può più star a segno, crescon le grida, gli schiamazzi, si scioglie l’ordine, ognuno si spinge avanti per veder meglio.
In mezzo alla fila di nuovo schierata degli Italiani s’era posto Fieramosca, il quale aveva il miglior cavallo; ed ai suoi lati, a mano a mano quelli che l’aveano meno stanco, o più corridore; cosicchè nell’andar addosso ai nemici il centro si spinse avanti, figurando un cuneo, del quale Ettore era alla punta. Quest’ordine fu tanto ben mantenuto che, giunto al ferire, sforzò la fila dei Francesi senza che potessero porvi riparo. Qui sorse una nuova zuffa più serrata, più terribile che mai: al numero, al valore, alla perizia degli Italiani s’opponevano sforzi più che umani, disperazione, rabbia del disonore imminente ed inevitabile: i prodi ed infelici Francesi, fra un turbine di polvere, cadevano insanguinati sotto le zampe de’ cavalli, si rialzavano afferrandosi alle staffe, alle briglie de’ vincitori; ricadevano, spinti, maltrattati, calpestati, rotolandosi sotto sopra, mezzo disarmati, cogli arnesi infranti, e pur sempre sforzandosi di riaversi, raccogliendo in terra pezzi di spade, tronchi di lancia, e perfino sassi onde ritardar la sconfitta.
Ettore, il primo, alzò il grido onde lasciasser l’impresa e si rendesser prigioni; ma appena era udito in quel fracasso; o se l’udivano, negavan coi fatti, soffrendo muti quelle orribili percosse; ed ebbri pel furore, seguitavano la mirabil difesa. De’ quattro che eran ancora in sella al principio di questo ultimo scontro, uno era caduto, e si difendeva a piedi; a due erano stati morti i cavalli: il quarto, preso in mezzo, era stato fatto prigione. Sarebbe impossibile il descrivere tutti gli strani accidenti, i colpi, gli atti disperati che accaddero in quegli ultimi momenti, dei quali fra gli spettatori rimase per molti anni una memoria di maraviglia e di orrore.
De Liaye, per dirne uno, fu veduto afferrare a due mani il freno di Capoccio romano, per istracciargli, se potesse, o togliergli la briglia; il cavallo se lo cacciò sotto colle zampate, ma non potè mai farsi lasciar dal Francese, che trascinato pel campo fu condotto in tal modo innanzi al signor Prospero, e ci vollero molti ajuti e molte braccia, tanto era fuor di se stesso, a fargli aprire le mani e porlo fra i prigionieri. Alla fine parve agli Italiani stessi troppo crudel cosa seguitare una simil battaglia; il gridar di Fieramosca fu imitato dagli altri, e tutti insieme sospeso il ferire, venivan dicendo a quei pochi superstiti: «prigioni… prigioni».
Fra il popolo cominciò un bisbiglio, crebbe, e senza che valesse l’opposizione degli araldi, cominciaron voci e poi schiamazzi ed urli onde finisse il combattere, ed i Francesi avesser la vita salva: rotti gli ordini, s’eran stretta la turba intorno ai combattenti, che si trovavano chiusi in un cerchio di trenta o quaranta passi di diametro: chi gridava, chi faceva svolazzar fazzoletti e cappelli, quasi sperando di partir così la battaglia; chi si volgeva ai giudici ed ai padrini. Il signor Prospero fattosi far luogo, e venuto più presso, alzava la voce e il bastone per indurre i Francesi alla resa; Bajardo, anch’esso, per quanto sentisse dolore dell’infelice riuscita de’ suoi, visto esser inutile un maggior contrasto, e pensando che era troppo peccato lo sprecar così il sangue e le vite di que’ valorosi, si spinse avanti, e gridava ai suoi che finissero, e si desser prigioni: ma né la sua, né l’altrui voce non era ascoltata dai vinti, che avendo appena ancora sembianza d’uomini parevan piuttosto demonj, furie scatenate. Scesero alla fine anche i giudici dal tribunale; vennero in mezzo al cerchio, fecero dar nelle trombe e gridar ad alta voce gl’Italiani vincitori: questi allora voller ritirarsi, ma tutto era niente: i loro nemici, che la rabbia, il dolore, le ferite avean inebriati al punto di non capire e non sentir più nulla, seguivano, come tigri che siano strette fra gli avvolgimenti d’un serpente, a ghermirsi come potevano co’ loro avversarj.
Diego Garcia, finalmente, visto che non v’era altro modo, prese partito, e gettandosi alle spalle di Sacet de Jacet, che attaccato con Brancaleone pretendeva strappargli l’azza dalle mani mentre questi era in forse d’appiccargliene un colpo sul capo, ed al certo l’avrebbe fatto cascar morto, l’avvinghiò con quella sua maravigliosa forza, e lo trasse suo malgrado fuor della zuffa. Quest’esempio fu imitato da molti spettatori, e in un momento furon tutti addosso ed attorno ai combattenti; e quantunque ne riportassero qualche percossa, pure, urtandosi, stracciandosi i panni, dopo molto stento e molto tirare, vennero a capo di levar di mezzo que’ cinque o sei uomini mezzo fracassati; e quantunque si dibattessero ancora, e schiumasser di rabbia, pure alla fine li trassero sotto le querce cogli altri prigioni.
La prima cura di Fieramosca, finito appena il combattere, fu gettarsi da cavallo e correre a Grajano d’Asti, che giaceva immobile nel luogo ov’era caduto.
Quando Brancaleone ebbe fatto il bel colpo, il cuor generoso di Ettore non aveva pur potuto difendersi da un primo moto di gioia. Ma nato appena, lo represse un sublime e virtuoso pensiero. Venne a lui, fece scansar la gente che gli stava affollata intorno, e gli s’inginocchiò accanto. Il sangue scorreva ancora dall’ampia ferita, ma lento ed aggrumato: gli sollevò il capo adagio adagio, e con tanta cura, che si sarebbe pensato avesse a salvare il suo più caro amico e giunse a liberarlo dalla barbuta.
Ma l’azza, spaccato il cranio, era entrata nel cervello tre dita: il cavaliere era morto. Ettore con un sospiro, che sorse dal profondo del cuore, depose di nuovo a terra il capo dell’ucciso, e rizzatosi, disse a’ suoi compagni che erano anch’essi venuti a vedere, e più direttamente a Brancaleone: «Codesta tua arme,» ed additava l’azza che quegli teneva in pugno stillante ancora di sangue, «ha compiuta oggi una gran giustizia. Ma come potremmo godere tal vittoria? Il sangue che inzuppa questa terra non è egli sangue italiano? e costui forte e prode in guerra, non avrebbe potuto spargerlo a sua ed a nostra gloria contra i comuni nemici? La tomba di Grajano allora sarebbe stata venerata e gloriosa; la sua memoria, un esempio d’onore. Invece egli giace infame, e sulle sue ceneri peserà la maledizione de’ traditori della patria…» Dopo queste parole tornarono tutti in silenzio e pensosi ai loro cavalli. Il cadavere fu la sera portato a Barletta, ma quando si volle seppellirlo nel sagrato, il popolo, levato a rumore, non lo permise. I becchini lo portarono al passo d’un torrente a due miglia dalla città, cavarono una fossa e ve lo chiusero. D’allora in poi quel luogo fu chiamato il Passo del traditore.

137.jpgEttore Fieramosca in un’edizione del 1848

Risulta evidente da questo passo, che corrisponde più o meno alla fine del romanzo, come l’antecedente letterario più immediato sia Walter Scott e non Manzoni; il duello di Ivanhoe e la disfida di Barletta hanno più punti in comune: l’attenzione per i costumi, il gusto dell’orrido, uno stile indugiante su particolari ottenuto dal punto di vista di chi guarda. Ciò che invece ci piace sottolineare è invece la peculiarità della pagina di D’Azeglio: infatti prima dell’orrido, l’uso del comico nella prima parte, tutto dedicato al personaggio di Fanfulla, con la continua cantilena riguardo i soldi (ricordiamo che, prima della disfida, i cavalieri delle due fazioni dovevano versare una certa somma con cui riscattare i prigionieri: gli italiani la versarono, i francesi per la sicumera di battere gli “imbelli italiani” no); quindi il patetico nell’episodio di Enrico contro l’ucciso rivale in amore Grajano. Ma ancora più importante è il fine: D’Azeglio vuole accendere il lettore d’amor patrio. L’esercito è spagnolo, ma i mercenari italiani combattono in terra d’Italia e l’ultima parte del passo è tutta votata alla propaganda patriottica: il discorso di Enrico sembra maggiormente rivolto, così carico di retorica, ad un traditore della causa risorgimentale più che ad un episodio cinquecentesco. Bisogna inoltre dire che laddove l’ideologia patriottica prevale sul tessuto del romanzo anche la verità storica viene a volte piegata al fine prefissato dall’autore che all’esattezza della fonte.    

Fieramosca38_disfida.jpgScena del film Ettore Fieramosca di Alessandro Blasetti del 1938

Un altro importante romanzo storico è il Marco Visconti di Tommaso Grossi, dove invece è più penetrante l’influenza manzoniana:

La storia, ambientata in Lombardia, nel Trecento, narra l’amore contrastato fra Bice del Balzo e Ottorino Visconti, cugino di Marco, il condottiero, fratello di Galeazzo, che, invaghito della ragazza, ostacola il matrimonio fra i due e solo poco prima di essere ucciso a tradimento si pente delle proprie malefatte. La narrazione di numerosi avvenimenti storici – documentati sulle cronache del tempo, secondo l’esempio manzoniano – si intreccia al racconto delle vicende dei personaggi, inseriti nel paesaggio lombardo, descritto meticolosamente.

 

MORTE, PENTIMENTO E REDENZIONE

Durava da più ore quel faticoso lavoro, quando parve ad alcuno d’udire come una voce lontana che uscisse di sotterra. Marco fa cessare immediatamente ogni rumore: stanno tutti in orecchi… Da lì a qualche tempo la voce si fa intendere un’altra volta; una voce lunga, acuta, come di lamento, che viene da una carbonaia scavata sotto quel primo sotterraneo, tra le più basse fondamenta d’un torrazzo. Su, presto, all’opera tutti quanti; la novella speranza raddoppia la lena: in un momento si sganghera un cancello, si sconquassa, si abbatte un uscio. Marco con una fiaccola in mano entra egli per il primo in un camerotto, fa risaltare una ribalta a fior di terra, e giù per una scaletta a chiocciola fino al fondo della torre divisata. S’avanza palpitando per entro una vasta oscurissima prigione, ode una voce che gli domanda misericordia, vede in un angolo, a canto al muro di fronte, come un’ombra che gli tende le braccia; si precipita verso quella parte; il lume che reca fra le mani rischiara un’ignota figura… Non è Bice altrimenti… è un uomo… Era il Tremacoldo.
Il giullare diede tostamente notizia dell’esser suo, del come essendo capitato in castello per esplorare se ivi fosse nascosta la figlia del conte del Balzo, l’avesser preso, e gettato in quel fondo, donde non isperava omai più di poter uscire a veder lume. Di Bice, nessuna novella.
Rotti i ceppi, il prigioniero fu posto subito in libertà, e Marco, più scoraggiato che mai, comandò che si continuassero le intraprese indagini. Dopo qualche tempo venne giù uno scudiere ad annunziargli che il conte e la contessa del Balzo erano giunti al castello, e domandavano di lui premurosamente. A questa nuova egli impallidì: diede alcuni passi verso la porta come per uscire, per correre ad incontrare quei nuovi ospiti; ma poi tornò indietro, e colla fronte dimessa, colle braccia spenzolate, stette un bel pezzo appoggiato ad un pilastro senza muover parola, senza dar un segno.
Se non che, dal lato opposto a quello in cui Marco era in quei punto, si sentì gridare da più voci in una volta:
«E’ qui! è qui! è trovata! è trovata!» Tutti quanti, gittati gli arnesi, rispondono con un altro grido di gloia, e corrono a precipizio verso quella banda. Il lume di molte faci agitate rischiara mutabilmente le lunghe brune vôlte dell’intricato labirinto.
«E’ ella viva?» domanda Marco di mezzo alla folla degli accorrenti.
«E’ morta,» risponde una voce dal luogo a che tutti erano dirizzati.
Ed ecco venir innanzi un gruppo di gente, e nel mezzo due scudieri che portano pietosamente sulle braccia la figlia del Conte bianca in volto, e cogli occhi chiusi e il capo pendente su d’una spalla. Lauretta la seguiva tutta scapigliata, e sorreggendole con le mani la fronte non cessava dal baciarla, dall’innondarla di lagrime.
Marco, cui erano rimbombate nel cuore le prime voci di speranza e di morte, che vedeva or proceder lento lento quel corteo funebre, e al lume di tante faci raffigurava a poco a poco la bella persona, il bianco volto della giovane portata, non potea persuadersi che quello spettacolo fosse reale: sperava pure d’essere posseduto dall’illusione fantastica d’un sogno; per certificarsene, andava stendendo intorno attonitamente le mani; ed ora palpava le muraglie, ora stringeva per le spalle e per le braccia le persone che s’abbattevano a passargli dinanzi; finalmente, facendosi largo tra la folla che s’aperse tosto per lasciarlo passare, accostossi a Bice, e le pose una palma sulla fronte. Il freddo che gli venne da quel tocco lo riscosse dalla stordigione, dalla stupidità in che era caduto: un tremore crescente gli si diffuse per le membra, il sangue gli rifluì violentemente al volto rigonfiandogli le vene della fronte, dalla quale si vedevano scorrere grosse gocce di sudore.
Così, seguitando a lato a lato la fanciulla, pervenne fino in capo alla scala, per la quale dal sotterraneo s’usciva nel cortiletto. Ivi l’impressione dell’aria aperta, la vista del sole, parvero tornarlo affatto nel sentimento; si ricordò di Ermelinda, la quale stava aspettando; sentì com’ella sarebbe morta di spavento e di dolore, se avesse trovato d’improvviso la figlia a quel modo; e quel pensiero potè restituirgli ad un tratto l’usata forza. Fece segno alla gente che lo seguitava, e che gli era d’intorno, di fermarsi; e con voce sicura, e con un’aria posata, che fece maravigliare tutti quanti, comandò che, spenti i lumi, cessato ogni rumore, la folla si disperdesse tacitamente, e si guardassero bene dal far parola di quanto avean visto laggiù.
Egli, precedendo Lauretta e i due scudieri che portavano Bice, s’avviò in silenzio verso le camere della castellana.
Come la figlia del Conte fu posta su d’un letto a giacere, Marco domandò all’ancella di lei, quando la sua padrona fosse spirata.
«Ell’era ancor viva poco fa,» – rispose Lauretta con voce interrotta dai singhiozzi, «e mi è morta di spavento, fra le braccia, quando sentì rovinar l’uscio della prigione, e credevamo che venissero per assassinarci.»
In questa entra il medico del castello ch’era stato tosto chiamato: guarda, esamina la giacente, le accosta un lume alla bocca… la fiammella par che si pieghi alquanto mossa da un tenue fiato. Lauretta, la castellana, le si affaticano intorno, adoperando ogni argomento per riaverla: a poco a poco le si ridesta il battito del cuore, le rinvengono i polsi; il calore della vita torna a diffondersi per le membra… Ma le forze sono consunte di lunga mano dai patimenti, dalle angosce, dallo spavento durato: le entrò una febbre ardente… Potrà ella giugnere a veder il domani?
Marco, che all’improvvisa gioia del trovarla viva s’era sentito rapire fuor di sé stesso, a questo annunzio abbassò desolatamente il capo, e disse in cuor suo: “Ecco adempite le parole del profeta;” poscia col volto e coll’atto di un uomo che non ha più nulla da temere o da sperare a questo mondo, avvicinossi alla moglie del Pelagrua, ed interrogolla intorno ad Ottorino.
La donna, che da certe parole dette da Lodrisio in sua presenza sospettava che lo sposo di Bice fosse rinchiuso nel castello di Binasco, comunicò a Marco quel suo sospetto, e questi risolvette di mettersi subito sulle tracce del trafugato. Uscì dunque dalla camera dell’inferma, presso la quale volle che per allora non rimanesse che la sua ancella, affinché la poveretta che andava sempre più ricuperando gli spiriti, nel momento che sarebbe tornata in sé, non avesse a vedersi d’intorno altro volto che quel volto soave e fidato.
«Ora andate a chiamar la madre di Bice,» disse poscia alla castellana, «ditele che preghi… che preghi anche per me.»
Ciò detto, discese precipitosamente nella corte, lasciò alcuni ordini al giudice del luogo, ed uscì a cavallo dal ponte levatoio, che si rialzò subito dietro le sue spalle.
La camera entro cui Bice era stata portata dava su d’uno spiano che stendevasi innanzi al castello dalla parte d’oriente. Il sole già alto entrando per una finestra, in faccia alla quale era collocato il letto su ch’ella posava, diffondea sul suo volto un chiarore, che ne faceva risaltar la pallidezza e lo sfinimento mortale. Al primo rinvenire, la fanciulla apriva gli occhi, e li richiudeva tostamente, portandovi una mano per difenderli dalla luce, dolorosa in quel primo incontro, dopo le lunghe ore passate nella più fitta oscurità del carcere da cui era stata tolta.
L’ancella chiuse subito le imposte; poi tornata a sedersi a canto alla padrona, l’abbracciava piangendo, e chiamandola per nome. Ella sentì I’impressione di quelle lagrime, riconobbe quella voce, ed aprendo un’altra volta gli occhi, la stette guardando qualche tempo come smemorata, e poi disse:
«Sei tu, Lauretta?»
«Sì, son io, non abbiate sospetto di nulla; siamo liberate, state di buon animo.»
Ma ella, che non apprendeva ancor bene il senso delle parole, domandava paurosamente:
«Dove sono iti quei manigoldi?… Hanno pur fracassato l’uscio della prigione, ho pur intese le lor grida, e sentiti i colpi dei loro pugnali nella persona… Oh dimmi, non m’hanno dunque uccisa?… mi pareva d’esser morta, e che mi portassero a seppellire in mezzo a tanta gente, con tanti lumi d’intorno… Era notte; e come s’è fatto giorno chiaro in un tratto? e dove siamo noi adesso?»
«Siamo nelle camere della nostra buona castellana; siamo libere, vi dico; è stato lo stesso Marco che è venuto…»
Il suono di quel nome terribile fu come il tocco d’un ferro rovente, che fa risentire un tramortito. Bice balzò a sedere sul letto, e diceva: «Fuggiamo! fuggiamo! nascondimi, salvami, salvami per pietà!»
«Oh no, Dio! tranquillatevi: Marco non è qui; e poi, state sicura, non entrerà in queste camere persona che voi non vogliate… Siamo libere, torno a dirvi; e, sapete la buona nuova che v’ho a dare? Vostra madre è giunta.»
«Mia madre?»
«Sì, vostra madre, e tosto che siate riavuta tanto da poter sopportare la via, torneremo a casa insieme con lei.»
«Oh! non volermi ingannare ancora! non ti ricordi quante volte me l’hai detto che sarebbe venuta? e poi?…»
«Ma ora ella è qui, vi dico, è qui, e la vedrete quando che sia!»
«No, no, mia cara, la tua pietà è troppo crudele; no, che non la vedrò più; l’ho domandata tante volte al Signore questa grazia, con tante lagrime, con tanta fiducia!… Egli non m’ha voluta esaudire!… Ed ora… sarebbe troppo tardi.»
«Ah figlia mia!» gridò in quella Ermelinda con una voce mezzo spenta dall’angoscia. Trattenuta essa dal medico nella camera vicina, perché lo spavento della prima gioia non desse un troppo grande scrollo alle forze affralite dell’inferma, di là aveva sentito ogni sua parola; e non potendo più reggere all’impeto dell’affetto s’era precipitata fra le braccia di lei.
Bice chinò il capo sull’omero della madre, e stettero lungamente strette insieme in silenzio.
Fu la prima Ermelinda a sciogliersi da quel nodo soave, e pur doloroso; e ponendo una mano sul capo della figlia: «Ora statti riposata;» le diceva, «vedi, io son qui con te, per non abbandonarti mai più: staremo sempre insieme, sempre, sempre; sì, cara, cara la mia povera Bice! Tutti i guai sono finiti, non pensar più che a cose liete, pensa a tua madre che è qui con te, che non ti si staccherà mai più da canto.»
Bice obbedì, posò un istante il capo sui guanciali; ma non potendo frenarsi, lo rilevò subitamente, e alzando un’altra volta le braccia le intrecciò intorno al collo della madre; e siccome, questa resisteva pure mollemente, ed accennava sgomentita che cessasse:
«No.» diceva la figliuola, «no, lasciate ch’io sfoghi il desiderio di tanti giorni, di tante notti dolorose: lasciatemi godere questa consolazione, lasciate che m’innebrii d’una dolcezza che sarà l’ultima della mia vita.»
«Per carità, rimettiti in calma: tanto commovimento… così sfinita come sei!…»
«Ah! no,» replicava Bice, «credetemi, non me ne può venir altro che bene, provo un sollievo… lasciate, lasciatemi;» e stringendola, e baciandole il volto, e innondandola di calde lagrime, non faceva che ripetere con un gemito d’amore: «Oh madre mia! oh cara madre!»
Ermelinda, vinta alla fine da quel sentimento che tutto soverchia, si abbandonò fra le braccia della figlia, e piangendo anch’essa, le ricambiava i baci e le carezze che ne ricevea. Era uno spettacolo di pietà, ma d’una pietà consolante, d’una pietà tutta piena di letizia, di pace, e, dirò pure, di riverenza, il vedere le due infelici mescere insieme le lagrime, non saziarsi dallo stare negli amplessi, dal ripetersi il loro mutuo amore, i loro lunghi tormenti nel tempo che erano state divise.
«Sai che è qui anche tuo padre?» disse Ermelinda, tosto che si fu quietata tanto da poter profferire le parole.
«Perchè non viene?» rispose la fanciulla, serenandosi in volto di nuova gioia.
Fu chiamato il Conte, il quale entrò con un’aria tra il commosso e lo spaventato. Ma quando vide la figlia tanto smagrita, così svenuta, staccare un braccio dal collo della madre, e stenderlo amorosamente verso di lui, la codardia fu vinta dalla pietà, né gli rimase più altro affetto fuor quello di padre. Corse a lei, ed abbracciandole il capo, le disse tutto intenerito: «Tu stai male, figlia mia.»
«Oh! no, ora che sono co’ miei cari parenti sto bene, sto troppo bene… Ma, e Ottorino?…»
Il Conte strinse le labbra, come chi inghiotta una medicina amara, e per quanto si facesse forza non potè a meno di lasciarsi scappare queste parole:
«Oh! per l’amor di Dio! chi vai tu a nominare adesso! in questo luogo!»
«Non è egli il mio sposo?» rispose la fanciulla con un atto che sapeva pure d’un certo qual risentimento; quindi volgendosi con maggior tenerezza alla madre: «E’ egli vivo? posso io sperare di vederlo?»
«Oh! sì, il Signore ce l’avrà serbato,» disse Ermelinda. «A quel che mi disse la castellana, egli debb’essere a Binasco; e lo stesso Marco è partito di qui per cercar di lui, per condurtelo tosto che l’abbia trovato.»
«Marco!» esclamarono ad una voce il padre e la figliuola, colpiti ambedue da una diversa maraviglia, da un diverso terrore.
«Si, Marco Visconti,» ripeté la donna: e qui si fece a narrare il colloquio ch’ella avea avuto seco la notte antecedente; disgravò il Visconte d’ogni enormità non sua; disse del profondo dolore di lui per quella parte di colpa che avea avuta nel principio; certificò la sua risoluzione di riparare colla propria vita, ove fosse stato d’uopo, ogni sconcio che n’era venuto in seguito; fece parola della cresciuta sua benevolenza verso Ottorino, né peritossi pure di confessare l’amor di lui verso Bice, ora che quell’amore, purificato dai rimorsi e dal pentimento, erasi mutato in una carità ossequiosa ed espiatrice; infine parlò tanto a commendazione, non che a discolpa, di quell’uomo, che poté togliere ogni ombra di sospetto, ogni traccia di rancore dall’animo tanto del marito che della figlia.
Quest’ultima, che avea cominciato ad ascoltare con ansietà paurosa, alla fine del discorso levò gli occhi al cielo, e stringendo le palme esclamò: «Il Signore gli perdoni!» poi volgendosi un’altra volta alla madre: «M’avete detto ch’egli è uscito per cercar d’Ottorino, è vero?… Credete voi che possa giungere a tempo a vedermi?»
«Ah, non dir cosi, figlia mia!» sclamò Ermelinda con voce di dolce e accorato rimprovero: «senti, cara, la vita e la morte stanno nelle mani d’un Signore misericordioso… egli non vorrà… per pietà di noi…» e si tacque.
Bice prese una mano di sua madre e gliela baciò: né l’una osava dare, né l’altra chiedere, parole di speranza, d’una speranza che nessuna d’esse avea in cuore.
Per tutto quel giorno il male venne sempre più acquistando rovinosamente di forza su quel corpo troppo affievolito e rotto per potergli durar contro.
La fanciulla, obbedendo alle prescrizioni del medico avvalorate dalle più strette preghiere della madre, stavasi coricata quietamente e in silenzio, accontentandosi d’affissare di continuo quella sua cara a piè del letto, dove s’era posta a sedere, e di seguitarla cogli occhi ogni volta che per qualche necessità tramutavasi da luogo a luogo.
A piè del letto medesimo, in compagnia di Ermelinda, stava seduta anche l’ancella, l’amorosa Lauretta, la quale, per quanto fosse stata pregata da tutti, e da Bice principalmente, non avea mai voluto abbandonar quella camera, per andare a prender un po’ di riposo, di cui doveva aver tanta necessità, dopo le dure vigilie delle notti antecedenti. Ella narrava interrottamente e sotto voce alla madre la storia dei mali che avea patiti insieme colla sua giovane padrona, da che erano state condotte a Rosate, fino a quel giorno; le perfidie, gli spaventi, con che si era tentato di svolger Bice dalla fede data al suo sposo, di aggirarla per farla rinunziare a lui, perché avesse a piegarsi a veder di buon occhio quel terribile uomo, che esse credevano l’autore di tutta quella persecuzione; né tacque in fine la carità usata ad esse dalla castellana, che in quanto la sua strettezza, ed il sospetto, in cui il marito vivea continuamente di lei, glielo consentivano, non avea lasciato mai di sovvenirle di opportuni avvisi, di consigli, e d’ogni sorta di consolazione. Ermelinda, commossa da quel racconto, gettava a quando a quando uno sguardo compassionevole sulla figlia che avea patito tanto; ed ella che si accorgeva troppo bene di che fosse tutto quel lungo ragionare. le rispondeva con un sorriso pieno d’amore.
Quel riposo però, quella quiete, veniva talvolta turbata da qualche rumore che si sentiva in castello: Bice si faceva tosto intenta, una lieve fiamma le saliva sul volto, e domandava alla madre: «E’ giunto?…» L’interrogata usciva tosto dalla camera, e rientrava dopo qualche tempo, dicendo di no, ed aggiugnendo sempre qualche parola di consolazione e di speranza.
Verso sera, l’inferma, che si sentiva sempre più grave, chiese d’un confessore: stette a lungo con un vecchio Benedettino che fu chiamato ad assisterla, poscia volle tornar a vedere i suoi parenti.
«Senti, figlia mia,» le disse il padre, «Ottorino non è ancor giunto, ma l’aspettiamo prima che sia giorno.»
Ella si conturbò tutta, e rispose: «Ottorino! il mio sposo! il mio caro sposo!… Oh, se il Signore m’avesse fatto tanta grazia!… se avessi potuto vederlo prima di morire!»
«Via, offritelo a Lui,» disse il pio monaco, «offritelo a Lui che ve l’avea dato; e adorate l’eterno consiglio di giustizia e di pietà, che accetta questo sacrificio del cuore ad espiazione delle vostre colpe, a rimedio dell’anima vostra.»
La poveretta congiunse le palme, e levò gli occhi al cielo in atto di viva sì, ma dolorosa rassegnazione; ma Ermelinda, posandole una mano sul capo: «Oh figlia mia!» esclamava, oh cara la mia figlia! ch’io t’abbia dunque a perdere! che mi rimane a questo mondo senza di te, ch’eri il mio conforto, la mia sola consolazione!»
La fanciulla chinò il capo, e pianse: dopo un momento ripigliava singhiozzando:
«Consolazione! avete detto? e che consolazione avete mai avuta da questa miserabile, che colla sua protervia ha seminato tante spine sul sentiero della vostra vita?… Oh cara madre! io non ve ne chieggo perdono, perché so che mi avete già perdonato tutto; e voi pure, padre mio, e voi pure m’avete perdonato, è vero?»
Ermelinda e il Conte soffocati dal pianto non potevano formar parola: stettero tutti qualche tempo in silenzio. Intanto l’ancella, dopo aver porto all’inferma non so che bevanda ristoratrice, erasi adagiata sulla seggiola a canto al letto, e vinta dalla stanchezza e dal disagio a poco a poco chinava il capo sulle coltri e s’addormentava. Bice, che se ne accorse, senza rimuovere una mano che le tenea su d’una spalla, accennò con l’altra agli astanti che stessero zitti, che si guardassero da ogni strepito; ella medesima ricambiando di tanto in tanto qualche parola col confessore, abbassò la voce, quantunque per sé stessa già mezzo spenta, e il pio monaco intenerito da quella gentile sollecitudine fece altrettanto. Dapprima, ad ogni poco ella si faceva acconciar le coltri o i guanciali; ora voleva rilevarsi, ora mutar fianco, come sogliono gl’infermi che non sanno trovar requie in nessun lato; ma adesso sforzavasi di star quieta nella giacitura in cui si trovava, osando a mala pena di trarre il fiato per paura di non destare quella sua cara, nel cui volto abbassava gli occhi, e teneali intesi in atto d’amorosa compiacenza.
Quando Lauretta si destò, cominciava a spuntar l’alba, e vedevasi la fiammella d’una lucerna posta a canto al letto impallidire al primo chiarore ch’entrava dalla vetriera di fronte.
La svegliata volse intorno gli occhi attoniti, non sapendo in quel subito dove si fosse, se non che venne ad incontrarli in quelli di Bice, la quale schiudendole un riso pieno di dolcezza: «Sei qui con me,» le disse: «sei colla tua cara Bice.» L’altra abbassò il volto, dolente e vergognoso che la fralezza delle membra avesse potuto farle obliare per qualche tempo la sua diletta padrona in quello stremo. Ma questa, che indovinò l’animo dell’amorosa compagna, seppe consolarnela tosto coll’imporre a lei sola ogni minuto servigio di che le facesse mestieri, col ricevere graziosamente tutte quelle amorevolezze, ch’essa con sottile, raddoppiata sollecitudine, le veniva profondendo.
Verso un’ora di sole disse di sentirsi stanca e di voler riposare; si coricò, chiuse gli occhi, e da lì a qualche tempo prese sonno; un sonno lento ed affannato: ma tutto ad un tratto fu vista riscuotersi come in sussulto, levò il capo dai guanciali, e tosto vi ricadde; un sudor freddo le corse sul volto, cessò l’anelito, i polsi sparirono; e fu uno spavento generale, chè tutti la credettero spirata. Non era stata però che una strettezza passeggiera di cuore, un deliquio da cui si riebbe in breve, e vedendosi d’intorno i suoi cari che si disperavano:
«Di che piangete?» disse, «ecco, ch’io sono ancora con voi.»
Tutti le si strinsero d’intorno, ed essa, dopo aver ripreso un po’ di lena, rivolta alla madre: «Però,» continuava, «sento che la vita mi fugge, e l’ora è vicina; or via, siate forte, e accogliete l’ultime mie parole, l’ultimo voto dell’anima mia.»
Si trasse di dito un anello, e lo porgeva a lei dicendo: «Mi fu dato da Ottorino alla presenza vostra; simbolo di un nodo che dovea durar poco quaggiù, ma che verrà rinnovato in paradiso… Se vi è concesso di rivederlo, rimettetelo nelle sue mani, che me lo mostrerà un giorno… E ditegli insieme, che in questo solenne momento, tremando d’avermi fra poco a trovar sola nelle mani del Signore, l’ho pregato d’una cosa, pel bene che mi ha voluto, per la sua, per la mia salute eterna, l’ho pregato che non domandi ragione ad alcuno di quel tanto che ho patito quaggiù.»
Riposò un momento, quindi accennando con un lieve moto del capo l’ancella che stavasi a piè del letto: «Io non ve la raccomando: l’avete sempre avuta negli occhi e nel cuore; ma dopo tutto quello che ha patito per me, come mi sarebbe stata una sorella, così sia per voi una figlia… Ella vi sarà più sottomessa di questa… che avete amata troppo.» E volgendosi a Lauretta: «Mi prometti?…»
«Ah! sì,» rispose l’interrogata, «non l’abbandonerò mai finché avrò vita, starò sempre con lei; tutta, tutta per lei.»
Allora sentendosi mancar le forze si tacque. Stette lungo tempo come sopita, alla fine schiuse lentamente gli occhi, li volse alla finestra d’onde entrava il sole, e mormorò fra sé stessa: «Oh le mie care montagne!»
La madre le si fece più dappresso, ed ella movendo a fatica la voce sempre più fioca e vacillante, profferì interrottamente queste parole: «Là, nel camposanto di Limonta, in quella cappelletta… dove giace il mio povero fratello… vi abbiam pregato … e pianto insieme tante volte… Ch’io riposi presso di lui … vi tornerete sola a pregare, a piangere per ambedue… Mi verrà il suffragio di quella buona gente… Salutateli tutti per me… e la povera Marta, che ha un figlio anch’essa in quel santo luogo…»
La madre più coi cenni che colla voce, impedita dal pianto, l’assicurò che avrebbe fatto ogni suo desiderio. Allora il monaco, accorgendosi come non rimanessero all’inferma che pochi istanti di vita, si pose la stola, la benedisse, e cominciò a recitar sopra di lei le orazioni degli agonizzanti. Tutti s’inginocchiarono intorno al letto, e vi rispondevano singhiozzando. Bice anch’essa, quando con un fioco articolar di voci, quando col chinar lento e divoto del capo, mostrava di prender parte agli affetti espressi da quelle sante parole: il suo volto placido e sereno rendeva testimonianza della pace di quell’anima pia, che fra i dolori della morte pregustava il gaudio d’un’altra vita.
Ma tutto ad un tratto l’augusta quiete che regnava là dentro, vien rotta da un fragore di passi concitati che salgono la scala: tutti gli sguardi si rivolgono verso l’uscio; la castellana levandosi in piedi si fa incontro a due persone che vi si affacciano, e ricambia alcune parole; l’uno dei vegnenti si ferma sul limitare, ma l’altro avventandosi nella camera si precipita ginocchione a piè del letto, ne stringe e bacia le coltri, e le innonda di lagrime.
Ermelinda, il Conte, Lauretta, conobbero tosto Ottorino; gli altri l’indovinarono.
Il giovane arrivava allora allora dal castello di Binasco in compagnia di quell’uomo, in nome del quale v’era stato tenuto prigione, e che era corso in persona a liberarlo.
La morente, scossa da quel subito trambusto, aperse languidamente gli occhi, e senza essersi potuta accorgere del sopravvenuto, chè gli altri standole d’intorno gliene toglievan la vista, domandò che fosse.
«Rendete lode a Dio,» sclamò il confessore intenerito, «avete accettata dalle sue mani l’amarezza, l’avete accettata con pace, con riconoscenza; accettate collo stesso animo la gioia che ora vi vuol dare, e tanto quella che questa vi sarà attribuita a merito.»
«Che?… Ottorino?…» disse l’agonizzante facendo un ultimo sforzo per profferire quel nome.
«Sì, il vostro sposo,» ripetè il sacerdote, e accostatosi al giovane, lo fece levare in piedi e lo condusse presso di lei. Bice gli fissò in volto gli occhi lampeggianti d’un raggio che stava per ispegnersi, e gli stese una mano, sulla quale egli chinò la faccia tramutata, ma non più lagrimosa. Dopo un istante, la moribonda ritrasse dolcemente a sè quella mano; e mostrandola al suo sposo, accennava nello stesso tempo la madre, e s’affannava per dir qualcosa senza poter mai profferire distintamente le parole. Il monaco indovinò il suo desiderio, e vôlto al giovane: «Vuol dirvi dell’anello nuziale ch’essa ha dato alla madre, e che riceverete da lei.» Il volto di Bice si animò tutto d’un sorriso, accennando di sì. Allora Ermelinda si trasse tostamente di dito quell’anello, e lo porse ad Ottorino, il quale baciollo e disse: «Verrà meco nel sepolcro.»
«E una preghiera vi ha legato la vostra sposa,» seguitava a dirgli il sacerdote, «che deponghiate, se mai l’aveste nel cuore, ogni pensiero di vendicarla. La vendetta appartiene al Signore.»
Ella tenea fissi ansiosamente gli occhi nel volto del giovane, il quale stavasi a capo basso e non rispondea parola; ma il confessore, prendendo l’irresoluto per un braccio: «Or via,» gli domandò con voce grave e severa, «lo promettete? lo promettete a questa vostra sposa, che sull’ultimo passo tra la vita e la morte, fra il tempo e l’eternità, ve lo domanda come una grazia, ve lo impone come un debito, in nome di quel Dio innanzi al quale ella sta per comparire?»
«Sì, lo prometto,» rispose Ottorino, dando in uno scoppio di pianto. Bice lo ringraziò con uno sguardo pieno d’angelica dolcezza, che mostrava chiaramente come non le restasse più nulla da desiderare a questo mondo.
Allora il sacerdote fe’ cenno agli astanti; i quali tornarono a inginocchiarsi, ed ei riprese le preghiere interrotte. Solo in un momento di sospensione e di silenzio universale, l’agonizzante parve accorgersi d’un suono represso di singhiozzi, che veniva dalla camera vicina, e levò uno sguardo lento in volto alla madre, come domandandole che cosa fosse: questa abbassò il viso fra le mani, ché non le reggeva il cuore di profferire un nome; ma il sacerdote curvandosi sulla moribonda le disse sottovoce: «Pregate anche per lui, principalmente per lui: è Marco Visconti.» La pia chinò soavemente il capo ad accennare che già lo faceva, e non fu più vista rilevarlo: era spirata.

mil37-1 2.jpegTommaso Grossi

Il romanzo di Tommaso Grossi è del 1834 e l’autore mostra di conoscere molto bene il romanzo manzoniano che viene pubblicato nella sua edizione nel 1827. Ispirandosi alla trama dei Promessi sposi e alla figura dell’Innominato – personaggio simile a Marco Visconti che si pente, alla fine della storia, delle proprie azioni – Grossi segue il modello del romanzo storico di impostazione manzoniana inserendo, però, anche elementi patetici, tragici e avventurosi tratti dalla scuola di Scott. Il brano proposto vede affiancati il tono misterioso e avventuroso che avvolge la descrizione del castello e dei suoi sotterranei e carceri in cui i due amanti sono rinchiusi e quello sentimentale e patetico della scena finale, quando Ottorino ritrova Bice in punto di morte e giura di rinunciare a vendicare la sorte subita, confidando nella giustizia divina. Ma l’accentuazione di quest’ultimo aspetto fa di questo romanzo un punto di riferimento piuttosto importante per il prosieguo del romanzo d’appendice che al di là degli esiti letterari diventa decisivo come termometro della alfabetizzazione del pubblico italiano. Tale tipologia romanzesca sarà operativa soprattutto all’indomani dell’Unità d’Italia. 

