CARLO GOLDONI

Carlo Goldoni - Wikipedia

Biografia 

Carlo Goldoni nasce a Venezia, nel 1707, da padre medico. Sin dall’infanzia mostra una spiccata vocazione per il teatro, giocando con un teatrino per burattini. A Perugia, dove il padre si è trasferito, recita per la prima volta, vestendo le parti di una donna, nella commedia del Gigli, La sorellina di Don Pilone (1719), quindi, l’anno successivo, si sposta a Rimini, dove studia svogliatamente filosofia. Nel 1721 raggiunge la madre a Chioggia (vicino a Venezia), facendosi accompagnare da una compagnia di comici.
Convinto il padre a lasciare filosofia s’iscrive a legge dapprima a Venezia e quindi a Pavia: ma da qui viene cacciato per una feroce satira contro le donne della città. Infine si laureerà in legge ma a Padova nel 1731, dopo la morte del padre, che significherà, per lui, assumersi le responsabilità della famiglia. Comincia a lavorare a Chioggia presso la Cancelleria criminale, ma il suo amore per il teatro è tanto che riesce a intervallare alla pratica giuridica anche l’attività di scrittore di melodrammi e d’intermezzi comici, nonché quella di attore. Scappato da Venezia per una torbida storia d’amore, gira per alcune città settentrionali, finché a Genova incontra Nicoletta Connio, che sarà per lui compagna di una vita, e l’impresario Imer, che lo riconduce a Venezia. Per lui al teatro di San Samuele mette in scena nel 1738 il Momolo Cortesan in  cui comincia a mettere in atto  la sua “riforma del teatro” scrivendo la parte del protagonista; tale riforma verrà di lì a poco completata con La donna di garbo del 1742, interamente scritta.
Si sposta per un quadriennio a Pisa, oppresso da debiti, esercitando il mestiere di avvocato: ma nel 1748 incontra Girolamo Medebach che gli propone di diventare il poeta comico della sua compagnia per il teatro Sant’Angelo e quindi di ritornare di nuovo a Venezia. Coglie qui un primo grande successo con la Vedova scaltra e con la Putta onorata (1749) in dialetto veneziano. Ma l’attività teatrale di Goldoni non procede in modo lineare, oltre all’alternanza tra successi, come la Famiglia dell’antiquario ed clamorosi insuccessi come l’Erede fortunata, si aggiunge la feroce polemica con l’abate Pietro Chiari (ora in forza al San Samuele). Per vincere la battaglia e la concorrenza di ben tre teatri veneziani che si contendevano il favore del pubblico, Goldoni promette al suo di pubblico di scrivere, entro l’anno, ben 16 commedie fra le quali meritano di essere ricordate La bottega del caffè e Il bugiardo; ma nei due anni successivi, sempre per il Sant’Angelo scriverà La locandiera e La donna vendicativa.
Dal 1753 al 1762 lavora per il teatro San Luca di Francesco Vendramin, che gli offre un contratto certamente più vantaggioso. Ma per Goldoni è un periodo più difficile: deve abituare il corpo di attori a recitare commedie “regolari”, deve conquistarsi il favore di un pubblico più esigente e, non per ultimo, deve far fronte alla guerra senza quartiere con Chiari (che al Sant’Angelo ha dato vita ad un teatro in versi) e al Gozzi, che entusiasma il pubblico con commedie di carattere esotico. Si adatta anche lui con la trilogia di Ircana (La sposa persiana; Ircana in Julfa; Ircana in Ispaan); tenta il teatro d’argomento storico, ma la commedia forse più riuscita in questi primi anni al San Luca è la dialettale Il campiello (1756). Negli anni in cui l’editore Pasquali annuncia la pubblicazione in volume delle sue commedie (1761), il nostro, sempre per l’impresario Vendramin scrive alcune commedie  che verranno annoverate tra i suoi capolavori: le due dialettali I Rusteghi e le Baruffe chiozzotte e la trilogia della villeggiatura (Le smanie per la villeggiatura; Le avventure della villeggiatura; Il ritorno dalla villeggiatura).
Nonostante il riconoscimento degli illuministi italiani tra cui il Verri e del francese Voltaire, le polemiche verso il suo teatro continuano e s’inaspriscono: stanco e deluso anche per il rifiuto che il pubblico veneziano decreta per le sue ultime opere, va a Parigi dove produce in francese il Bourru bienfaisant e in italiano Il ventaglio. A Parigi svolge le mansioni di maestro d’italiano per le figlie di Luigi XVI e si trova suo malgrado coinvolto negli avvenimenti della Rivoluzione Francese. Comincia a scrivere le sue memorie (Mèmoires) che conclude un anno prima della sua morte, nel 1793.

Goldoni Carlo : Mémoires [...] pour servir a l'histoire de sa vie, et a  celle de son

Le Mèmoires di Goldoni in edizione francese del 1787

E’ proprio a partire dalle Mèmoires che bisogna partire per capire la vocazione teatrale del nostro. Dobbiamo ricordare che esse furono scritte in francese da un Goldoni ormai vecchio e disilluso; e sono pertanto più che il vero e proprio frutto dei ricordi, l’idealizzazione degli stessi, vissuti con il rimpianto tipico dei vecchi verso la loro giovinezza.

 LA VOCAZIONE PER IL TEATRO

I primi giorni andai alla commedia modestamente, in platea, ma vedevo giovani come me tra le quinte; cercai di andarci anch’io e non incontrai difficoltà; guardavo con la coda dell’occhio quelle donzelle, che mi fissavano arditamente. A poco a poco mi ammansii; di discorso in discorso, di domanda in domanda seppero che ero veneziano. Erano tutte mie compaesane, mi fecero infinite carezze e gentilezze; lo stesso direttore mi colmò di cortesie; mi invitò a pranzo a casa sua, ci andai; non vidi più il reverendo Candini. Gli impegni degli attori stavano per scadere, dovevano partire: la loro partenza davvero mi affliggeva. Un venerdì, giorno di riposo per tutta l’Italia, salvo Venezia, facemmo una scampagnata; c’era tutta la compagnia, il direttore annunciò la partenza fra otto giorni; aveva fissata la barca che doveva portarli a Chioggia…
«A Chioggia!» dissi, con un grido di meraviglia.
«Sissignore, dobbiamo andare a Venezia, ma ci tratterremo quindici o venti giorni a Chioggia per qualche rappresentazione.»
«Ah, Dio mio! mia madre è a Chioggia, come la rivedrei volentieri.»
«Venite con noi; sì, sì (tutti si misero a gridare), con noi, con noi, nella nostra barca; vi troverete bene, non spenderete niente; si giuoca, si canta, si ride, ci si diverte ecc.».
Come resistere a tante seduzioni? perché perdere così bella occasione? Accetto, mi impegno, faccio i miei preparativi (…).
Il giorno stabilito per la partenza metto due camicie e un berretto da notte in tasca; vado al porto, entro nella barca per primo; mi nascondo ben bene sotto la prua; avevo con me il mio scrittoio tascabile, scrivo al Battaglini, gli faccio le mie scuse; è la voglia di rivedere mia madre che mi trascina (…). Commisi un errore, lo ammetto; ne commisi altri, e li confesserò egualmente. Arrivano gli attori.
«Dov’è il signor Goldoni?».
Ecco Goldoni che esce dal suo nascondiglio; tutti si mettono a ridere; mi fanno festa, mi carezzano, si fa vela; addio Rimini.

Goldoni qui si descrive in modo simpatico e bonario, come fosse un novello “picaro”, che tuttavia non è spinto dalla semplice avventura, ma dalla fascinazione, che non nasconde le garbate galanterie femminili, per il mondo del teatro. Si noti come l’amore per la madre appare in secondo piano e solo come la vivacità dell’allegra brigata lo coinvolga. Il fatto è che Goldoni è anche un abile narratore. Come si vede la sua “vocazione teatrale” è qui idealizzata ed espressa con garbo e vivacità.

le parole di minerva...": CARLO GOLDONI: COMMEDIE PER TUTTE LE STAGIONI E  PER TUTTE LE EDIZIONI...

Le Commedie goldoniane nell’edizione fiorentina del 1753

Ma ancor più importante è il suo progetto di riforma teatrale, ed è egli stesso che ce lo spiega, nella Prefazione all’edizione Bettinelli delle sue commedie (1750):

MONDO E TEATRO

(…) Non mi vanterò io già d’essermi condotto a questo segno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo di un assiduo metodico studio sull’Opere o precettive, o esemplari in questo genere de’ migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d’altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettera de’ più venerabili e celebri Autori, da’ quali, come da ottimi maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai d’essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti caratteri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argomenti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni: mi provvede di avvenimenti curiosi: m’informa de’ correnti costumi: m’instruisce de’ vizi e de’ difetti che son più comuni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali meritano la disapprovazione o la derisione de’ saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa persona i mezzi co’ quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond’io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditandovi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto assolutamente necessario che si sappia da chi vuole con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo maneggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rappresentare sulle scene i caratteri, le passioni, gli avvenimenti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendan grati agli occhi delicati de’ spettatori. Imparo insomma dal Teatro a distinguere ciò che è più atto a far impressione sugli animi, a destar la meraviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell’uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Commedia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e ‘l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo. Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia all’occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere diverso in ben molte cose da quello dell’altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non ordinario applauso avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell’universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti o difficili, i quali pretendono di dar legge al gusto di tutto un Popolo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de’ linguaggi.

L’intento del brano è decisamente didascalico: l’autore, infatti vuole mostrare cosa egli intenda con lo scrivere una commedia, e lo fa sottolineando alcuni punti fondamentali:

  • Mondo: con questo termine egli intende la realtà, l’osservazione diretta attraverso la quale il Goldoni intende costruire i suoi caratteri.
  • Teatro: l’osservazione della realtà deve entrare nel palcoscenico, farsi vita all’interno di esso, cogliendo gli aspetti che possono essere utili agli spettatori, affinché possano, comunque, trarne una morale.
  • Pubblico: l’autore di teatro non può prescindere dalla presenza del pubblico: qualsiasi riforma portata avanti astrattamente è destinata al fallimento; Goldoni riforma il teatro proprio a partire dalle esigenze e dalle risposte che gli spettatori mostrano ad ogni suo spettacolo.

E’ difficile poter seguire un percorso sull’opera goldoniana: le sue commedie rappresentano un mondo da scandagliare nel suo insieme: infatti, a progressi sulla rappresentazione dei caratteri ci sono ritorni che si richiamano alla commedia dell’arte. Si può semplicemente richiamare la produzione goldoniana attraverso cinque fasi:

Prima fase (1730-1748)

Teatro San Samuele - Wikipedia

Gabriel Bella: Il teatro di San Samuele a Venezia

Dopo un primo inizio in cui Goldoni, in modo molto tradizionale, scrive libretti per opere cantate, comincia, sin dal ’38 a elaborare una forma di “riforma” teatrale con il Momolo cortesan, a cui seguiranno altre due commedie, Momolo sul Brenta e Il mercante fallito, che costituiscono la trilogia mercantile. Tale inizio di riforma, in cui permangono elementi della commedia dell’arte basate sull’improvvisazione e parti invece scritte dall’autore, è possibile proprio perché l’attività di librettista gli permette di convincere l’impresario Imer a tentare nuove idee. Non bisogna dimenticare che, oltre l’impresario, proprio per queste commedie è necessario l’accordo dell’attore, affinché nell’imparare a memoria la sua parte non si senta sminuito nella sua capacità attoriale. Ma la vera rivoluzione comincerà a prender piede con la “liberazione” della figura femminile. Sarà proprio con La donna di garbo, a scrivere per intero la parte femminile. L’esito forse migliore di questo suo periodo è però da ricercare nell’opera  Il servitore di due padroni (1745), metà canovaccio, metà scritto:

TRUFFALDINO CAMERIERE

Un cameriere, con un piatto, poi Truffaldino, poi Florindo, poi Beatrice, e altri camerieri.
(Truffaldino, entrato Florindo in camera, corre col piatto e lo porta a Beatrice)

CAMERIERE: (torna con una vivanda) E sempre bisogna aspettarlo. Truffaldino. (Chiama)
TRUFFALDINO: (esce di camera di Beatrice) Son qua. Presto, andè a parecchiar in quell’altra camera, che l’è arrivado quell’altro forestier, e portè la minestra subito.
CAMERIERE: Subito. (parte)
TRUFFALDINO: Sta piettanza coss’èla mo? Bisogna che el sia el fracastor. (assaggia) Bona, bona, da galantuomo. (La porta in camera di Beatrice)

(I camerieri passano e portano l’occorrente per preparare la tavola in camera di Florindo)

TRUFFALDINO: Bravi. Pulito. I è lesti come gatti. (verso i camerieri) Oh se me riussisse de servir a tavola sti do patroni; mo la saria la gran bella cossa.

(I camerieri escono dalla camera di Florindo e vanno verso la cucina)

TRUFFALDINO: Presto, fioi, la menestra.
CAMERIERE: Pensate alla vostra tavola, e noi penseremo a questa. (parte)
TRUFFALDINO: Vorria pensar a tutte do, se podesse.

(Il cameriere torna colla minestra per Florindo)

TRUFFALDINO: Dè qua a mi, che ghe la porterò mi; andè a parecchiar la roba per quell’altra camera. (leva la minestra di mano al cameriere e la porta in camera di Florindo)
CAMERIERE: E’ curioso costui. Vuol servire di qua e di là. Io lascio fare: già la mia mancia bisognerà che me la diano.

(Truffaldino esce dalla camera di Florindo)

BEATRICE: Truffaldino. (dalla camera lo chiama)
CAMERIERE: Eh, servite il vostro padrone (a Truffaldino)
TRUFFALDINO: Son qua. (entra in camera di Beatrice)

(I camerieri portano il bollito per Florindo)

CAMERIERE: Date qui. (lo prende; i camerieri partono)

(Truffaldino esce di camera di Beatrice con i tondi sporchi)

FLORINDO: Truffaldino. (dalla camera lo chiama forte)
TRUFFALDINO: Dè qua. (vuol prendere il piatto di bollito dal cameriere)
CAMERIERE: Questo lo porto io.
TRUFFALDINO: No sentì che el me chiama mi? (gli leva il bollito di mano e lo porta a Florindo)
CAMERIERE: E’ bellissima. Vuol far tutto.

(i camerieri portano un piatto di polpette, lo danno al cameriere e partono)

CAMERIERE: Lo porterei io in camera, ma non voglio aver che dire con costui.

(Truffaldino esce di camera di Florindo con i tondi sporchi)

CAMERIERE: Tenete, signor facendiere; portate queste polpette al vostro padrone.
TRUFFALDINO: Polpette? (prendendo il piatto in mano)
CAMERIERE: Sì, le polpette ch’egli ha ordinato (parte)
TRUFFALDINO: Oh, bella! A chi le òi da portar? Chi diavol  de sti padroni le averà ordinate? Se ghel vago a domandar in cusina, no vorria metterli in malizia; se falo e che no le porta a chi le ha ordenade, quell’altro le domanderà, e se scoverzirà l’imbroio. Farò cusì… Eh, gran mi! Farò cusì; le spartirò in do tondi, le porterò metà per un, e cusì chi le averà ordenade le vederà. (prende un altro tondo di quelli che sono in sala, e divide le polpette per metà) Quattro e quattro. Ma ghe n’è una de più. A chi ghe l’òia da dar? No voi che nissun n’abbia per mal; me la magnerò mi. (mangia la polpetta) Adesso va ben. Portemo le polpette a questo. (mette in terra l’altro tondo, e ne porta uno da Beatrice).
CAMERIERE: (con un bodino all’inglese) Truffaldino.  (chiama)
TRUFFALDINO: Son qua. (esce dalla camera di Beatrice)
CAMERIERE: Portate questo bodino…
TRUFFALDINO: Aspettè che vegno. (prende l’altro tondino di polpette, e lo porta a Florindo)
CAMERIERE: Sbagliate; le polpette vanno di là.
TRUFFALDINOSior sì, lo so, le ho portate di là; e el me patron manda ste quattro a regalar a sto forestier. (entra)
CAMERIERE: Si conoscono dunque, sono amici. Potevano desinar insieme.
TRUFFALDINO: (torna in camera di Florindo) E cussì, coss’èlo sto negozio? (al cameriere)
CAMERIERE: Questo è un bodino all’inglese.
TRUFFALDINO: A chi valo?
CAMERIERE: Al vostro padrone. (parte)
TRUFFALDINO: Che diavolo è sto bodin? L’odor è prezioso, el par polenta. Oh, se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Vòi sentir. (tira fuori di tasca una forchetta) No l’è polenta, ma el ghe someia. (mangia)
BEATRICE: Truffaldino. (dalla camera lo chiama)
TRUFFALDINO: Vegno. (risponde colla bocca piena)
FLORINDO: Truffaldino. (lo chiama dalla sua camera)
TRUFFALDINO: Son qua. (risponde colla bocca piena, come sopra) Oh che roba preziosa! Un altro bocconcin, e vegno. (segue a mangiare)
BEATRICE: (esce dalla sua camera e vede Truffaldino che mangia; gli dà un calcio e gli dice) Vieni a servire. (e torna nella sua camera)

(Truffaldino mette il bodino in terra ed entra in camera di Beatrice)

FLORINDO: (esce dalla sua camera) Truffaldino. (chiama) Dove diavolo è costui?
TRUFFALDINO: Era andà a tòr dei piatti, signor.
FLORINDO: Vi è altro da mangiare?
TRUFFALDINO: Anderò a veder.
FLORINDO: Spicciati, ti dico, che ho bisogno di riposare. (torna nella sua camera)
TRUFFALDINO: Subito. Camerieri, gh’è altro? (chiama) Sto bodin me lo metto via per mi. (lo nasconde)
CAMERIERE: Eccovi l’arrosto. (porta un piatto con l’arrosto)
TRUFFALDINO: Presto i frutti. (prende l’arrosto)
CAMERIERE: Gran furie! Subito. (parte)
TRUFFALDINO: L’arrosto lo porterò a questo. (entra da Florindo)
CAMERIERE: Ecco la frutta, dove siete? (con un piatto di frutta)
TRUFFALDINO: Son qua. (dalla camera di Florindo)
CAMERIERE: Tenete. (gli dà la frutta) Volete altro?
TRUFFALDINO: Aspettè. (porta la frutta a Beatrice)
CAMERIERE: Salta di qua, salta di là; è un diavolo costui.
TRUFFALDINO: Non occorr’altro. Nissun vol altro.
CAMERIERE: Ho piacere.
TRUFFALDINO: Parecchiè per mi.
CAMERIERE: Subito. (parte)
TRUFFALDINO: Togo su el me bodin; evviva l’ho superada, tutti i è contenti, no i vo alter, i è stadi servidi. Ho servido a tavola do padroni, e un non ha savudo dell’altro. Ma se ho servido per do, adess voio andar a magnar per quattro. (parte)

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Qui si mette in luce come la commedia dell’arte si basasse soprattutto sulle capacità dell’attore e la rapidità della scena da cui partirà il vaudeville moderno: pur avendo scritto la parte, è chiaro che la comicità si basa qui sul movimento, la gestualità, lo sparire e il ricomparire dalle quinte. Tuttavia Goldoni sembra conservare il meglio della commedia dell’arte: se è vero che Truffaldino è il figlio diretto del teatro delle maschere, è anche vero che l’ambiente è rappresentato con realismo e vivacità.

Seconda fase (1748-1753)

Goldoni cambia impresario e passa sotto contratto con Medebach, con cui s’impegna di scrivere otto commedie e due melodrammi l’anno. In questo spazio teatrale, frequentato soprattutto dalla piccola borghesia, il commediografo veneziano sforna commedie divertenti ma nel contempo edificanti. Sembra essere, appunto, l’ambiente ideale per portare avanti la riforma goldoniana. In questo periodo scrive commedie di alto livello, molte delle quali centrate intorno a figure femminili, come La vedova scaltra e soprattutto La locandiera.

Teatro Sant'Angelo di Venezia | Teatro, San diego state university, Giovanni

Raffigurazione del teatro Sant’Angelo a Venezia, oggi non più esistente.

La bella locandiera Mirandolina  è maestra nel far innamorare gli uomini. La corteggiano già, senza speranza, il ricco conte di Albafiorita e lo spiantato marchese di Forlipopoli, ma non il cavaliere di Ripafratta, che disprezza le donne. Mirandolina, mostrando prima di stimarlo per la sua misoginia, poi trattandolo con particolari riguardi, fingendosi turbata al punto di svenire alla notizia ch’egli lascia l’albergo e infine ostentando un’improvvisa freddezza, lo riduce nel giro di un giorno ai suoi piedi, per poi avvilirlo di fronte a tutti smascherandone la passione nel momento stesso in cui conclude le sue nozze con Fabrizio, cameriere della locanda.

Vediamo come, in questa commedia, vengono presentati i personaggi:

IL MARCHESE E IL CONTE

(Sala di locanda, il marchese di Forlipopoli ed il conte di Albafiorita)

MARCHESE: Fra voi e me vi è qualche differenza.
CONTE: Sulla locanda tanto vale il vostro denaro, quanto vale il mio.
MARCHESEMa se la locandiera usa a me delle distinzioni, mi si convengono più che a voi.
CONTE: Per qual ragione?
MARCHESE: Io sono il marchese di Forlipopoli.
CONTE: Ed io sono il conte d’Albafiorita.
MARCHESE: Sì, conte! Contea comprata.
CONTE: Io ho comprata la contea, quando voi avete venduto il marchesato.
MARCHESE: Oh basta: son chi sono, e mi si deve portar rispetto.
CONTE: Chi ve lo perde il rispetto? Voi siete quello, che con troppa libertà parlando…
MARCHESE: Io sono in questa locanda, perché amo la locandiera. Tutti lo sanno, e tutti devono rispettare una giovane che piace a me.
CONTE: Oh, questa è bella! Voi mi vorreste impedire ch’io amassi Mirandolina? Perché credete ch’io sia in Firenze? Perché credete ch’io sia in questa locanda?
MARCHESE: Oh bene. Voi non farete niente.
CONTE: Io no e voi sì?
MARCHESE: Io sì e voi no. Io son chi sono. Mirandolina ha bisogno della mia protezione.
CONTE: Mirandolina ha bisogno di denari, e non di protezione.
MARCHESE: Denari?… non ne mancano.
CONTE: Io spendo uno zecchino il giorno, signor marchese, e la regalo continuamente.
MARCHESE: Ed io quel che fo non lo dico.
CONTE: Voi non lo dite, ma già si sa.
MARCHESE: Non si sa tutto.
CONTE: Sì, caro signor marchese, si sa. I camerieri lo dicono. Tre paoletti il giorno.
MARCHESE: A proposito di camerieri; vi è quel cameriere che ha nome Fabrizio, mi piace poco. Parmi che la locandiera lo guardi assai di buon occhio.
CONTE: Può essere che lo voglia sposare. Non sarebbe cosa mal fatta. Sono sei mesi che è morto il di lei padre. Sola una giovane alla testa di una locanda si troverà imbrogliata. Per me, se si marita, le ho promesso trecento scudi.
MARCHESE: Se si mariterà, io sono il suo protettore, e farò io… E so io quello che farò.
CONTE: Venite qui: facciamola da buoni amici. Diamole trecento scudi per uno.
MARCHESE: Quel ch’io faccio lo faccio segretamente, e non me ne vanto. Son chi sono. (chiama) Chi è la?
CONTE: (Spiantato! Povero e superbo!)

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Il marchese ed il conte in una rappresentazione a Città di Castello

E’ chiaro come qui Goldoni giochi a caratterizzare chi, secondo la tradizione, crede di potere avere tutto tramite il titolo nobiliare e viceversa la ricchezza che ha innalzato la borghesia all’aristocrazia, atteggiamento tipico di una classe che considera i  privilegi come un diritto, diritto che appunto l’illuminismo vuole combattere.

Chiuso all’interno di una passione, come d’altra parte lo sono il conte (la ricchezza) e il marchese (la nobiltà), è il cavaliere di Ripafratta di cui, nella scena che segue, viene rappresentata la sua “inattaccabile” misoginia:

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Il cavaliere di Ripafratta interpretato da Massimo Massaro 

  IL CAVALIERE MISOGINO

(il cavaliere di Ripafratta dalla sua camera, poi il marchese di Forlipopoli e il conte d’Albafiorita)

CAVALIERE: Amici, che cos’è questo romore? Vi è qualche dissensione fra di voi altri?
CONTE: Si disputava sopra un bellissimo punto.
MARCHESE: Il conte disputa meco sul merito della nobiltà. (ironico)
CONTE: Io non levo il merito alla nobiltà; ma sostengo, che per cavarci dai capricci, vogliono esser denari.
CAVALIEREVeramente, marchese mio…
MARCHESE: Orsù, parliamo d’altro.
CAVALIERE: Perché siete venuti a simil contesa?
CONTE: Per un motivo il più ridicolo della terra.
MARCHESE: Sì, bravo! Il conte mette tutto in ridicolo.
CONTE: Il signor marchese ama la nostra locandiera. Io l’amo ancor più di lui. Egli pretende corrispondenza, come un tributo alla sua nobiltà. Io la spero, come una ricompensa alle mie attenzioni. Pare a voi che la questione non sia ridicola?
MARCHESE: Bisogna sapere con quanto impegno io la proteggo.
CONTE: Egli la protegge, ed io spendo. (al cavaliere)
CAVALIERE: In verità non si può contendere per ragione alcuna che lo meriti meno. Una donna vi altera? Vi scompone? Una donna? Che cosa mai mi convien sentire! Una donna? Io certamente non vi è pericolo che per le donne abbia che dir con nessuno. Non le ho mai amate, non le ho mai stimate, e ho sempre creduto che sia la donna per l’uomo una infermità insopportabile.
MARCHESE: In quanto a questo poi, Mirandolina ha un merito estraordinario.
CONTE: Sin qua il signor marchese ha ragione. La nostra padroncina della locanda è veramente amabile.
MARCHESE: Quando l’amo io, potete credere che in lei vi sia qualche cosa di grande.
CAVALIERE: In verità mi fate ridere. Che mai può avere di stravagante costei, che non sia comune all’altre donne?
MARCHESE: Ha un tratto nobile, che incanta.
CONTE: E’ bella, parla bene, veste con pulizia, è di un ottimo gusto.
CAVALIERE: Tutte cose che non vagliono un fico. Sono tre giorni ch’io sono in questa locanda, e non mi ha fatto specie veruna.
CONTE: Guardatela, e forse ci troverete del buono.
CAVALIERE: Eh, pazzia! L’ho veduta benissimo. E’ una donna come l’altre.
MARCHESE: Non è come l’altre, ha qualche cosa di più. Io che ho praticate le prime dame, non ho trovato una donna che sappia unire, come questa, la gentilezza e il decoro.
CONTE: Cospetto di bacco! Io son sempre stato solito trattar donne: ne conosco li difetti ed il loro debole. Pure con costei, non ostante il mio lungo corteggio e le tante spese per essa fatte, non ho potuto toccarle un dito.
CAVALIERE: Arte, arte sopraffina. Poveri gonzi! Le credete, eh? A me non la farebbe. Donne? Alla larga tutte quante elle sono.
CONTE: Non siete mai stato innamorato?
CAVALIERE: Mai, né mai lo sarò. Hanno fatto il diavolo per darmi moglie, né mai l’ho voluta.
MARCHESE: Ma siete unico della vostra casa: non volete pensare alla successione?
CAVALIERE: Ci ho pensato più volte, ma quando considero che per aver figliuoli mi converrebbe soffrire una donna, mi passa subito la volontà.
CONTE: Che volete voi fare delle vostre ricchezze?
CAVALIERE: Godermi quel poco che ho con i miei amici.
MARCHESE: Bravo, cavaliere, bravo; ci goderemo.
CONTE: E alle donne non volete dar nulla?
CAVALIERE: Niente affatto. A me non ne mangiano sicuramente.
CONTE: Ecco la nostra padrona. Guardatela, se non è adorabile.
CAVALIERE: Oh, la bella cosa! Per me stimo più di lei quattro volte un bravo cane da caccia.
MARCHESE: Se non la stimate voi, la stimo io.
CAVALIERE: Ve la lascio, se fosse più bella di Venere.

La Locandiera di Carlo Goldoni Teatro di Cestello Firenze (Marchese di  Forlipopoli, Conte di Albafiorita, Cavaliere di Ripafratta e Fab… | Teatro,  Cestello, Firenze

Il marchese, il conte, il cavaliere e Fabrizio

L’atteggiamento del cavaliere solletica Mirandolina, che vuole vendicarsi della sua misoginia, facendolo innamorare.

MIRANDOLINA

MIRANDOLINA: Uh, che mai ha detto! L’eccellentissimo signor Marchese Arsura mi sposerebbe? Eppure, se mi volesse sposare, vi sarebbe una piccola difficoltà. Io non lo vorrei. Mi piace l’arrosto, e del fumo non so che farne. Se avessi sposati tutti quelli che hanno detto volermi, oh, avrei pure tanti mariti! Quanti arrivano a questa locanda, tutti di me s’innamorano, tutti mi fanno i cascamorti; e tanti e tanti mi esibiscono di sposarmi a dirittura. E questo signor Cavaliere, rustico come un orso, mi tratta si bruscamente? Questi è il primo forestiere capitato alla mia locanda, il quale non abbia avuto piacere trattare con me. Non dico che tutti in un salto s’abbiano a innamorare: ma disprezzarmi così? E’ una cosa che mi muove la bile terribilmente. E’ nemico delle donne? Non le può vedere? Povero pazzo! Non avrà ancora trovato quella che sappia fare. Ma la troverà. E chi sa che non l’abbia trovata? Con questi per l’appunto mi ci metto di picca. Quei che mi corrono dietro, presto presto mi annoiano. La nobiltà non fa per me. La ricchezza la stimo e non la stimo. Tutto il mio piacere consiste in vedermi servita, vagheggiata, adorata. Questa è la mia debolezza, e questa è la debolezza di quasi tutte le donne. A maritarmi non ci penso nemmeno; non ho bisogno di nessuno; vivo onestamente, e godo la mia libertà. Tratto con tutti, ma non m’innamoro mai di nessuno. Voglio burlarmi di tante caricature d’amanti spasimati; e voglio usar tutta l’arte per vincere, abbattere e conquassare quei cuori barbari e duri che son nemici di noi, che siamo la miglior cosa che abbia prodotto al mondo la bella madre natura.

Goldoni disegna col personaggio di Mirandolina un nuovo tipo di donna nel teatro comico italiano. Nella commedia dell’arte, infatti, le donne erano relegate in ruoli secondari; non dimentichiamo poi il ruolo che la “servetta” aveva in tal teatro; invece il nostro con Mirandolina rappresenta una donna borghese, che decide del suo futuro, che sa gestire la sua vita e che, con le armi “femminili”, vuole vendicarsi di un mondo per lei superato.

LE COMMEDIANTI E LA COMMEDIANTE

(Altra camera di locanda – Ortensia, Dejanira, Fabrizio.)

FABRIZIO: Che restino servite qui, illustrissime. Osservino quest’altra camera. Quella per dormire, e questa per mangiare, per ricevere, per servirsene come comandano.
ORTENSIA: Va bene, va bene. Siete voi padrone, o cameriere.
FABRIZIO: Cameriere, ai comandi di V. S. illustrissima.
DEJANIRA: (Ci dà delle illustrissime). (piano a Ortensia, ridendo)
ORTENSIA: (Bisogna secondare il lazzo). Cameriere?
FABRIZIO: Illustrissima.
ORTENSIA: Dite al padrone che venga qui, voglio parlar con lui per il trattamento.
FABRIZIO: Verrà la padrona; la servo subito. (Chi diamine saranno queste due signore così sole? All’aria, all’abito, paiono dame). (da sè, e parte)
(…)

(Mirandolina e dette).

DEJANIRA: Madama, voi mi adulate. (ad Ortensia, con caricatura)
ORTENSIA: Contessa, al vostro merito si converrebbe assai più. (fa lo stesso)
MIRANDOLINA: (Oh che dame cerimoniose!) (da sè, in disparte)
DEJANIRA: (Oh quanto mi vien da ridere!)
ORTENSIA: Zitto: è qui la padrona. (piano a Dejanira)
MIRANDOLINA: M’inchino a queste dame. Ortensia. Buon giorno, quella giovane.
DEJANIRA: Signora padrona, vi riverisco.(a Mirandolina)
ORTENSIA: Ehi! (fa cenno a Dejanìra, che si sostenga)
MIRANDOLINA: Permetta ch’io le baci la mano. (ad Ortensia)
ORTENSIA: Siete obbligante. (le dà la mano)
Dejanira ride da sè.
MIRANDOLINA: Anche ella, illustrissima. (chiede la mano a Dejanira)
DEJANIRA: Eh, non importa …
ORTENSIA: Via, gradite le finezze di questa giovane. Datele la mano.
MIRANDOLINA: La supplico.
DEJANIRA: Tenete. (le dà la mano, si volta, e ride)
MIRANDOLINA: Ride, illustrissima? Di che?
ORTENSIA: Che cara Contessa! Ride ancora di me. Ho detto uno sproposito, che l’ha fatta ridere.
MIRANDOLINA: (Io giuocherei che non sono dame. Se fossero dame, non sarebbero sole). (da sè)
ORTENSIA: Circa il trattamento, converrà poi discorrere (a Mirandolina)
MIRANDOLINA: Ma! Sono sole? Non hanno cavalieri, non hanno servitori, non hanno nessuno?
ORTENSIA: Il Barone mio marito …
DEJANIRA: (Ride forte.)
MIRANDOLINA: Perchè ride, signora? (a Dejanira)
ORTENSIA: Via, perchè ridete?
DEJANIRA: Rido del Barone di vostro marito.
ORTENSIA: Sì, è un cavaliere giocoso: dice sempre delle barzellette; verrà quanto prima col conte Orazio, marito della Contessina.
DEJANIRA: (Fa forza per trattenersi da ridere.)
MIRANDOLINA: La fa ridere anche il signor Conte?(a Dejanira)
ORTENSIA: Ma via, Contessina, tenetevi un poco nel vostro decoro.
MIRANDOLINA: Signore mie, favoriscano in grazia. Siamo sole, nessuno ci sente. Questa contea, questa baronia, sarebbe mai …
ORTENSIA: Che cosa vorreste voi dire? Mettereste in dubbio la nostra nobiltà?
MIRANDOLINA: Perdoni, illustrissima, non si riscaldi, perchè farà ridere la signora Contessa.
DEJANIRA: Eh via, che serve?
ORTENSIA: Contessa, Contessa! (minacciandola)
MIRANDOLINA: Io so che cosa voleva dire, illustrissima (a Dejanira)
DEJANIRA: Se l’indovinate, vi stimo assai.
MIRANDOLINA: Voleva dire: Che serve che fingiamo d’esser due dame, se siamo due pedine? Ah! non è vero?
DEJANIRA: E che sì che ci conoscete? (a Mirandolina)
ORTENSIA: Che brava commediante! Non è buona da sostenere un carattere.
DEJANIRA: Fuori di scena io non so fingere.
MIRANDOLINA: Brava, signora Baronessa; mi piace il di lei spirito. Lodo la sua franchezza.
ORTENSIA: Qualche volta mi prendo un poco di spasso.
MIRANDOLINA: Ed io amo infinitamente le persone di spirito. Servitevi pure nella mia locanda, che siete padrone; ma vi prego bene, se mi capitassero persone di rango, cedermi quest’apparrtamento, ch’io vi darò dei camerini assai comodi.
DEJANIRA: Sì, volentieri.
ORTENSIA: Ma io, quando spendo il mio denaro, intendo volere esser servita come una dama, e in questo appartamento ci sono, e non me ne anderò.
MIRANDOLINA: Via, signora Baronessa, sia buona … Oh! Ecco un cavaliere che è alloggiato in questa locanda. Quando vede donne, sempre si caccia avanti.
ORTENSIA: È ricco?
MIRANDOLINA: Io non so i fatti suoi.

8e036bff1965f4e3be3ad5a2a63f91d5.jpgOrtensia e Dejanira

Sembra che l’intervento di questi due personaggi all’interno della commedia sia quasi di contorno e che abbia in sé quello di riaffermare i “caratteri dei protagonisti” (nella parte non riportata vediamo come ad esse accorrono il conte ed il marchese, mentre il cavaliere le tratta con disprezzo). Tuttavia esse rappresentano qualcosa in più. In primo luogo esse “fingono” di essere, esattamente come un qualsiasi attore finge una parte. Per meglio dire esse recitano la parte di gran dame, ma tale recita è talmente goffa e non veritiera che è soltanto il vecchio mondo, abituato ad una recitazione sopra le righe, a non  accorgersi del loro inganno. Mirandolina è un’attrice più scaltra: lei sa “fingere” con i suoi “spasimanti”, riesce a rivestire la parte della donna un po’ civettuola, quando serve, (non per niente suscita la gelosia di Fabrizio), ma sa anche smascherare una recitazione pedestre. Per questo, in questo caso si è parlato di metateatro: è come se Goldoni abbia voluto mettere in contrapposizione la vecchia commedia dell’arte con la sua commedia di carattere.  

MIRANDOLINA E IL CAVALIERE

(Mirandolina colla biancheria e il cavaliere di Ripafratta)

MIRANDOLINA: (entrando con qualche soggezione) Permette, illustrissimo?
CAVALIERE: (con asprezza) Che cosa volete?
MIRANDOLINA: (s’avanza un poco) Ecco qui della biancheria migliore.
CAVALIERE: (accenna il tavolino) Bene. Mettetela lì.
MIRANDOLINA: La supplico almeno di degnarsi vedere se è di suo genio.
CAVALIERE: Che roba è?
MIRANDOLINA: (s’avanza ancor di più) Le lenzuola sono di Rensa.
CAVALIERE: Rensa?
MIRANDOLINA: Sì signore, dieci paoli al braccio. Osservi.
CAVALIERE: Non pretendevo tanto. Bastavami qualche cosa meglio di quel che mi avete dato.
MIRANDOLINA: Questa biancheria l’ho fatta per personaggi di merito: per quelli che la sanno conoscere; e in verità, illustrissimo, la do per esser lei, ad un altro non la darei.
CAVALIERE: “Per esser lei!” Solito complimento.
MIRANDOLINA: Osservi il servizio di tavola.
CAVALIERE: Oh! queste tele di Fiandra, quando si lavano perdono assai. Non vi è bisogno che le insudiciate per me.
MIRANDOLINA: Per un cavaliere della sua qualità, non guardo a queste piccole cose. Di queste salviette ne ho parecchie, e le serberò per V.S. illustrissima.
CAVALIERE: (da sé) Non si può però negare, che costei sia una donna obbligante.
MIRANDOLINA: (da sé) Veramente ha una faccia burbera da non piacergli le donne.
CAVALIERE: Date la mia biancheria al mio cameriere, o ponetela lì, in qualche luogo. Non vi è bisogno che v’incomodiate per questo.
MIRANDOLINA: Oh, io non m’incomodo mai, quando servo cavaliere di sì alto merito.
CAVALIERE: Bene, bene, non occorr’altro. (da sé) Costei vorrebbe adularmi. Donne, tutte così!
MIRANDOLINA: La metterò nell’arcova.
CAVALIERE: (con serietà) Sì, dove volete.
MIRANDOLINA: (da sé; va a riporre la biancheria) Oh! vi è del duro. Ho paura di non far niente.
CAVALIERE: (da sé) I gonzi sentono queste belle parole, credono a chi le dice, e cascano.
MIRANDOLINA: (ritornando senza la biancheria) A pranzo, che cosa comanda?
CAVALIERE: Mangerò quello che vi sarà.
MIRANDOLINA: Vorrei pur sapere il suo genio. Se le piace una cosa più dell’altra, lo dica al cameriere.
CAVALIERE: Se vorrò qualche cosa, lo dirò al cameriere.
MIRANDOLINA: Ma in queste cose gli uomini non hanno l’attenzione e la pazienza che abbiamo noi altre donne. Se le piacesse qualche intingoletto, qualche salsetta, favorisca di dirlo a me.
CAVALIERE: Vi ringrazio: ma né anche per questo verso vi riuscirà di far con me quello che avete fatto col conte e col marchese.
MIRANDOLINA: Che dice della debolezza di quei due cavalieri? Vengono alla locanda per alloggiare, e pretendono poi di voler fare all’amore colla locandiera. Abbiamo altro in testa noi, che dar retta alle loro ciarle. Cerchiamo di fare il nostro interesse; se diamo loro delle buone parole, lo facciamo per tenerli a bottega; e poi, io principalmente, quando vedo che si lusingano, rido come una pazza.
CAVALIERE: Brava! Mi piace la vostra sincerità.
MIRANDOLINA: Oh! non ho altro di buono, che la sincerità.
CAVALIERE: Ma però, con chi vi fa la corte, sapete fingere.
MIRANDOLINA: Io fingere? Guardimi il cielo. Domandi un poco a quei due signori che fanno gli spasimati per me, se mai ho dato loro un segno d’affetto. Se ho mai scherzato con loro in maniera che si potessero lusingare con fondamento. Non li strapazzo, perché il mio interesse non lo vuole, ma poco meno. Questi uomini effeminati non li posso vedere. Sì come abborrisco anche le donne, che corrono dietro agli uomini. Vede? Io non sono una ragazza. Ho qualche annetto; non son bella, ma ho avute delle buone occasioni; eppure non ho mai voluto maritarmi, perché stimo infinitamente la mia libertà.
CAVALIERE: Oh sì, la libertà è un gran tesoro.
MIRANDOLINA: E tanti la perdono scioccamente.
CAVALIERE: So ben io quel che faccio. Alla larga.
MIRANDOLINA: Ha moglie V.S. illustrissima?
CAVALIERE: Il cielo me ne liberi. Non voglio donne.
MIRANDOLINA: Bravissimo. Si conservi sempre così. Le donne, signore… Basta, a me non tocca a dirne male.
CAVALIERE: Voi siete per altro la prima donna, ch’io senta parlar così.
MIRANDOLINA: Le dirò: noi altre locandiere vediamo e sentiamo delle cose assai; e in verità compatisco quegli uomini che hanno paura del nostro sesso.
CAVALIERE: (da sé) E’ curiosa costei.
MIRANDOLINA: Con permissione di V.S. illustrissima (finge voler partire)
CAVALIERE: Avete premura di partire?
MIRANDOLINA: Non vorrei esserle importuna.
CAVALIERE: No, mi fate piacere; mi divertite.
MIRANDOLINA: Vede, signore? Così fo con gli altri. Mi trattengo qualche momento; sono piuttosto allegra, dico delle barzellette per divertirli, ed essi subito credono… Se la m’intende, e’ mi fanno i cascamorti.
CAVALIERE: Questo accade, perché avete buona maniera.
MIRANDOLINA: (con una riverenza) Troppa bontà, illustrissimo.
CAVALIERE: Ed essi s’innamorano.
MIRANDOLINA: Guardi che debolezza! Innamorarsi subito di una donna!
CAVALIERE: Questa io non l’ho mai potuta capire.
MIRANDOLINA: Bella fortezza! Bella virilità!
CAVALIERE: Debolezze! Miserie umane!
MIRANDOLINA: Questo è il vero pensare degli uomini. Signor cavaliere, mi porga la mano.
CAVALIERE: Perché volete ch’io vi porga la mano?
MIRANDOLINA: Favorisca; si degni; osservi, sono pulita.
CAVALIERE: Ecco la mano.
MIRANDOLINA: Questa è la prima volta, che ho l’onore d’aver per la mano un uomo, che pensa veramente da uomo.
CAVALIERE: (ritira la mano) Via, basta così.
MIRANDOLINA: Ecco. Se io avessi preso per la mano uno di que’ due signori sguaiati, avrebbe tosto creduto ch’io spasimassi per lui. Sarebbe andato in deliquio. Non darei loro una semplice libertà, per tutto l’oro del mondo. Non sanno vivere. Oh benedetto il conversare alla libera! senza attacchi, senza malizia, senza tante ridicole scioccherie. Illustrissimo, perdoni la mia impertinenza. Dove posso servirla, mi comandi con autorità, e avrò per lei quell’attenzione, che non ho mai avuto per alcuna persona di questo mondo.
CAVALIERE: Per qual motivo avete tanta parzialità per me?
MIRANDOLINA: Perché, oltre il suo merito, oltre la sua condizione, sono almeno sicura che con lei posso trattare con libertà, senza sospetto che voglia fare cattivo uso delle mie attenzioni, e che mi tenga in qualità di serva, senza tormentarmi con pretensioni ridicole, con caricature affettate.
CAVALIERE: (da sé) Che diavolo ha costei di stravagante, ch’io non capisco.
MIRANDOLINA: (da sé) Il satiro si anderà a poco a poco addomesticando.
CAVALIERE: Orsù, se avete da badare alle vostre cose, non restate per me.
MIRANDOLINA: Sì signore, vado ad attendere alle vicende di casa. Queste sono i miei amori, i miei passatempi. Se comanderà qualche cosa, manderò il cameriere.
CAVALIERE: Bene… Se qualche volta verrete anche voi, vi vedrò volentieri.
MIRANDOLINA: Io veramente non vado mai nelle camere dei forestieri, ma da lei ci verrò qualche volta.
CAVALIERE: Da me… Perché?
MIRANDOLINA: Perché, illustrissimo signore, ella mi piace assaissimo.
CAVALIERE: Vi piaccio io?
MIRANDOLINA: Mi piace, perché non è effeminato, perché non è di quelli che s’innamorano. (da sé) Mi caschi il naso, se avanti domani non l’innamoro. (parte)

(il cavaliere solo)

CAVALIERE: Eh! So io quel che fo. Colle donne? Alla larga. Costei sarebbe una di quelle che potrebbero farmi cascare più delle altre. Quella verità, quella scioltezza di dire, è cosa poco comune. Ha un so che di estraordinario; ma non per questo mi lascerei innamorare. Per un poco di divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un’altra. Ma per far all’amore? Per perdere la libertà? Non vi è pericolo. Pazzi, pazzi quelli che s’innamorano delle donne. (parte)

Teatro, amore mio”: “La Locandiera” di Carlo Goldoni • Prima Pagina Mazara

Mirandolina e il cavaliere di Ripafratta

La pagina qui presentata è un capolavoro nel cogliere la psicologia femminile: Mirandolina riesce a colpire l’antagonista nei sui punti deboli, facendolo a poco a poco cadere. E’ la femminilità offesa che si vendica, ma è anche la descrizione della nuova donna nella società dinamica del Settecento, la versante femminile dell’ideologia “borghese” che l’illuminismo stava diffondendo. Eppure anche lei presenta, pur nella sua estrema capacità, anzi si potrebbe dire grazie ad essa, alcune caratteristiche che ne fanno un personaggio assolutamente ambiguo: ama essere corteggiata, grazie a questo riceve – e non rifiuta mai – doni; tratta con durezza Fabrizio, il suo cameriere, di cui ha bisogno per essere protetta in caso di difficoltà, ma di cui si servirà per sistemare la sua vita. Infatti, proprio nel momento in cui il cavaliere dichiarerà il suo amore, annuncerà il matrimonio con lui. In tal modo Goldoni chiuderà il cerchio: rispetterà le differenze di classe, ma la classe emergente merita tutto il rispetto del nostro autore.

“La locandiera” di Amanda Sandrelli

La locandiera, non solo rappresenta uno dei punti più alti del teatro goldoniano, ma anche una certa fiducia nella classe borghese, qui rappresentata dall’imprenditrice Mirandolina. A ben guardare ad essere sconfitta è proprio l’aristocrazia, qui articolata in due figure ben disegnate, quella del conte (borghese arricchito che, comprato il titolo nobiliare ne ha assunto atteggiamenti e ricchezza) e quella del marchese (antica aristoctazia cui il benessere economico è andato perduto, così come è andata perduta la sua forza propulsiva per la città lagunare). Rimane il cavaliere, il misogino, forse il nobile “maggiormente normale” – d’altra parte la sua figura è ripresa da un personaggio reale, conosciuto da Goldoni – la cui normalità, tuttavia, si colora di prepotenza, il signore cui tutto è dovuto, quando è richiesto a chi è socialmente inferiore. La “vendetta” di Mirandolina è la  vendetta appunto della borghesia, fattiva, intraprendente, capace di guardare al suo, di contro ad un mondo ormai al tramonto, fatto dio cortesia affettata o di indisponenza. 

Terza fase (1753-1759)

Di fronte a una sempre maggiore concorrenza, e a una certa stanchezza che il suo teatro sembra mostrare, Goldoni deve cercare di recuperare il successo entrando nel terreno stesso dei suoi avversari. Infatti costoro, per avere successo, cercavano sempre più di uscire da un “realismo” piccolo borghese, mostrando scenari esotici e capaci di far sognare. E’ il momento che anche Goldoni scrive Il filosofo inglese o La sposa persiana. Eppure in questi testi troviamo una perfetta adesione dell’autore all’ideologia illuminista. Tuttavia la non riuscita di tali commedie sta proprio nella preminenza dell’ideologia sulla scrittura teatrale. Nascono anche alcuni personaggi che cominciano a mostrare un certo ripiegamento goldoniano, come Il vecchio bizzarro o La donna bizzarra. Ma tuttavia il capolavoro di questa fase sembra essere Il Campiello, commedia realista, dove si mostra una piazza veneziana e donne intente a presentare ragazze di marito.

Quarta fase (1759-1762)

E’ il periodo dei capolavori di Goldoni. Si ricordano tra questi I rusteghi, storie di quattro vecchi brontoloni che saranno sconfitti dalla vitalità della gioventù, o La trilogia della villeggiatura, dove il nostro mette in scena il cambiamento sociale avvenuto nel ripiegamento economico della città lagunare.

La trilogia della villeggiatura (chiamata così in età contemporanea) è composta da tre commedie: La smania della villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura.

Filippo con la figlia Giacinta e Leonardo con la sorella Vittoria si preparano a partire per la villeggiatura. Innamorato di Giacinta, Leonardo spera di poter viaggiare nella sua carrozza, ma Filippo ha già invitato Guglielmo, altro spasimante della ragazza. Gelosie e ripicche stanno per compromettere le vacanze, quando il vecchio Fulgenzio appiana i contrasti e Leonardo si fidanza con Giacinta. La vicenda si complica ne Le avventure della villeggiatura e Il ritorno dalla villeggiatura. Giacinta scopre di amare Guglielmo e la sua storia patetica s’intreccia con quella comica della vecchia zia Sabina, incapricciatasi di Ferdinando, un pettegolo scroccone. Intanto Leonardo va in rovina per debiti e la ragazza, impietosita, decide di salvarlo, sposandolo e portando la sua dote: partiranno insieme per Genova, mentre Guglielmo sarà consolato dall’affetto di Vittoria.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è trilogia-della-villeggiatura-locandina.jpegLocandina dello spettacolo teatrale con la regia di Tony Servillo (2007)

FILIPPO E FULGENZIO

FILIPPO: Gran cosa di queste ragazze! Quel giorno che hanno  d’andar in campagna, non sanno quel che si facciano, non sanno quel che si dicano, sono fuori di lor medesime.
FULGENZIO: Buon giorno, signor Filippo.
FILIPPO: Riverisco il mio carissimo signor Fulgenzio. Che buon vento vi conduce da queste parti?
FULGENZIO: La buona amicizia, il desiderio di rivedervi prima che andiate in villa, e di potervi dare il buon viaggio.
FILIPPO: Son obbligato al vostro amore, alla vostra cordialità, e mi fareste una gran finezza, se vi compiaceste di venir con me.
FULGENZIO: No, caro amico, vi ringrazio. Sono stato in campagna alla raccolta del grano, ci sono stato alla semina, sono tornato per le biade minute, e ci anderò per il vino. Ma son solito di andar solo, e d  starvi quanto esigono i miei interessi, e non più.
FILIPPO: Circa agl’interessi della campagna, poco più, poco meno, ci abbado anch’io, ma solo non ci posso stare. Amo la compagnia, ed ho piacere nel tempo medesimo di agire, e di divertirmi.
FULGENZIO: Benissimo, ottimamente. Dee ciascuno operare secondo la sua inclinazione. Io amo star solo, ma non disapprovo chi ama la compagnia. Quando però la compagnia sia buona, sia conveniente, e non dia ocasione al mondo di mormorare.
FILIPPO: Me lo dite in certa maniera, signor Fulgenzio, che pare abbiate intenzione di dare a me delle staffilate.
FULGENZIO: Caro amico, noi siamo amici da tanti anni. Sapete se vi ho sempre amato, se nelle occasioni vi ho dati dei segni di cordialità.
FILIPPO: Sì, me ne ricordo, e ve ne sarò grato fino ch’io viva. Quando ho avuto bisogno di denari, me ne avete sempre somministrato senz’alcuna difficoltà. Ve li ho per altro restituiti, e i mille scudi che l’altro giorno mi avete prestati, li avrete, come mi sono impegnato, da qui a tre mesi.
FULGENZIO: Di ciò son sicurissimo, e prestar mille scudi ad un galantuomo, io lo calcolo un servizio da nulla. Ma permettetemi che io vi dica un’osservazione che ho fatta. Io veggo che voi venite a domandarmi denaro in prestito quasi ogni anno, quando siete vicino alla villeggiatura. Segno evidente che la villeggiatura v’incomoda; ed è un peccato che un galantuomo, un benestante come voi siete, che ha il suo bisogno per il suo mantenimento, s’incomodi e domandi denari inprestito per ispenderli malamente. Sì, signore, per ispenderli malamente, perché le  persone medesime che vengono a mangiare il vostro, sono le prime a dir male di voi, e fra quelli che voi trattate amorosamente, vi è qualcheduno che pregiudica al vostro decoro ed alla vostra riputazione.
FILIPPO: Cospetto! voi mi mettete in un’agitazione grandissima. Rispetto allo spendere qualche cosa di più, e farmi mangiare il mio malamente, ve l’accordo, è vero, ma sono avvezzato così, e finalmente non ho che una sola figlia. Posso darle una buona dote, e mi resta da viver bene fino ch’io campo. Mi fa specie che voi diciate, che vi è chi pregiudica al mio decoro, alla mia riputazione. Come potete dirlo, signor Fulgenzio?
FULGENZIO: Lo  dico con fondamento, e lo dico appunto, riflettendo che avete una figliuola da maritare. Io so che vi è persona che la vorrebbe per moglie, e non ardisce di domandarvela, perché voi la lasciate troppo addomesticar colla gioventù, e non avete riguardo di  ammettere zerbinotti in casa, e fino di accompagnarli in viaggio con essolei.
FILIPPO: Volete voi dire del signor Guglielmo?
FULGENZIO: Io dico di tutti e non voglio dir di nessuno.
FILIPPO: Se parlaste del signor Guglielmo, vi accerto che è un giovane il più savio, il più dabbene del mondo.
FULGENZIO: Ella è giovane.
FILIPPO: E mia figlia è una fanciulla prudente.
FULGENZIO: Ella è donna.
FILIPPO: E vi è mia sorella, donna attempata…
FULGENZIO: E vi sono delle vecchie più pazze assai delle giovani.
FILIPPO: Era venuto anche a me qualche dubbio su tal proposito, ma ho pensato poi, che tanti altri si conducono nella stessa maniera…
FULGENZIO: Caro amico, de’ casi ne avete mai veduti a succedere? Tutti quelli che si conducono come voi dite, si sono poi trovati della loro condotta contenti?
FILIPPO: Per dire la verità, chi sì e chi no.
FULGENZIO: E voi siete sicuro del sì? Non potete dubitare del no?
FILIPPO: Voi mi mettete delle pulci nel capo. Non veggo l’ora di liberarmi di questa figlia. Caro amico, e chi è quegli che dite voi, che la vorrebbe in consorte?
FULGENZIO: Per ora non posso dirvelo.
FILIPPO: Ma perché?
FULGENZIO: Perché per ora non vuol essere nominato. Regolatevi diversamente, e si spiegherà.
FILIPPO: E che cosa dovrei fare? Tralasciar d’andare in campagna? È impossibile; son troppo avvezzo.
FULGENZIO: Che bisogno c’è, che vi conduciate la figlia?
FILIPPO: Cospetto di bacco! se non la conducessi, ci sarebbe il diavolo in casa.
FULGENZIO: Vostra figlia dunque può dire anch’ella la sua ragione.
FILIPPO: L’ha sempre detta.
FULGENZIO: E di chi è la colpa?
FILIPPO: È mia, lo confesso, la colpa è mia. Ma son di buon cuore.
FULGENZIO: Il troppo buon cuore del padre fa essere di cattivo cuore le figlie.
FILIPPO: E che vi ho da fare presentemente?
FULGENZIO: Un poco di buona regola. Se non in tutto, in parte. Staccatele dal fianco la gioventù.
FILIPPO: Se sapessi come fare a liberarmi dal signor Guglielmo!
FULGENZIO: Alle corte: questo signor Guglielmo vuol essere il suo malanno. Per causa sua il galantuomo che la vorrebbe, non si dichiara. Il partito è buono, e se volete che se ne parli, e che si tratti, fate a buon conto che non si veda questa mostruosità, che una figliuola abbia da comandar più del padre.
FILIPPO: Ma ella in ciò non ne ha parte alcuna. Sono stato io che l’ha invitato a venire.
FULGENZIO: Tanto meglio. Licenziatelo.
FILIPPO: Tanto peggio; non so come licenziarlo.
FULGENZIO: Siete uomo, o che cosa siete?
FILIPPO: Quando si tratta di far malegrazie, io non so come fare.
FULGENZIO: Badate che non facciano a voi delle malegrazie che puzzino.
FILIPPO: Orsù, bisognerà, ch’io lo faccia.
FULGENZIO: Fatelo, che ve ne chiamerete contento.
FILIPPO: Potreste ben farmi la confidenza di dirmi chi sia l’amico che aspira alla mia figliuola.
FULGENZIO: Per ora non posso, compatitemi. Deggio andare per un affare di premura.
FILIPPO: Accomodatevi, come vi pare.
FULGENZIO: Scusatemi della libertà, che mi ho preso.
FILIPPO: Anzi vi ho tutta l’obbligazione.
FULGENZIO: A buon rivederci.
FILIPPO: Mi raccomando alla grazia vostra.
FULGENZIO: (Credo di aver ben servito il signor Leonardo. Ma ho inteso di servire alla verità, alla ragione, all’interesse e al decoro dell’amico Filippo). (Parte.)

Tratto dalla prima delle commedie della villeggiatura, mostra due tipologie di uomini proprietari di ville (villeggiare, andare in villa, trascorrere del tempo nella residenza campagnola). Fulgenzio ha con la campagna un rapporto di tipo economico, vi si reca per la semina del grano, per il raccolto e la vendemmia, potremo, con una parola sola, dire che il suo rapporto con la campagna è di tipo economico; Filippo viceversa è colui che in campagna segue “più o meno i lavori”, le piace la compagnia, si accompagna con la figlia per farla divertire, invita ed è invitato ai piaceri della mensa. Se il primo, potremo dire, segue un’etica “tradizionale” del possedere terreni, il secondo rovescia tale etica e l’andare in campagna diventa distintivo di un modo di fare a cui un tempo la nobiltà e ora la ricca borghesia non poteva fare a meno, e se per farlo si prendono denari in prestito, non importa: l’importante è “farsi vedere”.

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L’ABITO DELL’INVIDIA

GIACINTA: È ambiziosissima. Se vede qualche cosa di nuovo ad una persona, subito le vien la voglia d’averla.  Avrà  saputo, ch’io  mi ho fatto il vestito nuovo, e l’ha voluto ella pure. Ma non avrà penetrato del mariage. Non l’ho detto a nessuno; non avrà avuto tempo a saperlo.
VITTORIA: Giacintina, amica mia carissima.
GIACINTA: Buon dì, la mia cara gioia. (Si baciano.)
VITTORIA: Che dite eh? È una bell’ora questa da incomodarvi?
GIACINTA: Oh! incomodarmi? Quando vi ho sentita venire, mi si è allargato il core d’allegrezza.
VITTORIA: Come state? State bene?
GIACINTA: Benissimo. E voi? Ma è superfluo il domandarvi: siete grassa e fresca, il cielo vi benedica, che consolate.
VITTORIA: Voi, voi avete una ciera che innamora.
GIACINTA: Oh! cosa dite mai? Sono levata questa mattina per tempo, non ho dormito, mi duole lo stomaco, mi duole il capo, figurarsi che buona ciera ch’io posso avere.
VITTORIA: Ed io non so cosa m’abbia, sono tanti giorni che non mangio niente; niente, niente, si può dir quasi niente. Io non so di che viva, dovrei essere come uno stecco.
GIACINTA: Sì, sì, come uno stecco! Questi bracciotti non sono stecchi.
VITTORIA: Eh! a voi non vi si contano l’ossa.
GIACINTA: No, poi. Per grazia del cielo, ho il mio bisognetto.
VITTORIA: Oh cara la mia Giacinta!
GIACINTA: Oh benedetta la mia Vittorina! (Si baciano.) Sedete, gioia; via sedete.
VITTORIA: Aveva tanta voglia di vedervi. Ma voi non vi degnate mai di venir da me.

(Siedono.)

GIACINTA: Oh! caro il mio bene, non vado in nessun loco. Sto sempre in casa.
VITTORIA: E io? Esco un pochino la festa, e poi sempre in casa.
GIACINTA: Io non so come facciano quelle che vanno tutto il giorno a girone per la città.
VITTORIA: (Vorrei pur sapere se va o se non va a Montenero, ma non so come fare).
GIACINTA: (Mi fa specie, che non mi parla niente della campagna).
VITTORIA: È molto che non vedete mio fratello?
GIACINTA: L’ho veduto questa mattina.
VITTORIA: Non so cos’abbia. È inquieto, è fastidioso.
GIACINTA: Eh! non lo sapete? Tutti abbiamo le nostre ore buone e le nostre ore cattive.
VITTORIA: Credeva quasi che avesse gridato con voi.
GIACINTA: Con me? Perché ha da gridare con me? Lo stimo e lo venero, ma egli non è ancora in grado di poter gridare con me. (Ci gioco io, che l’ha mandata qui suo fratello).
VITTORIA: (È superba quanto un demonio).
GIACINTA: Vittorina, volete restar a pranzo con noi?
VITTORIA: Oh! no, vita mia, non posso. Mio fratello mi aspetta.
GIACINTA: Glielo manderemo a dire.
VITTORIA: No, no assolutamente non posso.
GIACINTA: Se volete favorire, or ora qui da noi si dà in tavola.
VITTORIA: (Ho capito. Mi vuol mandar via). Così presto andate a desinare?
GIACINTA: Vedete bene. Si va in campagna, si parte presto, bisogna sollecitare.
VITTORIA: (Ah! maledetta la mia disgrazia).
GIACINTA: M’ho da cambiar di tutto, m’ho da vestire da viaggio.
VITTORIA: Sì, sì, è vero; ci sarà della polvere. Non torna il conto rovinare un abito buono. (Mortificata.)
GIACINTA: Oh! in quanto a questo poi, me ne metterò uno meglio di questo. Della polvere non ho  paura. Mi ho fatto una sopravveste di cambellotto di seta col suo capuccietto, che non vi è pericolo che la polvere mi dia fastidio.
VITTORIA: (Anche la sopravveste col capuccietto! La voglio anch’io, se dovessi vendere de’ miei vestiti).
GIACINTA: Voi non l’avete la sopravveste col capuccietto?
VITTORIA: Sì, sì, ce l’ho ancor io; me l’ho fatta fin dall’anno passato.
GIACINTA: Non ve l’ho veduta l’anno passato.
VITTORIA: Non l’ho portata, perché, se vi ricordate, non c’era polvere.
GIACINTA: Sì, sì, non c’era polvere. (È propriamente ridicola).
VITTORIA: Quest’anno mi ho fatto un abito.
GIACINTA: Oh! io me ne ho fatto un bello.
VITTORIA: Vedrete il mio, che non vi dispiacerà.
GIACINTA: In materia di questo, vedrete qualche cosa di particolare.
VITTORIA: Nel mio non vi è né oro, né argento, ma per dir la verità, è stupendo.
GIACINTA: Oh! moda, moda. Vuol esser moda.
VITTORIA: Oh! circa la moda, il mio non si può dir che non sia alla moda.
GIACINTA: Sì, sì, sarà alla moda. (Sogghignando.)
VITTORIA: Non lo credete?
GIACINTA: Sì, lo credo. (Vuol restare quando vede il mio mariage).
VITTORIA: In materia di mode poi, credo di essere stata sempre io delle prime.
GIACINTA: E che cos’è il vostro abito?
VITTORIA: È un mariage.
GIACINTA: Mariage! (Maravigliandosi.)
VITTORIA: Sì, certo. Vi par che non sia alla moda?
GIACINTA: Come avete voi saputo, che sia venuta di Francia la moda del mariage?
VITTORIA: Probabilmente, come l’avrete saputo anche voi.
GIACINTA: Chi ve l’ha fatto?
VITTORIA: Il sarto francese monsieur de la Réjouissance.
GIACINTA: Ora ho capito. Briccone! Me la pagherà.  Io l’ho  mandato a chiamare. Io gli ho dato la moda del mariage. Io che aveva in casa l’abito di madama Granon.
VITTORIA: Oh! madama Granon è stata da me a farmi visita il secondo giorno che è arrivata a Livorno.
GIACINTA: Sì, sì, scusatelo. Me l’ha da pagare senza altro.
VITTORIA: Vi spiace, ch’io abbia il mariage?
GIACINTA: Oibò, ci ho gusto.
VITTORIA: Volevate averlo voi sola?
GIACINTA: Perché? Credete voi, ch’io sia una fanciulla invidiosa? Credo che lo sappiate, che io non invidio nessuno. Bado a me, mi faccio quel che mi pare, e lascio che gli altri facciano quel che vogliono. Ogni anno un abito nuovo certo. E voglio esser servita subito, e servita bene, perché pago, pago puntualmente, e il sarto non lo faccio tornare più d’una volta.
VITTORIA: Io credo che tutte paghino.
GIACINTA: No, tutte non pagano. Tutte non hanno il modo, o la delicatezza  che  abbiamo noi. Vi sono di quelle che fanno aspettare degli anni, e poi se hanno qualche premura, il sarto s’impunta. Vuole  i danari sul fatto, e nascono delle baruffe. (Prendi questa, e sappiatemi dir se è alla moda).
VITTORIA: (Non crederei, che parlasse di me. Se potessi credere che il sarto avesse parlato, lo vorrei trattar, come merita).
GIACINTA: E quando ve lo metterete questo bell’abito?
VITTORIA: Non so, può essere, che non me lo metta nemeno. Io son così; mi basta d’aver la roba, ma non mi curo poi di sfoggiarla.
GIACINTA: Se andate in campagna, sarebbe quella l’occasione di metterlo. Peccato, poverina, che non ci andiate in quest’anno!
VITTORIA: Chi v’ha detto che io non ci vada?
GIACINTA: Non so: il signor Leonardo ha mandato a licenziar i cavalli.
VITTORIA: E per questo? Non si può risolvere da un momento all’altro? E lo credete che non possa andare senza di lui? Credete ch’io non abbia delle amiche, delle parenti da poter andare?
GIACINTA: Volete venire con me?
VITTORIA: No, no, vi ringrazio.
GIACINTA: Davvero, vi vedrei tanto volentieri.
VITTORIA: Vi dirò, se posso ridurre una mia cugina a  venire con me a Montenero, può essere che ci vediamo.
GIACINTA: Oh! che l’avrei tanto a caro.
VITTORIA: A che ora partite?
GIACINTA: A ventun’ora.
VITTORIA: Oh! dunque c’è tempo. Posso trattenermi qui ancora un  poco. (Vorrei vedere questo abito, se potessi).
GIACINTA: Sì, sì, ho capito. Aspettate un poco. (Verso la scena.)
VITTORIA: Se avete qualche cosa da fare, servitevi.
GIACINTA: Eh! niente. M’hanno detto che il pranzo è all’ordine, e che mio padre vuol desinare.
VITTORIA: Partirò dunque.
GIACINTA: No, no, se volete restare, restate.
VITTORIA: Non vorrei che il vostro signor padre si avesse a inquietare.
GIACINTA: Per verità, è fastidioso un poco.
VITTORIA: Vi leverò l’incomodo. (S’alza.)
GIACINTA: Se volete restar con noi, mi farete piacere. (S’alza.)
VITTORIA: (Quasi, quasi, ci resterei, per la curiosità di quest’abito).
GIACINTA: Ho inteso; non vedete? Abbiate creanza. (Verso la scena.)
VITTORIA: Con chi parlate?
GIACINTA: Col servitore che mi sollecita. Non hanno niente di civiltà costoro.
VITTORIA: Io non ho veduto nessuno.
GIACINTA: Eh, l’ho ben veduto io.
VITTORIA: (Ho capito). Signora Giacinta, a buon rivederci.
GIACINTA: Addio, cara. Vogliatemi bene, ch’io vi assicuro che ve ne voglio.
VITTORIA: Siate certa, che siete corrisposta di cuore.
GIACINTA: Un bacio almeno.
VITTORIA: Sì, vita mia.
GIACINTA: Cara la mia gioia. (Si baciano.)
VITTORIA: Addio.
GIACINTA: Addio.
VITTORIA: (Faccio de’ sforzi a fingere, che mi sento crepare). (Parte.)
GIACINTA: Le donne invidiose io non le posso soffrire. (Parte.)