147066.jpgFilm Mario Bonnard: Marco Visconti (1940)

Se mai dovessimo scorgere un’evoluzione nel genere di romanzo storico, dovremmo leggerlo nell’opera di Ippolito Nievo la cui opera, come dice efficacemente il critico Vincenzo Mengaldo, potrebbe definirsi come un “romanzo storico del presente”.

Ippolito Nievo nasce a Padova nel 1831. Studia nella città veneta legge, ma rimane affascinato, sin dalla più giovane età dalle idee mazziniane. Svolge un’intensa attività politica che lo porta a partecipare all’avventura garibaldina. Dopo Calatafimi e Palermo, rimane in città, dove svolge l’attività di sovrintendente. Di ritorno dalla Sicilia con i documenti amministrativi della spedizione, muore in mare per un naufragio della nave “Ettore” su cui si era imbarcato. Era il 1861.

15_01_18-06_00_45-s6f6a0a6498cbe7a8b419ab0d86020c8.jpgIppolito Nievo

L’opera di cui ci occupiamo è Confessioni di un italiano (conosciute anche come Confessioni di un ottuagenario) scritte, in modo anche piuttosto veloce, tra il 1578 e il 1579, ma pubblicate postume nel 1867.

La vicenda s’immagina narrata dal protagonista quando è ormai più che ottuagenario e copre le vicende che vanno dal 1775 al 1885. Carlo Altoviti, allevato da uno zio, il conte di Fratta, si innamora ancora adolescente della cugina, la Pisana. A padova, dove va a studiare, Carlo è infiammato da ardori patriottici e liberali: la Pisana, che ha sposato un nobile, vecchio e ricchissimo, un po’ perché malconsigliata, un po’ per far dispetto a Carlo, lo raggiunge. Bizzarra, volubile, appassionata, gli resta accanto a Napoli, dove il giovane partecipa ai moti della Repubblica Partenopea, a Genova assediata, a Bologna. Qui lo abbandona, ma per tornare da lui a Venezia, quando egli si ammala, curandolo con abnegazione. Caduto Napoleone, Carlo partecipa ai moti liberali e viene arrestato: è condannato ai lavori forzati e nel carcere perde la vista. Commutata la pena nell’esilio, si reca a Londra, accompagnato dalla Pisana che arriva a mendicare per aiutarlo. A Londra Carlo incontra un amico, valentissimo medico, che gli ridona la vista; ma la Pisana, ormai gravemente ammalata, muore.

LA PISANA

La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castani e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a color che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l’altro arrotondato sopra la fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco ch’ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi corbellato col far le viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l’occhio, o si dimenticava del precetto avuto; poiché del resto la Contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza dalla sua puttina, e di non lasciarmi prender con lei eccessiva confidenza. Per me c’erano i figliuoli di Fulgenzio, i quali mi erano abbominevoli più ancora del padre loro, e non tralasciava mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi si affaccendavano di spifferare al fattore che mi aveano veduto dar un bacio alla contessina Pisana, o portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della peschiera. Peraltro la fanciulletta non si curava al pari di me delle altrui osservazioni, e seguitava a volermi bene, e cercava farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa, che era l’altra cameriera, o la donna di chiave che or si direbbe guardarobbiera. Io era felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui poteva credermi utile; e prendeva un certo piglio d’importanza quando diceva a Martino: «Dammi un bel pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana!» Cosí la chiamava con lui; perché con tutti gli altri non osava nominarla se non chiamandola la Contessina. Queste contentezze peraltro non erano senza tormento poiché pur troppo si verifica così nell’infanzia come nell’altre età il proverbio, che non fiorisce rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del vicinato coi loro ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e berrettini colla piuma, la Pisana lasciava da un canto me per far con essi la vezzosa; e io prendeva un broncio da non dire a vederla far passettini e torcer il collo come la gru, e incantarli colla sua chiaccolina dolce e disinvolta. Correva allora allo specchio della Faustina a farmi bello anch’io; ma ahimè che pur troppo m’accorgeva di non potervi riescire. Aveva la pelle nera e affumicata come quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e di macchie, i capelli scapigliati e irti intorno alle tempie come le spine d’un istrice e la coda scapigliata come quella d’un merlo strappato dalle vischiate. Indarno mi martorizzava il cranio col pettine sporgendo anche la lingua per lo sforzo e lo studio grandissimo che ci metteva; quei capelli petulanti si raddrizzavano tantosto più ruvidi che mai. Una volta mi saltò il ticchio di ungerli come vedeva fare alla Faustina; ma la fatalità volle che sbagliassi boccetta e invece di olio mi versai sul capo un vasetto d’ammoniaca ch’essa teneva per le convulsioni, e che mi lasciò intorno per tutta la settimana un profumo di letamaio da rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime vanità fui ben disgraziato e anziché rendermi aggradevole alla piccina, e stoglierla dal civettare coi nuovi ospiti, porgeva a lei e a costoro materia di riso, ed a me nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d’avvilirmi. Gli è vero che partiti i forestieri la Pisana tornava a compiacersi di farmi da padroncina, ma il malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza sapermene liberare, trovava troppo varii i suoi capricci, e un po’ anche dura la sua tirannia. Ella non ci badava, la cattivella. Avea forse odorato la pasta di cui era fatto, e raddoppiava le angherie ed io la sommissione e l’affetto; poiché in alcuni esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per chi li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni cotali esseri; so che io ne sono un esemplare; e che la mia sorte tal quale è l’ho dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza non è malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti; almeno a casa mia.
Devo peraltro confessare a onor del vero che per quanto volubile, civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni, ella non mancò mai d’una certa generosità; qual sarebbe d’una regina che dopo aver schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino, intercedesse in suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciuzzava come il suo cagnolino, ed entrava con me nelle maggiori confidenze; poco dopo mi metteva a far da cavallo percotendo con un vincastro senza riguardo giù per la nuca e traverso alle guancie; ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad interrompere i nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della Contessa, ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo più che a tutti gli altri, che voleva stare con me e via via; finché dimenandosi e strillando fra le braccia di chi la portava, i suoi gridari si ammutivano dinanzi al tavolino della mamma. Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che l’era più orgoglio ed ostinazione che amore per me. Ma non mescoliamo i giudizi temerari dell’età provetta colle illusioni purissime dell’infanzia.

Il brano ci presenta uno dei ritratti femminili più giustamente celebrati, e tale capacità è tutta nell’adottare il punto di vista di Carlino il quale ci descrive La Pisana a partire dalla sua soggezione rispetto a lei; quindi, attraverso il suo filtro in questo caso da adolescente innamorato, esclude a priori ogni atteggiamento moralistico o pedagogico. L’autore infatti non esprime giudizi e se è lo stesso Carlino (alter ego, chiaramente di Ippolito) a non esprimerli è lo stesso lettore che se ne deve esentare. Iltutto è aiutato anche da una forma lessicale assolutamente nuova, i cui linguaggi vengono mescolati con elementi vernacolari veneti e lombardi, registri a volte aulici a volte colloquiali, termini presi dalla tradizione culturale toscana: insomma un anti purismo assai lontano dal progetto linguistico manzoniano.

Le_confessioni_d'un_italiano.jpgManoscritto del romanzo

Tuttavia è l’intero progetto di Nievo ad essere interessante: egli è pienamente convinto che una storia individuale ha senso se si lascia catturare e quindi fluisce con i grandi avvenimenti; la vita di Carlino e de La Pisana è sì una grande storia d’amore ma tale storia si vivifica nel momento in cui partecipa alle azioni, alle scelte politiche, alle ideologie. Nievo va oltre il manzonismo di Renzo e Lucia (persone semplici è vero, che si stagliano nel palcoscenico secentesco) e fa dei suoi protagonisti delle figure vive, attori protagonisti nel palco sette/ottocentesco. E’ evidente che tale posizione trasformi il romanzo anche in un perfetto Bildungsrosman (romanzo di formazione) ottenuto attraverso un racconto che si muove continuamente tra presente e passato (Carlino che vive, Carlino che ricorda e giudica). Un ultimo aspetto che ci dice come NIevo abbia meditato sull’ideologia di Rousseau, facendo della vita campagnola e della giovinezza un eden perduto rispetto alla corruzione della città. E’ per tutto questo che l’opera di Nievo è di fondamentale importanza, come ponte di passaggio tra il Romanticismo ed il Verismo.

22737611199_2.jpgIllustrazione di un’edizione de Confessioni di un italiano (I capitolo)

Altro genere che avrà un ruolo determinante nell’ispirare ideali risorgimentali è quello memorialistico. Anche qui il riferimento è nelle opere settecentesche (si pensi a Goldoni ed Alfieri), ma se in esse il punto di riferimento è individualistico, qui l’io diventa espressione di un movimento. Gli scrittori romantici che adottano tale genere sia prima dell’unità, come Pellico e Settembrini, sia dopo come Abba, sembra siano pienamente consapevoli del loro ruolo di testimonianza di uomini inseriti in un processo storico, quale appunto quello risorgimentale, capitale per gli avvenimenti politici cui aderiscono.

Tra le opere maggiormente lette e la cui lettura proseguirà, con intento edificante, fino agli anni Cinquanta, vi è Le mie prigioni di Silvio Pellico.

3801359bb2e0427f8ffb5666767399e1-1.jpgSilvio Pellico, nasce a Saluzzo nel 1789. Completa gli studi a Lione, presso un ricco parente e acquisisce una buona cultura francese. Si stabilisce poi a Milano dove incontra Foscolo e Monti e fra gli stranieri la Staël, Stendhal e Byron. Ottiene un vero e proprio trionfo con la Francesca da Rimini, rappresentata nel 1815. Inseritosi nei circoli romantici, precettore in casa del conte Lambertenghi, è uno dei più assidui collaboratori del Conciliatore. Introdotto nella Carboneria, il 13 ottobre 1820 viene arrestato e poi processato e condannato a morte, ma la pena viene commutata a quindici anni di “carcere duro”, da scontare nella fortezza dello Spielberg, in Moravia. Nel 1830 è graziato e torna a Torino, dove vive come bibliotecario dei marchesi Barolo, adeguandosi alla mentalità reazionaria e bigotta di quell’ambiente. Muore nel 1854.  

IL CARCERIERE SCHILLER

Maroncelli ed io fummo condotti in un corridoio sotterraneo, dove ci s’apersero due tenebrose stanze non contigue. Ciascuno di noi fu chiuso nel suo covile.
Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più che in due amici, egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa è il dividersi! Maroncelli nel lasciarmi, vedeami infermo, e compiangeva in me un uomo ch’ei probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore splendido di salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore infatti oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in quale stato!
Allorchè mi trovai solo in quell’orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi al barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto ed un enorme catena al muro, m’assisi fremente su quel letto, e presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me. Mezz’ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s’apre: il capo-carceriere mi portava una brocca d’acqua.
«Questo è per bere,» disse con voce burbera; «e domattina porterò la pagnotta.»
«Grazie, buon uomo.»
«Non sono buono,» riprese.
«Peggio per voi,» gli dissi sdegnato. «E questa catena,» soggiunsi, «è forse per me?»
«Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro, che una catena a’ piedi. Il fabbro la sta apparecchiando.»
Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de’ lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l’espressione odiosissima d’un brutale rigore!
Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall’apparenza, e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch’io m’immaginava agitasse allegramente le chiavi, per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch’io riputava impudente per lunga consuetudine d’incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento. Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole, e per timore ch’io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo.
Nojato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d’umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore:
«Datemi da bere.»
Ei mi guardò, e parea significare: “Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare.”
Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M’avvidi pigliandola, ch’ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio.
«Quanti anni avete?» gli dissi con voce amorevole.
«Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui.»
Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito, nell’atto ch’ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d’un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall’anima mia l’odio che il suo primo aspetto m’aveva impresso.
«Come vi chiamate?» gli dissi.
«La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d’un grand’uomo. Mi chiamo Schiller.»
Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l’origine, quali le guerre vedute, e le ferite riportate.
Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a’ Turchi sotto il general Laudon a’ tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell’Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone.
Quando d’un uomo che giudicammo dapprima cattivo, concepiamo migliore opinione, allora, badando al suo viso, alla sua voce, a’ suoi modi, ci pare di scoprire evidenti segni d’onestà. È questa scoperta una realtà? Io la sospetto illusione. Questo stesso viso, quella stessa voce, quegli stessi modi ci pareano, poc’anzi, evidenti segni di bricconeria. S’è mutato il nostro giudizio sulle qualità morali, e tosto mutano le conclusioni della nostra scienza fisionomica. Quante facce veneriamo perchè sappiamo che appartennero a valentuomini, le quali non ci sembrerebbero punto atte ad ispirare venerazione se fossero appartenute ad altri mortali! E così viceversa. Ho riso una volta d’una signora che vedendo un’immagine di Catilina, e confondendolo con Collatino, sognava di scorgervi il sublime dolore di Collatino per la morte di Lucrezia. Eppure siffatte illusioni sono comuni.
Non già che non vi sieno facce di buoni, le quali portano benissimo impresso il carattere di bontà, e non vi sieno facce di ribaldi che portano benissimo impresso quello di ribalderia; ma sostengo che molte havvene di dubbia espressione.
Insomma, entratomi alquanto in grazia il vecchio Schiller, lo guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel suo favellare, in mezzo a certa rozzezza, eranvi anche tratti d’anima gentile.
«Caporale qual sono,» diceva egli, «m’è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia!»
Mi pentii di avergli dimandato con alterigia da bere. «Mio caro Schiller,» gli dissi, stringendogli la mano, «voi lo negate indarno, io conosco che siete buono, e poichè sono caduto in quest’avversità, ringrazio il Cielo di avermi dato voi per guardiano.»
Egli ascoltò le mie parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha un pensiero molesto: «Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d’abusi, e tanto più i prigionieri di stato. L’Imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli.
«Voi siete un brav’uomo, ed io rispetterò ciò che riputate debito di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è puro innanzi a Dio.»
«Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca. Sarò ferreo ne’ miei doveri, ma il cuore… il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl’infelici. Questa è la cosa ch’io volea dirle.»
Ambi eravamo commossi. Mi supplicò d’essere quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente.
Prese poscia un accento ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse: «Or bisogna ch’io me ne vada.»
Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo io tossissi così miseramente com’io faceva, e scagliò una grossa maledizione contro il medico, perchè non veniva in quella sera stessa a visitarmi.
«Ella ha una febbre da cavallo,» soggiunse; «io me ne intendo. Avrebbe d’uopo almeno d’un pagliericcio, ma finchè il medico non l’ha ordinato, non possiamo darglielo.»
Uscì, richiuse la porta, ed io mi sdrajai sulle dure tavole, febbricitante sì, e con forte dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli uomini, meno lontano da Dio.
A sera venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.
Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl’inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.
La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino, per rompere la faccia al primo che mi s’appressasse.
«Che fa ella?» disse il soprintendente. «Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi d’irregolare.»
Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi verso me e tendermi amicamente la mano, il suo aspetto paterno m’ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.
«Oh come arde!» diss’egli al soprintendente. «Si potesse almeno dargli un pagliericcio!»
Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordoglio, che ne fui intenerito.
Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.
«Qui tutto è rigore anche per me,» diss’egli. «Se non eseguisco alla lettera ciò ch’è prescritto, rischio d’essere sbalzato dal mio impiego.»
Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso, ch’ei pensava tra sé: “S’io fossi soprintendente, non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo.”
Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s’intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: «Fa ch’io discerna pure negli altri qualche dote che loro m’affezioni; io accetto tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch’io ami! deh, liberami dal tormento d’odiare i miei simili!.
A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s’apre. È il caporale con due guardie, per la visita.
«Dov’è il mio vecchio Schiller?» diss’io con desiderio. Ei s’era fermato nel corridoio.
«Son qua, son qua,» rispose.
E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.
«Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì!» borbottava egli; «pur troppo giovedì!»
«E che volete dire con ciò?»
«Che il medico non suol venire, se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani pur troppo non verrà.»
«Non v’inquietate per ciò.»
«Ch’io non m’inquieti, ch’io non m’inquieti! In tutta la città non si parla d’altro che dell’arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?»
«Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì?»
Il vecchio non disse altro; ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benchè mi facesse male, n’ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato, se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma, invece, le sorride, e s’estima beato.

Silvio_Pellico_allo_Spielberg.jpg“In uno stile misurato e dimesso, privo di enfasi e di toni patetici, l’autore offre in questo episodio, uno dei più celebri de Le mie prigioni, un esempio del processo di trasformazione da lui vissuto in carcere. I ruoli sociali separano Pellico dal suo carceriere e, soprattutto, lo sdegno e l’odio, impediscono all’autore di cogliere l’umanità di Shiller. Per questo motivo il centro ideologico dell’episodio, e che vale come chiave di lettura dell’intera opera, consiste nella preghiera con cui Pellico si rivolge a Dio affinché lo liberi dal tormento di odiare il suo prossimo e l’aiuti a scoprire l’altrui umanità.”
(De Caprio / Giovanardi).

Sentenza_di_condono_della_pena_di_morte_per_Silvio_Pellico,_Pietro_Maroncelli_Giovanni_Canova_-_Venezia_-_21-02-1822_-_manifesto_su_carta.jpegSentenza di condono per Pietro Maroncelli e Silvio Pellico

Sembra quasi che il 1848 segni una forte linea di demarcazione tra il romanzo scritto prima e quello successivo. La spinta propulsiva del romanzo storico o anche quella di tipo memorialistico pubblicata tra gli anni ’20 e ’40 aveva come funzione quella pedagogica che ben poteva essere riassunta nel detto manzoniano “l’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo.” Il fallimento di tale moto, porta lo stesso romanzo a riflettere su stesso e ad indagare la realtà senza il filtro della storia o della memoria. 

A tale scopo sembra interessante il tentativo di Niccolò Tommaseo, che nasce nel 1802 a Sebenico in Dalmazia da famiglia veneta. Giovane si trasferisce prima a Milano poi a Firenze. Qui nell’Antologia di Viesseux scrive un articolo antiaustriaco che lo costringe all’esilio. Si rifugia a Parigi dove entra in contatto con i fuoriusciti italiani. Qui scrive alcune sue opere tra le quali Fede e bellezza, che terminerà quando torna a Venezia. Nel 1847 viene arrestato dopo aver tenuto un discorso sulla libertà di stampa; liberato l’anno successivo (1848), partecipa al governo veneto, battendosi per la non unificazione con il Piemonte e per la guerra in Austria. Battuta la repubblica si rifugia a Corfù, poi nel ’54 raggiunge Torino e nel ’59 Firenze. Gli ultimi anni sono funestati dalla ciecità. Muore a Firenze nel 1874, repubblicano convinto che rifiuta la cittadinanza italiana. 

Il romanzo si avvale di una tecnica mista di rievocazioni dell’uno e dell’altro protagonista, pagine di diario, narrazione in terza persona. La vicenda è povera di avvenimenti, mentre abbondano le confessioni e gli sfoghi sentimentali. Giovanni e Maria si sono conoscuiuti a Quimper; i due si confidano il loro passato, le esperienze amorose di cui furono ora vittime ora colpevoli; dopo aver superato contrasti e tentazioni, si sposano. Anche nel matrimonio continuano a confidarsi ogni più piccolo moto dell’animo. Poi Giovanni si batte in un duello con un francese che ha insultato l’Italia; ferito, guarisce, ma per vedersi morire tra le braccia, consunta dalla tisi, Maria. 

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LA MORTE DI MARIA

Una notte di dicembre fredda e piovosa (eran le undici sonate, e il fuoco del caminetto già spento), Maria pregata, non voleva smettere prima di finire il lavoro. Giovanni le si accosta quasi supplichevole: e stava per baciarla in fronte, quando s’accorge di non so che rosso sul volto suo più pallido e più soavemente mesto che mai. Mentre guarda spaventato, Maria ritira in fretta la pezzuola che aveva sul grembiule; egli trepidando gliela prende, la trova intrisa di sangue, e mette un grido. «Non è nulla.» «Da quando?» «Dall’altr’ieri. Oh per carità non vi spaventate.» Egli cadeva abbattuto sopra una seggiola; e Maria l’abbracciava sollecita come fa madre figliuolo pericolante. Solevano (tale fin dal primo era il patto) dormire divisi: che da questo reciproco rispetto, conducevole insieme a virtù e a libertà, a sanità e a pulizia, credevano giovarsi l’amore. Ma quella sera ell’era sì ghiaccia, ed egli sì intimorito, e sì diffidente del silenzio di lei, che pregò di posarlesi accanto. E nell’impeto del dolore innamorato congiunsero labbro a labbro; e con ardore più abbandonato ma con anima monda riprovarono nuove le gioie note: ed egli le disse parole d’amore quali ella non aveva sentite, misera, mai […]. Un’imagine or lontana or presente, velata dalla speranza, ma pur terribile, gli stava dinanzi; e avvelenava la dolcezza, e la faceva correre più veemente, penetrar più profonda. Parevagli d’abbracciare una donna condannata a morire, e la stringeva a sé come per rattenere l’angelo suo fuggente. Ma dell’affannarla col tremito dell’amore sentiva rimorso, e ristava a un tratto: ed essa con dolce voce lo chiamava confortando, e parlava degli anni avvenire. Così passarono tutta la notte: e mentr’ella s’addormentava, semi aperte le labbra rosseggianti, e con sul pallido viso la pace di persona consolata; Giovanni pensava: “Dio buono! difficil cosa anco i puri affetti esercitare con animo puro. Quante memorie vietate, fin ne’ concessi abbracciamenti! Perdono, o terribile Iddio dell’amore severo! Non mi punite: non togliete a me questa ch’è ormai conglutinata con l’anima mia!”. […] Il male ripigliava con furia: le febbri talvolta la levavan di sé; e nel delirio vedeva cose pietose, e quando liete, ch’erano più di tutte pietose a sentire. La notte del dì ventun di dicembre vaneggiò lungamente. “… Mi manca il respiro. E una volta mi pareva sì poca cosa quest’erta. Non è costì la chiesetta dell’Annunziata, e Bastia colaggiù? Inginocchiamoci. Questo ramoscello d’ulivo chi ce l’arà messo all’inferriata così? Una donna di quelle che si rammentano il Paoli. Vo’ serbarne una foglia. E gli allori della tomba d’Arquà? L’ho veduta io. Come bello il grande avvallar di que’ colli, che Dio destinava a consolazione d’un’anima pentita! Ma un fiume ci manca. La Brenta vorrei qui; e non tutte, ma qualche allegra palazzina delle allegre sue rive. La Brenta mi piace: le grandi correnti del Po mi spaventano. I’ amo il grande nel lieto, io mesta. Ferrara mi piace, città serena e solinga. Ve’ ve’, Giovanni, un ponte dell’Adige che accavalcia il Po; e la collina gaia di fronte: e un altro ponte, e un altro ancora. Ma non è questa, Verona? Come presto siam giunti! Son pur liete le città della povera Italia! Non posso più. Sediamo su questa gradinata: io sono inferma; m’è lecito a me. Nel duomo d’Imola un giorno pregai ginocchioni sopra una gradinata così. I’ ero bella allora, dicevano: e adesso! Ma dentro rea, e irrequieta. Quanto soffersi! E quella notte a Mantova nel sotterraneo di sant’Andrea, quanto piansi! Ma non è Pesaro, quella? Quelle statue che biancheggiano sotto gli alberi… Che? non son cerri codesti. Oh l’aveste veduta, quella ragazzina di Pescia, come parlava soavemente! con dinnanzi un fascio di legne di cerro, nuda i piè: pur bellina! – Ah il mio petto! Preghiamo Dio che mi dia pazienza. Non mi reggo ritta. Poserò la fronte da un lato di quest’altare. Che dice lassù? A Cristo… poi una parola scancellata. Povera me, non ci veggo più. Ma le sculture sono del Cividale: le riconosco. Oh Giovanni, compratemi un quadrettino di Frate Angelico: piccolo, purché di lui. Vi ricordate di quell’Annunziata che vidimo a Nantes? L’angelo come pudico, com’angelica in viso Maria, bruna, gracile, veneranda! L’angelo, le mani al petto, ella giunte e commesse, vestita di rosso pallido, d’azzurro pallido, e il fondo, un rosso più vivo: leggeva. E all’angelo era verde il manto e parte dell’ali, e sopra volante una colomba candida in raggi d’oro. Son pur gentili le creature dell’uomo che crede in Dio!” Qui la lingua impedita dava suoni confusi: e Maria nello sforzo si riscoteva ansimando.
Il dì ventidue peggiorò. Tornando frettoloso Giovanni da chiamare il medico, sulla piazza l’arresta una fila di bambini che, condotti da’ buoni fratelli delle scuole cristiane, uscivano da messa a due a due, con le braccia un sull’altro raccolte al petto, vispi, modesti, i be’ capelli giù per le spalle, e più gentili i più poveretti. S’impazientiva egli dell’intoppo, preparato da Dio per dargli luogo d’imbattersi col buon prete di Pontcroix, che in quel punto uscì di chiesa, e primo lo vide, e lo salutò con gioia, perché nulla sapeva del male di lei. Giovanni lo pregò di venire; e perché il prete dubitava: «venite. La consolerà rivedere chi le ha fatto del bene. E anch’a voi farà bene il vederla in tale stato. La lo conosce il suo stato. Parlatele senza tema di spaurirla: l’offendereste, se no».
Maria nel vederlo alzò il braccio e la voce come persona sana, e brillò ne’ begli occhi languidi. Egli tacito e conturbato le si pose di fronte appiè del letto, gli occhi abbassati levando or a lei ora al crocefisso, e cominciò: «Maria, un’altra volta io vi vidi languente, e vi consolai parlando del nostro buon Dio. Egli solo sa se voi siate destinata a più lungo patire: ma il patire v’ha già da gran tempo preparata alla morte. Terribile parola all’anima degli spensierati, non a coloro che l’hanno tante volte invocata nel pianto. Il più gran dolore di chi muore amato, è il dolore de’ cari che restano: ma con essi rimane Iddio. Duro mistero all’amore umano, ma certo come la morte: la vostra partita, o sorella, per quelli che v’amano sarà il meglio. Ringraziate Iddio delle consolazioni c’ha sparse sull’afflitta vostra vita; pensate agli errori commessi; e doletevene con amorosa fiducia nell’instancabile Amore. Offrite in espiazione le pene dell’ultimo sacrifizio: offritele per coloro che muoiono in quest’istante a migliaia su tutte le regioni della terra, più infelici e men disposti di voi; per que’ che rimangono a tribolare e a peccare, per que’ che nascono e nasceranno; per le nazioni intere ch’hanno terribilmente affannata vita e agonia lunga anch’esse. Noi di quaggiù pregheremo che, giunta presto in luogo di luce, ci assistiate di lassù, e c’insegniate la via. Se le consolazioni umane non fossero poca cosa ai pensieri di Dio, e se voi già nol sapeste, vi direi che, finch’io vivo, Giovanni il vostro marito, averà in Bretagna un fratello; che a me vederlo e meritare il su’ affetto, sarà consolazione desiderata: direi che morite benedetta, o Maria…».

19018571624.jpgFede e bellezza (1840)

Ci troviamo di fronte ad una delle ultime pagine del tesrto di Tommaseo, dove ci viene descritto il lungo delirio di Maria. Tale episodio se da una parte richiama la figura dell’Ermengarda di manzoniana memoria, non lesino l’apporto della conoscenza del romanzo francese (nello specifico Volupté di Saint-Beuve), nonché di alcune eroine epiche o tragiche. Quello che interessa è qui l’ibridismo linguistico di Tommaseo: voci antiche, calchi dal latino, vocaboli in uso, ma soprattutto quasi un “anticipo” del flusso di coscienza. 

Tuttavia quello che vogliamo sottolineare è che il tentativo di Tommaseo di riprendere il romanzo “realista” che in Francia vedeva i capolavori di Stendhal e Balzac, ma tale tentativo non riesce a partorire un’opera che possa pareggiare, per importanza, sul piano europeo, il capolavoro manzoniano. 

UGO FOSCOLO

File:Ugo Foscolo.jpg - WikisourceFrançois-Xavier Fabre: Ritratto di Ugo Foscolo (1807)

Biografia

Ugo Foscolo, battezzato con il nome Niccolò Ugo, nasce nell’isola greca di Zante nel 1778. Il padre, Andrea, è un medico veneziano, mentre la madre è greca, Diamantina Spathis. Ancora bambino, si reca a Spalato, insieme alla famiglia, nella quale riceve i primi rudimenti culturali nel seminario della città. Dopo la morte del padre, avvenuta quando lui aveva appena dieci anni, viene rimandato dai parenti ellenici, mentre la madre raggiunge Venezia. Si recherà, quasi non conoscendo l’italiano, dalla genitrice nel 1792 e nella città lagunare, pur nelle difficoltà economiche, approfondisce da solo gli studi classici e le letture di autori moderni, affacciandosi, pur ragazzo, negli ambienti intellettuali veneziani e dando prova di sé con quelli che potremo definire “abbozzi” letterari. Frequenta i salotti aristocratici in compagnia di altri scrittori, fra cui quello di Isabella Teotochi Albrizzi, che sarà la prima di una lunga serie di amori.

File:9222 - Venezia - Casa di Ugo Foscolo in Campo de le gatte - Foto  Giovanni Dall'Orto, 30-Sept-2007.jpg - Wikipedia

La casa veneziana di Foscolo

Foscolo si getta a capofitto anche nella vita politica e civile, mostrando simpatia per le idee democratiche e rivoluzionarie che provenivano dalla Francia e, sul piano culturale, progetta un vero e proprio Piano di studi, da lui redatto nel 1796, all’interno del quale troviamo l’ideazione di  un romanzo Laura, lettere (il primo abbozzo di Jacopo Ortis). All’arrivo di Napoleone, trasformata l’Italia del nord in repubbliche, dapprima, sospetto al governo veneziano, si rifugia nei colli Euganei, ma al ritorno nella città lagunare fece rappresentare il Tieste (1797) tragedia di stile alferiano piena di accenti libertari. Il successo che le arrise mise ancor di più in sospetto Foscolo che, raggiunta Bologna si arruola nell’esercito della Repubblica Cisalpina; e in questa città che scrisse l’ode A Bonaparte liberatore. Nel frattempo anche Venezia viene conquistata dal generale corso: tornato nella sua città liberata, viene chiamato a svolgere l’incarico di segretario della municipalità, ma proprio durante il suo servizio si rende conto dell’ambiguità del generale francese.  
Nel 1797, con il trattato di Campoformio, Napoleone cedeva Venezia all’Austria in cambio di Milano. Deluso dal generale corso, esilia nella città lombarda, dove frequenta grandi autori, fra cui Parini e Monti. Collabora quindi alla redazione del Monitore italiano, giornale che promuove una visione patriottica e libertaria per l’Italia. Costretto il giornale alla chiusura, si rifugia nuovamente a Bologna. Comincia a pubblicare, senza portarlo a conclusione, il romanzo Le ultime lettere di Jacopo Ortis (edizione del 1798 o anche detta edizione Sassoli). Quando le truppe austro-russe scendono in Italia (a seguito della campagna d’Egitto di Napoleone) Foscolo si arruola con l’esercito francese, combattendo dapprima a Bologna e rimanendone ferito, quindi trasferendosi a Genova, per difendere la repubblica; qui nasce l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo. Tra il 1801 ed il 1803, rimasto all’interno dell’esercito francese, compie vari incarichi: si ritrova dapprima a Firenze, dove vive una travolgente passione per Isabella Roncioni; torna a Milano dove nasce un nuovo amore per Antonietta Fagnani, ma è un periodo estremamente fecondo a livello culturale: corregge l’Ortis e pubblica un volume che raccoglie la sua produzione poetica che contiene alcuni suoi capolavori come la seconda ode All’amica risanata e i celeberrimi sonetti In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera.
Foscolo decide quindi di arruolarsi nell’esercito che avrebbe dovuto sbarcare in Inghilterra ed in terra francese si dedicherà a traduzioni, fra cui il Viaggio sentimentale di Sterne. E’ in questa occasione che Foscolo si ritroverà padre di Mary, che egli chiamerà col nome di Floriana. Tornato a Milano, nel Regno d’Italia, dà alle stampe il suo capolavoro I Sepolcri. Nominato professore presso l’università di Pavia, il Foscolo tiene la prolusione inaugurale Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, ma la cattedra verrà soppressa. Scrive l’Ajace, tragedia di stampo alfieriano, ma accusato dalla polizia di aver voluto rappresentare dietro le spoglie del tiranno greco, la figura di Napoleone, viene invitato ad allontanarsi dalla città.
Quindi Foscolo lascia di nuovo Milano e si rifugia a Firenze, dove sembra trovare una maggiore serenità, testimoniata dal progetto di lavoro su Le Grazie, elaborandone  il nucleo fondamentale.
Alla caduta di Napoleone, Foscolo si rifiuta di collaborare con il governo austriaco restaurato, si rifugia dapprima in Svizzera, ma ricercato dalla polizia, si rifugia in Inghilterra, tra le braccia della figlia Floriana. Si isola sempre più, circondato da debiti. Muore nel 1827 in un sobborgo di Londra. Dopo il raggiungimento dell’unità le sue ossa verranno trasferite a Firenze, a Santa Croce.

Personalità

La vita del Foscolo e la sua ideologia si può dire sia figlia di tre elementi, storici e letterari, che la forgiarono:

  1. il ’700, col suo illuminismo;
  2. la fine del secolo con la Rivoluzione Francese e l’avventura napoleonica, nonché con il neoclassicismo e le personalità di Parini e Alfieri;
  3. e il primo ’800, con la cultura nordica europea e sturmundraghiana.

Tuttavia egli riuscì, nonostante le diverse influenze a costruirsi una vera e propria individualità, assolutamente nuova nell’Italia di allora, che fece di lui una persona talmente eccezionale da costituire, sin da quando era in vita, un vero e proprio mito, fortemente operante per gli intellettuali immediatamente successivi.

Egli infatti, con il suo amore per la libertà e l’odio cocente per chi non la rispetta, le sue avventure sentimentali (molte le donne del Foscolo), il gioco, i debiti, ci offre il primo esempio di biografia romantica, sostanziata in quel “genio e sregolatezza” che è tipico dell’intellettuale europeo. Si direbbe che il corso dell’esperienza foscoliana abbia qualcosa di provvisorio, di non definito, che insomma, nonostante la sua formazione illuministica, egli ubbidisca maggiormente all’istinto più che alla ragione, ma forse questo non corrisponderebbe alla realtà. La sua capacità invece è nel dominio, attraverso la parola poetica, di tutte le sue pulsioni. Egli, infatti, riesce, a volte più a volte meno, a dominare quello “spirto guerrier ch’entro (gli) rugge” entro un’armonia, un equilibrio, un ordine intellettuale e morale tipico del nostro autore, che lo stessa retorica classica, nonché l’esperienza alfieriana, gli avevano insegnato. Ed è proprio in questo dominio delle passioni nella pagina scritta che il Foscolo incontra la cultura europea, di cui assimila gli aspetti più congeniali del suo tempo, senza rinnegare il neoclassicismo di cui il nostro autore fa parte. Insomma nel Foscolo c’è l’esigenza di riempire quel vuoto fra mondo reale (romanticismo) e mondo ideale (neoclassicismo), inserendo fra essi tutto il suo sentire e il suo modo di percepire il mondo circostante. Ma per far questo è necessario liberarsi dallo statuto dell’intellettuale asservito al potere, per questo Foscolo deve vivere del suo lavoro: scrive sui giornali, insegna, fa il critico letterario e via dicendo.

Il romanzo

Il genere “romanzo” cui attende Foscolo è quello epistolare. Esso ebbe, all’inizio dell’Ottocento, vasta eco grazie anche ai successi internazionali dell’opera di Rousseau, la Nouvelle Eloise (1761) nella quale, attraverso lettere di vari personaggi, si ripercorreva la storia di un amore sfortunato, e, soprattutto I dolori del giovane Werther di Goethe del 1776, in cui si racconta l’impossibilità  da parte di Werther d’amare Lotte, già promessa ad Albert e che si conclude con un suicidio.

Ultime lettere di Jacopo Ortis: riassunto

Le ultime lettere di Jacopo Ortis, modellata in gran parte su quella goethiana, è la prima opera tipicamente foscoliana: esce per la prima volta nel 1798 col titolo Vera storia di due amanti infelici, ma l’opera è solo in parte del Foscolo; costretto ad interromperla, viene proseguita, per volere dell’editore, da Angelo Sassoli. Nel 1802 esce il romanzo terminato dal Foscolo, che poi lo corregge nel 1816-1817.

Il romanzo è in forma epistolare: dopo che Venezia è stata ceduta da Napoleone all’Austria, Jacopo Ortis si rifugia, deluso, presso i colli Euganei, dove incontra Teresa e se ne innamora; ma il padre di lei l’ha già promessa al ricco Odoardo. Quindi il giovane amareggiato per l’infelice amore e braccato dalla polizia si spinge in diverse città d’Italia, dapprima a Firenze, dove visita i sepolcri di Santa Croce, a Milano, dove incontra il Parini e a Ravenna, dove s’inchina di fronte alla tomba di Dante; disperato torna nel Veneto: rivede Teresa ormai sposa, saluta la madre e si uccide.

Il romanzo si apre con un invito da parte dell’amico di Jacopo al lettore:

AL LETTORE

Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consecrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto.

Lorenzo Alderani

Già da questa premessa si può capire la struttura che sottende il romanzo: esso infatti contiene solo le lettere di Jacopo e non quelle di risposta dello stesso Lorenzo; ciò serve a disegnare una biografia eroica, modellata su quella di Alfieri, dalla quale soltanto coloro che possiedono lo stesso “alto sentire”, potranno trarre “esempio e conforto”.

LA DELUSIONE POLITICA

Dai Colli Euganei, 11 Ottobre 1797

Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? Consola mia madre: vinto dalle sue lagrime le ho obbedito, e ho lasciato Venezia per evitare le prime persecuzioni, e le più feroci. Or dovrò io abbandonare anche questa mia solitudine antica, dove, senza perdere dagli occhi il mio sciagurato paese, posso ancora sperare qualche giorno di pace? Tu mi fai raccapricciare, Lorenzo: quanti sono dunque gli sventurati? E noi, pur troppo, noi stessi Italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’Italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da pochi uomini buoni, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.

Il testo “nazionalizza” il romanzo epistolare in senso patriottico. In esso infatti il tema politico è presente sia sul piano personale (l’esilio) sia su quello più generale delle lotte fratricide. La lettera si apre con la delusione, provata dal protagonista (e quindi da Ugo) per il trattato di Campoformio, continua con il “tradimento” politico e si chiude con l’idea di morte. Si potrebbe quasi dire che alla “morte” della patria nell’incipit, corrisponda il vagheggiamento della morte dell’eroe, quasi a instaurare un rapporto tra Jacopo e patria. A questo tema si lega quella tomba “lagrimata”, che a sua volta è strettamente connesso con quello di patria: tema sviluppato, in seguito nella produzione poetica.

Ritratto di Ugo Foscolo

Andrea Appiani: Ritratto di Ugo Foscolo da giovane (1802)

LA LETTERATURA

18 Ottobre 1797

Michele mi ha recato il Plutarco, e te ne ringrazio. Mi disse che con altra occasione m’invierai qualche altro libro; per ora basta. Col divino Plutarco potrò consolarmi de’ delitti e delle sciagure dell’umanità volgendo gli occhi ai pochi illustri che quasi primati dell’umano genere sovrastano a tanti secoli e a tante genti. Temo per altro che spogliandoli della magnificenza storica e della riverenza per l’antichità, non avrò assai da lodarmi né degli antichi, né de’ moderni, né di me stesso – umana razza!

Di fronte alla delusione politica, Jacopo cerca conforto nella letteratura e più espressamente nella lettura delle biografie plutarchiane, che tanto avevano affascinato anche Alfieri. Egli, come il suo predecessore ricerca in esse il lato eroico, ma sottolinea anche che, spogliandoli della loro magnificenza, resa loro dall’antichità, possa scoprirne le bassezze umane, approdando così verso un crudo pessimismo. D’altra parte tale posizione può essergli stata suggerita dallo stesso Napoleone, dapprima lodato per aver liberato la patria quindi odiato per averla ceduta all’Austria.

Isabella Teotochi Albrizzi - Wikipedia

Isabella Teotochi Albrizzi: Una delle tante donna amate da Foscolo

L’AMORE

26 Ottobre 1797

La ho veduta, o Lorenzo, la “divina fanciulla”; e te ne ringrazio. La trovai seduta miniando il proprio ritratto. Si rizzò salutandomi come s’ella mi conoscesse, e ordinò a un servitore che andasse a cercar di suo padre. Egli non si sperava, mi diss’ella, che voi sareste venuto; sarà per la campagna; né starà molto a tornare. Una ragazzina le corse fra le ginocchia dicendole non so che all’orecchio. E’ un amico di Lorenzo, le rispose Teresa, è quello che il babbo andò a trovare l’altr’jeri. Tornò frattanto il signor T***: m’accoglieva famigliarmente, ringraziandomi che io mi fossi sovvenuto di lui. Teresa intanto, prendendo per mano la sua sorellina, partiva. Vedete, mi diss’egli, additandomi le sue figliuole che uscivano dalla stanza; eccoci tutti. Proferì, parmi, queste parole come se volesse farmi sentire che gli mancava sua moglie. Non la nominò. Si ciarlò lunga pezza. Mentr’io stava per congedarmi, tornò Teresa: Non siamo tanto lontani, mi disse; venite qualche sera a veglia con noi. Io tornava a casa col cuore in festa. – Che? lo spettacolo della bellezza basta forse ad addormentare in noi tristi mortali tutti i dolori? vedi per me una sorgente di vita: unica certo, e chi sa! fatale. Ma se io sono predestinato ad avere l’anima perpetuamente in tempesta, non è tutt’uno? 

Altra consolazione l’amore e la bellezza femminile. La lettera in cui ci viene presentata Teresa, si può suddividere in due parti: la prima presenta il ritratto della ragazza nel suo ambiente familiare, che sembra qui visto con nostalgia da parte dell’esule; l’altra la tempesta interiore che la “bellezza” può procurare in un animo romanticamente passionale come quello di Jacopo. E’ come se il Foscolo voglia già sottolineare il dualismo che gli rode l’anima: da una parte un ritratto dolce, scandito da gesti “leggiadri” (il disegno, la sorellina che le corre in grembo, il padre che le osserva con amore) dall’altra il fato (“fatale”, dice nell’ultima proposizione) quasi a prefigurare già un destino di morte.

In un’altra lettera, infatti, ci viene presentato Odoardo, il promesso sposo di Teresa, che, pur avendo le piccole qualità “borghesi”, amate dal sig. T***, manca proprio di quella passionalità che costituisce il fulcro del sentire ortisiano; quindi appare al protagonista come freddo, incapace di vero amore, dilettante nei giudizi letterari; insomma un vero e proprio alter-ego del protagonista.

Nella consapevolezza dell’impossibilità dell’amore per Teresa, Jacopo lascia i colli, e vaga in diverse città. Tra queste peregrinazioni importante è l’arrivo a Milano, dove incontra il vecchio Giuseppe Parini:

L’INCONTRO COL PARINI

Milano, 4 dicembre 1798

Ier sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli: egli si sosteneva da una parte sul mio braccio, dall’altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpii suoi piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità, e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S’assise sopra uno di que’ sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il personaggio più dignitoso e più eloquente ch’io m’abbia mai conosciuto; e d’altronde un profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della sua patria: e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere prostituite: tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima corruzione; non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l’amor figliale… e poi mi tesseva gli annali recenti e i delitti di tanti uomicciattoli ch’io degnerei di nominare se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d’animo non dirò di Silla e di Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque gli vedano presso il patibolo… – Ma ladroncelli, tremanti, saccenti… più onesto insomma è tacerne. – A quelle parole io m’infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando: ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. – Egli mi guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con un’aria minaccevole; io taceva, ma si sentiva ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: non avremo salute mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, servirebbero così vilmente? Il Parini non apria bocca, ma stringendomi il braccio mi guardava ogni ora più fisso. Poi mi trasse come accennandomi perch’io tornassi a sedermi: e pensi tu, proruppe, che s’io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia inferma vecchiaia in questi vani lamenti? o giovine degno di un altro secolo, se non puoi spegnere quel tuo ardore fatale ché non lo volgi ad altre passioni? Allora io guardai nel passato… allora io mi volgeva avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza pur poter mai stringere nulla e conobbi tutta la disperazione del mio stato. Narrai a quel grande Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que’ genii celesti i quali par che discendano ad illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore profondo. No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: ho una madre tenera e benefica; spesso mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto il corpo abbandonato nell’aria … ella afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva, ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure… s’ella sapesse tutti i feroci miei mali implorerebbe ella stessa dal cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma l’unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo è la speranza di tentare la libertà della patria. – Egli sorrise mestamente, e poiché s’accorse che la mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese, ma… credimi, la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia, due quarti alla sorte, e l’altro quarto a’ loro delitti. Ma se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? i gemiti di tutte le età, e questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare libertà dallo straniero? chiunque s’intrica nelle faccende di un paese conquistato non ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno sulla punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava nell’universo un nemico al popolo Romano? – Né ti sarà dato di essere giusto impunemente. Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d’ingegno come sei tu, sarà sempre o l’ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai altamente laudato, ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro. – Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri, e la malignità de’ tuoi concittadini, e la corruzione de’ tempi, potessi aspirare al tuo intento… di’? spargerai tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti: giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e scelleraggine l’onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito dalla sterminata fortuna reprimere in te la passione del supremo potere che ti sarà fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e dalla conoscenza del comune avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno, e per pochi anni di possanza e di tremore avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo nome fra la immensa turba dei despoti. – Ti avanza ancora un seggio fra i capitani il quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per profondere, e spesso di una viltà, per cui si lambe la mano che t’aita a salire. Ma… – o figliuolo! l’umanità geme al nascere di un conquistatore e non ha per conforto se non la speme di sorridere su la sua bara. – Tacque; ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato. – Il vecchio mi guardò… Se se tu né speri, né temi fuori di questo mondo… – e mi stringeva la mano – ma io…! – Alzò gli occhi al cielo, e quella severa sua fisonomia si raddolciva di un soave conforto, come s’ei lassù contemplasse tutte le sue speranze. – Intesi un calpestio che s’avanzava verso di noi; e poi travidi gente fra’ tigli; ci rizzammo, ed io l’accompagnai sino alle sue stanze.

Due sono i numi tutelari del letterato Foscolo: Parini e Alfieri. Il suo alter-ego Ortis non riuscirà ad incontrare l’astigiano, chiuso nella sua proverbiale misantropia, ma troverà il civile Parini, ormai vecchio, ritratto qui come il poeta stesso si era descritto ne La caduta, malfermo e claudicante. Foscolo apprezza così tanto questi due intellettuali, da trasformarli non in coloro che chiudono il secolo, ma in coloro che, interpreti della poesia civile e della libertà, s’incarnano nello stesso suo animo. E non importa se tale interpretazione non risponda alla “realtà” storica: il primo non avrebbe certamente fremuto per amor dell’Italia, il secondo non avrebbe condiviso il senso titanico di libertà con gente incapace di alto sentire (necessaria nella lotta per ottenere una libertà politica). Si è che l’autore veneziano li idealizza, incarnando il loro sentire (la poesia come compito civile ed il rigore morale per Parini, ripresa del lessico e dello stile di Alfieri) e rendendolo così foscoliano.

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LETTERA DA VENTIMIGLIA

Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro 1799

I tuoi confini, o Italia, sono questi; ma sono tutto dì sormontati d’ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? – Ov’è l’antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ognor memorando la libertà, e la gloria degli avi le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse un giorno che uniti perdendo e le sostanze, e l’intelletto, e la voce sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que’ Grandi per annientarne le ignude memorie, – poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dell’antico letargo.
Così grido quando io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano e rivolgendomi intorno io cerco nè trovo più la mia patria. Ma poi dico: pare che gli uomini sieno i fabbri delle proprie sciagure, ma le sciagure derivano dall’ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente ai destini. Noi argomentiamo sugli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell’immenso spazio del tempo? Pari alle stagioni della nostra vita mortale pajono talvolta gravi di straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L’universo si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i cadaveri dell’altra. Io guardando da queste Alpi l’Italia piango e fremo, e invoco contro agl’invasori vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito di tanti popoli trapassati, quando i romani rapivano il mondo; cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl’Iddìi de’ vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri li ritorceano contro le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del popolo di Giuda. Così Alessandro rovesciò l’Impero di Babilonia; e dopo avere arsa passando tutta la terra, si crucciava che non vi fosse un altro universo. Cosi gli Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che pur Greci erano e della stessa religione e nipoti de’ medesimi antenati. Così sbranavansi gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi secoli la regina del mondo divenne preda de’ Cesari , de’ Neroni, de’ Costantini, de’ Vandali, e dei Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il cielo dell’America, o quanto sangue d’innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu dall’oceano portato a contaminare d’infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno lo loro età. Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dinanzi vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. Il mondo è una foresta di belve. La fame, i diluvj , e la peste sono nella natura come la sterilità di un campo che prepara l’abbondanza per l’anno vegnente: e chi sa? Fors’anche le sciagure di questo globo apparecchiano la felicità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l’avessero prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto, finché un’altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto d’ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch’essi credono lor propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de’ capisette, e de’ fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de’ volghi si stimano saliti tant’alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell’oriuolo. Quando una rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e che fanno de’ loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l’umana schiatta non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i secoli delle armi de’ conquistatori: e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le astuzie di chi vuole regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in noi pochi deboli e sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione, sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall’alto le follie e le fatali sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto, soli elementi dell’uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu hai una madre e un amico – tu ami – te aspetta una turba di miseri, a cui se’ caro, e che forse sperano in te – dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti, non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t’ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore torna involontario a lui – va, prostrati; ma all’are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci consideri come i vermi e gl’insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io forse i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? – Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito di tristezza per me, se null’altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte – voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni delle mie disgrazie – e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso sarà confortato da’ sospiri di quella celeste fanciulla ch’io credeva nata per me, ma che gl’interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.

Ripasso Facile: ANALISI LETTERA DA VENTIMIGLIA FOSCOLO

Ventimiglia

E’ questo uno dei passi più importanti dell’intero romanzo; all’inizio si coglie fortemente il tema patriottico, che se anche riprende una suggestione letteraria petrarchesca (Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia), la valorizza contrapponendo la pochezza degli italiani e la grandiosità della natura che protegge, naturalmente, il nostro territorio. Segue poi una riflessione sulla storia, anch’essa di origine vichiana, in cui sottolinea la ciclicità e la forza bruta che la sovrasta. Questa forza bruta è ritenuta virtù quando si raggiunge il potere, a cui si piegano le leggi e la religione, fatte solo per confermare il potere stesso (si noti il pessimismo storico foscoliano, di contro all’ottimismo illuminista); da ultimo la definizione di vera virtù, che è quella di chi non persegue il potere, ma di chi, con dolore, sa esprimersi con “nuda voce”, cioè con la poesia disarmata, portatrice di pace. Questa frattura fra “virtù falsa” e “virtù vera” non può che risolversi nell’esilio: non un esilio del corpo, ma un esilio dell’anima, che coincide con la morte nella propria patria.

Il romanzo foscoliano, come già detto, si pone subito a fianco della grande letteratura europea, ma pur riprendo le suggestioni, soprattutto goethiane, lo personalizza. Infatti se l’autore tedesco, scrivendo una storia simile, denuncia l’impossibilità dell’uomo di vivere secondo le regole della natura (tema fortemente illuminato) privando l’uomo dell’amore, il Foscolo personalizza e quindi nazionalizza subito la sua materia: infatti vi è una precisa rispondenza tra i dati biografici e politici dell’autore stesso e il protagonista del suo romanzo. Ciò comporta un soggettivismo narrativo che spesso si traduce, nella pagina foscoliana, in un tono lirico e/o oratorio più che in un vero e proprio tono narrativo. Ciò è dovuto, soprattutto, dalla mancanza del genere romanzo nella nostra letteratura, che farà sì che il nostro debba necessariamente “inventarsi” una lingua, che non può, in una formazione classica come quella dell’autore, fare a meno della tradizione poetica italiana. Come si è già detto al tema di amore/morte, presente nei romanzi europei, si aggiunge quello politico. Il romanzo, infatti, nasce da una doppia delusione: la cessione di Venezia all’Austria e il vano amore per Teresa: delusione quindi di un uomo che si era costruito un ideale politico e sentimentale, puntualmente contraddetto dalla realtà. All’interno di questa struttura tutti i temi della produzione foscoliana: il valore della tomba, il culto della patria, della poesia e della libertà, che saranno poi ripresi e sviluppati in maniera diversa e più matura dal Foscolo maggiore.

La produzione poetica

Ne Le Odi, che riprendono il genere che il Parini aveva utilizzato per la sua produzione poetica, vediamo l’affermarsi di due miti che costituiscono punti fermi nell’evoluzione poetica e psicologica del nostro:

  • l’esistenza della divinità femminile non negata all’uomo che mitiga la delusione sentimentale e politica
  • la bellezza nella quale l’uomo s’immerge alla ricerca di un conforto.

Nella prima di esse (A Luigia Pallavicini caduta da cavallo), scritta nel 1800, si racconta appunto di un incidente accaduto alla contessa, che, sbalzata dal cavallo, aveva riportato ferite nel volto; il poeta augura alla donna di poter ritornare alla bellezza che la renderà simile a una dea; nella seconda (All’amica risanata) tale bellezza risulterà immortalata dalla poesia, dove si determina il mito della poesia eternatrice.

ALL’AMICA RISANATA

Qual dagli antri marini
l’astro più caro a Venere
co’ rugiadosi crini
fra le fuggenti tenebre
appare, e il suo vïaggio
orna col lume dell’eterno raggio;

sorgon così tue dive
membra dall’egro talamo,
e in te beltà rivive,
l’aurea beltate ond’ebbero
ristoro unico a’ mali
le nate a vaneggiar menti mortali.

Fiorir sul caro viso
veggo la rosa, tornano
i grandi occhi al sorriso
insidïando; e vegliano
per te in novelli pianti
trepide madri, e sospettose amanti.

Le Ore che dianzi meste
ministre eran de’ farmachi,
oggi l’indica veste
e i monili cui gemmano
effigïati Dei
inclito studio di scalpelli achei,

e i candidi coturni
e gli amuleti recano,
onde a’ cori notturni
te, Dea, mirando obliano
i garzoni le danze,
te principio d’affanni e di speranze:

o quando l’arpa adorni
e co’ novelli numeri
e co’ molli contorni
delle forme che facile
bisso seconda, e intanto
fra il basso sospirar vola il tuo canto

più periglioso; o quando
balli disegni, e l’agile
corpo all’aure fidando,
ignoti vezzi sfuggono
dai manti, e dal negletto
velo scomposto sul sommosso petto.

All’agitarti, lente
cascan le trecce, nitide
per ambrosia recente,
mal fide all’aureo pettine
e alla rosea ghirlanda
che or con l’alma salute April ti manda.

Così ancelle d’Amore

a te d’intorno volano
invidïate l’Ore.
Meste le Grazie mirino
chi la beltà fugace
ti membra, e il giorno dell’eterna pace.

Mortale guidatrice
d’oceanine vergini,
la parrasia pendice
tenea la casta Artemide,
e fea terror di cervi
lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.

Lei predicò la fama
Olimpia prole; pavido
Diva il mondo la chiama,
e le sacrò l’elisio
soglio, ed il certo telo,
e i monti, e il carro della luna in cielo.

Are così a Bellona,
un tempo invitta amazzone,
die’ il vocale Elicona;
ella il cimiero e l’egida
or contro l’Anglia avara
e le cavalle ed il furor prepara.

E quella a cui di sacro
mirto te veggo cingere
devota il simolacro,
che presiede marmoreo
agli arcani tuoi Lari
ove a me sol sacerdotessa appari,

Regina fu, Citera

e Cipro ove perpetua
odora primavera
regnò beata, e l’isole
che col selvoso dorso
rompono agli Euri e al grande Ionio il corso.

Ebbi in quel mar la culla,
ivi erra ignudo spirito
di Faon la fanciulla,
e se il notturno zeffiro
blando sui flutti spira,
suonano i liti un lamentar di lira:

ond’io, pien del nativo
Aër sacro, su l’itala
grave cetra derivo
per te le corde eolie,
e avrai divina i voti
fra gl’inni miei delle insubri nipoti.

Ritratto di Antonietta Fagnani Arese (1778-1847), donna amata dal poeta  italiano Ugo Foscolo (1778-1827). Pittura del XIX secolo

Antonietta Fagnani Arese

Come dalle profondità del mare, la stella più cara al pianeta di Venere appare (Lucifero) fra le tenebre che scompaiono con i suoi raggi, che sembrano capelli bagnati e abbellisce il suo cammino con i raggi dell’eterno sole, // così il tuo corpo divino si alza dal letto della malattia e in te la bellezza rivive, l’aura bellezza da cui soltanto ebbero conforto gli uomini, nati per fantasticare. // Vedo rifiorire nel tuo viso il colore roseo, torna il sorriso nei tuoi grandi occhi ammaliatori e nuovamente le madri timorose per i loro figli  e le innamorate gelose si preoccupano ricominciando a piangere. // Le Ore che fino a poco fa erano le tristi amministratrici di medicine, oggi invece portano la veste indiana (di seta) e le collane in cui risplendono Dei effigiati, illustre lavoro di scultori greci, // gli stivaletti bianchi e i portafortuna per cui i giovanotti guardando te, o Dea, causa di affanno e di speranza, dimenticano le danze: // o quando adorni l’ arpa e con nuove melodie e con le morbide curve del tuo corpo che il bisso asseconda con facilità e intanto il tuo canto fra il sommesso mormorio vola // più pericoloso oppure quando disegni figure di ballo e affidando all’ aria il tuo corpo agile, bellezze sconosciute sfuggono dai vestiti e dal velo trascurato, scoprendo il petto ondeggiante. // Mentre ti muovi cadono le morbide trecce, lucide per l’ ambrosia recente, malamente trattenute dal pettine d’oro e dalla ghirlanda di rose che aprile ti dona, insieme alla salute. // Così le Ore, serve dell’amore, volano intorno a te invidiata, ma le Grazie guardino male colui che ti ricorda che la bellezza fugge e chi ti ricorda il giorno della morte. // La casta Artemide (Diana), nella sua vita mortale, guidatrice di ninfe dell’Oceano, abitava il monte Parrasio e faceva fischiare da lontano, per terrore dei cervi, i nervi dell’ arco di Cidone (Creta). // La poesia l’ha proclamata figlia degli Dei, il mondo spaventato la chiamava Dea e le ha consacrato il trono dei campi elisi, la freccia che non sbaglia e il carro della luna in cielo. // Allo stesso modo la poesia ha consacrato altri altari, a Bellona, amazzone un tempo, adesso ella prepara l’elmo, le cavalle e l’ ira guerresca contro l’ Inghilterra. // E quella dea (Venere) la cui statua di marmo ti vedo cingere devotamente in una corona di mirto affinché protegga le tue stanze segrete dove appari solo a me come sacerdotessa, // fu regina che regnò felice su Cipro e Citera, che godono di un perenne clima mite e che con le loro montagne ricoperte di boschi frangono il corso dei venti del mar Ionio. // Io sono nato in quel mare; qui vagabonda nudo lo spirito della fanciulla di Faona, Saffo, e se il venticello notturno spira dolcemente sulle onde, le spiagge suonano lamenti di lira: // perciò io, pieno della nativa sacra ispirazione traduco in poesia italiana per cui anche tu divinizzata, grazie ai miei versi, avrai l’ammirazione devota delle nipoti.

L’Ode si può suddividere in quattro parti: nella prima Foscolo esalta la bellezza esteriore della donna nei suoi atti consueti o cerimoniosi, quindi, nella parte centrale crea il collegamento tra poesia e bellezza: la sua presenza suscita invidia nelle altre donne e le divinità dell’amore guardino male chi le ricorda che la sua bellezza fugge via; segue la terza parte, caratterizzata dalla descrizione di tre divinità, sottolineando il loro aspetto mortale; conclude dicendo che, grazie alla sua poesia, anche lei diventerà una divinità perché la sua bellezza non morirà mai.

E’ quest’ultimo il tema dominante dell’intera ode: se infatti nella prima aveva cantato la bellezza, capace di consolare, qui si esalta la poesia, capace d’eternarla. Tale concetto s’esprime in forme eleganti, dal forte sapore neoclassico, con richiami lessicali e formali alla tradizione poetica italiana: tuttavia in questo tessuto formale Foscolo v’inserisce il tema del vagheggiamento d’una bellezza eterna, il senso della poesia come portatrice universale di valori, che supera il concetto del “puro” neoclassicismo, che tendeva alla forma perfetta e immutabile in sé, come unico valore per la poesia (si prenda, ad esempio, l’ode Alla Musa di Parini).

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Foscolo nel 1799

I Sonetti sono 12, di cui 8 “minori” e 4 “maggiori”. Se  quelli cosiddetti minori rappresentano un po’ la versione poetica del romanzo, in cui l’autobiografismo non riesce a diventare valore universale, questo non succede ne Alla Musa, In morte del fratello Giovanni, A Zacinto, Alla sera che riescono a presentare in nota dolente la meditazione sulla sorte dell’uomo.

DI SE STESSO

Non son chi fui; perì di noi gran parte:
questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perché dal dì ch’empia licenza e Marte
vestivan me del lor sanguineo manto,
cieca è la mente e guasto il core, ed arte
l’umana strage, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
a mia fiera ragion chiudon le porte
furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
e so invocare e non darmi la morte.

Non so più colui che ero; gran parte di me è morta: / quel che mi resta è solo struggimento e pianto. / E il mirto (simbolo dell’amore) è secco, e le foglie d’alloro (simbolo di gloria poetica), primo incentivo alla mia poesia giovanile, sono avvizzite. // Perché dal giorno in cui un’empia licenza (l’anarchia rivoluzionaria) e Marte (la guerra) / mi rivestirono del loro manto di sangue, / la mia mente è diventata cieca, e guasto il cuore, e l’uccidere / altri uomini è diventato per me mestiere e vanto // Che se anche mi viene il pensiero di morte, / da questo proposito crudele mi distolgono, / l’ardente desiderio di gloria e l’affetto di figlio. / Così schiavo di me stesso, e d’altri, e del destino, / so qual è la cosa migliore di fare ma mi aggrappo a quella peggiore / e so invocare la morte ma non so darmela.

Questo sonetto, di cui non si conosce esattamente l’anno di composizione, fa parte comunque di quelli cosiddetti minori. A collocarlo tra il 1798 ed il 1800 non è soltanto l’insistita personalizzazione che rimanda all’autobiografismo ortisiano, ma anche la classica struttura del sonetto che presenta una perfetta rispondenza: ad ogni stanza corrisponde un periodo in sé concluso. In tale testo l’io emerge sin dal primo verso, mettendo in risalto un passato (presumibilmente felice) contro un presente, fatto di “languore e pianto”. Continua proprio nella prima stanza a parlare di disillusione e come nell’Ortis essa appare duplice: se qui è sentimentale e poetica, nel romanzo è sentimentale e politica. Nella seconda stanza appare invece il tema della guerra, a cui si aggiunge quello dell'”uccisione dei fratelli”, che inaugura in qualche modo, un tema caro agli uomini del nostro Risorgimento. Conclude quindi con il tema della morte, agognato ma non esplicitato, al contrario del suo personaggio (ci piace sottolineare l’identità tra conosco il meglio ed al peggior mi appiglio ed il verso petrarchesco et veggio il meglio, et al peggior m’appiglio).

Certo più universali ci appaiono i “sonetti” cosiddetti maggiori:

in Alla sera troviamo la corrispondenza tra paesaggio naturale e stato d’animo:

 ALLA SERA

Forse perché della fatal quïete
tu sei l’imago a me sì cara vieni
o sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,

e quando dal nevoso aere inquïete

tenebre e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

Forse perché tu assomigli (sei l’immagine) alla morte (la quiete voluta del fato), a me giungi così gradita, o Sera. Sia quando le nubi estive e le dolci brezze ti accompagnano festose, // sia quando porti sulla terra dal cielo pieno di neve le lunghe e paurose notti invernali, sempre giungi invocata, e penetri nelle più profonde vie del mio cuore in modo soave. // Mi fai immaginare con la mente le orme che giungono alla morte definitiva, e nel frattempo fugge questo tempo malvagio e s’accompagnano con lui la folla // delle preoccupazioni per le quali egli si consuma insieme a me; e mentre io osservo la tua tranquillità, si assopisce in me quello spirito combattivo che mi ruggisce dentro.

A Venezia rivivono le avventure di Ippolito Caffi: intervista ad Annalisa  Scarpa - ArtsLife

Ippolito Caffi: Venezia al tramonto

In questo sonetto, posto da Foscolo all’inizio della sua raccolta, appare evidente il rapporto tra l’ora del crepuscolo e la morte. Il poeta, infatti, “universalizza” la materia con l’avverbio di tempo “sempre”: non si tratta di un momento, ma, viceversa dell’eterna poesia che sa “cantare/percepire” la natura. Se ciò porterebbe Foscolo all’interno di un raffinato neoclassicismo, egli lo supera in quanto la stessa natura non è che la proiezione di uno stato d’animo che riesce a intuire nell’oscurità la morte e nel crepuscolo la “serena attesa” di essa, nel momento in cui la realtà storica e personale si presenta a lui caotica, tale da suscitargli “rabbia” quasi incontrollabile. Tutto ciò è tessuto con una evidente novità ritmica che unisce, attraverso arditi enjambement le due quartine e le due terzine, senza dimenticare l’ormai classica allitterazione in “r” dell’ultimo verso. Infatti la poesia è ben distinta in due momenti: se infatti la descrizione dell’io del poeta di fronte alla natura è di estatica comunione, la seconda diventa dinamica e i pensieri dell’autore sembrano prevalere sulla contemplazione, facendo diventare la sera un mezzo che lo porta all’infinito nulla e quindi a quella pace interiore che combatte contro il suo ribollente spirito. 

In A Zacinto, l’universalità della poesia viene raggiunta dalla perfezione classica del sonetto e dai riferimenti verso miti rivissuti all’interno dell’animo del Foscolo.

A ZACINTO

Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l’inclito verso di colui che l’acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

Io non toccherò più le rive sacre (della mia patria), dove trascorsi la mia fanciullezza, Zante mia, che ti specchi nel mare del mare greco dal quale nacque la dea // Venere che rese, coll’atto della sua nascita, quelle isole (che la circondano) fertili, per cui non passò sotto silenzio il tuo clima e la tua vegetazione il famoso verso di Omero // che cantò il mare fatale e lo straordinario esilio di Ulisse, che reso bello per la fama e la sventura baciò, infine, la sua petrosa Itaca. // Tu non avrai altro che il canto di tuo figlio, o mia madre terra; il destino ci ha prescritto una sepoltura senza lacrime.

In questo sonetto si fa più chiara la matrice “classica” di Foscolo: l’isola greca, Venere, Omero e Ulisse sono i termini “forti” di cui egli ci parla. Ma vediamo più attentamente i fitti parallelismi che egli utilizza con questi termini:

  • L’isola greca e Venere appaiono ambedue come proiezioni “materne” e culturali: Venere, rendendo rigogliosa l’isola, ne ha permesso la lingua e la cultura;
  • Omero è il poeta che ha cantato, nell’Odissea, l’esilio di Ulisse; Foscolo è colui che canta il suo esilio;
  • Ulisse ha baciato la sua petrosa Itaca; Foscolo è colui che profetizza il suo seppellimento fuori dalla terra d’origine e quindi senza lacrime.

A livello ritmico la poesia è caratterizzata da due momenti; la prima occupa due terzi del componimento, dove prevale lì elemento descrittivo reso in forma classica. Si notino nelle tre stanze iniziali i tre monosillabi ad aprire il primo verso quasi a voler accentuare l’impossibilità; quindi il suo progredire attraverso una serie di enjambement che uniscono tra loro le stanze, rompendo strutturalmente la forma del sonetto. Ci piace ancora sottolineare una serie di rime nel 2°, 4°, 6° e 8°, tutte terminanti con -acque, a voler rimarcare l’orgogliosa provenienza del mare, mare a cui faranno riferimenti le figure d’Omero e Ulisse che proprio sul mare ambienta parte della sua Odissea. L’ultima strofa rappresenta l’amara riflessione del poeta sul proprio destino: il termine prescrive viene qui utilizzato come negazione, allo stesso modo di illacrimato (apax foscoliano) e cui ci rimandano entrambi al  né più mai dell’incipit del sonetto.

Isola di Zante (Grecia) - Monumento a Ugo Foscolo | Ugo Fosc… | Flickr

Monumento a Ugo Foscolo nell’isola di Zante

In In morte del fratello Giovanni la morte del fratello viene rivissuta attraverso un classico della poesia latina, ma non vi è un semplice “rifacimento”  ma un “rivivere” il dolore, pertanto quest’ultimo è universale.

IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentil anni caduto.

 La madre or sol suo dì tardo traendo
parla di me col tuo cenere muto,
ma io deluse a voi le palme tendo
e se da lunge i miei tetti saluto,

 sento gli avversi numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.

 Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.

Un giorno, se io non sarò sempre costretto a fuggire tra popoli stranieri, mi vedrai seduto sulla tua tomba, o mio fratello, piangendo la tua morte precoce. // Mia madre, ora sola, trascinando la sua tarda età, parla di me con il tuo cenere muto; ma io, tendo verso voi le mie mani deluse (per l’esilio) e  se da lontano saluto la mia patria, percepisco un destino avverso e le profonde preoccupazioni che si presentarono al tuo vivere come una tempesta, e prego anch’io, nel tuo porto (morte) l’eterno riposo. // Soltanto questo, di tante speranze, oggi a me resta! Stranieri, restituite allora fra le braccia della triste madre le mie ossa.