Pagina magistrale di Goldoni che, al di là del suo significato metaforico, mostra una grandissima capacità nel mostrare:

  1. la descrizione di una società completamente votata all’apparire;
  2. Il destino femminile teso soltanto al matrimonio; “mariage” in francese significa appunto “matrimonio”; per le ragazze di buona famiglia il destino è quello di diventare mogli e madri, ma per far ciò è necessario “apparire”, per far in modo che, foss’anche con un abito alla moda, si possa mostrare le possibilità economiche di una futura sposa;
  3. La capacità delle due donne di “dirsi” e non “dirsi” attraverso un dialogo estremamente fitto in cui valgono di più gli a parte che le parole pronunciate; è evidente che l’importante “non detto” sveli l’incredibile ipocrisia che sottende l’intero brano.

Anche qui, ma con maggior forza, si vuole sottolineare l’involuzione di quella borghesia che per scimmiottare la nobiltà gioca sul suo stesso campo, cercando di confrontarsi con lo stato sociale più elevato con mezzi quali la moda, cioè con quell’apparenza di cui abbiamo parlato prima. Ma in questa commedia tale involuzione è mostrata proprio nel finale quando nel gioco delle coppie Giacinto sposerà chi non ama. E’ la fine dell’idillio e dell’illusione goldoniana verso quella classe che ancora negli anni ’50 mostrava la sua forza e dopo 10 anni, chiusa in se stessa, sanciva la fine della sua forza propulsiva (è corretto sottolineare che qui Goldoni vuole rimarcare il fallimento di una borghesia che più che trovare una via propria di affermazione sociale, imita la vuota e ormai superata nobiltà).

E’ evidente allora che l’unica speranza d’autenticità Goldoni l’affidi al popolo: è del ’62 la messa in scena de Le baruffe chiozzotte in cui non c’è una vera e propria trama, ma racconta il continuo “baruffare”, litigare appunto, di due famiglie di pescatori. Sembra che l’autore voglia sottolineare come questo prendersi a parole appartenga più ad un rituale quotidiano che ad un vero e proprio litigio, e cerca di sottolinearlo usando appunto il dialetto veneziano, che si piega, grazie a lui, ad un suono armonioso, uscendo dal bozzettismo e portandolo a dignità d’arte.

Le Baruffe in Calle , dal 1 al 5 Agosto 2022 a Chioggia

LE BARUFFE DELLE DONNE

(Strade con varie casupole. Pasqua e Lucietta da una parte. Libera, Orsetta e Checca dall’altra. Tutte a sedere sopra seggiole di paglia, lavorando merletti sui loro cuscini, posti ne’ loro scagnetti. Toffolo)

TOFFOLO: (Arecordève, siora Checca, che m’avè dito de mi no ve degnè).
CHECCA: (Andè via, che no ve tendo).
TOFFOLO: (E sì, mare de diana, gh’aveva qualche bona intenzion).
CHECCA: (De cossa?)
TOFFOLO: (Mio santolo me vol metter suso peota, e co son a traghetto, anca mi me vòi marìdare).
CHECCA: (Dasseno?)
TOFFOLO: (Ma vu avè dito che no ve degnè).
CHECCA: (Oh! ho dito della zucca, non ho miga dito de vu).
LIBERA: Oe, oe, digo: cossa xè sti parlari?
TOFFOLO: Varè? Vardo a laorare.
LIBERA: Andè via de là, ve digo.
TOFFOLO: Cossa ve fazzio? Tolè; anderò via (si scosta, e va bel bello dall’altra parte)
CHECCA: (Sia malignazo!)
ORSETTA: (Mo via, cara sorela, se el la volesse, savè che putto che el xè: no ghe la voressi dare?)
LUCIETTA: (Cossa diseu, cugnà? La se mette suso a bonora).
PASQUA: (Se ti savessi che rabbia che la me fa!) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Varè che fusto! Viva cocchietto! La voggio far desperare)
TOFFOLO: Sfadighève a pian, donna Pasqua.
PASQUA: Oh! no me sfadigo, no, fio: no vedè che mazzete grosse? El xè merlo da diese soldi.
TOFFOLO: E vu, Lucietta?
LUCIETTA: Oh! el mio xè da trenta.
TOFFOLO: E co belo che el xè.
LUCIETTA: Ve piàselo?
TOFFOLO: Mo co pulito! Mo cari quei deolini.
LUCIETTA: Vegnì qua; sentève.
TOFFOLO: (Oh! qua son più alla bonazza). (Siede)
CHECCA: (Oe! Cossa diseu?) (a Orsetta, facendole osservare Toffolo vicino a Lucietta)
ORSETTA: (Lassa che i fazza, non te n’impazzare). (a Checca)
TOFFOLO: (Se starà qua, me bastonerali?) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Oh che matto!) (a Toffolo)
ORSETTA: (Cossa diseu?) (a Libera, accennando Lucietta)
TOFFOLO: Donna Pasqua, voleu tabacco?
PASQUA: Xèlo bon?
TOFFOLO: El xè de quello de Malamocco.
PASQUA: Dàmene una presa.
TOFFOLO: Volentiera.
CHECCA: (Se Titta Nane lo sa, poveretta ela).
TOFFOLO: E vu, Lucietta, ghe ne voleu?
LUCIETTA: (Dè qua, sì ben. Per far despetto a culìa) (accenna Checca)
TOFFOLO: (Mo che occhi baroni!) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Oh giusto! No i xè miga quelli de Checca). (a Toffolo)
TOFFOLO: (Chi? Checca? gnanca in mente) (a Lucietta)
LUCIETTA: (Varè, co bela che la xè!) (a Toffolo, accennando Checca, con derisione)
TOFFOLO: (Vara chiòe!) (a Lucietta)
CHECCA: (Anca sì che parla de mi).
LUCIETTA: (No la ve piase?) (a Toffolo)
TOFFOLO: (Made). (a Lucietta)
LUCIETTA: (I ghe dise puinetta). (a Toffolo, sorridendo)
TOFFOLO: (Puinetta i ghe dise?) (a Lucietta, sorridendo e guardando Checca)
CHECCA: Oe, digo; no so miga orba, varè. La voleu fenire? (forte verso Toffolo e Lucietta)
TOFFOLO: Puina fresca, puina. (forte, imitando quelli che vendono la puina, cioè la ricotta)
CHECCA: Cossa xè sto parlare? Cossa xè sto puinare? (s’alza)
ORSETTA: No te n’impazzare. (a Checca, e s’alza)
LIBERA: Tendi a laorare. (a Orsetta e Checca, alzandosi)
ORSETTA: Che el se varda elo, sior Toffolo Marmottina.
TOFFOLO: Coss’è sto Marmottina?
ORSETTA: Sior sì; credeu che nol sapiemo che i ve dise Toffolo Marmottina?
LUCIETTA: Varè che sesti! Carè che bella prudenzia!
ORSETTA: E via, cara siora Lucietta Panchiana!
LUCIETTA: Cossa xè sta Panchiana? Tendè a vu, siora Orsetta Meggiotto.
LIBERA: No stè a strapazzar mie sorele, che mare de diana…
PASQUA: Portè respetto a mia cugnà. (s’alza)
LIBERA: Eh! tase, donna Pasqua Fersora
PASQUA: Tase vu, dona Libera Galozzo.
TOFFOLO: Se no fussi donne, sangue de un’anguria…
LIBERA: Vegnirà el mio paron.
CHECCA: Vegnirà Titta Nane. Ghe voi contare tutto, ghe voi contare.
LUCIETTA: Còntighe. Cossa m’importa.
ORSETTA: Che el vegna Toni Canestro…
LUCIETTA: Sì, sì, che el vegna paron Fortunato Baìcolo…
ORSETTA: Oh che temporale!
LUCIETTA: Oh che susìo!
PASQUA: Oh che bissabuova!
ORSETTA: Oh che stramanìo!

TOFFOLO: (Ricordatevi, signora Francesca che mi avete detto che di me non vi importa nulla). CHECCA: (Andate via che non vi bado). TOFFOLO: (E sì, corpo di bacco, che avevo qualche buona intenzione). CHECCA: (Per far che?) TOFFOLO: (Il mio padrino mi vuol mettere su una barca per passeggeri ed ora sono qui, dove si trovano simili barche, anche io mi voglio sposare). CHECCA: (Veramente?) TOFFOLO: (Ma voi avete detto che non v’importa nulla di me). CHECCA: (Oh! Ho parlato della zucca, mica di voi). LIBERA: Oh, dico. Cos’è questo chiacchierare? TOFFOLO: Vero? Vado a lavorare. LIBERA: Andate via, vi ho detto. TOFFOLO: Cosa vi ho fatto, va bene andrò via (si scosta, e va bel bello dall’altra parte) CHECCA: (Sia maledetto!) ORSETTA: (E via, cara sorella, se la volesse, sapete che ragazzo è, perché non gliela vorreste dare?) LUCIETTA: (Cosa dite cognata? Comincia da ora ad aver pretese). PASQUA: (Sapessi che rabbia mi fa!) (a Lucietta) LUCIETTA: (Guarda che malagrazia! La voglio far disperare) TOFFOLO: Faticate poco, donna Pasqua. PASQUA: Oh! No mi stanco, no, figliolo: no vedi che lavoro grande? Sono merletti da dieci soldi. TOFFOLO: E voi, Lucietta? LUCIETTA: Oh! Il mio è da trenta soldi. TOFFOLO: Eh che bello che è! LUCIETTA: Vi piace? TOFFOLO: Ma che bello. Che belle quelle dita graziose! LUCIETTA: Venite qua, sentite. TOFFOLO: (Oh! Qua sono più comodo). (Siede) CHECCA: (Oh, cosa si dicono?) (a Orsetta, facendole osservare Toffolo vicino a Lucietta) ORSETTA: (Lascia che facciano, non t’impicciare). (a Checca) TOFFOLO: (Se starò qui, mi picchierai?) (a Lucietta) LUCIETTA: (Oh che scemo!) (a Toffolo) ORSETTA: (Cosa si dicono?) (a Libera, accennando Lucietta) TOFFOLO: Donna Pasqua, volete un po’ di tabacco? PASQUA: E’ quello buono? TOFFOLO: E’ quello di Malamocco. PASQUA: Dammene una presa. TOFFOLO: Volentieri. CHECCA: (Se Titta Nane lo sa, poveretta lei). TOFFOLO: E voi, Lucietta, non ne volete? LUCIETTA: (Da qua, sì. Per far dispetto a quella) (accenna Checca) TOFFOLO: (Mo che occhi furbi!) (a Lucietta) LUCIETTA: (Oh giusto! Non sono mica quelli di Checca). (a Toffolo) TOFFOLO: (Chi? Checca? Neanche ci penso) (a Lucietta) LUCIETTA: (Guarda che bella che è!) (a Toffolo, accennando Checca, con derisione) TOFFOLO: (Bruttona!) (a Lucietta) CHECCA: (Proprio si, parlano di me). LUCIETTA: (Non vi piace?) (a Toffolo) TOFFOLO: (No). (a Lucietta) LUCIETTA: (Io la chiamo ricottina). (a Toffolo, sorridendo) TOFFOLO: (La chiamate ricottina?) (a Lucietta, sorridendo e guardando Checca) CHECCA: Oh, dico, non sono mica cieca. La volete finire? (forte verso Toffolo e Lucietta) TOFFOLO: Ricotta fresca, ricotta fresca. (forte, imitando quelli che vendono la puina, cioè la ricotta) CHECCA: Cos’è questo parlare? Cos’è questa ricotta? (s’alza) ORSETTA: Non t’arrabbiare. (a Checca, e s’alza) LIBERA: Riprendi a lavorare. (a Orsetta e Checca, alzandosi) ORSETTA: Che si guardi lui, signor Toffolo Marmottina. TOFFOLO: Cos’è Marmottina? ORSETTA: Signor sì; credevate che noi non sapessimo che vi chiamano Toffolo Marmottina? LUCIETTA: Ma guarda che sei! Guarda che bella prudenza! ORSETTA: E via, cara signora Lucietta Panchiana! LUCIETTA: Cos’è questa Panchiana? Attenta a voi, signora Orsetta Meggiotto. LIBERA: Non prendere in giro le mie sorelle, accidenti… PASQUA: Portare rispetto a mia cognata. (s’alza) LIBERA: Eh! zitta donna Pasqua Fersora PASQUA: Statti zitta tu, donna Libera Galozzo. TOFFOLO: Se non fossero donne, sangue de un’anguria… LIBERA: Verrà il mio padrone. CHECCA: Verrà Titta Nane. Gli voglio raccontare tutto, gli voglio raccontare. LUCIETTA: Raccontaglielo. Cosa m’importa. ORSETTA: Che venga Toni Canestro… LUCIETTA: Sì, sì, che venga signor Fortunato Baìcolo… ORSETTA: Oh che macello! LUCIETTA: Oh che confusione! PASQUA: Oh che situazione spiacevole! ORSETTA: Oh che baruffa!

Il brano rappresenta bene come il teatro goldoniano fosse intimamente legato alla sua città: Venezia; e non soltanto per l’uso della lingua, ma perché qui veramente il mondo si fa teatro; qui il suo progetto si realizza mirabilmente.

Teatro Goldoni: ricomincio da Lui - Metropolitano.it

Teatro comunale a Venezia titolato a Carlo Goldoni

Quinta fase (1762-1793)

E’ il periodo francese di Goldoni, chiamato a Parigi come direttore della Comédie italienne specializzata in scenari legati alla vecchia produzione. Infatti il pubblico francese non riesce ad apprezzare le novità goldoniane, che sembra si allontanino dalla specificità e dalla fantasia del nostro teatro. Pertanto deve tornare a fare produzioni anteriori alla riforma. Per il matrimonio di Maria Antonietta con Luigi XVI scrive Le bourru bienfaisant (1771), intitolata in italiano Il burbero benefico, commedia sentimentale in cui il nostro sembra trovare un po’ di serenità. Ma l’opera certamente più importante di questo periodo non è teatrale ma i Memoires, con cui rievoca, con vivacità la sua vita e la sua vocazione teatrale.

IL ‘700 IN ITALIA E IN EUROPA

Lecture de la tragédie de « l'orphelin de la Chine » de Voltaire dans le salon de Mme Geoffrin | BnF EssentielsAnicet Charles Gabriel Lemonnier: Lecture de la tragédie de l’orphelin de la Chine de Voltaire dans le salone de signora Geoffrin (1812)

IMMANUEL KANT: CHE COS’E’ L’ILLUMINISMO?

Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. “Sapere aude!” Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E’ questo il motto dell’Illuminismo. 

Immanuel Kant - Wikiquote

Ritratto di Immanuel Kant

L’Illuminismo rappresenta l’ideologia della borghesia capitalistica che non si riconosce più nelle vecchie strutture politiche ed economiche dello Stato basato, nella maggior parte dei casi, nella monarchia “assoluta”, giustificata dal “diritto divino”. A dare l’ultimo scossone a tale concezione fu la rivoluzione inglese, dove già nel 1688 s’impose una monarchia costituzionale che limitava le prerogative del sovrano attraverso i Bill of Rights ed inoltre dichiarava i diritti dei sudditi, che prendevano parte alle decisioni politiche. A questa s’aggiunge la Rivoluzione industriale, che appunto dà vita a un sistema di produzione capitalistico, da cui emergono due classi ben diverse da quelle che sinora avevano imposto la loro presenza sia sul piano sociale che su quello culturale: alla figura dell’aristocratico o signore e a quella del contadino o villano, si impongono ora le figure del proprietario della fabbrica, o altrimenti detto, capitalista, e l’operaio, appena inurbato, sotto pressione per la durezza del lavoro, che costituirà, per ben due secoli, la figura del proletario, sebbene tale situazione, almeno in questo primo periodo, avviene nella sola Inghilterra, ma, ben presto si diffonderà nelle terre del Nord, come le Province Unite. Se ciò, come detto, si verifica principalmente nell’Europa settentrionale, ben diversa è la situazione di quella cattolica del Sud che vede la Spagna e tutti i suoi domini vivere in una situazione di profonda crisi. Di questa crisi se ne avvantaggiò, sia pure in modo non così propulsivo come in Gran Bretagna o Olanda, ma almeno già lontano dell’immobilismo scenografico barocco, l’Italia che, dopo la pace d’Aquisgrana e la guerra di successione spagnola, vedrà la sostituzione degli Asburgo agli spagnoli, nell’Italia del nord, ma la famiglia dei Borboni permane, sebbene in forma autonoma rispetto alla madrepatria, nel sud. Si vedrà inoltre la cessazione dei piccoli ducati di Parma e Piacenza, mentre i Savoia acquisteranno il titolo di monarchi dapprima nel 1713, con l’annessione della Sicilia, e lo mantennero con lo scambio di quest’ultima con la Sardegna nel 1720. Eppure, nonostante gli avvenimenti storici propendevano verso un’egemonia dell’Europa del Nord, sarà un paese continentale a far sì che l’Illuminismo elaborerà valori universali che caratterizzeranno gran parte della storia contemporanea. Infatti se l’Inghilterra riuscirà a dar vita ad un nuovissimo genere letterario (il romanzo) che tuttavia si estenderà, fuori dai suoi confini con tutta la sua forza solo nel secolo successivo, sarà la Francia ad elaborare una teoria filosofica  che si pone come obiettivo una riforma radicale della società e, affinché essa avvenga, si trasmetta al più largo numero di persone, rispetto ai tempi. Perché ciò si realizzi è necessario non solo abbattere steccati ideologici, ma anche religiosi, nazionali, etnici, in quanto tutti gli uomini sono potenzialmente capaci di percepire la nuova filosofia. E  per farla arrivar loro niente è più facile che tale elaborazione, abbracciando tutto il sapere, venga divulgato in un’opera che tutto il sapere contenga, l’Enciclopedia, o come dicevano loro, Encyclopédie, ovvero Dizionario ragionato delle arti, delle scienze e dei mestieri.

L'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert (1. ed.) disponibile su Wikisource e su ARTL Project | Filosofia & StoriaL’Encyclopedie

In tale opera venne ridisegnato tutto il sapere a partire dal fatto che ogni cosa (sia essa intellettuale e quindi immateriale che manuale e quindi materiale) va lasciata all’indagine dell’uomo che, in quanto dotato di ragione, può verificarne il vero significato o uso e quindi la sua più intima verità, così come ci dice Diderot:

DIDEROT: ECLETTISMO

L’eclettico è un filosofo che, calpestando il pregiudizio, la tradizione, l’antichità, il consenso universale, l’autorità, insomma tutto ciò che soggioga l’animo del volgo, osa pensare con la propria testa, risalire ai princípi generali piú chiari, esaminarli, discuterli, astenendosi dall’ammettere alcunché senza la prova dell’esperienza e della ragione; che, dopo aver vagliato tutte le filosofie in modo spregiudicato e imparziale, osa farne una propria, privata e domestica; dico “una filosofia privata e domestica”, perché l’eclettico ambisce non tanto a essere il precettore quanto il discepolo del genere umano, a riformare non tanto gli altri quanto se stesso, non tanto a insegnare quanto a conoscere il vero.

Seguendo sempre la “ragione”, madre di ogni uomo e capace di allontanarlo dalle tenebre cui sinora è avvolto, il filosofo non può che “criticare” (dando a questo termine il significato kantiano di “giudicare”) le religioni già esistenti e inaugurandone una nuova per tutti gli uomini, come è il Deismo.

VOLTAIRE: DEISMO

Il teista è un uomo fermamente persuaso dell’esistenza d’un essere supremo tanto buono quanto potente, che ha creato tutti gli esseri estesi, vegetanti, senzienti e riflettenti; che perpetua la loro specie, che punisce senza crudeltà i delitti e ricompensa con bontà le azioni virtuose. Il teista ignora come Dio punisca, favorisca e perdoni; perché non è così temerario da illudersi di conoscere come Dio agisca; egli sa che Dio agisce e che è giusto. Le difficoltà contro la Provvidenza non scuotono minimamente la sua fede perché, pur essendo indubbiamente grandi, non sono prove; egli si sottomette alla Provvidenza, benché non possa scorgere di essa che qualche effetto particolare ed esteriore: tuttavia giudicando delle cose che non può vedere mediante quelle che vede, egli argomenta che la Provvidenza operi sempre e in ogni luogo. D’accordo su questo punto con il resto dell’Universo, egli si astiene tuttavia dall’aderire ad alcuna delle sètte particolari, che sono tutte intimamente contraddittorie. La sua religione è la più antica e la più diffusa; perché la semplice adorazione d’un Dio ha preceduto tutti i sistemi di questo mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli possono intendere, benché per il resto non s’intendano affatto tra loro. (…) Egli ritiene che la religione non consista né nelle dottrine d’una metafisica inintelligibile, né in vani apparati, ma nell’adorazione e nella giustizia.

A leggere tali definizioni è evidente la carica rivoluzionaria attraverso cui gli illuministi vogliono trasformare radicalmente la società. Infatti è proprio dal concetto di “deismo” (qui riportato come teismo dal greco theòs) che derivano poi l’antistoricismo, che non vuol dire ignorare la storia precedente, ma rifondarla completamente, negando i privilegi politici ed ecclesiastici determinati da motivazioni fideistiche, e ricostruendo una società alla cui guida ci fossero i filosofi illuministi, capaci, in quanto conoscitori delle “nuove scienze”, di organizzare uno stato efficiente, sotto la guida della ragione. Ma se ciò può avvenire in tutti gli stati, in quanto la diffusione delle idee illuministiche è alla portata di ogni uomo, ne conseguirà necessariamente il terzo punto fondamentale di tale teoria che è il cosmopolitismo.

ADDISON : The Spectator - Edition-Originale.com

Un numero de “The Spectator” del 1711

Tali idee avranno enorme influenza in tutta l’Europa, ma non dobbiamo dimenticare che esse nascono anche dalla simpatia con cui gli intellettuali francesi osservano le vicende e la cultura inglese, che, se sinora era arrivata all’apice culturale europeo nel periodo elisabettiano con il teatro di Shakespeare, ora si pone all’avanguardia per una nuova forma di produzione e diffusione culturale, con il periodico e il romanzo. Tra i periodici inglesi, larga diffusione ebbe lo Spectator di John Addison che, pur nella sua brevità (1711/1712) si pone alla base, per le imitazioni che ebbe in tutta Europa, del giornalismo moderno. In esso s’immagina di ritrovarsi in un club in cui, di volta in volta, delle persone più diverse (ma tutte provenienti dalla borghesia come il commerciante, l’avvocato, il letterato o il militare, s’incontrano e dibattono problemi d’attualità, sotto l’occhio vigile di un giornalista che li osserva (the spectator, appunto). Ma se il periodico poteva rappresentare uno degli strumenti più efficaci per combattere il pregiudizio e fondare una nuova società, doveva essere coadiuvato da nuovi strumenti, tra i quali dobbiamo ricordare il romanzo borghese, che vede come opere protagoniste il Robinson Crusoe di Daniel Defoe (1719), la Pamela di Samuel Richardson (1741), il Tom Jones di Henry Fieldin (1749) e I viaggi di Gulliver di  Jonathan Swift (1726).

Il Robinson Crusoe narra la storia di un uomo che a diciott’anni, contro il volere del padre che gli prospetta una vita tranquilla e borghese, decide di mettersi in nave per cercare fortuna. Dopo varie avventure si ritrova in Brasile e diventa un ricco agricoltore. In seguito lascia tutto al socio e si imbarca per incrementare la sua ricchezza, facendosi mercante di schiavi. Ma la sua nave fa naufragio ed egli è il solo sopravvissuto. I rottami della nave, nonché alcune suppellettili lì ritrovate, permettono al nostro di costruirsi una capanna, quindi una piccola fortificazione; poi si fa coltivatore di un piccolo campo e alleva qualche animale. Passano gli anni sempre uguali, finché scorge un’impronta umana che gli fa sobbalzare il cuore di paura. Inoltratosi per meglio vedere, scorge dei cannibali che sono lì sbarcati per un sacrificio umano. Tale rito si ripeterà qualche anno più tardi, ma egli riuscirà a liberare la vittima e la terrà con sé col nome di Venerdì. Quindi, ancora successivamente, ambedue liberano due prigionieri, tra cui un bianco. Nel frattempo giunge una nave, che ha subito un ammutinamento. Liberati i tre ufficiali, Robinson, con i nuovi compagni ne prende possesso, e veleggia verso Londra. Fermatosi a Lisbona scopre che è ricco, grazie agli affari del socio e decide quindi di ripopolare l’isola su cui ha fatto naufragio, mandando lì coloni brasiliani.

Da tale testo prendiamo il brano in cui Robinson scopre di poter “organizzarsi” prelevando oggetti utili per la sua “ricostruzione civile”:

Biografia Daniel Defoe, vita e storia

Daniel Defoe

SULLA NAVE NAUFRAGATA

Poco dopo mezzogiorno il mare era molto calmo, e la marea così bassa che potei accostarmi alla nave fino a distarne non più di un quarto di miglio; e questa circostanza valse a ridestare la mia ambascia, perché compresi che se fossimo rimasti a bordo ci saremmo salvati tutti, ed io non avrei patito la suprema, atroce disgrazia di trovarmi totalmente orbato di ogni conforto e compagnia, come invece mi trovavo. Questa considerazione fece sgorgare nuove lacrime dai miei occhi, ma piangere non serviva e quindi decisi di raggiungere la nave, se appena fosse stato possibile; pertanto mi liberai degli abiti, giacché faceva terribilmente caldo, e mi gettai in acqua. Quando però arrivai sotto la nave, mi resi conto di dover affrontare una difficoltà di gran lunga maggiore: quella, cioè, di salire a bordo, perché essendosi arenata, ed emergendo quasi tutta fuori dell’acqua, non c’era nulla a portata di mano cui potessi aggrapparmi. Due volte ne feci il periplo a nuoto, e la seconda volta mi accorsi stupito di non averlo notato prima, di un pezzo di corda che pendeva dalle catene dell’àncora; ed era così basso che, sia pure con grande sforzo, riuscii ad afferrarlo, e servirmene per issarmi fino al castello di prua. Qui ebbi modo di constatare che la nave aveva la carena sfondata e la stiva colma d’acqua, ma che si era incagliata su un banco di sabbia molto compatta, o piuttosto di terra, di modo che la poppa emergeva sollevata sopra il banco, mentre la prua era inclinata fin quasi a sfiorare il livello dell’acqua. Di conseguenza il cassero era emerso e tutto ciò che vi si trovava era asciutto. E’ logico, pertanto, che per prima cosa io mi preoccupassi di guardarmi attorno e accertare che cosa ci fosse di sciupato e di indenne. E per prima cosa vidi che tutte le provviste della nave erano intatte e che l’acqua non le aveva danneggiate, e siccome non disdegnavo l’idea di mangiare, andai nella cambusa e mi riempii le tasche di gallette e le mangiai mentre ero impegnato in altre faccende, poiché non avevo tempo da perdere. Nella cabina principale trovai anche del rum, e ne bevvi una generosa sorsata, perché avevo bisogno di darmi coraggio e affrontare tutto quello che mi aspettava. Ora l’unica cosa di cui avevo bisogno era un’imbarcazione, per rifornirmi di una quantità di cose che, lo prevedevo, mi sarebbero state di grandissima utilità. Ma era inutile che me ne stessi con le mani in mano, in attesa di ciò che non potevo avere, e l’impellenza estrema mi aguzzò l’ingegno. Sulla nave avevamo un certo numero di pennoni di riserva, uno o due alberi di gabbia e certi grandi pali di legno. Decisi di cominciare da questi e come meglio potei m’ingegnai (erano pesantissimi) a gettarli in mare legandoli l’uno all’altro con una fune perché la corrente non li disperdesse. Dopo di che mi calai lungo il fianco della nave, li tirai verso di me e li unii alle due estremità quanto più saldamente potevo per formare una specie di zattera; e dopo averci posato sopra, in senso trasversale, due o tre brevi assi di legno, constatai che potevo camminarci sopra senza difficoltà, ma che non avrebbe potuto reggere un grosso peso perché il legname era troppo leggero. Mi misi dunque al lavoro, e con la sega da carpentiere tagliai in tre pezzi uno degli alberi di gabbia di riserva, e con grande fatica riuscii ad aggiungerli alla zattera; ma la speranza di provvedermi del necessario mi stimolava a fare più di quanto non sarei stato in grado di fare in circostanze normali. Ora la mia zattera era abbastanza solida per sopportare un carico di discreta consistenza; ma ancora non avevo deciso che cosa caricarvi e come proteggere il carico dalle onde. Tuttavia non indugiai a lungo a pensarci. Per prima cosa portai sulla zattera tutte le assi o tavole che mi riuscì di raccogliere, e dopo aver riflettuto su ciò di cui avevo maggior necessità, cominciai col prendere tre cassoni da marinaio, che avevo svuotato dopo averne forzato la serratura, e li calai sulla zattera. Riempii il primo di viveri, cioè pane, riso, tre formaggi olandesi, cinque pezzi di carne di capretto disseccata, di cui solitamente ci nutrivamo, e un piccolo residuo di grano europeo che tenevamo in disparte per cibarne qualche pollo che avevamo imbarcato con noi, ma che poi ci eravamo mangiati; in partenza, insieme a quel grano c’era anche un poco di orzo e di frumento, ma con mio vivo disappunto vidi che era stato divorato dai topi, o comunque sciupato senza rimedio. Quanto alle bevande, trovai numerose casse di bottiglie che erano appartenute al capitano, alcune di liquori, altre contenenti in tutto cinque o sei galloni di arrak. Le sistemai in disparte sulla zattera, non essendoci bisogno di collocarle nei cassoni, che d’altronde erano ormai colmi. Mentre ero intento a queste cose, mi accorsi che la marea cominciava a salire, sebbene il mare fosse ancora calmo, ed ebbi la mortificazione di veder galleggiare la giacca, la camicia e il panciotto che avevo lasciato a riva sulla sabbia limitandomi a tenere indosso, per nuotare fino alla nave, i pantaloni (che erano semplici brache di tela aperte al ginocchio) e le calze. La circostanza m’indusse a mettermi in cerca di indumenti, e ne trovai in abbondanza, ma mi limitai a prelevare quanto mi serviva per uso immediato, perché altre cose mi premevano di più, e soprattutto gli arnesi da lavoro. E fu solo dopo lunga ricerca che riuscii a trovare la cassetta del carpentiere: bottino utilissimo per me, molto più prezioso, in simili circostanze, di una nave carica d’oro. Calai questa cassetta così com’era sulla zattera, senza perder tempo a guardarci dentro, perché sapevo suppergiù che cosa potesse contenere. Poi badai a rifornirmi di armi e di munizioni; nella cabina principale c’erano due bellissimi fucili da caccia e due pistole, e subito me ne impadronii insieme con due corni di polvere, un sacchetto di pallottole e due vecchie sciabole arrugginite. Sapevo che sulla nave c’erano anche tre barili di polvere, ma non avevo idea di dove il cannoniere li avesse sistemati; solo dopo molte ricerche li trovai, due asciutti e in buono stato, mente il terzo era stato raggiunto dall’acqua, cosicché caricai sulla zattera solo i primi due. A questo punto conclusi che ormai era abbastanza carica, e cominciai a domandarmi come avrei potuto arrivare a terra con tanta roba, dal momento che non avevo remi, né vela, né timone e la minima bava di vento avrebbe compromesso la mia navigazione. Nondimeno tre fattori agivano a mio vantaggio: primo, un mare liscio e calmo; secondo, la marea che andava crescendo e pertanto spingeva verso riva; terzo, una lieve brezza che soffiava del pari in direzione della spiaggia. Così, dopo aver prelevato anche due o tre remi rotti della barca, e, oltre agli arnesi contenuti nella cassetta, anche due seghe, un’accetta e un martello, con questo carico presi il mare. Per circa un miglio la zattera avanzò regolarmente, salvo per la deriva che tendeva a portarla un po’ discosto dal punto in cui ero arrivato a terra; ne dedussi che doveva esserci una leggera corrente, e quindi sperai di trovare un’insenatura, o l’estuario di un piccolo corso d’acqua, che mi servisse da porto di sbarco per tutta la mia mercanzia.

1719 Robinson Crusoe is published – Bowie NewsLa prima edizione del romanzo di Daniel Defoe (1719)

Già dalla trama, nonché dal passo su riportato, capiamo che l’intento di Defoe, in questa alba di romanzo borghese, non è tanto quella di presentarci, come in parte era avvenuto con il romanzo cortese spagnolo, una storia che rappresentasse il tramonto di un’epoca (in quel caso della cavalleria), ma la nascita di una nuova era, cioè quella borghese capitalista. Infatti Robinson non è solo il prototipo dell’avventura, esemplificata nel topos narrativo del viaggio, ma dell’uomo faber che costruisce un mondo (un’unità produttiva) e per farlo sa procurarsi e trasformare le materie prime (ciò che la nave gli offre) e quando tale processo si è sviluppato sa sottomettere/educare i popoli barbari (Venerdì) e portare la civiltà in terre nuove sconosciute (colonizzazione dell’isola). Egli pertanto rappresenta di contro la ricercatezza formale e un po’ vuota dell’aristocrazia, la nascita del one man self made, cioè del moderno capitalista che non ha interiorità, ma soltanto il pragmatismo del fare, che ancora non mostrerà il lato, se non in nuce, dello sfruttatore, come sarà invece illustrato, nei primi dell’800 da Dickens.

Altro grande romanzo inglese di questo periodo è la Pamela di Samuel Richardson:

Samuel Richardson, 1747
 

Ritratto di Samuel Richardson

Pamela è camereriera presso la signora Davers. Alla morte della padrona lei rimane a svolgere il suo compito per suo figlio, ma l’eccessiva premurosità con cui egli la tratta mette in guardia i suoi genitori, che le rivolgono l’invito a porre molta attenzione alle gentilezze del conte. Queste si riveleranno insidiose per lei sin dal momento in cui il conte comincia a nasconderle le lettere accusandola di perdere tempo a scrivere. Un giorno rimasti soli, il conte la insidia apertamente e alle proteste di lei, che minaccia di voler andar via, le dice che, se si era comportato così, lo avevo fatto solo per metterla alla prova. Ma ella è risoluta, quindi al conte non rimane che accompagnarla dai genitori. Invece la conduce presso una sua dimora di campagna. Pamela chiede quindi aiuto al cappellano del conte, ma anche egli si mostrerà villano nei suoi confronti. Ormai non avendo più speranza nell’aiuto di altri, medita il suicidio. Nel frattempo torna il conte e ricomincia a tentarla, ma tanto è la fatica psicologica che deve affrontare la ragazza che sviene. Solo allora il conte si rende conto d’amarla e anche lei, riavutasi, si rende conto dei veri suoi sentimenti. Quindi il romanzo si chiude con il matrimonio alla presenza dei genitori di lei.

 

PAMELA E LE INSIDIE DEL PADRONE

Mia cara Madre,
Ho interrotto di colpo la mia ultima lettera perché temevo che lui stesse arrivando; e così è successo. Mi sono messa la lettera in seno, e ho preso in mano il lavoro che avevo accanto; ma sono stata così poco piena di risorse, come ha detto lui, che avevo una faccia confusa come se avessi commesso chissà che. «Resta seduta, Pamela», ha detto lui, «e continua il tuo lavoro, anche se ci sono io. Non mi hai dato il benvenuto a casa dopo il mio viaggio nel Lincolnshire.» «Sarebbe brutto, signore», ho detto io, «se voi non foste sempre il benvenuto nella casa di vostra eccellenza.» Sarei andata via; ma lui ha detto: «Non scappare, ti dico. Ho da dirti una o due paroline». Oh, come mi ha palpitato il cuore! «Quando sono stato un po’ gentile con te», ha detto, «nel padiglione, e tu in cambio ti sei comportata così scioccamente, come se avessi voluto farti chissà che, non ti ho detto di non parlarne con nessuno? E invece hai messo in giro dappertutto quella storia, senza considerare né la mia reputazione, né la tua.» «Io metterlo in giro, signore!» ho detto io. «Non ho nessuno con cui parlare, quasi…» Lui mi ha interrotta: «Quasi! piccola cavillatrice! che cosa vuoi dire con quel quasi? Voglio chiederti, non lo hai detto alla signora Jervis (la governante), tanto per fare un nome?» «Eccellenza, vi prego», ho detto io, tutta agitata, «lasciatemi andare; perché non fa per me discutere con l’eccellenza vostra.» «Cavillatrice un’altra volta!» e mi ha preso la mano, «perché dici discutere? Sarebbe discutere con me, rispondere a una domanda molto chiara? Rispondimi a quello che ho chiesto.» «O buon signore», ho detto io, «lasciate che vi preghi di non insistere oltre, non vorrei perdere un’altra volta il controllo, ed essere impertinente.» «Rispondimi allora, te lo ordino, lo hai detto alla signora Jervis, sì o no? Sarebbe impertinente da parte tua non rispondere subito alla mia domanda.» «Signore», ho detto io (e ben volentieri avrei strappato la mano dalla sua), «forse lo sarei se vi rispondessi con un’altra domanda, e questo non sarebbe opportuno da parte mia.» «Che vuoi dire?» ha ribattuto lui, «parla.» «Quand’è così, signore», ho detto io, «perché la vostra eccellenza dovrebbe adirarsi tanto che io abbia raccontato alla signora Jervis, o a chiunque altro, quello che è accaduto, se non aveva cattive intenzioni?» «Ben detto, bella innocentina nonché candida! come ti definisce la signora Jervis!» ha detto lui, «guardati, insolente che non sei altro! mi rispondi e mi rimproveri! Però io continuo a volere una risposta diretta alla mia domanda.» «In tal caso, signore», ho detto io, «non direi una menzogna per tutto l’oro del mondo: sì, l’ho raccontato alla signora Jervis; poiché avevo il cuore quasi spezzato; ma non ho aperto bocca con nessun altro.» «Benissimo, sfacciatella», ha detto lui, «e cavillatrice di nuovo! Non hai aperto bocca con nessun altro; ma non hai scritto a qualcun altro ancora?» «Be’, adesso, e con licenza di vostra eccellenza», ho detto io (poiché a quel punto mi ero un po’ rinfrancata), «non avreste potuto farmi questa domanda se non mi aveste sottratto la mia lettera a mio padre e a mia madre, nella quale (lo riconosco) mi ero liberamente confidata con loro, e avevo chiesto consiglio, e avevo sfogato i miei crucci!» «E così devo essere denunciato, a quanto pare», ha detto lui, «dentro casa mia, e fuori di casa mia, a tutto il mondo, da una sfacciatella simile?» «No, buon signore», ho detto io, «e prego la vostra eccellenza di non adirarsi con me; non sono io che denuncio voi, se non dico altro che la verità.» Allora si è adirato assai, e mi ha dato della temeraria; e mi ha ingiunto di ricordare con chi stavo parlando. «Vi prego, signore», ho detto io, «da chi può ricevere consigli una povera ragazza, se non da suo padre e da sua madre, e da una brava donna come la signora Jervis, che per solidarietà femminile me ne dà quando gliene chiedo?» «Insolente!» mi ha detto allora, e ha battuto il piede in terra. Io sono caduta in ginocchio, e ho detto: «Per amore del cielo, eccellenza, compatite una povera creatura che non sa niente, se non coltivare la sua virtù e il suo buon nome: io non ho altro cui affidarmi; e per quanto povera e senza amici qui, pure mi è stato sempre insegnato a mettere l’onestà al di sopra della mia stessa vita». «Quale onestà, sciocca!» ha detto lui. «Non fa forse parte dell’onestà l’obbedienza e la gratitudine al tuo padrone?» «Certo, signore», ho detto io, «è impossibile che io sia ingrata verso la vostra eccellenza, o anche disobbediente, o meritevole di quegli epiteti di ardita e insolente, che vi siete compiaciuto di attribuirmi, se non quando i vostri comandi sono contrari a quel primo dovere, che sarà sempre il principio della mia vita!». Lui è parso scosso, e si è alzato, ed è andato nella camera grande dove ha fatto due o tre giri, lasciandomi lì in ginocchio; e io mi sono gettata il grembiule sul viso, e ho posato la testa su una sedia, e ho pianto come se mi si fosse spezzato il cuore, ma non ho avuto la forza di andar via da quel luogo. Da ultimo lui è rientrato, ma con la perfidia nel cuore! e rialzandomi in piedi ha detto: «Alzati, Pamela, alzati; tu sei la nemica di te stessa. La tua perversa follia sarà la tua rovina: io sono dispiaciutissimo delle libertà che ti sei presa col mio nome con la mia governante, e anche con tuo padre e tua madre; e se vuoi danneggiare il mio nome per cause immaginarie, tanto vale che tu ne abbia di autentiche». E, così dicendo, mi ha sollevata di peso, e ha fatto per posarmi sul suo ginocchio. Oh, come mi sono spaventata! Ho detto, come avevo letto in un libro un paio di sere prima: «Angeli e santi, e tutte le schiere celesti, difendetemi! E possa io non sopravvivere di un momento a quello fatale in cui perderò la mia innocenza!» «Graziosa sciocchina!» ha detto lui, «come vuoi perdere la tua innocenza, se sei costretta a cedere a una forza superiore? Non mettere troppi ostacoli, perché, anche se succedesse il peggio, tu ne usciresti con il merito, e io con la colpa; e sarà un buon argomento per lettere a tuo padre e a tua madre, nonché una buona storia da raccontare alla signora Jervis.» Poi, benché io lottassi contro di lui, mi ha baciata, e ha detto: «Chi ha mai biasimato Lucrezia? La vergogna è andata solo al violentatore: e io accetto di assumermi tutto il biasimo, dato che ne ho già sopportato una porzione troppo grande rispetto a quanto mi meritavo». «E io potrò», ho detto io, «come Lucrezia, giustificarmi con la morte, se sarò trattata in modo barbaro?» «Oh, mia brava ragazza!» ha replicato lui canzonandomi, «vedo che hai fatto buone letture; fra tutti e due prima di aver finito metteremo insieme una bella trama per un romanzo.» Quindi ha fatto per baciarmi sul collo. L’indignazione ha raddoppiato le mie forze, mi sono svincolata da lui con un balzo improvviso, e sono corsa fuori dalla stanza; e essendo aperta la porta della camera adiacente, mi ci sono precipitata, e sbattendo la porta, me la sono chiusa dietro a chiave. Lui però mi seguiva così da vicino, che mi ha preso la sottana, e ne ha strappato un lembo, che è rimasto appeso fuori della porta; poiché la chiave era dal lato interno. Ricordo appena di essere entrata in quella stanza. Non ho saputo altro fino a qualche tempo dopo, essendo caduta in preda a uno svenimento; e lì sono rimasta immobile finché lui, immagino, guardando dal buco della serratura mi ha vista distesa in terra, e allora ha chiamato la signora Jervis, e quando questa ha aperto a forza la porta, aiutata da lui, se n’è andato, avendomi vista rinvenire; e le ha ordinato di non dir nulla della faccenda, se avesse avuto cervello.

Richardson e le revisioni di Pamela: due edizioni a confronto - The Serendipity PeriodicalUna delle incisioni che illustrano il romanzo di Richardson

Da come si è visto nel brano riprodotto, il racconto è svolto da un io narrante dapprima sotto forma di lettera, quindi, quando è rinchiusa in campagna da un diario. Ciò serve ad accentuare il pathos che emerge, determinato dalla virtù della ragazza, che si evince da un linguaggio pronto e deciso a sottolineare la verità della giustezza dei suoi atteggiamenti e dalle molestie del conte, rese ancora più esplicite da una espressione violenta e sarcastica. Tuttavia, sebbene Pamela rappresenti, nell’immaginario collettivo delle lettrici di quel periodo il topos della fanciulla perseguitata, essa in realtà appare come una one woman self made, che contrappone al modello pragmatico maschile di Robinson per vincere le sua battaglia per l’affermazione di sé, l’atteggiamento femminile di rispetto delle regole morali ambedue tipicamente borghesi. Infatti non è un caso che la borghesia vinca sull’aristocrazia (il conte sposerà la ragazza), com’era nell’etica del tempo. Se volessimo leggerla ora dovremmo sottolineare come Pamela rappresenti dunque la nuova classe sociale, ma non l’individuo, come sarà in seguito, proprio perché oggi un atteggiamento di violenza sessuale non sarebbe in nessun caso perdonato.

Se abbiamo incontrato sinora due degni rappresentanti della moderna etica borghese inglese, ci avviciniamo ora a un terzo loro degno compagno, il giovane Tom Jones, le cui avventure ci sono narrate da Henry Fielding:

Henry Fielding - Tom Jones, Books & LifeRitratto di Henry Fielding

Il romanzo narra la storia di Tom Jones, un trovatello scoperto misteriosamente una notte nel letto di Mr. Allworthy, e da questi allevato amorevolmente come un figlio. A causa della sua leggerezza in amore e dell’opera di diffamazione dei suoi nemici, tra cui i suoi tutori e soprattutto il cugino Blifil (il cattivo della storia) che vuole sbarazzarsi di un rivale in amore (entrambi erano innamorati di Sophia, la figlia di un vicino di Allworthy, Western), Tom cade in disgrazia presso il padre adottivo, che lo caccia di casa. Messosi in viaggio con l’amico Partidge, si imbatte in numerose avventure, di cui molte di tipo galante. A Londra intreccia una relazione amorosa con Lady Bellastone che, innamoratasi di lui, finisce per mantenerlo. Sophia intanto, non sopportando più i maltrattamenti del padre che vuol farle sposare Blifil, mentre lei è innamorata di Tom, fugge di casa con la sua cameriera e si rifugia a Londra presso un parente. Trovatasi nei guai a causa delle trame di Lady Bellastone, che è gelosa di lei, Sophia viene salvata dall’arrivo del padre. Intanto Tom finisce in seri pasticci, tanto che si ritrova addirittura in prigione. Anche Allworthy e Blifil intanto raggiungono Londra. Tom viene salvato all’ultimo momento e si scopre che è figlio della sorella di Allworthy. Nel frattempo Blifil viene smascherato e la vicenda finisce con la riconciliazione di Allworthy e Tom da una parte, di Sophia e il padre dall’altra, e con il perdono di Sophia a Tom per le sue infedeltà.

PRESENTAZIONE DI TOM

Poiché abbiamo deciso nello scrivere questa storia di non adulare nessuno e di guidare la nostra penna secondo le indicazioni della verità, siamo obbligati a portare alla ribalta il nostro eroe in un modo assai più svantaggioso di quel che volevamo e a dichiarare francamente che, fin dal suo primo apparire, era opinione generale della famiglia di Allworthy che quel tipo era certamente nato per finir sulla forca. Infatti, mi dispiace dirlo, c’eran troppe buone ragioni per pensare così. Il ragazzo fin dai primi anni aveva rivelato propensione a molti vizi, specialmente a un vizio connesso con quella tal profezia. Infatti era stato colto in tre furti; cioè, a rubare in un frutteto, a portar via un’anatra dal cortile d’un agricoltore e una palla dalla tasca del signorino Blifil. Questi vizi poi eran messi in rilievo dallo svantaggioso contrasto con le virtù del suo compagno, il signorino Blifil – ragazzo di tempra così diversa dal piccolo Tom Jones, che tutto il vicinato, nonché la sua famiglia, risuonava delle sue lodi. Era proprio un ragazzo di ottima indole: tranquillo, discreto e pio, da più della sua età; e queste qualità gli guadagnavano l’affetto di quanti lo conoscevano. Tom Jones, invece, spiaceva a tutti, e molti si meravigliavano che Allworthy lo facesse educare insieme al suo nipotino, poiché temevano che il morale di questo si corrompesse dall’esempio dell’altro. Un incidente che accadde intorno a questo tempo metterà in luce i caratteri di questi due ragazzi meglio di una lunga dissertazione. Tom Jones, che, cattivo com’era, deve pur essere l’eroe di questa storia, aveva un solo amico fra la servitù della famiglia. Quest’amico era il guardacaccia, un individuo di discutibili inclinazioni, che pareva non avesse nozioni molto più precise di Tom stesso sulla differenza fra meum e tuum. Perciò questa amicizia era causa di molti commenti sarcastici fra la servitù, la più parte dei quali erano già proverbi o lo divennero poi, e possono riassumersi nel breve proverbio latino Noscitur a socio, che si potrebbe esprimere in volgare così: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. A dir il vero, alcune delle atroci cattiverie di Tom Jones derivavano forse dall’incoraggiamento che gli dava quell’individuo, il quale in due o tre casi era stato quel che la legge chiama complice del fatto. Così l’intera anatra rubata e gran parte delle mele erano state dedicate all’uso del guardacaccia e della sua famiglia, sebbene, essendo stato scoperto soltanto Jones, il povero ragazzo avesse portato tutta la pena e tutto il biasimo. Tanto quella che questo ricaddero nuovamente su di lui nella seguente occasione. Contigua ai terreni di Allworthy era la villa d’uno di quei signori che sono chiamati conservatori della selvaggina. Questa specie di uomini, per la gran severità con cui puniscono l’uccisione di una lepre o d’una pernice, potrebbe parere partecipino della superstizione dei Bannians indiani, i quali dedicano l’intera vita a conservare e proteggere certi animali. Se non che i nostri Bannians inglesi, mentre li proteggono da altri nemici, ne possono ammazzare essi stessi senza misericordia intere carrettate, e per tal modo, si dimostrano pienamente esenti da quella pagana superstizione. Io però ho una migliore opinione che altri di questa specie di uomini, perché secondo me essi rispondono all’ordine della natura e ai suoi buoni fini in modo molto più largo di tante altre persone. Ora, Orazio ci dice che c’è una categoria di uomini fruges consumere nati – nati a consumare i frutti della terra; così non ho alcun dubbio che ci siano altri feras consumere nati, ossia, come si dice comunemente, nati a consumare la selvaggina. E nessuno vorrà negare che quegli squires compiono così la funzione per cui sono stati creati. Il piccolo Jones andava un giorno a caccia con il guardacaccia quando gli accadde di alzare  una covata di pernici presso al confine dei terreni di quella villa nella quale la fortuna, per realizzare i saggi scopi della natura, aveva impiantato uno di quei tali consumatori di selvaggina. Gli uccelli volarono dentro a quei terreni e i due cacciatori segnarono il posto in un boschetto spinoso a circa due o trecento passi al di là del podere di Allworthy. Allworthy aveva dato al guardacaccia ordini tassativi, sotto pena di perdere il posto, di non entrare nei possedimenti dei vicini – sia di quelli che erano meno severi in queste cose, che del proprietario di quella villa. Riguardo a quelli, gli ordini non erano sempre stati eseguiti scrupolosamente; ma invece, conoscendo bene il temperamento del proprietario della villa, dove le pernici si erano rifugiate, il guardacaccia non aveva mai tentato d’invadere il territorio. Né l’avrebbe fatto ora, se il suo giovane amico, bramoso d’inseguire le pernici, non l’avesse persuaso a entrarvi; così il guardacaccia entrò su quel terreno e uccise una pernice con una fucilata. Il signore della villa, in quel momento a cavallo a breve distanza da loro, l’udì, s’affrettò sul luogo e scoperse Tom Jones – poiché il guardacaccia era saltato dentro il folto del boschetto e ci s’era nascosto. Subito il signore perquisì Tom, e trovandogli indosso la pernice, giurò di vendicarsi e di farlo sapere a Allworthy. Infatti cavalcò immediatamente alla sua casa e protestò contro la violazione dei suoi possedimenti in termini così violenti come se gli avessero scassinato l’uscio e ne avessero rubato i suoi mobili più preziosi. Aggiunse che un’altra persona era insieme a Tom, ma che non aveva potuto scoprirla essendo i due colpi partiti quasi nello stesso istante. «Abbiamo trovato una sola pernice», concluse, «ma sa il Cielo quali malanni han fatto». Appena tornato a casa, Tom fu chiamato davanti a Allworthy, ammise il fatto e non portò altra scusa se non quel che era vero, cioè che la covata s’era originariamente levata dai terreni di Allworthy stesso. Richiesto però di dire chi fosse con lui, per via del doppio sparo notato dallo squire, Tom persisté nell’affermare che era solo. Esitò tuttavia un poco sul primo momento, e questo avrebbe confermato il sospetto di Allworthy se non l’avesse già saputo dallo squire. Anche il guardacaccia persona sospetta, fu mandato a chiamare; ma fidando nella promessa che Tom gli aveva fatto di prender tutta la colpa su di sé, negò risolutamente di esser stato in compagnia del ragazzo in tutto quel pomeriggio. Allora Allworthy, con espressione più del solito severa, rivoltosi a Tom lo consigliò di confessare chi era con lui, ripetendo che voleva saperlo. Il ragazzo rimase irremovibile. Irritato, Allworthy lo mandò via dicendogli che gli lasciava tempo di pensarci su fino alla mattina dopo, quando altri l’avrebbero interrogato e in maniera diversa. Il povero Jones passò una notte inquieta tanto più che gli mancava il suo solito compagno, essendo il signorino Blifil fuori in visita con sua madre. Il timore della punizione che l’attendeva era per lui il minor male; la sua principale ansietà era la paura di venir meno di fermezza, per la rovina che sarebbe conseguita al guardacaccia se lui l’avesse tradito. Del resto, neppure questi passò una notte molto migliore, perché aveva le stesse apprensioni del ragazzo, pel cui onore anche lui aveva più considerazione che per la sua pelle. Il mattino seguente, quando Tom si presentò al reverendo signor Thwackum – la persona a cui Allworthy aveva affidato l’istruzione dei due ragazzi –, si sentì ripetere le stesse domande della sera prima e rispose come aveva risposto allora. La conseguenza di ciò fu una serie di severe frustate, probabilmente poco inferiori alla tortura con cui in certe nazioni si estorcono confessioni ai criminali. Ma Tom sopportò la punizione con gran coraggio, e sebbene il suo maestr
o gli chiedesse fra un colpo e l’altro se confessava, egli si sarebbe lasciato scorticare piuttosto di tradire il suo amico o venir meno alla promessa data. Il guardacaccia era ormai libero dall’ansietà ed anche Allworthy s’impietosì delle sofferenze di Tom: poiché, oltre al fatto che Thwackum, furioso di non riuscire a far confessare al ragazzo quel che lui voleva, aveva spinto la severità molto al di là delle intenzioni del buon uomo, egli cominciò a sospettare che lo squire fosse in errore – cosa probabile, data la sua insistenza e la sua rabbia e dato lo scarso valore delle deposizioni dei suoi domestici. Crudeltà e ingiustizia eran due cose che Allworthy non poteva consciamente sopportare neanche un solo momento. Egli dunque mandò a chiamare Tom e, dopo gentili e amichevoli esortazioni, gli disse: «Ragazzo mio, mi sono convinto che t’ho fatto un torto, e mi duole
che tu sia stato così severamente punito a causa di quello». E a titolo di ammenda gli promise un piccolo cavallo, ripetendogli quanto gli rincresceva dell’accaduto. Allora Tom, sentendosi salire al volto la colpa, come la severità non avrebbe potuto fare, poiché egli si sentiva di sopportare più facilmente le frustate di Thwackum che le generosità di Allworthy, diede in pianto e cadde in ginocchio. «Oh, signore», esclamò, «lei è troppo generoso con me! Davvero non lo merito!». E in quell’istante, col cuore pieno, egli fu lì lì per tradire il segreto; ma il buon genio del guardacaccia gli fece presente quale ne sarebbe stata la conseguenza per quel povero diavolo e questa considerazione gli chiuse le labbra.

Tom Jones by Henry Fielding (Classic Literature) – Books Reviewer

Tom Jones nell’edizione del 1789

Il testo letto, nonché la trama del romanzo ci fanno apparire un nuovo personaggio nell’economia del nascente romanzo inglese, quello che prende le mosse dal già diffuso, soprattutto in Spagna, personaggio picaresco, cioè un ragazzo avventuriero ma soprattutto buono (al di là e al di sopra – almeno in questo caso – dell’ideologia corrente). Così appare essere Tom Jones, protagonista eponimo del romanzo di Fielding: ma quello che qui interessa è che, nel brano qui presentato, egli pur di salvare l’amico, nasconde la “totale” verità al suo tutore (di contro, a ben pensarci, dell’integerrima Pamela di Richardson) e poi, nel prosieguo del romanzo, si darà ad una certa libertà sessuale, scevra da ogni moralismo. Diciamo pure che Fielding in quest’opera non solo mette in luce la vitalità del personaggio, ma anche la sua spregiudicatezza. E’ che l’autore vuole mettere in ridicolo, come già ha fatto parodiando proprio Pamela di Richardson, scrivendo la Shamela, con all’interno la parola vergogna, il perbenismo puritano che circolava allora in Gran Bretagna. Se egli poté far ciò è perché, sin dall’inizio, il romanzo “moderno” non ha alcun codice di riferimento, né autorità da rispettare, ma un campo dove qualsiasi autore può decidere di sperimentare la sua arte.

Così, ad esempio, fece Jonathan Swift, con il più importante e duraturo romanzo inglese di questo periodo, I viaggi di Gulliver:

Jonathan Swift | Satirist, Poet & Clergyman | Britannica
 

Ritratto di Jonathan Swift

Quest’opera racconta la storia di Lemuel Gulliver, giovane medico di bordo su una nave mercantile. Dapprima giunge, dopo un naufragio, nell’isola di Lilliput, dove gli abitanti sono uomini alti pochi centimetri; poi visita Brobdingnag, dove viceversa gli abitanti sono uomini giganti e tutto ciò che li circonda è proporzionato ad essi e Gulliver si sente come un piccolo vermiciattolo rispetto a loro. Quindi nel suo girovagare s’imbatte nell’isola volante di Laputa, abitata da filosofi, storici ed inventori; dopo giunge nell’isola di Glabdubdrib, dove vengono evocati gli spiriti dell’antichità. Per ultimo Gulliver visita il paese degli Houyhnhnm, saggi cavalli che hanno come animali domestici gli Yahoo, bestie dignitose dall’aspetto umano.

NEL REGNO DI LILLIPUT

DESCRIZIONE DI MILDENDO, CAPITALE Dl LILLIPUT, E DEL PALAZZO DELL’IMPERATORE. L’AUTORE SI INTRATTIENE CON IL PRIMO SEGRETARIO PARLANDO DEL GOVERNO DELLO STATO. L’AUTORE OFFRE AIUTO ALL’IMPERATORE IN CASO DI GUERRA.

Ottenuta la libertà, la prima richiesta che feci fu quella di poter vedere la capitale di Mildendo. L’imperatore me lo accordò subito, chiedendomi espressamente di non danneggiare né abitanti né case. Fu emesso un proclama col quale si avvertiva il popolo della mia intenzione di visitare la città. Questa è circondata da una muraglia alta circa ottanta centimetri e larga una trentina, così che ci si può scarrozzare sopra benissimo con cocchio e cavalli, ed è fiancheggiata da potenti torrioni ogni tre metri. Scavalcai la grande porta occidentale e cominciai a camminare di sghembo e con accortezza per le strade principali, con il solo giubbetto addosso, per paura di danneggiare i tetti e le grondaie delle case con le falde della giacca. Camminai con estrema circospezione, attento a non calpestare chi si fosse trovato per strada, malgrado la perentorietà dell’ordinanza, che imponeva a chiunque di non uscire, se non a proprio rischio e pericolo. Le finestre più alte e i tetti erano talmente affollati di spettatori, che non credo di aver mai visto un luogo altrettanto gremito. La città è un quadrato perfetto con il lato di centocinquanta metri ed oltre. Le due strade maestre, che incrociandosi formano i quattro quartieri, sono larghe un metro e mezzo, mentre i vicoli e le strade minori che vidi passando, senza poterci entrare, sono larghi dai trenta ai quaranta centimetri. La città può contenere cinquecentomila anime. Le case sono da tre a cinque piani, ben forniti negozi e mercati. Il palazzo imperiale è al centro della città, all’incrocio delle vie maestre. E’ circondato da un muro alto sessanta centimetri che si sviluppa a un sei metri di distanza. Da Sua Maestà ebbi il permesso di scavalcare il muro di cinta e poiché c’era spazio abbastanza, mi fu possibile osservarlo da ogni lato. La corte esterna è un quadrato di dodici metri ed incorpora altri due corti; in quella più interna ci sono gli appartamenti reali, che desideravo proprio vedere, sebbene fosse assai difficile, perché i portali che immettevano da una piazza all’altra erano alti quaranta centimetri e larghi una ventina. Inoltre gli edifici della corte esterna erano alti almeno un metro e mezzo e non li potevo scavalcare senza recare danni ingenti al complesso, sebbene le mura fossero di solide pietre squadrate e dello spessore di dodici centimetri. Eppure l’imperatore desiderava ardentemente che potessi ammirare il suo magnifico palazzo, ma questo non mi fu possibile se non in capo a tre giorni, durante i quali tagliai alla base, col mio coltello, alcuni degli alberi più maestosi del parco reale che si trovava a un cento metri dalla città. Con questi alberi costruii due sgabelli dell’altezza di un metro e abbastanza solidi da reggere il mio peso. Avvertita una seconda volta la popolazione, percorsi di nuovo la città fino al palazzo con in mano gli sgabelli. Quando fui di fianco alla corte esterna, salii su uno dei banchetti e tenendo l’altro in mano, lo passai sopra il tetto deponendolo quindi, con la massima attenzione, nello spazio fra la prima e la seconda corte, che ha una superficie di meno di mezzo metro. Scavalcati agevolmente gli edifici e tirato su il banchetto per mezzo di una fune con un uncino, mi trovai nella corte interna, e allora, distesomi di fianco, avvicinai il viso alle finestre dei piani intermedi, lasciate aperte appositamente, e potei scorgere gli appartamenti più stupendi che si possano immaginare. L’imperatrice e i principini erano nelle loro stanze, attorniati dalle personalità del seguito. Sua Maestà l’imperatrice si compiacque di sorridermi graziosamente, tendendomi fuori della finestra la mano da baciare. Ma non voglio anticipare al lettore descrizioni di questo genere che ho riservato per un’opera più grande, quasi pronta ormai per la stampa, contenente una descrizione generale di questo impero, fino dalla sua fondazione, attraverso una lunga prosapia di principi e con particolare riferimento alle sue guerre, alle istituzioni, alle leggi, alla cultura, alla religione, alle piante e agli animali, ai costumi e a tutti i modi di vivere che caratterizzano questa terra, senza per questo tralasciare anche altre notizie curiose ed istruttive. Per ora è mia intenzione riferire fatti e avvenimenti accaduti a quel popolo o a me stesso durante la permanenza di circa nove mesi in quell’impero. Un mattino, quindici giorni dopo la mia liberazione, il primo segretario agli affari privati (come è chiamato) Reldresal venne a trovarmi accompagnato da un solo servitore. Lasciata la carrozza ad una certa distanza, mi chiese di riservargli un’udienza di un’ora. Acconsentii subito, sia per riguardo alla sua posizione e ai suoi meriti personali, sia ricordando i buoni servigi che mi aveva reso quando avevo rivolto le mie suppliche alla corte. Dissi che mi sarei disteso al suolo per ascoltarlo meglio, ma lui preferì che lo tenessi in mano. Poi cominciò col complimentarsi per la mia liberazione, nella quale disse che qualche merito spettava pure a lui, ma che dovevo ringraziare come stavano andando le cose a palazzo, altrimenti non l’avrei ottenuta tanto alla svelta. «Perché», aggiunse, «dietro le condizioni di prosperità come possono apparire ad occhi estranei, il nostro paese è tormentato da due grossi malanni: all’interno la violenza delle fazioni e all’esterno il pericolo d’invasione di un potente nemico. Per quanto riguarda il primo, devi sapere che per più di settanta lune questo impero è stato diviso da due partiti in lotta fra di loro, denominati “Tramecksan” e “Slamecksan”, dai tacchi alti e dai tacchi bassi che portano come loro segno di distinzione. Sebbene si sostenga che i tacchi alti siano più conformi allo spirito della nostra antica costituzione, sia come sia, Sua Maestà ha imposto a tutti i funzionari dell’amministrazione governativa e degli uffici dipendenti dalla corona l’uso dei tacchi bassi, come puoi vedere coi tuoi stessi occhi. Quelli di Sua Maestà sono addirittura più bassi di un “drurr” rispetto a quelli degli altri cortigiani (il “drurr” corrisponde alla quattordicesima parte di un centimetro). Il rancore fra questi due partiti si è inasprito così tanto, che i suoi componenti si rifiutano di bere e di pranzare insieme e addirittura di rivolgersi la parola. Riteniamo che i “Tramecksan” o “Tacchialti” siano maggiori di numero, ma senza dubbio il potere è tutto in mano nostra. “Temiamo tuttavia che Sua Maestà Imperiale, l’erede al trono, dimostri qualche simpatia per i tacchi alti; è comunque certo che porta uno dei due tacchi più alto dell’altro, il che gli conferisce la tipica andatura dello zoppo. Ora, nel colmo di queste lotte intestine, siamo minacciati da un’invasione da parte degli abitanti dell’isola di Blefuscu, l’altro grande impero dell’universo, vasto e potente quanto quello di Sua Maestà. Per quanto riguarda, infatti, la tua affermazione, che ci sarebbero altri regni ed altri stati nel mondo, abitati da esseri della tua grandezza, i nostri filosofi sono alquanto scettici e sono inclini a pensare che tu sia piovuto dalla Luna o da una stella. E’ comunque certo che un centinaio di esseri del tuo peso basterebbero a distruggere in un batter d’occhio i prodotti agricoli e il bestiame dei territori di Sua Maestà. Inoltre non c’è il minimo accenno ad altri paesi, che non siano i grandi imperi di Blefuscu e di Lilliput, nelle storie delle seimila lune. Ma questi due potenti stati si sono impegnati in una reciproca ostinatissima guerra per trentasei lune. Ora ascolta quale ne fu l’occasione. E’ da tutti ammesso che il modo consueto di bere un uovo è di romperlo dalla punta larga; ma il nonno di Sua Maestà, apprestandosi un giorno, quando era bambino, a bere un uovo e avendolo rotto secondo l’uso degli antichi, si graffiò un dito. In conseguenza di ciò, l’imperatore suo padre, emanò un editto col quale si imponeva ai sudditi, con la minaccia di pene assai rigorose, di rompere le uova dalla parte della punta stretta. Il popolo reagì
violentemente a questa legge, tanto che, come ci narrano le storie, ci furono sei rivoluzioni durante le quali un imperatore perse la vita e un altro la corona. A fomentare queste guerre civili furono sempre gli imperatori di Blefuscu, presso i quali trovavano rifugio gli esiliati, non appena veniva soffocata una rivoluzione. Si calcola che non meno di undicimila persone abbiano preferito la morte, piuttosto che accettare di rompere le uova dalla punta stretta. Su questa controversia sono usciti centinaia di grossi volumi, anche se i libri dei Puntalarga sono stati proibiti da lungo tempo e gli appartenenti a quel partito siano stati interdetti a termini di legge da ogni impiego. Durante queste discordie gli imperatori di Blefuscu ci presentarono, per mano dei loro ambasciatori, numerose proteste, accusandoci di avere aperto un vero scisma religioso, poiché avremmo offeso uno dei dogmi della dottrina del nostro profeta Lustrog, espressa nel capitolo cinquantaquattresimo del Brundrecal (che è il loro Corano). Si ritiene tuttavia che questo sia stato un voler forzare il testo, le cui parole dicono esattamente che tutti i credenti dovranno rompere le uova dalla parte giusta. Ora, è mia umile opinione che decidere della parte giusta spetti alla coscienza individuale o in ultima istanza al supremo magistrato. Ma i Puntalarga esiliati hanno ottenuto un così gran credito alla corte di Blefuscu e tanti aiuti materiali e morali dal loro partito in patria, che per trentasei lune si è combattuta una guerra sanguinosa tra i due paesi con alterne vittorie e durante le quali abbiamo perso quaranta galeoni da guerra e un numero assai più grande di vascelli minori, con i loro equipaggi di marinai esperti e di soldati, per un totale di trentamila persone. I danni arrecati al nemico si pensa che siano maggiori dei nostri. Esso tuttavia ha equipaggiato una flotta numerosa con la quale si prepara ad invaderci, e per questo Sua Maestà, confidando nella tua forza e nel tuo valore, mi ha ordinato di esporti questo stato di cose». Pregai il segretario di farsi latore a Sua Maestà dei miei devoti omaggi e di informarlo che non intendevo, come straniero, immischiarmi nelle loro faccende private, ma che ero pronto a dare la mia vita per difendere la sua vita e il suo regno contro l’invasore.
 