E’ chiaro, in questo sonetto, il riferimento al carme 101 del Liber catulliano: infatti il primo verso riprende il Multa per gentes et multa per aequora vectus, così come si può notare il rovesciamento tra la mutam cinerem al femminile per Catullo (naturalmente cinis è maschile in latino) e il muto cenere foscoliano (naturalmente cenere è femminile in italiano). Certo i riferimenti puntuali non possono che sottolineare il mito della poesia eternatrice: il dolore catulliano si riflette nel dolore foscoliano che attraverso un diverso codice linguistico, ma con l’utilizzo di traduzioni lessicali può esprimere lo stesso concetto rendendolo eterno. E’ evidente tuttavia la personalizzazione e nel contempo l’allontanamento della materia:

  • Il fratello Giovanni si era realmente suicidato per debiti di gioco ed era seppellito a Venezia (personalizzazione);
  • Riuso di Catullo con intento diverso: riti funebri per il poeta latino, impossibilità di piangere il fratello per Foscolo (allontanamento).

Tornano in questo sonetto i temi della tomba illacrimata, della morte, della madre, della patria: tutto ciò a significare come l’intera opera poetica (Odi e Sonetti) sia mossa da un’identica ispirazione che, in Foscolo, si muove tra neoclassicismo e preromanticismo.

poesie-liriche OPERE POETICHE DI UGO FOSCOLO

Dei Sepolcri

Dopo queste prove il Foscolo tace per quattro anni, dedicandosi a studi e traduzioni. Ora si tratta di raccogliere tutti i temi precedentemente affrontati e dar loro forma in un’opera unitaria. Tale sarà il carme Dei Sepolcri, nato da un decreto napoleonico che vietava il seppellimento entro le mura cittadine. Per comodità divideremo il carme di 295 versi in più parti per capirne appieno il significato.

Prologo (vv 1-15):

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
confortate di pianto è forse il sonno
della morte men duro? Ove più il Sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d’erbe famiglia e d’animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l’ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell’amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?

E’ forse la morte meno crudele se (posta) all’ombra dei cipressi e dentro le tombe confortate dal pianto? Quando il Sole non alimenterà più per me tutto il mondo vegetale e animale, e quando prive di illusioni davanti a me non ci saranno più ore, né ascolterò più il verso e la triste armonia che lo governa da te, dolce amico Pindemonte, né mi parlerà più l’ispirazione poetica e l’amore, unico ristoro a questa vita raminga, quale sarebbe il ristoro di una tomba che distingua le mie ossa dalle infinite che la morte distribuisce in terra e in mare?

Vi sono qui due domande retoriche nelle quali fortemente si sente l’influsso dell’ideologia illuminista foscoliana. Tuttavia basta ben guardare come la risposta negativa sia intessuta nel suo dettato da termini che non rimandano, soprattutto nell’aggettivazione a qualcosa che non risulti inanimato e freddo come la morte, ma viceversa riguardi la vita.

Sopravvivenza della morte grazie al ricordo (vv. 16-40):

Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
tutte cose l’obblio nella sua notte;
e una forza operosa le affatica
di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe
e l’estreme sembianze e le reliquie
della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perché pria del tempo a sé il mortale
invidierà l’illusion che spento
pur lo sofferma al limitar di Dite?
Non vive ei forse anche sotterra, quando
gli sarà muta l’armonia del giorno,
se può destarla con soavi cure
nella mente de’ suoi? Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi,
celeste dote è negli umani; e spesso
per lei si vive con l’amico estinto,
e l’estinto con noi, se pia la terra
che lo raccolse infante e lo nutriva,
nel suo grembo materno ultimo asilo
porgendo, sacre le reliquie renda
dall’insultar de’ nembi e dal profano
piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
e di fiori odorata arbore amica
le ceneri di molli ombre consoli.

Purtroppo è vero, Pindemonte! Anche la speranza, ultima dea (ultima a lasciare gli dei e l’uomo), abbandona i sepolcri, e la dimenticanza nella sua oscurità avvolge tutto; e la forza instancabile della natura le fiacca con il suo eterno movimento; e il tempo trasforma l’uomo e le sue tombe, l’ultimo atteggiamento e le cose restanti del cielo e della terra. Ma perché prima del tempo l’uomo mortale si priverà dell’illusione che, pur morto, lo trattiene sulla soglia della morte? Egli non vive anche sottoterra, quando non vedrà più la luce del giorno, se può risvegliarla attraverso il culto nella mente dei suoi cari? Divina è questa corrispondenza di sentimenti amorosi, è una dote divina negli uomini; e spesso grazie a lei noi viviamo con l’amico morto e lui vive con noi, a patto che la terra che lo fece nascere e crescere, offrendo l’approdo (della morte) nella sua terra, renda inviolabili le spoglie dalle intemperie atmosferiche e dal sacrilegio degli uomini e conservi una tomba il nome ed un albero amico, odoroso di fiori, consoli con dolci ombre le ceneri del mondo.

Biografia Ippolito Pindemonte, vita e storia

Ippolito Pindemonte, a cui Foscolo dedica il carme “Dei Sepolcri”

Riprendendo la “concezione naturalistica della natura” di Lavoisier (“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”) Foscolo offre una risposta negativa alle sue domande precedenti da un punto di fisico. Tuttavia, proprio attraverso la particella avversativa “ma” del verso 23, il nostro ci offre una diversa prospettiva, tutta sentimentale, in cui ribadisce, come nel romanzo e nei sonetti, l’importanza della tomba da un punto di vista laico.

Dei sepolcri, Foscolo: riassunto e analisi dello scritto

L’importanza dell’amore per il ricordo (vv. 41-50): 

Sol chi non lascia eredità d’affetti
poca gioja ha dell’urna; e se pur mira
dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
fra ’l compianto de’ templi acherantei
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d’Iddio; ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura.

Soltanto a chi non lascia eredità di sentimenti non importa nulla della tomba; e se pure crede dopo la morte, vedrà la sua anima vagare fra i lamenti dei templi d’Acheronte o cercare rifugio sotto le grandi ali del perdono divino; ma lascerà le sue ceneri alle ortiche di una terra deserta, dove non vi sarà nessuna donna che preghi né un viandante solitario che possa udire il richiamo che la Natura ci manda dalla tomba.

Vengono qui riproposte l’importanza di una vita sotto il segno di un “significato sentimentale” che ancora non raggiunge l’eroismo e l’ateismo, “non cinico, ma certamente critico”, di chi nega la possibilità di una speranza di una sopravvivenza in terra a chi si affida solamente sul piano del peccato/redenzione e non su un piano civile.

Elogio dell’insepolto Parini (vv. 51-90):

Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
contende. E senza tomba giace il tuo
sacerdote, o Talia, che a te cantando
nel suo povero tetto educò un lauro
con lungo amore, e t’appendea corone;
e tu gli ornavi del tuo riso i canti
che il lombardo pungean Sardanapalo
cui solo è dolce il muggito de’ buoi
che dagli antri abduani e dal Ticino
lo fan d’ozj beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
spirar l’ambrosia, indizio del tuo Nume,
fra queste piante ov’io siedo e sospiro
il mio tetto materno. E tu venivi
e sorridevi a lui sotto quel tiglio
ch’or con dimesse frondi va fremendo
perché non copre, o Dea, l’urna del vecchio
cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi
vagolando. ove dorma il sacro capo
del tuo Parini? A lui non ombre pose
tra le sue mura la città, lasciva
d’evirati cantori allettatrice,
non pietra, non parola; e forse l’ossa
col mozzo capo g’’insanguina il ladro
che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
la derelitta cagna ramingando
su le fosse, e famelica ululando;
e uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
l’ùpupa, e svolazzar su per le croci
sparse per la funerea campagna,
e l’immonda accusar col luttuoso
singulto i rai di che son pie le stelle
alle obbliate sepolture. Indarno
sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti
non sorge fiore, ove non sia d’umane
lodi onorato e d’amoroso pianto.

Eppure la nuova legge dell’editto di Saint-Cloud per il volere napoleonico (che vieta il seppellimento all’interno delle mura cittadine e nega il nome sulle tombe dei morti secondo il concetto illuministico dell’uguaglianza degli uomini nella nascita e nella morte) fa sì che le tombe siano poste fuori dagli sguardi che provano pietà per i morti e sottrae loro il nome sulle tombe. Ed è morto senza tomba il tuo sacerdote, o Talia, musa della commedia e della satira, che offrendo a te il suo canto, nella sua povera casa, ti offrì con lunga dedizione l’alloro e ti donò corone; e tu gli fornivi il riso con cui intesseva i versi con cui satireggiava il nobile milanese (Sardanapalo, mitico re assiro, simbolo della dissolutezza e corruzione)  a cui piace il muggito dei buoi che stanno nelle stalle dell’Adda e del Ticino che gli permettono di vivere di rendita. O bella Musa, dove sei? Non percepisco il profumo dell’ambrosia, indizio della tua presenza fra questi alberi (nel giardino Orientale di Milano, dove pure nell’Ortis incontrerà il vecchio Parini), dove sto e ripenso con nostalgia alla mia patria. E tu, o dea Talia, giungevi e gli sorridevi sotto quel tiglio che adesso, con i rami abbassati, è sdegnato e turbato perché non ricopre le urne del vecchio poeta al quale era stata gentile per il ristoro e la frescura. Forse tu osservi, vagando, fra le tombe popolari, dove riposi il sacro capo del tuo Parini? A lui la città, così dissoluta da attrarre poeti effeminati, non diede un luogo riposato, una tomba, un epitaffio; e forse un ladro, colla testa mozzata per scontare i suoi delitti, gli sporca le ossa con il suo sangue. Senti una cagna che vaga sulle fosse, ululando affamata, ed vedi svolazzare un ùpupa, uscita da un teschio, dove si era rifugiata per fuggire la luce della luna, per la terra lugubre, e l’immondo animale (che si ciba dei resti umani) accusare con il suo funebre singhiozzo i raggi delle pietose stelle sulle tombe dimenticate. Inutilmente chiedi rugiada alla triste notte per il tuo poeta. Ahimè! Sui morti non sorge alcun fiore che non sia onorato con lodi umane ed un pianto d’amore.

Giuseppe Parini: il mistero della sua tomba

Lapide pariniana nella Biblioteca di Brera

Questo passo, a livello ideologico, si richiama apertamente alla profonda stima che il Foscolo provò per il poeta milanese, già manifestata in una celeberrima pagina dell’Ortis; ciò che lega le due figure può essere sintetizzato soprattutto in due punti:

  • Il senso civile della poesia, una poesia che interviene sul reale per trasformarlo (concetto illuministico);
  • Il culto per la poesia ed il bello stile che garantisce al dettato poetico la sua “bellezza” ed eternità (concetto neoclassico).

Tuttavia questi elementi vengono espressi attraverso la cultura preromantica, più espressamente il gusto del lugubre, presente nella poesia ossianica di Macpherson, presente in Italia grazie alla traduzione di Cesarotti, di cui Foscolo fu un lettore attento. Bisogna notare che per l’uccello nominato dal poeta, lo stesso incorse nell’errore di considerarlo notturno e feroce, mentre nella realtà è un dolcissimo uccellino diurno, tanto che Montale poté così ironizzare: Upupa, ilare uccello calunniato dai poeti.

La tomba inizio di civiltà e patriottismo (vv. 91-150):

 Dal dì che nozze e tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose
di se stesse e d’altrui, toglieano i vivi
all’etere maligno ed alle fere
i miserandi avanzi che Natura
con veci eterne a sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
ed are a’ figli; e uscian quindi i responsi
de’ domestici Lari, e fu temuto
su la polve degli avi il giuramento:
religion che con diversi riti
le virtù patrie e la pietà congiunta
tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
fean pavimento; né agl’incensi avvolto
de’ cadaveri il lezzo i supplicanti
contaminò; né le città fur meste
d’effigiati scheletri: le madri
balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
nude le braccia su l’amato capo
del lor caro lattante onde nol desti
il gemer lungo di persona morta
chiedente la venal prece agli eredi
dal santuario. Ma cipressi e cedri
di puri effluvj i zefiri impregnando
perenne verde protendean su l’urne
per memoria perenne, e preziosi
vasi accogliean le lacrime votive.
Rapian gli amici una favilla al Sole
a illuminar la sotterranea notte,
perché gli occhi dell’uom cercan morendo
il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
amaranti educavano e viole
su la funebre zolla; e chi sedea
a libar latte e a raccontar sue pene
ai cari estinti, una fragranza intorno
sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania, che fa cari gli orti
de’ suburbani avelli alle britanne
vergini dove le conduce amore
della perduta madre, ove elementi
pregaro i Genj del ritorno al prode
che tronca fe’ la trionfata nave
del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite geste
e sien ministri al vivere civile
l’opulenza e il tremore, inutil pompa,
e inaugurate immagini dell’Orco
sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno,
nelle adulate reggie ha sepoltura
già vivo, e i stemmi unica laude. A noi
morte apparecchi riposato albergo,
ove una volta la fortuna cessi
dalle vendette, e l’amistà raccolga
non di tesori eredità, ma caldi
sensi e di liberal carme l’esempio.

Nelson's funeral | Royal Museums Greenwich

Processione verso la cattedrale di Saint Paul per il funerale di Nelson

Dal giorno che sono stati istituiti il matrimonio, la giustizia ed il culto per la tomba, (questi) fecero sì che uomini selvaggi provassero pietà per se stessi e per gli altri, si allontanavano i morti, che la Natura destina ad altra vita, alle intemperie e agli animali selvaggi. Le tombe erano testimonianza di gloria ed altari per i figli, ed uscivano da qui le predizioni degli dei domestici e si temeva il giuramento fatto sulla cenere dei morti: tradizione che, con riti diversi, tramandò le virtù della patria ed il sentimento d’amore. Non sempre le pietre tombali costituivano il pavimento delle Chiese, né l’odore acre dei cadaveri, mescolato con gli incensi, contaminò i fedeli; né le città furono rattristate da scheletri dipinti sui muri: le madri si alzano spaventate dal sonno e rivolgono le braccia nude sul capo amato del loro caro bambino affinché non lo svegli il lungo lamento di una persona morta che dalla tomba chiede una preghiera prezzolata agli eredi. Ma cipressi e cedri, mescolando il vento con i loro puri profumi, procuravano alla vegetazione un eterno verde ad imperitura memoria e preziosi vasi (dove si conservava l’unguento e i profumi) raccoglievano le lacrime di chi pregava. Gli amici rubavano una scintilla al Sole (le lampade per i defunti) per illuminare il buio, perché gli occhi dell’uomo cercano, morendo, la luce del Sole e tutti esalano l’ultimo respiro rivolti a Lui. Le fontane versando acque pure facevano crescere amaranti dai fiori rossi e viole sulle tombe terrene; e chi sedeva su di esse a bere latte o a raccontare i suoi tormenti ai cari estinti, sentiva intorno a sé un’aria pura come quella dei beati Elisi. Pietosa pazzia, che rende cari i giardini cimiteriali periferici alle giovani inglesi dove sono condotte dall’amore per la madre, e dove, clementi, pregano gli dei protettori della patria per il ritorno dell’eroe Nelson che fece tagliare l’albero maestro della sconfitta nave napoleonica e ci fece la bara. Ma dove non esiste la passione di gesta gloriose e siano ministri alla vita pubblica la ricchezza e la vigliaccheria, sorgono statue e templi marmorei e inutili opere sfarzose, nefaste immagini dell’Inferno. Ormai gli intellettuali, i possidenti ed i nobili, che costituiscono il decoro del bel regno italico, possiede le sue sepolture già nella reggia, e unica loro lode lo stemma di famiglia. Per me la morte prepari un luogo isolato, dove una volta per tutte il destino cessi le sue vendette, e gli amici raccolgano una non ricca eredità ma l’esempio di una travolgente passione e di una poesia civile.

Questo passo si può dividere in più sequenze:

  • La concezione della morte, dell’amore e della giustizia ha fatto nascere la civiltà, sancendo per ciascuno di essi l’istituzione della tomba, del matrimonio e della giustizia;
  • Il culto dei morti nella civiltà romana, come esempio del rispetto dei vivi per i morti;
  • Il culto della morte nella civiltà medievale, esempio negativo del terrore, mostrato attraverso la “forzata” protezione di una madre per il figlio;
  • Il culto della morte nella civiltà inglese, nei giardini sepolcrali posti fuori città, dove le vergini piangono le loro madri. Viene ripreso il concetto dei morti dell’antichità: le civiltà incorrotte e civili, mantengono vivo il culto dei morti;
  • Accenno sulle virtù civili della morte: Nelson si costruisce la tomba con l’albero maestro della nave conquistata (atto eroico)
  • Di nuovo inadeguatezza del culto funereo per le civiltà illiberali: qui è presa di mira Milano, capitale del Regno d’Italia napoleonico;
  • Esempio solitario del suo valore per la tomba e del suo compito: poeta povero, ma dal forte sentimento civile.

Si può notare nelle microsequenze qui presentate come il Foscolo lavori per opposizioni e trapassi arditi, coll’intento di forzare la mente del lettore ad un ragionamento poetico, ma che la cui poeticità sta anche nella ragione delle sue affermazioni.

I grandi uomini a Santa Croce e il culto della poesia (vv. 151-212):

A egregie cose il forte animo accendono
l’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
che le ricetta. lo quando il monumento
vidi ove posa il corpo di quel grande,
che temprando lo scettro a’ regnatori,
gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
di che lagrime grondi e di che sangue;
e l’arca di colui che, nuovo Olimpo
alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide
sotto l’etereo padiglion rotarsi
più mondi, e il Sole irradiarli immoto,
onde all’Anglo che tanta ala vi stese
sgombrò primo le vie del firmarnento;
te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’äer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d’oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi:
e tu prima, Firenze, udivi il carme
che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
e tu i cari parenti e l’idioma
desti a quel dolce di Calliope labbro
che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d’un velo candidissimo adornando,
rendea nel grembo a Venere Celeste.
Ma più beata ché in un tempio accolte
serbi l’itale glorie, uniche forse
da che le mal vietate Alpi e l’alterna
onnipotenza delle umane sorti
armi e sostanze t’invadeano ed are
e patria e, tranne la memoria, tutto.
Che ove speme di gloria agli animosi
intelletti rifulga ed all’Italia,
quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi
venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patrii Numi, errava muto
ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
desioso mirando; e poi che nullo
vivente aspetto gli molcea la cura,
qui posava l’austero; e avea sul volto
il pallor della morte e la speranza.
Con questi grandi abita eterno, e l’ossa
fremono amor di patria. Ah sì! da quella
religiosa pace un Nume parla:
e nutria contro a’ Persi in Maratona
ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
la virtù greca e l’ira. Il navigante
che veleggiò quel mar sotto l’Eubèa,
vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
fumar le pire igneo vapor, corrusche

d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
silenzj si spandea lungo ne’ campi
di falangi un tumulto e un suon di tube,
e un incalzar di cavalli accorrenti
scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
e pianto, ed inni, e delle Parche il canto.

Giovanni Battista Foggini (progetto) - Tomba monumentale di Galileo Galilei

Santa Croce: La tomba di Galilei

Le urne dei coraggiosi suscitano l’animo forte a compiere azioni egregie, o Pindemonte, e rendono bella e sacra il luogo che le accoglie per il pellegrino. Io quando vidi la tomba di quel grande (Machiavelli) che, temprando lo scettro dei regnanti mostra gli orpelli e alla gente svela quanto il suo potere grondi di lacrime e di sangue; e (quando vidi) la tomba di colui (Michelangelo) che  edificò e pitturò la Cappella Sistina a Roma, e la tomba di colui (Galilei) che capì che nel cielo ruotavano più cieli ed il sole mandava loro i suoi raggi rimanendo immoto, intuizione da cui l’inglese Newton costruì le proprie teorie liberando così le vie dell’universo. Te beata Firenze, gridai, per la tua aria piena di vita e per i fiumi che l’Appennino dalle sue cime versa su di te! Felice per il tuo clima la Luna riveste con la sua luce limpidissima i tuoi colli, in festa per la vendemmia, e le valli popolate di case e di oliveti esalano in cielo profumi di mille fiori: e tu per prima, o Firenze, hai ascoltato la poesia che alleviò la rabbia dell’esiliato ghibellino Dante e tu i cari genitori e la lingua hai dato a quel dolce poeta della poesia lirica (la musa Calliope) che, ricoprendo con un velo bianchissimo l’amore sensuale nella poesia greca e romana, lo ha restituito al grembo candido dell’amore divino; ma sei ancora più beata perché conservi nella chiesa di Santa Croce le glorie intellettuali italiane, forse le uniche (che ci sono rimaste) dal momento che le mal difese Alpi e il potere che ineluttabilmente è passato ad altre forze per la sua ciclicità ti hanno invaso e ti hanno preso le armi, le ricchezze, gli altari e, tranne la memoria, tutto. Perché laddove rispenda una speranza di gloria alle menti coraggiose e all’Italia, proprio da questi ultimi trarremo il presagio del riscatto. E a questi altari venne spesso Vittorio Alfieri ad ispirarsi. Arrabbiato contro gli dei della patria, vagava silenzioso dove il fiume Arno è più deserto, osservando desideroso il terreno ed il cielo; e dopo, quando nessun vivente poteva alleviargli le sue preoccupazioni qui si fermava, austero, avendo nello sguardo il pallore della morte e della speranza.  Con questi spiriti magnanimi abita ora eternamente e le sue ossa ancora vibrano per amor di patria. Ah, sì! Dal silenzio religioso della tomba parla un dio, che nutrì i Greci contro i Persiani nella battaglia di Maratona la virtù greca e la rabbia, dove poi la civile Atene consacrò tombe ai suoi eroi. Il marinaio che è passato sul mare sotto l’isola Eubea ha visto lampeggiare sotto l’ampia oscurità il brillare delle luci sugli elmi e delle spade che cozzavano fra loro, i roghi fumare per il fumo del legno, sagome guerriere con le armi rilucenti cercare la battaglia, e al terrore dei notturni silenzi si spandeva lungo la campagna il rumore caotico delle falangi e il suono di trombe, l’incalzare dei cavalli in corsa che scalpitavano sopra gli elmi dei moribondi ed il pianto, e gli inni di vittoria e infine il canto della morte.

E’ fortemente evidente in questo passo da una parte il senso della poesia civile foscoliana, dall’altro la tradizione poetica entro la quale il suo magistero si struttura. Egli infatti è convinto che la “patria” italiana non possa che generarsi dagli intellettuali che in questa lingua hanno scritto e su cui l’Europa stessa ha fatto affidamento (si veda l’episodio tra da Galilei e Newton sottolineato con un complemento figurato di moto da luogo ad indicare il punto di partenza (Italia) e quello d’arrivo (Inghilterra). Ma questo costituisce il vero problema ed il classicismo di fondo foscoliano, che tuttavia non può, che con orrore, vedere la patria inglese superare di gran lunga la propria. Ecco allora che la tomba serve a rinfocolare coraggio, ad offrire un forte sentimento patriottico e liberale, quale lui può offrire, come appunto sottolinea nell’ultima parte della sequenza.      

Dalla tomba alla poesia, dalla poesia all’eternità (vv. 213-295):

Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
oltre l’isole egèe, d’antichi fatti
certo udisti suonar dell’Ellesponto
i liti, e la marea mugghiar portando
alle prode retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi
giusta di glorie dispensiera è morte;
né senno astuto, né favor di regi
all’Itaco le spoglie ardue serbava,
ché alla poppa raminga le ritolse
l’onda incitata dagl’inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d’onore
fan per diversa gente ir fuggitivo,
me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri e quando
il tempo con sue fredde ale vi spazza
fin le rovine, le Pimplée fan lieti
di lor canto i deserti, e l’armonia
vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata
eterno splende a’ peregrini un loco
eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio
onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta
talami e il regno della Giulia gente.
Però che quando Elettra udì la Parca
che lei dalle vitali aure del giorno
chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
mandò il voto supremo: E se, diceva,
a te fur care le mie chiome e il viso
e le dolci vigilie, e non mi assente
premio miglior la volontà de’ fati,
la morta amica almen guarda dal cielo
onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,
e fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
cenere d’Ilo; ivi l’iliache donne
sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
da’ lor mariti l’imminente fato;
ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
le fea parlar di Troja il dì mortale,
venne, e all’ombre cantò carme amoroso,
e guidava i nepoti, e l’amoroso
apprendeva lamento ai giovinetti.
E dicea sospirando: Oh, se mai d’Argo,
ove al Tidide e di Laerte al figlio
pascerete i cavalli, a voi permetta
ritorno il cielo, invan la patria vostra
cercherete! Le mura opra di Febo
sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troja avranno stanza
in queste tombe; chè de’ Numi è dono
servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi che le nuore
piantan di Priamo, e crescerete ahi presto!
Di vedovili lagrime innaffiati,
proteggete i miei padri: e chi la scure
asterrà pio dalle devote frondi
men si dorrà di consanguinei lutti
e santamente toccherà l’altare.
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
mendico un cieco errar sotto le vostre
antichissime ombre, e brancolando
penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
e interrogarle. Gemeranno gli antri
secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
splendidamente su le mute vie
per far più bello l’ultimo trofeo
ai fatati Pelidi. Il sacro vate,
placando quelle afflitte alme col canto,
i prenci argivi eternerà per quante
abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.
 

File:Homer by Philippe-Laurent Roland (Louvre 2004 134 cor).jpg - Wikipedia

Statua raffigurante Omero

Felice tu, o Ippolito, che nella gioventù hai percorso il vasto mare sotto la guida dei venti! E se il pilota t’indirizzò oltre le isole egee, hai certamente udito dalle rive dell’Ellesponto gli episodi antichi ed il rumore cupo del mare che portava verso le rive del promontorio Reteo (vicino Troia) le armi di Achille sopra la tomba di Aiace: per gli eroi la morte è una giusta dispensatrice di gloria: né il senno astuto di Ulisse (a cui era stato ingiustamente attribuito lo scudo di Achille)  né l’accondiscendenza dei re greci gli conservarono le difficili armi, perché alla nave errante le ritolse il mare eccitato dagli dei degl’Inferi. E le Muse, che animano il pensiero umano, chiamino me ad evocare gli eroi del tempo passato, me che il tempo ed il desiderio d’onore fanno fuggire in esilio. Le Muse, abitatrici del monte Pimpla, siedono custodi dei sepolcri e, sebbene il tempo li spazzi via con le sue ali distruttrici, rendono felici con la loro poesia i deserti e così la poesia vince il silenzio di mille secoli. Ed oggi nella Troade (dove sorgeva Troia) deserta, rispende per i viaggiatori un luogo eterno, eterno per la ninfa Elettra, moglie di Zeus, a cui diede figlio Dardano da cui nacque la città di Troia e Assaraco padre di Priamo che ebbe cinquanta figli da cui derivò a sua volta la stirpe di Roma. Perciò quando Elettra venne chiamata dalle Parche (la morte) per raggiungere l’armonia dell’Eliso, elevò la sua suprema preghiera a Giove e diceva: «Se mai ti furono graditi i miei capelli, il mio volto e i dolci atti d’amore, e se il destino non mi negherà il divenire dea, proteggi dal cielo la tua amica morta tanto che alla tua Elettra resti perlomeno la fama». Così pregando moriva. E se ne dispiaceva l’intero Olimpo, e il capo immortale di Giove, muovendolo, faceva cadere dai capelli l’ambrosia, rendendo sacro il corpo della Ninfa e la sua tomba. Su di essa venne sepolto Erittonio, suo nipote, e le ceneri del giusto Ilo, padre d’Anchise; qui le donne troiane scioglievano i loro capelli, inutilmente, purtroppo, cercando d’allontanare dai loro destini il destino futuro; qui venne la profetessa Cassandra, quando Apollo nel suo petto le faceva predire il destino mortale di Troia e cantò ai defunti un canto profetico e portava con sé i discendenti affinché apprendessero il suo amoroso canto e, con sospiri, diceva: «Oh, se mai il cielo vi permetta di ritornare da Argo dove avrete pascolato i cavalli dei greci Diomede (Titide) ed Ulisse (figlio di Laerte), inutilmente ricercherete la vostra patria! Le mura, opera di Apollo, saranno completamente incenerite. Ma gli dei troiani risiederanno in queste tombe, perché è un dono del loro spirito divino conservare un grande nome nelle miserie. E voi palme e cipressi che le nuore di Priamo ora piantano, crescete presto! Innaffiati dalle lacrime delle vedove, proteggete i miei cari morti: e colui il quale si asterrà di colpire con la scure queste piante meno dovrà dolersi dei  morti familiari e potrà toccare sacramente gli altari degli dei. Proteggete i miei padri. Un giorno vedrete un povero cieco, Omero, vagare intorno alle antichissime ombre e brancolando addentrarsi nelle tombe, abbracciare le urne ed interrogarli. Risuoneranno le cavità segrete, e racconterà di come Troia sia stata abbattuta due volte e due volte sia risorta (così si racconta nel mito) più splendida sulle sue rovine per rendere più bella l’ultima vittoria ai Greci vincitori per volere degli dei. Il sacro poeta, rasserenando quelle anime addolorate con il suo canto, renderà eterni i nomi dei principi greci per tutte le ere che abbraccia il padre Oceano. E tu, troiano Ettore, avrai l’onore dei pianti dove sarà considerato sacro e compianto il sangue versato per la patria, finché il sole risplenderà sulle sciagure degli uomini».

L’innalzamento del linguaggio costituisce la vera e propria caratteristica di questa sequenza, e tale innalzamento non può che nascere dalla classicità attraverso un  ragionamento che sia dimostrativo dell’assunto dell’intero carme, quanto di tutto il percorso poetico del poeta veneziano:

  • Le tombe suscitano il ricordo (Pindemonte viaggiatore in Grecia);
  • Nelle tombe di Maratona giacciono eroi (Aiace, Achille e Ettore);
  • Le vite eroiche danno vita alla poesia (le Muse abitatrici in Grecia);
  • La Grecia, attraverso Enea, sta alla base della civiltà Romana e quindi di quella nazionale;
  • Cassandra (il cui destino era quello di predire la verità a cui nessuno credeva) vede il disastro della guerra iliaca;
  • La guerra produce morti e tombe interrogate da Omero;
  • Le tombe, in quanto materia, scompaiono;
  • La poesia omerica, il cui portato linguistico, poetico e valoriale, vivrà per sempre;
  • La poesia in quanto “raccontatrice” di vite e morti eroiche, vincerà, infine, la morte “naturale” dell’uomo.

Il carme or ora letto rappresenta, a detta di molti critici, il capolavoro foscoliano. Ci sembra tuttavia corretto, ora, definirlo retoricamente: si definisce carme (dal latino carmen) un canto poetico di carattere religioso, il cui stile, nel corso del tempo, tende sempre a rimanere elevato e latineggiante e che, nel suo contenuto, si rifà al genere lirico in quanto riguarda la contemporaneità e al genere epico in quanto presenta episodi del passato. Il metro è di endecasillabi sciolti anch’esso legato all’epica e alla lirica (è il verso in cui Monti, un letterato contemporaneo di Foscolo, traduce l’Iliade e scrive i Pensieri d’amore). Inoltre non dobbiamo dimenticare che lo stesso carme è concepito in forma epistolare, come risposta a Ippolito Pindemonte che di fronte all’editto di Saint Claud napoleonico andava componendo I cimiteri d’ispirazione cattolica.

L’importanza dell’opera va ricercata soprattutto in due punti:

  • Il suo inserimento, come in parte era già avvenuto nel romanzo, nella letteratura sepolcrale europea (si pensi al già citato Macpherson e Thomas Gray, in Inghilterra);
  • Nell’aver riassunto e in qualche modo rivendicato il ruolo fondamentale della memoria in un processo civile e libertario.

Infatti I Sepolcri costituiscono una sorta di vademecum per chi dovrà lottare patriotticamente per la patria, ma tale lotta può avvenire soltanto attraverso il recupero memoriale dei grandi personaggi italiani, che in quanto grandi si sono formati attraverso l’acquisizione e la consapevolezza della cultura classica, per cui il compito del poeta veneziano sarà quello di emularli attraverso un linguaggio altrettanto classico e alto. Per questo polemizza con l’abate francese Guillond che reputa l’opera poco sentimentale e troppo erudita. Per lui i trapassi non devono essere “spiegati”, ma “immaginati” come fossero quadri, affinché il lettore possa penetrarli a fondo e capirli.

Per questo, insieme al romanzo, questo carme verrà reputato dai patrioti italiani dell’Ottocento come l’esempio più alto di poesia civile.

Le Grazie

Le Grazie, ultima opera incompiuta di Foscolo, nascono da un profondo mutamento storico che vede una vera e propria involuzione nell’imperialismo napoleonico, e quindi un vero e proprio allontanamento dai problemi politici che avevano caratterizzato, viceversa, il carme.

E’ un’opera incompiuta, che doveva essere composta da tre inni, sui quali egli lavorerà per circa un ventennio, non giungendo mai a dar loro una for-ma definitiva. La struttura il poeta la descrive così:

  • Primo inno dedicato a Venere. Si canta, da un punto di vista metastorico, la bellezza del creato;
  • Secondo inno dedicato a Vesta. Si elogia, attraverso la dea del focolare, l’amore domestico;
  • Terzo inno, dedicato a Pallade, s’incentra sulla sapienza e quindi sul compito della cultura.

IL VELO DELLE GRAZIE

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;
e nel mezzo del velo ardita balli,
canti fra ’l coro delle sue speranze
Giovinezza: percote a spessi tocchi
antico un plettro il Tempo; e la danzante
discende un clivo onde nessun risale.
Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori,
a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo
crin t’abbandoni e perderai ‘l tuo nome,
vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno
l’urna funerea spireranno odore.
Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;
e ad un lato del velo Espero sorga
dal lavor di tue dita; escono errando
fra l’ombre e i raggi fuor d’un mirteo bosco
due tortorelle mormorando ai baci;
mirale occulto un rosignuol, e ascolta
silenzïoso, e poi canta imenei:
fuggono quelle vereconde al bosco.
Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;
e sul contrario lato erri co’ specchi
dell’alba il sogno; e mandi alle pupille
sopite del guerrier miseri i volti
della madre e del padre allor che all’are
recan lagrime e voti; e quei si desta,
e i prigionieri suoi guarda e sospira.
Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;
e il destro lembo istoriato esulti
d’un festante convito: il Genio in volta
prime coroni agli esuli le tazze.
Or libera e la gioia, ilare il biasmo,
e candida è la lode. A parte siede
bello il silenzio arguto in viso e accenna
che non fuggano i motti oltre le soglie.
Mesci cerulea Dea, mesci le fila;
e pinta il lembo estremo abbia una donna
che con l’ombre i silenzi unica veglia;
nutre una lampa su la culla, e teme
non i vagiti del suo primo infante
sien presagi di morte; e in quell’errore
non manda a tutto il cielo altro che pianti
beata! ancor non sa come agli infanti
provido è il sonno eterno, e que’ vagiti
presagi son di dolorosa vita.

Disegno carboncino su carta, “Tre sorelle”, di Felice Casorati, firmato,  1946

Felice Casorati: Le Grazie di Foscolo

(La musa Erato della poesia corale inizia il canto e la Grazia Flora, seguendola, ricama un velo): “Mescola, dea profumata, fili risa e in mezzo ad essi balli la coraggiosa Giovinezza cantando le sue speranze: il tempo suona con rapidi tocchi l’antica lira, e scende per un pendio su cui nessuno risale. Le Grazie al suo passaggio fanno nascere fiori con cui adornano le sue ghirlande, e quando spariranno i capelli biondi e non avrai più il tuo nome, quei fiori vivranno, o Giovinezza, e manderanno un dolce odore intorno alla tua urna. Me-scola, odorosa dea, fili bianchi come neve, e lateralmente sul velo sorga dalle tue dita la stella della sera, Espero; escono in volo fra la penombra da un bosco di mirto due tortorelle tubando per amore, li guarda, nascosto, un usignolo, e li ascolta silenzioso e poi canta inni nunziali e quelle, vergognose, si rifugiano nel bosco. Mescola, madre dei fiori, le foglie del lauro e sul lato opposto vaghi il sogno mattiniero con gli specchi, in modo da trasmettere al guerriero addormentato i volti preoccupati della madre e del padre quando offrono agli altari i loro dolore e le loro preghiere; allora si sveglia e osserva sospirando i suoi prigionieri. Mescola, o Flora gentile, oro alla trama, in modo che il margine destro sia ricamato di un festoso banchetto: il Genio dell’ospitalità dapprima infiori le tazze degli esuli. Ora è libera la gioia, senza cattiveria il biasimo, e sincera a lode. In disparte vigila il Silenzio, con viso arguto e osserva affinché le parole non vadano oltre il dovuto. Mescola fili azzurri, o Dea, e nel lembo estremo appaia una donna, che sola veglia nell’oscurità e nel silenzio: tiene acceso una luce sulla culla e teme che i vagiti del suo primo figlio siano presentimento di morte, e in questo errore non fa che invocare il cielo con pianto. Beata! Ancora non conosce come ai fanciulli sia provvidenziale la morte e quei vagiti siano presentimento di vita dolorosa.

Questo brano fa parte del terzo inno, in cui si racconta come Minerva cacci via gli uomini immeritevoli dei doni di Giove e, dopo essersi schierata con gli eserciti portatori di valori di giustizia, si rifugi in un’isola per tessere un velo.

Potremmo leggere questa parte come una proiezione dell’ultimo periodo foscoliano:

  • il ritirarsi di Minerva in un isola sembra rimandare sia alla sua nascita, quanto all’esilio in cui egli è costretto a vivere;
  • l’essersi dapprima schierata con gli eserciti, può alludere all’impegno politico di Foscolo;
  • Il tessere il velo, invece, al raggiungimento definitivo verso la poesia, ultimo approdo cui rifugiarsi contro la delusione della storia.

LA CULTURA DELL’ETA’ NAPOLEONICA

cartina 1812.JPGL’Europa napoleonica

Situata tra l’età dell’esperienza napoleonica e il 1815, quando, con il congresso di Vienna viene “ripristinato” l’ancient regime, la cultura di quel periodo testimonia a livello europeo le contraddizioni tra ansia di libertà e sua negazione, che proprio il generale corso aveva prodotto.

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Ingres: Napoleone imperatore

Spenti infatti gli echi rivoluzionari, Napoleone era apparso a tutti come colui che avrebbe portato le istanze libertarie nell’intera Europa: il triennio giacobino italiano (1796/1799), le guerre vittoriose contro le varie coalizioni dell’Europa continentale, la trasformazione dapprima come console (1802), poi come imperatore (1804), avevano all’inizio scaldato i cuori europei, vedendo nelle armate francesi l’avanguardia delle istanze rivoluzionarie, per poi subito spegnerle, vivendo la delusione della scoperta della natura dispotica di Napoleone e la ripresa delle forze reazionarie dopo la sconfitta definitiva della Francia a Walerloo (1815). Ma se fu proprio lo stesso a dettare, oltre l’agenda politica europea, la cifra culturale e quindi stilistica entro cui disegnare la sua avventura e tale scelta cadde nel neoclassicismo, per meglio dire un nuovo classicismo entro le cui forme classiche s’inserissero realtà contemporanee, sarà il suo acerrimo nemico, cioé la Prussia a elaborare una nuova sensibilità a cui diamo il nome di preromanticismo.

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David: Giuramento degli Orazi

Napoleone, primo protagonista della nuova Europa, padrone di Francia senza alcuna tradizione dinastica, aveva bisogno di una forma “pubblicitaria” che ne legittimasse il potere. Ecco allora i pittori Jean-Auguste-Dominique Ingres e Jacques-Louis David, dipingerlo in atteggiamenti tipici della storia romana.
D’altra parte l’innamoramento del classico aveva origini lontane, che si possono datare già tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento contro l’estetica barocca ed il vezzoso rococò: la stessa rivoluzione francese aveva esaltato le virtutes e i mores della Roma repubblicana. A ciò si era aggiunta la straordinaria scoperta archeologica di Ercolano e Pompei  tra il 1740 e il 1766 che aveva suscitato entusiasmi nell’intellighenzia europea ed un gusto per l’archeologico e la cultura classica, nonché la scoperta di lettura di palinsesti attraverso reagenti chimici: certo l’estetica classica forniva un’incredibile schermo per la realtà presente, rifugio entro cui vagheggiare un’idea d’immutabilità e perfezione; costituiva inoltre un motivo per esaltare il presente potendosene servire sia nei momenti rivoluzionari (il periodo della repubblica), sia in quelli imperiali (l’età Augustea). Ma tale concezione non era lontana nemmeno nel cosiddetto preromanticismo: l’età antica, infatti, poteva esser vissuta come vagheggiamento di un’età perduta per sempre, vivendo la sua armonia con nostalgia e struggimento. 

Già nella seconda metà del Settecento era diventato fondamentale per gli intellettuali europei venire in Italia ed in Grecia ad osservare le bellezze archeologiche e a trovare ispirazione nell’osservazione di esse. E saranno, tra gli europei, i tedeschi a formulare le linee teoriche della nuova estetica “neoclassica”:

Johann_Winckelmann_1.jpgJohann  Joachim Winckelmann:

JOHANN JOACHIM WINCKELMANN:
LA “QUIETA GRANDEZZA” DEL LAOCOONTE

Infine, la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Così come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoonte, e non nel volto solo. Il dolore che si mostra in ogni muscolo e in ogni tendine del corpo e che al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né ad altre parti, quasi crediamo di sentire in noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di rabbia nel volto o nell’atteggiamento. Il Laocoonte non  grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo con cui la bocca è aperta, non lo permette; piuttosto ne può uscire un sospiro angoscioso e oppresso come ce lo descriva Sadoleto. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale misura per tutto il corpo e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo sopportare il dolore come questo uomo sublime lo sopporta. L’espressione di un’anima così elevata passa di molto le forme della bella natura: l’artista dovette sentire nel suo intimo la potenza spirituale che egli trasmise nel suo marmo.  

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Copia romana del Laocoonte

Il testo di Winckelmann ci conduce ad una duplice considerazione:

  • La connessione tra giudizio estetico e giudizio etico: l’atteggiamento di Laocoonte e dei suoi figli non fanno trasparire una lacerazione interiore, nonostante la situazione; essi, attraverso l’espressione diventano per noi exemplum morale, danno a noi la forza di una sopportazione interiore quale traspare nella perfezione marmorea;
  • L’arte non deve avere più un atteggiamento mimetico verso la natura: deve tendere verso una bellezza estetica e ideale che la natura non possiede.

In Italia la personalità più rappresentativa del neoclassicismo, ad eccezione del Foscolo, è quella di Vincenzo Monti.

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Vincenzo Monti

Nato nel 1754 ad Alfonsine in Romagna, studiò a Ferrara e sin da giovane dimostrò un’ottima capacità verseggiatrice. Nel 1778 è a Roma, dove diventa segretario di un nipote del papa di Pio VI sino al 1797. E’ qui che, assimilando il giudizio negativo della chiesa sulla Rivoluzione Francese, dà alle stampe la Bassvilliana (1793), dive immagina che l’ambasciatore francese a Napoli, Ugo di Basville, ucciso a Roma, sorvoli insieme ad un angelo la Francia, osservando gli orrori della rivoluzione. Abbandonata Roma, si trasferisce a Milano, conquistata da Napoleone l’anno precedente (1796). Qui, capovolgendo ideologia politica, pubblicò l’Inno per l’anniversario del supplizio di Luigi XVI (1799). Alla caduta della Repubblica Cisalpina fugge in Francia, per ritornare a Milano a seguito dell’Imperatore francese dove ottenne incarichi onorevoli quali l’insegnamento all’Università di Pavia. Alla fine dell’avventura napoleonica, con il ritorno degli Austriaci nella capitale lombarda, il nostro, visto l’atteggiamento conciliante del nuovo governo con gli intellettuali, cominciò a cantare i fasti del nuovo regime, ma l’ultimo periodo della sua vita fu funestato dalle critiche letterarie mosse per lo più dalle teorie romantiche che già cominciavano a circolare. Muore nel 1828.

La sua poesia più nota è del 1874:

ODE AL SIGNOR DI MONTGOLFIER

Quando Giason dal Pelio
spinse nel mar gli abeti,
e primo corse a fendere
co’ remi il seno a Teti,

su l’alta poppa intrepido
col fior del sangue acheo
vide la Grecia ascendere
il giovinetto Orfeo.

Stendea le dita eburnee
su la materna lira;
e al tracio suon chetavasi
de’ venti il fischio e l’ira.

Meravigliando accorsero
di Doride le figlie;
Nettuno ai verdi alipedi
lasciò cader le briglie.

Cantava il Vate odrisio
d’Argo la gloria intanto,
e dolce errar sentivasi
su l’alme greche il canto.

O della Senna, ascoltami,
novello Tifi invitto:
vinse i portenti argolici
l’aereo tuo tragitto.

Tentar del mare i vortici
forse è sì gran pensiero,
come occupar de’ fulmini
l’invïolato impero?

Deh! perchè al nostro secolo
non diè propizio il Fato
d’un altro Orfeo la cetera,
se Montgolfier n’ha dato?

Maggior del prode Esonide
surse di Gallia il figlio.
Applaudi, Europa attonita,
al volator naviglio.

Non mai Natura, all’ordine
delle sue leggi intesa,
dalla potenza chimica
soffrì più bella offesa.

Mirabil arte, ond’alzasi
di Sthallio e Black la fama,
pèra lo stolto cinico
che frenesia ti chiama.

De’ corpi entro le viscere
tu l’acre sguardo avventi,
e invan celarsi tentano
gl’indocili elementi.

Dalle tenaci tenebre
la verità traesti,
e delle rauche ipotesi
tregua al furor ponesti.

Brillò Sofia più fulgida
del tuo splendor vestita,
e le sorgenti apparvero,
onde il creato ha vita.

L’igneo terribil aere,
che dentro il suol profondo
pasce i tremuoti, e i cardini
fa vacillar del mondo,

reso innocente or vedilo
da’ marzii corpi uscire,
e già domato ed utile
al domator servire.

Per lui del pondo immemore,
mirabil cosa! in alto
va la materia, e insolito
porta alle nubi assalto.

Il gran prodigio immobili
i riguardanti lassa,
e di terrore un palpito
in ogni cor trapassa.

Tace la terra, e suonano
del ciel le vie deserte:
stan mille volti pallidi,
e mille bocche aperte.

Sorge il diletto e l’estasi
in mezzo allo spavento,
e i piè mal fermi agognano
ir dietro al guardo attento.

Pace e silenzio, o turbini:
deh! non vi prenda sdegno
se umane salme varcano
delle tempeste il regno.

Rattien la neve, o Borea,
che giù dal crin ti cola:
l’etra sereno e libero
cedi a Robert che vola.

Non egli vien d’Orizia
a insidïar le voglie:
costa rimorsi e lacrime
tentar d’un dio la moglie.

Mise Tesèo nei talami
dell’atro Dite il piede:
punillo il Fato, e in Erebo
fra ceppi eterni or siede.

Ma già di Francia il Dedalo
nel mar dell’aure è lunge:
lieve lo porta zeffiro,
e l’occhio appena il giunge.

Fosco di là profondasi
il suol fuggente ai lumi,
e come larve appaiono
città, foreste e fiumi.

Certo la vista orribile
l’alme agghiacciar dovría;
ma di Robert nell’anima
chiusa è al terror la via.

E già l’audace esempio
i più ritrosi acquista;
già cento globi ascendono
del cielo alla conquista.

Umano ardir, pacifica
filosofia sicura,
qual forza mai, qual limite
il tuo poter misura?

Rapisti al ciel le folgori,
che debellate innante
con tronche ali ti caddero,
e ti lambîr le piante.

Frenò guidato il calcolo
dal tuo pensiero ardito
degli astri il moto e l’orbite,
l’Olimpo e l’infinito.

Svelaro il volto incognito
le più rimote stelle,
ed appressar le timide
lor vergini fiammelle.

Del sole i rai dividere,
pesar quest’aria osasti:
la terra, il foco, il pelago,
le fere e l’uom domasti.

Oggi a calcar le nuvole
giunse la tua virtute,
e di natura stettero
le leggi inerti e mute.

Che più ti resta? Infrangere
anche alla morte il telo,
e della vita il nettare
libar con Giove in cielo.

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Illustrazione dell’aerostato inventato dai fratelli Montgolfier

Quando Giasone spinse nel mare le navi e per primo solcò con i remi il mare // i Greci videro salire intrepido sull’alta poppa della nave il giovane Orfeo, insieme col fior fiore degli eroi achei. // Percorreva con dita bianchissime la lira donatagli dalla madre, e al suono si placavano il fischio e la violenza tempestosa dei venti. // Meravigliandosi accorsero le Nereidi, lo stesso Nettuno (per la meraviglia) lasciò cadere le briglie dei verdi cavalli alati. // Intanto il poeta della Tracia (Orfeo) cantava la gloria di Argo, la nave degli Argonauti, e il suo canto si sentiva aleggiare sopra le anime greche. // O nuovo, invincibile nuovo Tifi (nocchiero della nave di Giasone) il tuo viaggio aereo ha vinto la straordinarie imprese degli Argolici. / Solcare il mare tempestoso è forse impresa così grande quanto conquistare il cielo, dominio inviolato dei fulmini? // Ahimé! perché il destino favorevole non ha dato la cetra ad un altro Ordeo, dal momento che ci ha dato il signor Montgolfier? // Più grande di Giasone, sorge il figlio di Francia. Applaudi Europa attonita alla nave volante (aerostato). // Giammai la natura, attenta a far rispettare le sue leggi, soffrì la più bella offesa dall’idrogeno. // Arte meravigliosa (la chimica) per cui s’innalza la fama di Sthal e Black (famosi chimici), muoia l’incredulo che ti chiama follia. // Tu chimica fai penetrare lo sguardo acuto dentro i corpi, ed inutilmente cercano di nascondersi gli elementi che oppongono resistenza. // Dalle oscure tenebre traesti la verità e ponesti fine alle aspre ed interminabili ipotesi scientifiche. // Brillò la Sapienza rivestita del tuo splendore ed apparvero le sorgenti da cui ha origine il creato. // L’idrogeno , terribile gas infiammabile, che nel profondo della terra alimenta i terremoti e facendo vacillare i fondamenti del mondo, // vedilo ora reso innocuo, uscire dal ferro usato per le armi di Marte, è già domato ed utile servire a colui che lo ha domato. // Attraverso lui, la materia dimentica del peso, mirabile cosa!, sale in alto e porta alle nuvole un assalto mai veduto prima. // Lo straordinario prodigio lascia immobili coloro che lo guardano, e un battito di paura trapassa ogni cuore. // La terra tace, risuonano (delle voci di quelli che salgono in pallone) le vie deserte del cielo, stanno mille volti attoniti a riguardare su, stanno mille bocche aperte per la meraviglia. // Nasce un piacere e l’estasi frammisti alla paura, i piedi irrequieti, desiderano andare dietro lo sguardo. // Fate silenzio e offrite la pace, o venti, ah, non vi offendete se corpi umani varcano il cielo. // Trattieni la neve, o Borea, vento freddo del nord,  che ti scende dai capelli, il cielo libero e serene concedi a Robert che vola. // Non viene a insidiare Orizia (sposa di Borea), costa rimorsi e dolore il volere tentare la moglie di un dio. // Teseo mise il piede nel letto nunziale di Plutone re dei morti (tentando di rapire Proserpina): lo punì il fato, rinchiudendolo per l’eternità nel regno dei morti. //  Ma già Robert, Dedalo di Francia, è lontano nel mare celeste, lieve lo sospinge il vento, l’occhio lo segue ormai a fatica. // Da quell’altezza, fuggendo allo sguardo, la terra sembra sprofondare oscura, e come ombre evanescenti appaiono città, foreste e fiumi. // Certamente la vista orribile (della terra vista dall’alto) avrebbe potuto agghiacciare gli animi; ma è chiusa la via al terrore nell’anima di Robert. // E ormai l’audace impresa conquista gli scettici, già cento palloni aerostatici salgono alla conquista del cielo. // Coraggio umano, pacifica e sicura scienza, quale forza, quale limite definisce il tuo potere? // Hai rapito al cielo le folgori (invenzione del parafulmine di Franklin, 1752), che privi di pericolo ti caddero davanti come se avessero le ali troncate, sino ai piedi. // La scoperta della gravitazione universale, guidata dal tuo pensiero audace, misurò il movimento e le orbite dei pianeti, il cielo e l’infinità dello spazio. // Svelarono il volto sconosciuto le più lontane stelle e avvicinarono le loro mai guardate prima luci (grazie al telescopio). // Hai diviso i raggi solari, / hai osato pesare questa stessa aria, hai domato la terra, il fuoco, il mare, gli animali e l’uomo. // Oggi la tua virtù è giunta a calcare le nuvole/ rimasero incapaci e silenziose le leggi della natura. // Cosa più ti resta? Infrangere anche il velo della Morte e bere insieme a Giove il nettare della vita.

bi000278_key_image.jpg  I fratelli Montgolfier

L’ode, composta nel febbraio 1784, prese spunto dal secondo volo aerostatico della storia, avvenuto a Parigi il 1º dicembre 1783. E’ composta da 35 strofe in settenari alternati: il primo ed il terzo sdruccioli, il secondo e quarto piani, mentre lo schema metrico è abcb. E’ un classico esempio di come il neoclassicismo montiano sia scenografico:

  • A livello contenutistico potremo associarla ad una lirica di ascendenza illuministica in cui viene esaltata la scienza;
  • A livello formale emerge un tessuto fortemente classico con riferimenti precisi mitologici e una costruzione ricca di metafore, inversioni, omoteleuti e chi più ne ha più ne metta.

Se dovessimo pertanto analizzare l’ode da un punto di vista letterario potremo dire che essa tuttavia più che un’estetica tardo illuministica, risponde ad una perfetta estetica neoclassica: il protagonista della storia è Orfeo che canta l’impresa di Giasone; quest’ultimo è messo di sottofondo, non appare. Se Orfeo è il cantore dell’impresa del re tessalo, Monti sarà il cantore dell’impresa di Montgolfier. E’ la poesia a dominare, non la scienza, la poesia che si fa interprete della realtà contemporanea. In effetti non vi è in tale ode l’impegno educativo che abbiamo letto in Parini; soltanto un aspetto più che altro scenografico con l’intento, quasi fossimo ancora nel barocco, di stupire, come stupiti sono gli spettatori dell’impresa dei fratelli di Montgolfier.

ALTA LA NOTTE

Alta è la notte, ed in profonda calma 
dorme il mondo sepolto, e in un con esso 
par la procella del mio cor sopita. 
Io balzo fuori delle piume, e guardo; 
e traverso alle nubi, che del vento 
squarcia e sospinge l’iracondo soffio, 
veggo del ciel per gl’interrotti campi 
qua e là deserte scintillar le stelle. 
Oh vaghe stelle! e voi cadrete adunque, 
e verrà tempo che da voi l’Eterno 
ritiri il guardo, e tanti Soli estingua? 
E tu pur anche coll’infranto carro 
rovesciato cadrai, tardo Boote, 
tu degli artici lumi il più gentile? 
Deh, perché mai la fronte or mi discopri, 
e la beata notte mi rimembri, 
che al casto fianco dell’amica assiso 
a’ suoi begli occhi t’insegnai col dito! 
Al chiaror di tue rote ella ridenti 
volgea le luci; ed io per gioia intanto 
a’ suoi ginocchi mi tenea prostrato 
più vago oggetto a contemplar rivolto, 
che d’un tenero cor meglio i sospiri, 
meglio i trasporti meritar sapea. 
Oh rimembranze! oh dolci istanti! io dunque, 
dunque io per sempre v’ho perduti, e vivo? 
e questa è calma di pensier? son questi 
gli addormentati affetti? Ahi, mi deluse 
della notte il silenzio, e della muta 
mesta Natura il tenebroso aspetto! 
Già di nuovo a suonar l’aura comincia 
de’ miei sospiri, ed in più larga vena 
già mi ritorna su le ciglia il pianto.

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La notte è alta e in questa profonda tranquillità dorme il mondo e insieme ad esso sembra placarsi la tempesta del mio cuore. Balzo fuori dal letto e attraverso le nuvole che il vento impetuoso rompe e sospinge, vedo scintillare a tratti le solitarie stelle. Oh belle stelle: verrà il momento in cui i pianeti saranno estinti, non più sostenuti dallo sguardo del Divino? e anche tu, costellazione di Boote (Orsa Maggiore), che ruoti lentamente, cadrai insieme a quella del Grande Carro? Ahi, perchè ora mi mostri l’aspetto e mi ricordi la dolce notte quando, seduto a fianco della casta donna, ti indicai con il dito al suo sguardo. Alla chiarezza delle tue stelle volgeva gli occhi sorridenti; mentre io mi tenevo prostrato ai suoi ginocchi, rivolto in contemplazione di un oggetto più bello che sapeva ricompensare meglio i trasporti e i sospiri di un tenero cuore. Oh ricordi! oh dolci momenti! io dunque vi ho perduti per sempre e nonostante ciò continuo a vivere? E’ questo un calmo pensiero? Sono questi gli affetti placati? Ah, mi ha deluso il silenzio della notte e il tenebroso aspetto della silenziosa e triste natura! Già di nuovo l’aria comincia a risuonare dei miei sospiri e già mi torna sulle ciglia un più abbondante pianto.

La poesia montiana tratta da Pensieri d’amore è una parafrasi delle ultime pagine de I dolori del giovane Werther di Wolfang Goethe. La sua importanza è soprattutto nella suggestione che essa ebbe per la poesia leopardiana che fu capace, con diversa profondità, di prendere espressioni ed inserirle nel suo canto poetico. Ma al di là dell’influenza che il poeta Monti ebbe per la poesia successiva, tale passo indica un certo eclettismo poetico che non riesce a “svelare” un vero e proprio autore, quanto piuttosto un tecnico della poesia che riesce a manipolare suggestioni che giungono dall’Europa.

Insieme e parallela all’esperienza neoclassica, come già detto, si sviluppa una linea di tendenza che in apparenza sembra opporsi ad essa ma che troveremo coesistere in importanti personalità del periodo (come nello stesso Vincenzo Monti). Essa, pur con un termine improprio, viene indicata come preromanticismo: ad essa potremo inserire l’esperienza filosofico/letteraria di Jean Jacques Rousseau, il movimento tedesco dello Sturm und Drang (Impeto e Tempesta), e il nostro Ugo Foscolo.

Per il primo aspetto possiamo indicare come padre di una possibile compenetrazione tra la ragione illuministica e la nuova percezione sentimentale Jean Jacques Rousseau, filosofo svizzero. La sua speculazione può essere semplificata attraverso una critica che egli muove contro la civiltà corruttrice: si tratta cioè di spostare il binomio cultura vs natura verso quest’ultima. Ma per Rousseau privilegiare lo stato di natura contro quello culturale “portava alla valorizzazione del sentire più che dell’intelligenza e della ragione, della spontaneità più che della norma” (Guglielmino). Nel romanzo Giulia o la nuova Eloisa (1761) si narra appunto di un amore contrastato che non può realizzarsi per convenzioni sociali, ma da cui non ci si può allontanare, se non con la morte.

Partiamo da un piccolo passo di questo romanzo che ci illustra emblematicamente come dalle ceneri del pensiero illuminato possa formarsi una nuova sensibilità capace di andare oltre la stretta ragione:

L‘azione si svolge in Svizzera, sulle rive del lago Lemano. Attraverso la corrispondenza tra Julie d’Etanges, il suo precettore Saint Preux e la cugina di Julie, Claire, si delinea la storia di una passione. Saint Preux si è accorto di amare l’allieva e vorrebbe rinunciare all’incarico di precettore: mai infatti il padre di Julie acconsentirà di farle sposare un uomo senza fortuna e senza nobiltà. Ma anche Julie lo ama, invano ammonita dalla saggia Claire. Dopo un tentativo di separazione, Saint Preux si stabilisce a Meillerie, sui monti, di fronte alla cittadina di Julie e i due giovani s’incontrano segretamente. Claire stessa richiama Saint Preux. Un inglese, Lord Bomstom, col quale Saint Preux si è legato di stretta amicizia, cerca di perorare la causa di Julie presso suo padre, la cui razione è però tanta violenta da costringere Saint Preux a partire. Julie, passato qualche tempo, accetta, col consenso di Saint Preux, il marito propostole dal padre, M. de Wolmar, che l’ama da tempo. A Clarens, accanto al marito è serena. Nascono due figli. M. de Wolmar invita Saint Preux a vivere con loro. Dopo una lunga lotta per non soccombere alla passione, Saint Preux parte. Interviene però un incidente: durante una passeggiata il figlio di Julie cade nel lago. La madre si butta nell’acqua, lo salva ma si ammala gravemente. Richiamato da Claire, Saint Preux accorre e, prima di morire, Julie gli chiede di rimanere nella sua casa per occuparsi dell’educazione dei suoi figli.
Jean-Jacques Rousseau: biografia, pensiero e opere | Studenti.it

 

JEAN-JACQUES ROUSSEAU:  SAINT PREUX A MEILLEIRE

Nei violenti trasporti che mi agitano non riesco a star fermo; corro, m’inerpico con ardore, mi slancio negli spogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me. Non c’è più traccia di verde, l’erba è gialla e inaridita, gli alberi spogli, i venti boreali accumulano neve e ghiacci, tutta la natura è morta ai miei occhi, come la speranza in fondo al mio cuore.
Tra le rocce di questo pendio ho scoperto in un rifugio solitario una breve spianata da dove si scorge tutta la felice città che abitate. Figuratevi con che avidità portai gli occhi su quell’amato soggiorno. il primo giorno feci mille sforzi per discernere la vostra casa; ma la grande distanza li rese vani, m’accorsi che l’immaginazione mia illudeva gli occhi affaticati. Corsi dal curato a farmi prestate un telescopio col quale vidi o mi parve di vedere la vostra casa, e da allora passo intere giornate in questo asilo contemplando i muri fortunati che racchiudono la sorgente della mia vita. Nonostante la stagione ci vengo già la mattina e non me ne vado che a notte. Con un fuocherello di foglie e di qualche ramo secco e con il moto riesco a proteggermi dal freddo eccessivo. MI sono così innamorato di questo luogo selvaggio che ci porto persino penna e carta, ora sto scrivendo questa lettera su un macigno che il gelo ha staccato dalla rupe vicina.
Qui o Giulia, il tuo infelice amante gode gli estremi piaceri che forse potrà gustare al mondo. Di qui, attraverso l’aria e muri, ardisce a penetrare segretamente fino alla tua camera. 

Il passo ci rimanda ad una concezione secondo cui la natura viene rivissuta attraverso l’interpretazione di un io: non esiste oggettivamente, ma soggettivamente perché l’io poetico si riflette e trova in essa una comunione e una realizzazione, luogo nel quale conoscersi. Non è un caso che Saint Preux scriva seduto su una pietra guardando la casa dell’amata: lì trova non solo ispirazione, ma una forza quasi primigenia che lo porta a scandagliare se stesso ed il suo sentimento.

La storia del romanzo di Rousseau apre un varco nella cultura europea che, privilegiando il sentimento, mette in luce la difficoltà che esso possa dispiegarsi nella pienezza della sua espressività, ed uno degli aspetti dove questo emerge con più forza è quello dell’impossibilità del rapporto di coppia, vissuto sotto il segno dell’amore e non della convenienza sociale. E’ il tema della nouvelle Eloise (la nuova Eloisa, rivisitazione dell’epistolario dell’amore contrastato tra Abelardo ed Eloisa, appunto), e lo sarà per il romanzo di Goethe, scritto nel periodo della sua gioventù in cui aveva aderito al movimento dello Sturm und Drang, I dolori del giovane Werther:

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Goethe da giovane

Werther anima ardente e appassionata, si innamora di Carlotta, venendo a sapere troppo tardi che essa è già promessa sposa di Alberto, uomo pacato e tranquillo. Questi, pur dubitando dei sentimenti di Werther, lascia che i due si frequentino. Carlotta è via via attratta da Werther, sente di amarlo e si lascia baciare da lui. Incapace di resistere alla passione e disperando di avere Carlotta tutta per sé, Werther finge di dover partire per un breve viaggio e si uccide.   

WERTHER ED ALBERTO

12 agosto

Certamente Alberto è il miglior uomo che esista sotto la volta celeste. Ho avuto ieri con lui una discussione che non dimenticherò. Andai a casa sua per salutarlo, dacché mi è venuta la fantasia di andarmene a cavallo per le montagne, da dove ora ti scrivo, e camminando su e giù per la camera ci caddero sotto gli occhi le sue pistole. «Prestamele per il mio viaggio», gli dissi. «Prendile pure», rispose, «ti prendi la briga di caricarle; io le tengo qui solo pro forma». Ne scelsi una, e lui continuò: «Da quando la mia prudenza mi ha giocato un brutto tiro, non voglio più avere a che fare con quegli aggeggi». Ero curioso di sapere il seguito della storia, e lui proseguì: «Mi trovavo da tre mesi presso un amico, in campagna; avevo un paio di pistole scariche, e facevo sonni tranquilli. Una volta, in un pomeriggio piovoso, ero sfaccendato, e non so come mi saltò in testa che avremmo potuto essere assaliti e le pistole avrebbero potuto esserci necessarie, e che… insomma sai come vanno queste cose. Diedi le armi al servitore per farle pulire e caricare; quello si mise a scherzare con le serve, per spaventarle, e Dio sa come, il colpo partì; dentro la canna c’era ancora la bacchetta che fracassò il pollice della mano destra di una ragazza. Oltre che ad ascoltare gli strilli, dovetti pensare a pagare il chirurgo, e da allora lascio sempre le armi scariche. Mio caro amico, a che serve la prudenza? Non si vede mai il pericolo per intero. Pure…». Ora, tu sai che voglio molto bene ad Alberto, fino però ai suoi pure; non è forse evidente di per sé che ogni regola ammette eccezioni? Ma è così scrupoloso che quando gli sembra di aver detto qualche cosa di troppo azzardato e generico, e non del tutto vero, non la finisce più di definire, modificare, sopprimere o aggiungere, fino a che niente rimane di tutto ciò che ha detto. In questo frangente esagerò la dose… e io finii col non dargli più ascolto, mettendomi a fantasticare: poi con un gesto improvviso mi appoggiai alla fronte la bocca della pistola, al di sopra dell’occhio destro. «Ehi, che cosa ti viene in mente?», esclamò Alberto strappandomi la pistola dalla mano. «Ma è scarica», risposi. «Scarica o no, non è cosa da fare», replicò con impazienza. «Solo al pensare che un uomo possa essere così pazzo da togliersi la vita, mi sento rivoltare…».
«Ma è mai possibile che tutti gli uomini», esclamai, «quando parlano di qualche cosa devono sempre giudicare: è pazza, è savia, è buona, è cattiva? Ma che significato ha tutto ciò? Voi che giudicate, avete prima esaminato attentamente gli inconsci moventi di un’azione? Siete in grado di ricercarne esattamente le cause, e di rendervi conto del perché è avvenuta e del perché doveva avvenire? Se l’aveste fatto, non sareste così pronti nei vostri giudizi!».
«Mi concederai», disse Alberto, «che certe azioni restano degne di biasimo, qualunque sia il motivo che le determina».
Glielo concessi, stringendomi nelle spalle. «Tuttavia», continuai, «vi sono sempre delle eccezioni. È vero che il furto è un delitto; ma l’uomo che ruba per salvare sé e i suoi dal morire di fame, merita pietà o castigo? E chi scaglierà la prima pietra contro il marito che nella sua giusta ira uccide la sua donna infedele e l’indegno seduttore? Oppure contro la fanciulla che in un’ora di ebbrezza cede alle impetuose gioie dell’amore? Perfino le nostre leggi, che pure sono fredde e pedanti, si fanno commuovere e sospendono la punizione!».
«Questa è tutta un’altra questione», replicò Alberto, «perché l’uomo sopraffatto dalla passione perde ogni facoltà di ragionamento ed è da considerare come ubriaco o pazzo».
«O persone ragionevoli!», esclamai sorridendo. «Passione! Ubriacamento! Pazzia! Voi uomini per bene, come rimanete impassibili ed estranei a tutto questo! Rimproverate l’ubriacone, condannate l’insensato, passate loro dinanzi come il sacrificatore, e ringraziate Iddio, come il fariseo, perché non vi ha fatto simili a loro! Più di una volta io mi sono ubriacato, le mie passioni non sono mai tanto lontane dalla follia, ma non mi pento, perché ho imparato, dietro la mia esperienza, a capire che tutti gli uomini fuori del comune che hanno fatto qualcosa di grande, qualcosa di apparentemente impossibile, sono stati in ogni tempo considerati ubriachi o pazzi… Ma anche nella vita d’ogni giorno è intollerabile sentir gridare ogni qualvolta stia per compiersi un’azione libera, nobile e inaspettata: “Quest’uomo è ubriaco, è pazzo”. Vergognatevi, uomini sobri! Vergognatevi, uomini saggi!».
«Ecco di nuovo le tue strane idee!», disse Alberto. «Tu esageri tutte le cose, e questa volta hai senza dubbio torto nel paragonare il suicidio in questione con le grandi imprese, mentre esso può essere considerato nient’altro che una debolezza. Perché è certamente più facile morire che sopportare fermamente una vita penosa».
Ero sul punto di mettere fine alla discussione, perché niente mi esaspera di più che vedere qualcuno controbattermi armato solo di scialbi luoghi comuni, mentre io parlo mettendoci tutto il mio impegno. Tuttavia mi contenni, dal momento che avevo sentito spesso quel tipo di ragionamento e me ne ero altrettanto spesso indignato; risposi perciò piuttosto vivacemente. «Lo chiami una debolezza? Ti prego, non ti lasciare ingannare dall’apparenza. Puoi chiamare debole un popolo che geme sotto l’insopportabile giogo di un tiranno, se alla fine si rivolta e spezza le sue catene? O un uomo che nel terrore di vedere la propria casa in preda alle fiamme, sente le sue forze centuplicarsi e solleva agevolmente pesi che a mente calma potrebbe smuovere appena? E uno che nell’ira dell’offesa affronta sei nemici e li vince tutti, vuoi chiamarlo debole? Mio caro, se lo sforzo è la forza, perché l’estremo sforzo dovrebbe essere il suo contrario?». Alberto mi guardò e disse: «Non te la prendere, ma gli esempi che tu adduci non si adattano al caso nostro». «Può darsi», risposi. «Ma è stato spesso osservato che il mio modo di ragionare è a volte alogico. Vediamo dunque se possiamo raffigurarci in un altro modo lo stato d’animo che determina un uomo a disfarsi del fardello dell’esistenza, generalmente gradito. Perché solo quando siamo in grado di comprendere profondamente un sentimento, noi possiamo avere il giusto criterio di parlarne».
«La natura umana», continuai, «ha i suoi limiti; può sopportare gioia, sofferenza o angoscia solo fino a un certo punto, oltre il quale si soccombe. Qui non si tratta di stabilire se uno è debole o forte, ma se è in grado di sopportare la sofferenza che gli è imposta, tanto morale che fisica; e trovo strano definire vile qualcuno perché si è tolto la vita, come troverei inconcepibile chiamare tale chi muore per una febbre maligna».
«Ancora paradossi!», esclamò Alberto.
«Non quanto tu pensi», replicai, «ammetterai che noi chiamiamo mortale la malattia che attacca il nostro organismo in modo tale che le sue forze siano in parte distrutte, e in parte diminuite di attività; sicché la natura non riesce più ad aiutarci, né a riattivare, in alcun modo, il normale corso della vita. Bene, amico mio, applichiamo questo allo spirito. Considera quante impressioni agiscono sull’uomo nella sua limitatezza, quante idee nascono in lui, fino al momento in cui una crescente passione non gli fa perdere ogni limpida facoltà del pensiero, per travolgerlo una volta per tutte. Invano l’uomo distaccato e ragionevole lo considera con compassione, cercando di persuaderlo con ragionamenti. È come il sano che al capezzale di un infermo non può trasfondere in lui la minima parte delle sue forze».
Per Alberto questo ragionamento era troppo generico. Gli rammentai allora di una fanciulla trovata recentemente annegata e gli ripetei la sua storia. «Era una tranquilla creatura, cresciuta nella piccola cerchia delle occupazioni domestiche, nel lavoro scandito giorno dopo giorno, con nessun’altra prospettiva o distrazione che passeggiare a volte la domenica insieme con le sue compagne, nei dintorni della città, abbigliata con ornamenti messi insieme a poco a poco; oppure ballare in occasione delle feste solenni, e chiacchierare a volte con qualche vicina, per ore, vivacemente interessandosi di una lite o di una maldicenza. Improvvisamente la sua ardente giovinezza prova segreti desideri, tentati dalle lusinghe degli uomini. Le sue gioie abituali divengono sempre più insipide, finché alla fine incontra un uomo verso il quale è trascinata senza potersi opporre al sorgente sentimento, e in lui concentra ogni sua speranza; dimentica allora il mondo intero, non sente che lui, non desidera che lui, l’Unico. Non essendo corrotta dai vuoti pensieri di una vanità incostante, vuole legarsi a lui per l’eternità per arrivare a cogliere la felicità che non possiede e godere tutte le gioie a cui aspira. Ripetute promesse coronano le sue speranze, audaci carezze accendono il suo desiderio, dominano completamente la sua anima; è in preda a oscure sensazioni che le fanno presentire tutte le gioie, è esasperata in modo estremo, stende alla fine le braccia per stringere a sé tutto quello che ha desiderato… e il suo amore l’abbandona. Impietrita, preda dell’oscurità, non ha dinanzi nessun avvenire, nessun conforto, nessuna speranza, perché l’ha abbandonata colui nel quale aveva riposto tutta la sua vita. Non vede il vasto mondo che le si stende davanti, né i tanti che potrebbero consolarla di quella perdita; si sente sola, abbandonata da tutti, e cieca, oppressa dall’orribile angoscia del suo cuore, si lascia andare per distruggere le sue pene nella morte che tutto annienta… Vedi, Alberto, questa è la storia di molti esseri! E non ti sembra proprio la stessa cosa della malattia? La natura non trova alcuna via d’uscita dal labirinto delle forze confuse e contrastanti, e l’uomo deve soccombere. Guai a colui che assistendo a simile tragedia può dire: “Che pazza! Se avesse aspettato, se avesse lasciato trascorrere il tempo, la sua disperazione si sarebbe placata, qualcuno sarebbe giunto per consolarla!”. È proprio la stessa cosa che dire: “Che pazzo, è morto di febbre! Se avesse pazientato finché le forze gli fossero tornate, la linfa vitale risanata, il tumulto del suo sangue calmato, oggi sarebbe ancora in vita, e tutto sarebbe andato per il meglio!”».
Alberto, che non trovava appropriato il paragone, mi fece ancora delle obiezioni; e tra l’altro rilevò che io avevo parlato di una semplice fanciulla; ma che lui non riusciva a capire come si potesse scusare un uomo sveglio di mente, e non così limitato, e in grado di avere una più vasta visione del mondo. «Amico mio», esclamai, «l’uomo è uomo, e il po’ di criterio che può avere, ha scarsa importanza quando lo incalza la passione, e si sente spinto ai limiti delle sue forze! Tanto più… Ma ne parleremo un’altra volta», dissi, e presi il cappello. Avevo il cuore gonfio, e ci separammo senza esserci compresi. Come è difficile che gli uomini si comprendano in questo mondo!