Diversità culturale ed etnocentrismo nei Gulliver's Travels - The Serendipity Periodical

Gulliver circondato dai Lillipuziani

Che, contrariamente ai romanzi precedenti, qui lo Swift, usi la tecnica dello straniamento, già utilizzato, come vedremo anche in seguito da Montesquieu nel suo Lettere persiane, è evidente: infatti si tratta di non rappresentare la realtà nuda e cruda, così com’è (foss’anche idealizzata ma non “abbellita”) bensì di straniarla, per poter accentuare l’atteggiamento critico verso ciò che si vuole sottolineare. Prendiamo proprio l’esempio del brano proposto:

  • La volontà di mostrare all’ospite gigante la bellezza dei palazzi reali in miniatura, e quindi come ridicoli giocattoli, suscita la critica, proprio attraverso il contrasto che il lettore fa tra la descrizione e la realtà, verso la ricca e vuota corte inglese;
  • Allo stesso modo la descrizione dei rappresentanti dei “Tacchialti” e dei “Tacchibassi” nasconde, non così velatamente la distinzione tra il partito degli Wighs e dei Tories e il pretesto della loro differenza ideologica. Allo stesso modo coloro che portano ambedue i tacchi, denotano chi, nella realtà, cerca di barcamenarsi tra i due contendenti, assicurandosi, così, il potere.
  • Basare la lotta tra il regno di Lilliput e quello di Blefuscu basandosi sul modo di rompere l’uovo, e individuare in questo un vero e proprio dogma che, infranto, porta alla guerra i due imperi, nasconde la ben più cruda e feroce battaglia contro le guerre di religione.

E’ chiaro che quello che viene qui espresso è frutto dell’ideologia illuminata, che vede nella vacuità della ricchezza, nel dibattere una politica vuota e nella religione, e di conseguenza nelle guerre di religione, l’assurdità di vivere in modo non razionale. Questo, ad esempio, ci viene espresso nel capitolo dei cavalli saggi che hanno come animali domestici gli uomini. Quasi fossimo, in quanto non obbedienti alla vita secondo natura, come dirà lo stesso illuminista eterodosso Rousseau, inferiori agli animali.

Il romanzo inglese venne letto e grandemente apprezzato da quegli illuministi autori dell’Encyclopédie, che videro in essi il mezzo culturale adatto ad aderire meglio alle cose per poi poterle cambiare secondo ragione, proprio perché capaci d’allargare e quindi di parlare ad un numero assai più vasto di lettori. Anche loro avevano tale obiettivo e, come già detto, volevano esplicarlo in modo maggiormente metodico e didascalico attraverso la loro monumentale opera, ma non disdegnavano affatto l’utilizzo di periodici e gazzette per propagandare il loro credo. Adottarono anche la forma romanzo, ma in modo diverso, oseremmo dire più radicale, rispetto ai loro colleghi inglesi e questo per due motivi:

  • La cultura francese, quale si era sviluppata in questo periodo, era fortemente ideologizzata: ciò portava, spesso, a forzare la natura narrativa per voler “mostrare” una verità;
  • A tale situazione portava proprio la condizione politico-sociale dei due paesi: se in Inghilterra il parlamentarismo guidava il cambiamento, indirizzandolo verso un riformismo che doveva evitare la rottura sociale, in Francia l’atteggiamento retrivo dell’aristocrazia e della corte nonché la predominanza dell’agricoltura come strumento economico, rendevano più urgente il loro sforzo di mostrare l’incongruenza della realtà francese, attraverso quelli che vengono definiti contes philosophique.

Montesquieu: pensiero, opere e Lo spirito delle leggi | Studenti.it

Ritratto di Montesquieu

Tra tali “racconti filosofici, proprio per un discorso di continuità con quanto adesso detto su Swift, ci piace cominciare con le Lettere persiane di Montesquieu:

Desideroso di conoscere il mondo, il persiano Usbek un grande dignitario, parte con un amico, Rica, alla scoperta del mondo occidentale. Durante il loro viaggio scambiano con diversi amici delle lettere per riferire loro le proprie impressioni sulla civiltà occidentale, sui costumi e sulla vita quotidiana di Parigi e per ricevere notizie dalla Persia, in particolare dall’harem di Usbek, a Ispahan, dove regna il disordine dopo la partenza del signore. Un terzo personaggio, Rhèdi, risponde loro da Venezia. Usbek discute sulla popolazione della terra, sui benefici della civilizzazione, sul diritto delle genti, sullo spirito di tolleranza, sulla decadenza dell’impero turco, sull’impossibilità della conoscenza  della natura di Dio. Rica, a sua volta, descrive scene di vita parigina: l’Opera e la Comèdie, la folla variopinta, la curiosità dei parigini alla vista di questi stranieri, i capricci della moda. Rica e Usbek ci raccontano tutta la storia della Francia dal 1711 al 1720, durante il regno di Luigi XIV e contemporaneamente vivono una storia d’amore e di morte. Le mogli di Usbek, abbandonate a se stesse nell’harem, tradiscono il marito e quest’ultimo, prima di rientrare in tutta fretta a Ispahan, ordina ai suoi eunuchi di uccidere le infedeli. Prima di avvelenarsi, Roxane, la moglie più amata, confessa a Usbek il suo amore per un altro uomo.MONTESQUIEU : Lettres persanes - Edition-Originale.com

Lettere persiane nell’edizione del 1721

Come si può leggere anche qui, come nello scrittore di Gulliver, viene utilizzato il processo dello straniamento: ma la novità dell’opera del nobile francese è che egli lo utilizza su ambedue i versanti: se infatti il persiano Usbeck può vedere gli atteggiamenti straniati, e quindi assurdi, dei parigini, lo stesso autore, “straniandolo” dalla sua terra, ci fa capire le assurdità delle sue leggi (o del mondo orientale), cui la morale aveva chiuso in un serraglio sua moglie, controllata da feroci eunuchi. Ma ciò non basterà a rassicurare a lui la fedeltà di Roxane, che anzi lo tradirà con un giovane che, inoltre, prima di essere sopraffatto, ucciderà molti di loro, costringendo al suicidio anche il loro capo per l’incapacità di controllo. Alla fine Roxane, ormai senza alcun motivo di vita, scrive a Usbeck:

LA LETTERA DI ROXANE, MOGLIE DI USBEK

Sì, ti ho ingannato: ho sedotto i tuoi eunuchi, mi sono presa gioco della tua gelosia, ho saputo fare un luogo di delizia e di piaceri del tuo orribile serraglio. Sono sul punto di morire: il veleno si diffonde nelle mie vene. Che farei sulla terra, poiché il solo uomo che mi legava alla vita non è più? Io muoio; ma la mia anima si invola bene accompagnata: ho manda-to avanti a me quei guardiani sacrileghi che hanno versato il sangue più bello del mondo. Come mi hai potuto stimare tanto credula da convincermi che io ero al mondo solo per assecondare i tuoi capricci e che tu, mentre ti permettevi tutto, avevi il diritto di contristare tutti i miei desideri? No! Io ho potuto vivere nella schiavitù, ma sono rimasta sempre libera: ho riformato le tue leggi su quelle della natura, e la mia anima si è sempre mantenuta indipendente. Dovresti ancora ringraziarmi del sacrificio che ti ho fatto: di essermi abbassata fino a sembrarti fedele; di avere vigliaccamente tenuto nel mio cuore ciò che avrei dovuto mostrare a tutta la terra; di aver profanato la virtù, lasciando chiamare con questo nome la mia sottomissione ai tuoi capricci. Ti stupivi di non trovare in me i trasporti dell’amore: se mi avessi conosciuta bene avresti trovato tutta la violenza dell’odio. Ma tu hai avuto a lungo il vantaggio di credere che un cuore come il mio ti era sottomesso. Eravamo entrambi felici: tu mi credevi ingannata, ed io ti ingannavo. Questo linguaggio ti sembrerà nuovo, senza dubbio. E’ possibile che dopo averti oppresso di dolore, io ti co-stringa ancora ad ammirare il mio coraggio? Ma è finita: il veleno mi consuma, la forza mi abbandona, la penna mi cade di mano; sento affievolirsi fino il mio odio: io muoio. 

Con questa lettera con cui si sottolinea l’innaturalità dell’amore, si vuole appunto evidenziare l’atteggiamento moralistico e repressivo che ambedue le culture, una cattolica, l’altra musulmana, hanno su questo sentimento. E’ la stessa Roxane a rivendicare tale diritto, dicendo “ho riformato le tue leggi su quelle della natura”, affermando cioè il suo diritto di donna in un mondo “razionale” che la riconosce tale non in virtù di divieti dovuti a dogmi assurdi, ma secondo le auree leggi naturali, obbedienti solo al ciclo vitale. Su questo tema saranno poi incentrati romanzi come la Nouvelle Eloise di Rousseau o I dolori del giovani Werther di Goëthe, che apriranno la strada a quello che, per semplificare, verrà definito preromanticismo.

Altro importantissimo genere romanzesco è quello del Candido di Voltaire, tipico esempio del conte philosophique:

Voltaire: il pensiero, le opere e la biografia

Voltaire

Candide, giovane ingenuo e candido, ha come maestro Pangloss, che vuole insegnargli la filosofia leibniziana secondo cui lui vive “nel migliore dei mondi possibili”. Ma le cose si mettono male per il giovane: infatti innamorato della figlia del signore che lo ospita, tale signorina Cunegonda, trasportato da passione, la bacia; ma scoperto sul fatto, viene cacciato a pedate dal castello in cui abita. Qui comincia una serie di avventure, che mostrano a Candido un’umanità disperata, dolente e annoiata, che sembra contraddire proprio l’insegnamento di Pangloss. Addirittura rischia di essere lui stesso impiccato, ma fugge e incontra Pangloss. I due raggiunti dalle guardie vengono per l’ennesima volta catturati , ma fuggono di nuovo e s’imbarcano. Fortunosamente scampano a morte sicura, perché erano stati catturati dall’Inquisizione, e infine rincontrano Cunegonda, anche lui reduce da infinite avventure. Ma si è fatta ormai vecchia brutta e noiosa. Alla fine Candido incontra il filosofo pessimista Martino, che, contro Pangloss che continua a ripetere, contro ogni evidenza, che il loro mondo è il migliore dei mondi possibili, afferma che l’unico modo per essere felici è lavorare per alleviare le sofferenze del male, e seguendolo Candido, insieme a tutti gli altri personaggi, coltiverà il suo giardino, decretando che il miglioramento avverrà con fatica e dedizione, senza farsi eccessive illusioni.

COLTIVARE IL NOSTRO GIARDINO

Abitava nei dintorni un dervis famosissimo che passava per uno dei migliori filosofi della Turchia; andarono a consultarlo; Pangloss prese la parola e disse: «Maestro, veniamo a pregarvi di dirci perché è stato creato un animale così strano come l’uomo». «Di che t’impicci?» disse il dervis «E’ forse affar tuo?»  «Ma reverendo padre», disse Candido, «c’è un orribile quantità di male sulla terra». «Che t’importa», disse il dervis, «che ci sia il male e il bene? Quando Sua Altezza spedisce un vascello in Egitto, si preoccupa forse se i topi stiano comodi o meno sulla nave?». «Che bisogna fare dunque?», disse Pangloss. «Tacere», rispose il dervis. «Mi lusingavo», disse Pangloss, «di ragionare un po’ con voi degli effetti e delle cause del migliore dei mondi possibili, dell’origine del male, della natura dell’anima e dell’armonia prestabilita». Il dervis a tali parole chiuse loro la porta in faccia. Durante questa conversazione si sparse la voce che erano stati strangolati a Costantinopoli due vizir di corte ed il muftì, mentre diversi loro amici erano stati impalati. Questa catastrofe fece dappertutto grande rumore per qualche tempo. Pangloss, Candido e Martino, tornando alla piccola fattoria incontrarono un buon vecchio, che prendeva il fresco sulla sua porta, sotto un pergolato d’aranci; Pangloss tanto curioso quanto pensatore, gli dimandò come si chiamava il muftì strangolato. «Io non so niente», rispose il buon uomo, «e non ho mai saputo il nome di alcun muftì, né di alcun vizir, anzi ignoro il caso di cui mi parlate; suppongo che generalmente coloro che si mescolano negli affari pubblici, muoiano qualche volta miseramente, e lo meritano; ma non m’informo mai di ciò che si fa a Costantinopoli. Mi contento di mandare a vendervi le frutta del giardino che io coltivo». Dopo tali parole egli fece entrare i forestieri nella sua casa. Due sue figlie e due suoi figli offrirono diverse specie di sorbetti, che essi facevano, kaimak con scorze di cedrato candito, aranci, cedri di limoni, pistacchi e caffè di Moka, non mescolato col cattivo caffè di Batavia e delle isole. Poi le due figlie di quel buon musulmano profumarono le barbe a Candido, a Pangloss ed a Martino. «Voi dovete avere», disse Candido al turco, «una vasta e magnifica terra». «Io non ho che venti jugeri», rispose il turco; «li coltivo con i miei figli, e il lavoro allontana da noi tre mali: la noia, il vizio e il bisogno». Candido, tornando alla fattoria, fece profonde riflessioni sul discorso del turco, e disse a Pangloss ed a Martino: «Quel buon vecchio sembra che abbia un destino migliore a quello dei sei re, con i quali abbiamo avuto l’onore di cenare». «Le grandezze», disse Pangloss, «sono molto pericolose, secondo tutti i filosofi: infatti Eglone, re dei Moabiti, fu assassinato da Aod; Assalonne fu impiccato per i capelli e trafitto da tre lance; il re Nadab figlio di Geroboamo, fu ucciso da Zambri; Giosia dal Jehu; Atalia da Jojada; il re Gioachimo, Jeconia, Sedecia furono schiavi. Sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d’Inghilterra, Edoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrico di Francia, l’imperatore Enrico IV? Sapete…». «Io so ancora», disse Candido, «che bisogna coltivare il nostro giardino». «Voi avete ragione», ripetè Pangloss, «perché quando l’uomo fu messo nel giardino dell’Eden vi fu messo ut operaretur eum, perchè lavorasse; ciò prova che l’uomo non è nato per il riposo». «Lavoriamo senza ragionare», disse Martino; «questo, è il solo mezzo di render la vita sopportabile». Tutta la piccola società prese parte in quel lodevole proposito; ciascuno si mise ad esercitare i propri talenti. La piccola terra fruttò molto. Cunegonda, a dire il vero, era diventata assai brutta, ma divenne un’eccellente pasticciera; la vecchia ebbe cura della biancheria; Pangloss diceva qualche volta a Candido: «Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel migliore dei mondi possibili, infatti se voi non foste stato scacciato a pedate dal bel castello per amore di Cunegonda, se non foste stato preso dall’Inquisizione, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste infilzato il barone, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d’Eldorado, voi non mangereste qui dei cedri canditi e dei pistacchi.» «Giusto», rispondeva Candido, «ma intanto bisogna coltivare il giardino».

File:Moreau Sucre crop.jpg - Wikipedia

Illustrazione per il Candido di Voltaire

Il romanzo filosofico di Voltaire è caratterizzato dalla volontà di portare avanti, attraverso le perizie di un personaggio, Candido appunto, non tanto una teoria filosofica, quanto distruggere quella di un suo valido precedente avversario filosofico come Leibniz: il protagonista della storia sembra tanto contraddire con tutto ciò che gli capita, il detto del “migliore dei mondi possibili”, sembrando, invece, che tutto ciò in cui il nostro ingenuo protagonista incappi, gli dimostri che lui si barcameni in “uno dei peggiori mondi possibili”. Ciò non toglie l’ambiguità del finale: sembra infatti che il disinteresse epicureo verso ogni forma d’attivismo politico sia da premiare. Ma come può un uomo impegnato come Voltaire chiudere il proprio romanzo con questo messaggio? La critica, oggi, individua nella frase di Candido non un atteggiamento rinunciatario, ma invece pragmatico, cioè il bisogno d’interessarsi di problemi pratici, piuttosto, come Leibniz, d’arrivare, attraverso la logica, a dimostrare una verità metafisica.

Marchese de Sade - Wikipedia

Il Marchese De Sade

Per concludere il nostro discorso è necessario non passare sotto silenzio la nascita del “libertinismo”; questo trae la sua visione del mondo dal sensismo di Condillac, secondo cui tutte le idee hanno la loro origine dall’esperienza sensibile e dalla loro rielaborazione meccanica: attraverso questo concetto si può arrivare quindi alla completa materialità dell’anima (se provo dolore è perché l’anima, in quanto materia, lo prova) e quindi ad una visione legata alla ricerca “materiale” del piacere. Se il massimo piacere è il piacere sessuale, ecco che quello che guida gli individui, è la ricerca dello stesso: se poi esso prevede la sottomissione dell’altro, è uno scotto che bisogna pagare. E’ su questa base che si collocano i romanzi di De Sade, come educazione alla filosofia libertina, contro quella repressiva religiosa.

Justine o le disavventure della virtù - Wikipedia

ODE AI LIBERTINI

Voluttuosi di ogni età e sesso, dedico quest’opera a voi soli: nutritevi dei suoi principi, favoriranno le vostre passioni! E le passioni, verso le quali certi freddi e piatti moralisti v’incutono terrore, sono in realtà gli unici mezzi che la natura mette a disposizione dell’uomo per raggiungere quanto essa si attende da lui. Obbedite soltanto a queste deliziose passioni! Vi condurranno senza dubbio alla felicità. Donne lascive, la voluttuosa Saint-Ange sia il vostro modello! Secondo il suo esempio disprezzate tutto ciò che è contrario alle leggi divine del piacere che l’avvinsero per tutta la vita. Fanciulle rimaste troppo a lungo legate ad assurdi e pericolosi vincoli d’una virtù fantasiosa e di una religione disgustante, imitate l’appassionata Eugénie! Distruggete, calpestate e con la stessa rapidità, tutti i ridicoli precetti che vi hanno inculcato genitori imbecilli! E voi, amabili dissoluti, voi che fin dalla giovinezza avete come unici freni i vostri stessi desideri e come uniche leggi i vostri stessi capricci, prendete a modello il cinico Dolmancé! Spingetevi agli estremi come lui se, come lui, volete percorrere tutti i sentieri in fiore che la lascivia aprirà al vostro passaggio! Convincetevi, alla sua scuola, che solo ampliando la sfera dei piaceri e delle fantasie, solo sacrificando tutto alla voluttà, quell’infelice individuo conosciuto sotto il nome di uomo, scaraventato suo malgrado in questo triste universo, potrà riuscire a spargere qualche rosa tra le spine della vita.

Anche in quest’opera, come nelle altre dell’Illuminismo, si vuole guidare l’uomo ad uscire dalle tenebre della superstizione per condurlo alla luce della verità e del vivere naturale. Portata tale premessa alle estreme conseguenze avremo la ricerca della piena libertà sessuale, negata da una religione bigotta (disgustante la definisce lui) e da quelle comuni virtù (assurdi precetti insegnati da genitori imbecilli) che limitano la piena esplicitazione vitale dell’individuo.

In Italia l’Illuminismo rappresenta una forte volontà di sprovincializzazione che fa sì che la cultura italiana si riaffacci con capacità sul più vasto panorama europeo. I centri in cui la cultura illuminista ha la massima fioritura sono quelli dove, a livello storico, si sono affermati i princìpi innovatori e cioè Napoli e Milano.

A Napoli gli intellettuali collaborano con il re Carlo di Borbone che, espellendo i gesuiti, limitando i privilegi della nobiltà, si era aperto alle nuove istanze illuminate. I maggiori rappresentanti di tale illuminismo sono Antonio Genovesi, che è convinto che compito delle lettere è quello di “giovare alle bisogna della vita umana”, tale impegno è ribadito in un brano dell’opera Lettere accademiche, accolta con favore in Italia e all’estero:

Il Credito Cooperativo alimenta uno sviluppo sostenibile e un impatto concreto su territori, persone e comunità - Federazione Banche di Comunità Credito Cooperativo Campania e CalabriaLA LEGGE E LA FAME

…se la legge cozza con la fame, colla sete, colla nudità e cogli altri bisogni primitivi, e non aiuti la natura e la rilevi, siate sicuro ch’ella non ha pene che bastino perché la si osservi: anzi vi stuzzicherà l’appetito. (…) Le fruste, le carceri, le galee, l’esilio, le forche, il fuoco medesimo parranno sempre piccolo dolore a petto di quel che dà loro il ventricolo e le budella, e cert’altri organi assai sensitivi e stimolanti.

in cui mostra l’incongruità con una penalità severa e la mancanza di una politica sociale, in quanto l’una deriverebbe dall’altra;

L’altra figura di spicco è quella di  Gaetano Filangeri, che nell’opera Scienza della legislazione delinea un modello compiuto di società, basandosi su leggi politiche, economiche, criminali, sull’educazione e via discorrendo.

Gaetano Filangieri e la ricerca della felicità di Zenone di EleaL’EDUCAZIONE PUBBLICA

Essa (l’educazione pubblica) richiede che tutti gli individui della società possano partecipare all’educazione del magistrato e della legge, ma ciascheduno secondo le sue circostanze e la sua destinazione. Essa richiede che il colono sia istruito per esser cittadino e colono, e non per essere magistrato o duce. Essa richiede che l’artigiano possa ricevere nella sua infanzia quella istituzione che è atta ad allontanarlo dal vizio e condurlo alla virtù, all’amore della patria, al rispetto delle leggi, ed a facilitargli i progressi nella sua arte; e non già quella che si richiede per dirigere la patria ed amministrare il governo. L’educazione pubblica finalmente, per essere universale, richiede che tutte le classi, tutti gli ordini dello stato vi abbiano parte; ma non richiede che tutti questi ordini, tutte queste classi vi abbiano la parte istessa. In poche parole, essa dev’essere universale, ma non uniforme; pubblica, ma non comune.

Interessante discorso in cui si delinea un’educazione, quindi un processo di scolarizzazione allargato che se non spinge per una “rivoluzione sociale”, tuttavia ribadisce la necessità di legare, proprio attraverso una pedagogia civile, l’uomo alla propria patria.

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L’altro centro fondamentale, anzi il più importante dell’illuminismo italiano è Milano, dove, grazie al clima inaugurato da Maria Teresa e da suo figlio Giuseppe II, la circolazione delle idee si fa più intensa, e dove l’aristocrazia lombarda vuole dar vita ad un intenso rinnovamento della sua classe. A tale scopo i conti Pietro ed Alessandro Verri, riuniscono presso la propria residenza gli intellettuali più impegnati che riportano poi le discussioni vivaci avvenute nella Società dei Pugni di cui si fa portavoce la rivista Il caffè (1764/1766).

IL CAFFE’

Cos’è questo Caffè? E’ un foglio di stampa, che si pubblicherà ogni dieci giorni. Cosa conterrà questo foglio di stampa? Cose varie, cose disparatissime, cose indedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità. Va bene: ma con quale stile saranno scritti questi fogli? Con ogni stile, che non annoi. E sin a quando fate voi conto di continuare quest’opera? Insin a tanto che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anno dei trentasei fogli se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa. Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto? Il fine d’una aggradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Stele, e Swift, e Addison, e Pope ed altri. Ma perché chiamate questi fogli “il Caffè”? Ve lo dirò ma andiamo a capo. Un Greco originario di Citera, isoletta riposta fra la Morea e Candia, mal soffrendo l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i greci tutti vengon tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella Contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione e gli esempi, son già tre anni che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plumbeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida, e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega, che vuol leggere, trova sempre i fogli di Novelle Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa*, e quei di Lugano, e vari altri; in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto ella Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi, o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in essa bottega v’è di più un buon Atlante, che decide le questioni che nascono nelle nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi che vi ascolto degni da registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi i ordine vari, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè.

*cantone svizzero 

Questo testo è fondamentale perché è rivelatore di alcuni concetti estremamente importanti per la nostra cultura:

  • Sin dall’incipit si dichiara che gli argomenti di cui parlerà il periodico saranno vari e ciò significa dare un calcio alla nostra tradizione che aveva, sin dall’Umanesimo, diviso tra cultura alta e cultura bassa;
  • la cultura è tale solo utile; il classicismo sarà bello, ma inutile (concetto suscitatore di molte polemiche, anche fra i simpatizzanti illuministi, vedi Parini);
  • come espresso prima, se la cultura è utile, essa dovrà avere uno stile che le permetta di parlare a tutti, e non solo agli intellettuali. Ora se la nostra lingua non permette, in modo chiaro e limpido, l’esplicitazione di un concetto, nulla di strano se si usa un francesismo (concetto che farà inorridire i puristi della lingua);
  • la relazione fra cultura e mercato: l’opera avrà vita finché avrà mercato e lo avrà fintanto che il pubblico la reputi “utile”;
  • la non nascosta “filiazione” di questa esperienza da quella inglese (come abbiamo visto The Spectator di Addison);
  • da quest’ultimo deriva l’imitazione del clima, il club per Addison, il Caffè per Verri, in cui un mondo di varia umanità può discorrere liberamente di ogni cosa e che il giornalista osserva e riporta.

Accademia dei Pugni - Wikipedia

L’opera più importante dell’illuminismo lombardo, capace di influenzare in modo profondo il pensiero giuridico dell’intera Europa è certamente Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria:

Beccaria, e i libri proibiti. Il trattato “dei delitti e delle pene” - Unimpresa

LA PENA DI MORTE

Questa inutile prodigalità di supplizii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la pena di morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno. Esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio d’ucciderlo? Come mai nel minimo sagrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutt’i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi? Ei doveva esserlo, se ha potuto dare altrui questo diritto, o alla società intera. Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale esser non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino; perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere: ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa della umanità (…). Non è l’intenzione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni, che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente; e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni coll’aiuto di lei, così l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offeso, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto, ritorno sopra di noi medesimi: “Io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione, se commetterò simili misfatti”, è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggono sempre in una oscura lontananza (…). La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte, e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano più l’animo degli spettatori, che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue, il sentimento dominante è l’ultimo, perché è il solo. Il limite che fissare dovrebbe il legislatore al rigore delle pene, sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplizio più fatto per essi, che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, sceglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà, per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intenzione della pena di schiavitù perpetua, sostituita alla pena di morte, ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato.

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L’opera del Beccaria (1738 / 1794), Dei delitti e delle pene, pubblicata nel 1764, ebbe una vasta eco in tutta Europa, tanto da diventare l’opera illuminista più tradotta nell’intera Europa.

Il ragionamento del giurista lombardo parte da una semplice considerazione: qual è il diritto con cui si dà  la morte? Considerandolo come un “aggregato di volontà particolare” esso si oppone alla volontà generale che è quella dello Stato, cui solo tocca il compito di punire. Essendo nella giurisdizione “vietata” la facoltà di togliersi la vita, nonché quella di togliere la vita, può a sua volta uno stato “arrogarsi” tale diritto? 

Razionalmente parlando, qual è l’utilità per uno stato, il torturare e quindi uccidere un uomo? Nessuno, esso riguarda più il pubblico che assiste, l’emozione e l’orrore che produce più che la prevenzione (si sente qui l’influenza del sensismo). Storicamente parlando il delitto non è mai “diminuito” uccidendo il colpevole.

Per Beccaria più efficace della morte è un’estensione della pena: la prima non è che la cessazione totale della “possibile” libertà che lo stato infligge ad un colpevole; la seconda è un procrastinarsi di privazione di porzioni di libertà che è certamente più efficace.   

 

ARCADIA

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Justus van Egmont: Cristina di Svezia

L’Arcadia è un movimento letterario, nato nel 1690 e sviluppatosi intorno ad alcuni intellettuali che si riuniscono in un’Accademia, con lo scopo deliberato di continuare quell’attività che essi svolgevano nella casa di Cristina di Svezia, esule a Roma e convertitasi al cattolicesimo. Il nome deriva proprio da uno di questi incontri, avvenuto a seguito della morte della sovrana e, sottolineando l’ambiente di estrema eleganza e raffinatezza cui si dava luogo allo scambiarsi delle esperienze poetiche, un partecipante esclamò che tale ambiente sembrava ricreare l’atmosfera bucolica, così descritta nell’opera del Sannazaro in pieno ‘400, denominata, appunto Arcadia.

Vedremo in seguito, richiamandosi alla poesia bucolica latina e greca e quindi all’autore napoletano dell’Umanesimo, quale fosse l’intento e il clima culturale che tali intellettuali volevano ricreare, ma è importante sottolineare che questo movimento rompe con la tradizione barocca dando vita a qualcosa di nuovo, sebbene la loro novità sia ancora piuttosto timida.

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Ma affinché ciò potesse avvenire era necessario che cambiassero le coordinate storiche e culturali dell’intera Europa e che porteranno a considerare il nuovo secolo come l’età della ragione e delle rivoluzioni.

E’ il periodo in cui, terminato il disegno egemonico della Francia con Luigi XIV, si assiste a un equilibrio tra le grandi potenze che porteranno ad una completa revisione dell’aspetto europeo con:

L’Europa dopo il 1714

  1. la guerra di successione spagnola: al suo termine con il trattato di Utrecht gli Asburgo d’Austria si sostituiscono, quasi completamente, al potere spagnolo in Italia; inoltre la Spagna deve cedere i Paesi Bassi (sempre all’Austria), mentre la Francia perde alcuni territori nella colonia americana a favore dell’Inghilterra;
  2. la guerra di successione polacca, che, pur non determinando assetti completamente nuovi, ridimensionò il potere asburgico (si pensi alla cessione della Lorena alla Francia)
  3. la guerra di successione asburgica, che vide l’affermazione nel regno asburgico di Maria Teresa d’Austria, il regno di Napoli affidato a Carlo di Borbone e un allargamento significativo dello Stato Sabaudo.

Tale concezione, forse ancora completamente dinastica dell’Europa, mostrava tuttavia le sue pieghe proprio grazie alla concentrazione della ricchezza nelle mani di una borghesia capitalistica che a livello manifatturiero , mercantile e coloniale, metteva a frutto le sue competenze ed il suo denaro per dar vita a quelle prime forme di razionalizzazione del lavoro che porteranno l’Inghilterra a fondare, proprio in questo secolo, la prima era industriale della storia.

Tale cambiamento avrà, sia come causa che come conseguenza, l’affermazione dell’illuminismo, nuova corrente culturale (sbagliato definirla solo filosofica) che coinvolgerà l’intero scibile umano, mettendo a frutto la grande esperienza del pensiero scientifico seicentesco ed applicandolo ad ogni forma del sapere.

Per tornare alla letteratura italiana si suole dire che il nostro Settecento si può dividere, più o meno in due fasi: la prima, appunto dal 1690, anno di fondazione dell’Accademia dell’Arcadia, l’altra nel 1764 con la pubblicazione del Caffè dei fratelli Verri, con la quale si  dà vita ad una letteratura legata all’ideologia illuminata dei philosophes d’oltralpe.

L’Arcadia, propriamente detta, come si sa, prende riferimento dai testi classici e dall’opera di Sannazzaro: già in quest’ultima vengono definiti i contorni entro i quali se ne strutturano i temi: ambiente idealizzato, abitato da pastori lontani da ogni preoccupazione e affanno, vissuto nell’ozio dell’esercizio poetico. I suoi componenti si danno nomi di antichi pastori, si riuniscono in un luogo detto Bosco Parrasio; il presidente dell’Accademia è chiamato custode generale, e il simbolo che la caratterizza è la zampogna del dio dei boschi Pan. Vengono istituiti anche specifici rituali: Gesù Bambino, nato tra pastori, è il loro protettore e il loro statuto viene elaborato in latino arcaico. Tale modello avrà larghissima diffusione sul territorio nazionale: vengono istituite sedi dell’Arcadia nelle città più importanti e viene dato loro il nome di colonie.

Tale espansione avrà una duplice conseguenza:

  1. omogeneizzazione del gusto e della cultura;
  2. democratizzazione (tutti sono uguali di fronte alla poesia e all’arte)

Bosco Parrasio - Kristin JonesRoma: Bosco Parrasio

Il programma vero e proprio dell’Arcadia è di netta opposizione al gusto barocco e una ripresa, attraverso un rinnovamento della poesia italiana, alla ragionevolezza, naturalezza, semplicità d’espressione e limpidezza stilistica; essi infatti si dichiarano i restauratori della poesia italiana (dopo la cosiddetta barbarie  del secolo precedente) e cercano, nella loro arte, una attenzione per la realtà e la verità in un linguaggio semplice e diretto, ma al contempo limpido e preciso. Ciò li porta a rivalutare il classicismo che essi giudicano attraverso il concetto d’equilibrio formale e morale.

RIME DELL'AVVOCATO GIOVAMBATTISTA ZAPPI E DI...Edizione del 1757 dell’opera di Zappi

Gli esiti, tuttavia, non sono pienamente coerenti con le intenzioni: pur nell’esigenza di evitare i cosiddetti  eccessi barocchi, ne cadono in altri, come l’eccessiva leziosità e falsa leggerezza:

GIAMBATTISTA FELICE ZAPPI
SOGNAI SUL FAR DELL’ALBA

Sognai sul far dell’Alba, e mi parea
ch’io fossi trasformato in cagnoletto;
sognai, che al collo un vago laccio avea,
e una striscia di neve in mezzo al petto.

Era in un particello, ove sedea
Clori di Ninfe in un bel coro eletto:
io d’ella, ella di me, prendeam diletto;
dicea: corri Lesbino, ed io correa.

Seguia: dove lasciasti: ove se ’n gìo,
Tirsi mio, Tirsi tuo, che fa, che fai?
Io gìa latrando, e volea dir: sono io.

M’accolse in grembo, in duo piedi m’alzai,
inchinò il suo bel labbro al labbro mio:
quando volea baciarmi, io mi svegliai.
All’alba ebbi un sogno nel quale mi sembrava di essermi trasformato in un piccolo cane; sognai di avere intorno al collo un leggero collare e al centro del petto una macchia bianca. In un prato verde, dove era seduta Clori in mezzo a delle ninfe scelte (per bellezza) prendevamo pacere lei di me ed io di lei; diceva, corri Lesbino, e io correvo. Continuava a dire: dove l’ho lasciato, dove va, il Tirsi (nome pastorale del poeta), che fa, tu che fai? Ed io, andavo abbaiando volendo dire: sono io. Mi ricevette nel grembo, io mi alzai sulle due zampe, inchinò il suo volto sul mio volto, volendomi baciare, e a quel punti io mi svegliai.
Ritratto di nobildonna con cagnolino Louis Michel van Loo (Toulon 1707–  Parigi 1771) attribuibile Dipinti antichi
Louis Michel van Loo: Nobildonna con cagnolino (XVIII sec.)

E’ un sonetto dove si possono misurare i progressi e nel contempo i limiti della nuova poesia d’inizio settecentesco: viene a cessare completamente la “concettosità” e la “metafora continuata” tipica del barocco ed il linguaggio, come il contenuto si fanno più diretti e semplici; d’altra parte saranno proprio questi ad attirare la critica più feroce dei più tardi illuministi: il ricorso a nomi greci come Clori, la donna o Tirsi, il cagnolino e l’atmosfera “galante”, che rende la poesia “vuota”, inutilmente graziosa, priva, quantunque “criticabile”, di una visione del mondo che pur la poetica barocca possedeva: tutto ciò fa dire ad Alessandro Verri che essa sia fastidiosamente “inzuccherata”

Ce ne dà un ulteriore esempio una canzonetta che riprende il famoso Chiare e fresche e dolci acque di Petrarca, dove a far da spia è la ricerca eufonica, ottenuta dalla ripetizione degli accenti ritmici, nonché dall’alternanza tra versi piani e tronchi. Nessun vero sentimento, ma, quasi a sottolineare la continuità pur nella diversità formale con l’edonismo seicentesco. 

PAOLO ROLLI
SOLITARIO BOSCO OMBROSO

Solitario bosco ombroso,
a te viene afflitto cor,
per trovar qualche riposo
fra i silenzi in questo orror.

Ogni oggetto ch’altrui piace
Per me lieto più non è:
ho perduta la mia pace,
son io stesso in odio a me.

La mia Fille, il mio bel foco,
dite, o piante è forse qui?
Ahi! La cerco in ogni loco;
eppur so ch’ella partì.

Quante volte, o fronde grate,
la vost’ombra ne coprì!
Corso d’ore sì beate
quanto rapido fuggì!

Dite almeno, amiche fronde,
Se il mio ben più rivedrò:
Ah! Che l’eco mi risponde
E mi par che dica no.

Sento un dolce mormorio;
un sospir forse sarà
un sospir dell’idol mio,
che mi dice tornerà.

Ah! ch’è il suon del rio, che frange
fra quei sassi il fresco umor
e non mormora ma piange
per pietà del mio dolor

Ma se torna, vano e tardo
Il ritorno, oh Dei! sarà;
chè pietoso il dolce sguardo
sul mio cener piangerà

Bosco solitario e ricco d’ombre, un cuore colmo di dolore ti raggiunge per trovare un po’ di sollievo fra i silenzi di questo luogo spaventevole. Tutto ciò che piace agli altri, a me non piace più; ho perduto la mia tranquillità, odio anche me stesso. La mia Fille (nome pastorale femminile), l’oggetto della mia passione, ditemi, vegetazione (del bosco) si è rifugiata qui? Ah, la sto cercando in ogni luogo, so solo per certo che lei si allontanò. Quante volte o alberi a noi gradito, ci avete coperto con le vostre ombre! Tempo così felice, quanto passò velocemente! Ditemi almeno, se mai rivedrò la donna del mio bene; Ah! Ecco l’eco che mi risponde: mi sembra dica di no. Sento un dolce mormorio d’acqua, forse trasmette un sospiro, il sospiro della mia amata che dice: tornerà. Ah! che il sospiro non è che il rumore del ruscello che rompe la sua fresca corrente sulle pietre e non mormora, ma piange per pietà del mio dolore. Ma se torna, oh dei, sarà inutile e tardivo il ritorno, perché i dolci e pietosi occhi piangeranno sulla mie ceneri.

Todi "ritrova" Paolo Rolli « ilTamTam.it il giornale online dell'umbriaPaolo Rolli

La poesia di Rolli ci mostrerà come gli arcadi non si tirano indietro di fronte ad alcune novità, soprattutto da un punto di vista metrico: spesso cercano, infatti,  l’effetto della musicalità in versi più brevi dell’endecasillabo.  Ce lo ricorda Wolfang Goethe che afferma di ricordare proprio questa canzonetta, modulata dalla madre durante la sua infanzia.

Ma sarà proprio la musicabilità, che si trasformerà spesso in cantabilità a caratterizzare alcuni capolavori della produzione dell’Arcadia, che nel melodramma di Pietro Metastasio raggiungerà e sarà apprezzato nell’intera Europa.

Sogni e Favole - Assisi Mia

Pietro Metastasio

Pietro Metastasio

Nato da umile famiglia nel 1692, Pietro Tirabassi si fece notare sin da subito per la sua facilità versificatoria, che impressionò il Gravina, intellettuale tra i fondatori dell’Accademia dell’Arcadia, che mutò il suo nome in Metastasio. Fu mandato in Calabria a studiare il razionalismo cartesiano e quando rientrò Roma, dopo a morte del Gravina, ricevette la sua eredità e si spostò a Napoli per dedicarsi all’arte dell’avvocatura. Non sconosciuto negli ambienti aristocratici per le sue capacità venne invitato a comporre una cantata, Orti esperidi, di cui compose i versi per il compleanno della moglie di Carlo V. L’opera ebbe un successo enorme, grazie anche all’interprete Marianna Bulgarelli, detta la Romanina, con la quale intrecciò una relazione. Grazie a lei fu introdotto nell’ambiente dei musicisti, donando loro dei libretti che sono rimasti, a tutt’oggi, dei veri e propri capolavori del genere, quali la Didone abbandonata ed il Catone in Utica. Lo straordinario riscontro lo portò a Vienna dove perfezionò la sua arte con opere quali la Clemenza di Tito, l’Attilio Regolo. Il successo della sua produzione fu nell’abilità con la quale riuscì ad armonizzare l’esigenza della poesia con quello dello spettacolo. Da qui si può assolutamente comprendere come, per i motivi sopra espressi, ma anche per la sua caratteristica culturale egli non seppe dare profondità alle sue storie.

Della sua perizia poetica, leggiamo il brano più famoso:

LIBERTA’

Grazie agl’inganni tuoi,
al fin respiro, o Nice,
al fin d’un infelice
ebber gli dei pietà:
sento da’ lacci suoi,
sento che l’alma è sciolta;
non sogno questa volta,
non sogno libertà.

Mancò l’antico ardore,

e son tranquillo a segno,
che in me non trova sdegno
per mascherarsi amor.
Non cangio più colore
quando il tuo nome ascolto;
quando ti miro in volto
più non mi batte il cor.

Sogno, ma te non miro

sempre ne’ sogni miei;
mi desto, e tu non sei
il primo mio pensier.
Lungi da te m’aggiro
senza bramarti mai;
son teco, e non mi fai
né pena, né piacer.

Di tua beltà ragiono,
né intenerir mi sento;
i torti miei rammento,
e non mi so sdegnar.
Confuso più non sono
quando mi vieni appresso;
col mio rivale istesso
posso di te parlar.

Volgimi il guardo altero,
parlami in volto umano;
il tuo disprezzo è vano,
è vano il tuo favor;
che più l’usato impero
quei labbri in me non hanno;
quegli occhi più non sanno
la via di questo cor.

Quel, che or m’alletta, o spiace.
se lieto o mesto or sono,
già non è più tuo dono,
già colpa tua non è:
che senza te mi piace
la selva, il colle, il prato;
ogni soggiorno ingrato
m’annoia ancor con te.

Odi, s’io son sincero;
ancor mi sembri bella,
ma non mi sembri quella,
che paragon non ha.
E (non t’offenda il vero)
nel tuo leggiadro aspetto
or vedo alcun difetto,
che mi parea beltà.

Quando lo stral spezzai,
(confesso il mio rossore)
spezzar m’intesi il core,
mi parve di morir.
Ma per uscir di guai,
per non vedersi oppresso,
per racquistar se stesso
tutto si può soffrir.

Nel visco, in cui s’avvenne
quell’augellin talora,
lascia le penne ancora,
ma torna in libertà:
poi le perdute penne
in pochi dì rinnova,
cauto divien per prova
né più tradir si fa.

So che non credi estinto
in me l’incendio antico,
perché sì spesso il dico,
perché tacer non so:
quel naturale istinto,
Nice, a parlar mi sprona,
per cui ciascun ragiona
de’ rischi che passò.

Dopo il crudel cimento
narra i passati sdegni,
di sue ferite i segni
mostra il guerrier così.
Mostra così contento
schiavo, che uscì di pena,
la barbara catena,
che strascinava un dì.

Parlo, ma sol parlando
me soddisfar procuro;
parlo, ma nulla io curo
che tu mi presti fé
parlo, ma non dimando
se approvi i detti miei,
né se tranquilla sei
nel ragionar di me.

Io lascio un’incostante;
tu perdi un cor sincero;
non so di noi primiero
chi s’abbia a consolar.
So che un sì fido amante
non troverà più Nice;
che un’altra ingannatrice
è facile a trovar.

Grazie ai tuoi inganni, alla fine riesco a respirare, o Nice: alla fine gli dei ebbero pietà di un infelice: sento che l’anima si è sciolta dai suoi lacci; questa volta non la sogno, non la sogno la libertà. // La passione che provavo da lungo tempo è andata via e sono a tal punto tranquillo che l’amore non riesce nemmeno a camuffarsi di rabbia. Non impallidisco più a sentire il tuo nome, quando ti guardo in volto, non batte più il mio cuore. // Sogno, ma tu non sei più nei miei sogni; mi sveglio, e tu non sei il mio primo pensiero. Vado in giro lontano  da te e non ti desidero; sono con te e non provo né gioia né dispiacere. // Parlo della tua bellezza e non m’intenerisco; ricordo i miei errori e non riesco ad arrabbiarmi: non mi confondo più quando mi segui, posso parlate di te con il mio rivale. // se mi volgi lo sguardo altezzoso o se mi parli in modo gentile, il tuo disprezzo è inutile, come è inutile la tua gentilezza; quelle parole hanno perso l’antico dominio e gli occhi non raggiungono più il mio cuore. // Quello che ora mi spiace o gradisco, se ora sono felice o triste non è un tuo dono, non una tua colpa: perché anche senza te mi piace il bosco, la collina, il prato; ogni luogo spiacevole mi annoia anche se ci sei tu // Ascolta, mi sembri ancora bella, ma non a tal punto da non poter essere paragonata. E (non offenderti se dico il vero) nel tuo grazioso aspetto  ora vedo qualche difetto che prima mi sembrava segno di beltà. // Quando fui colpito dalla freccia d’amore (arrossisco a pensarci) capii che il cuore si spezzava, mi sembrò di morire. Ma per uscire dai guai, per non essere oppresso dall’amore, per ritrovare se stesso, è lecito soffrire ogni cosa. // Nel vischio, dove cade talvolta l’uccellino, può lasciare le penne, ma torna in libertà;  in seguito le perdute penne ricrescono, diventa guardingo per l’esperienza e non si fa più sorprendere. // So che tu non credi sia estinto l’amore per te, perché lo dico troppo stesso, non so stare zitto: quell’istinto naturale, Nice, mi spinge a parlare, per cui ciascuno parla dei pericoli appena trascorsi:  // Dopo la terribile prova narra i passati travagli, così mostra i segni delle ferite un guerriero. Mostra felice l’incivile catena uno schiavo, ottenuta la libertà,  che trascinava un giorno. // Parlo, ma solo parlando provo soddisfazione; parlo, ma non m’interessa se tu mi credi o no: parlo, non ti chiedo di approvarmi, né di essere tranquilla quando parli con me. // Io lascio un’incostante , tu perdi un cuore fedele; non so fra noi chi dovrebbe essere consolato per prima.  So che un amante così fedele Nice non lo troverà più, che è facile trovare un’altra  ingannatrice.

Certo il modo in cui si sviluppano gli esiti dell’arcadia letteraria ci danno il destro per rimarcare ancora una volta la lontananza del grande pensiero europeo che vede, proprio all’inizio del Settecento, i grandi effetti che il pensiero scientifico razionale sta producendo. 

Ritratto del presbiteriano e storico italiano Ludovico Antonio Muratori  (1672-1750), incisione in rame

Ludovico Antonio Muratori

Della vuotezza del nostro sistema sembra accorgersi il Muratori, uno dei più lucidi pensatori,  insieme a Giambattista Vico del primo settecento. Importante è il progetto culturale del primo:

LA REPUBBLICA DELLE LETTERE

Già in alcune di queste celebri adunanze con piacere noi rimiriamo coltivati gli studi della poetica e trattate le regole della lingua italiana con vantaggio certamente dell’una e dell’altra. Più gloriosa fatica hanno impreso altre accademie trattando l’erudizione ecclesiastica, la filosofia sperimentale e morale, la geografia ed altri importantissimi argomenti. […] È detto che singolar profitto potrebbe trarsi da tante accademie sparse per l’Italia, se queste tutte si volgessero a trattar le scienze e l’arti secondo la possa di ciascuno. Aggiugniamo che tutte queste accademie collegate insieme potrebbono costituire una sola accademia e repubblica letteraria, l’oggetto di cui fosse perfezionar le arti e scienze col mostrarne, correggerne gli abusi e coll’insegnarne l’uso vero. Il campo è vastissimo e quasi diciamo infinito; ma diviso in moltissime parti giusta il genio e l’abilità de’ coltori, potrà senza fallo produr nobilissimi frutti e una copiosissima messe. E chi non vede quanta gloria verrebbe alla nostra Italia se tutti i letterati figliuoli d’essa seriamente s’accordassero nel medesimo disegno di promuovere le scienze e l’arti? Ma perché forse parrà a taluno e difficile ed inutile ancora il formare un sol corpo di tante diverse accademie d’Italia, sì perché alcune di queste, se non ridicole, sono certamente debilissime e da non isperarne verun vantaggio al pubblico, e sì eziandio perché non è dicevole che tanti, o novizi, o poetastri, o cervelli fievoli , o sfaccendati, onde ogni accademia suole abbondare, entrino in ischiera e seggano a scranna con uomini veramente scienziati, veterani e famosi in lettere, noi lasciando per ora da parte questa lega di tante accademie, una sola ne proponiamo e più facile e più vicina al segno e non meno utile e gloriosa di quella. Sarebbe questa un’unione, una repubblica, una lega di tutti i più riguardevoli letterati d’Italia, di qualunque condizione e grado e professori  di qual si voglia arte liberale o scienza, il cui oggetto fosse la riformazione e l’accrescimento d’esse arti e scienze per benefizio della cattolica religione, per gloria dell’ltalia, per profitto pubblico e privato.

Ora in alcune di queste riunioni osserviamo piacevolmente affrontati temi poetici e di linguistica letteraria con vantaggio sia dell’uni che dell’altra. Fatica più importante, ma per questo di maggior gloria, altre Accademie hanno sviluppato le scienze teologiche, le scienze sperimentali, la morale, la geografia ed altre importantissime conoscenze (…) Vogliamo dire che un eccezionale guadagno si potrebbe trarre se ciascuna di queste accademie, ora sparse per l’intera penisola, si volgessero a sviluppare lo studio delle scienze e delle arti secondo la possibilità di ciascuna di esse. A questo aggiungiamo che se tutte queste Accademie si collegassero insieme a formare una sola Accademia, una Repubblica letteraria, il cui compito fosse quello di portare alla massima conoscenza  le arti e la scienza stessa, correggerne gli abusi e insegnare ad utilizzarle con capacità. Il campo su cui operare è vastissimo, potremo dire infinito, ma suddiviso in diverse parti secondo la capacità ed il gusto dei cultori, senza dubbio potrà dare vita a degli importantissimi risultati ed una abbondantissima quantità di risultati. E chi non vede quanta gloria darebbe alla nostra Italia se tutti gli intellettuali si accordassero verso un unico obiettivo, quello di promuovere la scienza e l’arte? Ma forse sembrerà a qualcuno  difficile e forse inutile unificare le varie Accademie, ma alcune di queste, se non ridicole, sono certamente assai deboli tanto da non avere alcun vantaggio pubblico; ed anche perché non sembra opportuno che tanti, sia giovinastri o poetastri o ingegni deboli o sfaccendati di cui ogni Accademia abbonda,  siedano vicini con veri scienziati, letterari di chiara fama; noi ora, lasciando da parte l’unione di tante Accademia, ne proponiamo una sola, più vicina all’obiettivo e non meno utile o gloriosa delle tante unite. Sarebbe questa un’unione, una repubblica di tutti i più importanti intellettuali d’Italia, di qualunque condizione o stato sociale essi siano, esperti di qualsiasi sapere umanistico o scientifico, il cui fine fosse la revisione profonda, metodologica delle stesse arti e scienze per beneficio della religione cattolica, per la gloria dell’Italia, per un guadagno sia pubblico che privato.

File:Ludovico Antonio Muratori busto Pincio Roma.jpg - Wikimedia CommonsBusto del Muratori al Pincio di Roma

Il Muratori traccia, nella parte non riportata di tale passo una feroce critica alle Accademie arcadiche, vedendo in esse un uso eccessivamente retorico di poesie senza alcuna tensione civile; ma tuttavia un qualcosa di positivo lo avevano ottenuto: un’unità progettuale e linguistica che metteva le basi per una letteratura veramente italiana (tentativo in parte riuscito dall’utilizzo della teoria bembesca, ma rimesso in discussione dal barocco) ed ecco allora che il suo progetto di un’unione che oltre ad essere unicamente poetica diventasse anche piena di contenuti moralmente e religiosamente significative poteva far sorgere una forza propulsiva per il miglioramento della società italiana, la cosiddetta Repubblica delle lettere. 

Ben diverso è il discorso di Giambattista Vico, filosofo più che letterato, che, vista la peculiarità del suo pensiero, influenzò maggiormente la generazione preromantica rispetto a quella a lui coeva.

Figlio di una modesta famiglia napoletana fu essenzialmente un autodidatta, che lo portò dapprima a tentare l’attività forense. Ottenne infine la cattedra di Retorica nell’Università di Napoli, con la quale, insieme ad alcune lezioni private, tentò di mantenere la sua numerosa famiglia.

Giambattista-Vico-1024x768.jpgDisegno che ritrae Giambattista Vico

Il suo pensiero cerca di superare lo scientismo galileiano: infatti per lui l’uomo può conoscere solamente ciò di cui è protagonista: quindi non può conoscere la natura, in quanto opera di Dio e non  dell’uomo, ma la storia, l’unico prodotto veramente umano. Inoltre la matematica può spiegare molte cose, ma non tutto; le azioni dell’uomo possono essere anche frutto della psicologia (la fantasia). Ciò appare centrale nello sviluppo della sua opera più importante Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, più comunemente conosciuta come Scienza nuova, pubblica postuma per opera del figlio Gaetano, di cui riportiamo un passo:

ALLA BASE DELLO STORICISMO 

Ma, in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto da quella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnità, della mente umana, la quale, restata immersa e seppellita nel corpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del corpo e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere se medesima, come l’occhio corporale che vede tutti gli obbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per vedere se stesso. Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni. Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consegrate solennità che religioni, matrimoni e sepolture. Ché, per la degnità che “idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero”, dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi  di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni e universali per tre primi princìpi di questa Scienza.

Vico Giambattista : Principi di scienza nuova [...] d'intorno alla comune  natura delle nazioni [...]. Tomo I (-

Edizione  della “Scienza nuova” del 1744

Ma in una così forte oscurità in cui è avvolto il periodo lontanissimo dell’antichità, appare questa luce eterna, che non tramonta mai, delle verità che non si può mettere in discussione: che il mondo della storia è stato certamente fatto dagli uomini, per cui si possono, anzi si devono ricercare i principi dentro le mutazioni della nostra mente. La qual cosa, se ben si riflette, deve suscitare meraviglia che tutti i filosofi si preoccuparono, con serietà, di raggiungere la conoscenza della natura di questo mondo, che, in quanto fatto da Dio, solo lui ne possiede l’intera conoscenza, trascurando di pensare al mondo degli stati, ossia al mondo civile, che, essendo stato fatto dagli uomini, se l’avessero studiato avrebbero ottenuto la scienza degli uomini; l’effetto del loro operare, come abbiamo già detto nel libro delle Dignità, è determinato dalla miseria della mente, la quale immersa e seppellita dal corpo, è naturalmente portata a percepire le cose corporali e deve sforzarsi eccessivamente e faticosamente per capire se stessa, come un occhio che vede ciò che è esterno ad esso, ma per osservare se stesso deve ricorrere allo specchio. Ora dal momento in cui questo mondo fatto di nazioni è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose gli stessi si sono trovati d’accordo in perpetuo e si trovano d’accordo tuttora, perché queste cose potranno fornirci dei principi universali ed eterni, che devono esserci in ogni scienza, sopra le quali ogni scienza nacque e tutte si replicano in ogni stato.
Vediamo come tutte le civiltà sia primitive che civili, molto distanti tra loro e lontanissime nel tempo, custodire queste tre umane tradizioni: ognuna di esse possiede una religione, possiede il rito solenne del matrimonio e seppelliscono i loro morti; né tra le civiltà, sebbene primitive ed incolte, non si celebrino con le più ricercate e consacrate solennità, rituali religiosi, matrimoniali e funerari. Perciò, per la Dignità che afferma “che idee uguali, nate tra popoli sconosciuti tra loro, devono possedere un principio di verità”, deve essere stato dettato a tutte; Che da queste tre cose è nato presso tutte le popolazioni il passaggio dallo stato di ferinità a quello dell’umanità e per questo devono essere tutte conservate in modo santissimo, affinché il mondo non si ricopri di nuovo di animali selvaggi e di foreste. Questo è il motivo per cui abbiamo preso questi tre elementi eterni ed universali come i tre principi primi di questa Scienza. 

In questo passo “grazie all’analogia tra la mente e le scienze umane, si può conoscere anche la storia primitiva ricostruendola indirettamente attraverso le leggi immutabili che regolano lo spirito umano nel suo ciclico divenire nel tempo” (Barberi Squarotti). Non ci meraviglia che in un secolo, come quello dell’illuminismo razionale, per definizione antistoricista, possa aver ignorato un pensatore così profondo, ma forse troppo innovatore. Bisognerà aspettare la fine del secolo quando Rousseau e Foscolo lo eleggeranno come proprio maestro.

MARCIO PORCIO CATONE

Sii padrone dell'argomento – Italica Res

Prima d’affrontare il discorso su Catone è bene affrontare l’argomento su come fu possibile, sin dall’inizio, instaurare una prosa a Roma che fosse prettamente greca. Se infatti, al di là delle prime forme preletterarie, quelle epiche o teatrali avevano tutte più o meno riportato, adattandole al pubblico romano, opere greche (più precisamente avevano usato, con termine latino vertere i modelli ellenici), la prosa, almeno suo inizio, è greca. Il genere storiografico, infatti, non sarà in latino, sebbene gli autori di tali opere siano famosi senatori romani, come Fabio Pittorre e Cincio Alimento, ma in greco.

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Frammento di un papiro della Repubblica di Platone

Infatti il genere storico nacque precisamente nel V sec. a. C. quando Erodoto pubblicò le Storie, attraverso le quali, giunge a raccontarci le guerre greco persiane. Il suo racconto vuole raccontarci i fatti meravigliosi e proprio per questo il suo testo (giuntoci integro) va dalla mitologia, all’etnografia, alla novellistica, oltre naturalmente agli avvenimenti politici. Più storiografico di lui è certamente Tucidide, che alla fine del V sec., ci narra a guerra tra Sparta e Atene. Egli introduce il concetto della ricerca come individuazione dei fatti reali, quindi ricerca di fonti. Ma alla base della sua opera permane un senso tragico della storia, come espressione della lotta tra Tyche (destino) e la volontà di potenza dell’uomo. Per questo anche l’uso dei discorsi dei protagonisti, a voler cercare quasi le causa psichiche del loro agire. Il suo stile diventa sublime e per questo modello per tutta la storiografia futura. Meno importante Senofonte (III sec.) di cui conserviamo diverse opere: certamente fondamentale è per l’invenzione della monografia storica di cui si servirà il nostro Sallustio. L’ultimo è Polibio, ma siamo già a Roma, nel II secolo, al tempo delle guerre cartaginesi: dallo stile scarno, ma preciso, il suo tema verte sulla motivazione che ha fatto grande Roma.  

Tutto questo:

  1. Perché essi si rivolgono alla storiografia affinché si dimostri che l’opera romana è stata necessaria e per rispondere alle accuse che quella cartaginese le muoveva contro: si rivolgevano quindi ad un pubblico internazionale;
  2. Per riprendere un genere, considerato tra i più alti della cultura greca, nella stessa lingua con cui gli iniziatori l’avevano prodotto, senza dimenticare di “romanizzarlo” scrivendolo anno per anno, secondo il costume degli Annales dei Pontefici Massimi.

Il primo a scrivere storiografia (e non solo) in latino, fu appunto, Catone.   

Notizie biografiche

Marcio Porcio Catone nasce a Tuscolo nel 234 a. C (vicino all’attuale Frosinone) da una famiglia di possidenti agrari. Ebbe una lunghissima carriera politica come homo novus (cioè senza alcun antenato che avesse già ricoperto cariche istituzionali), a partire dall’intervento militare durante la Seconda guerra Punica come tribuno militare, fino ad arrivare al consolato.

Ma la sua attività è ricordata soprattutto per il ruolo condotto da censore nel 184. Fu talmente severo verso i nuovi costumi e l’ostentazione del lusso (si dice che rimproverò un senatore in pubblico perché aveva baciato la moglie in pubblico) che fece di ciò una vera e propria arma politica contro l’affermazione dell’ellenismo. Tale posizione la mantenne anche verso la filosofia, da lui considerata come corruttrice della gioventù. Sul piano prettamente politico si distinse per aver osteggiato le scelte espansionistiche che miravano ad allargare il potere romano verso oriente e si batté affinché si estirpasse per sempre la nemica Cartagine, la cui ripresa temeva. Famosa è la sua espressione Carthago delenda est. Morì nel 149 a. C. prima che Scipione Emiliano mettesse in pratica la sua volontà con la terza e definitiva guerra punica.

Opere

Catone fu un prolifico scrittore e si esercitò nei campi dell’oratoria, della storiografia e della precettistica.

Oratoria

catone il censore - porcius cato

Statua che raffigura Catone

L’oratoria come genere precede, certamente, quella di Catone: sappiamo che grandi personaggi la utilizzarono durante il periodo repubblicano e ne conoscevano la distinzione aristotelica che la classificava in deliberativa (il consigliare o lo sconsigliare), giudiziaria (l’accusa o la difesa) e la epidittica (l’elogio o il biasimo). Ma la grande differenza che vi è fra i predecessori e Catone è la consapevolezza “letteraria” che tale arte possedeva. Infatti sappiamo da Cicerone (grande cultore di tale disciplina) che Catone lasciò ben 150 orazioni tra quelle deliberative e quelle giudiziarie e che ne curò la pubblicazione. Sempre Cicerone ci ricorda che furono famose quelle contro il lusso e quelle con cui si difese dagli attacchi dei suoi nemici politici.

Di esse non ci rimangono che frammenti, soprattutto citati da altri autori. Ma anche lui si citò: nell’opera le Origines sembra abbia riportato la sua orazione De Rhodiensibus in cui invitava il Senato Romano ad essere magnanimo verso la popolazione di Rodi che aveva mostrato scarso entusiasmo nell’appoggiare Roma durante la guerra contro il re Perseo di Macedonia. Di questa esperienza ci piace ricordare, non in un’opera retorica, ma nei Praecepta ad filium Marcum alcune definizioni che dà di quest’arte, rimaste proverbiali:

Orator est vir bonus peritus dicendi

L’oratore è un uomo onesto esperto nel parlare

e

Rem tene, verba sequentur

Possiedi l’argomento, le parole verranno da sè

in cui si mette in rilievo l’onestà intellettuale che egli considera propria di tale disciplina.