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Il suicidio di Werther

Potremo definire questo passo “ragione e sentimento” dove al primo membro inseriremo la figura di Alberto, il razionale, e al secondo Werther; è l’io del giovane che ci dice, attraverso la sua lettura della realtà, come un essere eccezionale non può che essere anti borghese, andare contro le convenzioni che questa classe sociale stava appena edificando. Alberto rappresenta appunto questa idea, il “buon senso”, “la ragione”, questa idea “illuminista” che cerca di cambiare il mondo sulla logica appunto attraverso il “giusto mezzo”; è evidente che per Werther è proprio questa “grettezza” ad uccidere la passionalità, l’alto sentire, che lo distingue e fa sì che egli sia il vero intellettuale, capace cioè di leggere i limiti che proprio “il buon senso” segna, circoscrive in modus vivendi grigio e senza senso. Il Werther è del 1774 e si può dire contemporaneo ad una stessa riflessione che Alfieri aveva svolto nel Sulla tirannide: arrivano ambedue all’esaltazione del suicidio come estrema di libertà, ma se l’astigiano la connota solo agli spiriti eccezionali, Goethe la inserisce anche ad una piccola creatura, che nonostante l’inconsapevolezza culturale della libertà, l’ha cercata in quanto privata dalla passione d’amore.

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James Macpherson

Ma Werther è anche un uomo colto di fine Settecento: la sua passione letteraria ce la conferma in un passo dello stesso libro:

OSSIAN NEL CUORE DI WERTHER

Ossian ha soppiantato Omero nel mio cuore. In che mondo m’introduce questo magnifico poeta! Camminare attraverso la landa, investito da ogni parte dal vento burrascoso che nelle nebbia fluttuanti evoca i fantasmi dei padri in una luce crepuscolare! Udire come viene giù dai monti, nel frastuono del torrente in mezzo al bosco, il flebile lamento degli spiriti nelle loro caverne ed il pianto d’angoscia della fanciulla che si strugge fino a morire presso le quattro pietre coperte di muschio e d’erba che ricoprono il corpo del suo amato, il nobile guerriero caduto! E’ allora che io lo trovo, il bardo grigio che cammina e cerca sulla vasta landa le orme dei suoi padri, e, ahimè, trova le loro tombe, e quindi lamentandosi guarda verso la cara stella del vespero che si nasconde nel mare tumultuoso, e rivivono nell’anima dell’eroe gli antichi tempi quando un raggio benevolo indicava ancora i pericoli che minacciavano i valorosi, e la luna splendeva sopra la loro nave inghirlandata che ritornava dopo la vittoria. 

I canti di Ossian vennero pubblicati dal precettore di scuola James Macpherson, (Scozia, 1736 – 1796). L’autore mise insieme alcuni canti della tradizione gaelica popolare, da lui tradotti, attribuendoli ad un mitico personaggio dell’antichità, Ossian, vissuto nel III secolo d.C. Ad essi aggiunse altri brani di sua invenzione. L’opera ebbe un successo straordinario in tutta Europa, che li considerò autentici: infatti in essi vi erano tutte le istanze che la nuova corrente culturale stava elaborando a partire dalla critica  alla ragione che l’illuminismo aveva imposto.

I° CANTORE

Trista è la notte, tenebrìa s’aduna,
Tingesi il cielo di color di morte:
Qui non si vede nè stella, nè luna,
Che metta il capo fuor dalle sue porte.
Torbido è ‘l lago, e minaccia fortuna,
Odo il vento nel bosco a ruggir forte.
Giù dalla balza va scorrendo il rio
Con roco lamentevol mormorìo.
Su quell’alber colà, sopra quel tufo,
Che copre quella pietra sepolcrale,
Il lungo-urlante ed inamabil gufo
L’aer funesta col canto ferale.
Ve’ ve’:
Fosca forma la piaggia adombra:
Quella è un’ombra:
Striscia, sibila, vola via.
Per questa via
Tosto passar dovrà persona morta:
Quella meteora de’ suoi passi è scorta.
Il can dalla capanna ulula e freme,
Il cervo geme – sul musco del monte,
L’arborea fronte – il vento gli percote;
Spesso ei si scuote – e si ricorca spesso.
Entro d’un fesso – il cavriol s’acquatta,
Tra l’ale appiatta – il francolin la testa.
Teme tempesta – ogni uccello, ogni belva;
Ciascun s’inselva – e sbucar non ardisce;
Solo stridisce – entro una nube ascoso
Gufo odioso;
E la volpe colà da quella pianta
Brulla di fronde
Con orrid’urli a’ suoi strilli risponde.
Palpitante, ansante, tremante
Il peregrin
Va per sterpi, per bronchi, per spine,
Per rovine,
Chè ha smarrito il suo cammin.
Palude di qua,
Dirupi di là,
Teme i sassi, teme le grotte,
Teme l’ombre della notte;
Lungo il ruscello incespicando,
Brancolando
Ei strascina l’incerto suo piè.
Fiaccasi or questa or quella pianta,
Il sasso rotola, il ramo si schianta
L’aride lappole strascica il vento.
Ecco un’ombra, la veggo, la sento;
Trema di tutto, nè so di che.
Notte pregna di nembi e di venti,
Notte gravida d’urli e spaventi!
L’ombre mi volano a fronte e a tergo:
Aprimi, amico, il tuo notturno albergo.

Il falso storico di Macpherson riesce a penetrare profondamente nella mente di un’intera generazione preromantica: Goethe, come si è visto, e tradotto da Melchiorre Cesarotti, Monti e Foscolo per la nostra letteratura; quello che il canto trasmette è completamente virato verso un naturalismo sentimentale capace di toccare corde che la ragione aveva cancellato.

Un paesaggio mitico lo si può ritrovare anche nel passato: le stesse scoperte archeologiche avevano spinto da una parte a riscoprire il gusto dell’antico, dall’altra e considerare l’Ellade come un mondo perduto per sempre, verso cui vagheggiare per poi prendere consapevolezza della decadenza della civiltà contemporanea. 

Ne è un esempio Keats (autore nella cui giovane vita, morì a 26 anni, scrive alcuni capolavori letterari), che, rappresenta il senso di turbamento del presente di contro all’immobilità dell’arte classica è la riaffermazione dell’arte e quindi della bellezza come unica forma per sconfiggere la caducità della vita:

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JOHN KEATS: ODE ON A GRECIAN URN

Thou still unravish’d bride of quietness,
Thou foster-child of silence and slow time,
Sylvan historian, who canst thus express
A flowery tale more sweetly than our rhyme:
What leaf-fring’d legend haunts about thy shape
Of deities or mortals, or of both,
In Tempe or the dales of Arcady?
What men or gods are these? What maidens loth?
What mad pursuit? What struggle to escape?
What pipes and timbrels? What wild ecstasy?

Heard melodies are sweet, but those unheard
Are sweeter; therefore, ye soft pipes, play on;
Not to the sensual ear, but, more endear’d,
Pipe to the spirit ditties of no tone:
Fair youth, beneath the trees, thou canst not leave
Thy song, nor ever can those trees be bare;
Bold Lover, never, never canst thou kiss,
Though winning near the goal yet, do not grieve;
She cannot fade, though thou hast not thy bliss,
For ever wilt thou love, and she be fair!

Ah, happy, happy boughs! that cannot shed
Your leaves, nor ever bid the Spring adieu;
And, happy melodist, unwearied,
For ever piping songs for ever new;
More happy love! more happy, happy love!
For ever warm and still to be enjoy’d,
For ever panting, and for ever young;
All breathing human passion far above,
That leaves a heart high-sorrowful and cloy’d,
A burning forehead, and a parching tongue.

Who are these coming to the sacrifice?
To what green altar, O mysterious priest,
Lead’st thou that heifer lowing at the skies,
And all her silken flanks with garlands drest?
What little town by river or sea shore,
Or mountain-built with peaceful citadel,
Is emptied of this folk, this pious morn?
And, little town, thy streets for evermore
Will silent be; and not a soul to tell
Why thou art desolate, can e’er return.

O Attic shape! Fair attitude! with brede
Of marble men and maidens overwrought,
With forest branches and the trodden weed;
Thou, silent form, dost tease us out of thought
As doth eternity: Cold Pastoral!
When old age shall this generation waste,
Thou shalt remain, in midst of other woe
Than ours, a friend to man, to whom thou say’st,
“Beauty is truth, truth beauty, – that is all
Ye know on earth, and all ye need to know.

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Roma, cimitero acattolico: tombe di Keats e Severn

Tu, ancora inviolata sposa della quiete, / figlia adottiva del tempo lento e del silenzio, / narratrice silvana, tu che una favola fiorita / racconti, più dolce dei miei versi, / quale intarsiata leggenda di foglie pervade / la tua forma, sono dei o mortali, o entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia? E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose? Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata? E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia? // Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci / ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi, / continuate, ma non per l’udito; preziosamente / suonate per lo spirito arie senza suono. / E tu, giovane, bello, non potrai mai finire / il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli; / e tu, amante audace, non potrai mai baciare / lei che ti è così vicino; ma non lamentarti / se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire, / e tu l’amerai per sempre, per sempre così bella. // Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse / le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera; / e felice anche te, musico mai stanco, / che sempre e sempre nuovi canti avrai; / ma più felice te, amore più felice, / per sempre caldo e ancora da godere, / per sempre ansimante, giovane in eterno. Superiori siete a ogni vivente passione umana / che il cuore addolorato lascia e sazio, / la fronte in fiamme, secca la lingua. // E chi siete voi, che andate al sacrificio? Verso quale verde altare, sacerdote misterioso, conduci la giovenca muggente, i fianchi / morbidi coperti da ghirlande? E quale paese sul mare, o sul fiume, / o inerpicato tra la pace dei monti / ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino? / Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre, / e mai nessuno tornerà a dire / perché sei stato abbandonato. // Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo / d’uomini e fanciulle nel marmo, coi rami della foresta e le erbe calpestate – tu, forma silenziosa, come l’eternità / tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale! / Quando l’età avrà devastato questa generazione, / ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori / non più nostri, amica all’uomo, cui dirai “Bellezza è verità, verità bellezza,” – questo solo / sulla terra sapete, ed è quanto basta.

Possiamo dividere l’analisi del testo di Keats in cinque parti:

  • 1 – 14: superiorità dell’immaginazione, suscitata dall’arte rispetto alla realtà;
  • 15 – 43: coincidenza della perfezione con il non accadimento;
  • 44 – 45: impossibilità della ragione di penetrare la bellezza nell’arte;
  • 46 – 48: contrapposizione tra l’eternità della forma e la caducità umana
  • 49 – 50: coincidenza tra etica ed estetica.

Non è un caso, e appunto il testo di Keats ce ne offre piena testimonianza, della nascita di un vero e proprio genere sepolcrale, che vede anche la lirica di Thomas Gray, Elegia scritta in un cimitero di campagna e, per quanto la cultura italiana l’opera foscoliana Dei Sepolcri.

 

VITTORIO ALFIERI

François-Xavier Fabre - Ritratto di Vittorio Alfieri | Opere | Le Gallerie  degli Uffizi

Biografia

Il conte Vittorio Alfieri nasce ad Asti nel 1749, da una delle famiglie più ricche e nobili dello stato piemontese. Il padre muore nello stesso anno, la madre, vedova con già due figli, lo partorirà in seconde nozze; quindi si risposerà per la terza volta con un lontano parente del secondo marito, da cui nacquero altri cinque figli. Il conte Vittorio viene affidato allo zio tutore, Pellegrino Alfieri che ricoprì, tra le altre cose, il ruolo di viceré in Sardegna, dove si spense (le sue ossa sono tumulate all’interno della cattedrale di Cagliari).
Alcuni leggono in queste tortuose vicende familiari (rapporto con i fratellastri, difficoltà relazionali con il patrigno e la madre) lo spirito ribelle ed individualistico, nonché l’ispirazione tragica, del nostro autore.
Dopo esser stato educato per i primi rudimenti da un precettore privato, a nove anni viene mandato, per volontà del tutore, all’Accademia militare di Torino, dove i nobili venivano istruiti nelle scienze e nell’arte cavalleresca, diventando ufficiali. Sono anni che più tardi Alfieri giudicherà negativamente; intanto, in modo autonomo si avvicina ai classici italiani e francesi. Alla morte dello zio Alfieri eredita una notevole fortuna. Uscito portainsegne dall’Accademia militare, nel 1766, ad appena 15 anni, chiede la dispensa al Re, Carlo Emanuele III, per compiere un viaggio in Italia; al ritorno chiede una seconda dispensa per un viaggio in Europa. E’ un periodo di dissolutezze, ma anche di forte sprovincializzazione, in cui l’autore astigiano se da una parte prende atto della chiusura intellettuale del Piemonte, dall’altra radicalizza il suo individualismo e il suo senso di inappagata insoddisfazione.
Alla fine di questo secondo viaggio torna in Piemonte, dalla sorella Giulia, dove legge i contemporanei autori francesi, ma soprattutto Le vite parallele di Plutarco, che lo esalteranno. Nel 1769 inizia un terzo periodo di viaggi per l’Europa che lo porteranno fino in Russia; durante questo viaggio vivrà un’appassionante storia d’amore, che finirà con un duello.
Nel 1772 si stabilisce a Torino, ponendo fine ad una vita errabonda in cui si mescolava la sua irrequietezza e la sua insoddisfazione. Si circonda di amici intellettuali e comincia a scrivere qualche prosa in francese.
Mentre assiste un’amante ammalata, quasi casualmente, scrive in italiano (di cui, però, non ha gran possesso) una tragedia, Cleopatra, che viene rappresentata a Torino con grande successo. Ciò lo spingerà a voler diventare tragediografo, figura che, nella letteratura italiana, non aveva mai avuto esponenti di spicco, e per far ciò studierà con grande impegno e sforzo i classici italiani e latini, che dovranno offrirgli quella base linguistica e retorica che lui, parlante francese, non possedeva.
Si reca in Toscana, dapprima a Firenze e poi a Siena, dove viene introdotto nei salotti letterari in cui si discute di illuminismo. Da questa esperienza nascerà il trattato Della tirannide (1777). In quello stesso anno incontra la contessa D’Albany (moglie del pretendente alla corona inglese, Carlo Edoardo Stuart) che diventerà la sua compagna per la vita.
Dona tutti i beni ereditati alla sorella Giulia, cosa che gli permette di pubblicare senza censura (infatti per lui, nobile piemontese, non era concesso divulgare opere senza l’approvazione regale). Si trasferisce quindi a Firenze, nel 1778, dove scrive nuove tragedie e il trattato Del principe e delle lettere.
Si reca dal 1783 al 1785 a Roma, dove studia con agio e passione e dove, intanto, si va affermando il gusto neoclassico. Scoperto l’amore “adultero” con la D’Albany, deve abbandonare la città eterna e inizia un pellegrinaggio culturale che lo porterà a visitare le tombe dei grandi, Ravenna, Arquà, e a Milano, dove incontrerà Parini.
Quindi si reca di nuovo in Francia dove si ricongiungerà con la contessa d’Albany, ormai separata dal marito. Assiste a Parigi allo scoppio della Rivoluzione: ne è entusiasta. Ma nel 1792, per la piega che i fatti stanno prendendo, è costretto a fuggire, maturando una forte critica verso gli esiti rivoluzionari.
Dopo queste esperienze il poeta si rifugia un’altra volta a Firenze, sempre più chiuso e disilluso, maturando una sfiducia nella storia che lo condurrà su posizioni conservatrici. Nella città fiorentina si dedicherà allo studio della lingua greca, non cessando tuttavia né a scrivere né a correggere le sue opere.
Muore all’improvviso nel 1803; verrà seppellito a Santa Croce e la contessa D’Albany farà erigere in suo onore un sepolcro marmoreo, opera di Antonio Canova.   

Antonio Canova - Tomba monumentale di Vittorio Alfieri

Antonio Canova: Monumento marmoreo per Vittorio Alfieri

Personalità e poetica

Non si può comprendere appieno la personalità, e di conseguenza la poetica, di Vittorio Alfieri, se non la si inserisce nell’ambiente bigotto e retrivo dello Stato Sabaudo, e ancor più in un centro periferico come Asti. Qui egli maturò un forte senso di libertà, accompagnato da una volontà un po’ narcisistica d’affermazione. Bisogna tuttavia sottolineare come ogni forma ribellistica contro il potere non si traduce mai in lui in un vero e proprio progetto politico, ma si limita ad essere un’idea astratta, vaga, cui tende con tutte le forze, ma che mai potrebbe tradursi in realtà. Questo bisogno di libertà e di autoaffermazione trova appagamento, durante la sua gioventù nei numerosi viaggi, che mai lo soddisfano e dove, ogni qual volta si presenta l’occasione, si scaglia contro ogni forma di servilismo. Tali atteggiamenti possono anche essere letti sotto l’influenza illuministica: ma il suo carattere passionale ed irruento ne fanno una personalità certamente preromantica. In altre parole se l’opposizione che egli prova per i regimi assolutistici possono legarsi ad alcuni filosofi dei lumi, lo allontana da essi la sfiducia verso la “ragione” ottimisticamente intesa ed verso ogni cambiamento: perciò Alfieri è lontanissimo dalle idee democratiche ed illuministiche. Egli predilige le azioni eroiche compiute dai grandi dell’età classica (si veda, a tal proposito, l’adorazione che egli nutre per il libro di Plutarco). E’ evidente che tale personalità produca un’opera letteraria caratterizzata da un forte autobiografismo. Opere come la Vita, le Rime nonché alcune sue tragedie rimandano a questa centralità dell’io;  e tale centralità si realizza, nei personaggi tragici, in un’ansia di libertà, in una solitudine esasperata e nell’insofferenza verso ogni limite.

Un altro elemento caratterizzante la poetica dell’Alfieri è il classicismo; se esso nell’Arcadia rappresentava una ricerca di eleganza e nell’Illuminismo una forma di razionalità, in lui diventa vagheggiamento delle grandi personalità eroiche del passato, a cui Alfieri aspirava.

I trattati

I principali trattati alfieriani sono due: Della tirannide e Del principe e delle lettere.

Della tirannide è un testo diviso in due libri in cui sono teorizzati i principi fondamentali della tirannide: nel primo libro si affrontano i vari modi in cui si struttura una tirannide, che si impone in qualsiasi forma laddove l’uomo vive un’imposizione dogmatica; nel secondo libro si affronta il modo in cui opporsi a tale situazione; Alfieri sceglie opzioni estreme: l’isolamento sdegnoso, l’omicidio o il suicidio.

COME SI POSSA VIVERE NELLA TIRANNIDE

Dico per tanto che allorché l’uomo nella tirannide, mediante il proprio ingegno, vi si trova capace di sentirne tutto il peso, ma per la mancanza di proprie ed altrui forze, vi si trova ad un tempo stesso incapace di scuoterlo, dée allora un tal uomo, per primo fondamentale precetto star sempre lontano dal tiranno, da’ suoi satelliti, dagli infami suoi onori, dalle inique sue cariche, dai vizi, lusinghe, e corruzioni sue, dalle mura, terreno, ed aria perfino, che egli  respira, e che lo circondano. In questa sola severa total lontananza, non che troppo, non mai esagerata abbastanza: in questa sola lontananza ricerchi un tal uomo non tanto la propria sicurezza, quanto la intera stima di se medesimo, e la purità della propria fama; entrambe sempre, o più o meno, contaminate, allorché l’uomo in qualunque modo si avvicina alla pestilenziale atmosfera delle corti.

Affermo dunque che quando un uomo che vive in uno stato tirannico e, mediante la propria capacità intellettiva ne sente tutto il peso, ma per mancanza di forze proprie e altrui non può sconfiggerlo, deve allora un tal uomo, come prima cosa, star sempre lontano dal tiranno, dai suoi ministri, dagli infamanti onori che ci elargisce, dalle ingiuste cariche che ci offre, dai vizi, dalle lusinghe e dalle sue corruzioni, dalla casa, dal terreno e persino dall’aria che respira e gli sta intorno. Soltanto in questa totale lontananza non mai esagerata, in questa sola lontananza un tal uomo può ricercare non la propria sicurezza, ma la piena stima di sé e la purezza della propria fama; entrambe in qualche modo contaminate, allorché si ci avvicini alla corrotta atmosfera delle corti.

E’ chiaro nel breve brano qui proposto che l’atteggiamento alfieriano verso la tirannide, seppur mediato dall’ideologia illuminista, assuma caratteristiche “apolitiche”: manca cioè un progetto, un qualcosa che possa mutare la situazione o migliorarla (come facevano gli intellettuali lombardi con Maria Teresa); in lui c’è solo uno sdegnoso allontanamento, un contrapporre la sua libertà assoluta con quella, altrettanto assoluta del tiranno.

Tale concetto viene ribadito anche all’inizio del suo secondo trattato, pubblicato nel 1786, Del principe e delle lettere. Con quest’opera Alfieri indaga sul rapporto fra letteratura e potere. Essa è strutturata in tre libri: nel primo si analizza l’opportunità da parte del principe di proteggere le lettere, negandola decisamente; il secondo libro pone la questione in modo inverso, invitando gli scrittori a recidere ogni rapporto con l’assolutismo; nel terzo, dopo una rassegna di grandi autori del passato “liberi”, afferma che solo chi è libero da ogni preoccupazione economica può dedicarsi alla letteratura, in quanto “libero” da qualsiasi compromesso. 

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COSA SIANO LE LETTERE

Ma, che sono elle le vere lettere? Difficilissimo è il ben definirle: ma per certo elle sono una cosa contraria affatto alla indole, ingegno, capacità, occupazioni, e desiderj del principe: e in fatti nessun principe non fu mai vero letterato, né lo può essere. Or dunque, come può egli ragionevolmente proteggere, e favorire una sì alta cosa, di cui, per non esserne egli capace, difficilissimamente può farsi egli giudice? E se giudice competente non ne può essere, come mai rimuneratore illuminato può farsene? per giudizio d’altri. E di chi? di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le lettere sono l’arte d’insegnar dilettando, e di commuovere, coltivare, e bene indirizzare gli umani affetti; come mai il toccare ben addentro le vere passioni, lo sviluppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, il distornarlo dal male, l’ingrandir le sue idee, il riempirlo di nobile ed utile entusiasmo, l’inspirargli un bollente amore di gloria verace, il fargli conoscere i suoi sacri diritti; e mille e mille altre cose, che tutte pur sono di ragione delle sane e vere lettere; come mai potranno elle un tale effetto operare sotto gli auspicj di un principe? e come le incoraggirà a produrlo, il principe stesso? L’indole predominante nelle opere d’ingegno nate nel principato, dovrà dunque necessariamente essere assai più la eleganza del dire, che non la sublimità e forza del pensare. Quindi, le verità importanti, timidamente accennate appena qua e là, e velate anche molto, infra le adulazioni e l’errore vi appariranno quasi naufraghe. Quindi è, che i sommi letterati (la di cui grandezza io misuro soltanto dal maggior utile che arrecassero agli uomini) non sono stati mai pianta di principato. La libertà li fa nascere, l’indipendenza gli educa, il non temer li fa grandi; e il non essere mai stati protetti, rende i loro scritti poi utili alla più lontana posterità, e cara e venerata la loro memoria.

In che consistono le vere lettere? E’ difficilissimo definirle con esattezza: ma sicuramente sono una cosa per niente confacente all’indole, capacità, occupazioni e desideri del principe: infatti nessun principe è mai stato un vero letterato, né lo può essere. Dunque, come può egli proteggere ragionevolmente e favorire una così nobile attività, di cui, non essendo esperto, assai difficilmente può giudicarla? E se non può essere giudice competente, come può apprezzarne il valore? Per giudizio dei suoi collaboratori. E di quale? Di chi gli sta intorno. E chi gli sta intorno? Se le lettere sono l’arte che insegna attraverso il diletto, e fanno commuovere, educare ed indirizzare le indoli degli uomini verso il bene, come mai il toccare intensamente le passioni, lo sviluppare il cuore dell’uomo, l’indurlo al bene, l’allontanarlo dal male, l’amplificare le sue idee, il riempirlo d’amore e d’entusiasmo, l’ispirargli un caldo amore di vera gloria, il fargli conoscere i suoi sacri diritti e mille e mille altre cose, che tutte, ben a ragione, appartengono alle sane e vere opere letterarie, come potranno esse operare un tale effetto sotto i voleri di un principe? E come incoraggerà gli scrittori a produrle? Il principe stesso? L’indole predominante nelle opere nate sotto un principe dovrà necessariamente essere molto di più l’eleganza del dettato piuttosto che la profondità e la forza del pensiero. Quindi le verità importanti, accennate qua e là, e anche accuratamente nascoste, tra le adulazioni e le divagazioni, spariscono. Da ciò consegue che i grandi letterati (la cui grandezza io misuro nella maggiore utilità che hanno recato agli uomini) non sono mai stati al servizio di un principe. Li fa nascere la libertà, li educa la loro indipendenza, il non aver paura li rende grandi; e il non aver mai avuto protezione, rende i loro scritti poi utili alla posterità, e cara e venerata la loro memoria.

Questa pagina è importante perché, oltre a riflettere alcune posizioni tipicamente illuministe (l’arte deve educare dilettando: motto d’origine oraziano, ripreso dai philosophes) presenta anche alcuni spunti che saranno alla base del pensiero neoclassico/preromantico foscoliano; si pensi al “il toccare ben addentro le passioni” e “l’inspirargli un bollente amore di gloria verace”: passione/gloria termini fortemente connotati in senso proiettivo verso un qualcosa che si pone ben al di là della ragione illuminata. D’altra parte per Alfieri non è l’educazione vera e propria a far nascere la possibilità di diventare letterato, ma un “impulso naturale”:

DELL’IMPULSO NATURALE

E’ questo impulso un bollore di cuore e di mente, per cui non si trova mai pace né loco; una sete insaziabile di ben fare e di gloria; un reputar sempre nulla il già fatto e tutto il da farsi, senza però mai dal proposto rimuoversi; una infiammata e risoluta voglia e necessità, o di esser primo fra gli ottimi, o di non esser nulla. Più laudevole e maggiore debb’essere questo impulso, in proporzione della grandezza del fine che egli si propone, e della grandezza dei mezzi che adopera per conseguirlo. Ma da questo immoderato  amore di giovare a se stesso con la gloria, non dee né può mai andarne disgiunto l’amore dell’utile altrui. Da questo utile, ampiamente provato coi fatti, si aspetta poi in premio quella testimonianza della propria superiorità, che spontaneamente uscendo dalle bocche degli uomini liberi, sola costituisce la vera fama e la gloria di chi n’è l’oggetto. (…) Questo divino impulso è una massima cosa, senza la quale nessun uomo può farsi sommo davvero. Ma non perciò tutti quelli che l’hanno (e son sempre pochissimi) riescono a farsi sommi davvero: che pur troppo questo divino impulso può essere dai tempi, dall’avversa fortuna, e da mille altre ragioni indebolito, deviato, trasfigurato, ed anche spento del tutto. Quest’impulso è una sovrana cosa, cui niuna potenza può dare, ma ogni potenza bensì lo può togliere. La libertà lo coltiva, lo ingrandisce, e moltiplica; il servaggio e il timor lo fan muto.

E’ questo impulso naturale un ribollire del cuore e della mente, per cui non si trova mai pace e riposo; è una voglia insaziabile di ben operare e di gloria; un pensare che ciò che si è fatto è nulla e che bisogna fare tutto, senza mai allontanarsi dal proponimento, è una incendiata e risoluta voglia e necessità o di esser primo fra i più grandi o non esser nulla. Maggiormente lodevole e più grande dev’essere questo impulso rispetto alla grandezza del fine che si propone e dei mezzi atti ad attuarlo. Ma da questo smoderato amore di giovare a se stesso per raggiungere la gloria non dev’essere mai disgiunto quello di esser utile agli altri. Di questo utile, laddove esso sia comprovato dai fatti, si ci aspetterà, come premio, la testimonianza della propria superiorità, che sarà pronunciata da uomini liberi e che sola costituisce la vera fama e la vera gloria di colui di cui si parla. Questo divino impulso è assoluto, senza il quale non si può diventare grandissimi. Ma non per questo tutti coloro che lo posseggono (e sono pochissimi) riescono a farsi grandi: esso può, dall’epoca in cui si vive, da un’avversa sorte, e da mille altri motivi, essere indebolito, deviato, trasfigurato e spento del tutto. Quest’impulso è cosa meravigliosamente grande che nessun potere può dare, ma che può, al contrario,  togliere. Lo coltiva, lo amplifica, lo ingrandisce la libertà; l’obbedienza e la paura lo ammutoliscono.

Ciò che qui descrive Alfieri (parlerà, infatti di questo “divino impulso” nei poeti) è il suo modo di porsi di fronte all’impegno letterario. Egli concepisce quest’ultimo come un’infinita tensione verso la gloria, che si ottiene soltanto nell’assoluta libertà. Il suo discorso, infatti è sempre dilemmatico: da una parte istituisce un rapporto fra “divino impulso”, l’arte e la libertà a cui si contrappone il “servaggio” e quindi l’impossibilità dell’arte e la negazione dell’“impulso”. Per questo l’arte per Alfieri è aristocratica, cioè fatta dai migliori, i quali, per essere tali, devono essere necessariamente liberi.

Palazzo Alfieri: Visite, Biglietti e Orari di Palazzo Alfieri ad Asti

Interno casa Alfieri

Rime

Le Rime alfieriane vengono composte in un lungo periodo che va dal 1776 al 1789. In esse si trovano sonetti, canzoni, odi e i principali generi della poesia classica, così come il rinnovato classicismo arcadico aveva promosso. Esse possono dividersi soprattutto in due nuclei poetici: nel primo il nostro tenta di armonizzare l’eleganza arcade con la sua forte passionalità, nel secondo emerge invece un forte senso di libertà, accompagnato tuttavia da una vena profondamente malinconica.

PRESSO LA FOCE DELL’ARNO

Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva
al mar là dove il tosco fiume ha foce,
con Fido il mio destrier pian pian men giva;
e muggìan l’onde irate in suon feroce.

Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva
il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce)
d’alta malinconia; ma grata, e priva
di quel suo pianger, che pur tanto nuoce.

Dolce oblio di mie pene e di me stesso
nella pacata fantasia piovea;
e senza affanno sospirava io spesso:

quella, ch’io sempre bramo, anco parea
cavalcando venirne a me dappresso…
Nullo error mai felice al par mi fea.

Solo, fra i miei pensieri tristi, in riva, là dove il fiume toscano (Arno) sfocia, con Fido, il mio cavallo, piano piano passeggiavo; e risuonavano le onde agi-tate con violento fragore. Quel lido solitario e il grande fragore del mare mi riempivano il cuore (che è arso da una passione inestinguibile) di profonda malinconia, ma dolce, e priva di quel suo piangere, che solitamente nuoce. Scendeva nella mia serena fantasia un dolce l’oblio delle mie pene e di me stesso; e senza affanno sospiravo spesso: quella, che ho sempre desiderato, cavalcando ancora sembrava venire verso di me… nessuna illusione mi rese mai tanto felice.

L’incipit del brano si richiama al famoso Solo e pensoso di Petrarca, a richiamare l’estremo rispetto che l’autore astigiano nutriva verso la tradizione italiana; Tuttavia emerge, tipica della personalità alfieriana, l’immagine che egli ci vuol consegnare del poeta solitario e “sdegnoso”: basta osservare con attenzione la seconda strofa, già tipicamente preromanica, dove il paesaggio assume le caratteristiche dell’io poetico: “il gran fragor”  che gli riempie il cuore e lo placa.

IN FUGA DAL “SECOL VILE”

Tacito orror di solitaria selva
di sì dolce tristezza il cor mi bea,
che in essa al par di me non si ricrea
tra’ figli suoi nessuna orrida belva.

E quanto addentro più il mio piè s’inselva,
tanto più calma e gioja in me si crea;
onde membrando com’io là godea,
spesso mia mente poscia si rinselva.

Non ch’io gli uomini abborra, e che in me stesso
mende non vegga, e più che in altri assai;
né ch’io mi creda al buon sentier più appresso:

ma, non mi piacque il vil mio secol mai:
e dal pesante regal giogo oppresso,
sol nei deserti tacciono i miei guai.

Un silenzioso orrore di una selva solitaria mi allieta il cuore di una tristezza così dolce che nessun orribile belva feroce in compagnia dei suoi cuccioli non si ristora in essa allo stesso modo in cui mi rassereno io. E quanto più dentro il mio piede si introduce nella selva, tanto più calma e gioia si producono in me; per cui ricordando come io là mi sentivo bene, spesso poi la mia mente torna nella selva. Non è che io detesti gli uomini, e che non veda in me stesso dei difetti anzi ne vedo più che in altri uomini; né che io creda di essere più vicino alla buona strada: ma il mio vile secolo non mi è mai piaciuto: e oppresso dal pesante giogo dalla tirannide, solo nei luoghi deserti tacciono le mie sofferenze.

Maggiormente caratterizzata a livello linguistico è questa poesia; suoni aspri la caratterizzano (“orror”, “tristezza”, “ricrea”, “orrida” solo per restare nella prima strofa), quasi a disegnare la selvatichezza del luogo in cui s’inoltra l’altrettanto “fiero” poeta; v’è infatti in essa un capovolgimento dal sapore ossimorico: più è irta e selvaggia la selva più Alfieri si rasserena. Tutto questo, intessuto da lemmi danteschi, per sottolineare la voglia di fuga da questo “secol vile” (il 700) ed isolarsi da un mondo dove prevale il “pesante giogo regal”.

Vittorio Alfieri e Contessa Luisa Stolberg d' Albany | Palazzo MadamaAlfieri e la contessa d’Albany

Vita

Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso è l’opera in prosa più importante di Alfieri, da alcuni considerata il suo capolavoro. Iniziata nel 1790, venne pubblicata postuma nel 1806. In essa viene ripercorsa la vita dell’autore e si inserisce in un genere, appunto quello autobiografico, già rappresentato nel 700 dalle Memoires goldoniane e dalle Confessioni di Rousseau. Tutta l’opera è percorsa da un lungo scavo interiore a cui si contrappone la realtà esterna, vista sempre come portatrice di disvalore, in quanto limitatrice della libertà del poeta. Se è pur vero che l’autobiografia si presenta come una miniera preziosa di notizie sulla vita del poeta, non manca in essa il tentativo di offrirsi come una vita ideale, in cui si tratteggiano i suoi viaggi, gli amori, i duelli (una vita, soprattutto in gioventù avventurosa); ma sono presenti in essa anche le sensazioni che il poeta prova di fronte ai superbi spettacoli della natura. Se, in alcune pagine vi può essere una forma di autocritica, non manca mai il tentativo di presentarsi come eroe, che lotta senza tregua contro ogni sopruso e contro ogni meschineria borghese. Si può affermare che nella Vita di Alfieri venga inaugurato il titanismo ribelle e alieno da qualsiasi forma di compromesso, quale poi verrà sviluppato nel preromanticismo. Pagine importanti verranno poi riservate alla sua scoperta della letteratura e alla sua volontà di farsi autore tragico, anche questo visto in modo eroico e passionale.

FRA I GHIACCI DEL BALTICO

Io sempre incalzato dalla smania dell’andare, benché mi trovassi assai bene in Stockolm, volli partirne verso il mezzo maggio per la Finlandia alla volta di Pietroborgo. Nel fin d’aprile aveva fatto un giretto sino ad Upsala, famosa università, e cammin facendo aveva visitate alcune cave del ferro, dove vidi varie cose curiosissime; ma avendole poco osservate, e molto meno notate, fu come se non le avessi mai vedute. Giunto a Grisselhamna, porticello della Svezia su la spiaggia orientale, posto a rimpetto dell’entrata del golfo di Botnia, trovai da capo l’inverno, dietro cui pareva ch’io avessi appostato di correre. Era gelato gran parte di mare, e il tragitto dal continente nella prima isoletta (che per cinque isolette si varca quest’entratura del suddetto golfo) attesa l’immobilità totale dell’acque, riusciva per allora impossibile ad ogni specie di barca. Mi convenne dunque aspettare in quel tristo luogo tre giorni, finché spirando altri venti cominciò quella densissima crostona a screpolarsi qua e là, e far crich, come dice il poeta nostro, quindi a poco a poco a disgiungersi in tavoloni galleggianti, che alcuna viuzza pure dischiudevano a chi si fosse arrischiato d’intromettervi una barcuccia. Ed in fatti il giorno dopo approdò a Grisselhamna un pescatore venente in un battelletto da quella prima isola a cui doveva approdar io, la prima; e disseci il pescatore che si passerebbe, ma con qualche stento. Io subito volli tentare, benché avendo una barca assai più spaziosa di quella peschereccia, poiché in essa vi trasportava la carrozza, l’ostacolo veniva ad essere maggiore; ma però era assai minore il pericolo, poiché ai colpi di quei massi nuotanti di ghiaccio dovea più robustamente far fronte un legno grosso che non un piccolo. E così per l’appunto accadde. Quelle tante galleggianti isolette rendevano stranissimo l’aspetto di quell’orrido mare che parea piuttosto una terra scompaginata e disciolta, che non un volume di acque; ma il vento essendo, la Dio mercè, tenuissimo, le percosse di quei tavoloni nella mia barca riuscivano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro gran copia e mobilità spesso li facea da parti opposte incontrarsi davanti alla mia prora, e combaciandosi, tosto ne impedivano il solco; e subito altri ed altri vi concorreano, ed ammontandosi facean cenno di rimandarmi nel continente. Rimedio efficace ed unico, veniva allora ad essere l’ascia, castigatrice d’ogni insolente. Più d’una volta i marinai miei, ed anche io stesso scendemmo dalla barca sovra quei massi, e con delle scuri si andavano partendo, e staccando dalle pareti del legno, tanto che desser luogo ai remi e alla prora; poi risaltati noi dentro coll’impulso della risorta nave, si andavano cacciando dalla via quegli insistenti accompagnatori; e in tal modo si navigò il tragitto primo di sette miglia svezzesi in dieci e più ore. La novità di un tal viaggio mi divertì moltissimo; ma forse troppo fastidiosamente sminuzzandolo io nel raccontarlo, non avrò egualmente divertito il lettore. La descrizione di cosa insolita per gl’italiani, mi vi ha indotto. Fatto in tal guisa il primo tragitto, gli altri sei passi molto più brevi, ed oltre ciò oramai fatti più liberi dai ghiacci, riuscirono assai più facili. Nella sua salvatica ruvidezza quello è un dei paesi d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuor del globo.

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Edizione originale dell’opera di Alfieri (1804)

Io, sempre spinto dal desiderio di muovermi, benché mi trovassi molto bene a Stoccolma, volli partire verso la metà di maggio per la Finlandia per raggiungere (da lì) San Pietroburgo.  Alla fine d’aprile avevo fatto un giretto fino ad Uppsala, dove vi è una famosa università, e camminando avevo visitato alcune cave di ferro, dove vidi cose stranissime, ma non avendole osservate con attenzione e quindi non avendole notate, e come se non le avessi viste. Arrivato a Grisslehamn, piccolo porto sulla spiaggia orientale, posto di fronte all’entrata del golfo di Botnia, trovai di nuovo l’inverno, dietro il quale sembrava che io avessi deciso d’andare. Il mare era per gran parte gelato e il tragitto dal continente verso la prima isoletta (che questo golfo si supera attraverso cinque isolette che vi sono all’interno), in considerazione del mare ghiacciato, riusciva, per ogni tipo di barca, impossibile. Attesi dunque in quel posto solitario tre giorni, finché, cambiando il vento, quel densissimo mare ghiacciato cominciò, qua e là, a screpolarsi, e a far crich, come dice il nostro Dante (riferendosi al lago ghiacciato del Cocito), quindi a poco a poco a dividersi in tavoloni galleggianti, che qualche piccolo varco pure offrivano a chi avesse voluto intromettersi con quale barchetta. E infatti, il giorno dopo approdò a Grisslehamn un pescatore che giungeva con un battello in quella prima isola in cui anch’io dovevo approdare, e lo stesso pescatore ci comunicò che si sarebbe potuto passare, pur con qualche difficoltà. Io volli subito tentare, sebbene possedessi una barca assai più grande di quella del pescatore, in quanto in essa trasportavo la carrozza. Quindi la difficoltà derivava dalla dimensione della mia barca, tuttavia correvo meno pericolo, perché la sua robustezza poteva meglio resistere ai colpi dei lastroni di ghiaccio. E così, appunto, accadde. Quelle isole ghiacciate rendevano stranissimo l’aspetto di quel mare che sembrava piuttosto una terra distrutta e disciolta, piuttosto che un ammasso di acque; ma, grazie a Dio, essendo il vento leggerissimo, i colpi di quei lastroni sembravano piuttosto carezze che urti; tuttavia la loro abbondanza e mobilità li faceva spesso incontrare davanti alla mia prua, e, unendosi, impedivano il passaggio; e subito anche altri (lastroni) concorrevano ai primi, tanto da formare una barriera che mi segnalava di dover tornare verso la terra ferma. L’unico rimedio a tale eventualità era l’ascia, che castiga ogni persona insolente. Più d’una volta i marinai ed io stesso scendemmo dalla barca e a furia di colpi con le asce allontanavamo i lastroni e li staccavamo dalle pareti della nave, tanto da creare lo spazio per la prua e per i remi; poi risaliti, con la spinta della nave stessa, si allontanavano dal percorso quegli insistenti accompagnatori, e in tal modo percorremmo sette miglia svedesi in dieci o più ore. La novità di quel viaggio mi divertì tantissimo, ma forse nel descriverlo così minuziosamente, non divertirò il lettore. E’ il fatto insolito per gli italiani che mi ha indotto a tale narrazione. Fatto così il primo tragitto, gli altri sei passaggi per le isole, molto più brevi, ed inoltre più liberi dai ghiacci, risultarono molto più semplici. Nella sua selvatica asperità quello è uno dei paesi d’Europa che mi siano piaciuti di più, suscitando in me idee fantastiche, malinconiche ed anche grandiose, per quel vasto ed indefinibile silenzio che regna in quell’atmosfera, che ti sembra d’esser fuori dal mondo.

Quello che in questa pagina emerge è la volontà d’infrangere ogni limite, superare ogni barriera, quasi a voler attingere all’infinità della natura. Il paesaggio ghiacciato e isolato, infatti, mette l’uomo, nella sua finitezza, di fronte all’infinità dello spazio, suscitando così il sentimento del sublime, che tanta parte avrà nella poesia successiva. E’ questo che, in qualche modo, fa di Alfieri un uomo che travalica il limite della “ragione” per affacciarsi verso quelle tematiche che poi confluiranno in quel movimento definito impropriamente “preromanticismo”, cioè un “qualcosa” che anticipa la consapevolezza di una nuova età definita, appunto, romantica.

Le tragedie

Il fatto che Alfieri possa essere definito l’unico grande tragico della letteratura italiana è, insieme, una scelta dell’autore stesso e una predisposizione caratteriale che lo conduceva naturalmente verso questo genere. La tragedia italiana non aveva mai prodotto opere di rilievo, ad eccezione di una Merope, di Scipione Maffei, del primo ’700. Il farsi tragediografo fu, dunque, per l’autore astigiano, una sfida letteraria che permettesse all’Italia di eguagliare la Francia che con Racine e Corneille aveva prodotto dei vari capolavori in questo genere. Ma non bisogna dimenticare che Alfieri aveva in sé un animo tragico, una tensione interiore verso l’assoluto che egli trasporta nei suoi personaggi (per alcuni, anche le tragedie sono, in ultima analisi opere autobiografiche). Alfieri compone 19 tragedie; il modo con cui egli lavora ci viene rivelato in una pagina della Vita:

LA COMPOSIZIONE DELLE TRAGEDIE

E qui per l’intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare. Questi tre respiri con cui ho sempre dato l’essere alle mie tragedie, mi hanno per lo più procurato il beneficio del tempo, così necessario a ben ponderare un componimento di quella importanza; il quale se mai nasce male, difficilmente poi si raddrizza. Ideare dunque io chiamo, il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginucce di prosaccia farne quasi l’estratto a scena per scena di quel che diranno e faranno. Chiamo poi stendere, qualora ripigliando quel primo foglio, a norma della traccia accennata ne riempio le scene dialogizzando in prosa come viene la tragedia intera, senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi, e scrivendo con impeto quanto ne posso avere, senza punto badare al come. Verseggiare finalmente chiamo non solamente il porre in versi quella prosa, ma col riposato intelletto assai tempo dopo scernere tra quelle lungaggini del primo getto i migliori pensieri, ridurli a poesia, e leggibili. Segue poi come di ogni altro componimento il dover successivamente limare, levare, mutare; ma se la tragedia non v’è nell’idearla e distenderla, non si ritrova certo mai più con le fatiche posteriori.

Tragedie di Vittorio Alfieri da Alfieri Vittorio: (1857) | Sergio Trippini

Edizione delle tragedie alfieriane (1857)

E qui, per una migliore comprensione del lettore, mi conviene spiegare l’uso di queste parole che sono state usate spesso: ideare, stendere e verseggiare. Queste tre fasi, con cui ho sempre creato le mie tragedie, mi hanno sempre offerto il beneficio del tempo fra una fase e l’altra, necessario a riflettere su un componimento di tale importanza. Infatti, se già dall’inizio nasce male, difficilmente in seguito potrà essere corretto. Per ideare io in-tendo il distribuire il soggetto in atti e scene, stabilire e fissare il numero dei personaggi, e in due paginette appena abbozzate fare quasi un riassunto scena per scena di quello che faranno e diranno. Definisco poi stendere ripigliare quel primo lavoro e seguendo le indica-zioni date nella prima traccia riempio le scene con i dialoghi in prosa, così come dovrà es-sere l’intera tragedia, senza rifiutare un pensiero, qualunque esso sia, e scrivendo con tutta la forza che ho, senza badare al come. In ultimo per verseggiare io intendo non solo porre in versi la prosa precedentemente elaborata, ma con mente assai per tempo riposata, scegliere tra quel lungo testo prosastico scritto di primo getto, i pensieri migliori, ridurli in versi e renderli leggibili. Segue poi, come per ogni altra opera, il doverla successivamente limare, togliere delle parti, cambiarla in altre; ma se l’azione tragica non nasce nell’idearla e poi distenderla, non può avere la luce solamente con l’ultima fase.

Questa pagina non solo ci illustra il metodo con cui Alfieri lavora, ma ci mostra come in lui operino due forze: da una parte la parte “razionale” che mette in “ordine”, rende “perfetta” l’opera; dall’altra l’aspetto irrazionale, cioè lo scrivere quasi come fosse dettato dall’inconscio (senza rifiutar un pensiero, qualunque ei siasi).

Alfieri struttura le sue tragedie nei canonici cinque atti, rispettando le tre unità aristoteliche di tempo, spazio e luogo. Elimina della tragedia classica il coro (che verrà ripristinato da Manzoni) ed ogni intermezzo lirico: l’opera alfieriana deve tutta tendere, sin dall’inizio, verso l’esito finale: a ciò risponde l’esigenza di ridurre il numero dei personaggi; la rappresentazione o la lettura non deve mai staccarsi da essi e dalla loro vicenda, a rischio di perdere la concentrazione e la tensione che la vicenda produce.

Non dobbiamo dimenticare che la produzione tragica alferiana si sviluppa sin dal 1775 al 1788 e vedrà la composizione di ben 19 tragedie: se nelle prime egli sviluppa il tema già presentato nel saggio Sulla tirannide, si prenda come rappresentativa di esso il Filippo (1775), nella cui piéce il sovrano spagnolo è disegnato come un despota che affama il suo popolo, già nel 1777, nella Virginia, tratta dalla storia romana – Iginio difende l’amata Virginia dalle insidie del tiranno Appio Claudio – traspare una tensione verso la libertà, altro tema fondamentale per lo scrittore astigiano.

77372.jpegAnalisi critica di fine 800 sulla tragedia alfieriana e shilleriana

Filippo è una tragedia in cinque atti. Don Carlos, figlio di Filippo II di Spagna, e Isabella di Valois, andata in sposa al re per ragioni di Stato, scoprono di amarsi. Quando Isabella impone a Don Carlos di lasciare la corte è troppo tardi: Filippo, il vero protagonista della tragedia, ha indovinato il loro segreto e vi ha visto l’occasione per dare sfogo al suo odio per il figlio. Non esiterà infatti a tramarne la morte, con astuzia consumata e false accuse, assumendo una maschera crudele di fredda virtù. Dopo aver fatto assassinare Perez, fedele amico di Don Carlos, costringerà il figlio e Isabella a uccidersi sotto i suoi occhi.

INFELICITA’ DEL TIRANNO

FILIPPO:
Gomez; compiuti
mie’ cenni hai tu? Quant’io t’ho imposto arrechi?

GOMEZ:
Perez trafitto muore: ecco l’acciaro,
che gronda ancor del suo sangue fumante.

CARLO:
Oh vista!

FILIPPO:
In lui dei traditor la schiatta
spenta pur non è tutta… Ma tu, intanto,
mira qual merto a’ tuoi fedeli io serbo.

CARLO:
Quante (oimè!) quante morti veder deggio,
pria di morir? Perez, tu pure?… Oh rabbia!
Giá giá ti seguo. Ov’è, dov’è quel ferro,
che spetta a me? via, mi s’arrechi. Oh! possa
mio sangue sol spegner la sete ardente
di questo tigre!

ISABELLA:
Oh! saziar io sola
potessi, io sola, il suo furor malnato!

FILIPPO:
Cessi la infame gara. Eccovi, a scelta
quel pugnale, o quel nappo. O tu, di morte
dispregiator, scegli tu primo.

CARLO:
Oh ferro!…
Te caldo ancora d’innocente sangue,
liberator te scelgo. – O tu, infelice
donna, troppo dicesti: a te null’altro
riman, che morte: ma il velen deh!
scegli; men dolorosa fia… D’amor infausto
quest’è il consiglio estremo: in te raccogli
tutto il coraggio tuo: – mirami… Io moro…
Segui il mio esempio. – Il fatal nappo afferra…
non indugiare…

ISABELLA:
Ah! sí; ti seguo. O morte,
tu mi sei gioja; in te…

FILIPPO:
Vivrai tu dunque;
mal tuo grado vivrai.

ISABELLA:
Lasciami… Oh reo
supplizio! ei muore; ed io?…

FILIPPO:
Da lui disgiunta,
sí, tu vivrai; giorni vivrai di pianto:
mi fia sollievo il tuo lungo dolore.
Quando poi, scevra dell’amor tuo infame,
viver vorrai, darotti allora io morte.

ISABELLA:
Viverti al fianco?… io sopportar tua vista?…
Non fia mai, no… Morir vogl’io… Supplisca
al tolto nappo… il tuo pugnal…

FILIPPO:
T’arresta…

ISABELLA:
Io moro…

FILIPPO:
Oh ciel! che veggio?

ISABELLA:
… Morir vedi…
la sposa,… e il figlio,… ambo innocenti,… ed ambo
per mano tua… – Ti sieguo, amato Carlo…

FILIPPO:
Scorre di sangue (e di qual sangue!) un rio…
Ecco, piena vendetta orrida ottengo;…
ma, felice son io?… – Gomez, si asconda
l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama,
a te, se il taci, salverai la vita.

Filippo-II-di-Spagna.jpgFilippo II 

FILIPPO: Gomez; hai seguito le mie indicazioni? Mi porti quello che ti ho imposto di fare? GOMEZ: Perez muore trafitto: ecco la spada, grondante ancora del suo sangue fumante. CARLO:  Oh che vedo! FILIPPO:  La stirpe dei traditore non è ancora completamente scomparsa… Ma tu, intanto, osserva quale ricompensa io riservo a coloro che mi sono fedeli. CARLO: Quante (ahimè!) quante morti devo ancora vedere, prima di essere ucciso? Pure tu, Perez?… Oh cieca pazzia! Già ormai ti seguo. Dov’è, dov’è quella spada, che mi hai riservato? dai, mi si porti. Oh! possa ora solo il mio sangue spegnere la sete ardente di questo bestia feroce di Filippo! ISABELLA:  Oh! potessi solamente io, io sola, far cessare il malvagio furore! FILIPPO:  Smettete questa vigliacca sfida. Eccovi a scelta o un pugnale o una tazza avvelenata. O tu, che disprezzi la morte, scegli per primo. CARLO: La spada!… Te che sei ancora calda del sangue innocente di Perez, scelgo te per liberarmi del mio corpo. – O tu, infelice donna, hai parlato troppo: non ti rimane nient’altro che morire: ma scegli il veleno! sarà meno doloroso… Questo è l’ultimo consiglio di un infelice amore: in te raccogli tutto il coraggio: – guardami.. muoio… Segui il mio esempio. – Prendi la tazza velenosa… non indugiare… ISABELLA:  Ah! sí; ti seguo. O morte, tu sei la mia gioia; in te… FILIPPO: Tu invece vivrai, tuo malgrado vivrai. ISABELLA: Lasciami… Oh tremendo martirio! lui muore; ed io?… FILIPPO:  Divisa da lui, sí, tu vivrai; vivrai giorni di pianto: sarà per me sollievo il tuo lungo dolore. Quando poi, liberata del tuo infame amore, desidererai vivere , allora ti ucciderò. ISABELLA:  Viverti al fianco?… io sopportare la tua vista?… Non sarà mai, no… voglio morire… prenda il posto del veleno strappato… il tuo pugnale… FILIPPO: Fermati… ISABELLA:  Muoio… FILIPPO: Oh Dio! che vedo? ISABELLA: … Morire vedi… la sposa… e il figlio,… entrambi innocenti,… ed entrambi per mano tua… – Ti seguo, amato Carlo… FILIPPO:  Scorre un fiume di sangue (e di qual sangue!)… Ecco, ottengo un’orrida e piena vendetta… ma, sono io felice?… – Gomez, si nasconda l’atroce caso a ogni uomo. – A me la fama,  tu, se non lo dici a nessuno, salverai la vita.

E’ un dramma storico: Il personaggio dell’inizio del brano è Ruy Gomez da Silva, fautore del matrimonio tra il re di Spagna Filippo II e Isabella di Valois; don Carlos figlio di Filippo e di Maria Emanuela D’Aviz, morta giovanissima di parto. La morte del giovanissimo figlio del re, ad appena ventitré anni, eccitò la fantasia non solo la fantasia dell’Alfieri, ma, più tardi, del grande drammaturgo tedesco Schiller.

Alfieri, che proprio in quegli anni, stava meditando sul concetto di tirannia, (Della tirannide è del 1777), disegna la figura di Filippo, modellandola sulla descrizione di Tiberio fatta da Tacito. Il re di Spagna, dopo aver strappato la moglie promessa al figlio, sposandola, mette poi in atto delle azioni per soggiogare e quindi colpevolizzare il figlio e la moglie, che nel frattempo erano diventati amanti. Ma quello che è emerge in questo breve passo è la vera tirannide non può ammettere alcuna forma di affettività: il  tiranno è solo e la vera sua tragedia sta nell’affermazione di un potere oltre cui non vi è nessuno e nulla; una solitudine felice è un ossimoro, e questo Filippo lo sa bene (come bene sa la critica novecentesca che il voler uccidere, annullare un figlio possiede valenze sconosciute alfieriano ma certamente dibattute nella psicoanalisi freudiana)

unnamed.jpgRappresentazione teatrale del Filippo del 2010

Un altro tema nelle tragedie di Alfieri è, come già abbiamo visto in Virginia quello della libertà, che viene in seguito mitigato dall’idea della sconfitta: è così nella Congiura de’ Pazzi (1778) in cui, nella Firenze di Lorenzo il Magnifico il suicidio di Raimondo, per non rinunciare alla libertà che il signore stava spegnendo, appare più come una sconfitta che una vittoria, nel Timoleone (1780) – tratto dalle Vite parallele di Plutarco – l’uccisione da parte dell’eroe eponimo del fratello Timofane per ridare libertà a Sparta, appare come una lotta staccatasi dal dato reale, in cui predominano astratti furori, più che tensioni emotive reali.

 

Il capolavoro viene con il Saul (1782), dove la figura dell’eroe appare con più sfaccettature, con maggiori risonanze interiori: l’incedere della vecchiaia, la perdita del potere a favore dei giovani vissuto con rabbia e gelosia, ma anche con amore, l’abbandono di Dio che sceglie suo genero, la scelta della morte eroica (temi presenti nelle opere precedenti, ma qui raccolti nella complessità di una mente sempre più folle. Un ulteriore passaggio lo leggiamo nell’altro capolavoro la Mirra (1784) in cui il dramma raccontatoci da Ovidio, viene qui spogliato da ogni ridondanza per focalizzarsi nell’animo di una giovane donna costretta dal destino a vivere un amore non voluto e tormentato ed accettare con forza l’impossibilità di realizzarlo. Le ultime prove, tra le quali citiamo il Bruto primo (1786) e il Bruto secondo (1788), in cui, riprendendo la storia romana e il tema degli uccisori di Cesare come anelito di libertà, ci sembra che il nostro ripeta stilemi senza più il vigore e la forza iniziale.

Vita di Vittorio Alfieri - AbeBooks

Saggio critico del 1904 sull’opera di Alfieri

I capolavori tragici alfieriani, per unanime consenso critico, vengono ritenuti la Mirra e il Saul.

Mirra

La vicenda si svolge a Cipro, isola dedicata a Venere, nella corte di Ciniro. E’ la vigilia delle nozze che dovrebbero unire Mirra, figlia del re e di Cecri, con Pereo, principe d’Epiro, ma non c’è felicità a corte, poiché la promessa sposa appare mortalmente triste. In accordo con la nutrice Euriclea, i due genitori, addolorati e desiderosi di rivedere lieta la loro unica figlia, cercano di scoprire la ragione di tanta mestizia, pronti anche a sospendere le nozze qualora Mirra confessasse di nutrire un altro amore. Mirra entra in scena nel secondo atto, opponendo alle insistenti domande dei genitori, della nutrice e dello stesso Pereo, un ostinato silenzio, sotto il quale però non riesce a nascondere un terribile tormento. Nelle sue parole si mescolano parole d’affetto verso i suoi genitori e il promesso sposo, lacrime, sbocchi interrotti di paura e di malessere incomprensibili. Supplice e disperata, Mirra giunge a invocare la morte, fra lo sbigottimento di coloro che le stanno attorno. Nel terzo atto Mirra accetta di unirsi in matrimonio con Pereo, segretamente sperando di allontanarsi dalla casa che le è divenuta ormai intollerabile, e morire di dolore lontano dagli occhi di chi più ama. Nel quarto atto, durante il rito nuziale, la volontà di Mirra cede alla forza dell’angoscia e. delirando, la giovane impreca contro le nozze stesse: la cerimonia è interrotta e Pereo, per l’umiliazione e il dolore si uccide. Nell’atto finale, di fronte alla ferma decisione del padre di sapere, e sconvolta per aver provocato il suicidio dell’innocente Pereo, Mirra confessa la propria passione incestuosa e con la spada del padre si trafigge il cuore.

Lunedì 13 gennaio 2014, Circolo dei lettori, ADELAIDE RISTORI. Vita  romanzesca di una primadonna dell'Ottocento – Teatro Stabile Torino

Adelaide Ristori: Attrice torinese dell’800

La tragedia, scritta nel 1784,  prende spunto specificatamente da un passo ovidiano: nelle Metamorfosi, infatti, si narra la storia della giovane Mirra che nutre una passione incestuosa verso il padre Ciniro. Attraverso inganni la giovane donna arriva a consumare l’incesto, ma per questo verrà punita dagli dei che la trasformeranno in albero. Accanto al mito ovidiano sono echi dalle tragedie classiche come l’Ippolito di Euripide e la Fedra (dello stesso argomento di quella greca) di Seneca. Alfieri rielabora completamente il mito: Mirra non compie, ma neanche rivela, se non nell’ultimo atto, la sua insana passione. Ciò determina un’impietosa analisi della mente di Mirra, spinta dalla ragione a negare e a negarsi ciò che invece inconsciamente prova; non vi è quindi la scissione, come nelle altre tragedie, di due personaggi che, emblematicamente lottano tra loro; qui la lotta tra passione e ragione viene interiorizzata.

LA CONFESSIONE DI MIRRA

CINIRO:
Mirra, che nulla tu il mio onor curassi,
creduto io mai, no, non l’avrei; convinto
me n’hai (pur troppo!) in questo dì fatale
a tutti noi: ma, che ai comandi espressi,
e replicati del tuo padre, or tarda
all’obbedir tu sii, più nuovo ancora
questo a me giunge.

MIRRA:
… Del mio viver sei
signor, tu solo… Io de’ miei gravi,… e tanti
falli… la pena… a te chiedeva,… io stessa,…
or dianzi… qui… – Presente era la madre…
deh! perché allor… non mi uccidevi?…

CINIRO:
E’ tempo,
tempo ormai, sì, di cangiar modi, o Mirra.
Disperate parole indarno muovi;
e disperati, e in un tremanti, sguardi
al suolo affissi indarno. Assai ben chiara
in mezzo al dolor tuo traluce l’onta;
rea ti senti tu stessa. Il tuo più grave
fallo, è il tacer col padre tuo: lo sdegno
quindi appien tu ne merti; e che in me cessi
l’immenso amor, che all’unica mia figlia
io già portai. – Ma che? tu piangi? e tremi?
e inorridisci?… e taci? – A te fia dunque
l’ira del padre insopportabil pena?

MIRRA:
Ah!… peggior … d’ogni morte

CINIRO:             
Odimi.  Al mondo
favola hai fatto i genitori tuoi,
quanto te stessa, coll’infausto fine
che alle da te volute nozze hai posto.
Già l’oltraggio tuo crudo i giorni ha tronchi
del misero Peréo…

MIRRA:
Che ascolto? Oh cielo!

CINIRO:             
Peréo, sì, muore; e tu lo uccidi. Uscito
del nostro aspetto appena, alle sue stanze
solo, e sepolto in un muto dolore,
ei si ritrae: null’uomo osa seguirlo.
Io, (lasso me!) tardo pur troppo io giungo…
Dal proprio acciaro trafitto, ei giacea
entro un mare di sangue: a me gli sguardi
pregni di pianto e di morte inalzava;…
e, fra i singulti estremi, dal suo labro
usciva ancor di Mirra il nome. – Ingrata…

MIRRA:
Deh! più non dirmi… Io sola, io degna sono,
di morte… E ancor respiro?…

CINIRO:
Il duolo orrendo
Dell’infelice padre di Peréo,
io che son padre ed infelice, io solo
sentir lo posso: io ’l so, quanto esser debba
lo sdegno in lui, l’odio, il desio di farne
aspra su noi giusta vendetta. – Io quindi,
non dal terror dell’armi sue, ma mosso
dalla pietà del giovinetto estinto,
voglio, qual de’ padre ingannato e offeso,
da te sapere (e ad ogni costo io ’l voglio)
la cagion vera di sì orribil danno. –
Mirra, invan me l’ascondi: ah! ti tradisce
ogni tuo menom’atto. – Il parlar rotto;
lo impallidire, e l’arrossire; il muto
sospirar grave; il consumarsi a lento
fuoco il tuo corpo; e il sogguardar tremante;
e il confonderti incerta; e il vergognarti,
che mai da te non si scompagna:… ah! tutto,
sì tutto in te mel dice, e invan tu il nieghi;…
son figlie in te le furie tue… d’amore.

MIRRA:
Io?… d’amor?… Deh! nol credere… T’inganni.

CINIRO:             
Più il nieghi tu, più ne son io convinto.
E certo in un son io (pur troppo!) omai,
ch’esser non puote altro che oscura fiamma,
quella cui tanto ascondi.

MIRRA:
Oimè!… che pensi?…
Non vuoi col brando uccidermi;… e coi detti…
mi uccidi intanto…

CINIRO:
E dirmi pur non l’osi,
che amor non senti? E dirmelo, e giurarlo
anco ardiresti, io ti terria spergiura. –
Ma, chi mai degno è del tuo cor, se averlo
non potea pur l’incomparabil, vero,
caldo amator, Peréo? – Ma, il turbamento
cotanto è in te;… tale il tremor; sì fera
la vergogna; e in terribile vicenda,
ti si scolpiscon sì forte sul volto;
che indarno il labro negheria…

MIRRA:
Vuoi dunque…
farmi… al tuo aspetto… morir… di vergogna?…
E tu sei padre?

CINIRO:
E avvelenar tu i giorni,
troncarli vuoi, di un genitor che t’ama
più che se stesso, con l’inutil, crudo,
ostinato silenzio? – Ancor son padre:
scaccia il timor; qual ch’ella sia tua fiamma,
(pur ch’io potessi vederti felice!)
capace io son d’ogni inaudito sforzo
per te, se la mi sveli. Ho visto, e veggo
tuttor, (misera figlia!) il generoso
contrasto orribil, che ti strazia il core
infra l’amore, e il dover tuo. Già troppo
festi, immolando al tuo dover te stessa:
ma, più di te possente, Amor nol volle.
La passíon puossi escusare; ha forza
più assai di noi; ma il non svelarla al padre,
che tel comanda, e ten scongiura, indegna
d’ogni scusa ti rende.

MIRRA:
– O Morte, Morte,
cui tanto invoco, al mio dolor tu sorda
sempre sarai?…

CINIRO:
Deh! figlia, acqueta alquanto,
l’animo acqueta: se non vuoi sdegnato
contra te più vedermi, io già nol sono
più quasi omai; purché tu a me favelli.
Parlami deh! come a fratello. Anch’io
conobbi amor per prova: il nome.

MIRRA:
Oh cielo!…
Amo, sì; poiché a dirtelo mi sforzi;
io disperatamente amo, ed indarno.
Ma, qual ne sia l’oggetto, né tu mai,
né persona il saprà: lo ignora ei stesso…
ed a me quasi io ’l niego.

CINIRO:
Ed io saperlo
e deggio, e voglio. Né a te stessa cruda
esser tu puoi, che a un tempo assai nol sii
più ai genitori che ti adoran sola.
Deh! parla; deh! – Già, di crucciato padre,
vedi ch’io torno e supplice e piangente:
morir non puoi, senza pur trarci in tomba. –
Qual ch’ei sia colui ch’ami, io ’l vo’ far tuo.
Stolto orgoglio di re strappar non puote
il vero amor di padre dal mio petto.
Il tuo amor, la tua destra, il regno mio,
cangiar ben ponno ogni persona umíle
in alta e grande: e, ancor che umíl, son certo,
che indegno al tutto esser non può l’uom ch’ami.
Te ne scongiuro, parla: io ti vo’ salva,
ad ogni costo mio.

MIRRA:                                     
Salva?… Che pensi?…
Questo stesso tuo dir mia morte affretta…
Lascia, deh! lascia, per pietà, ch’io tosto
da te… per sempre… il piè… ritragga…

CINIRO:
O figlia
unica amata; oh! che di’ tu? Deh! vieni
fra le paterne braccia. – Oh cielo! in atto
di forsennata or mi respingi? Il padre
dunque abborrisci? e di sì vile fiamma
ardi, che temi…

MIRRA:
Ah! non è vile;… è iniqua
la mia fiamma; né mai…

CINIRO:
Che parli? iniqua,
ove primiero il genitor tuo stesso
non la condanna, ella non fia: la svela.

MIRRA:
Raccapricciar d’orror vedresti il padre,
se la sapesse… Ciniro…

CINIRO:
Che ascolto!

MIRRA:             
Che dico?… ahi lassa!… non so quel ch’io dica…
Non provo amor… Non creder, no… Deh! lascia,
te ne scongiuro per l’ultima volta,
lasciami il piè ritrarre.

CINIRO:
Ingrata: omai
col disperarmi co’ tuoi modi, e farti
del mio dolore gioco, omai per sempre
perduto hai tu l’amor del padre.

MIRRA:
Oh dura,
fera orribil minaccia!… Or, nel mio estremo
sospir, che già si appressa,… alle tante altre
furie mie l’odio crudo aggiungerassi
del genitor?… Da te morire io lungi?…
Oh madre mia felice!… almen concesso
a lei sarà… di morire… al tuo fianco…

CINIRO:
Che vuoi tu dirmi?… Oh! qual terribil lampo,
da questi accenti!… Empia, tu forse?…

MIRRA:
Oh cielo!
che dissi io mai?… Me misera!… Ove sono?
Ove mi ascondo?… Ove morir? – Ma il brando
tuo mi varrá…

(Rapidissimamente avventatasi al brando del padre, se ne trafigge.)

CINIRO:
Figlia… Oh! che festi? il ferro…

MIRRA:
Ecco,… or… tel rendo… Almen la destra io ratta
ebbi al par che la lingua.

CINIRO:
… Io… di spavento,…
e d’orror pieno, e d’ira,… e di pietade,
immobil resto.