Il di Catone, il manuale del perfetto proprietario terriero – Studia Humanitatis – παιδεία

 (Il fattore) Non sia girandolone, sia sempre sobrio

Storiografia

Le Origines di Catone sono la prima opera storica della letteratura latina. Di essa ci rimangono pochi e brevi frammenti. Tuttavia sappiamo che era distribuita in sette libri che partivano dalla fondazione ai tempi suoi contemporanei:

  • Libro I: la fondazione di Roma e il periodo monarchico;
  • Libri II e III: le origini delle città italiche che contribuirono alla gloria di Roma;
  • Libri IV e V: Prima e seconda guerra punica;
  • Libro VI: Le guerre in Oriente
  • Libro VII: Avvenimenti fino alla sua morte.

Bisogna da subito ricordare che tale opera pone una netta differenza con gli Annali dei Pontifici:

LA POLEMICA CON GLI ANNALISTI

Non lubet scribere quod in tabula apud pontificem maximum est, quotiens annona cara, quotiens lunae aut solis lumine caligo aut quid obstiterit.

Non mi interessa scrivere quello che si trova registrato nella tavola del pontefice massimo, quante volte i prezzi dei viveri siano rincarati, quante volte una caligine o qualcos’altro abbia offuscato la luce della luna o del sole. 

di cui si critica l’attenzione per particolari minuti ed insignificanti. Inoltre egli si distanzia da essi per l’importanza che gli stessi Annali attribuivano ai Senatori. Infatti egli si peritò di non scrivere, nella sua opera di storico, alcun nome di un generali o di un politico, ma soltanto di piccoli uomini il cui eroismo è determinato dalla loro incredibile virtù, come ci dice di Cedicio:

 L’EROICO CEDICIO

Dii inmortales tribuno militum fortunam ex virtute eius dedere. Nam ita evenit: cum saucius multifariam ibi factus esset, tamen vulnus capitis nullum evenit, eumque inter mortuos defetigatum volneribus atque, quod san-guen eius defluxerat, cognovere. Eum sustulere, isque convaluit, saepeque postilla operam rei publicae fortem atque strenuam perhibuit illoque facto, quod illos milites subduxit, exercitum ceterum servavit.

Gli dèi immortali concessero al tribuno militare una buona sorte, grazie al suo valore. Infatti capitò ciò: pur essendo stato colpito in varie parti del corpo, tuttavia non riportò alcuna ferita mortale, e fu pertanto possibile distinguerlo tra i morti, prostrato dalle ferite e dalla perdita di sangue. Fu trasportato in salvo, guarì e in seguito spesso prestò allo Stato la sua opera di combattente indomito e valoroso; e in quell’impresa, per il fatto di aver condotto quei valorosi al sacrificio, egli salvò il resto dell’esercito.
SCUTA IMP. (I) (sec. I a.C.-III sec. d.C.)

Soldati romani con scudo

Infatti questo passo è messo in contrapposizione, come ci riporta lo scrittore tardo Aulo Gellio all’impresa di Leonida alle Termopoli. Qui egli cita il nome di Cedicio, semplice tribuno (e non quello del console); nel passo seguente cita Leonida e la sua sconfitta. Ma, come dice all’inizio del brano, gli occhi degli dei sono posati sul romano e quindi sull’esercito di Roma per la sua virtus.

Non dobbiamo dimenticare un’apertura e nel contempo una chiusura: la prima riguarda le città italiche, il cui racconto delle origini sembra altrettanto importante di quello di Roma, in quanto tutte saranno capaci di convergere e quindi formare quel vir Romanus fortemente legato al mos maiorum; dall’altra la chiusura totale verso il mondo greco e quindi verso il “circolo degli Scipioni”, che minava alle radici i valori e il modo di pensare del popolo romano.

Precettistica

Le opere precettistiche di Catone sono due: i Libri o Praecepta ad Marcum filium e il De agri cultura. Della prima abbiamo, come delle altre opere di Catone, solo frammenti. Essi dovevano essere una sorta di enciclopedia su vari argomenti come medicina, agricoltura, oratoria, diritto, nei quali venivano espressi dei principi, probabilmente dettati dall’esperienza dell’uomo politico stesso. Appare evidente, contro la moda che cominciava ad imporsi allora, la polemica contro la cultura greca, come si vede in questo passo:

CONTRO I GRECI

Dicam de istis suo loco, Marce fili, quid Athenis exquisitum habeam, et quid bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile esse genus illorum. Et hoc puta vatem dixisse, quandoque ista gens suas litteras dabit, omnia corrumpet, tum etiam magis, si medicos suos hoc mittet. Iurantur inter se barbaros necare omnis medicina, sed hoc ipsum mercede faciunt, ut fides iis sit et facile disperdent. Nos quoque dictitant barbaros et spurcius nos quam alios Opicon appellatione foedant. Interdixi tibi de medicis.

medico della mutua romana

Medici a Roma

A suo tempo, o Marco, ti dirò di codesti Greci quello che sono venuto a sapere ad Atene, e come sia bene dare semplicemente un’occhiata alla loro letteratura, non studiarla a fondo. Ti dimostrerò che sono una razza di gente perversa e indisciplinata. E questo fa conto che te l’abbia detto un profeta: se mai codesto popolo, quando che sia, ci darà la sua cultura, corromperà ogni cosa; e tanto più se manderà qui da noi i suoi medici. Hanno fatto un giuramento fra loro, di uccidere tutti i barbari con la medicina: ma lo fanno a pagamento, perché non si diffidi di loro e possano più facilmente mandarci in rovina. An-che noi chiamano barbari, anzi più degli altri ci disprezzano infamandoci con lo sconcio appellativo di Opici (oschi, meridionali). Guardati dai medici, te lo impongo.

E’ chiaro che qui Catone non si rivolga soltanto al figlio Marco, ma voglia allontanare i giovani Romani da qualsiasi influenza che possa minare il mos maiorum e non importa se per far questo Catone dia voce, non si sa se creduta da lui a no, a tutti quei pregiudizi che abbiamo visti già operanti nei testi di Plauto.

Più importante, perché ci è giunto integro, è il De agri cultura e tale integrità è dovuta al fatto che tale testo è un vero e proprio manuale che è stato copiato e diffuso, in quanto tecnico, sin dal medioevo. E’ formato da 162 capitoli e, contenutisticamente, si possono cogliere in esso sia consigli pratico-tecnici che modus vivendi politici. Infatti è proprio come si deve condurre un fondo che  ci si rende conto anche del modo in cui l’autore concepisce i rapporti interpersonali che l’ellenismo tentava di mettere in discussione. Infatti l’ottica che presiede il testo è prettamente quella del profitto, e i lavoratori sono quelli che bisogna sfruttare per farlo rendere il più possibile. D’altra par-te bisogna ricordare che per Catone il fondo è il modo attraverso cui si può conservare il mos maiorum, mentre il commercio, con l’apertura verso nuovi mercati e nuove persone non può che metterlo in crisi. Vediamo questo passo:

Italia, m.p. catone, de agri cultura, e varrone, de rustica, XV sec., pluteo 51.2.JPG

Edizione del De Agricoltura del 1500

I DOVERI DEL PADRONE DEL PODERE

Pater familias, ubi ad villam venit, ubi larem familiarem salutavit, fundum eodem die, si potest, circumeat; si non eodem die, at postridie. Ubi cognovit quo modo fundus cultus siet, operaque quae facta infectaque sient, postridie eius diei vilicum vocet; roget quid operis siet factum, quid restet, satisne tempori opera sient confecta, possitne quae reliqua sient conficere, et quid factum vini, frumenti aliarumque rerum omnium. Ubi ea cognovit, rationem inire oportet operarum, dierum; si ei opus non apparet, dicit vilicus sedulo se fecisse, servos non valuisse, tempestates malas fuisse, servos aufugisse, opus publicum effecisse, ubi eas aliasque causas multas dixit, ad rationem operum operarumque vilicum revocat. Cum tempestates pluviae fuerint, quae opera per imbrem fieri potuerint: dolia lavari, picari, villam purgari, frumentum tranferri, stercus foras efferri, stercilinum fieri, semen purgari, funes sarciri, novos fieri; centones, cuculiones familiam oportuisse sibi sarcire; per ferias potuisse fossas veteres tergeri, viam publicam muniri, vepres recidi, hortum foderi, pratum purgari, vigas vinciri, spinas eruncari, expinsi far, munditias fieri; cum servi aegrotarint, cibaria tanta dari non oportuisse.

Villa rustica - Wikipedia

Pars rustica

Il capo di casa, quando giunge al podere, quando ha salutato il lare familiare, nello stesso giorno, se può, visiti il podere, se non lo stesso giorno, almeno il giorno seguente. Quando viene a sapere in che modo il podere sia stato coltivato, e in che modo le opere che sono state fatte e non fatte, chiami il fattore il giorno seguente di quel giorno; chieda quale delle opere sia stata fatta, quale resti da fare, e se abbastanza per tempo le opere siano state effettuate, e se possa quelle rimaste siano effettuate, e quanto di vino sia stato fatto, di frumento e di tutte le altre cose. Quando ha saputo quelle cose, è opportuno fare il conto delle opere, dei giorni; se per lui il lavoro agricolo non è evidente, il fattore dice che lui lo ha eseguito con solerzia, che i servi non stavano bene, che c’era stato cattivo tempo, che i servi erano fuggiti, che ha eseguito lavori pubblici, dopo che ha detto queste e molte altre cause, richiama il fattore a fare il conto delle opere e degli operai. Quanto il tempo è stato piovoso, (richiama il fattore) quali lavori avrebbero potuto esser fatti durante la pioggia: sarebbe stato opportuno che le botti fossero lavate, fosse messa la pece, la fattoria pulita, il frumento trasportato, il letame portato fuori, il letamaio fatto, le sementi pulite, le funi riparate, farne nuove; che i servi riparassero abiti, cappucci; durante le feste avrebbero potuto pulire le vecchie fosse, aggiustare la strada pubblica, tagliare i cespugli, zappare l’orto, pulire il prato, legare le fascine, togliere le spine, macinare il farro, fare pulizia; quando i servi si fossero ammalati, non era necessario che tanto cibo fosse dato.

E’ un passo esemplare in quanto in esso vediamo espressi i due concetti sopra illustrati: da una parte viene detto al padrone della fattoria, dopo aver, si direbbe oggi, ringraziato Dio, esattamente come comportarsi e cosa dire al fattore in caso di lavori non proprio eseguiti bene; dall’altro il modo in cui trattare i sottoposti fino ad arrivare all’assurdo, per oggi, ma non per ieri, di dar loro meno da mangiare o venderli se l’energia usata per lavorare fosse minore in quanto malati o vecchi.

BAROCCO EUROPEO

Plaza Mayor nel “Secolo d’oro”

Il barocco in Spagna

Il ’600 in Spagna viene definito il siglo de oro in quanto in questo periodo la letteratura e la pittura raggiungono i massimi vertici sia per qualità che per varietà. Infatti è difficile catalogare in un unico piano esperienze misticheggianti proprie della cultura controriformistica iberica con quelle disincantate ed ironiche del Don Chisciotte che, allo stesso modo, trovano rispondenza in un altro genere altrettanto “forte” in Spagna come il romanzo picaresco.

La lirica

La lirica spagnola raggiunge risultati altissimi nella letteratura europea del ’600. I più importanti poeti del barocco spagnolo sono Luis de Gòngora e Francisco de Quevedo.

La loro operazione, pur simile, nelle linee generali al barocco, dà a quest’ultimo un significato certamente più profondo, oserei dire, meno superficiale, di quello italiano. Infatti nella loro poesia si riflette il “disinganno” storico che porta la Spagna da essere un paese in pieno fulgore alla piena decadenza in favore dell’Inghilterra e della Francia. Se pertanto la realtà storica metaforizzata nella realtà delle cose mostra la sua “bruttezza” (splendore vs decadenza) bisogna cercare la bellezza, non più nelle cose che apparentemente sembrano evidenti, ma nella loro essenza nascosta, più profonda.

In modo semplicistico i due poeti possono essere sintetizzati così:

File:Diego Rodríguez de Silva y Velázquez - Luis de Góngora ...

Anonimo: Luis de Gongora

  • Luis de Gòngora: adotta un linguaggio ed uno stile sontuoso lavorando sulle impressioni pure; la bellezza retorica della sua poesia svela una fuga della realtà, realtà che rappresenta il disinganno “storico”; come, allo stesso modo, l’esaltazione della pienezza ideale della vita nasconde la sua precarietà nella realtà;

EN LAS HONRAS DE  LA SEÑORA REINA DOÑA MARGARITA

Máquina funeral, que desta vida
nos decís la mudanza, estando queda;
pira, no de aromática arboleda,
si a más gloriosa Fénix construida;

bajel en cuya gabia esclarecida
estrellas, hijas de otra mejor Leda,
serenan la Fortuna, de su rueda
la volubilidad reconocida,

farol luciente sois que solicita
la razón, entre escollos naufragante,
al puerto; y a pesar de lo luciente,

obscura concha de una Margarita
que, rubí en caridad, en fe diamante,
renace a nuevo Sol en nuevo Oriente.

Funebre macchina, che immobile posando di questa vita dici l’incostanza, pira non d’aromatico legname anche se a gloriosa Fenice innalzata. Vascello alla cui gabbia luminosa stelle, figlie d’altra migliore Leda placano Fortuna, della sua ruota conoscendo l’avventuroso corso, faro splendente siete che conduce la ragione fra gli scogli naufragante al porto; e malgrado tanta luce scura conchiglia d’una Margherita che, rubino in carità, in fé diamante rinasce nuovo Sole in nuovo oriente.

A LA ROSA

Ayer naciste y morirás mañana.
Para tan breve ser, ¿quién te dio vida?
¿Para vivir tan poco estás lucida?
Y ¿para no ser nada estás lozana?
 
Si te engañó su hermosura vana,
Bien presto la verás desvanecida,
Porque en tu hermosura está escondida
La ocasión de morir muerte temprana.
 
Cuando te corte la robusta mano,
Ley de la agricultura permitida,
Grosero aliento acabará tu suerte.
 
No salgas, que te aguarda algún tirano;
Dilata tu nacer para tu vida,
Que anticipas tu ser para tu muerte.

Nascesti ieri e morirai domani. Per viver così poco sei fastosa? Per esser nulla così rigogliosa? Chi ti creò, con quali stolte mani? // Ben presto svanirà in petali vani. Se ti ingannò la sua regale posa, perché nella vaghezza tua è ascosa la morte subitanea che non stani. // Quando mano robusta ti recide, lecita azione non certo proibita, violento soffio attenterà tua sorte. // Rimani salda, nessun vento stride; sboccia per dilatare la tua vita, per splendore esorcizza la tua morte.
(Laura Ricci)

E’ evidente che la rosa rappresenti per la poesia barocca un punto di riferimento importante: ma se in Italia (si ricordi il passo a lei dedicato dall’Ariosto, come metafora della verginità perduta o quello del Marino, che ne loda la bellezza, metaforizzandola in imperatrice che incede con tutta la sua forza) la rosa rappresenta la “pompa”, in Spagna diventa simbolo di decadenza, se non simbolo di se stessa, nell’attuale potenza che esorcizza la sua fine.

File:Quevedo (copia de Velázquez).jpg - Wikipedia

Juan van der Hamen: Francisco de Quevedo (XVII sec.)

  • Francisco de Quevedo: lavora sulla metafisica delle parole, astraendole dal loro uso quotidiano per sottolinearne (attraverso concetti e metafore) la loro impossibilità di riflettere un mondo deludente. Egli lavora sui contrasti, sulle antitesi che non sono puro esercizio retorico, come per Marino, ma vero e proprio contrasto ideale, conflittualità tra ciò che sarebbe bello essere e ciò che la realtà della decadenza non può più offrire

BUSCAS EN ROMA A ROMA, ¡OH PEREGRINO!

Buscas en Roma a Roma, ¡oh peregrino!, 
y en Roma misma a Roma no la hallas: 
cadáver son las que ostentó murallas, 
y tumba de sí propio el Aventino.

Yace, donde reinaba el Palatino; 
y limadas del tiempo las medallas, 
más se muestran destrozo a las batallas 
de las edades, que blasón latino.

Sólo el Tíber quedó, cuya corriente, 
si ciudad la regó, ya sepoltura 
la llora con funesto son doliente.

¡Oh Roma!, en tu grandeza, en tu hermosura 
huyó lo que era firme, y solamente 
lo fugitivo permanece y dura.

In Roma cerchi Roma, o pellegrino, e proprio in Roma Roma non ritrovi; le vantate muraglie, morti covi sono, e di sé sepolcro l’Aventino. // Giace, dove regnava, il Palatino; don limate dal tempo le medaglie; sembrano più macerie di battaglie degli evi, che blasone del latino. // Solo è restato il Tevere, corrente che bagnò la città: or sepoltura, la piange con funeste suon dolente. // Roma da quella gloria così pura fuggi ciò ch’era saldo e solamente il fuggevole ormai permane e dura.

Il teatro 

L’altro genere in cui la cultura barocca spagnola produsse opere di altissimo valore fu il teatro.

Il teatro spagnolo del siglo de oro si articola in:

  • Tragedie: generalmente incentrate su momenti di storia nazionale, che esaltano l’animo ed il coraggio degli spagnoli;
  • autos sacramentales: rappresentazioni religiose che, attraverso soggetti biblici o storici, mirano a celebrare il mistero dell’eucarestia;
  • Commedie: che possono essere o di capa y spada (contemporanee) o storiche.

Gli autori più rappresentativi del teatro spagnolo furono:

  • Lope de Vega: scrisse un’imponente mole di opere. Di lui ci restano 400 commedie sulle 1500 che pare abbia scritto, più autos sacramentales, liriche, poemetti. Le sue commedie ebbero uno straordinario successo e in lui si nota un mirabile esempio di rispondenza fra creazione artistica ed attese del pubblico. Egli offre al teatro spagnolo la canonizzazione della commedia il cui fine è l’imitazione della vita e la rappresentazione delle passioni e delle fantasie degli uomini. Essa si articolerà in tre giornate e se avrà argomento storico i personaggi dovranno essere il re, il cavaliere ed il contadino; in quelle di capa y espada la donna, l’amoroso, il vecchio e il buffone. A tenere unite le commedie di Lope de Vega è il senso dell’onore, la fedeltà al monarca e alla fede cattolica. E’ evidente che in tale scelta vengano a rompersi le unità di tempo e di luogo: rimane quella d’azione proprio perché, come già detto il suo fine è la imitazione della vita.

Félix Lope de Vega i Carpio - Turismo Las Navas

Lope de Vega

  • Calderon de la Barca: anche di lui ci restano ben 120 commedie. Egli nelle opere più rappresentative, sulla scia di Lope de Vega, approfondisce il senso dell’onore che non è più un sentimento diffuso e rassicurante del popolo spagnolo, ma diventa un indagine sull’agire umano, sul suo libero arbitrio, una riflessione sulla conquista di sé da parte dell’individuo. Riflessione che trova il suo approdo nella fede cattolica, che trova uno dei suoi massimi cantori.

LA VITA È SOGNO - Pedro Calderón de La Barca - Blog di pociopocio

Calderon de la Barca

La sua opera più importante, ma certamente il capolavoro, insieme al teatro di Shakesperare, di tutto il teatro secentesco è La vita è un sogno. Cerchiamo in modo estremamente sintetico di riportarne la trama:

Il re Basilio, polacco, scopre da certi oroscopi, che suo figlio diventerà un feroce tiranno. Fa credere che sia nato morto e lo fa rinchiudere in una torre. Sigismondo, questo è il suo nome, cresce incolto e selvaggio, non sapendo nulla delle sue origini. Soltanto l’incontro con Rosaura gli offre un momento di felicità. Prima d’escludere il figlio dalla successione, il re lo vuole mettere alla prova. Lo fa dunque addormentare e portare a corte. Qui gli si dice la sua vera origine, ma l’ineducazione e inciviltà con cui è cresciuto fanno sì che il re, facendolo di nuovo addormentare, lo riconduca nella torre. Appena svegliatosi Sigismondo non sa se quello che gli è successo è reale o è un sogno, (se fosse stato un sogno, sarebbe stato così realistico, da sembrare vita; ma allora anche la vita potrebbe essere sua volta un sogno). Tale situazione lo condurrà a maturazione: Alla abdicazione del re, il popolo reclama a gran voce Sigismondo come re, che si mostra valido combattente e, riabilitato nei confronti del padre, si farà garante di un regno di pace e felicità.

IL SOLILOQUO DI SIGISMONDO

Sueña el rey que es rey, y vive
con este engaño mandando,
disponiendo y gobernando;
y este aplauso, que recibe
prestado, en el viento escribe,
y en cenizas le convierte
la muerte, ¡desdicha fuerte!
¿Que hay quien intente reinar,
viendo que ha de despertar

en el sueño de la muerte?

Sueña el rico en su riqueza,

que más cuidados le ofrece;
sueña el pobre que padece
su miseria y su pobreza;
sueña el que a medrar empieza,
sueña el que afana y pretende,
sueña el que agravia y ofende,
y en el mundo, en conclusión,
todos sueñan lo que son,
aunque ninguno lo entiende.

Yo sueño que estoy aquí
destas prisiones cargado,
y soñé que en otro estado
más lisonjero me vi.
¿Qué es la vida?  Un frenesí.
¿Qué es la vida?  Una ilusión,
una sombra, una ficción,
y el mayor bien es pequeño:
que toda la vida es sueño,
y los sueños, sueños son.

File:Antonio de Pereda - El sueño del caballero - Google Art Project.jpg -  WikipediaAntonio de Pereda: Il sogno del cavaliere o La vita è un sogno

Sogna il re d’essere re, e vive in questo inganno disponendo degli altri governando. E gli applausi che in prestito riceve sono una gloria scolpita nel vento. La morte, la somma delle sventure, presto lo muta in cenere ed in pietra. Chi vorrà ancora un regno se saprà di doversi svegliare dal suo sogno nel sonno della morte? Sogna inquieto il ricco la ricchezza. Sogna il povero la sua misera vita. Chi s’affanna, involto nel diletto della carne, nel sogno dei suoi sensi s’affatica. Sogna chi vive negli agi consueti. Sogna chi spera ansioso ed attende. Sogna chi ferisce, umilia e offende. Tutti nel mondo sognano la vita che stanno vivendo, e non lo sanno. Io sogno d’essere qui incatenato e di vedermi sovrano ho sogna-to. La vita è una follia, la vita è una finzione, una grande illusione di ombre senza corpo. E tutto il bene del mondo non vale un respiro, perché la vita è un sogno e i sogni sono sogni.

Abbiamo visto come fenomeno estetico del barocco la confusione fra realtà ed apparenza; questa viene qui amplificata in una serie di dualismi derivanti l’un l’altro:

  • Sigismondo re e reprobo nella corte e nella torre;
  • E’ reprobo sognando d’essere a corte, mentre ciò che ha vissuto è reale;

E’ un attore (teatrante) che recita un fatto che non è reale ma è apparentemente vero e sta dicendo che ciò che recita (falsamente) vuole che il pubblico lo creda, ma lui stesso, come personaggio non sa se è vero.

  • Tirso de Molina: nasce nel 1579 a Madrid da famiglia d’origine umile. Nel ‘601 diventa frate e come cronista degli Ordine Mercenario gira a lungo la Spagna. Durante una sua permanenza a Toledo, conosce Lope de Vega che lo introdurrà nella composizione di opere teatrali. La sua attività non fu facile, visto il cattivo occhio con cui la critica cattolica controriformista guardava il suo teatro, ma ciò non permise di venir meno alla sua attività, che consta di moltissime opere delle quali ne possediamo un’ottantina. La sua opera più importante è El burlador de Sevilla y convidado de piedra pubblicata e rappresentata a Napoli nel 1625.     

Tirso de Molina - WikipediaFray Antonio Manuel de Hartalejo: Ritratto di Tirso de Molina

Don Giovanni Tenorio scappa da Napoli per aver ingannato la duchessa Isabella, penetrando furtivamente nella sua stanza con il nome del fidanzato, il duca Ottavio. Aiutato dal servo Catalinòn prende il mare e fa naufragio, riuscendo poi a sedurre la pescatrice Tisbea che lo ha raccolto e gli ha dato alloggio. Giunto a Siviglia , l’attende il matrimonio con donna Anna, figlia di don Gonzalo de Ulloa. Ma il re dispone che don Giovanni sposi l’offesa Isabella e il duca d’Ottavio sia risarcito sposando donna Anna. Costei però ama il marchese de la Mota. Don Giovanni, penetrato in casa di donna Anna, uccide il padre della fanciulla. Durante la nuova fuga seduce la giovane Aminta e si fa beffe del marito Patricio. Ritornato a Siviglia, vede in una chiesa la statua di don Gonzalo e per schernirla a invita a cena. Essa ricambia l’invito per il giorno dopo. Don Giovanni accetta. Nella cappella di Ulloa, alla fine della macabra ultima cena tra i due, il convitato, nel salutare don Giovanni, gli stringe con presa ferrea la mano e lo trascina all’inferno. 

JUAN:
La noche en negro silencio 
se extiende, y ya las cabrillas 
entre racimos de estrellas 
el polo más alto pisan. 
Yo quiero poner mi engaño 
por obra, el amor me guía 
a mi inclinación, de quien 
no hay hombre que se resista. 
Quiero llegar a la cama. 
¡Aminta! 

(Sale AMINTA, como que está acostada

AMINTA:
¿Quién llama a Aminta? 
¿Es mi Batricio?

JUAN:
No soy tu Batricio. 

AMINTA:
Pues, ¿quién? 

JUAN:
Mira de espacio, Aminta, quién soy. 

AMINTA:
¡Ay de mí! Yo soy perdida. 
¿En mi aposento a estas horas? 

JUAN:
Éstas son las obras mías. 

AMINTA:
Volvéos, que daré voces, 
no excedáis la cortesía 
que a mi Batricio se debe, 
ved que hay romanas Emilias 
en Dos Hermanas también, 
y hay Lucrecias vengativas. 

JUAN:
Escúchame dos palabras, 
y esconde de las mejillas 
en el corazón la grana, 
por ti más preciosa y rica. 

AMINTA:
Vete, que vendrá mi esposo. 

JUAN:
Yo lo soy. ¿De qué te admiras? 

AMINTA:
¿Desde cuándo? 

JUAN:
Desde agora. 

AMINTA:
¿Quién lo ha tratado? 

JUAN:
Mi dicha. 

AMINTA:
¿Y quién nos casó? 

JUAN:
Tus ojos. 

AMINTA:
¿Con qué poder? 

JUAN:
Con la vista. 

AMINTA:
¿Sábelo Batricio? 

JUAN:
Sí, 
que te olvida. 

AMINTA:
¿Que me olvida? 

JUAN:
Sí, que yo te adoro. 

AMINTA:
¿Cómo? 

JUAN:

Con mis dos brazos. 

AMINTA:
Desvía. 

JUAN:

¿Cómo puedo, si es verdad que muero? 

AMINTA:
¡Qué gran mentira! 

JUAN:
Aminta, escucha y sabrás, 
si quieres que te lo diga, 
la verdad, que las mujeres 
sois de verdades amigas. 
Yo soy noble caballero, 
cabeza de la familia 
de los Tenorios antiguos, 
ganadores de Sevilla. 
Mi padre, después del rey, 
se reverencia y se estima, 
y, en la corte, de sus labios 
pende la muertes o la vida. 
Corriendo el camino acaso, 
llegué a verte, que Amor guía 
tal vez las cosas de suerte 
que él mismo de ellas se olvida. 
Víte, adoréte, abraséme, 
tanto que tu amor me obliga 
a que contigo me case. 
Mira qué acción tan precisa. 
Y aunque lo murmure el [reino], 
y aunque el rey lo contradiga, 
y aunque mi padre enojado 
con amenazas lo impida, 
tu esposo tengo de ser, 
[dando en tus ojos envidia 
a los que viere en su sangre 
la venganza que imagina. 
Ya Batricio ha desistido 
de su acción, y aquí me envía 
tu padre a darte la mano.] 
¿Qué dices? 

AMINTA:
No sé qué diga, 
que se encubren tus verdades 
con retóricas mentiras. 
Porque si estoy desposada, 
como es cosa conocida, 
con Batricio, el matrimonio 
no se absuelve, aunque él desista. 

JUAN:
En no siendo [consumado], 
por engaño o por malicia 
puede anularse. 

AMINTA:
[Es verdad; 
mas ¡ay Dios!, que no querría 
que me dejases burlada, 
cuando mi esposo me quitas.] 

JUAN:
Ahora bien, dame esa mano, 
y esta voluntad confirma 
con ella. 

AMINTA:
¿Que no me engañas? 

JUAN:
Mío el engaño sería. 

AMINTA:
Pues jura que cumplirás 
la palabra prometida. 

JUAN:
Juro a esta mano, señora, 
infierno de nieve fría, 
de cumplirte la palabra. 

AMINTA:
Jura a Dios, que te maldiga 
si no la cumples. 

JUAN:
Si acaso 
la palabra y la fe mía 
te faltare, ruego a Dios 
que a traición y a alevosía, 
me dé muerte un hombre muerto. 
(Que vivo, Dios no permita). (Aparte )

AMINTA:
Pues con ese juramento 
soy tu esposa. 

JUAN:
El alma mía 
entre los brazos te ofrezco. 

AMINTA:
Tuya es el alma y la vida. 

JUAN:
¡Ay, Aminta de mis ojos!, 
mañana sobre virillas 
de tersa plata, estrellada 
con clavos de oro de Tíbar, 
pondrás los hermosos pies, 
y en prisión de gargantillas 
la alabastrina garganta, 
y los dedos en sortijas 
en cuyo engaste parezcan 
[estrellas las amatistas; 
y en tus orejas pondrás] 
transparentes perlas finas. 

AMINTA:
A tu voluntad, esposo, 
la mía desde hoy se inclina. 
Tuya soy. 

JUAN:
(¡Qué mal conoces (Aparte)
al burlador de Sevilla!)

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Jean-Honoré Fragonard: Don Juan e la statua del commendatore

DON JUAN: Si stende la notte nel suo nero silenzio, e già le Caprette, fra grappoli di stelle, calcano il più alto Polo. Voglio mettere in opera il mio inganno. L’amore mi trascina secondo la mia naturale tendenza, alla quale nessun uomo può resistere. Voglio raggiungere il letto di Aminta! (Appare Aminta come se fosse coricata) AMINTA: Chi nomina Aminta? E’ il mio Patricio? DON JUAN: Non sono il tuo Patricio: AMINTA: Chi è dunque? DON JUAN: Guarda attentamente, Aminta, chi sono. AMINTA: Povera me! Sono perduta! In camera mia a quest’ora? DON JUAN: Queste sono le ore mie. AMINTA: Uscite, che griderò. Non oltrepassate i limiti del rispetto che si deve al mio Patricio. Badate che ci possono essere, anche in questo piccolo villaggio delle Due Sorelle donne simili alla romana Emilia ed alla vendicativa Lucrezia. DON JUAN: Ascolta due parole e nascondi nel cuore il rossore delle tue guance che ti fa più preziosa e più bella. AMINTA: Vattene, ché viene il mio sposo. DON JUAN: Sono io il tuo sposo, perché te ne stupisci? AMINTA: Da quando? DON JUAN: Da questo momento. AMINTA: Chi lo ha concertato? DON JUAN: La mia fortuna. AMINTA: E chi ci ha sposato? DON JUAN: I tuoi occhi. AMINTA: Con quale potere? DON JUAN: Con la vista. AMINTA: E lo sa Patricio? DON JUAN: Sì, che ti ha dimenticato. AMINTA: Che mi ha dimenticata? DON JUAN: Mentre io ti adoro. AMINTA: Come? DON JUAN: Con le mie braccia. AMINTA: Allontanati. DON JUAN: Come posso se sto morendo? AMINTA: Che grande menzogna! DON JUAN: Aminta, ascolta e saprai la verità, se vuoi che te la dica, giacché voi donne amate sempre la verità. Io sono nobile gentiluomo, capo della famiglia dei Tenorio, antichi conquistatori di Siviglia. Dopo il re, si stima e riverisce mio padre e nella Corte, dalle sue labbra pende la vita o la morte. Percorrendo per caso queste contrade, mi capitò di vedervi, giacché l’amore guida in tal guisa le cose che, a volte, egli stesso se ne dimentica. Ti vidi, ti adorai, arsi di te a tal punto che amore mi spinse a sposarmi con te. Che azione fatale! E anche se tutto il regno ne mormorerà, e il re si opponga e mio padre sdegnato voglia impedirlo con le minacce, io sarò tuo sposo. Che ne dici? AMINTA: Non so quel che debba dire quando le tue verità si ammantano di menzogne retoriche. Perché se sono sposata con Patricio, come ormai è cosa notoria, il matrimonio non si scioglie anche se lui voglia rinunziarvi. DON JUAN: Il matrimonio può annullarsi quando non è stato consumato, per inganno o per malizia. AMINTA: In Patricio tutto fu semplice verità. DON JUAN: Orbene, dammi la mano e conferma la tua volontà. AMINTA: Non m’inganni? DON JUAN: Mio sarebbe l’inganno. AMINTA: Giura allora che manterrai la parola promessa. DON JUAN: Giuro a questa mano, signora, inferno di fredda neve, che manterrò la parola. AMINTA: Giura innanzi a Dio, e che ti maledica se non la mantieni. DON JUAN: Se per caso non manterrò la parola e la fede mia , invoco da Dio che a tradimento e fellonia mi uccida un uomo (tra sé) (morto, perché Dio non permette che sia vivo). AMINTA: Ebbene, dopo questo giuramento sono tua sposa. DON JUAN: Fra le mie braccia ti offro l’anima mia. AMINTA: Tue sono: l’anima e la vita. DON JUAN: Oh, Aminta dei miei occhi! Domani su sandali d’argento, tempestati di chiodi d’oro poggerai i tuoi deliziosi piedi, e la tua gola d’alabastro, sarà imprigionata da preziose collane e le tue dita da anelli nei quali saranno incastonate perle così fini da sembrare trasparenti. AMINTA: Sposo mio, la mia volontà si arrende da questo momento alla tua: sono tua. DON JUAN: (tra sé) Quanto male conosci l’Ingannatore di Siviglia!
The first edition of "El burlador de Sevilla" | Biblioteca Virtual Miguel  de Cervantes

Vecchia edizione dell’opera di Tirso de Molina

Il romanzo

All’origine della nascita del romanzo moderno vi sono i cosiddetti romanzi picareschi che fioriscono dopo la pubblicazione anonima di Lazarillo di Tormes. Le caratteristiche di tale romanzo sono:

  • descrizione delle precarie giornate del picaro, delle vessazioni e dei soprusi di cui era oggetto;
  • le qualità di cui il picaro era portatore per la sua sopravvivenza: la furbizia, la capacità di adattamento e l’arte di arrangiarsi;
  • descrizione degli ambienti più dimessi della quotidianità che sottendono una rappresentazione di tipo realistico.
  • il piacere della narrazione come fatto in sé.

Sono proprio questi romanzi a fare da sfondo, a costituire il background necessario per il capolavoro secentesco di Miguel De Cervantes il Don Quijote (Don Chisciotte).

Il Don Chisciotte è il vero e proprio primo romanzo moderno della cultura europea perché:

  • è un testo che narra la realtà nei suoi molteplici aspetti attraverso diversi punti di vista;
  • è parodia dei generi già esistenti e contaminazione di stili e linguaggi diversi;
  • il personaggio principale presenta una complessità e problematicità che lo collocano a fianco dei grandi eroi epici, ma senza la loro eccezionalità e sostanza fantasiosa.

Miguel de Cervantes - WikipediaMiguel De Cervantes

L’opera di Cervantes è assai complessa: divisa in due parti, la prima pubblicata nel 1605, la seconda nel 1615, dopo che un anno prima era uscita un apocrifa continuazione del romanzo; essa rappresenta una profonda riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con la letteratura.

Il protagonista, infatti è un uomo che diventa pazzo dopo la lettura dei poemi epici cavallereschi, che crede essere veri. Pertanto muta il suo nome in Don Chisciotte della Mancia, veste gli abiti di un suo avo, sceglie come scudiero un contadino rozzo e ignorante, ma pieno di senso pratico, Sancio Panza, e parte alla ventura.

E’ proprio attraverso i dialoghi tra il cavaliere ed il suo fido scudiero che possiamo leggere il relativismo conoscitivo tipico di questa età. Il modo con cui il protagonista guarda la realtà viene puntualmente contraddetto dal modo in cui essa si presenta al suo scudiero: ma la problematicità sta nel fatto che qualche volta Don Chisciotte si sancizza e vede una realtà che si presuppone “reale” e Sancio si donchisciottizza scambiando l’illusione con la realtà.

A moltiplicare la complessità è la seconda parte: essi sanno di essere i protagonisti di una storia scritta da qualcun altro: cioè vedono se stessi riflessi in un altrettanto storia fantastica quanto quella che essi vivono e credono essere reale. E’ un continuo gioco di specchi, di una realtà che perde il suo statuto per diventare letteratura ma di una letteratura che diventa più vera della stessa realtà.

Riportiamo uno dei passi più famosi del romanzo:

CAPÍTULO OCTAVO

DEL BUEN SUCESO QUE EL VALOROSO DON QUIJOTE TUVO EN LA ESPANTABLE Y JAMÁS IMAGINADA AVENTURA DE LOS MOLINOS DE VIENTO, CON OTROS SECESOS DIGNOS DE FELICE RECORDACIÓN 

En esto descubrieron treinta o cuarenta molinos de viento que hay en aquel campo, y así como Don Quijote los vió, dijo a su escudero: «La ventura va guiando nuestras cosas mejor de lo que acertáramos a desear; porque ves allí, amigo Sancho Panza, donde se descubren treinta o poco más desaforados gigantes con quien pienso hacer batalla, y quitarles a todos las vidas, con cuyos despojos comenzaremos a enriquecer: que esta es buena guerra, y es gran servicio de Dios quitar tan mala simiente de sobre la faz de la tierra.»
«¿Qué gigantes?» dijo Sancho Panza.
«Aquellos que allí ves», respondió su amo, «de los brazos largos, que los suelen tener algunos de casi dos leguas».
«Mire vuestra merced», respondió Sancho, «que aquellos que allí se parecen no son gigantes, sino molinos de viento, y lo que en ellos parecen brazos son las aspas, que volteadas del viento hacen andar la piedra del molino.»
«Bien parece», respondió Don Quijote, «que no estás cursado en esto de las aventuras; ellos son gigantes, y si tienes miedo quítate de ahí, y ponte en oración en el espacio que yo voy a entrar con ellos en fiera y desigual batalla».
Y diciendo esto, dio de espuelas a su caballo Rocinante, sin atender a las voces que su escudero Sancho le daba, advirtiéndole que sin duda alguna eran molinos de viento, y no gigantes aquellos que iba a acometer. Pero él iba tan puesto en que eran gigantes, que ni oía las voces de su escudero Sancho, ni echaba de ver, aunque estaba ya bien cerca, lo que eran; antes iba diciendo en voces altas:
«Non fuyades, cobardes y viles criaturas, que un solo caballero es el que os acomete.» 
Levantóse en esto un poco de viento y las grandes aspas comenzaron a moverse, lo cual visto por Don Quijote, dijo:
«Pues aunque mováis más brazos que los del gigante Briareo, me lo habéis de pagar».
Y en diciendo esto, y encomendándose de todo corazón a su señora Dulcinea, pidiéndole que en tal trance le socorriese, bien cubierto de su rodela, con la lanza en ristre, arremetió a todo el galope de Rocinante, y embistió con el primer molino que estaba delante; y dándole una lanzada en el aspa, la volvió el viento con tanta furia, que hizo la lanza pedazos, llevándose tras sí al caballo y al caballero, que fue rodando muy maltrecho por el campo. Acudió Sancho Panza a socorrerle a todo el correr de su asno, y cuando llegó, halló que no se podía menear, tal fue el golpe que dio con él Rocinante.
«¡Válame Dios!» dijo Sancho; «¿no le dije yo a vuestra merced que mirase bien lo que hacía, que no eran sino molinos de viento, y no los podía ignorar sino quien llevase otros tales en la cabeza?»
«Calla, amigo Sancho», respondió Don Quijote, «que las cosas de la guerra, más que otras, están sujetas a continua mudanza, cuanto más que yo pienso, y es así verdad, que aquel sabio Frestón, que me robó el aposento y los libros, ha vuelto estos gigantes en molinos por quitarme la gloria de su vencimiento: tal es la enemistad que me tiene; mas al cabo al cabo han de poder poco sus malas artes contra la voluntad de mi espada». «Dios lo haga como puede», respondió Sancho Panza.
Y ayudándole a levantar, tornó a subir sobre Rocinante, que medio despaldado estaba; y hablando en la pasada aventura, siguieron el camino del puerto Lápice, porque allí decía Don Quijote que no era posible dejar de hallarse muchas y diversas aventuras, por ser lugar muy pasajero; sino que iba muy pesaroso por haberle faltado la lanza y diciéndoselo a su escudero, dijo:
«Yo me acuerdo haber leído que un caballero español, llamado Diego Pérez de Vargas, habiéndosele en una batalla roto la espada, desgajó de una encina un pesado ramo o tronco, y con él hizo tales cosas aquel día, y machacó tantos moros, que le quedó por sobrenombre Machuca, y así él, como sus descendientes, se llamaron desde aquel día en adelante Vargas y Machuca. Hete dicho esto, porque de la primera encina o roble que se me depare, pienso desgajar otro tronco tal y bueno como aquel, que me imagino y pienso hacer con él tales hazañas, que tú te tengas por bien afortunado de haber merecido venir a verlas, y aser testigo de cosas que apenas podrán ser creídas.» 
«A la mano de Dios», dijo Sancho, «yo lo creo todo así como vuestra merced lo dice; pero enderécese un poco, que parece que va de medio lado, y debe de ser del molimiento de la caída.» 
«Así es la verdad», respondió Don Quijote; «y si no me quejo del dolor, es porque no es dado a los caballeros andantes quejarse de herida alguna, aunque se le salgan las tripas por ella.» 
«Si eso es así, no tengo yo que replicar», respondió Sancho; «pero sabe Dios si yo me holgara que vuestra merced se quejara cuando alguna cosa le doliera. De mí sé decir, que me he de quejar del más pequeño dolor que tenga, si ya no se entiende también con los escuderos de los caballeros andantes eso del no quejarse».
No se dejó de reír Don Quijote de la simplicidad de su escudero; y así le declaró que podía muy bien quejarse, como y cuando quisiese, sin gana o con ella, que hasta entonces no había leído cosa en contrario en la orden de caballería. 

 
Pablo Picasso Don Quixote, 1955: Descrizione dell'opera | Arthive
 

Pablo Picasso: Don Chisciotte e Sancio Panza (1955)

DEL PROSPERO SUCCESSO CHE IL PRODE DON CHISCIOTTE EBBE NELLA SPAVENTOSA E MAI PENSATA AVVENTURA DEI MULINI A VENTO, NONCHÉ D’ALTRI SUCCESSI DEGNI DI FELICE RICORDANZA
In questo mentre, scòrsero trenta o quaranta mulini a vento che sono in quella pianura, e come don Chisciotte li ebbe veduti, disse al suo scudiero: «La fortuna va guidando le cose nostre meglio di quel che potessimo desiderare; perché, vedi là, amico Sancio Panza, dove si scorgono trenta o pochi di più, smisurati giganti, con i quali penso di battagliare sì da ammazzarli tutti. Con le loro spoglie cominceremo a farci ricchi, poiché questa è buona guerra, ed è anche gran servigio reso a Dio sbarazzare da tanto cattiva semenza la faccia della terra.»
«Quali giganti?» disse Sancio Panza.
«Quelli» rispose il padrone «che tu vedi laggiù, con le braccia lunghe, che taluni ne sogliono avere quasi di due leghe».
«Guardate» rispose Sancio «che quelli che si vedono laggiù non son giganti, bensì mulini a vento, e quel che in essi sembrano braccia sono le pale che, girate dal vento, fanno andare la macina del mulino.»
«Si vede bene» rispose don Chisciotte «che in fatto d’avventure non sei pratico: son giganti quelli; che se hai paura, scostati di lì e mettiti a pregare mentre io vado a combattere con essi fiera e disuguale battaglia.»
E, così dicendo, spronò il cavallo Ronzinante, senza badare a quel che gli gridava lo scudiero per avvertirlo che, certissimamente, erano mulini a vento e non giganti quelli che stava per assalire.
Ma egli s’era così incaponito che fossero giganti da non udire le grida del suo scudiero Sancio, né, per quanto già fosse molto vicino, s’accorgeva di quel che erano; anzi andava vociando: «Non fuggite, gente codarda e vile; ché è un cavaliere solo colui che vi assale.
Si levò frattanto un po’ di vento, e le grandi pale cominciarono ad agitarsi. Il che avendo visto don Chisciotte, disse: «Ma per quanto agitiate più braccia di quelle del gigante Briareo, me la pagherete.» E così dicendo e raccomandandosi di tutto cuore alla sua dama Dulcinea, chiedendole che lo soccorresse a quel passo, ben difeso dalla sua rotella, con la lancia in resta, mosse all’assalto, al gran galoppo di Ronzinante, e attaccò il primo mulino che gli era dinanzi.
Ma, nel dare un colpo di lancia contro la pala, questa fu roteata con tanta furia dal vento che mandò in pezzi la lancia e si trascinò dietro di sé cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare molto malconcio per il campo. Accorse in aiuto Sancio Panza, alla gran carriera dell’asino suo, e quando giunse trovò che don Chisciotte non si poteva rimenare, tale fu il picchio che batté insieme con Ronzinante.
«Per Dio!» disse Sancio. «Non ve l’avevo detto io che badaste bene a cosa facevate, che non erano se non mulini a vento, e che solo chi n’avesse nella testa degli altri come questi poteva non saperlo?
«Chetati, caro Sancio» rispose don Chisciotte «che le cose della guerra, più che altre, son sottoposte a continua vicenda; tanto più, io penso, e così è per vero, che quel dotto Frestone, il quale mi portò via la stanza e i libri, ha cambiato questi giganti in mulini per togliermi il vanto di vincerlo, tanta è l’inimicizia che ha con me; ma alla fin fine, poco varranno le sue male arti contro la bontà della mia spada.
«Dio lo faccia, poiché lo può» rispose Sancio Panza. Aiutato quindi da lui a rialzarsi, don Chisciotte risalì su Ronzinante che s’era mezzo spallato. E discorrendo della occorsa  avventura, continuarono la via della gola di Puerto Lápice, ché, diceva don Chisciotte, lì non poteva mancare che si incontrassero tante e diverse avventure, per essere luogo molto frequentato; ma era tutto cogitabondo a causa dell’essergli venuta a mancare la lancia. E parlando col suo scudiero, gli disse: «Mi ricordo d’aver letto che un cavaliere spagnolo, chiamato Diego Pérez de Vargas, essendoglisi in una battaglia spezzata la spada, schiantò da una quercia un pesante ramo o tronco, e con esso operò tali cose, in quel giorno, ed ebbe pesti tanti mori che gli rimase il nomignolo di Pistone, e da allora in poi, tanto lui quanto i suoi discendenti si chiamarono così.
«T’ho detto questo perché dalla prima quercia o rovere che mi si presenti penso di schiantare un tronco anch’io, tale e così robusto come dovette esser quello; ed ho in mente di far con esso tali gesta che tu ritenga per gran fortuna l’aver meritato di ritrovartici e di essere testimonio di cose che appena potranno essere credute.»
«Come Dio vorrà», disse Sancio. «Credo tale e quale come voi dite; ma drizzatevi un po’ sulla vita, ché sembra pencoliate alquanto di fianco, forse perché ammaccato dalla caduta.
«È vero» rispose don Chisciotte «e se non mi lagno del dolore è perché non è permesso ai cavalieri erranti lagnarsi di ferita alcuna, anche che gliene escano fuori le budella.
«Se così è, non ho da aggiungere nulla io» rispose Sancio «però Dio sa se io mi rallegrerei ai lamenti di vossignoria quando avesse a sentir dolore in qualche parte. Di me posso dire che mi lamenterò del più piccolo dolore che abbia, se pure questo che voi dite del non lamentarsi non s’intende anche per gli scudieri dei cavalieri erranti.
Don Chisciotte non poté fare a meno di ridere della semplicità del suo scudiero. Gli affermò quindi che poteva benissimo lamentarsi come e quanto gli piacesse, ne avesse o no voglia, poiché fino allora non aveva letto nulla in contrario nell’ordine della cavalleria.

File:Honoré Daumier 017 (Don Quixote).jpg - WikipediaHonoré Daumier: Don Chisciotte su Ronzinante (1870)

Il passo è emblematico per comprendere la reale valenza del romanzo: Don Chisciotte è colui che non sa guardare la realtà se non attraverso il filtro della letteratura; si torna quasi al concetto barocco per cui è vero non ciò che è vero, ma ciò che viene rappresentato; ma soprattutto il “meraviglioso” letterario apre mondi che il reale non può dare e che cercherà con ostinazione attraverso la lettura. Sarà Sancho, con bonaria e divertita ironia, a cercare di metterlo di fronte a ciò che realmente è, ma non dimenticando, anzi accettando il suo essere inferiore, ma anche più saggio. E’ dal contrasto tra i due che sprigiona il comico ed il paradosso con cui Cervantes guarda al mondo della cavalleria che inizia a tramontare. Infatti, a voler uscire dalla profonda problematicità del testo di Cervantes, quello che rimane è il profondo senso di disinganno: la letteratura epica di cui Chisciotte si è innamorato era il riflesso di un mondo ormai perduto, che egli cerca, illusoriamente, di rifare suo. E’ il disinganno, già visto nei lirici, ad essere rappresentato, il senso di piena decadenza di una potenza che ha perso il ruolo egemone che aveva nella storia.

Il barocco in Inghilterra

In Inghilterra il barocco prende il nome di eufuismo dal romanzo Euphues di John Lyly, scritto in uno stile ricercato ed artificioso.

Per la lirica dobbiamo ricordare: Richard Crashow, William Shakespeare, autore di Sonetti e John Donne:

  • Richard Crashow: è il più fedele alle tecniche poetiche barocche. Amico del Marino ne riproduce gli schemi inseriti in una produzione dominata dal cattolicesimo: come si può vedere in questo testo, tratta da Steps to the Temple. Sacred Poems, With The Delights of the Muses:

Analysis of Richard Crashaw's Poems – Literary Theory and Criticism

Upon the Book and Picture of the Seraphical Saint Teresa

O thou undaunted daughter of desires!
By all thy dow’r of lights and fires,
By all the eagle in thee, all the dove,
By all thy lives and deaths of love,
By thy large draughts of intellectual day,
And by thy thirsts of love more large than they,
By all thy brim-fill’d bowls of fierce desire,
By thy last morning’s draught of liquid fire,
By the full kingdom of that final kiss
That seiz’d thy parting soul and seal’d thee his,
By all the heav’ns thou hast in him,
Fair sister of the seraphim!
By all of him we have in thee,
Leave nothing of my self in me:
Let me so read thy life that I
Unto all life of mine may die.

O tu, intrepida figlia di ogni desiderio! Per tutte le doti delle tue luci e dei tuoi fuochi; per lo spirito d’aquila che è in te, e l’animo di colomba; per tutte le tue vite e le tue morti d’amore; per la tua inesausta arsura di giorno intellettuale; e per le tue seti di amore più ardenti dell’arsura dell’anima; per la tua coppa traboccante di sfrenato ardore, per il tuo estremo sorso mattutino di liquido fuoco; per il Regno sconfinato di quel bacio ultimo che afferrò la tua anima morente e la suggellò col Suo, per tutti i cieli che tu possiedi in Lui, Leale sorella dei Serafini! Per tutto ciò che di Lui noi possediamo in te, deh! Rimetti il Nulla di me stesso dentro di me: Ch’io legga così la tua vita fintantoché Tutta la mia vita possa morire!

William Shakespeare - WikipediaWilliam Shakespeare

  • William Shakespeare: al di là dei capolavori teatrali, il genio di Shakespeare è già ben delineato nella sua poesia. Egli parte da una “ripresa” petrarchesca (allora assai in voga in Inghilterra), ma la integra con il concettismo secentesco, attraverso un linguaggio ricercato e raffinato;

John Donne - WikipediaJohn Donne

  • John Donne: dà vita a quella che nella letteratura inglese viene definita “poesia metafisica” di cui egli è l’iniziatore. Tale definizione indica un certo tipo di poesia in cui gli elementi sensibili trovano la loro spiegazione con elementi intellettuali e filosofici, mentre quest’ultimi si illuminano attraverso una spiegazione sensibile (in altre parole il concreto per l’astratto e l’astratto per il concreto).

Proponiamo qui due esempi; il primo tratto dall’opera poetica di William Shakespeare:

SONNET LXXIII

That time of year thou may’st in me behold
When yellow leaves, or none, or few, do hang
Upon those boughs which shake against the cold,
Bare ruin’d choirs, where late the sweet birds sang.

In me thou see’st the twilight of such day,
As after sunset fadeth in the west,
Which by-and-by black night doth take away,
Death’s second self, that seals up all in rest.

In me thou see’st the glowing of such fire
That on the ashes of his youth doth lie,
As the death-bed whereon it must expire

Consum’d with that which it was nourish’d by.
This thou perceivest, which makes thy love more strong,
To love that well which thou must leave ere long.

SONETTO 73
Contempla in me quell’epoca dell’anno / quando foglie ingiallite, poche e nessuna, pendono / da quei rami tremanti contro il freddo, / nudi cori in rovina, ove dolci cantarono gli uccelli. // Tu vedi in me il crepuscolo di un giorno, / quale dopo il tramonto svanisce all’occidente, / subito avvolto dalla morte nera, / gemella della morte, che tutto sigilla nel riposo. // Tu vedi in me il languire di quel fuoco, / che aleggia sulle ceneri della propria giovinezza, / come sul letto di morte su cui dovrà spirare, // consunto da ciò che già fu suo alimento. // Questo tu vedi, che fa il tuo amore più forte, / a degnamente amare chi presto ti verrà meno.

Shakespeare Sonnets: All 154 Sonnets With Explanations✔️

Edizione del 1609

Si vede in questo testo quanto importante sia stata la lezione del nostro Petrarca a livello europeo: egli infatti riprende il concetto del trascorrere del tempo ma lo svolge in modo estremamente personale. Egli infatti, sin dal primo verso si rivolge ad un tu e gli descrive, attraverso una triplice metafora, la sua vecchiaia (1 strofe: rami secchi; 2 strofe: tramonto; 3 strofe: lo spegnersi di un fuoco); ma sarà il distico finale a ribadire la volontà di vita e la gioia nell’essere amato del poeta che appunto, ancora metaforicamente, può rappresentare non solo la vita, ma anche la voglia di cantarla che solo l’amore può offrire.

L’altro poeta importantissimo per la cultura europea è John Donne:

BATTER MY HEART

Batter my heart, three-person’d God, for you
As yet but knock, breathe, shine, and seek to mend;
That I may rise and stand, o’erthrow me, and bend
Your force to break, blow, burn, and make me new.
I, like an usurp’d town to another due,
Labor to admit you, but oh, to no end;
Reason, your viceroy in me, me should defend,
But is captiv’d, and proves weak or untrue.
Yet dearly I love you, and would be lov’d fain,
But am betroth’d unto your enemy;
Divorce me, untie or break that knot again,
Take me to you, imprison me, for I,
Except you enthrall me, never shall be free,
Nor ever chaste, except you ravish me.

Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone! Per ora / tu solo bussi, aliti, risplendi / e tenti di emendare. Ma perché io sorga e regga, /  tu rovesciami e tendi la tua forza /  a spezzarmi, / ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo. / Usurpata città, dovuta ad altri, io mi provo / a farti entrare, ma ahi! senza fortuna. / La ragione, in me tuo viceré, / mi dovrebbe difendere ma è / prigioniera e si mostra molle o infida. / Pure teneramente io t’amo e vorrei essere /  riamato. Ma fui promesso al tuo nemico. / Divorziami, disciogli, spezza il nodo, / rapiscimi, imprigionami: se tu / non m’incateni non sarò mai libero, / casto mai se tu non mi violenti.

Donne John (1572 1631) Poems with Elegies on the Authors Dea

Edizione 1633

John Donne, pur essendo inglese, fu educato dai genitori ai valori cattolici: come ben si comprende in questa poesia. Sposatosi con Anna More, figlia del suo lord protettore, contro la volontà del padre di lei, fu imprigionato e, una volta liberato, e a seguito della morte di lei, di diede alla predicazione. A ben guardare sembra che questa poesia si leghi più a quella forza mistica, caratteristica del nostro Jacopone, che alla scientificità newtoniana: si è che egli vive il cattolicesimo con tale virulenza, con parole forti, che denotano quasi un superamento del “classicismo” rinascimentale, per riappropriarsi di quella forza, anche verbale, non immune dalla poetica barocca.

Il teatro

Già dalla metà del ’500 si era sviluppata, in Inghilterra, una forte produzione teatrale, mediata dall’arrivo nell’isola, di compagnie teatrali italiane che “esportarono” il gusto un po’ orrido e macabro tratto dalle tragedie di Seneca, allora assai in voga. E’ da questo terreno che prende le mosse il genio letterario del più grande drammaturgo europeo, William Shakespeare, che operò a cavallo tra i due secoli in una Londra che già nel 1600, con una popolazione di poco inferiore ai 200.000 abitanti, contava ben otto teatri stabili.

La pubblicazione dell’opera teatrale shakespeariana avvenne senza il controllo del-l’autore, prima in volumi separati, poi in un unico volume nel 1623 curato da due attori.

La produzione di Shakespeare suole essere divisa in quattro fasi:

  • all’inizio l’autore sembra voler saggiare tutte le possibilità dei generi teatrali; si va dalla tragedia senecana, il Tito Andronico, alla commedia plautina, La commedia degli equivoci, alle cosiddette commedie “eufuistiche” come La bisbetica domata, Pene d’amor perdute, Sogno d’una notte di mezza estate, alla tragedia sentimentale, Romeo e Giulietta, in cui il linguaggio ricercato e raffinato viene riscattato dalla tragica malinconia che permea la storia dei due amanti;

Villa Carlotta: Ancora un ultimo bacio, Giulietta. Il capolavoro di Hayez  compie 200 anni

Francesco Hayez: Romeo e Francesca sul balcone (1859)

Dal Romeo e Giulietta riportiamo la celeberrima scena del balcone:

JULIET: 
O Romeo, Romeo! Wherefore art thou Romeo?
Deny thy father and refuse thy name;
Or, if thou wilt not, be but sworn my love,
And I’ll no longer be a Capulet.

ROMEO [Aside.]:
Shall I hear more, or shall I speak at this?

JULIET: 
‘Tis but thy name that is my enemy.
Thou art thyself, though not a Montague.
What’s Montague? It is nor hand, nor foot,
Nor arm, nor face. Nor any other part
Belonging to a man. O, be some other name.
What’s in a name? That which we call a rose
By any other word would smell as sweet.
So Romeo would, were he not Romeo called,
Retain that dear perfection which he owes
Without that title. Romeo, doff thy name;
And for that name, which is no part of thee,
Take all myself.

ROMEO:
I take thee at thy word.
Call me but love, and I’ll be new baptized;
Henceforth I never will be Romeo.

JULIET: 
What man art thou, that, thus bescreened in night,
So stumblest on my counsel?

ROMEO: 
By a name
I know not how to tell thee who I am.
My name, dear saint, is hateful to myself
Because it is an enemy to thee.
Had I it written, I would tear the word.

JULIET: 
My ears have yet not drunk a hundred words
Of that tongue’s uttering, yet I know the sound.
Art thou not Romeo, and a Montague?

ROMEO:
Neither, fair maid, if either thee dislike.

JULIET: 
How camest thou hither, tell me, and wherefore?
The orchard walls are high and hard to climb,
And the place death, considering who thou art,
If any of my kinsmen find thee here.

ROMEO: 
With love’s light wings did I o’erperch these walls;
For stony limits cannot hold love out,
And what love can do, that dares love attempt.
Therefore thy kinsmen kinsmen find thee here.

JULIET: 
If they do see thee, they will murder thee.

ROMEO: 
Alack, there lies more peril in thine eye
Than twenty of their swords! Look thou but sweet,
And I am proof against their enmity.

JULIET: 
I would not for the world they saw thee here.

ROMEO: 
I have night’s cloak to hide me from their eyes;
And but thou love me, let them find me here.
My life were better ended by their hate
Than death prorogued, wanting of thy love.

JULIET: 
By whose direction found’st thou out this place?

ROMEO: 
By love, that first did prompt me to inquire.
He lent me council, and I lent him eyes.
I am no pilot; yet, wert thou as far
As that vast shore washed with the farthest sea,
I should adventure for such merchandise.

JULIET: 
Thou knowest the mask of night is on my face;
Else would a maiden blush bepaint my cheek
For that which thou hast heard me speak tonight.
Fain would I dwell on form fain, fain deny
What I have spoke; but farewell compliment!
Dost thou love me? I know thou wilt say “Ay;”
And I will take thy word. Yet, if thou swear’st,
Thou mayst prove false. At lovers’ perjuries,
They say Jove laughs.  O gentle Romeo,
If thou dost love, pronounce it faithfully.
Or if thou thinkest I am too quickly won,
I’ll frown and be perverse and say thee nay,
So thou wilt woo, but else, not for the world.
In truth, fair Montague, I am too fond,
And therefore thou mayst think my havior light;
But trust me, gentleman, I’ll prove more true
Than those that have more cunning to be strange.
I should have been more strange, I must confess,
But that thou overheard’st, ere I was ware,
My true love passion. Therefore pardon me,
And not impute this yielding to light love,
Which the dark night hath so discovered. 

ROMEO:
Lady, by yonder blessed moon I vow,
That tips with silver all these fruit-tree tops–

JULIET:
O, swear not by the moon, th’ inconstant moon,
That monthly changes in her circle orb,
Lest that thy love prove likewise variable.

ROMEO: 
What shall I swear by?

JULIET: 
Do not swear at all;
Or if thou wilt, swear by thy gracious self,
Which is the god of my idolatry,
And I’ll believe thee.

ROMEO: 
If my heart’s dear love–

JULIET: 
Well, do not swear. Although I joy in thee,
I have no joy of this contract tonight.
It is too rash, too unadvised, too sudden;
Too like the lightning, which doth cease to be
Ere one can say it lightens. Sweet, good night!
This bud of love, by summer’s ripening breath,
May prove a beauteous flow’r when next we meet.
Good night, good night! As sweet repose and rest
Come to thy heart as that within my breast!

ROMEO: 
O, wilt thou leave me so unsatisfied?

JULIET: 
What satisfaction canst thou have to-night?

ROMEO: 
The exchange of thy love’s faithful vow for mine.

JULIET: 
I gave thee mine before thou didst request it:
And yet I would it were to give again.

ROMEO: 
Would’st thou withdraw it? for what purpose, love?

JULIET: 
But to be frank and give it thee again.
And yet I wish but for the thing I have.
My bounty is as boundless as the sea,
My love as deep; the more I give to thee,
The more I have, for both are infinite.

[NURSE calls within.]

I hear some noise within. Dear love, adieu!
Anon, good nurse! Sweet Montague, be true.
Stay but a little, I will come again.

[Exit.]

ROMEO: 
O blessed, blessed night! I am afeard,
Being in night, all this is but a dream,
Too flattering-sweet to be substantial.

[Enter JULIET again.]

JULIET: 
Three words, dear Romeo, and good night indeed.
If that thy bent of love be honorable,
Thy purpose marriage, send me word tomorrow,
By one that I’ll procure to come to thee,
Where and what time thou wilt perform the rite;
And all my fortunes at thy foot I’ll lay
And follow thee my lord throughout the world.

NURSE [within.]:

Madam!

JULIET: 

I come anon.–But if thou meanest not well,

I do beseech thee–

NURSE [within.]:
Madam!

JULIET:
By and by I come.–
To cease thy strife and leave me to my grief
Tomorrow will I send.

ROMEO: 
So thrive my soul–

JULIET: 

A thousand times good night!

[Exit.]

ROMEO: 
A thousand times the worse, to want thy light!
Love goes toward love as schoolboys from their books
But love from love, toward school with heavy looks

[Enter JULIET again]

JULIET: 
Hist! Romeo, hist! O for a falc’ner’s voice
To lure this tassel gentle back again!
Bondage is hoarse and may not speak aloud,
Else would I tear the cave where Echo lies
And make her airy tongue more hoarse than
With repetition of “My Romeo!”

ROMEO: 
It is my soul that call upon my name:
How silver-sweet sound lovers’ tongues by night,
Like softest music to attending ears!

JULIET: 
Romeo!

ROMEO: 
My sweet?

JULIET: 
What o’clock tomorrow
Shall I send to thee?

ROMEO: 
By the hour of nine.

JULIET: 
I will not fail. ‘Tis twenty years till then.
I have forgot why I did call thee back.

ROMEO: 
Let me stand here till thou remember it.

JULIET: 
I shall forget, to have thee still stand there,
Rememb’ring how I love thy company.

ROMEO: 

And I’ll still stay, to have thee still forget,

Forgetting any other home but this.

JULIET: 
‘Tis almost morning. I would have thee gone–
And yet no farther than a wanton’s bird,
That lets it hop a little from his hand,
Like a poor prisoner in his twisted gyves,
And with a silken thread plucks it back again
So loving-jealous of his liberty.

ROMEO: 
I would I were thy bird.

JULIET: 
Sweet, so would I.
Yet I should kill thee with much cherishing.
Good night, good night! Parting is such sweet sorrow
That I shall say good night till it be morrow.

[Exit.]

ROMEO: 
Sleep dwell upon thine eyes, peace in thy breast!
Would I were sleep and peace, so sweet to rest!