MIRRA:
Oh Ciniro!… Mi vedi…
presso al morire… Io vendicarti… seppi,…
e punir me… Tu stesso, a viva forza,
l’orrido arcano… dal cor… mi strappasti…
ma, poiché sol colla mia vita… egli esce…
dal labro mio,… men rea… mi moro…

CINIRO:
Oh giorno!
Oh delitto!… Oh dolore! – A chi il mio pianto?…

MIRRA:
Deh! più non pianger;… ch’io nol merto… Ah! sfuggi
mia vista infame;… e a Cecri… ognor… nascondi…

CINIRO:
Padre infelice!… E ad ingojarmi il suolo
non si spalanca?… Alla morente iniqua
donna appressarmi io non ardisco;… eppure,
abbandonar la svenata mia figlia
non posso…

Mirra, un amore colpevole? | Stile di moda, Vestito bianco

Rappresentazione teatrale della Mirra

CINIRO: Mirra, che tu non curassi per nulla del mio onore, non l’avrei mai creduto; me ne sono convinto (purtroppo!) in questo giorno di lutto per noi tutti; ma che tu alle richieste espresse e ripetute da tuo padre, ora che tu sia restia nell’obbedirmi, questo giunge come un’ulteriore novità. MIRRA: Della mia vita, sei solo tu il padrone… Io dei miei gravi e numerosi errori chiedevo a te la pena… io stessa (te l’ho chiesta) un attimo fa, con la presenza di mamma. Allora, perché non mi hai ucciso?… CINIRO: E’ ora di cambiare atteggiamento, Mirra. Pronunci parole disperate e fissi gli occhi disperati e tremanti, inutilmente. Assai chiaramente appare, in mezzo al dolore, la tua vergogna: colpevole ti senti tu stessa. Il tuo più grave errore è tacere con tuo padre; quindi meriti la mia rabbia e cessi l’immenso amore che io provai per te, unica figlia. Che fai? Piangi? Tremi e inorridisci e… taci. Per te sarebbe dunque l’ira paterna un’insopportabile pena? MIRRA: Peggiore di qualsiasi morte… CINIRO: Ascoltami. Hai reso i tuoi genitori oggetto di dicerie per il mondo, come te stessa, coll’infausto fine che tu hai creato alle nozze pur da te volute. Già la tua crudele offesa ha spezzato i giorni al misero Pereo. MIRRA: Che ascolto? Oh cielo! CINIRO: Pereo è morto, e tu l’hai ucciso. Appena uscito alla nostra vista, si reca da solo nelle sue stanze, sepolto in un muto dolore, nessun uomo lo ha seguito, Io (povero me) giungo purtroppo troppo tardi… Ucciso con la propria spada, egli giaceva in un mare di sangue e gli occhi pieni di pianto e di morte innalzava verso di me. E fra gli ultimi singulti, dalle sue labbra usciva ancora il tuo nome, Mirra. Ingrata! MIRRA: Non dirmi più niente. Solo io sono degna di morire. E ancora vivo… CINIRO: Il dolore immenso dell’infelice padre di Pereo. Io che sono padre ed infelice, io solo lo posso capire, io lo so quanto debba essere grande la rabbia, l’odio, il desiderio di fare contro di noi una giusta vendetta. Io quindi, non dalla paura delle sue armi, ma mosso dalla pietà per il giovane morto, voglio, come deve un padre ingannato e offeso, sapere da te (e ad ogni costo lo voglio sapere) il motivo vero di un così orribile danno. Mirra, inutilmente lo nascondi, ti tradisce ogni minimo gesto. Il parlare con frasi spezzate, l’impallidire, l’arrossire, i muti gravi sospiri, il consumarsi lentamente del tuo corpo, il guardare furtivamente di nascosto; e la vergogna che t’accompagna sempre. Ah, tutto, sì, tutto me lo dice, e inutilmente tu lo neghi. Le tue sono furie d’amore? MIRRA: D’amore? Non credere. Ti sbagli. CINIRO: Più lo neghi, più sono convinto. E certo sono io, ormai, ch’esser non può che un amore in-degno, quello che tu nascondi. MIRRA: Oimè, che dici? Non mi uccidi con la spada e intanto mi uccidi con le parole… CINIRO: E tu non osi dirmi che provi amore? E se anche avresti il coraggio di dirmelo e di giurarlo, ti considererei una spergiura. Ma, chi è mai degno del tuo cuore, se non poté esserlo l’incomparabile, vero, caldo amante Pereo. Ma c’è in te un tale turbamento, un tale tremore, così forte è la vergogna; e in un terribile susseguirsi si scolpiscono fortemente sul tuo volto, che inutilmente potrai negarlo. MIRRA: Vuoi dunque, di fronte a te, farmi morire di vergogna? E tu sei un padre? CINIRO: E vuoi tu avvelenare i giorni, spezzarli d’un padre che t’ama più di se stesso, con l’inutile, crudele silenzio? Ancora sono tuo padre, non avere paura. Chiunque sia il tuo amore (purché ti veda felice) sono capace di qualsiasi sforzo per te, basta che me sveli. Ho visto e vedo tuttora (povera figlia!) l’incredibile contrasto che ti strazia il cuore, tra il dovere e l’amore. Già troppo ti sei immolata, ma l’amore è più potente, non ha voluto. Si può scusare la passione, è più forte di noi; ma il non rivelarla al padre, che te lo ordina e ti scongiura, ti rende indegna di ogni scusa. MIRRA: Oh, morte, che tanto invoco, sarai sempre sorda al mio dolore? CINIRO: Figlia, calmati, riposa l’animo, se non vuoi vedermi adirato; non lo sono quasi più: basta che tu mi parli. Parlami come fossi un fratello. Anch’io ho conosciuto, per esperienza, di cosa è capace l’amore… MIRRA: Oh cielo! Amo sì, sebbene mi costi fatica dirtelo. Amo disperatamente ed inutilmente. Ma chi sia l’oggetto del mio amore, né tu, ne altri lo sapranno mai. Lo ignora egli stesso, e io lo nego a me stessa. CINIRO: Ed io devo e voglio saperlo. Né tu puoi essere crudele con te stessa e allo stesso tempo con i tuoi genitori che adorano te sola. Allora, parla! Vedi già che da padre irato con te torno ora supplichevole e piangente: non puoi morire, senza portare noi stessi alla tomba. Chiunque sia colui che ami, io voglio farlo tuo. Uno sciocco orgoglio di re non può strappare l’amore di padre che provo nel petto: il tuo amore, la tua mano, il mio regno possono ben cambiare una persona umile e porlo in grande ed alto stato: e, sebbene umile, sono certo, che non può essere del tutto indegno un uomo che tu ami. Te ne scongiuro: rivelami il suo nome, io ti voglio salva, ad ogni costo. MIRRA: Salva? Che pensi? Queste tue stesse parole affrettano la morte. Ti prego, lascia che io mi allontani da te per sempre. CINIRO: O figlia, unica amata, che dici? Vieni fra le mie braccia. Oh, come una forsennata tu mi respingi; dunque aborri anche tuo padre, e di così indegno amore bruci, che hai paura… MIRRA: Ah, non è umile il mio amore, è sacrilego, né mai… CINIRO: Che dici? Sacrilego! Quando per primo il tuo stesso padre non la condanna, non può esserlo. Avanti, dimmi il nome. MIRRA: Vedresti tu stesso, padre, inorridire, se lo sapessi… Ciniro. CINIRO: Che dici? MIRRA: Che dico? Povera me! Non so più ciò che dico. Non provo amore per te, non credere. Ti prego, per l’ultima volta, lasciami andare via. CINIRO: Ingrata! Ormai vuoi farmi disperare con i tuoi modi e farti gioco del mio dolore; ormai per sempre hai perduto l’amore di tuo padre. MIRRA: Oh, dura, crudele e orribile minaccia! Ora, nell’ultimo respiro della mia vita, che ormai s’avvicina, ai tanti tormenti della mia vita si aggiungerebbe l’odio crudele dei genitori? Morire io lontana da te? Oh madre mia felice, almeno a lei sarà concesso di morire al tuo fianco. CIRINO: Che cosa vuoi dire? Oh, quale terribile squarcio di verità da que-ste tue parole! Empia tu forse dunque saresti? MIRRA: Oh cielo! Che mai ho detto? Povera me! Dove sono, dove mi nascondo… dove darmi la morte. La tua spada mi servirà… (Immediatamente si avventa sulla spada del padre e si trafigge) CINIRO: Figlia, oh, che hai fatto… la spada… MIRRA: Ecco te la rendo. Almeno ho avuto la mano veloce come la lingua. CINIRO: Io resto immobile pieno di spavento, d’orrore, di rabbia, di pietà. MIRRA: Oh Ciniro! Mi vedi vicino alla morte. Io ho saputo vendicarti e punire me stessa. Tu stesso l’orrendo mistero mi hai strappato dal cuore, ma poiché solo con la mia vita esce dalla mia bocca, muoio meno colpevole. CINIRO: Oh quale giorno! Oh delitto! Oh quale dolore! Per chi il mio pianto? MIRRA: Non piangere più, che io non lo merito; sfuggi la mia vista infame e a mia madre Cecri nascondi (il motivo) per sempre. CINIRO: Padre infelice, perché il suolo ancora non si spalanca. Io non ho il coraggio d’avvicinarmi all’ingiusta donna che muore, eppure non posso abbandonare mia figlia piena di sangue…
Musicultura On Line - Commenti Classica, Lirica, Balletto - Jesi (AN): una  vera sorpresa questa "Mirra"

Denia Mazzola Gavazzeni in Mirra (riduzione musicale in due atti di Domenico Alealona)

Il suicidio di Mirra non è un suicidio contro la libertà di non poter amare, ma, più profondamente il suicidio della volontà inconscia contro la ragione. E’ quest’ultima a venire de finitamente sconfitta: essa non ha saputo prevalere sull’animo della protagonista; Mirra, infatti, resterà sola (nella scena successiva morirà con solo accanto la sua nutrice, lontano dai genitori) con il suo dramma che solo la morte può sciogliere. C’è già qui un personaggio, sia pur tratto da un’opera classica, profondamente legato al pathos; la sua sofferenza va al di là, come già detto, della ragione, capace di guidare l’uomo verso un infinito progresso (come affermavano gli illuministi), per aprire varchi inesplorati dell’animo umano.

Saul

Il testo biblico narra di come il valoroso guerriero Saul venga unto primo re d’Israele dal sommo sacerdote Samuele. Accecato dalla brama del potere, tuttavia, Saul si allontana progressivamente dalla grazia e dal favore di Dio, finché Samuele, divinamente ispirato, non consacra nuovo re il giovane pastore e musico David. In guerra con i Filistei, David si distingue in atti di valore, acquistando grande valore agli occhi del popolo; ma le sue vittorie inveleniscono il vecchio re Saul, che teme per il trono cui non intende rinunciare. In parte per sincera ammirazione, in parte per calcolo politico Saul dà in sposa la figlia Micol a David, ma al contempo trama per ucciderlo, giungendo, nel tempo in cui avrebbe bisogno del suo valore guerriero, a blandirlo dal regno. La tragedia alfieriana, che ha la durata “classica” di ventiquattro ore, si apre sulla notte in cui David, accolto dal fedele amico Gionata, fratello di Micol, di nascosto fa ritorno all’esercito di Saul, accampato sulle alture di Gelboé in attesa dello scontro con i Filistei. Saul entra in scena nel secondo atto, mostrando la confusione di sentimenti che violentissima lo domina: senso di regalità e orrore per le forze che lo abbandonano, ricordi del passato glorioso e preveggenza di morte, amore per i figli e ossessione del tradimento, ammirazione per la giovanile baldanza di David, invidia e rancore per i suoi successi. Nel terzo atto, dopo essersi temporaneamente riconciliato con David grazie anche al suo canto, Saul viene assalito da un nuovo accesso d’ira, minaccia di morte David e lo induce a fuggire. Nel quarto atto Saul manda a morte il sacerdote Achimelech, accusando la casta sacerdotale di tradimento, e si appresta a combattere i Filistei senza l’aiuto di David. La situazione precipita nel quinto atto: i Filistei travolgono l’esercito israelita, Saul, sempre più sconvolto da allucinazioni e rimorsi, apprende della morte dei figli in battaglia, e per non cadere nelle mani del nemico si dà la morte, affidando la figlia Micol a David.

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Guercino: Saul e David

Il Saul precede la composizione della Mirra: infatti viene scritto nel 1782 e rappresenta il punto più alto della tragedia alfieriana che ha come tema l’interiorizzazione di un dilemma irrisolvibile. Infatti se la precedente tragedia, pur rappresentando un mito, lo risolveva, tragicamente, in una sorta di dramma “borghese” (l’amore del padre per una figlia a cui vuole concedere tutto, pur di vederla felice), questa tragedia ha come protagonista un tiranno il cui limite verso l’assoluto della libertà trova un limite non in un antagonista ma in Dio. Questo condurrà alla pazzia Saul e l’autore, appunto, ne scava i recessi dell’animo più profondi, mostrandoci le contraddizioni, i tormenti, la disperazione che può trovare quiete soltanto nella morte.

Nella pianura di Gelboè l’esercito di Israele, guidato dal re Saul, attende di misurarsi contro i filistei. David, già scacciato da Saul per gelosia, nonostante fosse sposo di sua figlia Micol e amico fraterno dell’altro figlio Gionata, è giunto al campo per combattere l’indomani con il suo popolo. Saul lo riaccoglie: i successivi colloqui del re con i figli, con David, col ministro Abner, rivelano i suoi tormenti e le sue malinconie, accentuati dal contrasto fra la propria vecchiaia e decadenza e la giovinezza e i successi di David. Quando però sempre più ossessionato da un’ansia di dominio assoluto, Saul fa mettere a morte il sommo sacerdote Achimelec, David lo abbandona. Assalito e sconfitto dai filistei, Saul si uccide.

I TORMENTI DI SAUL

SAUL:
Bell’alba è questa. In sanguinoso ammanto
oggi non sorge il sole; un dì felice
prometter parmi. – Oh miei trascorsi tempi!
Deh! dove sete or voi? Mai non si alzava
Saùl nel campo da’ tappeti suoi,
che vincitor la sera ricorcarsi
certo non fosse.

ABNER:
Ed or, perché diffidi,
o re? Tu forse non fiaccasti or dianzi
la filistea baldanza? A questa pugna
quanto più tardi viensi, Abner tel dice,
tanto ne avrai più intera, e nobil palma.

SAUL:
Abner, oh! quanto in rimirar le umane
cose, diverso ha giovinezza il guardo,
dalla canuta età! Quand’io con fermo
braccio la salda noderosa antenna,
ch’or reggo appena, palleggiava; io pure
mal dubitar sapea Ma, non ho sola
perduta omai la giovinezza… Ah! meco
fosse pur anco la invincibil destra
d’Iddio possente!… e meco fosse almeno
David, mio prode!

ABNER:
E chi siam noi? Senz’esso
più non si vince or forse? Ah! non più mai
snudar vorrei, s’io ciò credessi, il brando,
che per trafigger me. David, ch’è prima,
sola cagion d’ogni sventura tua…

SAUL:                
Ah! no: deriva ogni sventura mia
da più terribil fonte… E che? celarmi
l’orror vorresti del mio stato? Ah! S’io
padre non fossi, come il son, pur troppo!
di cari figli,… or la vittoria, e il regno,
e la vita vorrei? Precipitoso
già mi sarei fra gli inimici ferri
scagliato io, da gran tempo: avrei già tronca
così la vita orribile, ch’io vivo.
Quanti anni or son, che sul mio labro il riso
non fu visto spuntare? I figli miei,
ch’amo pur tanto, le più volte all’ira
muovonmi il cor, se mi accarezzan… Fero,
impazïente, torbido, adirato
sempre; a me stesso incresco ognora, e altrui;
bramo in pace far guerra, in guerra pace:
entro ogni nappo, ascoso tosco io bevo;
scorgo un nemico, in ogni amico, i molli
tappeti assiri, ispidi dumi al fianco
mi sono; angoscia il breve sonno; i sogni
terror. Che più? Chi ’l crederia? spavento
m’è la tromba di guerra; alto spavento
è la tromba a Saùl. Vedi, se è fatta
vedova omai di suo splendor la casa
di Saùl; vedi, se omai Dio sta meco.
E tu, tu stesso, (ah! ben lo sai) talora
a me, qual sei, caldo verace amico,
guerrier, congiunto, e forte duce, e usbergo
di mia gloria tu sembri; e talor, vile
uom menzogner di corte, invido, astuto
nemico, traditore…

ABNER:
Or, che in te stesso
appien tu sei, Saulle, al tuo pensiero,
deh, tu richiama ogni passata cosa!
Ogni tumulto del tuo cor (nol vedi?)
dalla magion di que’ profeti tanti,
di Rama egli esce. A te chi ardiva primo
dir, che diviso eri da Dio? l’audace,
torbido, accorto, ambïzioso vecchio,
Samuèl sacerdote; a cui fean eco
le sue ipocrite turbe. A te sul capo
ei lampeggiar vedea con livid’occhio
il regal serto, ch’ei credea già suo.
Già sul bianco suo crin posato quasi
ei sel tenea; quand’ecco, alto concorde
voler del popol d’Israello al vento
spersi ha suoi voti, e un re guerriero ha scelto.
Questo, sol questo, è il tuo delitto. Ei quindi
d’appellarti cessò d’Iddio l’eletto,
tosto ch’esser tu ligio a lui cessasti.
Da pria ciò solo a te sturbava il senno:
coll’inspirato suo parlar compieva
David poi l’opra. In armi egli era prode,
nol niego io, no; ma servo appieno ei sempre
di Samuello; e più al’’altar, che al campo
propenso assai: guerrier di braccio egli era,
ma di cor, sacerdote. Il ver dispoglia
d’ogni mentito fregio; il ver conosci.
Io del tuo sangue nasco; ogni tuo lustro
è d’Abner lustro: ma non può innalzarsi
David, no mai, s’ei pria Saùl non calca.

SAUL:                
David?… Io l’odio… Ma, la propria figlia
gli ho pur data in consorte . . . Ah! tu non sai.-
La voce stessa, la sovrana voce
che giovanetto mi chiamò più notti,
quand’io, privato, oscuro e lungi tanto
stava dal trono e da ogni suo pensiero;
or, da più notti, quella voce istessa
fatta è tremenda, e mi respinge, e tuona
in suon di tempestosa onda mugghiante:
“Esci Saùl; esci Saulle”… Il sacro
venerabile aspetto del profeta,
che in sogno io vidi già, pria ch’ei mi avesse
manifestato che voleami Dio
re d’Israèl, quel Samuèle, in sogno,
ora in tutt’altro aspetto io lo riveggo.
Io, da profonda cupa orribil valle,
lui su raggiante monte assiso miro:
sta genuflesso Davide a’ suoi piedi:
il santo veglio sul capo gli spande
l’unguento del Signor; con l’altra mano
che lunga lunga ben cento gran cubiti
fino al mio capo estendesi, ei mi strappa
la corona dal crine; e al crin di David
cingerla vuol: ma, il crederesti? David
pietoso in atto a lui si prostra, e niega
riceverla; ed accenna, e piange, e grida,
che a me sul capo ei la riponga… – Oh vista!
Oh David mio! tu dunque obbediente
ancor mi sei? genero ancora? e figlio?
e mio suddito fido? e amico?… Oh rabbia!
Tormi dal capo la corona mia?
Tu che tant’osi, iniquo vecchio, trema…
Chi sei?… Chi n’ebbe anco il pensiero, pera…-
Ahi lasso me! Ch’io già vaneggio!…

ABNER:
Pera,
David sol pera: e svaniran con esso,
sogni, sventure, vision, terrori.

SAUL: E’ questa una buona alba: Oggi il sole non sorge circondato da una nebbia rossastra (indice di sventura) Mi sembra che si prometta un giorno felice. – Oh, tempi miei felici! Dove siete ora? Mai non si alzava Saul dai suoi tappeti che non fosse certo che si sarebbe ricoricato vincitore. ABNER: E ora perché temi, o re? Tu forse, poco tempo fa, non hai indebolito la forza dei Filistei? A questa battaglia, quanto più si ritarderà l’inizio, te lo garantisce Abner, tanto più ne avrai una grande e nobile vittoria. SAUL: Oh, Abner! Quanto nell’osservare le cose umane è diverso lo sguardo di un giovane da quello di un vecchio! Quando io, con braccio fermo, tenevo la nodosa lancia, non avevo dubbi… Ma non ho solo perduto la giovinezza, ormai. Ah, fosse con me ancora l’invincibile favore di Dio potente… e fosse qui con me, almeno, David, mio eroe. ABNER: E chi siamo noi? Senza di lui non si può forse vincere ora? Oh, se io credessi ciò, non vorrei più sfoderare la spada che per trafiggere me. David, che è la prima e la sola ragione della tua rovina. SAUL: Ah, no! Deriva da un motivo più grande la mia rovina. E che? Vorresti nascondermi la gravità della mia situazione? Ah, se io non fossi padre, come sono, purtroppo, di figli cari, ora vorrei la vittoria, il regno e la vita? Con precipitazione io mi sarei gettato fra gli eserciti nemici, da molto tempo avrei già spezzato gli anni di questa mia vita. Da quanti anni non ho più la capacità di ridere? I figli miei, che pure amo tanto, muovono spesso il cuore all’ira, se s’avvicinano con affetto… Sono sempre feroce, impaziente, tormentato, arrabbiato, sempre sono odioso verso me stesso e gli altri, desidero fare la guerra in pace e la pace in guerra; dentro ogni coppa che bevo temo ci sia nascosto un veleno; vedo nemici in ogni amico, i soffici tappeti assiri, sono ispidi rovi al mio fianco; mi dà angoscia l’insonnia, i sogni mi procurano terrore. Che altro ancora? Chi lo crederebbe che mi procura uno spavento la tromba di guerra, un grande spavento a Saul. Vedi, è priva del suo splendore la casa di Saul; vedi se Dio ora sta con me. E tu, tu stesso (lo sai bene) talora mi sembri un vero amico, un guerriero, un parente sincero, un forte comandante, uno scudo per la mia gloria; altre volte mi sembri vigliacco, un cortigiano infido, invidioso, furbo, nemico e traditore. ABNER: Ora, che sei pienamente in te stesso, richiama il passato alla tua mente. Ogni tormento del tuo cuore (non lo vedi?) deriva dalla casa dei profeti della città di Rama. Chi ha avuto il coraggio di dirti che tu eri ormai diviso da Dio? Samuele audace, malfidato, furbo, vecchio ambizioso, a cui fanno eco gli ipocriti sacerdoti. Egli vedeva con il suo invidioso occhio rifulgere sul tuo capo la corona, che egli pensava già sua, già sui suoi bianchi capelli la vedeva, quando ecco un nobile e concorde volere del popolo d’Israele ha gridato al vento i suoi desideri ed ha scelto un re guerriero. Solo questa è la tua colpa. Egli quindi ha cessato di chiamarti scelto da Dio, nel momento stesso in cui tu cessasti d’essergli devoto. Dapprima solo questo ti turbava il sonno. Poi con le sue ispirate parole David compiva l’opera. In battaglia era coraggioso, non lo nego, ma sempre schiavo di Samuele, e assai più legato alla vita religiosa che alla vita militare. Negli atti militare, nel cuore sacerdote. Scopri il vero da ogni falsa apparenza, conosci la verità. Io nasco da te; ogni tua gloria è una mia gloria, ma non può innalzarsi David, se prima non schiaccia Saul. SAUL: David, io l’odio. Eppure gli ho dato mia figlia in sposa. Ah, tu non lo sai. La voce stessa, la voce di Dio che più notti mi ha chiamato da giovane, quando io, privo d’autorità, sconosciuto, e così lontano ero dal trono e da ogni suo pensiero, ora, da più notti, quella stessa voce è diventata tremenda, mi respinge e tuona come un’onda tempestosa che mugghia: “Lascia il trono, Saul, lascialo”… e la sacra e venerabile figura del profeta, che in sogno io ho già visto, prima che mi manifestasse che Dio mi voleva come re d’Israele, quel Samuele, in sogno io lo rivedo in tutt’altro atteggiamento. Io da una profonda e oscura grotta osservo lui su un alto monte illuminato dal sole: David sta inginocchiato ai suoi piedi; il vecchio santo gli spande sulla fronte l’unguento del Signore, con l’altra mano, lunga lunga ben oltre cento cubiti, si stende fino al mio capo, e mi strappa la corona dai capelli e vuole metterla sulla testa di David; ma, potresti crederlo? David si prosta con atto pietoso di fronte a lui e non vuol riceverla, e con cenni, pianti e grida (fa capire) che egli deve rimetterla sul mio capo. Oh, cosa vedo! Oh, mio David! Tu dunque mi sei ancora ubbidiente? Sei ancora mio genero? Mio figlio? Mio suddito fidato? Amico?… Oh, rabbia! Togliermi dal capo la mia corona! Tu che tanto hai osato, vecchio sacrilego (Samuele) ora trema! Chi sei? Muoia chi ne ebbe soltanto il pensiero! Oh, povero me! Che ora già sto vaneggiando…. ABNER: Muoia, il solo David muoia, e con lui cesseranno i sogni, le sventure, le visioni, le paure.

In questo passo vediamo Saul già prossimo alla follia, da cui, in seguito, si genererà la tragedia. Sebbene il giorno si mostri propizio per la battaglia, il re è preso da tormenti, non per paura dello scontro, ma è come se fosse invaso da una torbida angoscia, da un presentimento nefasto: non sono le forze che lo hanno abbandonato, ma Dio. Nonostante Abner cerchi di rincuorarlo, Saul è completamente solo, e in questa solitudine egli analizza impietosamente se stesso, non riuscendo a liberarsi dagli atroci dubbi che lo angosciano; dapprima è Abner che gli appare come amico, ma anche come traditore; poi è David verso cui prova un inspiegabile odio e amore; infine il sacerdote Samuele, colui che un tempo gli aveva offerto la corona per volontà di Dio e che ora, per la stessa volontà, vuole offrirla a David. Saul lo rispetta e lo odia perché sa che è lui il tramite della volontà di Dio e sa pertanto che se Samuele vuole offrire la corona a David, lo fa perché è Dio che lo vuole. Da qui la tremenda percezione dell’abbandono del Signore e l’angosciosa solitudine.

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Saul nell’interpretazione di Stefano Sabelli

LA MORTE DI SAUL

SAUL:
Ombra adirata, e tremenda, deh! cessa;
lasciami, deh!… Vedi: a’ tuoi piè mi prostro…
Ahi! dove fuggo?… ove mi ascondo? O fera
ombra terribil, placati… Ma è sorda
ai miei preghi; e m’incalza?… Apriti, o terra,
vivo m’inghiotti . . . Ah! pur che il truce sguardo
non mi saetti della orribil ombra…

MICOL:
Da chi fuggir? niun ti persegue. O padre,
me tu non vedi? me più non conosci?

SAUL:
O sommo, o santo sacerdote, or vuoi
ch’io qui mi arresti? o Samuèl, già vero
padre mio, tu l’imponi? ecco, mi atterro
al tuo sovran comando. A questo capo
già di tua man tu la corona hai cinta;
tu il fregiasti; ogni fregio or tu gli spoglia;
calcalo or tu. Ma,… la infuocata spada
d’Iddio tremenda, che già già mi veggo
pender sul ciglio,… o tu che il puoi, la svolgi
non da me, no, ma da’ miei figli. I figli,
del mio fallir sono innocenti.

MICOL:
Oh stato,
cui non fu il pari mai! – Dal ver disgiunto,
padre, è il tuo sguardo: a me ti volgi…

SAUL:                
Oh gioia! Pace hai sul volto? O fero veglio, alquanto
miei preghi accetti? io da’ tuoi piè non sorgo,
se tu i miei figli alla crudel vendetta
pria non togli. – Che parli?… Oh voce! “T’era
David pur figlio; e il perseguisti, e morto
pur lo volevi”. Oh! che mi apponi? . . . Arresta.
Sospendi or, deh! Davidde ov’è? si cerchi:
ei rieda; a posta sua mi uccida, e regni:
sol che a’ miei figli usi pietade, ei regni… –
Ma, inesorabil stai? Di sangue hai l’occhio;
foco il brando e la man; dalle ampie nari
torbida fiamma spiri, e in me l’avventi…
Già tocco m’ha; già m’arde: ahi! dove fuggo?
per questa parte io scamperò.

MICOL:
Né fia,
ch’io rattener ti possa, né ritrarti
al vero? Ah! m’odi: or sei…

SAUL:                                                   
Ma no; che il passo
di là mi serra un gran fiume di sangue.
Oh vista atroce! sovra ambe le rive,
di recenti cadaveri gran fasci
ammonticati stanno: ah! tutto è morte
colà: qui dunque io fuggirò… Che veggo?
Chi sete or voi? – “D’Achimelèch siam figli.
Achimelèch son io. Muori, Saulle,
muori”.- Quai grida? Ah! lo ravviso: ei gronda
di fresco sangue, e il mio sangue ei si beve.
Ma chi da tergo, oh! chi pel crin mi afferra?
Tu, Samuèl? – Che disse? che in brev’ora
seco tutti saremo? Io solo, io solo
teco sarò; ma i figli … – Ove son io?-
Tutte spariro ad un istante l’ombre.
Che dissi? Ove son io? Che fo? Chi sei?
Qual fragor odo? ah! di battaglia parmi:
pur non aggiorna ancor: sì, di battaglia
fragore egli è. L’elmo, lo scudo, l’asta,
tosto or via, mi si rechi: or tosto l’arme
l’arme del re. Morir vogl’io, ma in campo.

MICOL:
Padre, che fai? Ti acqueta . . . Alla tua figlia

SAUL:
L’armi vogl’io; che figlia? Or, mi obbedisci.
L’asta, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli.

MICOL:
Io non ti lascio, ah! no…

SAUL:
Squillan più forte le trombe?
Ivi si vada: a me il mio brando
basta solo. – Tu, scostati, mi lascia;
obbedisci. Là corro: ivi si alberga
morte, ch’io cerco.

ABNER:
Oh re infelice!… Or dove,
deh! dove corri? Orribil notte è questa.

SAUL:
Ma, perché la battaglia?

ABNER:
Di repente,
il nemico ci assale: appien sconfitti
siam noi…

SAUL:
Sconfitti? E tu fellon, tu vivi?

ABNER:
Io? per salvarti vivo. Or or qui forse
Filiste inonda: il fero impeto primo
forza è schivare: aggiornerà frattanto.
Te più all’erta quassù, fra i pochi miei,
trarrò…

SAUL:
Ch’io viva, ove il mio popol cade?

MICOL:
Deh! vieni… Oimè! cresce il fragor: s’inoltra…

SAUL:
Gionata,… e i figli miei,… fuggono anch’essi?
mi abbandonano?

ABNER:
Oh cielo!… I figli tuoi,…
no, non fuggiro… Ahi miseri!

SAUL:
T’intendo: morti or cadono tutti…

MICOL:
Oimè!… I fratelli?…

ABNER:
Ah! più figli non hai.

SAUL:
– Ch’altro mi avanza?
Tu sola omai, ma non a me, rimani. –
Io da gran tempo in cor già tutto ho fermo:
e giunta è l’ora. – Abner, l’estremo è questo
de’ miei comandi. Or la mia figlia scorgi
in securtà.

MICOL:
No, padre; a te dintorno
mi avvinghierò: contro a donzella il ferro
non vibrerà il nemico.

SAUL:
Oh figlia!… Or, taci:
non far, ch’io pianga. Vinto re non piange.
Abner, salvala, va’: ma, se pur mai
ella cadesse infra nemiche mani,
deh! non dir, no, che di Saulle è figlia;
tosto di’ lor, ch’ella è di David sposa;
rispetteranla. Va’; vola…

ABNER:
S’io nulla
valgo, fia salva, il giuro; ma ad un tempo
te pur…

MICOL:
Deh!… padre… Io non ti vo’, non voglio
lasciarti…

SAUL:
Io voglio: e ancora il re son io.
Ma già si appressan l’armi: Abner, deh! vola:
teco, anco a forza, s’è mestier, la traggi.

MICOL:
Padre! … e per sempre?…

SAUL:
Oh figli miei!… Fui padre. –
Eccoti solo, o re ; non ti resta
dei tanti amici, o servi tuoi. – Sei paga,
d’inesorabil Dio terribil ira? –
Ma, tu mi resti, o brando: all’ultim’uopo,
fido ministro, or vieni. – Ecco già gli urli
dell’insolente vincitor: sul ciglio
già lor fiaccole ardenti balenarmi
veggo, e le spade a mille… – Empia Filiste,
me troverai, ma almen da re, qui… morto. –

SAUL: Fantasma adirato e tremando, smettila; lasciami; vedi, ai tuoi piedi mi prosto… Dove posso fuggire?… dove posso mi nascondo? O feroce e terribile ombra, placati… Ma sei sorda alle mie preghiera, e m’incalzi? Apriti, o terra, e inghiottimi… Ah, potesse il fantasma cessare di trafiggermi con lo sguardo. MICOL: Da chi fuggi? Nessuno ti persegue. Oh padre, non vedi più? Non mi riconosci più? SAUL: O sommo e santo sacerdote, vuoi che io mi dimetta? O Samuele, mio padre vero, tu lo comandi? Ecco, mi prostro al tuo supremo comando: Hai già cinto la corona su questa testa, tu l’hai ornata; ora togli qualsiasi ornamento, mettila tu se vuoi. Ma la spada infuocata e tremenda di Dio, che già vedo pendere davanti agli occhi, o, tu che puoi, allontanala non da me, no, ma dai miei figli; loro sono innocenti. MICOL: Oh quale condizione, senza uguale precedente, lontano dalla verità, padre, è il tuo sguardo; volgilo verso di me. SAUL: Oh gioia! Sul volto t’è dipinta la pace, oh fiero vecchio, dunque accetti le mie preghiere? Io non mi alzo dai tuoi piedi, se tu prima non togli i miei figli dalla crudele vendetta. Che dici? Oh, sento la tua voce: “Ti era anche David figlio, lo hai perseguito, e addirittura lo volevi morto”; Oh, che accuse mi muovi? Fermati, sospendi ora le tue parole… Davide dov’è? Si cerchi, egli torni; mi uccida a suo piacimento e infine regni. Ma, sei inesorabile? Hai gli occhi pieni di sangue, la spada e le mani di fuoco, spando fuoco dal naso, e la volgi verso me… Già mi hai colpito, brucia. Ahi, dove fuggo? Cercherò scampo da questa parte. MICOL: Non avverrà che io possa trattenerti né riportarti alla verità: Ah, mi senti, tu sei… SAUL: Ma no, che la fuga m’impedisce un gran fiume di sangue. Oh, vista atroce. Sopra le due rive stanno ammonticchiati numerosi cadaveri: ah, tutto è morte di là; allora fuggirò per di qui. Cosa vedo? Chi siete voi? “Siamo figli di Achimelech. Io sono Achimelech. Muori, Saul, muori”. Chi grida? Ah, lo vedo? Gronda di sangue fresco, e beve il mio sangue. Ma chi da dietro? Chi afferra i miei capelli da dietro? Tu, Samuele? – Che ha detto? Che tra breve saremo tutti con loro? Io solo, io solo, sarò con te, ma i figli… Dove sono? Sono andate tutte vie le ombre. Che ho detto? Dove sono? Che faccio? Chi sei? Quale fragore sento? Ah di guerra, mi sembra, non si è ancora fatto giorno, sì è fragore di battaglia. Ora subito le armi, le armi del re. Voglio morire, ma sul campo. MICOL: Padre, che fai? Calmati. Alla tua figlia… SAUL: Voglio le armi? Quale figlia? Obbediscimi. La lancia, l’elmo, lo scudo; ecco i miei figli. MICOL: Io non ti lascio, no. SAUL: Suonano più forte le trombe di guerra? Si vada lì, a me basta solo la spada. Tu scostati, lasciami; obbedisci. Corro là, lì sta la morte che io cerco. ABNER: Oh re infelice, dove corri? E’ una notte orribile, questa. SAUL: Ma perché, la battaglia… ABNER: All’improvviso il nemico ci ha assaltato, siamo totalmente sconfitti. SAUL: Sconfitti? E tu, traditore, tu vivi? ABNER: Io vivo per salvarti. Ora qui forse i Filistei giungeranno: il feroce primo impeto è schivare l’urto. Nel frattempo si fa mattino. Ti porterò sull’altura, insieme a pochi soldati. SAUL: Che io viva, mentre il mio popolo muore? MICOL: Vieni, oimé il fragore aumenta, avanza. SAUL: Gionata e gli altri miei figli fuggono anche loro? Mi abbandonano? ABNER: Oh, cielo, i tuoi figli, no, non fuggirono, ah, poveri loro! SAUL: Capisco, sono tutti morti. MICOL: Ahi, i fratelli! Ah, non hai più figli! SAUL: Che cosa mi resta? Tu sola ormai, ma non a me, rimani. Io da tempo ormai ho deciso fermamente: è arrivato il mio momento. Abner, questo è l’ultimo mio comando. Ora fai da scorta a mia figlia, e portala in un luogo sicuro. MICOL: No, padre, mi avvinghierò a te, il nemico non oserà colpire con la spada una donna. SAUL: Oh, figlia, taci, non farmi piangere. Un re vinto non piange. Abner, salvala: va’, ma se mai cadesse fra mani nemiche, non dire, no, che è figlia di Saul, piuttosto di’ loro che lei è la moglie di David. La rispetteranno, va’, vola! ABNER: Se valgo qualcosa, lei sarà salva, ma anche tu. MICOL: Ahi, padre, io non ti voglio lasciare. SAUL: Lo voglio io, e sono ancora il re. Ma già si avvicinano le armi. Abner, va’, vola! Portala via con te, con la forza, se necessario. MICOL: Padre, per sempre?… SAUL: Oh, figli miei, fui padre. Eccoti solo, o re; non ti resta nessuno dei tanti amici, e nemmeno dei servi. Sei soddisfatta ira terribile di un Dio inesorabile? Ma tu rimani, o spada, per l’ultimo scopo, fedele ministro. Ecco già sento le urla dell’insolente vincitore; vedo balenarmi sugli occhi le loro fiaccole ardenti e le mille spade. – Empi Filistei, mi troverai, qui morto, ma almeno da re.

Sono qui raccolte le tre ultime scene del V atto del Saul. Nella prima Saul è impazzito, preda del suo rimorso. Vaga da una parte all’altra inseguendo i fantasmi di fronte agli occhi di un’atterrita Micol. I fantasmi sono le sue azioni, che ora gli si rivolgono contro: David, perseguitato e minacciato di morte, Achimelech, ucciso perché sosteneva David. Eccoli ora che s’innalzano a torturarlo, con voci insistenti, di fronte all’impotente Saul. Nella seconda scena entra in scena Abner: il re si è ripreso, e insegue la morte a viso aperto, in pieno campo di battaglia. Nell’ultima scena, Saul è solo con se stesso: la sua illimitata brama di potere ha trovato un ostacolo, Dio stesso; la sua è una sconfitta contro chi non si potrà mai vincere. Emerge qui la figura del Titano, di chi sfida Dio e ne è vinto. Ma sarà proprio il titanismo uno dei temi cardine del Romanticismo.