Romeo e Giulietta - Milo Manara, romeo e giulietta

Milo Manara: Romeo e Giulietta

Giulietta: O Romeo, Romeo, perchè sei tu Romeo? Rinnega tuo padre e rifiuta il tuo stesso nome. Ovvero, se proprio non lo vuoi fare, giurami soltanto che mi ami, ed io smetterò di essere una Capuleti. Romeo: Devo continuare ad ascoltarla oppure rispondere a ciò che dice? Giulietta: E’ solamente il tuo nome ad essermi ostile: tu saresti sempre lo stesso anche se non fossi un Montecchi. Che cosa vuol dire la parola Montecchi? non è una mano, o un braccio o un viso, né un’altra parte che appartiene ad un essere umano. Oh, sii qualche altro nome! Quello che noi chiamiamo col nome di rosa, anche chiamato con un nome diverso, conserverebbe ugualmente il suo dolce profumo. Allo stesso modo Romeo, se portasse un altro nome, avrebbe sempre quella rara perfezione che possiede anche senza quel nome. Rinuncia quindi al tuo nome, Romeo, ed in cambio di quello, che tuttavia non è una parte di te, accogli tutta me stessa. Romeo: Ti prendo in parola. D’ora in avanti non sarò più Romeo. Giulietta: Chi sei tu, così nascosto dalla notte, che inciampi nei miei pensieri più nascosti? Romeo: Non so dirti chi sono, adoperando un nome. Perché il mio nome, o diletta santa, è odioso a me stesso, perché è nemico a te. E nondimeno strapperei il foglio dove lo trovassi scritto. Giulietta: Le mie orecchie non hanno ancora udito un centinaio di parole pronunciate dalla tua lingua, e nondimeno riconosco la tua voce: non sei forse tu Romeo, nonché uno dei Montecchi? Romeo: Non sono ne l’uno ne l’altro, fanciulla, se a te questo dispiace. Giulietta: E come sei giunto fino a qui? Dai, dimmi come e perché. Le mura del cortile sono irte e difficili da scalare, e questo luogo, considerando chi sei tu, potrebbe significare la morte se qualcuno della mia famiglia ti scoprisse. Romeo: Ho scavalcato le mura sulle ali dell’amore, poiché non esiste ostacolo fatto di pietra che possa arrestare il passo dell’amore, e tutto ciò che amore può fare, trova subito il coraggio di tentarlo: per questi motivi i tuoi familiari non possono fermarmi. Giulietta: Se ti vedranno ti uccideranno. Romeo: Ahimè, che si nascondono più insidie nel tuo sguardo che non in venti delle loro spade. A me basta che mi guardi con dolcezza e sarò immune alla loro inimicizia. Giulietta: Non vorrei per tutto il mondo che ti scoprissero qui. Romeo: Ho il mantello della notte per nascondermi ai loro occhi. Se tu mi ami non mi importa che essi mi scoprano. meglio perdere la vita per mezzo del loro odio, che sopravvivere senza poter godere del tuo amore. Giulietta: E chi ha saputo guidarti fino a qui? Romeo: E’ stato amore, che per primo ha mosso i miei passi, prestandomi il suo consiglio, ed io gli ho prestato gli occhi. Non sono un buon pilota: ciò nonostante, anche se fossi tanto lontana quanto la riva abbandonata dove lavano marosi del più remoto dei mari, non esiterei a mettermi in viaggio, per un carico così prezioso. Giulietta: Tu sai che sul mio volto vi è la maschera della notte, altrimenti un verginale rossore colorerebbe le mie guance, a causa di quello che mi hai sentito dire stanotte. E molto volentieri mi piacerebbe rinnegare tutto ciò che ho detto. Ma basta con le forme e i convenevoli. Mi ami? So già che risponderai sì, e che io crederò a ciò che tu  dirai. Ma se lo giuri, potresti poi dimostrarti sleale. Dicono che Giove sorrida dei giuramenti degli amanti. O, nobile Romeo, se davvero mi ami, dillo apertamente, e se credi che io mi lasci conquistare troppo facilmente, arriccerò la fronte e sarò cattiva, e mi negherò, cosicché tu abbia ragione di corteggiarmi: altrimenti, non saprei negarti niente per tutto l’oro del mondo. O bel Montecchi, io sono davvero troppo innamorata, e tu potresti interpretare questo comportamento come frivolo. Ma abbi fede in me, mio buon signore, ed io saprò dimostrarmi anche più leale di coloro che sanno offrire in modo migliore la loro modestia. Romeo: Madamigella, per quella sacra luna che inargenta le cime di quegli alberi, giuro… Giulietta: Oh, non giurare sulla luna, l’incostante luna che si trasforma ogni mese nella sua sfera, per paura che anche il tuo amore si dimostri, come la stessa luna, mutevole. Romeo: E allora su cosa dovrei giurare? Giulietta: Non giurare per niente. E se proprio devi giurare, giura sulla tua persona benedetta, che è il dio della mia idolatria: e non potrò fare a meno di crederti. Romeo: Se il caro amore del cuor mio…Giulietta: Non giurare, di grazia. Anche se la tutta la mia felicità è riposta in te, non riesco a provare nessuna felicità nel patto d’amore appena stipulato, troppo precipitato, troppo frettoloso e irriflessivo, e troppo mi somiglia il lampo che muore prima che si abbia il tempo di dire: lampeggia. Buona notte dolce amore mio! …il dolce riposo e la pace entrino nel tuo cuore. Allo stesso modo di quelli che confortano il mio seno. Romeo: Mi vuoi dunque lasciare così mal soddisfatto? Giulietta: E qual soddisfazione potresti avere tu, stanotte? Romeo: Lo scambio del voto fedele del tuo amore insieme al mio. Giulietta: Ti ho già dato il mio prima ancora che fossi tu a chiederlo: eppure mi piacerebbe che il momento di dartelo non fosse già passato. Romeo: Vorresti forse riprendertelo? E perché amore mio? Giulietta: Solo per poter essere prodiga, e dartelo di nuovo. Eppure altro non desidero se non ciò che già possiedo: la mia generosità è davvero senza limiti, come il mare, e come il mare il mio amore è profondo. E più te ne do più ne ho per me, perché entrambi sono infiniti. sento una voce, dal dentro, addio amore mio. Vengo subito, mia buona balia. O mio caro Montecchi, sii fedele a me. resta ancora un poco. Torno subito. Romeo: O notte beata! Temo che, perché siamo di notte, tutto questo non si riveli soltanto un sogno, troppo dolce e lusinghiero per essere fatto di sostanza reale. Giulietta: Tre parole, diletto Romeo, ed un’ultima buona notte. Se davvero il tuo amore è sincero e la tua intenzione è di sposarmi, fammelo sapere domani per mezzo di qualcuno che darò disposizione che ti raggiunga, cosicché potrò sapere dove e come il matrimonio verrà celebrato: e deporrò ai tuoi piedi tutte le mie fortune, e ti seguirò come il mio signo-re per il mondo intero. Balia: Madamigella! Giulietta: Arrivo subito… ma se le tue intenzione, tuttavia, non fossero belle, io ti supplico… Balia: Madamigella… Giulietta: Sono subito da te… cessa della tua corte, e lasciami sola con il mio dolore. Domani manderò qualcuno. Romeo: E così possa salvarsi l’anima mia! Giulietta: Mille volte buona notte! Romeo: Mala notte mille volte, invece, ora che la tua luce mi viene a mancare. L’amore corre verso l’amore con la gioia tipica degli scolaretti che fuggono dai loro libri, e all’incontro l’amore si separa da amore con la stessa delusione che hanno coloro che vanno a scuola. Giulietta: O Romeo, oh! Potessi avere la voce di un falconiere, per richiamare a me questo volatile! … Romeo: E’ l’anima mia che invoca il mio nome. Quale dolce suono argenteo non modula durante la notte la lingua degli amanti, soave musica all’orecchio che ascolta! Giulietta: Romeo! Romeo: Diletta? Giulietta: A che ora vuoi che, domattina, il mio messaggero venga a te? Romeo: Alle nove. Giulietta: Non ti farò aspettare. E’ come se fino ad allora debbano passare venti anni. Mi è passato di mente il motivo per cui ti ho richiamato. Romeo: Lascia che io rimanga fino a quando non saprai ricordarla. Giulietta: Ma io vorrei dimenticarla di nuovo, giacché tu resti, come mi sovvenga quanto ami la tua compagnia. Romeo: Ed io seguiterò a restare qui per costringerti a non ricordare più nulla. Giulietta: E’ quasi giorno. Vorrei che fossi già partito; ma allo stesso modo vorrei saperti non più lontano di quell’uccellino a cui una bimba capricciosa permette di saltellare un poco fuori dalla sua mano, come un povero prigioniero trattenuto dalle ritorte dita, e con un filo di seta lo riporta a sé con un piccolo strattone, tanta è la gelosia che mette nell’amare la sua libertà. Romeo: Vorrei essere io quell’uccellino! Giulietta: Anche io vorrei che tu lo fossi, diletto: eppure, per il troppo amarti, finirei con l’ucciderti. Buona notte, buona notte! Il separarsi è un dolore così dolce, che ti darei la buonanotte fino a domani mattina! Romeo: Che il suo elegga la sua dimora negli occhi tuoi, e scenda la pace nel tuo cuore! Ah, se potessi essere io il sonno e la pace per poter riposare tanto dolcemente!
  • il secondo periodo è caratterizzato dai drammi storici e da commedie. I primi hanno come riferimento la storia recente inglese Enrico IV, Enrico V, Riccardo II, Riccardo III, in cui vengono delineate forti personalità fuori da ogni schematismo ideologico. Ne è un esempio il Riccardo III la cui “malvagità” assume connotati oserei dire “metafisici”. Anche le commedie perdono la gaiezza della prima fase, pur perfette nella loro leggerezza espositiva: Molto rumore per nulla, Come vi piace. Tuttavia già da Misura per misura si nota la perdita di una certa armonia che aveva sotteso le commedie della fase precedente;

Riccardo III d'Inghilterra - Wikipedia

Riccardo III

Dal Riccardo III riportiamo l’incipit:

Now is the winter of our discontent
Made glorious summer by this sun of York;
And all the clouds that lour’d upon our house
In the deep bosom of the ocean buried.
Now are our brows bound with victorious wreaths;
Our bruised arms hung up for monuments;
Our stern alarums changed to merry meetings,
Our dreadful marches to delightful measures.
Grim-visaged war hath smooth’d his wrinkled front;
And now, instead of mounting barded steeds
To fright the souls of fearful adversaries,
He capers nimbly in a lady’s chamber
To the lascivious pleasing of a lute.
But I, that am not shaped for sportive tricks,
Nor made to court an amorous looking-glass;
I, that am rudely stamp’d, and want love’s majesty
To strut before a wanton ambling nymph;
I, that am curtail’d of this fair proportion,
Cheated of feature by dissembling nature,
Deformed, unfinish’d, sent before my time
Into this breathing world, scarce half made up,
And that so lamely and unfashionable
That dogs bark at me as I halt by them;
Why, I, in this weak piping time of peace,
Have no delight to pass away the time,
Unless to spy my shadow in the sun
And descant on mine own deformity:
And therefore, since I cannot prove a lover,
To entertain these fair well-spoken days,
I am determined to prove a villain
And hate the idle pleasures of these days.
Plots have I laid, inductions dangerous,
By drunken prophecies, libels and dreams,
To set my brother Clarence and the king
In deadly hate the one against the other:
And if King Edward be as true and just
As I am subtle, false and treacherous,
This day should Clarence closely be mew’d up,
About a prophecy, which says that ‘G’
Of Edward’s heirs the murderer shall be.
Dive, thoughts, down to my soul: here
Clarence comes.

Ora l’inverno del nostro scontento  e’ reso estate gloriosa da questo sole di York, e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano. Ora le nostre fonti sono cinte di ghirlande di vittoria, le nostre armi malconcie appese come trofei, le nostre aspre sortite mutati in lieti incontri, le nostre marce tremende in misure deliziose di danza. La guerra dal volto grifagno ha spianato la fronte corrugata, e ora, invece di montare destrieri corazzati per atterrire le anime di nemici impauriti, saltella agilmente nella camera di una signora al suono seducente di un liuto. ma io che non fui fatto per tali svaghi , né fatto per corteggiare uno specchio amoroso; io che sono di stampo rozzo e manco della maestà d’amore con la quale pavoneggiarmi davanti a una frivola ninfa ancheggiante, io sono privo di ogni bella proporzione, frodato nei lineamenti dalla natura ingannatrice, deforme, incompiuto, spedito prima del tempo in questo mondo che respira, finito a metà, e questa così storpia e brutta che i cani mi abbaiano quando zoppico accanto a loro, ebbene io, in questo fiacco e flautato tempo di pace, non ho altro piacere con cui passare il tempo se non quello di spiare la mia ombra nel sole e commentare la mia deformità. Perciò non potendo fare l’amante per occupare questi giorni belli ed eloquenti, sono deciso a dimostrarmi una canaglia e a odiare gli oziosi piaceri dei nostri tempi. Ho teso trappole, ho scritto prologhi infidi con profezie da ubriachi, libelli e sogni per spingere mio fratello Clarence e il re a odiarsi mortalmente; e se re Edoardo è giusto e onesto quanto io sono astuto falso e traditore, oggi Clarence dovrebbe essere imprigionato grazie a una profezia che dice che G. sarò l’assassino degli eredi di Edoardo. Tuffatevi pensieri intorno alla mia anima, ecco Clarence.

Richard III - Ian McKellen - Original Trailer by Film&Clips

Ian McKellen in una reinterpretazione cinematografica del Riccardo III  

  • la terza fase vede la nascita delle grandi tragedie shakesperiane Re Lear, Amleto, Macbeth, Otello. Questa fase è caratterizzata, a livello storico, da una certa disillusione storica: all’ottimismo e all’espansione di Elisabetta I subentra Giacomo I portando con sé l’incertezza per il futuro. Di tale incertezza sembrano farsi carico i protagonisti di queste tragedie, dove non vi è più una certezza cui appigliarsi, dove l’eroe, scandagliandosi con ferrea logica, mostra l’impossibilità della sua realizzazione, dove la libidine del potere fa entrare il protagonista in un ferreo meccanismo da cui non riesce ad uscire.

File:Pedro Américo - Visão de Hamlet.jpg - Wikipedia

Pedro Américo: Ritratto di Amleto (1893)

Dall’Amleto il celeberrimo To be or not to be:

To be, or not to be, that is the question:
Whether ‘tis nobler in the mind to suffer
The slings and arrows of outrageous fortune,
Or to take arms against a sea of troubles
And by opposing end them. To die – to sleep,
No more; and by a sleep to say we end
The heart-ache and the thousand natural shocks
That flesh is heir to: ‘tis a consummation
Devoutly to be wish’d. To die, to sleep;
To sleep, perchance to dream – ay, there’s the rub:
For in that sleep of death what dreams may come,
When we have shuffled off this mortal coil,
Must give us pause – there’s the respect
That makes calamity of so long life.
For who would bear the whips and scorns of time,
Th’oppressor’s wrong, the proud man’s contumely,
The pangs of dispriz’d love, the law’s delay,
The insolence of office, and the spurns
That patient merit of th’unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin? Who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscovere’d country, from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will,
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
Thus conscience does make cowards of us all,
And thus the native hue of resolution
Is sicklied o’er with the pale cast of thought,
And enterprises of great pitch and moment
With this regard their currents turn awry
And lose the name of action.

Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine? Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo, perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale deve farci riflettere. E’ questo lo scrupolo che dà alla sventura una vita così lunga. Perché chi sopporterebbe le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, la contumelia dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni, quando egli stesso potrebbe darsi quietanza con un semplice stiletto? Chi porterebbe fardelli, grugnendo e sudando sotto il peso di una vita faticosa, se non fosse che il terrore di qualcosa dopo la morte, il paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà e ci fa sopportare i mali che abbiamo piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti? Così la coscienza ci rende tutti codardi, e così il colore naturale della risolutezza è reso malsano dalla pallida cera del pensiero, e imprese di grande altezza e momento per questa ragione deviano dal loro corso e perdono il nome di azione.

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Ritratto di William Shakespeare

  • l’ultimo periodo vede il raggiungimento, da parte di Shakespeare, di una maggiore serenità, dettata dalla saggezza di chi è vissuto nella temperie della storia. Di questo è testimonianza La tempesta, probabilmente l’ultimo suo lavoro.

Dai passi riportati ci si rende conto che la produzione teatrale di Shakespeare travalica ogni schematismo culturale, ogni possibilità d’inquadramento all’interno di una qualsivoglia corrente letteraria. Egli incarna il suo periodo e, come Dante per il medioevo, lo trascende, parlando un linguaggio universale valido per tutti i tempi e per tutti i luoghi. Tuttavia, se il suo messaggio è universale, egli è figlio di un mondo culturale e così come Dante aveva utilizzato gli strumenti conoscitivi medievali per farli propri e quindi trasferirli su un piano universale, lo stesso farà l’autore inglese con quelli della fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento.

Se infatti sono presenti in lui autori classici come Plauto o Seneca, se sul piano formale, nella sua attività poetica, è ben avvertibile la presenza di Petrarca, se pesca a piene mani nella novellistica cinquecentesca italiana, si potrebbe a buon diritto definirlo autore rinascimentale. Ma se dovessimo invece sottolineare il rifiuto di ogni equilibrio classicistico; la creazione di personaggi che vanno al di là di ogni misura umana; la mescolanza di stili ora alti, ora bassi, ora artificiosi e letterari, ora comici o grotteschi; la presenza di una realtà il più delle volte indecifrabile ci troviamo appieno in presenza di temi che abbiamo visto toccare da tutti gli intellettuali fino ad adesso esaminati da Marino a Cervantes.

John Milton, biografia e opere: Paradiso perduto e Satan's Speech |  Studenti.it

John Milton

Il poema epico

Non si può chiudere il discorso sul ’600 inglese senza un accenno al Paradiso perduto di John Milton.

Egli parte da un consapevole “classicismo umanistico-rinascimentale” (studia Omero e Virgilio; Dante, Petrarca e Tasso), tuttavia la scelta sublime dell’argomento, il contrasto tra Bene e Male, l’opposizione a forti tinte tra concili infernali e armonie celesti, fanno sì che la sua scelta classicheggiante si mescoli con elementi fortemente barocchi.

Interessante è l’esito del poema miltoniano: classicamente egli mette al centro della lotta tra bene e male l’uomo. Ma la sua visione prometeica dell’uomo fa sì che, in modo del tutto involontario, ad uscire vincitore nel conflitto sia proprio Satana, il personaggio che incarna la volontà eroica di affermazione di sé e della sua capacità di violare il limite, l’eroe che accetta, impassibilmente e con coraggio, la sconfitta. Come vediamo in questo brano:

A HEAVEN OF HELL

“Is this the region, this the soil, the clime,”
Said then the lost archangel, “this the seat
That we must change for heav’n, this mournful gloom
For that celestial light? Be it so, since he
Who now is sovran can dispose and bid
What shall be right: furthest from him is best
Whom reason hath equalled, force hath made supreme
Above his equals. Farewell happy fields
Where joy for ever dwells: hail horrors, hail
Infernal world, and thou profoundest hell
Receive thy new possessor: one who brings
A mind not to be changed by place or time.
The mind is its own place, and in itself
Can make a heaven of hell, a hell of heaven.
What matter where, if I be still the same,
And what I should be, all but less than he
Whom thunder bath made greater? Here at least
We shall be free; the almighty hath not built
Here for his envy, will not drive us hence:
Here we may reign secure, and in my choice
To reign is worth ambition though in hell:
Better to reign in hell, than serve in heaven.
But wherefore let we then our faithful friends,
The associates and copartners of our loss
Lie thus astonished on the oblivious pool,
And call them not to share with us their part
In this unhappy mansion, or once more
With rallied arms to try what may be yet
Regained in heaven, or what more lost in hell?”

Città Futura on-line

Edizione del 1678

“E’ questa la regione. è questo il suolo e il clima,” disse allora l’Arcangelo perduto, “è questa sede che abbiamo guadagnato contro il cielo. Questo dolente buio contro la luce celestiale. Ebbene. sia pure così se ora colui che è sovrano può dire e decidere che cosa sia il giusto; e più lontani siamo da lui e meglio è, da lui che ci uguagliava per ragione e che la forza ha ormai reso supremo sopra i suoi uguali. Addio, campi felici, dove la gioia regna eternamente. E a voi salute, orrori, mondo infernale; e tu, profondissimo inferno, ricevi il nuovo possidente: uno che tempi o luoghi mai potranno mutare la sua mente. La mente è il proprio luogo, e può in sé fare un cielo dell’inferno, un inferno del cielo. Che cosa importa dove, se rimango me stesso; e che altro dovrei essere allora se non tutto, e inferiore soltanto a lui che il tuono ha reso il più potente? Qui almeno saremo liberi; poi-ché l’Altissimo non ha edificato questo luogo per poi dovercelo anche invidiare, non ne saremo cacciati: vi regneremo sicuri, e a mio giudizio regnare è una degna ambizione, an-che sopra l’inferno: meglio regnare all’inferno che servire in cielo. Quindi perché lasciare gli amici fedeli, gli alleati e i partecipi di questa nostra perdita, giacere così attoniti sul-l’acque immemoriali, e non chiamarli con noi a condividere la loro sorte in questa dimora infelice, o a tentare con noi nuovamente, riprese le armi, ciò che ancora può essere riconquistato in cielo, o ciò che ancora di più può essere perduto nell’inferno?”

Il barocco in Francia

La lirica

Il barocco in Francia è fortemente caratterizzato dagli avvenimenti storici che sconvolsero il paese a cavallo tra il Cinque e Seicento. Le lotte tra cattolici e protestanti, la conseguente guerra civile, il numero estremamente alto di vittime, avranno un’eco sulla poesia di Théodore Agrippa D’Aubigné, in cui il macabro, la morte, le violente passioni dominano.

Tuttavia esiste un altro aspetto del barocco francese che investe non soltanto la letteratura o l’arte in genere, ma penetra nel costume e nel modo di essere delle classi aristocratiche: è il cosiddetto preziosismo che si risolve in una forte ricercatezza formale nello scrivere e nel parlare, riflesso di una elegante società, fatta di giochi di società e di pubbliche letture.

Il teatro

Dalla salita al potere di Richelieu (1624) si opera in Francia un processo di normalizzazione, di epurazione di ogni atteggiamento centrifugo, dell’accentramento del potere nelle mani di un monarca assoluto (Luigi XIV). Ciò rendeva le istanze barocche, di per se stesse centrifughe, non adatte al nuovo clima culturale, che tornerà ad un bisogno di razionalità che solo il ritorno agli antichi, cioè al classico, poteva garantire.

Questo bisogno lo assolveranno tre grandi uomini di teatro: i tragediografi Corneille e Racine, ed il commediografo Molière.

Biografia Pierre Corneille, vita e storia

Ritratto di Pierre Corneille

Pierre Corneille: I temi fondanti delle sue tragedie sono: l’onore, il patriottismo, la generosità, la santità, temi ben rispondenti al processo normalizzatore di Richelieu, e a cui devono aggregarsi i cittadini dopo un periodo violento di passioni e di morte. Egli utilizza questi temi all’interno di tragedie classiche d’argomento romano in cui recupera le unità aristoteliche, e il cui stile, pur sublime, non abdica mai alla chiarezza espositiva che deve portare ad una “massima morale”.

Il primo dei suoi capolavori è certamente il Cid, d’ambientazione medievale (Corneille, in seguito, si dedicherà, come già detto a temi maggiormente classici) in cui si racconta lo scontro tra onore e amore, dove a prevalere è certamente il primo. Infatti don Rodrigo deve vendicare l’offesa fatta al padre dal genitore della donna amata. Ed è proprio il concetto d’onore ad averla vinta, condiviso fino in fondo anche dalla donna, che rinuncia a lui, pur di non vedere venir meno quei valori che la Francia di Richelieu a quel tempo propugnava (a cui in altre opere si aggiungerà quella del patriottismo). Quello detto risulta evidente nel brano che abbiamo scelto:

Rodrigo (il Cid) per vendicare l’onore offeso del padre uccide in duello Don Gomés, padre della sua promessa sposa Chimène. Seguendo ciò che loro impone l’onore familiare, i due fidanzati si separano, e Chimène chiede vendetta al re. Anche quando Rodrigo torna vittorioso da una battaglia contro i Mori, Chimène insiste nella sua richiesta, promettendo la sua mano a chi ucciderà il Cid. Si presenta a sfidare il Cid a duello Don Sanche, che viene battuto. Ma per un equivoco Chimène crede Rodrigo ucciso: disperata si lascia sfuggire un grido d’amore. Sarà il re a riunire gli orgogliosi innamorati, imponendo loro un anno di attesa prima delle nozze. 

ATTO III, SCENA 4

DON RODRIGUE
Eh bien! sans vous donner la peine de poursuivre,
Assurez-vous l’honneur de m’empêcher de vivre.

CHIMÈNE

Elvire, où sommes-nous, et qu’est-ce que je voi?
Rodrigue en ma maison! Rodrigue devant moi!

DON RODRIGUE
N’épargnez point mon sang; goûtez, sans résistance,
La douceur de ma perte et de votre vengeance.

CHIMÈNE
Hélas!

DON RODRIGUE
Écoute-moi

CHIMÈNE
Je me meurs.

DON RODRIGUE
Un moment.

CHIMÈNE
Va, laisse-moi mourir.

DON RODRIGUE
Quatre mots seulement;
Après, ne me réponds qu’avec cette épée.

CHIMÈNE
Quoi! du sang de mon père encor toute trempée!

DON RODRIGUE
Ma Chimène…

CHIMÈNE
Ôte-moi cet objet odieux
Qui reproche ton crime et ta vie à mes yeux.

DON RODRIGUE
Regarde-le plutôt pour exciter ta haine,
Pour accroître ta colère, et pour hâter ma peine.

CHIMÈNE
Il est teint de mon sang.

DON RODRIGUE
Plonge-le dans le mien,
Et fais-lui perdre ainsi la teinture du tien.

CHIMÈNE
Ah! quelle cruauté, qui tout en un jour tue
Le père par le fer, la fille par la vue!
Ôte-moi cet objet, je ne puis le souffrir:
Tu veux que je t’écoute, et tu me fais mourir!

DON RODRIGUE
Je fais ce que tu veux, mais sans quitter l’envie
De finir par tes mains ma déplorable vie;
Car enfin n’attends pas de mon affection
Un låche repentir d’une bonne action.
L’irréparable effet d’une chaleur trop prompte
Déshonorait mon père, et me couvrait de honte.
Tu sais comme un soufflet touche un homme de coeur.
J’avais part à l’affront, j’en ai cherché l’auteur:
Je l’ai vu, j’ai vengé mon honneur et mon père;
Je le ferais encor, si j’avais à le faire.
Ce n’est pas qu’en effet, contre mon père et moi,
Ma flamme assez longtemps n’ait combattu pour toi:
Juge de son pouvoir : dans une telle offense
J’ai pu délibérer si j’en prendrais vengeance.
Réduit à te déplaire, ou souffrir un affront,
J’ai pensé qu’à son tour mon bras était trop prompt,
Je me suis accusé de trop de violence ; 
Et ta beauté, sans doute, emportait la balance,
À moins que d’opposer à tes plus forts appas
Qu’un homme sans honneur ne te méritait pas;
Que malgré cette part que j’avais en ton âme,
Qui m’aima généreux me haïrait infâme;
Qu’écouter ton amour, obéir à ta voix,
C’était m’en rendre indigne et diffamer ton choix.
Je te le dis encore, et, quoique j’en soupire,
Jusqu’au dernier soupir je veux bien le redire:
Je t’ai fait une offense, et j’ai dû m’y porter
Pour effacer ma honte, et pour te mériter;
Mais, quitte envers l’honneur, et quitte envers mon père,
C’est maintenant à toi que je viens satisfaire:
C’est pour t’offrir mon sang qu’en ce lieu tu me vois.
Je fait ce que j’ai dû, je fais ce que je dois.
Je sais qu’un père mort t’arme contre mon crime;
Je ne t’ai pas voulu dérober ta victime:
Immole avec courage au sang qu’il a perdu
Celui qui met sa gloire à l’avoir répandu.

CHIMÈNE
Ah ! Rodrigue ! il est vrai, quoique ton ennemie,
Je ne puis te blâmer d’avoir fui l’infamie;
Et, de quelque façon qu’éclatent mes douleurs,
Je ne t’accuse point, je pleure mes malheurs.
Je sais ce que l’honneur, après un tel outrage,
Demandait à l’ardeur d’un généreux courage:
Tu n’as fait le devoir que d’un homme de bien;
Mais aussi, le faisant, tu m’as appris le mien.
Ta funeste valeur m’instruit par ta victoire;
Elle a vengé ton père et soutenu ta gloire:
Même soin me regarde, et j’ai, pour m’affliger,
Ma gloire à soutenir, et mon père à venger.
Hélas ! ton intérêt ici me désespère.
Si quelque autre malheur m’avait ravi mon père,
Mon âme aurait trouvé dans le bien de te voir
L’unique allégement qu’elle eût pu recevoir;
Et contre ma douleur j’aurais senti des charmes,
Quand une main si chère eût essuyé mes larmes,
Mais il me faut te perdre après l’avoir perdu;
Cet effort sur ma flamme à mon honneur est dû;
Et cet affreux devoir, dont l’ordre m’assassine,
Me force à travailler moi-même à ta ruine.
Car enfin n’attends pas de mon affection
De lâches sentiments pour ta punition.
De quoi qu’en ta faveur notre amour m’entretienne,
Ma générosité doit répondre à la tienne:
Tu t’es, en m’offensant, montré digne de moi;
Je me dois, par ta mort, montrer digne de toi.

DON RODRIGUE
Ne diffère donc plus ce que l’honneur t’ordonne:
Il demande ma tête, et je te l’abandonne;
Fais-en un sacrifice à ce noble intérêt,
Le coup m’en sera doux, aussi bien que l’arrêt.
Attendre après mon crime une lente justice,
C’est reculer ta gloire autant que mon supplice.
Je mourrai trop heureux mourant d’un coup si beau.

CHIMÈNE
Va, je suis ta partie, et non pas ton bourreau.
Si tu m’offres ta tête, est-ce à moi de la prendre?
Je la dois attaquer, mais tu dois la défendre;
C’est d’un autre que toi qu’il me faut l’obtenir,

Et je dois te poursuivre, et non pas te punir.

DON RODRIGUE
De quoi qu’en ma faveur notre amour t’entretienne,
Ta générosité doit répondre à la mienne;
Et pour venger un père emprunter d’autres bras,
Ma Chimène, crois-moi, c’est n’y répondre pas:
Ma main seule du mien a su venger l’offense,
Ta main seule du tien doit prendre la vengeance.

CHIMÈNE
Cruel ! à quel propos sur ce point t’obstiner?
Tu t’es vengé sans aide, et tu m’en veux donner!
Je suivrai ton exemple, et j’ai trop de courage
Pour souffrir qu’avec toi ma gloire se partage.
Mon père et mon honneur ne veulent rien devoir 
Aux traits de ton amour, ni de ton désespoir.

DON RODRIGUE
Rigoureux point d’honneur ! hélas ! quoi que je fasse,
Ne pourrai-je à la fin obtenir cette grâce?
Au nom d’un père mort, ou de notre amitié,
Punis-moi par vengeance, ou du moins par pitié.
Ton malheureux amant aura bien moins de peine
À mourir par ta main qu’à vivre avec ta haine.

CHIMÈNE
Va, je ne te hais point.

DON RODRIGUE
Tu le dois.

CHIMÈNE
Je ne puis

DON RODRIGUE
Crains-tu si peu le blâme, et si peu les faux bruits ?
Quand on saura mon crime, et que ta flamme dure,
Que ne publieront point l’envie et l’imposture!
Force-les au silence, et, sans plus discourir,
Sauve ta renommée en me faisant mourir.

CHIMÈNE
Elle éclate bien mieux en te laissant la vie;
Et je veux que la voix de la plus noire envie
Élève au ciel ma gloire et plaigne mes ennuis,
Sachant que je t’adore et que je te poursuis.
Va-t’en, ne montre plus à ma douleur extrême
Ce qu’il faut que je perde, encore que je l’aime.
Dans l’ombre de la nuit chace ben ton départ;
Si l’on te voit sortir, mon honneur court hasart.
Le seule occasion qu’aura la médisance,
c’est de savoir qu’ici j’ai soffert ta précence:
ne lui donne point lieu d’attaquer ma vertu.

DON RODRIGUE
Que je meure!

CHIMÈNE
Va-t’en.

DON RODRIGUE

A quoi te résous-tu?

CHIMÈNE
Malgré des feux si beaux, qui troublent ma colère,
Je ferai mon possible à bien venger mon père;
Mais malgré la rigueur d’un si cruel devoir,
Mon unique souhait est de ne rien pouvoir.

DON RODRIGUE

Ô miracle d’amour!

CHIMÈNE
Ô comble de misères!

DON RODRIGUE
Que de maux de pleurs nous coûteront nos pères!

CHIMÈNE
Rodrigue, qui l’eût cru?

DON RODRIGUE

Chiméne, qui l’eût dit?

CHIMÈNE
Que notre heur fût si proche, et sitôt se perdît?

DON RODRIGUE
Et que si près du port, contre tout le apparence
Un orange si prompt brisât notre esperànce?

CHIMÈNE
Ah! Mortelles douleurs!

DON RODRIGUE
Ah! Regrets superflus!

CHIMÈNE
Va.t’en, encore un coup, je ne t’écoute plus.

DON RODRIGUE
Adieu: je vais traîner une mourante vie,
Tant que par ta poursuite elle me soit ravie.

CHIMÈNE
Si j’en obtiens l’effet, je t’engage ma foi
De ne respirer pas un moment après toi.
Adieu: sors, et surtout garde bien qu’on te voie.

ELVIRE (gouvernante de Chimène)
Madame, quelques maux que le ciel nous envoie…

CHIMÈNE
Ne m’importune plus, laisse-moi soupirer,
Je cherche le silence et la nuit pour pleurer.

POËMES DRAMATIQUES de T. CORNEILLE - ...
 

Edizione del 1664

RODRIGO: Risparmiatevi dunque un ozioso  processo.  L’onor della mia morte, prendetevelo adesso. XIMENA: Elvira, dove siamo? Che vedo accanto a te? Rodrigo in casa mia! Lui qui, davanti a me! RODRIGO: Prendetevi il mio sangue. Non mi oppongo. Vi spetta. Il conforto  di uccidermi e di farvi vendetta. XIMENA: Ahimè! RODRIGO: Ti prego, ascoltami. XIMENA: Muoio! RODRIGO: Solo un momento. XIMENA: Va, lasciami morire. RODRIGO: Due parole, e acconsento che, poi, solo con questa spada tu mi risponda. XIMENA: Che? L’arma che del sangue di mio padre ancor gronda? RODRIGO: Mia Ximena! XIMENA: Nascondi questo orrore, che grida a me che lui è morto, e tu vivi, omicida. RODRIGO: Guardala bene, invece, per sentirti più piena d’odio e d’ira, e per darmi più presto la mia pena. XIMENA: E’ tinta del mio sangue! RODRIGO: Toglile quel colore, dalle quello del mio, piantandomela in cuore. XIMENA: Che crudeltà! In un giorno, prima il padre hai trafitto, ed ora me, mostrandomi  l’arma del tuo delitto. Nascondila ai miei occhi, mi fa troppo soffrire. Tu chiedi ch’io ti ascolti, e vuoi farmi morire? RODRIGO: Ti obbedisco. Ma questo bramo: che l’inumano mio destino si chiuda qui, ora, per tua mano. Non aspettarti, infatti, ch’ io faccia, per amore, vile ammenda di un giusto atto riparatore. Quel che accadde in un attimo, ahimè, d’ira fatale per l’onor di mio padre e mio era letale. Sai quanto un generoso da uno schiaffo sia leso. Ho cercato colui che anche me aveva offeso. L’ho trovato. Ho ridato a mio padre l’onoreE a me. Lo rifarei, se dovessi. L’amore,  Certo, abbastanza a lungo, ha prima combattuto per te, contro mio padre e me. Tanto hai potuto, benché l’offesa fosse enorme. Sono giunto a esitare se farne o no vendetta; al punto di chiedermi, dovendo o subire l’affronto o ferir te, se anch’io non fossi troppo pronto ad agire, accusandomi d’esser troppo violento io stesso. E avresti avuto tu, credo, il sopravvento se il dubbio non mi avesse costretto a ponderare che un uomo senza onore non ti può meritare. Che ho un posto nel tuo cuore, ma che tu lo hai donato a un generoso, e un vile lo avresti detestato. Che ascoltare il mio amore, e obbedirgli a tal segno sviliva la tua scelta, e mi rendeva indegno del tuo. Sì, lo ripeto, seppur con un sospiro, e lo griderò fino all’ultimo respiro: ti ho offesa, e quest’offesa io fui costretto a farti per lavar la mia onta e, sì, per meritarti. Ma all’onore ed al padre, ciò che dovevo ho dato. Ora con te il mio debito deve essere saldato. Son venuto ad offrirti il mio sangue. Sapevo cosa dovevo a loro, e so cosa ti devo. Tuo padre è morto, ed ora, per lui, devi colpire chi lo uccise. Il colpevole è qui, pronto a subire. Coraggio, immola al suo il sangue di chi a terra lo sparse, e se ne gloria. Finisci questa guerra. XIMENA: Ah, Rodrigo, è ben vero, ti combatto. Ma in cuore non posso biasimarti se hai difeso il tuo onore. Per quanto la mia accusa possa farsi aspra e dura, io non incolpo te, piango la mia sventura. So che cosa l’onore, dopo un simile oltraggio, imponeva all’ardore di un nobile coraggio. Tu hai fatto ciò che deve ogni uomo ben nato. Ma nel farlo, anche a me ciò che devo hai mostrato. Quel funesto valore ti ha dato una vittoria che vendica tuo padre, che salva la tua gloria, e insegna a me che anch’io a questo son costretta: a difender la gloria e il padre; a far vendetta. Ma sono disperata per te. Se altri eventi mi avessero privata di mio padre, i momenti di sollievo possibili, certo da te soltanto li avrei avuti, dalla gioia di averti accanto. E il pianto, meno amaro, certo, sarebbe stato se una mano a me cara me lo avesse asciugato. Ma devo perder te, dopo averlo perduto; Questo sforzo violento sul mio amore, è dovuto al mio onore: un tremendo dovere mi divide da te, vuole ch’io chieda la tua morte, e mi uccide. Non aspettarti, infatti, che, invocando rigore nel punirti, il mio affetto possa infiacchirmi il cuore. Se pur forte è la voce che in tua difesa sale nel mio petto, io nell’animo devo esserti uguale. L’offendermi, ti ha reso degno di me. La sorte vuol ch’io mi mostri degna di te con la tua morte. RODRIGO: Dunque, senza più indugi, dà all’onore il suo corso. La mia testa, io te l’offro. Fanne, senza rimorso, ciò che richiede questo tuo nobile progetto. Mi sarà dolce il colpo, come lo è il tuo verdetto. Attendere da un lento tribunale il giudizio è differir la gloria che cerchi, e il mio supplizio. Data da te, la morte per me sarà felice. XIMENA: Non sono il tuo carnefice, ma la tua accusatrice. Se mi offri la tua testa, spetta forse a me prenderla? Io la devo attaccare, ma tu devi difenderla. Spetta ad altri decidere per me della tua sorte: Io devo perseguirti, ma non darti la morte. RODRIGO: Se pur forte è la voce che in mia difesa sale nel tuo petto, tu devi d’animo essermi uguale. Se chiedi che altri vendichi per te il tuo genitore, credimi, mia Ximena, mostri meno valore. L’offesa di mio padre da me solo ho lavata. Da te sola la morte del tuo sia vendicata. XIMENA: Crudele! Perché insisti su questo? Tu hai saputo vendicarti da solo, e a me vuoi dare aiuto? Io seguirò il tuo esempio. Ne ho il coraggio, e non voglio che divider la gloria con te debba il mio orgoglio. Mio padre ed il mio onore non attendon ragione da te, né per amore né per disperazione. RODRIGO: Duro punto d’onore! Dunque non posso fare nulla che questa grazia da te possa impetrare? Per tuo padre o per quanto resta di una passione, colpisci! Per vendetta, fallo, o per compassione! Capisci che morire per tua mano è migliore sorte, per me, che vivere odiato dal mio amore? XIMENA: Io non ti odio, Rodrigo. RODRIGO: Ma tu devi. XIMENA: Non posso. RODRIGO: Ma non temi che il biasimo ti si scateni addosso? Sapendo ciò che ho fatto, e che il tuo amore dura, che cosa non diranno l’invidia e l’impostura? Costringile al silenzio, scaccia ogni esitazione, uccidimi, e fa salva la tua reputazione. XIMENA:  Ma lasciandoti in vita io aumento il suo splendore. Voglio che anche la voce dell’invidia peggiore debba esaltarmi, e insieme compiangermi, sapendo che ti adoro, e per te la morte sto chiedendo. Vattene, che i miei occhi non debban più guardare l’uomo che devo perdere, e non so non amare. Sii cauto, nell’uscire. Hai la notte a favore, ma bada! Se ti vedono, metti a rischio il mio onore. Questo appiglio soltanto può aver la maldicenza: saper che ho tollerato io, qui, la tua presenza. Fa che la mia virtù non venga denigrata. RODRIGO: Dammi la morte! XIMENA: Vattene. RODRIGO: Che vuoi fare, ostinata? XIMENA: Malgrado il grande amore che contrasta il mio sdegno, nel vendicar mio padre porrò tutto il mio impegno. Ma nel compiere in pieno questo duro dovere, ciò che spero è di chiedere, e di non ottenere. RODRIGO: Oh, prodigio d’amore! XIMENA: Oh, colmo di sventura! RODRIGO: Esser chi siamo, quale gloria! Quale jattura! XIMENA: Chi mai lo avrebbe detto? RODRIGO: Chi lo avrebbe creduto? XIMENA: Che a un passo dalla gioia, tutto avremmo perduto? RODRIGO: Che un turbine improvviso, a sì breve distanza dal porto, avrebbe infranto ogni nostra speranza? XIMENA: Ah, dolori mortali! RODRIGO: Ahimè, vani rimpianti! XIMENA: Basta! Va via, ti prego. Non perdere altri istanti. RODRIGO: Addio. Trascinerò questa languente vitaFino a che il re ti ascolti, e per me sia finita. XIMENA: Se otterrò ciò che chiedo, nello stesso momento, lo giuro, il mio respiro con il tuo sarà spento. Addio. Va. Abbi cura di non farti vedere. ELVIRA: Le afflizioni che il cielo su di noi fa cadere… XIMENA: Taci, lasciami sola. Ora voglio soltantoIl silenzio, e la notte, per sciogliere il mio pianto.

Il Cid (Corneille) - WikipediaRappresentazione de Le Cid del 1875

Jean Racine: poeta estremamente complesso, la cui grandezza sta tutta nel tormento morale che permea la sua giansenista religiosità. Anche lui parte da un recupero eroico della classicità, ma se in Corneille l’eroe vive sotto il segno plutarchiano della volontà, in Racine l’eroe si “diseorizza” e analizza il suo tormento, ne scandaglia le piaghe. Non è un caso che l’amore, non presente, se non in modo marginale, in Corneille, diventi tema dominante in Racine. Il suo capolavoro è la Fedra eroina classica già cantata da Euripide e da Seneca, che egli “cristianizza”, consapevole del suo orrendo peccato, ella invoca quella grazia che gli dei le negheranno, in quanto incapace di accettarla. Vediamo il punto più drammatico di questa tragedia:

Jean Racine: biografia e opere | Studenti.it

Jean Racine

Le fonti principali sono costituite dall’Ippolito di Euripide e dalla Fedra di Seneca, ma l’autore riporta a nuova e originalissima vita facendo della protagonista una vittima del fato “né completamente colpevole, né completamente innocente”. Seconda moglie di Teseo, scomparso durante un viaggio, Fedra è consumata da un male misterioso che finisce per confessare alla nutrice Enone: ama il figliastro Ippolito. Viene intanto annunciata la morte di Teseo. Convinta che il suo amore non sia ormai più colpevole, Fedra svela la propria passione a Ippolito, suscitando l’indignazione del giovane. Ma Teseo torna incolume. Per salvare Fedra, Enone accusa di incestuoso amore Ippolito che viene cacciato dal padre. Fedra, sconvolta dal rimorso, vorrebbe confessare a Teseo la verità, ma la notizia che Ippolito ama, riamato, la principessa Aricia, suscita in lei una violenta crisi di gelosia. Aricia lascia nel frattempo intendere a Teseo che Ippolito è innocente. Turbato il re apprende poi che Enone si è uccisa buttandosi in mare e che Fedra vuole morire. Supplica Nettuno di non tener conto della maledizione invocata contro il figlio, ma è troppo tardi. Si viene infatti a sapere che, atterriti da un mostro marino, i cavalli di Ippolito si sono imbizzarriti e hanno causato la sua morte. Fedra confessa la verità e si uccide.

OENONE
Madame, au nom des pleurs que pour vous j’ai versés,
Par vos faibles genoux que je tiens embrassés,
Délivrez mon esprit de ce funeste doute.

PHÈDRE
Tu le veux. Lève-toi.

OENONE
Parlez: je vous écoute.

PHÈDRE
Ciel! que vais-je lui dire? Et par où commencer?

OENONE
Par de vaines frayeurs cessez de m’offenser.

PHÈDRE
O haine de Vénus! O fatale colère!
Dans quels égarements l’amour jeta ma mère!

OENONE
Oublions-les, Madame. Et qu’à tout l’avenir
Un silence éternel cache ce souvenir.

PHÈDRE
Ariane, ma soeur! de quel amour blessée,
Vous mourûtes aux bords où vous fûtes laissée!

OENONE
Que faites-vous, Madame6? Et quel mortel ennui
Contre tout votre sang vous anime aujourd’hui?

PHÈDRE
Puisque Vénus le veut, de ce sang déplorable
Je péris la dernière, et la plus misérable.

OENONE
Aimez-vous?

PHÈDRE
De l’amour j’ai toutes les fureurs.

OENONE
Pour qui?

PHÈDRE
Tu vas ouïr le comble des horreurs.
J’aime… A ce nom fatal, je tremble, je frissonne.
J’aime…

OENONE
Qui?

PHÈDRE
Tu connais ce fils de l’Amazone,
Ce prince si longtemps par moi-même opprimé?

OENONE
Hippolyte! Grands Dieux!

PHÈDRE
C’est toi qui l’as nommé.

OENONE
Juste ciel! tout mon sang dans mes veines se glace.
O désespoir! ô crime! ô déplorable race!
Voyage infortuné! Rivage malheureux,
Fallait-il approcher de tes bords dangereux?

PHÈDRE
Mon mal vient de plus loin. A peine au fils d’Egée
Sous les lois de l’hymen je m’étais engagée,
Mon repos, mon bonheur semblait s’être affermi,
Athènes me montra mon superbe ennemi.
Je le vis, je rougis, je pâlis à sa vue;
Un trouble s’éleva dans mon âme éperdue;
Mes yeux ne voyaient plus, je ne pouvais parler;
Je sentis tout mon corps et transir et brûler.
Je reconnus Vénus et ses feux redoutables,
D’un sang qu’elle poursuit tourments inévitables.
Par des voeux assidus je crus les détourner:
Je lui bâtis un temple, et pris soin de l’orner;
De victimes moi-même à toute heure entourée,
Je cherchais dans leurs flancs ma raison égarée,
D’un incurable amour remèdes impuissants!
En vain sur les autels ma main brûlait l’encens:
Quand ma bouche implorait le nom de la Déesse,
J’adorais Hippolyte; et le voyant sans cesse,
Même au pied des autels que je faisais fumer,
J’offrais tout à ce Dieu que je n’osais nommer.
Je l’évitais partout. O comble de misère!
Mes yeux le retrouvaient dans les traits de son père.
Contre moi-même enfin j’osai me révolter:
J’excitai mon courage à le persécuter.
Pour bannir l’ennemi dont j’étais idolâtre,
J’affectai les chagrins d’une injuste marâtre;
Je pressai son exil, et mes cris éternels
L’arrachèrent du sein et des bras paternels.
Je respirais Oenone, et depuis son absence,
Mes jours moins agités coulaient dans l’innocence.
Soumise à mon époux, et cachant mes ennuis,
De son fatal hymen je cultivais les fruits.
Vaine précautions! Cruelle destinée!
Par mon époux lui-même à Trézène amenée,
J’ai revu l’ennemi que j’avais éloigné:
Ma blessure trop vive a aussitôt saigné,
Ce n’est plus une ardeur dans mes veines cachée:
C’est Vénus tout entière à sa proie attachée.
J’ai conçu pour mon crime une juste terreur;
J’ai pris la vie en haine, et ma flamme en horreur.
Je voulais en mourant prendre soin de ma gloire;,
Et dérober au jour une flamme si noire:
Je n’ai pu soutenir tes larmes, tes combats;
Je t’ai tout avoué; je ne m’en repens pas,
Pourvu que de ma mort respectant les approches,
Tu ne m’affliges plus par d’injustes reproches,
Et que tes vains secours cessent de rappeler
Un reste de chaleur tout prêt à s’exhaler.

ENONE: In nome delle lacrime che ho per voi versate, per le deboli ginocchia che tengo abbracciate, fate che un dubbio atroce da voi mi venga tolto. FEDRA: Tu lo vuoi? Alzati! ENONE: Parlate: ascolto. FEDRA: Cielo! da dove comincio? che sto per dire?ENONE: Cessate, con vani timori, di farmi soffrire. FEDRA: Oh odio di Venere! Oh fatal livore! In quali eccessi finì mia madre per amore! ENONE: Dimentichiamoli, signora, e l’avvenire d’eterno silenzio ne copra il sovvenire. FEDRA: Arianna, sorella, dall’amore lacerata sulle sponde moristi dove fosti abbandonata. ENONE: Che fate, signora? E quale mortale tedio il sangue vostro ha preso ora d’assedio? FEDRA: Venere lo vuole: di quel sangue deplorevole muoio per ultima, io, la più miserevole. ENONE: Siete innamorata?FEDRA: Dell’amore ho tutti i furori. ENONE: Per chi? FEDRA: Stai per udire il culmine degli orrori… Amo… Rabbrividisco a quel nome fatale. ENONE: Chi? FEDRA: Quel che dall’Amazzone, lo sai, ebbe il natale, quel principe lungamente da me perseguitato. ENONE: Ippolito? FEDRA: Tu l’hai nominato! ENONE: Cielo! Il mio sangue s’è nelle vene gelato! Disperazione! colpa! retaggio dannato! Sfortunato viaggio! Sponde dolorose, doveva avvicinarsi alle tue rive insidiose! FEDRA: Da lontano viene il mio male. Quando fui fidanzata e al figlio d’Egeo fui dalle leggi d’Imene legata, la calma e la gioia sembravano divenute certezza; Atene del mio superbo nemico mi mostrò la fierezza: lo vidi, arrossii, sbiancai per averlo veduto: un turbamento scosse il mio cuore sperduto; i miei occhi non vedevano, non potevo parlare; sentivo il mio corpo raggelarsi e bruciare; riconobbi Venere e il suo fuoco mortale, del sangue che perseguita tormento fatale. Con assidue promesse mi lusingai di sviarlo: le eressi un altare e mi curai d’adornarlo; io stessa di vittime continuamente cinta, nei loro fianchi cercavo la mia ragione vinta: rimedi impotenti per un amore insano! Inutile incenso bruciò la mia mano: se la mia bocca implorava il nome divino adoravo Ippolito, lo vedevo vicino. Ai piedi di quell’ara che facevo fumare, offrivo tutto a quel dio che non osavo invocare. Col-mo della sventura! sempre l’evitavo ma nel paterno aspetto il suo volto trovavo. Contro me stessa, infine io mi rivoltai: incitando il mio cuore lo perseguitai. Per bandire il nemico che idolatravo sentimenti d’ingiusta matrigna ostentavo; sollecitai il suo esilio; e le mie grida eterne lo strapparono al seno e alle braccia paterne. Respiravo, Enone; mentre lui era assente giorni più calmi passavo innocente; sottomessa al mio sposo celavo le mie pene i frutti coltivando del suo fatale imene. Vane precauzioni! Ah crudele destino! Dal mio stesso sposo fui condotta a Trezene; rividi il nemico che avevo allontanato: la mia ferita di nuovo ha sanguinato. Non è più ardore nascosto nelle vene: è Venere, intera, che la sua preda tiene. Sentii per il mio crimine un giusto terrore: la vita presi in odio, la mia fiamma in orrore; morendo volevo del mio onore aver cura e sottrarre alla luce quella fiamma oscura: non sopportai le tue lacrime, il tuo accanimento. Ti ho confessato tutto; ora non me ne pento purché tu, rispettando la morte mia che viene, con ingiusti rimproveri non mi dia altre pene, purché tu cessi infine di rinvigorire un resto di calore che sta per svanire.

File:Phèdre et Hippolyte par Pierre-Narcisse Guérin, 1802 - Musée du  Louvre.jpg - WikipediaPierre-Narcisse Guérin: Fedra e Ippolito (1815)

Molièreanch’egli recupera, alla luce di una “normalizzazione” razionale della società, la grande lezione dei classici (si pensi a L’Avaro modellato sull’Aulularia di Plauto). Osservatore della società egli ne mette “razionalmente” in ridicolo gli atteggiamenti, i vizi, i falsi perbenismi che permeano il modus vivendi dell’aristocrazia, attraverso una critica che, utilizzando il comico, lo metteva in ridicolo. Amato dal monarca, che vedeva in lui un “moralizzatore”, veniva utilizzato dallo stesso in funzione antinobiliare (di cui critica la cultura barocca ne Le preziose ridicole) e antigesuitica. I suoi capolavori sono il Tartufo ed il Misantropo dove il riso si fa amaro per l’analisi spietata che conduce, nel primo, contro l’arrivismo travestito da falsa devozione e, nel secondo, l’amara solitudine in cui è costretto chi non si piega agli accomodamenti sociali e richiesto di un giudizio dice sempre la verità.

Molière il Commediante: nasce il drammaturgo francese - Periodico DailyNicolas Mignard: Moliére (1658)

Tartufo, un falso devoto, ha saputo così bene entrare nelle grazie di Orgon e di sua madre Madame Pernelle, che spadroneggia nella casa del suo benefattore. Sordo alle richieste della moglie Elmire e degli altri membri della famiglia che vedono l’ipocrisia di Tartufo, Orgon lo stima anzi degno di sposare sua figlia. Non esita a cacciare di casa il figlio Damis quando questi gli rivela che Tartufo ha cercato di sedurre Elmire, facendo poi donazione al supposto sant’uomo di tutti i suoi averi. Infine Elmire convince suo marito a nascondersi sotto una tavola, mentre lei fingerà di corrispondere alla passione di Tartufo. Orgon scopre così la lussuria, l’ingratitudine e l’ipocrisia del suo protetto. Vistosi scoperto, l’impostore vuole utilizzare la donazione per impadronirsi dei beni di Orgon ma, riconosciuto dalla polizia che lo cercava da tempo, viene arrestato.

TARTUFFE (apercevant Dorine)
Laurent, serrez ma haire, avec ma discipline,
Et priez que toujours le Ciel vous illumine.
Si l’on vient pour me voir, je vais aux prisonniers,
Des aumônes que j’ai, partager les deniers.

DORINE
Que d’affectation, et de forfanterie!

TARTUFFE
Que voulez-vous?

DORINE
Vous dire…

TARTUFFE (Il tire un mouchoir de sa poche)
Ah! mon Dieu, je vous prie,
Avant que de parler, prenez-moi ce mouchoir.

DORINE
Comment?

TARTUFFE
Couvrez ce sein, que je ne saurais voir.
Par de pareils objets les âmes sont blessées,
Et cela fait venir de coupables pensées.

DORINE
Vous êtes donc bien tendre à la tentation;
Et la chair, sur vos sens, fait grande impression?
Certes, je ne sais pas quelle chaleur vous monte:
Mais à convoiter, moi, je ne suis pas si prompte;
Et je vous verrais nu du haut jusques en bas,
Que toute votre peau ne me tenterait pas.

TARTUFFE
Mettez dans vos discours un peu de modestie,
Ou je vais, sur-le-champ, vous quitter la partie.

DORINE
Non, non, c’est moi qui vais vous laisser en repos,
Et je n’ai seulement qu’à vous dire deux mots.
Madame va venir dans cette salle basse,
Et d’un mot d’entretien vous demande la grâce.

TARTUFFE

Hélas! très volontiers.

DORINE (en soi-même)
Comme il se radoucit!
Ma foi, je suis toujours pour ce que j’en ai dit.

TARTUFFE
Viendra-t-elle bientôt?

DORINE
Je l’entends, ce me semble.
Oui, c’est elle en personne, et je vous laisse ensemble.

TARTUFFE
Que le Ciel à jamais, par sa toute bonté,
Et de l’âme, et du corps, vous donne la santé;
Et bénisse vos jours autant que le désire
Le plus humble de ceux que son amour inspire.

ELMIRE
Je suis fort obligée à ce souhait pieux:
Mais prenons une chaise, afin d’être un peu mieux.

TARTUFFE
Comment, de votre mal, vous sentez-vous remise?

ELMIRE
Fort bien; et cette fièvre a bientôt quitté prise.

TARTUFFE
Mes prières n’ont pas le mérite qu’il faut
Pour avoir attiré cette grâce d’en haut:
Mais je n’ai fait au Ciel nulle dévote instance
Qui n’ait eu pour objet votre convalescence.

ELMIRE
Votre zèle pour moi s’est trop inquiété.

TARTUFFE
On ne peut trop chérir votre chère santé ;
Et pour la rétablir, j’aurais donné la mienne.

ELMIRE
C’est pousser bien avant la charité chrétienne;
Et je vous dois beaucoup, pour toutes ces bontés.

TARTUFFE
Je fais bien moins pour vous, que vous ne méritez.

ELMIRE
J’ai voulu vous parler en secret, d’une affaire,
Et suis bien aise, ici qu’aucun ne nous éclaire83.

TARTUFFE
J’en suis ravi de même ; et sans doute84 il m’est doux,
Madame, de me voir, seul à seul, avec vous.
C’est une occasion qu’au Ciel j’ai demandée,
Sans que, jusqu’à cette heure, il me l’ait accordée.

ELMIRE
Pour moi, ce que je veux, c’est un mot d’entretien,
Où tout votre cœur s’ouvre, et ne me cache rien.

TARTUFFE
Et je ne veux aussi, pour grâce singulière,
Que montrer à vos yeux mon âme tout entière;
Et vous faire serment, que les bruits que j’ai faits85,
Des visites qu’ici reçoivent vos attraits,
Ne sont pas, envers vous, l’effet d’aucune haine,
Mais plutôt d’un transport de zèle qui m’entraîne,
Et d’un pur mouvement…

ELMIRE
Je le prends bien aussi,
Et crois que mon salut vous donne ce souci.

TARTUFFE (Il lui serre les bouts des doigts)
Oui, Madame, sans doute; et ma ferveur est telle…

ELMIRE
Ouf, vous me serrez trop.

TARTUFFE
C’est par excès de zèle.
De vous faire autre mal, je n’eus jamais dessein,
Et j’aurais bien plutôt…
(Il lui met la main sur le genou.)

ELMIRE
Que fait là votre main?

TARTUFFE
Je tâte votre habit, l’étoffe en est moelleuse.

ELMIRE
Ah! de grâce, laissez, je suis fort chatouilleuse.
(Elle recule sa chaise, et Tartuffe rapproche la sienne.)

TARTUFFE
Mon Dieu, que de ce point l’ouvrage est merveilleux!
On travaille aujourd’hui, d’un air miraculeux;
Jamais, en toute chose, on n’a vu si bien faire.

ELMIRE
Il est vrai. Mais parlons un peu de notre affaire.
On tient que mon mari veut dégager sa foi,
Et vous donner sa fille; est-il vrai, dites-moi?

TARTUFFE
Il m’en a dit deux mots: mais, Madame, à vrai dire,
Ce n’est pas le bonheur après quoi je soupire;
Et je vois autre part les merveilleux attraits
De la félicité qui fait tous mes souhaits.

ELMIRE
C’est que vous n’aimez rien des choses de la terre.

TARTUFFE
Mon sein n’enferme pas un cœur qui soit de pierre.

ELMIRE
Pour moi, je crois qu’au Ciel tendent tous vos soupirs,
Et que rien, ici-bas, n’arrête vos désirs.

TARTUFFE
L’amour qui nous attache aux beautés éternelles,
N’étouffe pas en nous l’amour des temporelles.
Nos sens facilement peuvent être charmés
Des ouvrages parfaits que le Ciel a formés.
Ses attraits réfléchis brillent dans vos pareilles:
Mais il étale en vous ses plus rares merveilles.
Il a sur votre face épanché des beautés,
Dont les yeux sont surpris, et les cœurs transportés;
Et je n’ai pu vous voir, parfaite créature,
Sans admirer en vous l’auteur de la nature,
Et d’une ardente amour sentir mon cœur atteint,
Au plus beau des portraits où lui-même il s’est peint.
D’abord j’appréhendai que cette ardeur secrète
Ne fût du noir esprit une surprise adroite;
Et même à fuir vos yeux, mon cœur se résolut,
Vous croyant un obstacle à faire mon salut.
Mais enfin je connus, ô beauté toute aimable,
Que cette passion peut n’être point coupable;
Que je puis l’ajuster avecque la pudeur,
Et c’est ce qui m’y fait abandonner mon cœur.
Ce m’est, je le confesse, une audace bien grande,
Que d’oser, de ce cœur, vous adresser l’offrande;
Mais j’attends, en mes vœux, tout de votre bonté,
Et rien des vains efforts de mon infirmité.
En vous est mon espoir, mon bien, ma quiétude:
De vous dépend ma peine, ou ma béatitude;
Et je vais être enfin, par votre seul arrêt,
Heureux, si vous voulez; malheureux, s’il vous plaît.

ELMIRE
La déclaration est tout à fait galante:
Mais elle est, à vrai dire, un peu bien surprenante.
Vous deviez, ce me semble, armer mieux votre sein,
Et raisonner un peu sur un pareil dessein.
Un dévot comme vous, et que partout on nomme…

TARTUFFE
Ah! pour être dévot, je n’en suis pas moins homme;
Et lorsqu’on vient à voir vos célestes appas,
Un cœur se laisse prendre, et ne raisonne pas.
Je sais qu’un tel discours de moi paraît étrange;
Mais, Madame, après tout, je ne suis pas un ange;
Et si vous condamnez l’aveu que je vous fais,
Vous devez vous en prendre à vos charmants attraits.
Dès que j’en vis briller la splendeur plus qu’humaine,
De mon intérieur vous fûtes souveraine.
De vos regards divins, l’ineffable douceur,
Força la résistance où s’obstinait mon cœur;
Elle surmonta tout, jeûnes, prières, larmes,
Et tourna tous mes vœux du côté de vos charmes.
Mes yeux, et mes soupirs, vous l’ont dit mille fois;
Et pour mieux m’expliquer, j’emploie ici la voix.
Que si vous contemplez, d’une âme un peu bénigne,
Les tribulations de votre esclave indigne;
S’il faut que vos bontés veuillent me consoler,
Et jusqu’à mon néant daignent se ravaler,
J’aurai toujours pour vous, ô suave merveille,
Une dévotion à nulle autre pareille.
Votre honneur, avec moi, ne court point de hasard;
Et n’a nulle disgrâce à craindre de ma part.
Tous ces galants de cour, dont les femmes sont folles,
Sont bruyants dans leurs faits, et vains dans leurs paroles.

De leurs progrès sans cesse on les voit se targuer;
Ils n’ont point de faveurs, qu’ils n’aillent divulguer;
Et leur langue indiscrète, en qui l’on se confie,
Déshonore l’autel où leur cœur sacrifie:
Mais les gens comme nous, brûlent d’un feu discret,
Avec qui pour toujours on est sûr du secret.
Le soin que nous prenons de notre renommée,
Répond de toute chose à la personne aimée;
Et c’est en nous qu’on trouve, acceptant notre cœur,
De l’amour sans scandale, et du plaisir sans peur.

Jean Auguste Dominique Ingres Luigi XIV a cena con da molière, 1837, 69×59  cm: Descrizione dell'opera | Arthive

Jean-Leon Gerome: XIV invita Molière per condividere la sua cena (1862) 

TARTUFO: (scorgendo Dorina si mette a parlare ad alta voce al suo servo che è di là) Lorenzo, riponete il cilicio e la disciplina e pregate il Cielo che v’illumini. Se viene qualcuno a cercarmi, io vado a visitare i carcerati, a distribuire le elemosine che ho raccolto. DORINA: (tra sé) Che affettazione! Che furfanteria! TARTUFO: Cosa desiderate?DORINA: Volevo dirvi… TARTUFO (tira fuori un fazzoletto) Oh Dio! vi prego, non parlate ancora, prendete questo fazzoletto. DORINA: Perché? TARTUFO: Copritevi il seno, ch’io non lo veda. Siffatti spettacoli offendono le anime e ispirano cattivi pensieri. DORINA: Allora siete facile alle tentazioni, la carne impressiona troppo i vostri sensi! Davvero non sapevo che vi venissero i calori. Per me, non sono così pronta a certe bramosie, e potrei vedervi nudo da capo a piedi: tutta la vostra pelle non riuscirebbe a tentarmi. TARTUFO: Abbiate un po’ di modestia quando parlate, altrimenti non mi resta che lasciarvi ai casi vostri. DORINA: No, no, sarò io a lasciarvi in pace. Ho solo due parole da dirvi. La signora scenderà qui a momenti, e vi chiede la cortesia di un breve colloquio. TARTUFO: Oh, molto volentieri. DORINA (tra sé) Come diventa dolce! Per me l’ho sempre detto e ci credo. TARTUFO: E verrà subito? DORINA: E’ lei, mi sembra. Sì, proprio lei. Vi lascio soli. TARTUFO: Sempre sia lodato il Cielo, per la sua infinita bontà, e possa sempre donarvi la salute del-l’anima e del corpo, e coprire di benedizione i vostri giorni, conforme al desiderio del più umile dei cuori ispirati dall’amor divino. ELMIRA: Vi sono obbligatissima per queste sante parole di augurio. Non vogliamo sederci, per stare più comodi? TARTUFO: (seduto) Vi siete dunque rimessa? ELMIRA: (seduta) Completamente guarita. La febbre ormai è scomparsa. TARTUFO: Le mie modeste preghiere non hanno il merito che occorre per poter dire d’aver ottenuto per voi la grazia celeste. Ma in tutte le mie suppliche c’era un pensiero per la vostra convalescenza. ELMIRA: Troppa pena s’è data per me la vostra devozione. TARTUFO: Mai abbastanza per la salute che più d’ogni altra mi è cara, e a tal segno, che avrei sacrificato volentieri la mia. ELMIRA: Tanta carità cristiana è veramente sublime: vi sono obbligatissima per la vostra bontà. TARTUFO: Faccio poco, molto meno di quanto non meritiate. ELMIRA: Volevo parlarvi in segreto, e sono tranquilla, perché qui nessuno ci ascolta. TARTUFO: Ne sono felice anch’io. E’ davvero una cosa dolcissima, signora, trovarmi qui da solo a sola, con voi. E’ un’occasione che ho invocato più volte dal Cielo, e sol ora mi è finalmente concessa. ELMIRA: Io per me non desidero che poche parole ma sincere, col cuore: non dovete nascondermi nulla. (Damide, senza farsi vedere, schiude lo sportello della credenza in cui s’è nascosto, per ascoltare il colloquio). TARTUFO: Anch’io desidero, grazie a Dio, di rivelarvi tutto il mio cuore. Il chiasso che ho fatto per visite che qui rendono omaggio alla vostra bellezza, vi giuro che non è stato mica per un risentimento contro di voi. Voglio dire che sono stato preso da un impeto di zelo, un moto sincerissimo… ELMIRA: Appunto, l’avevo capito che era così e credo che se vi date tanta pena è per la mia salvezza. TARTUFO (stringe la punta delle dita di Elmira) Certo, signora, certo, e mi sento così infervorato… ELMIRA: Oh, mi stringete troppo. TARTUFO: Eccesso di zelo, scusatemi, non pensavo minimamente di farvi male. Preferisco piuttosto… (Le mette la mano sulle ginocchia). ELMIRA: E questa mano che c’entra? TARTUFO: Palpavo il vestito, signora, che stoffa! ELMIRA: Oh, vi prego, lasciate: soffro tanto il solletico. (Elmira si ritrae con la sedia; Tartufo si fa più avanti). TARTUFO: (palpa lo scialle di Elmira) Oh Dio, che bello questo lavoro, che ricamo! Oggigiorno si è arrivati a dei veri miracoli. Cose mai viste, dico, in tutti i generi. ELMIRA: E’ vero. Ma torniamo al nostro discorso. Corre voce che mio marito voglia venir meno ai suoi impegni e darvi in isposa la figlia. E’ proprio vero? TARTUFO: Sì, mi ha detto qualcosa, ma, signora, se volete sapere la verità, non è questa la meta della mia beatitudine. Altrove, altrove io vedo l’incanto meraviglioso di quella felicità che desidero e spero. ELMIRA: Certo, voi non amate nessuna cosa di questa terra. TARTUFO: Oh, nel mio petto non c’è un cuore di sasso. ELMIRA: E invece io sono sicura che ogni vostra aspirazione è rivolta al Cielo e non si abbassa a desiderare nulla, quaggiù. TARTUFO: L’amore dell’eterna bellezza non può soffocare in noi gli amori terreni. Ai nostri sensi è così facile subire il fascino delle meravigliose creazioni di Dio. Il raggio divino si riflette negli esseri come voi, ma in voi sola risplende in tutta la sua rara magnificenza. Sul vostro volto ha profuso bellezze che abbagliano la vista, inebriano i cuori. E io non posso guardarvi, o creatura di perfezione, senza riconoscere in voi l’Autore dell’Universo, senza sentire il petto infiammato d’amore di fronte al più bel ritratto che Egli abbia mai dipinto a sua immagine e somiglianza. Dapprima ebbi timore che questo fuoco secreto fosse un astuto inganno del Maligno, e decisi perfino che dovevo fuggire il vostro sguardo. Vedevo in voi l’ostacolo vivente della mia salvazione. Ma poi compresi, finalmente, o adorabile bellezza! che in questa passione mia non può esserci ombra di colpa, che non c’è contraddizione con la mia purezza, e per questo sento che il mio cuore si può confidare. Sono stato troppo audace, lo ammetto, osando farvi offerta del mio cuore. Ma nelle mie preghiere ho rimesso tutto alla vostra bontà, e non mi aspetto nulla dalle mie povere forze. Siete voi la mia speranza, il mio bene, la mia pace, da voi attendo la dannazione o la beatitudine. Eccomi al vostro giudizio, signora: felice, se volete, o infelice, se a voi così piacerà. ELMIRA: Dichiarazione degna d’un perfetto corteggiatore. Ma a dirvi il vero, mi sorprende alquanto. Mi pare che dovreste armare meglio il vostro petto contro certi pensieri. Rifletteteci un po’: un sant’uomo come voi, col nome che vi siete fatto… TARTUFO: Sono un uomo di Chiesa, ma son sempre un uomo. E al cospetto delle vostre celestiali bellezze l’anima è conquistata e non ragiona più. Lo so, un discorso come questo, fatto da me, può sembrarvi strano. Ma, in fin dei conti, signora, io non sono un angelo; e se volete condannare la confessione che vi ho fatto, dovreste incolpare un po’ anche il fascino della vostra persona. Da quando vidi splendere questa luce più che umana, voi diventaste la regina dell’anima mia. L’ineffabile dolcezza del vostro sguardo divino superò l’ostinata resistenza del cuore. Fu più forte di tutto, preghiere, lacrime, digiuni: tutti i miei desideri si rivolsero a voi. E non ve l’hanno forse già detto mille volte i miei sguardi, i miei sospiri? Ora sono stato più esplicito, e vi ho parlato. Ah, se voi voleste considerare con un po’ di benevolenza le tribolazioni del vostro indegno servo, se voi foste così pietosa da consolar-mi un poco, se vi degnaste di scendere sino a me che son nulla, oh, in eterno io sentirei per voi, o creatura ineffabile, il culto sconfinato della mia devozione. La vostra virtù, accanto a me, non corre alcun rischio, non ha da temere disavventure da parte mia. Questi damerini di corte di cui s’invaghiscono le femmine agiscono senza discrezione e poi sono vanitosi, parolai, non fanno che menar vanto delle loro conquiste. Ogni minimo favore lo spiattellano a tutti. Non sanno tenere la bocca chiusa, e guai a fidarsi di questa gente che disonora l’altare dell’anima. Le persone come noi no: covano la fiamma in segreto e si può avere fiducia illimitata. L’amore per la nostra reputazione è una garanzia assoluta per la persona amata che solo in noi, se accetta la nostra offerta, può trovare l’amore senza lo scandalo e il piacere senza il timore.

BAROCCO ITALIANO


600.jpg
Cartina dell’Italia del ‘600

IL ’600 IN ITALIA

Il “barocco” si può definire come qualcosa che è ciò che non è, per meglio dire il “barocco” non è tutto ciò che prima costituiva un fatto artistico. Sua caratteristica, infatti, è il rifiuto del “classicismo”, quindi il rifiuto di come l’arte si era sviluppata sin dalle origini o sotto forma di stile “classico” o di contenuti ritenuti tali. Non per niente una delle caratteristiche di questo periodo è la “polemica tra antichi e moderni”, sottolineando la superiorità dei secondi di contro alla tradizionale superiorità dei primi.

Il suo nome deriva, secondo alcuni, da una perla irregolare, non sferica; secondo altri da un procedimento della scolastica che dava vita ad un “falso sillogismo”: proprio dal significato del nome, è evidente, infatti, che ciò che caratterizza il “barocco” è l’irregolarità (come la pietra) o lo stupore (come il falso sillogismo).

Collana di perle barocche coltivate in acqua dolce con chiusura in oro bianco - Julia's Pearls

Collana con pietre barocche

Già il “manierismo” della seconda metà del ’500, aveva messo in crisi le certezze rinascimentali: basti pensare a come Tasso, ridisegnando il poema epico sotto i dettami della Poetica aristotelica, lo aveva messo in crisi con squarci lirici ed elementi problematici, o ancora a Guicciardini che già aveva mostrato l’imprevedibilità del reale, per renderci conto di come questo processo culminerà in una mancanza di certezze, di punti di riferimento che porterà gli intellettuali del XVII secolo alla percezione del vuoto che circonda il loro rapporto con il mondo. Questa percezione di vuoto fornisce agli intellettuali la possibilità di “riempirlo” in vari modi, assai diversificati, che permettono la definizione di “barocco” ad autori lontanissimi tra loro, si pensi a Giovanbattista Marino e a Galileo Galilei per l’Italia, ma lo stesso può dirsi per tutta la letteratura europea (con le dovute eccezioni che vedremo in seguito).

Per una maggiore comprensione del barocco è bene non parlare di singoli autori, bensì cercare di capire, attraverso i generi, il modo in cui il barocco, da un punto di vista letterario, introduce novità destinate a rivoluzionare il modo di concepire la poesia, il poema, il romanzo, il teatro.

Il barocco in Italia

 La lirica

In Italia la lirica barocca trova come massimo esponente Giambattista Marino, tanto che si suole definirla marinismo. Egli non innova soltanto la poesia, ma anche lo “status” dell’intellettuale: ambizioso e spregiudicato riuscirà a fare del mestiere dell’intellettuale una vera e propria professione, “vendendosi”, se così si può dire, al migliore “offerente”. Non per niente si suole definire anche la sua vita barocca: falsario andò in prigione, fuggiasco, violento: come la sua poesia, anche la sua biografia è in eccesso.

File:Frans Pourbus the Younger - Portrait of Giovanni Battista Marino.jpg - Wikipedia

Frans Pourbus il Giovane: Ritratto di Giovanni Battista Marino (1621)

La lirica marinista possiede come fondamento i precetti dell’edonismo e della meraviglia (è del poeta il fin la meraviglia … chi non sa far stupir vada alla striglia). L’edonismo è strettamente legato alla capacità del poeta di suscitare “meraviglia” nel lettore: questo fatto dà vita a due aspetti fondamentali:

  • la poesia si rivolge ad un pubblico e ne deve rispettare le attese;
  • la “meraviglia” si ottiene con soluzioni formali inattese, da suscitare stupore per la “bravura” tecnica del poeta.

Sul piano retorico pertanto la lirica marinista adotta i concetti e le acutezze (originali combinazioni ed estensioni dei significati delle parole), ma soprattutto la figura della metafora. Ne deriva un’arte puramente cerebrale, il cui scopo è quello di lavorare fondamentalmente sul significante.

Prendiamo, ad esempio, questo sonetto, ricco di reminiscenze della letteratura classica e petrarchesche e come egli le reinterpreta facendone qualcosa di “nuovo” e “meraviglioso”:

TRANQUILLITA’ NOTTURNA

Pon mente al mar, Cratone, or che ’n ciascuna
riva sua dorme l’onda e tace il vento,
e Notte in ciel di cento gemme e cento
ricca spiega la veste azzurra e bruna.

Rimira ignuda e senza nube alcuna
nuotando per lo mobile elemento,
misto e confuso l’un con l’altro argento,
tra le ninfe del ciel danzar la Luna.

Ve’ come van per queste piagge e quelle
con scintille scherzando ardenti e chiare,
volte in pesci le stelle, i pesci in stelle.

Sì puro il vago fondo a noi traspare

che fra tanti dirai lampi e facelle:
Ecco in ciel cristallin cangiato il mare.

Guarda attentamente il mare, Cratone, ora che in ogni / suo punto riposa l’onda e tace il vento, / e la notte, tempestata di infinite stelle, / distende nel cielo la sua veste color azzurro cupo. // Osserva con attenzione (la luna) nuda e senza essere velata dalle nuvole / nuotando nel mare, misto tra il colore argento dei due elementi, / danzare tra le stelle del cielo. // Vedi come vanno per questi tratti di mare e di cielo, scherzando con le scintille brillanti e chiare, le stelle trasformate in pesci e i pesci in stelle. // Ci appare a noi così puro il bel fondo, che dirai tra tante luci e fiaccole: “Ecco il mare, mutato in un cielo cristallino”.

MARINO (Giambattista), Rime (1606) - Fondation Barbier-Mueller pour l'étude de la poésie italienne de la Renaissance

Edizione delle Rime di Marino del XVII sec.

Abbiamo qui, infatti, l’uso della “metafora continuata”: se il cielo per colore e immensità è metafora dello spazio marino, è normale che a sua volta quest’ultimo diventi metafora della volta celeste; ne consegue che la luce che appare nel cielo e riflette se stessa nel mare, illumina d’argento i dorsi dei pesci, ma anche il chiarore “argenteo” delle stelle. Quindi i due si confondono: non esistono più due entità, ma la metamorfosi d’entrambi (da qui la meraviglia del lettore).

La metafora continuata appare anche in quest’altro testo di Marino:

DONNA CHE SI PETTINA

Onde dorate, e l’onde eran capelli,
navicella d’avorio un dì fendea;
una man pur d’avorio la reggea
per questi errori preziosi e quelli;

e, mentre i flutti tremolanti e belli

con drittissimo solco dividea,
l’òr delle rotte fila Amor cogliea,
per formarne catene a’ suoi rubelli.

Per l’aureo mar, che rincrespando apria

il procelloso suo biondo tesoro,
agitato il mio core a morte gìa.

Ricco naufragio, in cui sommerso io moro,
poich’almen fur, ne la tempesta mia,
di diamante lo scoglio e ’l golfo d’oro!

Onde dorate e le onde erano i capelli / un giorno una navicella d’avorio fendeva; / la guidava una mano d’avorio / in questi e quei viaggi fra le onde preziose; // e mentre le onde tremolanti e belle / divideva con un nettissimo solco / Amore raccoglieva l’oro dei capelli spezzati / per formare così catene a chi si ribella. / Per il biondo mare, che increspandosi apriva / il tempestoso suo biondo tesoro, / il mio cuore agitato andava verso la morte. // Ricco naufragio,  nel quale io sommerso muoio; / perché almeno furono, nella mia tempesta / lo scoglio di diamante ed il golfo d’oro.

In questo sonetto, infatti, al di là di ciò che rappresenta di scenografico, con colori accecanti e sgargianti – bianco, biondo, oro – ciò che colpisce è che la metafora, che come nell’altro testo, esplicitata nel primo verso, viene rispettata nell’intero dettato poetico, per cui se le onde sono metafora dei ricci dei capelli della donna, quest’ultimi sono a loro volta metafora delle onde.

Un altro elemento fortemente presente nella poesia del napoletano è la sensualità: essa, seppur suscita scalpore, non s’allontana da una parte dal concetto amore pagano, dall’altra della donna colta in movimento, come in questo piccolo madrigale (piccolo componimento con tema pastorale):

Rubens: Venere allo specchio (1612)

NINFA MUNGITRICE

Mentre Lidia premea
dentro rustica coppa
a la lanuta la feconda poppa,
i’ stava a rimirar doppio candore,
di natura e d’amore;
né distinguer sapea
il bianco umor da le sue mani intatte,
ch’altro non discernea che latte in latte.

Mentre Lidia strizzava alla pecora la mammella ricca di latte in un rustico secchio, io guardavo con attenzione al duplice biancore del latte e della donna, e non sapevo riconoscere il colore del latte da quello delle sue pure mani, da non distinguere che l’identico colore bianco in ambedue (latte e mani)

Dove continua ad esser presente il concetto metamorfico della bianchezza lattea della donna, ma che qui viene “concettualizzato” nell’arguzia finale della confusione nella distinzione dell’uno o dell’altro.

Come abbiamo sinora visto la poesia marinista ha, come oggetto precipuo del suo cantare più che l’oggetto, lo sguardo di chi lo vede; e cioè l’atto del guardare (e quindi d’indagare) a farsi vero protagonista. A tale scopo non poteva mancare una raccolta (Galeria, 1620) in cui l’arte rappresenta se stessa (e non più la realtà):

LUCREZIA

Donna, a torto ti dié l’etate antica
titolo di pudica;
ché, se quel sen piegasti
che fu d’osceno amar sozzo ricetto
non già però lasciasti
di goderne illegittimo diletto.
Se volevi lodata esser da noi,
dovevi prima ucciderti e non poi.

Lucrezia, immeritatamente l’età antica ti attribuì la fama di pudica, perché seppure t’uccidesti colpendoti in quel ventre che fu un immondo ricettacolo di un osceno amore (violenza sessuale), non hai tuttavia tralasciato di goderne in illegittimo piacere. Se volevi che noi ti essere lodata da noi, dovevi ucciderti prima, non dopo.

File:Lucretia by Artemisia Gentileschi.jpg - Wikipedia

Artemisia Gentileschi: Lucrezia (1625)

Il piccolo madrigale infatti, al di là del tema e il modo in cui è condotto, certamente poco ortodosso, si basa sulla visione che Marino fa di un quadro rappresentante la donna romana. Come già abbiamo visto in Tasso, nel giardino d’Armida, quando Rinaldo beve la bellezza di lei riflessa in uno specchio e quell’immagine a fornire l’altra realtà, così come in Marino è il quadro ad essere oggetto di poesia.  

La meraviglia, oltre che sul piano formale si ottiene anche grazie all’allargamento del poetabile. Ad esempio, per quanto riguarda la figura femminile, essa si frantuma sia da un punto di vista corporeo che tipologico:

  • vengono scritte poesia sugli occhi, sulle mani, sui capelli biondi, neri, rossi etc., sui piedi e via discorrendo;
  • donne brutte, pidocchiose, nell’atto di cucire, di lavorare la terra etc. etc.
  • da ciò si deduce un consapevole e ricercato antipetrarchismo.

Per quest’ultimo aspetto prendiamo ad esempio una poesia di un minore, che tuttavia è indicativa di un certo gusto: 

Toilette della bella nana another 2 works par Enrico Albricci sur artnet

Enrico Albricci: Toilettes della bella nana (XVIII sec.)

GIOVAN LEONE SEMPRONIO
LA BELLA NANA

Per ascender al ciel folli giganti
fecer col gran Tonante alte contese;
e per far guerra a mille cori amanti
la bella nana mia dal ciel discese.

E certo la fe’ tal destin cortese,
perché, qualor mi s’offerisce avanti,
del corpo suo con le mie luci accese
tutti io rimiri ad un sol guardo i vanti.

Ma convien, per veder fra quai confini
ha posti il paradiso i suoi tesori,
che gli altri inalzin gli occhi, e ch’io li chini.

E s’io vo’ vagheggiar la dea de’ cori,
non la posso mirar ch’io non m’inchini,
né mi posso inchinar, ch’io non l’adori

Per salire al cielo i folli giganti / fecero contro Giove tonante grandi battaglie; / e per fare la guerra a mille cuori amanti / la mia bella nana scese dal cielo. // E certo la rese tale un destino gentile / perché ogni volta che mi appare davanti / con i mei occhi accesi del corpo suo / tutte le bellezze io osservi con un solo sguardo. // E’ necessario, per vedere fra quali confini / il paradiso ha posto i suoi tesori, / che gli altri alzino gli occhi, e che invece io li chini. // E se io voglio desiderare la dea dei cuori, / non la posso osservare se non m’inchino, / né mi posso inchinare che io non l’adori.

Se il fine è quello di suscitare meraviglia nel lettore attraverso gli strumenti retorici più raffinati e l’allargamento del poetabile, è evidente che i poeti marinisti non lasciano spazio ad interessi ideali o morali, per meglio dire questi due aspetti sono del tutto assenti.

Se i temi morali ed ideali sono spenti, non lo è altrettanto il tema della morte. L’estetica barocca, come già detto, si rivolge al pubblico ed è quindi non “eterna” come quella classica, ma transuente, destinata perciò a morire. Tale concetto trova espressione nell’immagine dell’orologio:Il tempo fugace e la caducità della vita secondo Time e Ciro di Pers - Il Superuovo

CIRO DI PERS
OROLOGIO A RUOTE

Mobile ordigno di dentate rote
lacera il giorno e lo divide in ore,
ed ha scritto di fuor con fosche note
a chi legger le sa: sempre si more.

Mentre il metallo concavo percuote,
voce funesta mi risuona al core;
né del fato spiegar meglio si puote
che con voce di bronzo il rio tenore.

Perch’io non speri mai riposo o pace,
questo, che sembra in un timpano e tromba,
mi sfida ognor contro all’etá vorace.

E con que’ colpi onde ’l metal rimbomba,
affretta il corso al secolo fugace,
e perché s’apra, ognor picchia alla tomba.

Congegno mobile di ruote dentate / scandisce il giorno e lo divide in ore / e porta scritto sul quadrante in caratteri tristi / per chi li sa interpretare: si muore ogni momento. // Mentre percuote la campana con il suo martello / una voce triste mi riecheggia nel cuore; / e non si può spiegare meglio la natura malvagia del fato / che con questa voce cupa del bronzo. // Affinché io non possa aspirare mai ad un vero riposo o a una vera pace, / questo oggetto, che assomiglia a un timpano e a una tromba, / mi costringe continuamente a battermi contro il tempo. // E con quei colpi che fanno risuonare il metallo, / accelera la corsa del tempo già di per sé fugace, / e picchia continuamente sulla pietra tombale affinché si apra.Tipi di orologio creati tra XIV - XVI secolo ed evoluzione -

Orologio della prima metà delo ‘600

Questo celebre sonetto “descrive”, attraverso il meccanismo dell’orologio, il trascorrere del tempo; riflettendo su questo tema emerge il concetto fortemente controriformistico del Memento mori. Non troviamo in esso un proliferare di metafore, quanto piuttosto un andamento analitico che sembra ripercorrere nel primo verso uno stile maggiormente “scientifico”, per poi abbandonarsi ad una tematica riflessiva: tale riflessione viene sottolineata dall’utilizzo di termini forti come “lacera”, “fosche”, “funeste”, “fugace”. Tutto il sonetto tuttavia sembra convergere nel verso finale, di stile concettoso, in cui il battagio picchia sulla tomba. 

Il poema epico

Il poema epico, pur presente nel ’600 italiano con gli stanchi epigoni del Tasso, si sgretola, se non nella forma nel contenuto, grazie ad Alessandro Tassoni con La secchia rapita (1630) e Giambattista Marino con l’Adone (1623).

Alessandro Tassoni è consapevole di aver scritto un’opera di “nuova spezie” in quanto narra “un’impresa mezzo eroica e mezzo civile” ed è scritta in due stili “grave e burlesco”. Il nuovo genere inaugurato da Tassoni è il poema eroicomico: esso parte da un fatto storico svoltosi negli ultimi anni dell’Impero di Federico II, una rissa tra bolognesi e modenesi, ma non ne rispetta la cronologia.

Caratteristiche principali del poema sono:

  • rovesciamento parodico delle virtù eroiche dei cavalieri e delle eroine (il conte di Culagna vs Tancredi e Renoppia vs Clorinda);
  • mescolanza stilistica che dà vita ad un plurilinguismo tipicamente barocco.

La secchia rapita poema eroicomico di Alessandro Tassoni patrizio modenese, colle dichiarazioni di Gaspare Salviani romano, s?aggiungono la prefazione, e le annotazioni di Giannandrea Barotti ferrarese, le varie lezioni de? testi a penna, e di molte edizi

Edizione del 1744

Come assaggio dello stile e dell’intento di Tassoni prendiamo un brano in cui si racconta una disavventura del Conte di Culagna:

LA SECCHIA RAPITA

Il conte in fretta mangia e si diparte,
ché non vorria veder la moglie morta.
Vassene in piazza ov’eran genti sparte
chi qua, chi là, come ventura porta.
Tutti, come fu visto, in quella parte
trassero per udir ciò ch’egli apporta.
Egli cinto d’un largo e folto cerchio
narra fandonie fuor d’ogni superchio.

E tanto s’infervora e si dibatte
in quelle ciance sue piene di vento,
ch’eccoti l’antimonio lo combatte
e gli rivolta il cibo in un momento.
Rimangono le genti stupefatte;
ed egli vomitando, e mezzo spento
di paura, e chiamando il confessore,
dice ad ognun ch’avvelenato more.

Il Coltra e ‘l Galiano, ambi speziali,
correan con mitridate e bollarmeno,
e i medici correan con gli orinali
per veder di che sorte era il veleno.
Cento barbieri e i preti co i messali
gl’erano intorno e gli scioglieano il seno,
esortandolo tutti a non temere
e a dir devotamente il Miserere.

Chi gli ficcava olio o triaca in gola,
e chi biturro o liquefatto grasso;
avea quasi perduta la parola,
e per tanti rimedi era già lasso:
quand’ecco un’improvisa cacarola
che con tanto furor proruppe a basso,
che l’ambra scoppiò fuor per gli calzoni
e scorse per le gambe in su i taloni.

– O possanza del ciel, che cosa è questa?
disse un barbier quando sentí l’odore;
questo è un velen mortifero ch’appesta,
io non sentii giammai puzza maggiore.
Portatel via, che s’egli in piazza resta,
appesterà questa città in poche ore. –
cosí dicea, ma tanta era la calca,
ch’ebbe a perirvi il medico Cavalca.

Come a Montecavallo i Cardinali
vanno per la lumaca a concistoro
stretti da innumerabili mortali
per forza d’urti e con poco decoro;
cosí i medici quivi e gli speziali
non trovando da uscir strada né fòro,
urtati e spinti, senza legge e metro
facean due passi innanzi e quattro indietro.

Ma poiché l’ambracane uscí del vaso
e ‘l suo tristo vapor diffuse e sparse;
cominciò in fretta ognun co’ guanti al naso
a scostarsi dal cerchio e a ritirarse;
e abbandonato il conte era rimaso,
se non ch’un prete allor quivi comparse,
ch’avea perduto il naso in un incendio,
né sentia odore; e ‘l confessò in compendio.

Confessato che fu, sopra una scala
da piuoli assai lunga egli fu posto,
e facendo a quel puzzo il popol ala,
il portâr due facchini a casa tosto:
quivi il posaro in mezzo de la sala,
chiamaro i servi, e ognun s’era nascosto;
fuor ch’una vecchia, che v’accorse in fretta
con un zoccolo in piede e una scarpetta.

Alessandro Tassoni: biografia e opere | Studenti.it

Alessandro Tassoni

Il Conte mangia in fretta e s’allontana / perché non vorrebbe vedere la moglie morta. / Va in una piazza dove ci sono persone sparse / da una parte e dall’altra, come girassero a caso. / Tutti, appena lo videro, in quella parte (dove lui era) / si portano, per ascoltare le notizie che egli porta / Egli, circondato da ogni parte da una folta massa di persone / racconta fandonie che superano qualsiasi eccesso; // E tanto si eccita e si agita / in quei suoi discorsi pieni di bugie / che subito l’antimonio comincia a disturbarlo / e gli sconvolge in un attimo il cibo nel ventre. / Rimangono le persone stupefatte; / ed egli vomitando, e mezzo morto / di paura, e chiamando il confessore / afferma che egli sta morendo avvelenato. // Coltra e Damiano, entrambi farmacisti, / correvano con medicamenti / e dottori s’avvicinavano con gli orinali / per scoprire di che tipo fosse il veleno ingerito. / Cento barbieri e i preti con il messale / lo attorniano e gli liberano il petto / esortando tutti a non temere / e a dire con devozione “Miserere”. // Chi gli faceva ingerire olio e triaca / e chi burro o grasso sciolto. / Aveva quasi perso la parola, / e per i tanti medicinali era ormai sfinito; / quand’ecco un’improvvisa cacarella / che con tanta irruenza scoppiò in basso, / che il profumo scoppiò fuori i calzoni / ed uscì attraverso le gambe fino ai talloni. // “Oh, potenza del cielo! Cos’è questo?” disse un barbiere quando sentì la puzza: / “questo è un veleno mortifero che appesta; / io non ho mai sentito puzza maggiore. / Portatelo via; che se egli resta in piazza, / appesterà tutta la città in poche ore”. / Così diceva: ma tanta era la calca, / che il medico Cavalca corse in pericolo di vita. // Come i cardinali nel Quirinale / vanno nel concistoro sulla scala a chiocciola / stretti fa innumerevoli persone / a forza di spinte e con poco decoro, / così qui i medici e gli speziali / non trovando il modo per uscire dalla calca / urtati e spinti, senza ordine e misura / facevano due passi avanti e quattro indietro. // Ma poiché la cacca uscì dal corpo / diffuse e mandò nell’aria il suo pestifero puzzo / tutti subito si portarono il guanto al naso / e ad allontanarsi dal cerchio e a ritirarsi / ed il Conte rimase solo: se non che un prete che qui allora comparse / in quanto aveva perduto il naso in un incendio. // Dopo aver ricevuto l’assoluzione, sopra una scala / a pioli molto lunga fu messo; / e, facendo la folla ala a quel gran puzzo / due facchini lo portarono subito a casa. / Qui lo posero in mezzo ad una sala; / chiamarono i servi, ma tutti si erano nascosti / ad eccezione d’una vecchia che accorse subito / con ai piedi uno zoccolo ed una scarpetta.

 

Per quanto riguarda l’Adone il disfacimento del poema epico è svolto con maggiore evidenza. Vediamone la trama:

Amore vuole vendicarsi con sua madre Venere che l’ha picchiato e Apollo gli consiglia di farla innamorare di Adone, dunque fa in modo che il giovane arrivi a Cipro, dimora della dea. Venere incontra Adone e, colpita dalla freccia di Amore, si innamora del giovane; lo osserva mentre dorme e lo sveglia con un bacio, quindi si fa medicare il piede ferito da una rosa. Così anche Adone s’infatua della dea. Quindi i due iniziano un percorso di conoscenza. I due amanti visitano i giardini della vista e dell’odorato: il primo permette all’autore una descrizione dell’occhio, di una galleria di pitture e la narrazione della storia del pavone, il secondo invece la descrizione del naso, dell’orto dei profumi e della vita di Amore. Si visitano i giardini dell’udito, con la descrizione dell’orecchio, di un’uccelliera e del giardino della musica, e poi del gusto, con la descrizione dell’orto fruttifero, della bocca. Giunti nel giardino del tatto, Venere e Adone vengono uniti in matrimonio da Mercurio. Consumato il matrimonio in una piccola stanza, proseguono con diletto la loro vita matrimoniale. Passano dai piaceri dei sensi a quelli dell’intelletto. Sotto la guida di Mercurio i due sposi passano a visitare i tre cieli tolemaici iniziando dalla Luna dove il dio accompagnatore, prendendo spunto dalle macchie che si vedono, tesse le lodi di Galileo. Raggiunto il cielo di Venere vedono passare in rassegna le donne più celebri del futuro. Gelosia avvisa Marte della vita felice della coppia e questi dalla sua reggia (descritta) si precipita a Cipro. Venere fa fuggire Adone, dandogli un anello contro cui non valgono incanti e che lo manterrà fedele. Una ninfa conduce Adone alla dimora sotterranea della maga Falsirena. Questa tende insidie amorose al giovinetto che, sempre fedele a Venere, tenta la fuga ed è imprigionato. Gli è sottratto l’anello fatato, ma gli appare Mercurio e gli spiega le insidie che ancora lo aspettano. Trasformato per sbaglio dalla stessa Falsirena in pappagallo, può volare via dalla prigione. In questa forma si sottrae, grazie a Mercurio, ad un agguato di Vulcano e assiste agli amori di Marte e Venere nel giardino del tatto. Su consiglio di Mercurio torna nel regno sotterraneo di Falsirena per recuperare la forma prima e il suo anello, ma contro il monito del suo consigliere sottrae a Falsirena anche le armi di Meleagro, che portano morte. Ritrova Venere sotto specie di zingara che gli legge la mano: nuova occasione per metterlo in guardia contro i pericoli della caccia. I due tornano agli amori. Per distrarlo dalla noia incipiente Venere propone una partita a scacchi Adone vince, anche se con la frode, e si guadagna così il regno di Cipro: premio che accetta, ma potere che non intende esercitare. Adone partecipa al concorso di bellezza attraverso i quale si intende eleggere il re di Cipro. Pur vincendo la prova perde il pegno della vittoria, che gli è conferita solo dopo una serie di riconoscimenti. Venere subito lo distoglie dal regno a favore dei soliti trastulli. Venere deve essere presente alle feste che si danno a Citera in suo onore. Adone le strappa la concessione di poter cacciare nel parco di Diana. Durante il viaggio Venere tenta inutilmente di far conferire l’immortalità ad Adone. Marte tende ad Adone un agguato nel parco, coadiuvato da Diana: irritano un cinghiale contro Adone. Questi lo affronta con le armi di Meleagro, fatali a chi le porta, e per di più colpisce la belva con una freccia di Cupido, infondendogli furia amorosa. Un vento che scopre la coscia di Adone eccita la fiera al bacio e all’amoroso assalto in cui gli morde l’anca. Venere avvisata accorre e assiste alla morte del suo amato, piangendolo a lungo. Si cerca e si processa il cinghiale, che viene assolto, intese le ragioni amorose che l’hanno mosso. Si celebrano i funerali. Venere trasforma il cuore di Adone in anemone e indice tre giorni di giochi in onore del defunto.
  • Rimane, per definirlo poema epico, solo il dato formale, la divisione in canti e l’utilizzo dell’ottava;
  • il confronto che l’autore istituisce consapevolmente con il Tasso porta a rivelarne alcuni aspetti fondamentali: non più un poema di guerra, ma un poema d’amore; non più Virgilio come riferimento, ma Ovidio.
  • Al nucleo tematico originario (l’amore tra Adone e Venere) che costituisce il filo rosso dell’immenso poema, Marino aggiunge una lunga serie di digressioni che fanno del poema stesso una vera e propria enciclopedia che compendiava tutto il sapere secentesco.
  • La direzione principale che sorregge l’opera è quella dell’erotismo e della sensualità, che si traduce, nei versi, in un’immaginazione sbrigliata ed accesa, in cui primeggia la descrizione coloristica e lussureggiante che mostra il poeta in adorazione estatica verso la realtà del suo tempo che viene trasfigurata attraverso l’arte.
  • Se l’arte supera o modella la natura, Marino utilizzerà uno stile che, come nella sua lirica, vedrà il trionfo del significante sul significato. Ma anche di uno stile che si conformava alle attese di un’aristocrazia che si voleva raffinata e preziosa. Ancora una volta Marino fa del pubblico il suo vero giudice.
  • Tuttavia l’importanza del poema sta nella filosofia di fondo che lo sottende: Marino figlio del suo tempo, non è esente dalle sollecitazioni che il pensiero scientifico allora propugnava: anche i suoi eroi devono sperimentare attraverso i sensi (gusto, tatto, olfatto, vista, udito) la conoscenza del reale, che si traduce poi in un’estrema voluttà del piacere. Non per niente l’opera verrà messa all’indice dalla Chiesa controriformista.

A dimostrazione di come Marino, pur trattando una genere epico, assai diverso dalla lirica, persegua nei suoi artifici retorici , è utile riferirci a questo celeberrimo passo:

Venere e Adone (Tiziano New York) - Wikipedia

Tiziano: Venere e Adone

ELOGIO DELLA ROSA

Rosa riso d’amor, del ciel fattura,
rosa del sangue mio fatta vermiglia,
pregio del mondo e fregio di natura,
dela terra e del sol vergine figlia,
d’ogni ninfa e pastor delizia e cura,
onor del’odorifera famiglia,
tu tien d’ogni beltà le palme prime,
sovra il vulgo de’ fior donna sublime.

Quasi in bel trono imperadrice altera
siedi colà su la nativa sponda.
Turba d’aure vezzosa e lusinghiera
ti corteggia dintorno e ti seconda
e di guardie pungenti armata schiera
ti difende per tutto e ti circonda.
E tu fastosa del tuo regio vanto
porti d’or la corona e d’ostro il manto.

Porpora de’giardin, pompa de’ prati,
gemma di primavera, occhio d’aprile,
di te le Grazie e gli Amoretti alati
fan ghirlanda ala chioma, al sen monile.
Tu qualor torna agli alimenti usati
ape leggiadra o zefiro gentile,
dai lor da bere in tazza di rubini
rugiadosi licori e cristallini.

Non superbisca ambizioso il sole
di trionfar fra le minori stelle,
ch’ancor tu fra i ligustri e le viole
scopri le pompe tue superbe e belle.
Tu sei con tue bellezze uniche e sole
splendor di queste piagge, egli di quelle,
egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,
tu sole in terra, ed egli rosa in cielo.

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Giuseppe Volò: Natura morta con rose e biscotti (XVII sec.)

Rosa, sorriso di amore, creatura del cielo, / rosa divenuta rossa per il mio sangue, / decoro del mondo e ornamento della natura, / vergine figlia della terra e del sole, / delizia e preoccupazione di ogni ninfa e pastore, / vanto della profumata famiglia (dei fiori), / tu sei la prima in bellezza, / signora eccelsa trai fiori comuni. // Come una imperatrice su di un bel trono / tu stai là dove sei nata. / Un vorticare dolce e piacevole di brezze  / ti muove intorno come una corte e ti segue / e una schiera armata di guardie pungenti / ti protegge e ti circonda. / E tu orgogliosa della tua dignità regale / porti una corona d’oro e il manto di porpora. // Rosso  dei giardini, orgoglio dei prati / germoglio  di primavera, luce  di aprile, / di te le Grazie e gli Amoretti alati / fanno ghirlande per i capelli , gioielli  per il  seno. / Tu quando  tornano a suggere gli alimenti consueti / un’ape gentile o un venticello leggero / offri loro da bere in un calice (rosso) come il rubino / gocce di rugiada e di nettare. // Non si inorgoglisca il sole ambizioso / di troneggiare fra le stelle minori, / perché tu fra i ligustri e le viole / mostri le tue grazie superbe e belle. Con le tue bellezze incomparabili / tu sei lo splendore dei campi della terra, il sole di quelli del cielo, / egli nella sua orbita, tu sul tuo stelo / tu sole in terra, lui rosa in cielo.

Infatti anche qui, come in Onde dorate vi è la “metafora continuata”: infatti se la rosa è la regina dei fiori, le sue spine sono diventano le guardie, i venti il corteggio e gli stami la corona. Ancora è da sottolineare la “non celata” bravura che egli manifesta nel descrivere la rosa: sono ben sette i modi in cui la definisce: riso, fattura, pregio, fregio, delizia e cura, onor, donna; è palese l’intento agonistico del poeta rispetto alla tradizione.

Eppure, in questo poema, non mancano spunti legati alla speculazione scientifica-filosofica; si veda qui un altro famosissimo passo dell’Adone in cui il poeta elogia Galilei e le sue scoperte scientifiche:

ELOGIO DI GALILEO

Tempo verrà che senza impedimento
queste sue note ancor fien note e chiare,
mercé d’un ammirabile stromento
per cui ciò ch’è lontan vicino appare
e, con un occhio chiuso e l’altro intento
specolando ciascun l’orbe lunare,
scorciar potrà lunghissimi intervalli
per un picciol cannone e duo cristalli.

Del telescopio, a questa etate ignoto,
per te fia, Galileo, l’opra composta,
l’opra ch’al senso altrui, benché remoto,
fatto molto maggior l’oggetto accosta.
Tu, solo osservator d’ogni suo moto
e di qualunque ha in lei parte nascosta,
potrai, senza che vel nulla ne chiuda,
novello Endimion, mirarla ignuda.

E col medesmo occhial, non solo in lei
vedrai dapresso ogni atomo distinto,
ma Giove ancor, sotto gli auspici miei,
scorgerai d’altri lumi intorno cinto,
onde lassù del’Arno i semidei
il nome lasceran sculto e dipinto.
Che Giulio a Cosmo ceda allor fra giusto
e dal Medici tuo sia vinto Augusto.

E verrà un giorno che senza alcuna fatica / queste sue caratteristiche (della luna) saranno ancora più chiare e conosciute / grazie ad un straordinario strumento / per cui ciò che è lontano appare vicino / e con un occhio chiuso e l’altro intento all’osservazione / studiando alcuno il pianeta della luna / potrà avvicinarlo per un piccolo cannocchiale e due lenti (poste all’estremità) // Del telescopio, ignoto in questa età, / per te, Galileo, sarà l’opera intrapresa / l’opera che al senso della vista di ciascuno, benché lontano, / avvicina l’oggetto in modo molto maggiore. / Tu solo, osservatore di ogni suo movimento circolare, / e di qualunque parte in lei nascosta / potrai, senza che alcun velo possa coprirla / nuovo Endimidione (mitico personaggio che la luna, ogni notte, scendeva a baciare) vederla nuda. // E con lo stesso occhiale non solo vedrai in lei / da vicino ogni atomo distinto / ma sotto i miei auspici (è Marte che parla) di Giove / altri satelliti scorgerai (scoperti da Galilei, che li chiamò Medicei) che gli girano intorno. / Che Giulio Cesare ceda il posto a Cosimo II (granduca di Toscana) è cosa giusta, e dal tuo Medici sia vinto Augusto.

 

La prosa

Se l’esperienza poetica, sul nostro versante, appare un po’ deludente alla luce degli splendidi risultati ottenuti dalle altre letterature europee, diverso è il discorso sulla prosa, dove troviamo un panorama assai ricco e variegato che tocca tutti gli aspetti del reale: la prosa scientifica di Galileo Galilei, quella politica di Torquato Accetto, quella storiografica di Paolo Sarpi ed infine quella filosofica di Tommaso Campanella. A ciò e necessario aggiungere la produzione assai ricca di veri e propri romanzi cavallereschi o mitologici.

Prima di addentrarci sul discorso dell’autore più rappresentativo dell’intero ‘600, Galileo Galilei, occorre spiegare il motivo per cui nasce e si sviluppa nell’intero continente una “curiosità scientifica”, apportatrice di grandissime novità.

Sappiamo che nel Medioevo fino al ‘500 ogni disciplina  era ricondotta alla teologia: era quest’ultima, infatti a raccogliere al suo interno ogni forma di sapere, perché, attraverso essa, si riusciva a concepire il reale e quindi la natura, come unico disegno della volontà creatrice. Il metodo, era quello deduttivo: si parte da un presupposto generale o da un sillogismo, riconosciuta la sua validità, se ne deduce la validità di tutto ciò che ne consegue. Tale metodo entra in crisi perché:

  • la scoperta dell’America che mette in luce come la visione scientifica derivata da quella aristotelica e quindi cristianizzata non poteva spiegare ciò che al tempo della sua speculazione “non esisteva”;
  • le nuove tecnologie che mettono nelle mani strumenti capaci di “vedere” e quindi “indagare” cose prima “invisibili” e di conseguenza “inindagabili”;
  • la scoperta della circolazione del sangue da parte di William Harvey (1578-1657);
  • il bisogno degli stati di tecnologie sempre più raffinate per i loro allargati traffici commerciali e per le esigenze belliche.

Affinché potesse nascere pertanto una nuova capacità scientifica era necessaria una rivoluzione sia epistemologica (cioè sul piano delle conoscenze scientifiche), sia metodologia (ossia sugli strumenti attraverso cui tali conoscenze si raggiungono). Tali principi portarono a:

  • la delimitazione del campo della ricerca ai fenomeni sensibili;
  • la definizione di scienza come metodo sperimentale, fondato sulla conoscenza diretta della natura;
  • esplicitazione di un metodo scientifico che fosse svincolato dalla filosofia e quindi da qualsiasi astrazione metafisica.

Ciò porta a considerare la natura non come frutto di una creazione trascendentale, ma come fenomeno immanente, in cui l’uomo non è che uno dei fenomeni (tramonto anche della centralità dell’uomo umanistico/rinascimentale) ed è traducibile (intuizione galileiana) in termini matematici, quindi in dati oggettivi e verificabili. Si sposta pertanto il compito dello scienziato: un tempo si cercava il perché finale e metafisico dei fenomeni, ora si tratta di spiegare il come del loro essere: per questo bisogna verificare le cose attraverso l’esperienza diretta, da qui la scienza sperimentale. Da ciò si deduce che viene a cessare la differenza tra sapere teorico e sapere pratico, dipendendo il primo dal secondo e quindi la scoperta della “tecnica” che permette a sua volta una conoscenza per l’appunto sperimentale (Galilei,  durante il soggiorno a Venezia, grazie alla specialissima abilità dei vetrai di Murano, poté perfezionare il cannocchiale e il microscopio).

Bacon, Copernico, Galilei, Descartes

Prima d’addentrarci nello scienziato Galilei, vediamo l’apporto, fondamentale per capire il nostro metodo scientifico, come i tre grandi pensatori secenteschi lo elaborarono:

  • Francis Bacon: filosofo inglese (1561-1626) che applica un metodo induttivo sperimentale (metodo che muove dallo studio delle esperienze sensibili per arrivare ad una definizione generale ed universale). Dal latino inducere, cioè condurre, trarre per mezzo del particolare. Si trattava, infatti, di catalogare dei dati sensibili in tavole comparative da cui risalire alle cause prime dei fenomeni;
  • René Descartes: filosofo francese (1596-1650). La sua ambizione è quella di rifondare l’intero sistema del sapere su basi razionaliste. Bisognava, per lui, non accettare nulla che non fosse da lui personalmente meditato, quindi ripensare il tutto sulla base della sua soggettiva capacità raziocinante. Affinché ciò sia possibile bisogna partire dalle cose più semplici che potessero arrivare alla mente vergine in modo irrefutabile. Quindi partire dalle elementari verità rifondate su base razionale per costruire un nuovo metodo di conoscenza. Da qui il suo cogito ergo sum;
  • Galileo Galilei, scienziato italiano (1564-1642). Il suo metodo (ai margini della speculazione filosofica) integra l’indagine sperimentale del mondo sensibile (“sensate esperienze”) con il ragionamento matematico (“necessarie dimostrazioni”): si tratta cioè dapprima di osservare, quindi tradurre tale osservazione in dati matematici-geometrici, quindi dedurre un ipotesi generali. Il passo successivo è la sperimentazione a tavolino di tale ipotesi che se confermata mostra la veridicità dell’ipotesi stessa che diventa, quindi,   E’ pur vero che per Galilei se un fenomeno è traducibile in dati matematici non c’è bisogno di alcuna “sperimentazione” essendo la matematica una scienza oggettiva e quindi senza alcun bisogno di verifica.

File:Galileo Galilei01.jpg - Wikipedia

Statua di Galileo Galilei a Firenze

Galileo Galilei

E’ il primo scrittore che si serve dell’italiano nell’ambito della prosa scientifica, nella cui lingua enuncia la nascita del metodo scientifico moderno.

La sua importanza si può così sintetizzare:

  • inaugura il “metodo sperimentale” (campo scientifico);
  • introduce il volgare nella trattatistica scientifica (campo letterario);
  • è l’emblema di un mondo che non si accontenta più di “verità” rivelate e che per questo entra in conflitto con la Chiesa.

Cenni biografici

Galileo Galilei nasce a Pisa nel 1564, dove studia: tra gli intellettuali  e nelle università, intanto, si era acceso un dibattito sul poema cavalleresco e il giovane studente si era sin da subito schierato per Ariosto. Sempre a Pisa mostra interesse per le materie scientifiche. Nel 1585 abbandona l’Università (senza aver concluso un corso di studi regolare), ma vi rientrerà nel 1589 come docente di matematica. Nello stesso anno si trasferisce a Padova: sono anni molto fruttuosi per la sua attività di “scienziato” in quanto la Repubblica di Venezia mostra un clima molto più aperto e tollerante rispetto alla Toscana (soprattutto da un punto di vista religioso). Ritornerà nel granducato chiamato da Cosimo II come “primario matematico e filosofo”. Aveva in quello stesso anno pubblicato un’opera il Sidereus nuncius, in cui, grazie al telescopio, da lui perfezionato, aveva rese note le sue scoperte: le macchie lunari, le fasi di Venere e i satelliti di Giove. La Chiesa, di fronte alle scoperte di Galilei, mostra tutte le sue perplessità: infatti se alcuni gesuiti accettano le scoperte dello scienziato, molti altri si mostrano preoccupati per le ripercussioni che esse potrebbero avere in campo teologico. Galilei è convinto che far condividere il suo sapere a più gente possibile avrebbe convinto anche la Chiesa a prendere atto delle sue scoperte e per questo pubblica in volgare affinché le sue teorie possano raggiungere un più largo pubblico. Nel 1615 viene denunciato e le sue teorie sono considerate inconciliabili con la fede cattolica. Viene inoltre messa al bando, ufficialmente, la teoria “eliocentrica” copernicana e a Galilei non viene permesso di diffondere alcuna teoria che possa contrastare con quella ecclesiastica. L’elezione di Urbano VIII del 1623, papa intellettualmente aperto e vivace, suscitò nello scienziato fiorentino, nuove speranze; infatti è di questo periodo l’elaborazione e, in seguito, la pubblicazione dell’opera più importante di Galilei Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), in cui metteva a confronto il sistema tolemaico e quello copernicano. Nonostante il clima inaugurato dal pontefice sembrasse più tollerante, equilibri interni alla Chiesa stessa, il rigore contro ogni teoria eterodossa, fecero sì che Galilei comparisse di fronte al Tribunale dell’Inquisizione (1633) e lì abiurasse le proprie tesi, venne inoltre condannato al “carcere formale”. Segregato forzatamente nella sua dimora, sottoposto ad un controllo feroce, il nostro visse un periodo estremamente difficile, dovuto anche alla morte di sua figlia che amorosamente lo accudiva; ciò non gli impedì di far giungere in Olanda il frutto delle sue ricerche. Muore nel 1642.

La casa natale di Galileo Galilei, Pisa Podcast - Loquis

La produzione galileliana è completamente legata al suo percorso “scientifico” che conosce come tappe, per citare quelle più note, lo studio sull’oscillazione del pendolo, l’invenzione del cannocchiale, le macchie lunari e i satelliti di Giove. Tali conquiste non potevano passare inosservate da parte di chi deteneva nei paesi cattolici il sapere, cioè la Chiesa, soprattutto nel momento in cui la sua posizione è di difesa, di contro a qualsiasi novità che potesse metterne in crisi il potere. Siamo certi che le grandi intelligenze gesuitiche sapessero che le affermazioni dei più grandi scienziati erano veritiere: volevano soltanto che non fossero divulgate. 

Per i rapporti tra scienza e fede è importantissima una lettera che il nostro scrive al frate benedettino, suo allievo, il dicembre del 1613:  

A DON BENEDETTO CASTELLI IN PISA (Firenze, 21 dicembre 1613)

Molto reverendo Padre e Signor mio Osservandissimo,

(…) I particolari che ella disse, referitimi dal Sig. Arrighetti*, mi hanno dato occasione di tornar a considerare alcune cose in generale circa ‘l portar la Scrittura Sacra in dispute di conclusioni naturali ed alcun’altre in particolare sopra ‘l luogo di Giosuè**, propostoli, in contradizione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, dalla Gran Duchessa Madre, con qualche replica della Serenissima Arciduchessa.
Quanto alla prima domanda generica di Madama Serenissima, parmi che prudentissimamente fusse proposto da quella e conceduto e stabilito dalla P. V., non poter mai la Scrittura Sacra mentire o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed inviolabile verità. Solo avrei aggiunto, che, se bene la Scrittura non può errare, potrebbe nondimeno talvolta errare alcuno de’ suoi interpreti ed espositori, in varii modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo, quando volessero fermarsi sempre nel puro significato delle parole, perché così vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future. Onde, sì come nella Scrittura si trovano molte proposizioni le quali, quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero, ma son poste in cotal guisa per accomodarsi alI’incapacità del vulgo, così per quei pochi che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori produchino i veri sensi, e n’additino le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti.
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. Anzi, se per questo solo rispetto, d’accomodarsi alla capacità de’ popoli rozzi e indisciplinati, non s’è astenuta la Scrittura d’adombrare de’ suoi principalissimi dogmi, attribuendo sino all’istesso Dio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che ella, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra o di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i limitati e ristretti significati delle parole? E massime pronunziando di esse creature cose lontanissime dal primario instituto di esse Sacre Lettere, anzi cose tali, che, dette e portate con verità nuda e scoperta, avrebbon più presto danneggiata l’intenzion primaria, rendendo il vulgo più contumace alle persuasioni de gli articoli concernenti alla salute.
Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi, è ofizio de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri. Anzi, essendo, come ho detto, che le Scritture, ben che dettate dallo Spirito Santo, per l’addotte cagioni ammetton in molti luoghi esposizioni lontane dal suono litterale, e, di più, non potendo noi con certezza asserire che tutti gl’interpreti parlino inspirati divinamente, crederei che fusse prudentemente fatto se non si permettesse ad alcuno l’impegnar i luoghi della Scrittura e obbligargli in certo modo a dover sostenere per vere alcune conclusioni naturali, delle quali una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario. E chi vuol por termine a gli umani ingegni? chi vorrà asserire, già essersi saputo tutto quello che è al mondo di scibile? E per questo, oltre a gli articoli concernenti alla salute ed allo stabilimento della Fede, contro la fermezza de’ quali non è pericolo alcuno che possa insurger mai dottrina valida ed efficace, sarebbe forse ottimo consiglio il non ne aggiunger altri senza necessità: e se così è, quanto maggior disordine sarebbe l’aggiugnerli a richiesta di persone, le quali, oltre che noi ignoriamo se parlino inspirate da celeste virtù, chiaramente vediamo ch’elleno son del tutto ignude di quella intelligenza che sarebbe necessaria non dirò a redarguire, ma a capire, le dimostrazioni con le quali le acutissime scienze procedono nel confermare alcune lor conclusioni?
Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darei con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Però se i primi scrittori sacri avessero auto pensiero di persuader al popolo le disposizioni e movimenti de’ corpi celesti, non ne avrebbon trattato così poco, che è come niente in comparazione dell’infinite conclusioni altissime e ammirande che in tale scienza si contengono. (…)

Di Firenze, li 21 Dicembre 1613
Di Vostra Paternità molto Reverenda
Servitore Affezionatissimo
Galileo Galilei

*Alla corte del granduca Cosimo II de’ Medici si era tenuta una discussione intorno al problema tra scienza e fede, o meglio come conciliare le teorie del moto terrestre con alcuni passi biblici.
** “Fu allora che Giosuè si rivolse al Signore, in quel giorno in cui Dio diede l’Amorreo in potere d’Israele, e gridò al cospetto di tutto il popolo: «O sole, fermati su Gàbaon, e tu luna, sulla valle d’Aialon!» E il sole si fermò e la luna ristette, fino a che il popolo si fu vendicato dei suoi nemici”

File:Pulzone, Scipione - Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana - 1590.jpg - Wikipedia

Scipione Pulzone: Ritratto di Cristina Lorena

I particolari che lei disse, riportatimi dal signor Arrighetti, mi hanno offerto l’occasione per riconsiderare l’opportunità di servirsi delle Sacre Scritture quale autorità in merito a questioni scientifiche e soprattutto quel passo di Giosuè, proposto dalla granduchessa Madre (Cristina di Lorena, madre di Cosimo II), con qualche replica della Serenissima Arciduchessa (Maria Maddalena d’Austria, moglie di Cosimo II).  
Riguardo alla prima domanda generica della Arciduchessa, mi sembra che molto prudentemente fosse proposto dalla stessa e conceduto e stabilito dalla Paternità Vostra (Castelli stesso) che la Sacra Scrittura non può mai mentire ed errare, ma i suoi giudizi d’assoluta ed inviolabile verità. Solamente io avrei aggiunto che, sebbene la Scrittura non può errare, potrebbe talvolta sbagliare qualcuno dei suoi interpreti e divulgatori, in diversi modi: tra i quali uno sarebbe gravissimo e molto frequentato, quando si fermano al significato letterale, perché in questo modo si paleserebbero non solo contraddizioni, ma addirittura gravi eresie e bestemmie, dal momento che sarebbe necessario allora dare a Dio piedi, mani e occhi ed anche sensazioni fisiche e di natura umana come l’ira, il pentimento l’odio e talvolta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future. Per cui, siccome nella Bibbia ci sono molte affermazioni che se prese nel loro senso letterale non corrispondono al vero, ma sono così formulate per rendere comprensibili le verità agli intelletti ignoranti e ingenui del volgo, così rivolgendosi a coloro che per cultura si distinguono dalla plebe è necessario che gli studiosi della Bibbia dichiarino i veri significati e spieghino le ragioni per cui quelle verità siano state semplificate con quel linguaggio.
Siccome, dunque, la Scrittura in molti passi non solo è passibile di interpretazione, ma necessariamente ha bisogno di spiegazioni che vadano al di là dell’apparente senso letterale, mi pare che nelle discussioni scientifiche dovrebbe essere adottata come elemento di giudizio solo alla fine, poiché derivando entrambe dalla volontà divina, sia la Bibbia, che è stata ispirata dallo Spirito Santo, sia la natura, che è scrupolosissima esecutrice degli ordini di Dio; e siccome, inoltre, nella Scrittura è parso opportuno dire molte cose che all’apparenza e nel loro significato letterale non corrispondono alla verità, per venire incontro alle capacità di comprensione del popolo, mentre al contrario essendo la natura rigorosissima ed immutabile nel suo funzionamento e non curandosi affatto che le sue cause nascoste e i suoi meccanismi siano compresi o no dagli uomini, per cui essa non trasgredisce mai le leggi impostele da Dio; è evidente che tutto ciò che riguarda i fenomeni naturali, sia che ci venga dall’esperienza dei sensi, sia che venda dedotto per via di ragionamento e dimostrazioni matematiche, non debba essere messo in dubbio da quei passi della Scrittura che all’apparenza affermassero una verità diversa, poiché il modo d’esprimersi della Bibbia non è così rigoroso com’è il modo d’esprimersi della natura. Anzi, se per facilitare la comprensione delle genti rozze e ignoranti la Bibbia non si è astenuta dall’enunciare per via di metafora alcuni dei suoi più importanti dogmi, attribuendo perfino a Dio qualità del tutto estranee alla sua essenza, chi vorrà sostenere in tutta certezza che essa, accantonando la premura di facilitate la comprensione agli ignoranti, nel parlare anche solo di passaggio della Terra o del Sole e di altro fenomeno naturale, abbia scelto di usare le parole nel loro senso rigorosamente letterale? E soprattutto pronunciando in merito agli esseri creati affermazioni molto lontane dal principale e primo proposito delle Sacre Scritture, anzi cose tali che, fatte conoscere nel loro significato più profondo, avrebbero più facilmente, compromesso il raggiungimento dell’obbiettivo primario, rendendo il popolo restio a lasciarsi persuadere ad accettare gli insegnamenti riguardanti la salvezza dell’anima. Chiarito questo punto ed essendo ancora più evidente che due verità non possono contraddirsi, è compito dei divulgatori cercare di trovare il senso nascosto nei testi sacri che devono concordare con quell’evidenza naturale che la capacità sensoriale o le dimostrazioni scientifiche rende certa e sicura. Anzi, essendo le Scritture, sebbene ispirate dallo Spirito Santo, per le ragioni sopra dette ammettono in molti luoghi spiegazioni lontane dal semplice significato letterale e, per di più, non potendo noi asserire con certezza che tutti gli interpreti parlino con l’ispirazione divina, sarebbe opportuno  che non si usassero alcuni passi biblici per dimostrare come vere le verità della natura, che, una volta per via sensoriale o razionale, potrebbero rivelarci verità contrarie a quelle lette. E chi vuole porre un limite all’intelligenza umana? chi vorrà asserire che ormai si conosce già tutto quello che si dovrebbe conoscere? Ed è per questo, al di là degli insegnamenti concernenti la salvezza ed il rafforzamento della fede cristiana, sulla cui verità non può sorgere mai una dottrina valida ed efficace, sarebbe forse opportuno non aggiungere altri dogmi senza alcuna necessità: e se così dovesse essere, quanta maggiore confusione si creerebbe se ad aggiungere nuove verità su richiesta di persone che noi non sappiamo se ispirate dall’intelligenza divina che sarebbe necessaria non dico a correggere ma a capire le dimostrazioni che le acutissime scienze procedono nel confermare le loro conclusioni? Io credo che la Bibbia abbia come unico fine quello di convincere gli uomini di quei dogmi e di quelle verità soprannaturali, che essendo necessarie alla salvezza dell’anima e superando ogni comprensione umana, non possono essere comunicati da alcuna scienza, ma possono soltanto essere ispirati dallo Spirito Santo. Ma non credo sia necessario credere che lo stesso Dio, che ci ha dotato della capacità sensoriale, della parola e dell’intelligenza, abbia voluto, subordinando l’utilizzo di questi mezzi, darci attraverso altri strumenti, le nozioni che attraverso essi possiamo raggiungere e soprattutto riguardo quelle scienze delle quali si legge nelle Scritture una parte insignificante o con tesi non concordanti e frammentarie, come l’astronomia, di cui si parla talmente poco da non trovarsi nominati neppure i pianeti. Perciò se gli scrittori sacri avessero avuto l’intenzione d’insegnare la disposizione e i movimenti dei corpi celesti, non ne avrebbero parlato così poco che corrisponde quasi al niente rispetto alle conoscenze altissime e stupefacenti che in tale scienza si contengono.    

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Justus Sustermans: Ritratto di Maria Maddalena d’Austria

E’ una lettera fondamentale per capire la novità rivoluzionaria del pensatore toscano (la stessa che ebbe Machiavelli per la politica). Si parte dall’assunto che Galilei è sia cristiano che scienziato e che quindi crede in ambedue: tuttavia sono diverse le modalità con cui Dio ha scritto sia la verità di fede che la verità della natura; se la prima è stata trasmessa attraverso le parole le quali bisognano di una esegesi per poter essere comprese, la natura è oggettiva, diremo indifferente all’uomo; essa è nella sua evidenza e per comprenderne i meccanismi bisognano i sensi e l’obiettività razionale (matematica). La prima per essere compresa ha bisogno dell’allegoria, che certamente non si può applicare alla seconda. Infatti per Galilei il fine della Bibbia è diverso (e non contraddittorio) da quello scientifico: il primo ha il compito di guidare l’uomo sulla via della fede, insegnandogli i dogmi fondamentali della verità cristiana; il secondo ha il compito di conoscere, attraverso la facoltà dell’uomo di utilizzare ciò che Dio gli ha donato, la verità della sua creazione naturale. Galilei insomma afferma non solo che i due saperi non sono sovrapponibili, ma che, capovolgendo il metodo controriformista che aveva rimesso la teologia come sapere ultimo, sarebbe opportuno che gli esegeti della Bibbia cerchino d’accordarsi alla verità scientifica, innalzando quest’ultima al di sopra della stessa teologia. Infatti dimostrando l’inattendibilità di alcuni episodi biblici se non letti allegoricamente, l’attendibilità naturale non interpretata e quindi palesamente non veritiera, farà cadere completamente tutto l’impianto biblico. Dirà in un’altra lettera indirizzata a Cristina di Lorena che la fede insegna “come si vadia al cielo” mentre la scienza “come vadia il cielo”. 

La differenza tra fede e scienza viene sottolineata attraverso il metodo “sperimentale” inaugurato da Galilei: esso mostra l’imprescindibilità tra ragionamento matematico e sperimentazione concreta, in altre parole se la realtà viene metaforicamente concepita come un insieme di leggi matematiche, queste ultime potranno essere utilizzate per verificarne l’applicabilità ai fenomeni fisici ed astronomici. Ed è proprio matematicamente che si giustifica la teoria eliocentrica di Copernico.

Justus Sustermans: Ritratto di Galileo Galilei

L’opera in cui lo scienziato espone la validità del metodo sperimentale e della teoria eliocentrica è Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo in cui, attraverso un dialogo d’origine filosofica mostra e sottolinea la non scientificità della teoria geocentrica.

Il dialogo è suddiviso in quattro giornate; vengono presentati tre personaggi:

  • Il nobile fiorentino Salviati che propugna l’idea copernicana;
  • Simplicio fautore dell’aristotelismo;
  • Il nobile veneziano Sagredo, che si offre come mediatore tra i due.

Pur, per poter essere accettato, tenendo una “impostazione” neutrale, la chiave di volta del Dialogo è proprio nel personaggio di Sagredo: la sua volontà d’imparare, la sua voglia di conoscere, danno forza “scientifica” ai ragionamenti di Salviati, a cui Simplicio non può che contrapporre la “forza” dell’aristotelismo (a cui la teologia controriformistica torna a far riferimento). Ciò fa pendere, necessariamente, il discorso del Dialogo verso le teorie galileiane.

ELOGIO DELL’INTELLIGENZA

SAGR. Estrema temerità mi è parsa sempre quella di coloro che voglion far la capacità umana misura di quanto possa e sappia operar la natura, dove che, all’incontro, e’ non è effetto alcuno in natura, per minimo che e’ sia, all’intera cognizion del quale possano arrivare i più specolativi ingegni. Questa cosí vana prosunzione d’intendere il tutto non può aver principio da altro che dal non avere inteso mai nulla, perché, quando altri avesse esperimentato una volta sola a intender perfettamente una sola cosa ed avesse gustato veramente come è fatto il sapere, conoscerebbe come dell’infinità dell’altre conclusioni niuna ne intende.
SALV. Concludentissimo è il vostro discorso; in confermazion del quale abbiamo l’esperienza di quelli che intendono o hanno inteso qualche cosa, i quali quanto piú sono sapienti, tanto piú conoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il sapientissimo della Grecia, e per tale sentenziato da gli oracoli, diceva apertamente conoscer di non saper nulla.
SIMP. Convien dunque dire, o che l’oracolo, o l’istesso Socrate, fusse bugiardo, predicandolo quello per sapientissimo, e dicendo questo di conoscersi ignorantissimo.
SALV. Non ne seguita né l’uno né l’altro, essendo che amendue i pronunziati posson esser veri. Giudica l’oracolo sapientissimo Socrate sopra gli altri uomini, la sapienza de i quali è limitata; si conosce Socrate non saper nulla in relazione alla sapienza assoluta, che è infinita; e perché dell’infinito tal parte n’è il molto che ’l poco e che il niente (perché per arrivar, per esempio, al numero infinito tanto è l’accumular migliaia, quanto decine e quanto zeri), però ben conosceva Socrate, la terminata sua sapienza esser nulla all’infinita, che gli mancava. Ma perché pur tra gli uomini si trova qualche sapere, e questo non egualmente compartito a tutti, potette Socrate averne maggior parte de gli altri, e perciò verificarsi il responso dell’oracolo.
SAGR. Parmi di intender benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, è la potestà di operare, ma non egualmente participata da tutti: e non è dubbio che la potenza d’un imperadore è maggiore assai che quella d’una persona privata; ma e questa e quella è nulla in comparazione dell’onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono alcuni che intendon meglio l’agricoltura che molti altri; ma il saper piantar un sermento di vite in una fossa, che ha da far col saperlo far barbicare, attrarre il nutrimento, da quello scierre questa parte buona per farne le foglie, quest’altra per formarne i viticci, quella per i grappoli, quell’altra per l’uva, ed un’altra per i fiocini, che son poi l’opere della sapientissima natura? Questa è una sola opera particolare delle innumerabili che fa la natura, ed in essa sola si conosce un’infinita sapienza, talché si può concludere, il saper divino esser infinite volte infinito.
SALV. Eccone un altro esempio. Non direm noi che ’l sapere scoprire in un marmo una bellissima statua ha sublimato l’ingegno del Buonarruoti assai sopra gli ingegni comuni degli altri uomini? E questa opera non è altro che imitare una sola attitudine e disposizion di membra esteriore e superficiale d’un uomo immobile; e però che cosa è in comparazione d’un uomo fatto dalla natura, composto di tante membra esterne ed interne, de i tanti muscoli, tendini, nervi, ossa, che servono a i tanti e sí diversi movimenti? Ma che diremo de i sensi, delle potenze dell’anima, e finalmente dell’intendere? non possiamo noi dire, e con ragione, la fabbrica d’una statua cedere d’infinito intervallo alla formazion d’un uomo vivo, anzi anco alla formazion d’un vilissimo verme?
SAGR. E qual differenza crediamo che fusse tra la colomba d’Archita ed una della natura?
SIMP. O io non sono un di quegli uomini che intendano, o ’n questo vostro discorso è una manifesta contradizione. Voi tra i maggiori encomii, anzi pur per il massimo di tutti, attribuite all’uomo, fatto dalla natura, questo dell’intendere; e poco fa dicevi con Socrate che ’l suo intendere non era nulla; adunque bisognerà dire che né anco la natura abbia inteso il modo di fare un intelletto che intenda.
SALV. Molto acutamente opponete; e per rispondere all’obbiezione, convien ricorrere a una distinzione filosofica, dicendo che l’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n’abbia l’intessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore.
SIMP. Questo mi pare un parlar molto resoluto ed ardito.
SALV. Queste son proposizioni comuni e lontane da ogni ombra di temerità o d’ardire e che punto non detraggono di maestà alla divina sapienza, sí come niente diminuisce la Sua onnipotenza il dire che Iddio non può fa-re che il fatto non sia fatto. Ma dubito, signor Simplicio, che voi pigliate ombra per esser state ricevute da voi le mie parole con qualche equivocazione. Però, per meglio dichiararmi, dico che quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l’istessa che conosce la sapienza divina; ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche, è sommamente piú eccellente del nostro, il quale procede con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di un semplice intuito: e dove noi, per esempio, per guadagnar la scienza d’alcune passioni del cerchio, che ne ha infinite, cominciando da una delle piú semplici e quella pigliando per sua definizione, passiamo con discorso ad un’altra, e da questa alla terza, e poi alla quarta, etc., l’intelletto divino con la semplice apprensione della sua essenza comprende, senza temporaneo discorso, tutta la infinità di quelle passioni; le quali anco poi in effetto virtualmente si comprendono nelle definizioni di tutte le cose, e che poi finalmente, per esser infinite, forse sono una sola nell’essenza loro e nella mente divina. Il che né anco all’intelletto umano è del tutto incognito, ma ben da profonda e densa caligine adombrato, la qual viene in parte assottigliata e chiarificata quando ci siamo fatti padroni di alcune conclusioni fermamente dimostrate e tanto speditamente possedute da noi, che tra esse possiamo velocemente trascorrere: perché in somma, che altro è l’esser nel triangolo il quadrato opposto all’angolo retto eguale a gli altri due che gli sono intorno, se non l’esser i parallelogrammi sopra base comune e tra le parallele, tra loro eguali? e questo non è egli finalmente il medesimo che essere eguali quelle due superficie che adattate insieme non si avanzano, ma si racchiuggono dentro al medesimo termine? Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l’intender nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle piú eccellenti.
SAGR. Io son molte volte andato meco medesimo considerando, in proposito di questo che di presente dite, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano; e mentre io discorro per tante e tanto maravigliose invenzioni trovate da gli uomini, sí nelle arti come nelle lettere, e poi fo reflessione sopra il saper mio, tanto lontano dal potersi promettere non solo di ritrovarne alcuna di nuovo, ma anco di apprendere delle già ritrovate, confuso dallo stupore ed afflitto dalla disperazione, mi reputo poco meno che infelice. S’io guardo alcuna statua delle eccellenti, dico a me medesimo: “E quando sapresti levare il soverchio da un pezzo di marmo, e scoprire sí bella figura che vi era nascosa? quando mescolare e distendere sopra una tela o parete colori diversi, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelagnolo, un Raffaello, un Tiziano?”. S’io guardo quel che hanno ritrovato gli uomini nel compartir gl’intervalli musici, nello stabilir precetti e regole per potergli maneggiar con diletto mirabile dell’udito, quando potrò io finir di stupire? Che dirò de i tanti e sí diversi strumenti? La lettura de i poeti eccellenti di qual meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzion de’ concetti e la spiegatura loro? Che diremo dell’architettura? che dell’arte navigatoria? Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi piú reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? e con qual facilità? con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta. Sia questo il sigillo di tutte le ammirande invenzioni umane, e la chiusa de’ nostri ragionamenti di questo giorno: ed essendo passate le ore piú calde, il signor Salviati penso io che avrà gusto di andare a godere de i nostri freschi in barca; e domani vi starò attendendo amendue per continuare i discorsi cominciati, etc.

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Edizione del 1632

Sagr.: Mi sembra estremamente temerario prendere l’estensione della capacità intellettiva umana come misura di quanto possa e sappia fare la natura, mentre, al contrario, non esiste fenomeno naturale, per minimo che sia, alla cui piena comprensione possano arrivare le persone inclini alla speculazione filosofica. Questa inutile presunzione di voler capire il tutto, non può avere che origine dal non aver capito mai nulla, perché, quando qualcuno avesse provato anche una sola volta a capire perfettamente un’unica cosa ed avesse sperimentato una sola volta, cosa significa sapere, capirebbe come non saprebbe nulla delle infinite altre cose.
Salv.: Perfettamente coerente e persuasivo è il vostro discorso; a conferma del quale abbiamo l’esperienza di coloro che capiscono e hanno capito qualcosa, i quali, quanto più sanno, tanto più riconoscono e liberamente confessano di saper poco; ed il più sapiente della Grecia (Socrate), e per tale indicato dagli oracoli, diceva apertamente di non sapere nulla.
Simp.: Si deve dunque dire, o che l’oracolo, o che Socrate stesso, fosse bugiardo, indicandolo uno come il più sapiente e dichiarando il filosofo di riconoscersi estremamente ignorante.
Salv.: Non ne deriva necessariamente né l’una né l’altra conclusione, dal momento che tutti e due gli enunciati possono essere veri. L’oracolo giudica Socrate il più sapiente tra gli uomini, la cui sapienza è limitata; riconosce Socrate di non saper nulla rispetto alla sapienza assoluta, che è infinita; e considerato che il molto, il poco e il niente sono uguali riguardo l’infinito (perché per giungere, ad esempio, al numero infinito ha lo stesso effetto sommare le migliaia, le decine e gli zeri), per questo riconosceva Socrate la sua sapienza finita esser nulla rispetto all’infinita, che non possedeva. Ma dal momento che tra gli uomini vi è qualche sapere, e questo non è ugualmente distribuito a tutti, Socrate ne poté avere più degli altri, e perciò il responso degli oracoli è veritiero.
Sagr.: Mi sembra di capire benissimo questo punto. Tra gli uomini, signor Simplicio, si trova la facoltà di operare, ma non è ugualmente condivisa da tutti. Non c’è dubbio che la potenza di un imperatore è assai maggiore rispetto a quella di un cittadino privato; ma sia la prima che la seconda sono un nulla rispetto all’onnipotenza divina. Tra gli uomini vi sono quelli che comprendono meglio l’agricoltura di molti altri; ma saper piantare un tralcio di vite in una fossa, che cosa ha a che fare col saperlo far radicare, concimare, scegliere da quel tralcio una parte buona per farne foglie ed un’altra per farne semi, un’altra ancora per formare i viticci, e ancora per i grappoli, e per l’uva e per i semi dell’uva, che son tutte opere della sapientissima natura? Questa è una sola cosa particolare che fa la natura, e ad essa sola si riconosce infinita sapienza; quindi si può concludere che il saper divino è infinitamente infinito.
Salv.: Ecco un altro esempio. Non diremo noi che il saper scoprire in un pezzo di marmo una statua ha elevato l’ingegno di Buonarroti molto di più al di sopra degli ingegni degli altri uomini? E questa operazione non è altro che imitare un solo atteggiamento e il disporre le membra esteriormente e superficialmente in un’immagine d’uomo immobile; e questo che cosa è in confronto d’un uomo nato dalla natura, composto da tanti organi interni ed esterni, di tanti muscoli, tendini, nervi ed ossa, che servono a svariasti movimenti? Ma che cosa dire dei sentimenti e delle facoltà dell’anima e, per ultimo, della sua capacità intellettiva? Non possiamo noi dunque dire, e con ragione, che la realizzazione di una statua è infinitamente inferiore alla realizzazione di un uomo vivo, anzi, di più, alla realizzazione di un vilissimo verme?
Sagr.: E che differenza potremo trovare tra la colomba meccanica di Archita ed una vera e naturale?
Simp.: O io non sono una persona intelligente o in questo vostro discorso c’è una palese contraddizione. Voi, fra i maggiori apprezzamenti, anzi il più grande, attribuiti all’uomo, donatogli dalla natura, indicate quello della capacità intellettiva. Ma poco fa affermavate che il sapere di Socrate non valeva nulla; dunque bisognerà ammettere che neanche la natura abbia capito il modo con cui realizzare un intelletto che tutto intenda.
Salv.: La vostra obiezione è molto opportuna, e per risponderle è necessario ricorrere ad una distinzione filosofica, affermando che ci sono due modi per conoscere, cioè intensive (intensamente, in profondità) oppure extensive (per quantità), per quanto riguarda la quantità delle cose da conoscere che sono infinite, la capacità umana è nulla, per quanto essa possa accogliere mille concetti, perché mille rispetto all’infinito equivale a zero; ma riferendoci alla capacità intensive, in quanto tale termine contiene in sé l’intensità, cioè la perfezione, possiede in sé un’assoluta certezza, quanta ne ha la natura (Dio) stessa; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè l’aritmetica e la geometria, delle quali certamente l’intelletto divino ne sa di più, perché le conosce tutte; ma quei concetti che ha appreso l’intelletto umano, credo che loro comprensione pareggi quella divina nella certezza della loro obiettività, poiché arriva a capirne la necessità (sono come sono e non possono essere altrimenti), e sulle quali non sembra poterci essere maggiore sicurezza.
Simpl.: Questo mi sembra un argomentare risoluto e temerario.
Salv.: Queste sono affermazioni comuni e assai lontane dalla temerarietà o risolutezza e non tolgono nulla alla maestà divina, così come non diminuisce la sua onnipotenza il dire che Dio non  può fare che le cose non siano accadute. Ma temo, signor Simplicio, che voi vi preoccupiate per aver ricevuto le mie parole con qualche equivoco. Perciò, per meglio illustrare ciò che voglio dire, affermo che quanto alla verità di cui ci offrono la conoscenza le dimostrazioni matematiche, questa è la stessa che conosce la sapienza divina; ma pur vi concederò che il modo con cui Dio conosce le infinite proposizioni, di cui noi ne possediamo solo poche, è estremamente più eccellente del nostro, che procede per dimostrazioni  e passaggi, di conclusione in conclusione, mentre il Suo modo di conoscere è puramente intuitivo: e dove noi, per esempio, per acquisire la conoscenza di alcune proprietà del cerchio, che ne possiede infinite, cominciando da quella più semplice e prendendola come sua definizione, passiamo da questa ad un’altra, quindi alla terza e poi alla quarta, ecc.; l’intelletto divino con la semplice intuizione della sua essenza, comprende, senza un percorso logico che si dipana nel tempo, tutta l’infinità delle sue proprietà, le quali, poi, sono anche potenzialmente contenute nelle definizioni di tutte le cose, e che poi essendo infinite, forse sono una sola cosa nella loro essenza e nella mente di Dio. Il che neanche nella mente dell’uomo è del tutto sconosciuto, ma è offuscato da una spessa e densa nebbia, la quale viene in parte diradata e resa più chiara quando padroneggiamo alcune conclusioni fermamente dimostrate e possedute in modo immediato da noi, che, tra esse, possiamo velocemente superarle: perché insomma che altro è (quando) nel triangolo il quadrato (costruito sul lato) opposto all’angolo retto uguale agli altri due (costruiti sui cateti) che gli sono intorno, e, allo stesso modo, quando due parallelogrammi hanno la base comune e le altezze uguali? e questo non è lo stesso che dire c’è equivalenza tra due superfici che combaciano se sovrapposte e che hanno la stessa estensione?  Ora tutti questi passaggi, che l’intelletto nostro acquista nel tempo e nello spazio, l’intelletto divino, come la luce, li supera in un attimo, che è lo stesso che dire che li ha sempre tutti presenti. Pertanto concludo che il nostro modo di arrivare alla conoscenza, in quanto al come ci arriviamo e al numero delle cose da noi conosciute, è infinitamente superata dalla conoscenza divina; ma non per questo la svaluto tanto da reputarla assolutamente nulla; anzi, quando considero quante e così meravigliose cose hanno studiato e operato gli uomini, molto chiaramente riconosco e capisco che la mente umana è opera di Dio, e delle più eccellenti.
Sagr.: Molte volte ho considerato, a proposito di quanto state dicendo, quanto grande sia l’acutezza dell’ingegno umano e mentre ripasso nella mia mente così tante meravigliose invenzioni trovate dagli uomini, così nelle arti in genere come nella letteratura, e poi rifletto sulle cose che so, e sentendomi così lontano dal poter solo aggiungere qualcosa di nuovo, ma anche di apprendere quelle già trovate, confuso dallo stupore e afflitto dalla disperazione, mi sento, a dir poco, infelice. E se io guardo qualche statua delle più eccellenti, dico a me stesso: “E quando potresti svelare dietro un pezzo di marmo, e scoprire, quindi, una così bella forma, che in esso era nascosta?, quando (sapresti) mescolare e stendere sopra una tela o su di una parete diversi colori, e con essi rappresentare tutti gli oggetti visibili, come un Michelangelo, un Raffaello, un Tiziano?”. Se io osservo quello che hanno ritrovato gli uomini nel suddividere in modo armonico gli spazi musicali, nello stabilire regole e precetti per poterli usare con gioia infinita dell’udito, quando potrò smettere di meravigliarmi? Che dire di così tanti e diversi strumenti? La lettura dei grandissimi poeti, di quale meraviglia riempie chi attentamente considera l’invenzione retorica e il suo sviluppo? E ancora che dire dell’architettura? Cosa dell’arte della navigazione? Ma tra tutte le straordinarie invenzioni, quale somma mente fu quella di chi immaginò il modo di comunicare i suoi più nascosti pensieri a qualsiasi altra persona, benché distante nello spazio e nel tempo? Comunicare con quelli che stanno nelle Indie, parlare con chi non è ancora nato né nasceranno se non fra mille o diecimila anni? E con quale facilità! Basta mettere insieme venti piccoli caratteri da niente sopra un foglio di carta. Sia questo il sigillo di tutte le cose ammirevoli dell’uomo ed il termine dei nostri ragionamenti in questa giornata; ed essendo già passate le ore più calde, credo che il signor Salviati avrà piacere di prendere un po’ di fresco su una gondola per i canali veneziani, e domani starò qui ad aspettarvi per riprendere i discorsi cominciati…

File:Félix Parra - Galileo Demonstrating the New Astronomical Theories at the University of Padua - Google Art Project.jpg - Wikimedia Commons

Félix Parra – Galileo Demonstrating the New Astronomical Theories at the University of Padua

L’opposizione della Chiesa a quest’opera (e a tutto il pensiero galileiano che quest’opera racchiudeva) fu ferma e netta, costringendo il nostro ad una formale abiura. In senso generale, ciò che disturbava la Chiesa era:

  • il logico rifiuto alla teoria eliocentrica che metteva, in ultima analisi, in dubbio la verità della Bibbia e l’aver utilizzato una branca del sapere, quella matematica, come unica capace d’interpretare il mondo al posto della regina del sapere che doveva continuare ad essere la teologia;
  • il relativismo della verità che, in quanto sperimentale, si offriva a nuove sperimentazioni e quindi a nuovi livelli interpretativi.

File:Galileo before the Holy Office - Joseph-Nicolas Robert-Fleury, 1847.png - Wikipedia

Nicolas Fleury Galileo di fronte al Santo Uffizio (1847)

Torquato Accetto con il trattato Della dissimulazione onesta ci offre un testo che, riscoperto nel 1928 da Benedetto Croce, appare oggi come un capolavoro della prosa secentesca. Secondo l’autore la dissimulazione è in sé una scelta morale, in quanto il suo fine è quello di non subir danno, piuttosto che quello di far credere ciò che non è. Simulare è porre un velo per nascondere, a ciò si è costretti da una società formalistica e vuota come quella del ’600. D’altra parte anche la natura dissimula, non mostrandoci, o meglio velando il comune destino di morte. Attraverso questo velo essa non solo si “nasconde” ma anche protegge la sua bellezza.

Torquato Accetto. Della Dissimulazione Onesta - copertina

Edizione del 1943

Grande importanza ha, da un punto di vista storiografico l’opera del veneziano Paolo Sarpi: Istoria del Concilio tridentino (1619). Paolo Sarpi si era contrapposto alla Chiesa quando quest’ultima aveva richiesto l’estradizione da Venezia di due sacerdoti accusati di reati comuni. Il nostro, investito dal Senato veneziano, aveva ribadito l’incongruenza dell’intervento ecclesiastico in quanto i reati non riguardavano la sfera religiosa ma quella civile. Questa presa di posizione permise al nostro di approfondire le problematiche esistenti all’interno della Chiesa che egli analizzò nel suo capolavoro:

  • L’Istoria del Concilio tridentino mette in luce l’occasione mancata dalla Chiesa per riformarsi secondo i dettati evangelici: essa, invece si era cristallizzata in una forma gerarchica e di potere, tracciando in questo modo un solco difficilmente colmabile tra i paesi riformati ed essa stessa;
  • Il forte moralismo, la ricerca della verità, uno stile asciutto ed aderente alle cose (il nostro era amico di Galileo Galilei) fanno sì che questo testo si colleghi maggiormente alla Storia d’Italia di Guicciardini che alla temperie propriamente barocca, quasi fosse un baluardo della ragione di contro all’ipocrisia e al vuoto magniloquente di tanta cultura contemporanea.

File:Paolo Sarpi 2.jpg - Wikimedia Commons

Paolo Sarpi

Ci leggiamo l’introduzione all’opera:

INTRODUZIONE 

Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino, perché, quantonque molti celebri istorici del secol nostro nelli loro scritti n’abbiano toccato qualche particolar successo, e Giovanni Sleidano, diligentissimo autore, abbia con esquisita diligenza narrate le cause antecedenti, nondimeno, poste tutte queste cose insieme, non sarebbono bastanti ad un’intiera narrazione.
Io immediatamente ch’ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero, et oltre aver letto con diligenza quello che trovai scritto e li publici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercar nelle reliquie de’ scritti de prelati et altri nel concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate e li voti, cioè pareri detti in publico, conservati dagli auttori proprii o da altri, e le lettere d’avisi da quella città scritte, non tralasciando fatica o diligenzia, onde ho avuto grazia di vedere sino qualche registri intieri di note e lettere di persone ch’ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo adunque tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abbondante materia per la narrazione del progresso, vengo in risoluzione di ordinarla.
Racconterò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di 22 anni per diversi fini e con varii mezi, da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differrita, e per altri anni 18 ora adunata, ora di-sciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortita forma e compimento tutto contrario al dissegno di chi l’ha procurata et al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento di rasignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana.
Imperoché questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che principiava a dividersi, per contrario ha cosí stabilito lo schisma et ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior deformazione che sia mai stata doppo che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente, et interessati loro stessi nella propria servitú; ma temuto e sfugito dalla corte di Roma come efficace mezo per moderare l’essorbitante potenza, da piccioli principii pervenuta con varii progressi ad un eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggietta, che non fu mai tanta, né cosí ben radicata.
Non sarà perciò inconveniente chiamarlo la Illiade del secol nostro, nella esplicazione della quale seguirò drittamente la verità, non essendo io posseduto da passione che mi possi far deviare.

Edizione del 1757

Ho intenzione di scrivere la storia del concilio tridentino (di Trento) poiché sebbene molti celebri storici di questo secolo, nei loro scritti, abbiano toccato qualche avvenimento particolare di esso, e Giovanni Sleidano (Johann Philippson, cosiddetto perché nato a Sleiden, presso Colonia), eccellentissimo autore, abbia con squisita profondità gli avvenimenti che portarono alla convocazione del concilio, nondimeno, quand’anche fossero tutti raccolti insieme, non si avrebbe una storia complessiva (dell’avvenimento).
Io non appena ebbi il piacere di conoscere le decisioni degli uomini, fui preso da curiosità di conoscerle nella loro interezza, e, oltre ad aver letto con attenzione ciò che trovai scritto, sia i documenti stampati che vergati a penna, mi misi a ricercare quello che restava negli scritti dei prelati e di altri intervenuti al concilio, e le lettere ufficiali, scritte da quella città, non tralasciando nulla per fatica e con diligenza, per cui ho avuto l’onore di vedere perfino registri interi pieni di annotazioni e di lettere di gente che ebbero gran parte in quegli affari. Ora, avendo raccolto così tante cose, che mi possono offrire sovrabbondante materia per la narrazione ed il suo sviluppo, mi accingo ad esporla con ordine.
Racconterò le cause ed i maneggi di una convocazione ecclesiastica nel corso di 22 anni, con diversi fini e diversi mezzi, da chi voluta e sollecitata, da chi impedita e procrastinata, e per altri 18 anni, ora radunata, ora disciolta, sempre celebrata con diverse finalità, e che ha avuto natura e risultato completamente contrari dal proponimento di chi l’ha bandita e dal timore di chi l’ha temuta e fortemente osteggiata; chiara testimonianza per rimettersi con rassegnazione alla volontà di Dio, non fidandosi dell’operare umano.
Sebbene questo concilio, desiderato e messo in pratica dagli uomini pii, per riunire la Chiesa, che cominciava a dividersi (tra cattolici e protestanti), tuttavia, al contrario, ha radicalizzato lo Scisma e rese ostili le due parti, rendendo la divisione irreversibile; strumentalizzato dai sovrani per intervenire all’interno delle cose ecclesiastiche, ha causato il maggior disordine, che si sia mai visto dalla nascita del cristianesimo; e adoperato dai vescovi per riacquistare la loro autorità, passata in gran parte al solo pontefice, gliela tolta tutta, riducendo i vescovi a maggior servitù del papa stesso; ma (tale concilio) temuto e sfuggito dalla corte di Roma per limitare l’esorbitante potenza dei piccoli principi, che col passar del tempo era di-ventata illimitata, ha confermato la sua (del papa) potenza sopra i paesi dichiaratasi cattolici, come mai.
Così non sarà sconveniente definirla la Iliade del nostro secolo, nell’esposizione della quale seguirò direttamente la verità non essendo posseduto da alcuna passione che mi possa sviare.

E’ evidente che la pagina di Sarpi, nonostante dichiari nella esplicazione della quale seguirò drittamente la verità, non essendo io posseduto da passione che mi possi far deviare, mostri come l’autore voglia sottolineare la “mancata” voglia di riformare che la Chiesa ha mostrato. Il suo libro è infatti un’opera “militante” che sottolinea la piega autoritaria, non dialogante, anzi “arrogante”, che non ha risolto il conflitto tra protestanti e cattolici, ma l’ha solo sancito. Bisogna aggiungere, tuttavia, che Paolo Sarpi non approderà mai ad una rottura con la Chiesa, in quanto rimarrà fedele alla sua teologia, ciò che rimarca è la mancata volontà di “riformarsi”.

Tommaso Campanella - Wikipedia

Ritratto di Tommaso Campanella

Tommaso Campanella è un filosofo, la cui vita è indice di un’età che nega la libertà e l’anelito verso essa. Domenicano, fu più volte incarcerato per le sue idee eterodosse e più volte rimesso in libertà per volontà di alcuni mecenati. Il suo pensiero si esprime attraverso vari generi, fra cui anche quello più prettamente lirico. La sua opera più importante è La città del sole; in quest’opera disegna una società “utopica”, in cui viene cancellata la proprietà privata (anche quella delle mogli e dei figli) e guidata da un re-sacerdote, il Metafisico, e da tre magistrati. Il re rappresenta l’Universo che è Dio, essendo sapienza, potenza e amore.

Il teatro

Il teatro ha, nel ’600 un’importanza enorme. Esso infatti incarna:

  • lo spirito del tempo grazie alle sue scenografie e la sontuosità esteriore;
  • l’immaginario barocco grazie al quale il teatro si fa metafora della vita, ma lo stesso mondo diventa un palcoscenico teatrale in cui si rappresenta la vita;
  • il fine controriformistico di educare le masse attraverso storie edificanti e meravigliose.

L’apporto teatrale italiano nelle cultura europea fu estremamente ambivalente: figlio del teatro umanistico, con la ripresa dei modelli plautini e/o terenziani, esso veniva letto o semi rappresentato in spazi ristretti, che potevano essere l’interno delle corti o addirittura di palazzi signorili. La distinzione tra teatro elitario e teatro come fatto scenico si protrae in quei generi piuttosto tradizionali, come la tragedia o la commedia. Per quanto riguarda la tragedia, così fortemente legata alle regole aristoteliche delle tre unità (di tempo, di luogo e d’azione), l’unico nome di una certa rilevanza è quello di Federico Della Valle.

Tutte le opere - Federico Della Valle - Libro Usato - Mondadori - i classici moadori | IBS

Edizione del 1957 delle opere di Federico della Valle

Federico Della Valle (1560-1924),  si legò dapprima alla corte Sabauda e se ne allontanò in polemica con la politica espansionistica del piccolo Stato per passare il resto della vita a Milano, sotto il diretto controllo del governo spagnolo. Il suo teatro, centrato principalmente intorno a figure femminili, mostrano un senso cupo dell’esistenza, venato da un fondo pessimistico che vede nel contrasto tra l’agire dell’uomo e il potere un motivo d’estremo disinganno. Questa dicotomia si inserisce all’interno di una profonda cultura cattolica, che la risolve nell’accettazione severa e piena d’angoscia della volontà di Dio. Tale contrasto è palese nel suo capolavoro, La reina di Scozia:

MARIA STUARDA AL PATIBOLO

MAGGIORDOMO
Appoggiata al mio braccio,
come partir di qui vista l’avete,
con la sinistra man, anzi con tutte
le membra che da sé si reggean male,
salito ha lunga scala; e in salendo,
con bassa voce, ma con alto affetto
espresso nei sospiri,
pregava et invocava il Padre e ‘l Figlio,
lor rimembrando la pietà infinita,
la bontà eterna, il sangue e l’aspra morte
e i merti de la Madre,
che fu Vergine sempre. Indi salita
a la sala crudel, veduto ha incontro
orribile apparecchio. Alto s’ergeva
per non so quanti gradi, intorno cinto
e coperto di panni oscuri e neri,
un catafalco, e ‘n mezzo a duo gran faci
pendea da sottil corda, in fra duo legni
ampio ferro lucente. Èssi fermata
alquanto a rimirar; indi, rivolta
a me, che non avea spirto né sangue,
e la reggea tremante: «Eccoti» ha detto
«la real pompa e ‘l seggio di reina
di duo gran regni a un tempo. Così piace, 
amico, a Chi creommi e così sia.»
(…)

«Credo», ha detto la cara mia reina,
«credo» ha detto «che qui, fra tanti e tanti,
uniti a rimirar la morte mia,
alcun v’avrà, che con pietà risguardi
la tragedia crudel de la mia vita
e lo stato terribile et indegno,
ov’io sono condotta, ov’è condotta
una donna innocente, una reina
e di Scozia e di Francia, e giusta erede
d’Inghilterra, ov’io moro. A ciò m’han tratta
la poca fede altrui e la mia molta
credulità; se credula può dirsi
donna che crede a donna,
la qual prega e scongiura;
e reina a reina,
la qual promette e giura;
e nepote, che crede ad una zia
non offesa giammai, ma sempre amata
et onorata sempre. E veramente
non ha la fé luogo sicuro in terra,
poich’a me manca quella fé in quel petto
ch’a me sì ferma la promise. Pure,
il ridirlo che giova? O pur che giova
il dolersi nel punto ov’io mi trovo,
in cui convien morir? Iddio pietoso
a chi offende perdoni et a l’offesa,
la qual son io; ma quanto giustamente,
le colpe udite e giudicatel voi.
(…)
Ed eccomi a morire”.

CORO
Accetti Dio ‘l tuo sangue,
o martire reina
a sua gloria et a tua:
la qual, poich’è sicura,
teco allegrarmi, teco, ahimé devrei.
Ma troppo, troppo è ‘l danno
di restar io qui senza te, mia duce,
mio sostegno e conforto.

MAGGIORDOMO
Prende vigor quest’alma
in pensar ch’ella siede ora beata
fra le genti beate.
Giunta al fine di queste sue parole,
s’è rivolta al supplicio, e,
rimirando il ferro,
fermata alquanto, è parsa inorridirsi;
e fra l’orror gli occhi ha rivolti al cielo,
sì fissi che parea che ‘n ciel volesse
figger anco se stessa. Alto sospiro
è stato il fin del breve rapimento,
e s’è mossa qual uom che ‘l sonno lassi;
e, serratasi al petto
la croce, che pur sempre ha ritenuto
ne la man destra, con la manca mano
ha cominciato a sciôrsi intorno al collo
la vesta e, sciolta a ripiegarla indietro;
né potendolo far agevolmente
da se medesma, il manigoldo fiero
stesa ha la man per aiutarla; et ella:
«Amico, ha detto, questo a te non tocca:
mano men lorda il faccia».

CORO
O regio sangue,
come ritieni in su’l morir gli spirti
nobili, eccelsi!

MAGGIORDOMO 
Era su’l fero palco,
in disparte una donna,
moglie, cred’io, d’alcun dei guardiani;
a lei s’è volta, e con benigno modo
e con la bocca tinta anco di riso,
«Sorella», ha detto, «prendi tu la noia
d’aiutarmi a morir; ripiega, prego,
la vesta e ‘l velo che la gola cinge,
e dàlla nuda al ferro». Lacrimosa
s’è la femina mossa e riverente
ha nudato il bel collo.

CAMERIERA
Ahi collo, ahi gola,
quante volte t’ornâr queste mie mani
di bianchissime perle, e quante vidi
il lor candor vinto dal tuo candore!
Or t’ha tronco aspro ferro, e tetro sangue
t’è orrido monile.

MAGGIORDOMO
Indi con sol duo passi s’è accostata
a la terribil falce, che ‘n mirarla
spirava orror, sì ampia e sì radente;
e ginocchion s’è posta. La pietosa
donna, traendo da la vesta un panno
bianco, sottil, l’ha ripiegato in giro
e, tremante e piangente, sopra gli occhi
gliel’ha annodato; e, mentre il nodo stringe,
la mia reina dice: «Grazie a Dio,
ch’io trovo in Inghilterra chi m’aiti,
e chi m’abbia pietà. Ma tu, sorella,
se t’è cara mercede, o segno almeno
d’animo grato in infelice donna,
abbracciami ti prego: ecco t’abbraccio,
per segno che m’è cara l’opra tua;
e lasciami morir». Così le ha cinto
il collo caramente e l’ha baciata.
Quinci, alzata la fronte inverso il cielo,
s’è ferma alquanto et umilmente poscia
abbracciata la Croce, il collo ha steso
sotto l’orrida falce.

CORO
Ahi, che si parte
il cor imaginando!

MAGGIORDOMO
Il fier ministro,
in rimirarla tale, ha tronco tosto
la corda, onde pendeva il mortal ferro;
il qual precipitando s’è sommerso
ne le candide carni, in quel bel collo.
Così, stese le membra da una parte
e da l’altra la testa, ella è rimasa
cadavero tremante, onde si sgorga
per grosse canne il sangue; e s’è veduta
la dolcissima bocca,
con trar gli spirti estremi,
riaprirsi e serrarsi, graziosa
anco nei moti de la morte orrenda.

CAMERIERA
Ahi cielo; a qual dolor, lassa, mi serbi,
se questo non m’occide?

CORO 
Moristi, ahimé, moristi,
o bellissima donna,
o dolcissima e cara,
o reina, o padrona.
Noi che farem? Dove n’andrem? Che fie
di questa amara vita che ci avanza?
Piangiam, sorelle, ohimé,
ché giustissimo è ‘l pianto
di chi tante sventure insieme accoglie
sovra debili spalle.
Piango la morte altrui,
piango la vita mia,
piango l’aspra ruina
de la mia patria amata!

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Francesco Hayez: Maria Stuarda sale sul patibolo (1857)

MAGGIORDOMO: L’avete vista andare via da qui, appoggiata al mio braccio con la mano sinistra, anzi con tutto il suo fragile e vacillante corpo ed ha salito la lunga scala (del patibolo); e nel salire pregava ed invocava Dio Padre e Gesù, ricordando la loro pietà infinita, l’eterna misericordia, il sangue di Cristo e la morte crudele e i meriti della Madonna, che rimase sempre vergine. Quindi salita sulla scala che la conduceva ad una morte crudele, ha visto di fronte a sé l’orribile patibolo. Si innalzava in alto non so per quanti gradini, circondato da stoffe scure e nere, un catafalco, e in mezzo a due candelabri, pendeva una corda sottile, che sosteneva una lama lucente. (La donna) si è fermata a riguardarla, quindi rivolta a me che ero rimasto senza fiato e raggelato dalla paura, reggendo tremando, ha detto: «Eccoti il fasto reale e la sedia regale della regina Di Francia e di Scozia. Questo vuole, Colui che mi ha messo al mondo, e così sia». (…)  Ha detto la mia regina: «Credo che qui, tra tanta gente convenuta ad osservare la mia morte, vi sarà alcuno che guardi con pietà la crudele tragedia della mia vita e lo stato terribile ed indegno a cui sono ridotta, dove è portata una donna innocente, una regina di Francia e di Scozia e giusta erede d’Inghilterra, dove io muoio. A ciò mi hanno portato la poca fede d’Elisabetta d’Inghilterra e la mia troppa credulità; se ingenua può definirsi una donna che crede ad una donna che prega e scongiura; e la regina alla regina che promette e giura ed una nipote che crede alla zia (Elisabetta), mai offesa, ma sempre rispettata ed onorata da me. E veramente non esiste fedeltà sulla terra, dal momento che mi manca quella fedeltà che mi era stata promessa. Eppure il ripeterlo ora a cosa serve? Oppure a che serve il dolersi nello stato in cui mi trovo in cui devo morire? Dio perdoni a chi mi offende e a me offesa, ma le mie colpe giudicatele voi. (…) Sono pronta a morire. CORO: Dio accetti il tuo sacrificio, o martire regina, per la sua gloria e la tua, la quale gloria è certamente con te e con te, ahimè,  dovrei rallegrarmi. Ma troppo è il dolore nel restare qui senza te, mia guida, mio sostegno, mio conforto. MAGGIORDOMO: Il mio spirito prende forza nel pensare che ora lei è salita tra le genti beate. Dopo queste parole si è rivolta al patibolo e, soffermatasi un po’, guardando la lama, è sembrata rabbrividire e in preda all’orrore, ha rivolto gli occhi al cielo, talmente fissamente da voler anche lei fissarsi in esso. Infine ha emesso un breve sospiro e si è mossa come un uomo appena svegliato. e tenendo al petto la croce, che non ha mai lasciato, con la mano destra, con la sinistra ha cominciato a sciogliersi la veste intorno al collo e una volta sciolta, a ripiegarla indietro e non potendolo fare con facilità da sola, il feroce carnefice stende la mano per aiutarla, ma lei, fiera: «Amico, questo non devi farlo tu, ma una mano meno sporca di sangue innocente». CORO: O sangue reale, come conservi sul punto di morte, gli spiriti nobili, alti! MAGGIORDOMO: C’era sul catafalco, in disparte, una donna, moglie, penso, di uno dei guardiani; rivolta a lei in modo benevolo e con un sorriso ha detto: «Sorella, prendi tu l’incombenza d’aiutarmi a morire; ripiega la veste e il velo che circonda la gola ed offrila nuda alla lama. Piangendo la donna s’avvicina e le denuda il collo. CAMERIERA: Oh, collo, quante volte ti adornarono queste mani di bianchissime perle e quante volte le vidi confondersi con il chiarore della tua pelle: ora ti taglia il crudele ferro e da collana ti fa il sangue versato. MAGGIORDOMO: Dopo con soli due passi si è avvicinata al patibolo che solo a guardarlo incuteva terrore, la cui lama era così grande e così affilata e si è messa in ginocchio. la donna pietosa ha preso un panno sottile bianco e, tremante e piangente, piegandolo le ha coperto gli occhi, e mentre stringe il nodo la regina dice: «Grazie a Dio trovo in Inghilterra chi m’aiuta e chi prova per me pietà. ma se tu sorella, vuoi una ricompensa o un segno che ti rimanga di un animo infelice, abbracciami, ti prego: ecco io ti abbraccio per significarti che la tua opera mi è gradita e ora lasciami morire». Così le ha abbracciato il collo caramente e l’ha baciata sulla fronte. Quindi ha alzato gli occhi al cielo e, fermata un poco, e dopo, con umiltà, abbracciata la croce, ha steso il collo sotto l’orrida falce. CORO: Come si spezza il cuore al solo immaginare! MAGGIORDOMO: Il feroce boia nel vederla così ha tagliato prontamente la corda da cui pendeva la lama che, precipitando, si è conficcata nella morbida carne, in quel bel collo. Così il corpo da una parte, la testa dall’altra, di lei è rimasto un tremante cadavere da cui sgorga a fiotti il sangue e si è vista la bocca, aprendosi e chiudendosi di scatto, esalare l’ultimo respiro, bella anche nell’espressione di una morte orrenda. CAMERIERA: O cielo, quale disgrazia mi riservi se questa ora non mi uccide? CORO: Sei morta, ahimè sei morta, bellissima donna, dolcissima e cara, regina, signora. Che faremo noi? Dove andremo? Cosa sarà ella vita che ci rimane? Piangiamo, sorelle perché è giusto piangere per chi sopporta tali dolori su deboli spalle: Piango la morte di lei, piango per la mia vita, piango la crudele sciagura dell’amata mia patria.  

La descrizione della morte di Maria Stuarda non è rappresentato ed è raccontato da maggiordomo della regina, che è stato testimone oculare dell’evento. Tuttavia questo escamotage, direi necessario a livello di rappresentazione, non lede la drammaticità del racconto, ottenuto da un’aggettivazione spesso binaria, da allitterazioni che creano sospensione e paura, ricorso di parole che sul piano semantico rimandano alla crudeltà e all’orrore. Ma non mancano neppure descrizioni macabre (tipiche della visione della morte controriformista) con il corpo della regina diviso in due o con il diadema di sangue nel collo.  Ma non si può dimenticare l’opposizione tra divino e umano: da una parte il biancore della pelle, lo sguardo verso l’alto, la croce; dall’altra la lama, i panni neri, il boia. Ma il più grande contrasto si ha tra la fede e la giustizia, dall’altro la storia e la politica.

Commedia dell'Arte, ecco la 12° edizione | Università Cattolica del Sacro Cuore

Maschere della commedia dell’arte

Ma la vera importanza che il teatro italiano ebbe in Europa furono su quei generi che permettevano una maggiore libertà che, in quanto esenti da riferimenti di tipo classico o normativo, potevano raggiungere, attraverso la libertà espressiva, esiti inusati. Questi furono la commedia dell’arte, che si basava su canovacci sui quali l’attore improvvisava. Essa infatti prevede l’eclissi dell’autore a favore dell’attore che si specializzava in ruoli fissi (il giovane innamorato, il vecchio, la giovane e via discorrendo) da cui deriveranno le maschere come Arlecchino, Pulcinella, Brontolone, Colombina etc. etc. e il teatro in musica, cioè del melodramma i cui iniziatori furono Ottavio Rinuccini per i testi e Claudio Monteverdi per la musica.

La commedia dell’arte ebbe vasta notorietà in tutta Europa ed influenzò fortemente il teatro di Moliere.

PUBLIO TERENZIO AFRO

Publio Terenzio Afro - Wikipedia

Se Plauto è stato l’incontrastato “padrone” del teatro “popolare”, tanto da far sì che bastasse il suo nome per ottenere successo, Terenzio invece ha rappresentato il teatro d’èlite, portavoce di una classe aristocratica e intellettuale, che si riconosce nei nuovi valori convogliati all’interno di quello che suole definirsi come il “circolo degli Scipioni”. Con questo termine si ci riferisce non ad un movimento coeso, ma ad un gruppo di persone che ruotano intorno alla figura di Scipione Emiliano, figlio di Emilio Paolo che, con la vittoria sul re di Macedonia, portò a Roma l’intera biblioteca greca nonché il filosofo stoico Panezio. Inizia così, da parte di alcuni intellettuali e aristocratici che lo frequentarono, un nuovo modo di intendere il modus vivendi che produsse proprio due gruppi, quello scipionico, pronto ad allargare il suo modo di pensare grazie alla cultura filosofica greca e l’altro, invece, il cui massimo esponente è Catone il Censore, che vede in quest’atteggiamento un attentato ai valori tradizionali della repubblica che costituiscono il mos maiorum.  

Notizie biografiche

Terenzio nasce a Cartagine, come ci pensare il suo cognomen Afer, tra il 195/185 a.C. Sarebbe arrivato a Roma come schiavo da Terenzio Lucano, da cui prese appunto il nome, e fu in seguito protetto proprio da Scipione Emiliano e Lelio, come egli stesso ci testimonia in un suo prologo. Girarono voci molto feroci nei suoi confronti, proprio per l’amicizia con i suoi illustri protettori, sia di tipo sessuale che letterario, ma ciò sembra appartenere più alla polemica culturale che a una vera e propria vicenda biografica. Sembra morisse giovanissimo in viaggio verso la Grecia, infatti gira il rumor che fosse morto di dispiacere per aver perduto in mare un numeroso numero di commedie sulle quali aveva intenzione di lavorare. La data della sua morte si aggirerebbe nel 158, molto prima della terza guerra punica.

Terenzio: vita e opere | Studenti.it

Ritratto immaginario di Terenzio

Opere

Le commedie terenziane sono sei e ci sono tutte pervenute integralmente. Di esse si ha anche la cronologia, riportata dai manoscritti:

  1. 166 – Andria (La donna di Andro);
  2. 165 – Hécyra (La suocera);
  3. 163 – Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso);
  4. 161 – Eunuchus (L’eunuco)
  5. 161 – Phormio (Formione)
  6. 160 – Adelphoe (I fratelli)

Al contrario di Plauto, Terenzio non ebbe un grande successo; la maggiore attenzione data ai personaggi e ad alcuni temi non prettamente “comici”, le stesse polemiche letterarie con il confronto con il suo predecessore, non gli diedero il successo sperato. Tutto ciò lo deduciamo proprio dai prologhi i quali non presentano come nelle commedie plautine l’antefatto, ma servono a difendersi dagli attacchi dei propri detrattori e a illustrare la sua poetica:

ANDRIA
(Prologo)

Poëta cum primum animum ad scribendum adpulit,
id sibi negoti credidit solum dari
populo ut placerent quas fecisset fabulas;
verum aliter evenire multo intellegit.
Nam in prologis scribundis operam abutitur,
non qui argumentum narret, sed qui malevoli
veteris poëtae maledictis respondeat.
Nunc quam rem vitio dent quaeso animum advortite.
Menander fecit “Andriam” et “Perinthiam”;
qui utramvis recte norit ambas noverit;
non ita dissimili sunt argomento, et tamen
dissimili oratione sunt factae ac stilo;
quae convenere in “Andriam” ex “Perinthia”
fatetur transtulisse atque usum pro suis;
id isti vituperant factum atque in eo disputant
contaminari non decere fabulas.
Faciuntne intellegendo ut nihil intellegant?
Qui cum hunc accusant, Naevium, Plautum, Ennium
accusant; quos hic noster auctores habet,
quorum aemulari exoptat negligentiam
potius quam istorum obscuram diligentiam.
Dehinc ut quiescant porro moneo et desinant
Maledicere, malefacta ne noscant sua.

All’inizio, quando il poeta accostò l’animo allo scrivere, credette ciò: che fosse assegnato a lui il solo compito di far piacere le commedie che avrebbe scritto. Capisce in verità che accade molto diversamente. Infatti spreca l’energia nello scrivere prologhi non per raccontare la trama ma per rispondere alle cattiverie di un vecchio poeta malevolo. Ora, vi prego rivolgete l’animo (prestate attenzione) quale cosa diano al vizio. Menandro ha scritto un’Andria e una Perinzia, e chi conosce l’una le conosce tutte e due. Come trama non sono diverse, però diverse divengono per via del linguaggio e dello stile. Il poeta confessa che ha trasposto dalla Perinzia all’Andria, e ha usato come suoi, gli elementi che gli servivano. E’ questo che gli rinfacciano, loro, che stanno a disputare come egualmente non sia lecito contaminare delle commedie. Ma non mostrano, facendo i saputi, di non sapere nulla? Chi accusa il nostro autore, accusa Nevio, Plauto, Ennio, che egli tiene come maestri e dei quali aspira a imitare la disinvoltura piuttosto che l’oscura diligenza di questi altri. Con il che li avverto, che stiano quieti, d’ora in poi, e la smettano di calunniare, se no vedranno messe in piazza le loro porcherie.

Codice Vaticano del foglio 4° dell’Andria

In questo prologo si mette in evidenza l’acrimonia con cui un vecchio e rancoroso commediografo (Luscio Lanuvio) attacchi le novità di Terenzio e come quest’ultimo debba rispondere, affermando l’assoluta liceità sulla contaminatio. Ma è evidente che criticarlo su questo fatto era cercare un pretesto per metterlo in difficoltà, perché forse ciò che dava veramente fastidio era la novità tematica e il suo diffondersi, soprattutto se tale novità costituiva poi le parole d’ordine di un nuovo gruppo di potere assai influente a Roma:

 ADELPHOE
(Prologo)

Nam quod isti dicunt malevoli, homines nobiles
hunc adiutare adsidueque una scribere,
quod illi maledictum vehemens esse existumant,
eam laudem hic ducit maximam cum illis placet
qui vobis universis et populo placent,
quorum opera in bello in otio in negotio
suo quisque tempore usus est sine superbia.

Infatti questi maldicenti dicono che uomini nobili aiutino (il poeta) e scrivano insieme; ciò che essi reputano sia la più grande calunnia, costui la crede una grandissima lode, poiché piace a loro ciò che piace a voi tutti e al popolo, della cui opera in guerra, in ozio o negli affari, chiunque al momento opportuno ha fatto uso senza alcuna vanagloria.

E’ evidente che il riferimento su riportato si riferisca agli Scipioni che, a quanto pare, non replicarono nulla rispetto alle accuse o all’esaltazione che il commediografo fece loro. Ancora una volta, infatti, si dimostra come gli attacchi contro Terenzio oltre che rappresentare una vera e propria difesa del teatro plautino tradizionale, volessero frenare gli importanti cambiamenti che si stavano verificando in città.

Tali cambiamenti li troviamo sia nella struttura della commedia che nella presentazione dei personaggi:

  1. Minore importanza data alla figura del servo;
  2. Interventi meno frequenti delle parti “cantate” rispetto a quelle “recitate”;
  3. Approfondimento psicologico dei personaggi;
  4. Duplicazione dell’evento, affinché si mettessero in contrapposizione due modi di concepire il modus vivendi.

Adelphoe ad Ostia Antica | Eventi&Spettacoli AGR

Immagini dell’allestimento scenico ad Ostia antica dell’Adelphoe

Uno dei “temi” in cui meglio si coglie sia il concetto del raddoppiamento tematico che dei protagonisti è nell’opera più famosa di Terenzio, gli Adelphoe: è infatti la storia di due fratelli, Dèmea, rigido osservante i costumi tradizionali e Micione, scapolo e amante della vita a cui il primo ha affidato uno dei suoi figli, Eschino, mentre l’altro Ctesifone, è sotto la sua tutela. Diversi sono dunque i padri, diversi i metodi educativi. Infatti Ctesifone è innamorato di una cortigiana, Bacchide, ma non volendo che il padre lo venga a sapere, se ne assume la responsabilità Eschino. Ciò crea un forte fraintendimento con la donna di cui Eschino è innamorato, Panfila, che aspetta un bimbo. Le dicerie su di lui sembrano dare torto al metodo educativo di Micione e ragione a quello di Demea, ma alla fine, in cui tutto s’aggiusterà, si capirà che la vera ragione sta in un compromesso tra l’eccessiva autorità dell’uno e alla troppa libertà dell’altro.

L’EDUCAZIONE A CONFRONTO
(Adelphoe, Atto I, scena 1, vv. 40-67)

Atque ex me hic natus non est, sed ex fratre; is adeo
dissimili studio est iam inde ab adulescentia:
ego hanc clementem vitam urbanam atque otium
secutus sum et, quod fortunatum isti putant,
uxorem numquam habui. Ille contra haec omnia:
ruri agere vitam, semper parce ac duriter
se habere; uxorem duxit: nati filii
duo; inde ego hunc maiorem adoptavi mihi;
eduxi a parvolo, habui, amavi pro meo,
in eo me oblecto, solum id est carum mihi.
Ille ut item contra me habeat facio sedulo:
do, praetermitto, non necesse habeo omnia
pro meo iure agere: postremo, alii clanculum
patres quae faciunt, quae fert adulescentia,
ea ne me celet consuefeci filium.
Nam qui mentiri aut fallere insuerit patrem aut
audebit, tanto magis audebit ceteros.
Pudore et liberalitate liberos
retinere satius esse credo quam metu.
Haec fratri mecum non conveniunt neque placent
venit ad me saepe clamans “Quid agis, Micio?
Quor perdis adulescentem nobis? Quor amat?
Quor potat? Quor tu his rebus sumptum suggeris
vestitu nimio indulges? Nimium ineptus es.”
Nimium ipsest durus praeter aequomque et bonum,
et errat longe mea quidem sententia,
qui imperium credat gravius esse aut stabilius
vi quod fit, quam illud quod amicitia adiungitur.

Eppure questo non è nato da me, ma da mio fratello: lui è a tal punto diverso da me già sin dall’adolescenza: io ho seguito questa comoda vita di città e l’ozio e, ciò che alcuni reputano una cosa fortunata, non presi mai moglie. Quello invece tutto il contrario: vive in campagna, si trova sempre modestamente e duramente; ha preso moglie; gli sono nati due figli; di questi io adottai questo maggiore; lo educai da piccolo, lo ebbi, lo amai come mio, in lui mi diletto, solo questo mi è caro.  Faccio di tutto affinché quello, in cambio, consideri me lo stesso: elargisco, lascio fare, non ritengo necessario che tutte le cose accadano secondo il mio diritto; in ultimo, quelle cose che altri di nascosto ai padri fanno, che porta la giovane età, ho abituato il figlio a non nascondermele. Infatti chi avrà cominciato a mentire o oserà ingannare i padri, tanto più oserà mentire ed ingannare gli altri. Con il rispetto e la generosità credo è meglio trattenere i figli piuttosto che con la paura. Queste cose non vanno a genio né piacciono al fratello con me. Mi viene incontro spesso urlando: “Che fai, Micione? Perché vizi il giovane? Perché faccia l’amore? Perché beva? Perché fornisci denari per queste cose e sei troppo accomodante sul suo abbigliamento? Sei troppo indulgente!”. Egli stesso è troppo duro oltre il giusto ed il bene e sbaglia molto, secondo il mio parere, chi crede che l’autorità sia più forte e più stabile se la si ottiene con la forza, piuttosto che con l’amicizia.

E’ questo uno dei passi dove meglio si sottolinea la differenza tra il teatro plautino e quello terenziano: il primo non provoca confronti “ideologici” su cui lo spettatore debba riflettere. Qui invece Terenzio si fa portavoce di un mondo nuovo che mette in crisi l’istituto del mos maiorum. Se si guarda, infatti, alle tavole delle leggi Romane, su cui ancora venivano basati i rapporti familiari, si chiarirà sin da subito come il commediografo qui cerchi di metterli in crisi (con le dovute cautele) rappresentando un personaggio che vuole attirare simpatia nei suoi confronti, ma che il pubblico trova così nuovo e in certo qual modo troppo “greco” e intellettuale, da non riuscire a comprenderlo del tutto.

Salvatore Lo Leggio: Classici. La suocera “umana” di Terenzio (Paolo Lago)

Immagine della rappresentazione dell’Hecyra del Teatro di Smirne (2010)

Ce ne dà dimostrazione un’altra commedia, che incorse in un certo “insuccesso”, l’Hecyra. Vi si racconta di Panfilo che, pur innamorato della cortigiana Bacchide, per volere del padre, sposa Filumena. Costretto ad allontanarsi per motivi d’affari, al suo ritorno apprende che la moglie è tornata a vivere con i genitori. In un primo momento pensa che la fuga di Filumena sia da attribuire al brutto carattere di sua madre Sostrata, ma ben presto si scopre che la moglie ha abbandonato il tetto coniugale poiché è rimasta incinta a seguito alla violenza subita da parte di uno sconosciuto. Panfilo, per onore, non vuole che la moglie torni a vivere con lui, ma vuole mantenere il segreto sul vero motivo, che egli ufficialmente attribuisce al conflitto tra la sposa e la madre. Quest’ultima si dichiara pronta a ritirarsi in campagna per lasciare spazio ai due giovani sposi, mentre il padre teme che il figlio sia ancora innamorato di Bacchide. A sciogliere l’intrico è proprio la cortigiana: infatti si reca personalmente da Filumena per rassicurarla che tra lei e Panfilo tutto è finito; la madre di Filumena, riconosce nell’anello che Bacchide porta al dito lo stesso che era stato strappato alla figlia durante la violenza; Panfilo, dunque, è riconosciuto responsabile dello stupro e quindi padre legittimo del neonato; a questo punto, dopo essersi congedato con affetto e gratitudine dalla generosa Bacchide, può accogliere di nuovo in casa la moglie.

LA SUOCERA
(Hecyra, Atto IV, scena II, 577-588)

Non clam me est, gnate mi, tibi me esse suspectam, uxorem tuam
propter meos mores hinc abisse, etsi ea dissimulas sedulo.
Verum ita me di ament itaque obtingant ex te quae exoptem mihi ut
numquam sciens commerui merito ut caperet odium illam mei.
Teque ante quod me amare rebar, ei rei firmasti fidem;
nam mihi intus tuus pater narravit modo quo pacto me habueris
praepositam amori tuo; nunc tibi me certumst contra gratiam
referre, ut apud me praemium esse positum pietati scias.
Mi Pamphile, hoc et vobis et meae commodum famae arbitror:
ego rus abituram hinc cum tuo me esse certo decrevi patre,
ne mea praesentia obstet neu causa ulla restet relicua
quin tua Philumena ad te redeat.

Non è un mistero per me, figliuolo mio: tu sospetti di me e pensi che tua moglie se ne sia andata di qua a causa del mio carattere, anche se fai di tutto per nasconderlo; ma così mi aiutino gli dei e così mi possa venire da te tutto quello che desidero, come è vero che io non l’ho fatto apposta e non ho meritato che lei fosse presa d’odio per me; quanto a te, se già pensavo che tu mi volessi bene, ora me ne hai dato la certezza che tuo padre a casa mi ha raccontato come tu hai preferito me al tuo amore; ora sono decisa a contraccambiarti, perché tu sappia che la pietà filiale trova in me la sua ricompensa. Panfilo mio, credo che questo giovi a voi e al mio buon nome: ho deciso di andarmene di qua, in campagna, insieme con tuo padre; voglio che la mia presenza non sia un ostacolo e non resti alcun motivo perché la tua Filumena non ritorni da te.

E’ evidente che, sia pure nel semplice contenuto dell’opera, appaia in evidenza la centralità delle figure femminili: tuttavia esse non sono viste come “oggetti del desiderio”, ma come personaggi pensanti e generosi. Prendiamo, ad esempio, proprio Sostrata, mamma di Panfilo e suocera di Filumena: lei, per amore del figlio e della sua felicità, è disposta a rinunciare a lui e ad allontanarsi. E’ proprio un personaggio che esce dallo stereotipo di tante altre “mamme” romane, che considerano i figli propri gioielli, forgiati per la patria virtù.

Hecyra - Wikipedia

Mosaico con tre maschere che rappresentano tre donne nel teatro comico nella casa di Pompei di Cicerone

Ma vediamo il ritratto della cortigiana Bacchide:

BACCHIDE
(Hecyra, Atto V, scena III)

Haec tot propter me gaudia illi contigisse laetor:
etsi hoc meretrices aliae nolunt; neque enim est in rem nostrum
ut quisquam amator nuptiis laetetur. Verum ecastor
numquam animum quaesti gratia ad malas adducam partis.
Ego dum illo licitumst usa sum benigno et lepido et comi.
Incommode mihi nuptiis evenit, factum fateor:
at pol me fecisse arbitror ne id merito mi eveniret.
Multa ex quo fuerint commoda, eius incommoda aequomst ferre.

Sono contenta che da me gli siano venute tutte queste gioie, anche se altre cortigiane non la penserebbero così; perché a noi non conviene che uno dei nostri amanti abbia fortuna nel matrimonio; ma io, per Castore, non mi risolverò mai a certe cattiverie per il mio interesse. Io, a suo tempo, l’ho trovato buono con me, garbato, gentile. Le sue nozze mi hanno portato sfortuna, lo ammetto; meno male che io credo di non aver fatto niente per meritarlo: è’ giusto rassegnarsi ad avere dei dispiaceri da uno, quando se ne sono avuti tanti piaceri.

Ma è in questo passo che meglio si misura la distanza tra il teatro plautino e quello di Terenzio. Se nel brano precedente, pur nella novità, è una mamma che opera per il bene del figlio, è inconcepibile che a farlo sia una cortigiana, nell’immaginario collettivo una prostituta dedita al suo interesse e non certo al bene, soprattutto se tale bene le sottrae denaro. Bacchide è tutt’altro: è una cortigiana buona, o meglio una cortigiana figlia dell’ellenismo e non certo del mos maiorum che tutte quelle che non stavano in casa ad accudire ai lavori domestici erano donne di poco conto nella considerazione della società.

Tale considerazione sulla donna, ma su tutti i personaggi del suo teatro, Terenzio la esplicita in un famoso detto, che fa parte di un discorso di Cremete rivolto a Menedemo, nell’Heautontimorumenos (Il punitore di se stesso), proprio nel primo atto della commedia:

Heautontimorumenos - Wikipedia

Manoscritto dell’Heautontimorumenos dell’XI sec.

HOMO SUM
(Heautontimorumenos, Atto I, scena 1)

CHREMES:
Numquam tam mane egredior neque tam vesperi
domum revertor quin te in fundo conspicer
fodere aut arare aut aliquid ferre; denique
nullum remittis tempus neque te respicis.
Haec non voluptati tibi esse satis certo scio: “At
enim, dices, quantum hic operis fiat paenitet”.
Quod in opere faciundo operae consumis tuae,
si sumas in illis exercendis, plus agas.

MENEDEMUS
Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi
aliena ut cures ea quae nihil ad te attinent?

CHREMES:
Homo sum: umani nihil a me alienum puto.

CREMETE: Non esco mai tanto presto al mattino, non torno mai tanto tardi la sera, che non ti veda nel tuo fondo a scavare, arare, portar pesi. Insomma, non ti dai un momento di sosta e non hai nessun riguardo: sono sicuro che questo lavoro non è per te un divertimento. Tu dirai “E’ che mi dispiace vedere quanto poco si lavora qui”. Se tutta la fatica che spendi in codesto lavoro, la mettessi a tenere sulla breccia degli altri, ci guadagneresti un tanto. MENEDEMO: Cremete, hai così poco da pensare alle cose tue, da doverti occupare dei fatti degli altri, e di quello che non ti riguarda? CREMETE: Sono un uomo, e di quello che è umano nulla io trovo che non mi riguardi.

Un'idea di vita.: "Sono un essere umano ..."

A Ravello nella costiera amalfitana viene ricordato il pensiero di Terenzio

Questo passo è inserito, proprio all’inizio delle commedia, quando Cremete, vedendo il suo vicino di casa Menedemo “ammazzarsi” di fatica, gli chiede il perché, e lui, dopo un po’ di ritrosia, gli risponde che lo fa per punirsi perché il figlio, contro le sue rimostranze, è partito a fare il mercenario in Asia, così al ritorno, in possesso del denaro, potrà amare la donna che il padre gli nega perché povera. E’ l’ultimo passo della commedia, quell’Homo sum, humani nihil a me alienum puto quello che verrà ripreso non solo come esempio del concetto di humanitas che Terenzio inaugura nella letteratura latina, ma che sarà alla base anche dell’umanesimo dapprima italiano e quindi europeo del 1400, che proprio in Terenzio e in questa espressione troverà la sua base. A questo punto bisognerà meglio chiedersi a cosa corrisponde tale humanitas.  Con essa potremo indicare quell’ideale di attenzione verso l’intero essere umano alla cui base vi è la benevolenza e la tolleranza; a livello antropologico si può dire che con lui ed il Circolo degli Scipioni si inaugura un nuovo periodo della storia Romana, che aprirà lo sguardo, sempre con più attenzione, alla filosofia e al modo di concepire la vita nella sua totalità. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TITO MACCIO PLAUTO

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Ritratto immaginario di Plauto

Parlare di Plauto significa avvicinarsi alla prima e vera personalità latina di cui possiamo leggere l’opera; e se oggi abbiamo imparato a sorridere grazie ad alcuni meccanismi narrativi, a certe figure rappresentative di vizi umani, alla trasformazione in icona di alcune caratteristiche, tanto da fare del nome di un personaggio una vera e propria identità dell’uomo, lo si deve alla grande capacità sia di mediazione, quanto di invenzione del commediografo latino.

Notizie biografiche

Su Plauto esiste una vera e propria questione proprio a partire dal suo nome: l’unica cosa certa è che fosse umbro, visto che il nome Plotus, era originario di quelle zone e che a Roma veniva pronunciato Plautus. Infatti si dice fosse nato a Sàrsina, cittadina umbra, oggi localizzata nella Romagna. Fino al secolo scorso il suo nome era tramandato con M. Accius (Attius) Plautus, dove con M. si sottintendeva il nome Marcus. Soltanto nell’Ottocento si trova un antichissimo codice il nome abbreviato in T. (Titus). Ciò chiarisce un po’ meglio la questione: sulla certa non credibilità di un cittadino romano nobile (attraverso le fonti) nell’essere un autore di commedie e quindi lo stesso Plauto non potendo avere tria nomina (nome proprio, della famiglia e cognome) si è spostato quella M. a fianco ad Accius e si è giunti a Maccus (antica maschera dell’atellana); inoltre anche Plautus nasconderebbe il significato di “piedi piatti” o “orecchie lunghe”; ambedue i termini, quindi, possono fornirci l’idea di un attore comico e quindi perfetto conoscitore dei meccanismi teatrali. Oltre questo nulla sappiamo: la voce che fosse caduto nei debiti e quindi costretto a far girare la macina, viene dedotto da un episodio di una sua commedia e quindi non può essere biografico (tale procedimento era piuttosto comune in antichità). Circa la data di nascita e di morte si è portati ad inserire la prima tra il 255-250 e la seconda (più sicura) nel 184 a.C., come ci dice Cicerone in una sua opera.

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Statua di Varrone Reatino 

Opere

Maggiori notizie abbiamo sulle opere. Bisogna innanzitutto sottolineare come Plauto fosse un autore di grandissimo successo, e ciò ha permesso alle sue opere di essere rappresentate durante tutta la storia romana. Ma tale rappresentabilità e tale riscontro fecero sì che molti altri autori sfruttassero il suo nome per ottenere un facile successo: si tramanda che, appunto, a lui attribuite, dopo la sua morte, circolassero più di 130 opere. A metter ordine a tale “confusione” toccò a Varrone Reatino, grammatico vissuto durante l’ultimo periodo della repubblica che nel De comoediis Plautinis divise tale opere in 21 certe, 19 incerte, tutte le altre sicuramente false. La tradizione manoscritta seguì le indicazioni dello studioso tanto da tramandare soltanto quelle che lui ritenne autentiche, che vengono qui trascritte in ordine alfabetico:

  • Amphitruo (Anfitrione);
  • Asinaria (La commedia degli asini);
  • Aulularia (La commedia della pentola);
  • Bacchides (Le baccanti)
  • Captivi (I prigionieri);
  • Casina (Casina);
  • Cistellaria (La commedia della cesta)
  • Curculio (Il parassita);
  • Edipicus (Edipico);
  • Menaechmi (I Menecmi, fratelli gemelli);
  • Mercator (Il mercante);
  • Miles gloriosus (Il soldato spaccone);
  • Mostellaria (La commedia del fantasma);
  • Persa (Il persiano);
  • Poenulus (Il cartaginese);
  • Pseudulus (Pseudolo);
  • Rudens (La gomena);
  • Stichus (Stico);
  • Trinummus (Le tre monete);
  • Truculentus (Lo zoticone);
  • Vidularia (Commedia del bauletto).

Di tali commedie bisogna dire che alcune mancano di alcune sezioni come Amphitruo, Aulularia, Bacchides, Casina, Cistellaria e Mostellaria; molto lacunosa, invece, ci appare l’ultima (soprattutto perché è stata tramandata come ultima nei manoscritti), Vidularia.

Tutte le commedie plautine hanno ambiente greco e questo indica che le fonti cui attinge sono tutte derivate dalla commedia nuova, soprattutto da Menandro e altri autori di cui niente ci è giunto. E’ evidente, pertanto, che egli le debba in qualche modo rielaborare: usa, infatti la tecnica del vertere (tradurre) tipica della cultura romana (basti pensare all’Odusia di Livio Andronico) che egli cita esplicitamente, insieme a quella della contaminatio, anch’essa ripresa da scrittori che lo hanno di poco preceduto, come Nevio.

Vediamo a tale proposito il prologo dell’Asinaria:

ASINARIA
(Prologo)

Hoc agite sultis, spectatores, nunciam,
quae quidem mihi atque vobis res vertat bene
grecique huic et dominis atque conductoribus.
Face nunciam tu, praeco, omnem auritum poplum.
Age nunc reside, cave modo ne gratiis.
Nunc qui processerim huc et quid mihi voluerim
dicam: ut sciretis nomen huius fabulae:
nam quod ad argumentum attinet, sane brevest.
Nunc quod me dixi velle vobis dicere
dicam: huic nomen Graece Onagost fabulae;
Demophilus scripsit, Maccus vortit barbare;
Asinariam volt esse, si per vos licet. 

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Plauti comoediae XX, Venezia, 1511, Asinaria

Ora per favore, spettatori, un po’ d’attenzione, e che questo spettacolo riesca bene per me, per voi, per questa compagnia, i capocomici, gli impresari. Tu, o battitore, fa sì che gli spettatori siano tutto orecchi. Ora riposati e sta attento che tu non l’abbia fatto gratuitamente. Ora vi dirò perché io sia qui e quale sia il mio compito: affinché voi sappiate il nome di questa commedia: infatti per quanto attiene all’argomento, è molto breve. Ora che cosa vi ho detto di volervi dire vi dirò: il nome di questa commedia greca è Onegòs, l’ha scritta Demofilo e Maccio (Plauto)  l’ha tradotta in latino; l’ha intitolata Asinaria, se a voi piace.

E’ questo, come già detto un prologo, recitato o dal capocomico o da altro attore o da un giovane ad hoc chiamato ornatus prologi e in esso troviamo appunto un dato tecnico (il vertere) su citato, e la presentazione di alcune tipologie del mondo teatrale, come grex (che oltre che gregge vuol dire anche compagnia) dominus (padrone e quindi il capocomico), conductor (conduttore e quindi anche impresario). Risulta evidente che se la commedia “originaria” fosse greca, greca ne sarà anche l’ambientazione (si tratterà, infatti, di tutte palliate).

Ma compito di Plauto è quello di fare in modo che il mondo esotico ellenico (che avrà anche la funzione di “allontanamento”) sia ben chiaro agli occhi dello spettatore, tanto da capire che dietro una qualsivoglia città greca si nasconde Roma con i suoi vizi e le sue virtù. Tutto questo è molto chiaro in un episodio del Curculio:

GORGOGLIONE CONTRO I GRECI
(Curculio 1, 289-295)

Tum isti Graeci palliati, capite operto qui ambulant,

qui incedunt suffarcinati cum libris, cum sportulis,
constant, conferunt sermones inter se drapetae,
obstant, obsistunt, incedunt cum suis sententiis,
quos semper videas bibentes esse in thermipolio,
ubi quid subripuere: operto capitulo calidum bibunt,
tristes atque ebrioli incedunt: eos ego si offendero,
ex unoquoque eorum exciam crepitum polentarium. 

Questi Greci coperti col mantello, che camminano con la testa coperta, e avanzano ben pasciuti con i libri e col paniere, come schiavi scappati discutono tra loro, si fermano, inciampano, avanzano sputando le loro sentenze, tu che li vedi sempre stare nelle taverne mentre bevono, e quando riescono a prendere qualcosa; tracannano vino caldo con i capi coperti e poi escono malinconici ed ubriachi: se io l’incontrerò, da uno di loro farò uscire la polenta ingurgitata!

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Rappresentazione del Curculio da parte di studenti americani

E’ evidente, in questi pochi versi, come Plauto applichi qui la tecnica dell’“allontanamento”, ma, nel contempo del riconoscimento:

  • se le tematiche, come vedremo in seguito, fossero svolte nell’Urbe, risulterebbero inaccettabili per lo sconvolgimento del mos maiorum (non per niente il periodo in cui venivano rappresentate era quello dei Saturnali, del “mondo alla rovescia”;
  • ma se, nel contempo, i riferimenti verso le caratteristiche della città (principalmente negative) cessassero, si avrebbe da una parte l’impossibilità della comprensione, dall’altra la caduta della comicità.

Ma per ritornare un attimo al prologo, non possiamo dimenticare che in esso oltre al modo in cui Plauto dichiara a quale modello si ispira, non bisogna dimenticare che si trova spesso l’argomento della storia stessa, svolto in forma di acrostico, come questo dell’Amphitruo:

ARGOMENTO II
(Amphitruo)

Amore captus Alcumenas Iuppiter
Mutavit sese in formam eius coniugis
Pro patria Amphitruo dum decernit cum hostibus.
Habitu Mercurius ei subservit Sosiae:
Is advenientis servum ac dominum frustra habet.
Turbas uxori ciet Amphitruo: atque invicem
Raptant pro moechis. Blepharo captus arbiter
Uter sit non quit Amphitruo decernere.
Omnem rem noscunt; geminos Alcumena enititur.

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Rappresentazione dell’Amphitruo

Giove, preso d’amore per Alcmena, ha assunto le sembianze del marito di lei, Anfitrione, mentre costui combatte contro i nemici della patria. Gli dà manforte Mercurio, travestito da Sosia; egli si prende gioco, al loro ritorno, del servo e del padrone. Anfitrione fa una scenata alla moglie; e i due rivali si danno l’un l’altro dell’adultero. Blefarone preso come arbitro, non può decidere quale dei due sia Anfitrione. Poi si scopre tutto; Alcmena dà alla luce due gemelli. 

E’ questo l’esempio di un secondo prologo: il primo detto, appunto Primum argumentum, il secondo, secundum argumentum. Dobbiamo necessariamente sapere che lo scrivere un argomento in acrostici è soprattutto esercizio raffinato di tardi grammatici e copisti, e quindi non opera di Plauto.

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Maschere del teatro comico

Ma perché uno spettatore deve, come nel caso dell’argomento dell’Anfitrione,  conoscere seppur in grandi linee, la trama della commedia? Ciò accade perché non è l’argomento in sé che interessa lo spettatore, che anzi troverà (e cercherà) la somiglianza tra le varie trame, ma il modo in cui la storia si sviluppa, la capacità del servo di gabbare chi ostacola l’ottenimento di un bene, l’alternanza “studiata” dei deverbia, parti dialogate; recitativi, lamentazioni declamate con enfasi con la presenza di un doppio flauto ed i cantica, vere parti cantate in metri diversi e accompagnate dalla musica. E’ naturale che un teatro così non richieda la presenza di individui in sé caratterizzati, ma di personaggi riconoscibilissimi dagli spettatori perché rappresentanti “tipologie”, aiutati in questo dalla “maschera” in legno indossata dagli attori.

Fra i personaggi, colui che è il vero protagonista delle commedie plautine, è quasi sempre il servo. Dobbiamo riconoscere che egli è ritratto sempre in forme positive, è colui che riesce a sovvertire le sorti in “bene” contro chi ostacola la loro riuscita. Ma non c’è nessun tentativo di riscatto: anzi a ben vedere è sempre il padroncino a ottenere i benefici migliori. Nello Pseudolus riconosciamo il servus-poeta e il servus-dux, nel Curculio  il servus-currens (Gorgoglione):

SERVUS-POËTA
(Pseudulus, vv. 394-405)

Postquam illic hinc abiit, tu astas solus, Pseudole.

Quid nunc acturu’s, postquam erili filio
largitu’s dictis dapsilis? Ubi sunt ea?
Quoi neque paratast gutta certi consili
[neque adeo argenti: neque nunc quid faciam scio.]
Neque exordiri primum unde occipias habes,
neque ad detexundam telam certos terminos.
Sed quasi poëta, tabulas cum cepit sibi,
quaerit quod nusquamst gentium, reperit tamen,
facit illud veri simile quod mendacium est,
nunc ego poëta fiam: viginti minas,
quae nusquam nunc sunt gentium, inveniam tamen.
Atque ego me iam pridem huic daturum dixeram
et volui inicere tragulam in nostrum senem;
verum is nescioquo pacto praesensit prius.
Sed conprimunda vox mihi atque oratio est;
erum eccum video huc Simonem una simul
cum suo vicino Calliphone incedere.
Ex hoc sepulcro vetere viginti minas
effodiam ego hodie, quas dem erili filio.
Nunc huc concedam, unde horum sermonem legam.

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Bronzetto di attore comico

Adesso ch’egli se n’è andato, sei qua solo, Pseudolo. Ebbene, cosa intendi fare, dopo aver generosamente elargito promesse al tuo padroncino? Su che cosa si fondano quelle promesse? Non hai niente di pronto: neppure l’ombra di un piano sicuro, né un tantino di denaro… – Né ho un’idea di quel che devo fare! – Non sai da che punto cominciare a ordire la tua tela, né sai con certezza dove finirai di tesserla… – Sì, ma come il poeta, prese le sue tavolette, cerca ciò che non esiste in nessuna parte del mondo, e tuttavia lo trova, riuscendo a rendere verosimile quel che è menzogna, così farò io: diverrò poeta, e le venti mine che attualmente non esistono in nessuna parte del mondo finirò per trovarle. Del resto, glielo avevo detto da un pezzo che gliele avrei date, e ho voluto gettare l’esca sul nostro vecchio, ma quello non so come, ne ha avuto il presentimento… ora però bisogna che io trattenga la voce e che la smetta di parlare; ecco il mio padrone Simone che arriva qui col suo vicino Callifone. Oggi caverò fuori da questo vecchio sepolcro venti mine, per  darle al mio padroncino. Mi tirerò in disparte; da qui raccoglierò la loro conversazione.

Cos’è a fare di questo personaggio un servo-poeta? Il fatto che egli, grazie alla propria fantasia, sa trasformare l’inverosimile in verosimile; cioè riesce, in qualsiasi rapporto narrativo, a creare quel patto per cui il lettore, qualunque cosa dica un autore, anche la più incredibile, la creda, altrimenti viene a cessare qualsiasi elemento edonistico. Allo stesso modo fa Pseudolo che “riuscendo a rendere verosimile quel che è menzogna”, diverrà poeta.

SERVUS-DUX
(Pseudulus, vv. 574-593)

Pro Iuppiter, ut mihi quidquid ago lepide omnia prospereque eveniunt!
Neque quod dubitem neque quod timeam meo in pectore conditumst consilium.
Nam ea stultitiast, facinus magnum timido cordi credere; nam omnes res perinde sunt
ut agas, ut eas magni facias; nam in meo pectore prius  ita paravi copias,
duplicis, triplicis dolos, perfidias, ut, ubiquomque hostibus congrediar
(maiorum meum fretus virtute dicam; mea industria et malitia fraudulenta),
facile ut vincam, facile ut spoliem meos perduellis meis perfidiis.
Nunc inimicum ego hunc communem meum atque vostrorum omnium
Ballionem exballistabo lepide: date operam modo;
hoc ego oppidum admoenire ut hodie carpitur volo;
atque huc meas legiones adducam; si hoc expugno
(facilem hanc rem meis civibus faciam)
post ad oppidum huc vetus continuo meum exercitum protinus obducam:
inde me et simul participes omnis meos praeda onerabo atque opplebo,
metum et fugam perduellibus meis me ut sciant natum.

Per Giove, come tutte le cose che faccio riescono facilmente e felicemente! Nella mia mente è riposto un piano che non dubiterò e non temerò. Infatti è pazzia quella di affidare una grande impresa ad un cuore non coraggioso; tutte le cose sono simili a come le pre-pari e a come tu le fai grandi; così ho deciso per prima cosa di preparare le truppe,  in duplici, triplici inganni, perfidie che, in qualunque luogo incontrerò i nemici (dirò fiducioso sulla virtù dei miei antenati; sulla mia capacità e la fraudolenta malizia),  facilmente li vincerò e spoglierò con le mie perfidie. Dunque io questo nemico mio, comune e di tutti voi Ballione, lo abbatterò con un colpo di balestra facilmente, fate attenzione in che mo-do; io voglio investire questa fortezza affinché sia presa oggi; e condurrò qua le mie legioni, se l’espugno (renderò facile quest’impresa per i miei concittadini) dopo di seguito condurrò immediatamente il mio esercito a questa vecchia fortezza: da dove mi caricherò mi riempirò della preda e similmente tutti i miei compagni, affinché sappiano che io sono nato per la paura e la fuga per i miei nemici.

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Scena plautina

Così come un servo può “inventare” una realtà possibile, lo stesso servo (in questo caso lo stesso Pseudolo) può immaginare l’organizzazione dei suoi piani come l’organizzazione di un piano di guerra: ne sono spia proprio le metafore che nel brano egli presenta: il lenone è la fortezza e lui il generale che deve assediarla. Tale figura non è nuova nella commedia di Plauto; in più di un’opera egli ci presenta le azioni di un servo come vere e proprie tappe vittoriose di un esercito il lotta, come nelle Bacchides.

SERVUS-CURRENS
(Curculio, vv. 280-287)

Date viam mihi, noti, ignoti, dum ego hic officium meum
facio: fugite omnes, abite et de via decedite,
nequem in cursu capite aut cubito aut pectore offendam aut genu.
Ita nunc subito, propere et celere obiectumst mihi negotium,
nec (usquam) quisquamst tam opulentus, qui mi obsistat in via,
nec strategus nec tyrannus quisquam, nec agoranomus,
nec demarchus nec comarchus, nec cum tanta gloria,
quin cadat, quin capite sistat in via de semita.

Fatemi strada, conosciuti e sconosciuti, chè io devo compiere la mia missione. Fuggite tutti, scostatevi e sgombrate la via, se non volete che correndo vi urti il capo o il gomito o il petto o il ginocchio: così improvviso, urgente pressante è l’affare che mi è capitato ad-dosso; né vi è uomo al mondo così potente, che possa farmi ostacolo nel cammino, né stratega, né tiranno, né agoranomo, né demarco, né comarco*, né personaggio tanto illustre che non debba cadere a terra e dal marciapiede precipitare a testa prima sulla strada.
*agoranomo, sovraintendente il mercato, demarco, sovraintendente i demo cittadini, comarco, capo di un villaggio.

In questo caso invece l’azione è mossa proprio dal correre del servo, che crea un’azione in cui, facendo crollare chiunque impedisca il suo affrettarsi dà luogo a commenti e situazioni esilaranti.

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Rappresentazione della Cistellaria

Questa tipologia di servo possiamo inserirla, più genericamente nella tipologia del servus callidus (servo astuto), colui che con perizia ed intelligenza si fa motore dell’azione del teatro plautino. 

Un altro personaggio importante è l’adulescens, il padroncino, verso cui il servo nutre affetto, ne condivide le passioni e combatte con lui per l’ottenimento dell’oggetto desiderato. In questo caso si tratta di una lamentatio, di uno sfogo sull’amore.

ADULESCENS
(Cistellaria, 206-228)

Iactor, crucior, agitor,
stimulor, vorsor
in amoris rota, miser exanimor,
feror, disferor, distrahor, diripior:
ita nubilam mentem animi habeo.
Ubi sum, ibi non sum,
ubi non sum, ibi est animus,
ita mihi omnia sunt ingenia;
quod lubet, non lubet iam id continuo,
ita me Amor lassum animi ludificat,
fugat, agit, adpetit, raptat, retinet,
lactat, largitur;
quod dat, non dat; deludit:
modo quod suasit, dissuadet;
quod dissuasit, id ostentat.
Maritumis moribus mecum experitur:
ita meum frangit amantem animum;
neque, nisi quia miser non eo pessum,
mihi ulla abest perdito permities.
Ita pater apud villam detinuit
me hos dies sex ruri continuos,
neque licitum interea est meam amicam visere.
Estne hoc miserum memoratu? 

Son sbattuto, son straziato, tormentato, punzecchiato, sulla ruota dell’amore rigirato ed annientato. Son stirato, strascicato, son squartato e sminuzzato, con la mente obnubilata. Dove sono io non sto, la mia mente è ove non sono, perché ho troppe cose in testa. Voglio e subito non voglio; è l’amore che si burla del mio cuore ormai sfinito. Lo sospinge, in-calza, assale, lo travolge, afferra, alletta. Offre, dà e non dà, delude. Se consiglia, poi sconsiglia; se sconsiglia, poi esorta. Mi si avventa come il mare, spezza il cuore innamorato; nel naufragio d’ogni cosa, non mi resta che affondare. Ora il padre mi trattenne in campagna per sei giorni, senza darmi tanto tempo il permesso di vedere la mia amata. Non è questa una storia dolorosa?

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Paraklausithyrion

E’ qui rappresentato un adulescens (in questo caso Agesimarco della Cistellaria), di solito innamorato, che si fa aiutare da un servo per la conquista dell’amata. Egli, naturalmente, non è felicemente “accoppiato”, perché un ostacolo si frappone, comunque, tra lui e l’oggetto da ottenere ed il suo lamento, (come in questo caso) costituisce il vero e proprio motore dell’azione. Ma affinché tale lamento risulti comico, Plauto lo amplifica con un raffinato gioco stilistico fatto di onomatopee, anafore, chiasmi, che alla fine permette al commediografo di ironizzare sulla lirica d’amore greca (assai in voga in quel periodo).  

SERENATA AI CHIAVISTELLI
(Curculio, 147-154)

Pessuli, heus pessuli, vos saluto lubens,
vos amo, vos volo, vos peto atque obsecro,
gerite amanti mihi morem, amoenissumi,
fite causa mea ludii barbari,
sussilite, obsecro, et mittite istanc foras,
quae mihi misero amanti ebibit sanguinem.
Hoc vide ut dormiunt pessuli pessumi
nec mea gratia commovent se ocius.

Chiavistelli, oh chiavistelli, vi saluto con gioia, vi amo, vi bramo, vi prego e vi supplico: assecondate il mio amore, carissimi, fate per me balli italici, saltellate, vi prego, fatela uscire, che ha succhiato il sangue a me, misero amante. Guarda come dormono, cattivi chiavistelli, che non si muovono più velocemente per me.

Anche Fedromo del Curculio è un adulescens innamorato, ai cui Plauto fa pronunciare la cosiddetta paraklausithyrion, cioè il lamento di fronte alla porta chiusa. Questo era un vero e proprio topoi della poesia d’amore greca (e lo diventerà anche per quella latina), che viene stravolto in modo comico (i chiavistelli a cui chiedere di diventare ballerini) dall’estro comico del nostro. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che questo gioco è anche rivolto a un pubblico smaliziato che, sia nel caso del lamento d’amore che di quello della serenata ai chiavistelli, si rende conto delle fonti letterarie usate e di come Plauto, con divertita capacità, le abbia stravolte.

Altro importante figura della commedia plautina è l’antagonista, che può essere sia il padre dell’adulescens, ma anche qualche altro personaggio caratterizzato da una particolarità che lo rendono riconoscibile e comico, come il lenone (possessore di una cortigiana), l’avaro o il soldato vanaglorioso.

Prendiamo come primo esempio l’avaro:

L’AVARO
(Aulularia)

Perii, interii, occidi. Quo curram? Quo non curram? Tene, tene. Quem? Quis?
Nescio, nil video, caecus eo atque equidem quo eam aut ubi sim aut qui sim
nequeo cum animo certum investigare. Obsecro ego vos, mi auxilio,
oro, obtestor, sitis et hominem demonstretis, qui eam abstulerit.
Quid ais tu? Tibi credere certum est, nam esse bonum ex vultu cognosco.
Quid est? Quid ridetis? Novi omnis, scio fures esse hic complures,
qui vestitu et creta occultant sese atque sedent quasi sint frugi.
Hem, nemo habet horum? Occidisti. Dic igitur, quis habet? Nescis?
Heu me misurum, misere perii, male perditus, pessime ornatus eo:
tantum gemiti, et mali maestitiaeque hic dies mi obtulit, famem et pauperiem.
Perditissimus ego sum omnium in terra; nam quid mi opust vita, tantum auri
perdidi, quod concustodivi sedulo? Egomet me defraudavi
animumque meum geniumque meum; nunc eo alii laetificantur
meo malo et damno. Pati nequeo.

Sono perduto, sono in rovina, sono morto. Dove vado? Dove non vado. Fermalo, fermalo. Chi ? Chi lo ferma? Non so, non vedo niente, sono cieco e perciò non posso sapere sicuramente dove andrò o dove sia o chi sia. Vi scongiuro, vi imploro, vi supplico, aiutatemi e ditemi chi è, che me l’ha tolta. Chi dici? Ho deciso di crederti, infatti riconosco che tu sei onesto dall’espressione del volto. Cosa c’è? Perché ridete? Conosco tutti, so che qui ci sono molti ladri, che si nascondano dietro la toga e siedono come persone importanti. Oh, nessuno di loro lo ha? Mi hai ucciso. Dì, dunque, chi ce l’ha? Non lo sai? Oh, me misero, sono miseramente perduto, malamente rovinato, conciato malissimo: questo giorno mi ha procurato così grande disperazione, male, tristezza, fame e povertà. Sono il più disgraziato di tutti sulla terra; infatti che vivo a fare, ho perduto tutto l’oro, che custodivo con attenzione. Mi sono privato del mio animo, della mia esistenza; ora gli altri si divertono alle mie spalle. Non posso sopportarlo.

E’ evidente che qui il bene che egli in qualche modo preserva è quello del denaro (una pentola piena d’oro) e non certo di una leggiadra cortigiana, anche se il mondo di “eros” non è affatto assente. Infatti egli crede che se un vicino di casa chiede la mano di sua figlia è perché ha saputo dell’oro e glielo vuole sottrarre; se il cuoco nomina il termine “pentola” è perché si sta riferendo ad essa, non perché vuole usarla per cucinare. Tutto ciò fa sì che lui la nasconda, ma un servo, seguendolo lo scopre e gliela ruba, comprando così la sua libertà e ottenendo la mano della figlia dell’avaro. Ma qui quello che interessa è certamente il dialogo che egli intrattiene con il pubblico, facendo di questo monologo uno dei punti più alti del metateatro plautino.

Altra figura caratteristica è quella del “miles gloriosus”:

PIRGOPOLINICE
(Miles gloriosus, 1-9)

Curate ut splendor meo sit clupeo clarior
quam solis radii esse olim quom sudumst solent,
ut, ubi usus veniat, contra conserta manu
praestringat oculorum aciem in acie hostibus.
Nam ego hanc machaeram mihi consolari volo,
ne lamentetur neve animum despondeat,
quia se iam pridem feriatam gestitem,
quae misera gestit et fartem facere ex hostibus.
Sed ubi Artotrogus hic est?

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Pirgopolinice e Astrotogo a teatro

Fate in modo che il mio scudo abbia una lucentezza più splendente di come sono soliti essere i raggi del sole quando il cielo è sereno affinché, quando venisse la necessità, giunti allo scontro, abbagli ai nemici la vista degli occhi nel campo di battaglia. Infatti io voglio consolare questa spada affinché non si lamenti né deponga il coraggio, poiché sono solito portarla oziosa ormai da tempo che misera brama di fare salcicce dei nemici. Ma ora dove è Artotogo?

Piccola presentazione a dirci la vanagloria di questo personaggio, padre di quella figura caratteristica che, nella commedia dell’arte diventerà Capitan Fracassa. Qui lo vediamo dar ordini che nessuno sente, che urla al vento a dire agli altri la sua vanagloria, e nel seguito della commedia sarà “spalleggiato” in questa dal servo, che lo utilizzerà per lasciar libero il suo padroncino di accostarsi alla ragazza che lui nasconde. Ancora l’inganno con un uomo la cui comicità deriva dalla sproporzione tra la figura che rappresenta e la realtà.

Ed infine la figura del lenone:

BALLIONE
(Pseudulus, 1, 172-188)

Auditin? vobis, mulieres, hanc habeo edictionem.
Vos, quae in munditiis, mollitiis deliciisque aetatulam agitis,
viris cum summis, inclutae amicae, nunc ego scibo atque hodie experiar,
quae capiti, quae ventri operam det, quae suae rei, quae somno studeat;
quam libertam fore mihi credam et quam venalem, hodie experiar.
Facite hodie ut mihi munera multa huc ab amatoribus conveniant.
Nam nisi mihi penus annuos hodie, convenit, cras populo prostituam vos.

Mi sentite? Per voi, donne, ecco qua i miei ordini. Voi che passate la vostra tenera età tra le raffinatezze, le mollezze, le ricercatezze, in compagnia di persone d’altissimo rango, voi, amanti di grido, oggi saprò, oggi conoscerò alla prova dei fatti chi di voi si preoccupa delle sua testa e chi del suo ventre, chi pensa al suo interesse e chi non pensa che a dormire. Oggi conoscerò alla prova dei fatti  chi di voi è destinata a diventare mia liberta e chi invece dovrò vendere. Fate in modo che oggi, da parte dei vostri amanti, mi giunga qua un mucchio di regali; perché se oggi non mi giungono provviste per un anno intero, domani farò di voi delle volgari prostitute.

Ballione, protagonista dello Pseudolo, è il tipico lenone, figura sconosciuta a Roma, ma presente nel mondo greco. Come protettore delle donne è lui che forse è il peggior antagonista dell’adulescens e, se come personaggio è capace di impedire, per pura avidità, il libero sfogarsi di un amore naturale, non potrà essere che un sceleste (scellerato), furcifer (pendaglio da forca), sociofraude (traditore di amici) fur (ladro) permities adulescentum (rovina dei giovani) e altro ancora con cui, in un pezzo famosissimo della commedia, Pseudolo lo riempirà di insulti.

Tuttavia la commedia di Plauto non è fatta solo di personaggi, ma anche di situazioni e solo per citare la più famosa ci piace ricordare il tema del doppio:

SOSIA DI FRONTE AL SUO DOPPIO
(Amphitruo 441-449)

Certe edepol, quom illum contemplo et formam cognosco meam,
quem ad modum ego sum (saepe in speculum inspexi), nimis similest mei;
itidem habet petasum ac vestitum: tam consimilest atque ego;
sura, pes, statura, tonsus, oculi, nasum vel labra,
malae, mentum, barba, collus: totus. quid verbis opust?
si tergum cicatricosum, nihil hoc similist similius.
sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui.
novi erum, novi aedis nostras; sane sapio et sentio.
non ego illi obtempero quod loquitur; pultabo foris. 

Certo, Per Polluce, quando lo guardo e riconosco il mio aspetto, come sono fatto io – spesso mi sono guardato allo specchio – certo mi assomiglia moltissimo. Ha uguale il cappello e il vestito: mi assomiglia come mi assomiglio io. Gamba, piede, statura, capelli, occhi, naso, labbra, guance, mento, barba, collo: tutto. Che bisogno c’è di parole? Se ha la schiena piena di cicatrici, non c’è una somiglianza più simile a questa. Ma, quanto più ci penso, davvero io sono lo stesso che sono sempre stato: non c’è dubbio. Conosco il mio padrone, conosco la nostra casa, ho a posto il senno e i sensi. Non dò retta a quello che dice lui: busserò alla porta».

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Rappresentazione dell’Amphitruo

Se a fare della commedia plautina una rappresentazione di tale successo “comico” che, come abbiamo visto precedentemente, altri autori si nascondevano dietro il suo nome per ottenere l’applauso del pubblico, Plauto non si limitava a lavorare sui personaggi e sugli schemi, ma soprattutto sul ritmo. Tale ritmo egli l’otteneva attraverso la sagace mescolanza nell’intera piéce di quelli che venivano detti numeri innumeri cioè l’uso assai vario della metrica. Ciò permetteva all’autore d’accompagnare il detto alla musica, laddove ce n’era, creando un’atmosfera assai “vivace” che tanto gradiva il pubblico romano. Se a ciò si accompagnano i giochi di parole, l’invenzione onomastica, un linguaggio che allude, a volte, all’osceno, il successo è assicurato.

TORQUATO TASSO

Torquato_Tasso_2.jpgRitratto attribuito a Torquato Tasso

Torquato Tasso nasce l’11 marzo del 1544 a Sorrento da Bernardo, poeta cortigiano presso il principe Sanseverino nel vicereame di Napoli e da una nobildonna di Pistoia, Porsia de’ Rossi. Al seguito paterno, inizia, da bambino, i primi studi a Napoli; ma, quando il padre dovrà seguire il suo protettore, accusato di tradimento dal viceré, lo seguirà, raggiungendo Roma, e sarà lì, appena dodicenne, che apprenderà la dolorosissima notizia della morte della madre, rimasta a Sorrento con la figlia maggiore, Cornelia, cui era fortemente legato.

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Bernardo Tasso

Quando, nel 1556, uno stato di tensione tra il Filippo II e il papa Paolo IV spinge Bernardo ad abbandonare Roma per raggiungere Urbino, il giovane Torquato viene inviato a Bergamo, da dove, in seguito, s’allontanerà per raggiungere il padre. E’ un periodo felice per il giovane Torquato, che in quella piccola città, in quel piccolo microcosmo dei Della Rovere, proietta la “beltà” e “cortesia” della corte. Qui inizia a comporre alcune liriche.

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Edizione pubblicata a Venezia nel 1581 del’Amadigi di Bernardo Tasso

Nel 1559 il padre si trasferisce a Venezia per stampare la sua opera l’Amadigi; qui il figlio lo raggiungerà e seguirà, per volere paterno, studi di diritto. Il giovane Tasso stringe amicizia con letterati e pubblica anche un consistente nucleo di sue prove poetiche. Quindi dà vita ad un abbozzo di poema epico, il Gierusalemme. e il poema cavalleresco Rinaldo che pubblica nella città lagunare nel 1562.

Da Venezia si sposta a Bologna, in compagnia di un caro amico, dove inizia a lavorare a opere dal carattere normativo, tra cui gli importantissimi Discorsi dell’arte poetica. Quindi pubblica, per nobildonne, appassionate ed eleganti poesie.

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Edizione veneziana del Rinaldo del Tasso 1840

Nel 1565 si trova a Ferrara, guidata in questo periodo da Alfonso II. Dopo quattro anni gli muore l’amato padre. L’ambiente cortigiano dà una certa tranquillità al nostro, che potrà redigere il dramma pastorale Aminta rappresentato con successo a corte. Intanto riprende il lavoro sulla Gierusalemme che conclude nel 1575. Non sicuro del valore dell’opera la sottopone ad alcuni revisori, che non gli lesinano anche severe critiche. Il Tasso comincerà così anche a dubitare che l’opera non sia, a livello d’ortodossia, corretta. Nel 1576, tornato a Ferrara, Tasso comincia a mostrare i primi segni d’inquietudine psichica. La prima crisi si ha quando, pensando che volesse lasciare Ferrara per Firenze, il duca gli mette alcuni “controllori” alle spalle. Temendo che lo vogliano accusare d’eresia, si sottopone, volontariamente, al tribunale dell’Inquisizione.

L’anno successivo, mentre parla con cortesia con la duchessa, temendo d’essere spiato da un servo, lo aggredisce con un coltello. Il poeta, creduto che fosse preda di una crisi di nervi, viene curato: ma lui pensa che lo vogliano avvelenare. Viene rinchiuso in un convento; da qui scappa e raggiunge a Sorrento la sorella Cornelia. Per sapere se ella provi un vero e proprio affetto per lui, finge di essere un pastore, che reca la notizia della morte di Torquato. Solo dopo il reale dispiacere della sorella, si rivelerà.

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Non riesce più a trovare pace: viaggia senza sosta; torna a Roma, poi a Mantova, Padova, Reggio, Urbino e Torino. Qui sembra volersi fermare, ma gli riprende la nostalgia di Ferrara e riparte. La città del duca Alfonso II è in grande fermento, dove fervono i preparativi del matrimonio tra lo stesso duca e Margherita Gonzaga. Sentendosi trascurato, ingiuria pubblicamente Alfonso che lo rinchiude a Sant’Anna, dove rimarrà fino al 1586. E’ un periodo in cui, pur in mezzo a veri e propri momenti di follia, continuerà a lavorare incessantemente alla Liberata, che, nella nuova edizione vedrà la luce nel 1581. Dopo la pubblicazione si formano, tra gli intellettuali italiani, due vere e proprie fazioni che si dividono per il primato tra il Furioso e la Liberata.

Viene rilasciato per intercessione del principe di Gonzaga. In questa città finirà e revisionerà i Discorsi e le Rime. Ma viene ripreso da un forte senso di inquietudine che lo riporterà a vagare di città in città, dal 1588 al 1592, dove, ancora a Roma, pubblicherà la Conquistata, e il 1593, in cui, stanco e malato, raggiungerà Napoli. Qui vedrà la luce l’edizione definitiva dei Discorsi, che prenderanno il nome di Discorsi sopra il poema eroico.

Cella-del-Tasso.jpgEugene Delacroix Tasso a Sant’Anna (1839)

Nel 1595 va, per l’ultima volta a Roma, pensando che gli spetti l’incoronazione poetica. Ma appena giunto, lo stato fisico si mostra fortemente compromesso. Viene condotto al monastero di Sant’Onofrio sul Gianicolo e, dopo aver ottenuto l’assoluzione papale, muore serenamente.

E’ evidente che, seppur presentata in modo sommario, la vita del Tasso appare fortemente contrassegnata da eventi in parte personali e in parte storici. Egli infatti vive in modo drammatico la perdita della madre, da cui deriverà quel lungo girovagare che può esser visto come terrore di un luogo stabilito, da cui nasce quel senso di soffocamento che diventerà, purtroppo per lui, vera e propria mania di persecuzione. Tutto questo, se inserito nel periodo storico in cui Tasso si trova ad esistere, si rifletterà su due fondamentali piani: la politica culturale della Chiesa e la situazione di Ferrara, città in cui egli riuscirà a vivere il periodo più felice della sua vita. La Controriforma (o la Riforma cattolica) amplifica in lui il concetto di soffocamento / protezione che si risolve nella ricerca / fuga biografica, quando si trova in una città; Ferrara, luogo in cui si sono svolte le fondamentali esperienze intellettuali di Boiardo e Ariosto non è più la città Rinascimentale: chiusa nella difensiva, obbediente ai valori della Spagna e della Chiesa, che sembra ricercare l’ultimo splendore intellettuale (in Tasso, appunto) prima di “morire”, e l’illusione per il poeta che essa possa ancora rappresentare la grande corte in cui lui possa trovare sia protezione che gloria. Ma sarà proprio il duca Alfonso a interrompere tale illusione, chiudendolo, per pazzia, a Sant’Anna.

Ci piace sottolineare un pensiero di Marco Vallora riguardo l’immaginazione tassiana che “s’illumina dagli estremi bagliori del Rinascimento che muore, che s’avvita e avvince ai tormentosi contorcimenti del manierismo che va confluendo nella Controriforma, che riverbera come in uno specchio brunito le luci e le ombre di quel Barocco che si sta clamorosamente annunziando all’orizzonte”.

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Franz Catel: Morte di Torquato Tasso (1834)

Opere

L’attività letteraria di Torquato Tasso si può dividere in:

  • Opere normative che, sotto l’egida di Aristotele, tentano di definire il poema cavalleresco sotto nuove prospettive che obbediscano anche (ma non solo) alle nuove direttive culturali della Chiesa;
  • Rime, in cui opera ancora l’insegnamento petrarchesco, ma rivissuto nella nuova sensibilità tassiana;
  • Il dramma pastorale con l’Aminta che rappresenta un vero e proprio capolavoro letterario dell’intero Cinquecento ed il teatro classico con la tragedia Il re Torrismondo;
  • Il poema cavalleresco, sin dall’adolescenza con la Gierusalemme ed il Rinaldo; questo genere troverà la sua sistemazione nella Gerusalemme liberata; ma anche questa straordinaria operazione sarà figlia delle paure del Tasso, che la trasformerà nella nuova e decisamente meno riuscita, Gerusalemme conquistata.
  • Un ricchissimo Epistolario, di circa 1700 lettere, fonte incredibile di notizie sia umane che letterarie.

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Ludovico Ariosto: Rime (edizione 1584)

RIME

La composizione delle Rime tassiane coprono un periodo che va da metà degli anni Cinquanta, fino quasi alla morte del poeta. Editando, secondo la sua volontà, l’intero corpus, furono lasciate fuori le poesie con riferimenti personali e all’attualità, mentre le altre dovevano seguire un piano di stampa di tipo tematico: liriche amorose; d’encomio o di lode per principi e belle donne; religiose e sparse. Nelle liriche d’amore Tasso, su un fondo tipicamente petrarchesco, accentua l’aspetto immaginifico, soffermandosi sugli abiti e i movimenti femminili. Numerose sono anche le comparazioni che il poeta fa tra donna e natura e viceversa, accentuando, così, aspetti sentimentali e patetici, che tuttavia apriranno alla lirica barocca. Le rime encomiastiche cambiano oggetto e quindi riferimento letterario: prevale la poesia classica di Pindaro ed Orazio, e appaiono quindi più formali. Le sacre rispettano la cultura controriformista del tempo e il senso d’angoscia per la paura di cadere nel peccato. Tuttavia tali Rime non valgono per il contenuto in esse elaborato, quanto per la perizia tecnica che il poeta, sin dalla gioventù, sa mostrare in esse. Basti pensare ai madrigali. Il madrigale, infatti, era un genere in endecasillabi già utilizzato da Petrarca, che prevedeva due o tre terzine e si chiudeva con uno o due distici a rima baciata. Tasso muta il genere e ne fa una composizione in cui s’alternano settenari ed endecasillabi alla ricerca di una più netta musicalità (non è un caso che molti madrigali del Tasso verranno poi musicati da Monteverdi).

ECCO MORMORAR L’ONDE

Ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli
e sovra i rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’oriente;
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare
e rasserena il cielo
e le campagne e imperla il dolce gielo
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora
l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor ristaura.

Ecco mormorare le acque e tremare i ramoscelli e gli alberelli alla brezza mattutina, e cantare dolcemente i soavi uccelli sopra i verdi rami e risplendere il cielo ad oriente. Ecco che ormai appare l’alba e si specchia nel mare e rasserena il cielo, e la delicata rugiada rende perlate le campagne e colora d’oro gli alti monti. O bella e dolce Aurora, la brezza è tua messaggera, e tu lo sei della brezza che conforta ogni cuore d’oro.

Si è preso come esempio questo madrigale perché in esso troviamo degli interessantissimi spunti che aprono alla poesia successiva. In primo luogo, come detto precedentemente è una poesia in cui l’immagine prevale sul contenuto; per ben 11 versi si ha qui la descrizione della natura. Poi improvvisa la rivelazione: l’aura è un senhal con cui il poeta nasconde la realtà femminile, così ci è detto negli ultimi versi. L’aura è messaggera dell’alba, come l’alba è messaggera d’amore che ristora ogni cuore arso d’amore.

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Tiziano: Francesco Maria della Rovere

Ma il capolavoro dell’arte lirica di Tasso è certamente la Canzone al Metauro, presumibilmente scritta ad Urbino, dove il nostro cercava protezione presso il duca Francesco Maria Della Rovere:

CANZONE AL METAURO

O del grand’Appennino
figlio piccolo sì, ma glorïoso
e di nome più chiaro assai che d’onde,
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al più denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dea, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle,
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.

Oimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sassel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
cono sospir mi rimembra e de gli ardenti
preghi che se ’n portar l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.

In aspro esiglio e ’n dura

povertà crebbi in quei sì mesi errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni;
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime a le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu lo sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto.

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Piacesi Walter: Canzone del Metauro (1984)

O figlio piccolo sì, ma glorioso, del grande Appennino, e illustre per fama molto più che per l’abbondanza delle acque, io, errante costretto alla fuga, giungo a queste tue sponde generose e amiche per cercare sicurezza e riposo. L’alta Quercia (simbolo della stemma dei Della Rovere) che tu bagni e fecondi con le tue acque dolcissime, grazie alle quali quella dispiega i rami così da coprire monti e mari, mi ricopra con la sua ombra. L’ombra sacra, ospitale, che a nessuno nega riposo e accoglienza con la sua gentile frescura, mi accolga e mi richiuda nel più fitto fogliame, così che io sia nascosto a quella crudele e cieca dea (la Fortuna) che è cieca eppure mi vede, ben-ché io mi nasconda da lei sui monti o nelle valli e io muova di notte, senza essere visto da nessuno, i miei passi lungo sentieri solitari; e mi colpisce così che, nelle mie sventure, mostra di a-vere tanti occhi quante sono le sue frecce. // Ohimé! Dal giorno che per la prima volta respirai l’aria che mantiene in vita e aprii gli occhi a questa vita che per me non è mai serena, fui trastullo e bersaglio della Fortuna ingiusta e malvagia, e di sua mano subii ferite che a malapena il passare degli anni rimargina. Lo sa la gloriosa e sublime sirena (Partenope, attorno al cui sepolcro era sorta, secondo la tradizione Napoli), presso il cui sepolcro io nacqui: oh, se avessi avuto in quel luogo tomba onorata o misera sepoltura al primo colpo (che la Fortuna m’inferse)! La malvagia fortuna strappò me, ancora fanciullo, dal seno della madre. Ah! sospirando, ricordo quei baci che ella bagnò di dolorose lacrime e le appassionate preghiere che i venti fugaci hanno portato via; infatti io non avrei più potuto accostare il mio volto al suo, accolto tra quelle braccia con legami così stretti e così tenaci. Me infelice! e seguii con passi poco sicuri mio padre, nel suo vagabondare, come Ascanio o Camilla (il primo segue Enea dopo la disfatta di Troia; la seconda il padre Métabo, re dei Volsci). // Sono cresciuto in un esilio doloroso e dura povertà, durante quel triste vagabondare ho acquisito una precoce sensibilità alle sofferenze: perché la durezza della sorte e dei dolori, fece maturare in me, prima del tempo, la giovinezza. Racconterò tutto sulla vecchiezza malata e misera di mio padre e sui fatti dolorosi che accaddero. Forse che non sono io tanto pieno dei miei dolori, da non essere sufficiente da solo, come esempio di dolore? Dunque chi altri, se non me stesso, dev’essere oggetto di pianto da parte mia? Ormai i miei sospiri di dolore sono pochi a confronto di quanto vorrei, e queste due fonti così abbondanti d’acqua, non rendono le lacrime pari alle pene (che provo). Padre, o buon padre, che guardi dal cielo, ti piansi quand’eri malato e poi quando sei morto, e tu lo sai bene, e piangendo scaldai il tuo letto e poi la tua tomba: ora sei beato in cielo: a te è dovuto onore, non lutto; il mio dolore sia tutto riversato su di me.  

La canzone non è terminata e s’interrompe al sessantesimo verso. Ci sono tre stanze in cui il poeta, stando a ciò che egli esprime nei versi, cerca sicurezza ad Urbino, in un momento assai difficile della sua vita, quando, nel 1578, dopo i primi dissidi col duca, cerca protezione presso il Della Rovere. Questa canzone, pertanto, come molte altre liriche tassiane, è d’occasione, cioè nasce dall’“occasione” appunto di una richiesta d’accoglimento presso la corte urbinate. Da qui il tono sostenuto e liricamente atteggiato nell’encomio dei primi versi; infatti la grande quercia, in quanto rappresenta lo stemma dei Della Rovere e l’intera città d’Urbino, bagnata dal piccolo fiume Metauro, metaforizza appunto la grandezza storica (e qui il richiamo storico alle guerre puniche) e geografica (il suo estendersi dalle montagne, l’Appennino, e il mare, l’Adriatico). Ma, a livello psichico, potrebbe anche metaforizzare il grembo materno: i verbi di accoglimento fino alla chiusura, in un intricato abbraccio, la volontà di nascondersi alla “cieca dea”, cioè la fortuna o il destino, stanno a significare nella duplicità dell’animo del poeta, il polo della sicurezza, o meglio, la ricerca di tale polo, qui esemplificato nell’accoglienza presso una corte e tra le “braccia” di un principe.

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Aminta nell’edizione Manunzio (1590)

AMINTA

E’ certamente, tra le opere minori del Tasso, quella più riuscita; sicuramente questo è determinato dal clima sereno in cui fu composta, nel periodo felice, precedente i suoi turbamenti psichici quando, protetto e amato come grande letterato nella corte Ferrarese, riusciva a donare ad essa un dramma pastorale, per le vacanze estive del 1573, e recitata nella splendida isoletta di Belvedere sul Po, di fronte a tutta la corte.

Il giovane pastore Aminta ama la ninfa Silvia che, seguace di Diana e dedita unicamente alla caccia, disprezza il suo amore. L’amico Tirsi e l’esperta Dafne cercano di aiutare Aminta. Alla fine Tirsi spinge Aminta a dichiararsi apertamente e raggiungere la ninfa mentre sta bagnandosi presso una fonte. Ma prima che il pastore giunga, Silvia sta per essere aggredita da un satiro e fugge. Aminta giunge appena in tempo, ma la ragazza, invece di ringraziarlo, scappa ancora. Subito dopo Nerina (altra ninfa) afferma che Silvia, fuggendo, è stata aggredita dai lupi e di lei è rimasto solo un velo insanguinato. Aminta, disperato perché crede che il velo testimoni la morte della ragazza, si getta da una rupe. Silvia, che morta non è, saputa la storia del pastore, si pente e corre da lui e piange il corpo del pastore. Ma nemmeno lui è morto: un cespuglio ne ha attutito la caduta. Risvegliato dalle lacrime della Ninfa si risveglia e così i due potranno amarsi senza più inibizioni.

Il genere dell’opera corrisponde ad un dramma pastorale in 5 atti in settenari ed endecasillabi; tutto ciò rappresenta una novità in quanto egli applica la struttura della tragedia antica in quanto:

  • rispetta le regole aristoteliche sull’unità di tempo, azione e luogo;
  • rispetta la divisione in atti, la presenza di un prologo e di un coro alla fine di ciascuno di esso;
  • la presenza di elementi “tragici” come il tentativo del suicidio che tuttavia mescola con temi tratti dalla commedia: la presenza di un satiro dalla sessualità libera e disinvolta e il lieto fine.

Tutto ciò diventa possibile per lui perché, non essendo la favola pastorale un genere presente nella letteratura classica, egli può non rispettare le regole di qualcosa di codificato, ma cercare, viceversa, d’impostare egli stesso le regole per un genere che riprendendo temi dalla classicità (si pensi alle Bucoliche di Virgilio, ma anche all’Arcadia di Sannazzaro) le codifica dentro uno schema preciso.

L’opera ebbe da subito vasta eco nella corte ferrarese, soprattutto perché era stata scritta a tema: per meglio dire, dietro i personaggi rappresentati vi si poteva cogliere l’elegante riferimento a uomini e donne della corte di Astolfo. Ma la sua “durabilità” va certamente oltre la riconoscibilità che il pubblico di allora poteva trovarvi. E’ che in essa vi si trova racchiuso tutto il mondo tassiano per il tema dell’amore, che, motivo dominante dell’opera, viene qui cantato nella piena riaffermazione di un piacere rinascimentale accompagnato da un’estrema sensualità e il rifiuto di ogni rigidezza morale. Ma tale tema viene poi accompagnato da una forte ambiguità: l’amore è libertà, nessuna costrizione, ma è rivolto ad una corte che, seppur “ancora” splendida, è il centro di ogni norma e costrizione. Sin d’ora quindi, anche nel periodo felice del nostro si riafferma l’amore/odio per la corte, l’amore /odio per la libertà.

S’EI PIACE, EI LICE
(I, 565-632)

O bella età de l’oro,
non già perché di latte
se ’n corse il fiume e stillò mele il bosco:
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre e gli angui errar senz’ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che da ’l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S’ei piace, ei lice.

Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose
ch’or tien ne ’l velo ascose,
e le poma de ’l seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.
 

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete:
tu a’ begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete:

tu raccogliesti in rete
le chiome a l’aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d’Amore.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d’Amore e di Natura donno,
tu domator de’ regi,
che fai tra questi chiostri
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene e turba il sonno
a gl’illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.

Amiam, ché ’l Sol si muore e poi rinasce:
a noi una breve luce
s’asconde, e’ l sonno eterna notte adduce.

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Aminta nell’edizione Manunzio (1590)

O bella età dell’oro, non soltanto perché scorreva il latte nei fiumi e il bosco grondava di miele, non perché le terre producevano i loro frutti senza essere state dissodate dall’aratro e i serpenti strisciavano senza aggressività o veleno; non perché allora nessuna nuvola fosca oscurava il sole, e in una primavera eterna, che ora si alterna alla torrida estate e al gelido inverno, il cielo risplendeva di luce e di sereno, le navi erranti non portavano guerra o merci verso gli altri paesi. // Ma soltanto perché quel vuoto nome senza consistenza, quella falsa e ingannevole divinità, quello che fu poi chiamato Onore dal popolo ignorante, che lo rese tiranno della natura umana, non mescolava l’affanno ai sereni piaceri della schiera degli innamorati, e la sua crudele legge non fu conosciuta da quelle anime abituate alla libertà, ma una legge beata e felice che la natura ha scolpito: “Ciò che piace è lecito”. // Allora gli Amorini, senza arco né fiaccole, intrecciavano leggiadre danze, i pastori e le ninfe sedevano insieme mescolando tenerezze e sussurri alle parole e baci appassionati a sussurri, le fanciulle scoprivano senza veli le loro fresche bellezze e il seno acerbo e seducente, che sono ora nascoste dagli abiti; e spesso si vedeva l’innamorato scherzare con l’amata in una fonte o in lago. // Tu, Onore, per primo hai nascosto la fonte dei piaceri, negando l’acqua alla sete dell’amore; tu hai insegnato ai begli occhi a starsene pudicamente abbassati e a tenere le loro bellezze nascoste agli altri; tu raccogliesti in una rete i capelli sparsi all’aria; tu rendesti ritrosi e vergognosi i dolci atti amorosi, imponesti limiti alle parole e regole ai movimenti; solo per causa tua o Onore, ciò che prima fu un dono spontaneo d’Amore ora è un furto. // Le nostre sofferenze, i nostri pianti sono tue illustri imprese. Ma tu, signore di Amore e di Natura, tu, dominatore dei re, che cosa fai tra questi boschi solitari che non possono contenere la tua grandezza? Vattene e turba il sonno agli uomini illustri e ai potenti: lascia noi, gente dimenticata ed umile, vivere qui, senza di te, secondo gli usi dei popoli antichi. Amiamo, poiché la vita umana non si ferma con il tempo ed è fugace. // Amiamo, perché il sole muore e poi risorge: la sua breve luce si nasconde a noi, e il sonno della morte porta la notte eterna.

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Edizione inglese dell’Aminta

E’ evidente che ci troviamo di fronte a un passo dove sembra si possa ripercorrere la gaiezza umanistico-rinascimentale della gioia dell’amore, rivivendola nel mito di una età dell’oro, che il nostro sembra indicare esistere nell’allegra brigata nobile lì raccolta in vacanza a Bellosguardo dove assiste al suo dramma pastorale. Ma forse è qui la difficile contraddizione con cui il lettore d’oggi (e sicuramente lo spettatore ieri) deve confrontarsi. Il brano è recitato dal coro dei pastori alla fine del I atto: ora, seppur idealizzato, è proprio l’essere pastori che situa il loro canto lontano da chi pastore non è, cioè il nobile, che, infatti, non vive in campagna. E’ chiaro che ci troviamo di fronte a un gioco letterario, ma se l’opera, come già detto, è a tema, proprio nei protagonisti i nobili spettatori si riconoscevano, e dovevano riconoscersi in esseri che criticavano l’età, in cui, finita quella dell’oro, veniva a censurarli l’onore (cui non è certo difficile riconoscere la morale cattolica controriformistica)? Certo la vacanza estiva “allentava” e in qualche modo poteva “plaudire” al dettato tassiano. Ma le contraddizioni interne erano dell’autore, e tali rimarranno fino ad esplodere nella follia.

DISCORSI SULL’ARTE POETICA

Il capolavoro di Torquato Tasso viene elaborato dopo una lunga meditazione che lo porta a riflettere sul ruolo che il poema epico/cavalleresco, che ha dato fama e gloria a Boiardo e ad Ariosto, in questo nuovo periodo e in questa stessa città deve assumere e quale fine, chi lo scrive, si deve prefiggere. A tale scopo dà vita un’opera teorica che inizia nel 1562 e termina, dopo averla rivista e corretti, nel 1587. E’ un testo in tre libri, in cui il nostro ragiona su cosa il poema debba centrarsi, in che modo si debba intendere il fantastico, quale forma e quale stile debba avere, sempre paragonando il poema su cui sta lavorando a quello dell’Ariosto. Esso s’inserisce nel dibattito teorico della seconda metà del ’500 sulla natura della struttura del poema eroico, ma per Tasso si tratta di un’opera che si sviluppa mentre lavora alla Gersulamme e pertanto si configura come un continuo rapporto tra teoria e pratica.

LA MATERIA DEL POEMA EROICO

La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, ed allora par che il poeta abbia parte non solo ne la scelta, ma ne la invenzione ancora; o si toglie da l’istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che da l’istoria si prenda; perché dovendo l’epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo, come principio notissimo), non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta, e passata a la memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria. (…)
Dovendo il poeta con la sembianza de la verità ingannare i lettori, e non solo persuader loro che le cose da lui trattate sian vere, ma sottoporle in guisa a i lor sensi, che credano non di leggerle, ma di esser presenti, e di vederle, e di udirle, è necessitato di guadagnarsi ne l’animo loro questa opinion di verità; il che facilmente con l’autorità de l’istoria gli verrà fatto.

La materia, che può essere anche chiamata comodamente argomento, o è tratta dalla finzione, e allora è evidente che il poeta abbia parte non solo nella scelta (dell’argomento stesso), ma anche nella capacità inventiva; oppure si trae dalla storia. Secondo il mio pensiero è molto meglio che si prenda dalla storia, perché dovendo l’autore epico trattare soprattutto il verosimile (presuppongo che questo principio sia notissimo), non è dunque verosimile se non un’azione illustre, come quelle del poema eroico, che non sia stata già scritta e ricordata dai posteri con l’aiuto di qualche documento.  (…)
Dovendo il poeta “ingannare” il lettore con l’imitazione della realtà, non solo convincerli che le cose da lui scritte siano vere, ma sottoporle ai loro sensi in modo tale che essi credano non solo di leggerle, ma d’essere presenti, vederle, udirle. E’ quindi necessario che egli dia ai lettori questa impressione di verità, che certamente con l’autorità della storia verrà fatto loro.

Cominciamo subito a notare come il Tasso sottolinei la distanza che separa la sua concezione da quella di Ariosto: infatti, basandosi sull’autorità aristotelica, secondo cui l’arte è imitazione della realtà (principio notissimo), il compito del poeta epico non è quello di porre la propria storia in un non-tempo, come appunto nell’Orlando Furioso, ma di cercare il verisimile, cioè trarlo dalla storia, per dare a lui maggiore autorità. Infatti Tasso è estremamente consapevole di come l’attenzione di un lettore sia maggiormente attratta da una storia che il lettore stesso sa esser stata reale.

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Edizione del 1964

IL MERAVIGLIOSO CRISTIANO

Deve dunque l’argomento del poema epico esser tolto da l’istorie; ma l’istoria, o è di religione tenuta falsa da noi, o di religione che vera crediamo, quale è oggi la cristiana, e vera fu già l’ebrea. Né giudico che l’azioni de’ gentili ci porgano comodo soggetto, onde perfetto poema epico se ne formi: perché in que’ tali poemi, o vogliamo ricorrer talora a le deità che da’ gentili erano adorate, o non vogliamo ricorrervi; se non vi ricorriamo mai, viene a mancarvi il meraviglioso; se vi ricorriamo, resta privo il poema in quella parte del verisimile. Poco dilettevole è veramente quel poema, che non ha seco quelle maraviglie, che tanto muovono non solo l’animo de gl’ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora: parlo di quelli anelli, di quelli scudi incantati, di que’ corsieri volanti, di quelle navi converse in ninfe, di quelle larve che fra’ combattenti si tramettono, e d’altre cose sí fatte; de le quali, quasi di sapori, deve il giudizioso scrittore condire il suo poema; perché con esse invita ed alletta il gusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de’ piú intendenti. Ma non potendo questi miracoli esser operati da virtú naturale, è necessario ch’a la virtú sopranaturale ci rivolgiamo; e rivolgendoci a le deità de’ gentili, subito cessa il verisimile; perché non può esser verisimile a gli uomini nostri quello, ch’è da lor tenuto non solo falso, ma impossìbile; ma impossibil’è che dal potere di quell’idoli vani e senza soggetto, che non sono e non furon mai, procedano cose, che di tanto la natura e l’umanità trapassino. (…)
Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter degli uomini, a Dio, a gli angioli suoi, a’ demoni, o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è concessa questa podestà, quali sono i santi, i maghi e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, meravigliose parranno; anzi miracoli sono chiamati nel commune uso di parlare. Queste medesime, se si avrà riguardo a la virtù ed a la potenza di chi l’ha operate, verisimili saranno giudicate, perché avendo gli uomini nostri bevuta ne le fasce insieme co ’l latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri de la nostra santa Fede, cioè che Dio e i suoi ministri, e i demoni ed i maghi, permettendolo lui, possino far cose sovra le forze de la natura meravigliose; e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne novi esempi, non parrà loro fuori del verisimile quello, che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto, e poter di novo molte volte avvenire. (…)
Può essere dunque una medesima azione e meravigliosa e verisimile: meravigliosa, riguardandola in sé stessa, e circonscritta dentro a i termini naturali; verisimile, considerandola divisa da questi termini ne la sua cagione, la quale è una virtú sopranaturale, potente, ed avvezza ad operar simili meraviglie.

Dunque l’argomento del poema epico dev’essere tratto dalla storia; ma la storia o appartiene ad una religione ritenuta da noi falsa, o crediamo essere vera, come oggi è la religione cristiana e ieri l’ebrea. Non ritengo che le favole mitologiche ci porgano un utile soggetto da cui formare un poema epico; infatti o ricorriamo alla mitologia o meno, ma se non vi ricorriamo manca (nel poema) il meraviglioso, se vi ricorriamo mancherà il verosimile. Poco piacevole è infatti un poema, non solo per gli illetterati ma anche per i colti in cui manchi il meraviglioso: parlo di anelli (fatati), scudi incantati, cavalli volanti, navi trasformate in dee, di fantasmi che si intromettono nei duelli, e di altre azioni straordinarie, con cui, come fossero un condimento, un accorto scrittore condisce il suo poema, perché così invita e fa gradire agli ignoranti senza creare loro dei fastidi, con soddisfazione anche dei competenti. Ma tali miracoli, non potendo avvenire nella realtà naturale, è necessario per noi rivolgerci a quella soprannaturale, e, come già detto, se prendessimo le divinità pagane cesserebbe il verosimile, in quanto è ritenuto giustamente falso ciò che loro non credono, e quindi impossibile; ma è altrettanto impossibile che da quegli idoli senza consistenza, mai esistiti, derivino cose che oltrepassino la natura e l’umanità. (…)
Alcune operazioni, che eccedono la capacità umana, vengano attribuite a Dio, agli angeli, ai diavoli, o a coloro la cui forza derivi dagli angeli o dai diavoli, come i santi, i maghi e le fate. Queste azioni, prese per sé, saranno ritenute meravigliose, tanto che nella nostra lingua sono definite miracoli. Queste stesse, se si penserà alla virtù e alla potenza di chi l’ha fatte nascere, saranno giudicate verosimili; infatti i nostri uomini credono ciò sin dalla più tenera età, quando l’hanno imparata sin da quando erano in fasce e bevevano il latte, cioè che Dio ed i suoi ministri e i diavoli e i maghi, con la sua volontà, possono fare veri e propri miracoli, e sentendo spesso che ciò è avvenuto, credono possa avvenire ancora. (…)
Un’azione può dunque essere sia meravigliosa che verosimile: meravigliosa guardandola in se stessa e considerandola nella sua natura; verosimile considerandola divisa dalla realtà nei suoi fondamenti, in quanto è sovrannaturale,  potente ed abituata a creare tali meraviglie.

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Edizione del 1587

E’ chiaro come qui Tasso, in linea con la Controriforma, cerchi di fare un poema cattolico: abbiamo già visto come sia necessario, per fare ciò, ricorrere alla storia; appare chiaro, ora, per Tasso, far sì che all’interno di essa, affinché vi sia anche la possibilità del divertimento, non possa mancare l’elemento fantastico. Occorre a lui, pertanto, giustificare quest’ultimo sulla linea di un confronto con l’epica antica e confortato da uno stretto ragionamento che si muove su linee razionali; infatti se il poema per interessare deve ricorrere alla storia, creando così il verosimile, non può inserire in essa ciò che verosimile non è, altrimenti cadrebbe anche la prima verosimiglianza; ora se l’apparato mitologico è, per un cattolico, una bella favola ma certamente falsa, essa non può inficiare l’operazione del poema. Allora, per far sì che tale poema esista anche nella necessaria componente fantastica si ricorrerà al meraviglioso cristiano, cioè al miracoloso divino e demoniaco, pertanto a ciò che il lettore credente crede, in quanto uomo di fede.

Altri punti fondamentali che il poeta tocca nei libri successivi sono:

  • unità/varietà: critica Ariosto per l’estrema varietà dell’opera che, a ben guardare non narra una storia (ma ne ammette la piacevolezza per il lettore che ha bisogno di tale varietà); ma critica anche il poeta Trissino che, scrivendo l’Italia liberata dai Goti, poema in cui vuole imitare Virgilio e toglie qualsiasi varietà, non ha raggiunto per il lettore la piacevolezza dell’Orlando; lui inaugura la teoria della varietà nell’unità: racconto una sola storia in cui poi inserisco episodi diversi (guerre, incendi, amori, operazioni divine e diaboliche);

  • stile: lo stile dev’essere “magnifico”, sublime, così come scrive Dante nel suo De vulgari eloquentia. Ma affinché non risultiu troppo magniloquente dev’essere integrato con momenti “lirici”.

LA GERUSALEMME LIBERATA 

L’idea di un poema che celebrasse l’impresa della prima crociata, giunge a Tasso sin da giovanissimo, tanto che già a 15 anni si mette all’opera e compone il primo canto della Gierusalemme. Gli enormi problemi che tale progetto porta con sé non sfuggono al precoce poeta: il rapporto tra storia e fantasia, il concetto di meraviglioso (nonché la presenza di un modello così ingombrante come l’Orlando Furioso), tanto da decidere di rinviare l’opera a tempi più opportuni. Passa solo un anno e comincia a lavorare al Rinaldo, pubblicato a Venezia nel 1562. Questo poema cerca di risolvere il problema del moderno poema eroico: infatti si discuteva se dovesse essere ariostesco, cioè suscitare interesse e piacere attraverso la varietà, o dovesse seguire più pedissequamente il modello omerico o virgiliano. Tasso supera il problema prendendo a modello l’Amadigi del padre, cioè inserendo un solo protagonista all’interno di una serie di avventure. Intorno agli anni ’70 il Tasso lavora alacremente al suo capolavoro che licenzia, nella prima stesura, nel 1575. L’attesa per la pubblicazione presso la corte è enorme: lo stesso duca vorrebbe che l’opera fosse resa pubblica sin da subito. Tasso tuttavia non è esente da dubbi e manda una copia a Padova e una Roma affinché lettori qualificati possano giudicarla. Le critiche giungono (alcune impietose, soprattutto da parte religiosa) e il poeta inizia così il lavoro di revisione; ma intanto il poema comincia a circolare senza il suo permesso. Ciò è dovuto al suo essere rinchiuso a Sant’Anna e non aver alcun controllo su ciò che del suo lavoro venisse fatto fuori. Infatti nel 1581 circola già un’edizione che molto probabilmente contiene in sé alcune correzioni tassiane, (ed è l’opera che noi tutt’oggi leggiamo); ma il poeta continua a lavorarci cercando di cancellare ogni forma potesse allontanare anche il solo sospetto di non essere cattolicamente ortodossa. Uscirà infatti nel 1593, a Roma, la Gerusalemme conquistata. Ma i lettori di un tempo, la critica d’oggi, ritenendo valida l’edizione dell’81 e considerando la Conquistata opera altra rispetto alla Liberata, accettano soltanto quest’ultima come splendido esempio di letteratura del secondo Cinquecento.

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Edizione del 1771

Il tema fondamentale della Gerusalemme Liberata è la guerra dei Cristiani contro i Musulmani promossa da Urbano II durante la prima Crociata e la conquista di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione nel 1099.

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Sante Peranda: Ritratto di Afonso II d’Este (seconda metà del XVI sec.)

Vediamone la struttura e i principali motivi attraverso l’opera stessa:

PROEMIO
(1-5)

Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in van
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti. 

Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.

Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ’l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve. 

Tu, magnanimo Alfonso, il quale ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dí fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.

È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.

Canto le armi pie e il capitano (Goffredo di Buglione) che liberò il venerabile sepolcro di Cristo (dai musulmani). Egli compì molte imprese con la saggezza e con la forza, molti patimenti subì durante la conquista (di Gerusalemme); e invano l’inferno si oppose alla sua impresa, e invano le diverse popolazioni dell’Asia e dell’Africa, unite insieme, presero le armi (contro di lui). Dio gli fu favorevole ed egli ricondusse sotto le insegne  sacre (la croce) i suoi compagni dispersi. // O musa, tu che non circondi la fronte (dei poeti) sull’Elicona con gli allori che hanno vita breve, ma hai una corona d’oro di stelle  immortali nel cielo fra i cori dei beati, infondi tu nel mio cuore profondi sentimenti religiosi, illumina tu la mia poesia, e perdonami se intreccio episodi di fantasia e gli eventi storici, se abbellisco in parte le carte con altri piaceri, diversi dai tuoi. // Sai che tutti (il mondo) accorrono là, dove l’ingannevole Parnaso diffonde (versi) maggiormente le sue dolcezze e che la verità storica, se arricchita di versi piacevoli ha persuaso, allettandoli, anche i più restii (ad accettare la verità). Allo stesso modo porgiamo al fanciullo malato (egro) i bordi della tazza (che contiene il farmaco) ricoperti (spersi) di dolce liquido e così egli, ingannato, beve farmaci amari e riacquista la salute dal suo inganno. // Tu, magnanimo Alfonso, che sottrai alla violenza della tempesta (fortuna) e guidi nel porto me, esule disperso, trasportato con forza (agitato) e quasi inghiottito (absorto) dalle onde, accogli benevolmente (in lieta fronte) questo mio poema (carte), che offro a te, come se le avessi consacrate (sacrate) con un voto. Forse un giorno succederà che la mia penna che presagisce (le glorie di Alfonso), avrà l’ardire di scrivere su di te quello che ora è solo accennato. // Se avverrà che il popolo cristiano non sia mai in pace e che, con navi e cavalli, tenti di sottrarre (ritor) la nobile e immeritata preda (il sepolcro di Cristo) ai feroci Turchi (il fero Trace), è cosa giusta (è ben ragion) che ti conceda il potere (scettro) in terra o, se vuoi, il supremo comando dei mari. Emulo di Goffredo, ascolta intanto i miei versi (i nostri carmi) e preparati a combattere.

Questo proemio si può benissimo ripartire in tre elementi fondamentali:

  • Stanza 1: vi è la materia del poema, cioè la presa di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione, nell’ultima fase della guerra. Ma tale stanza è importante anche perché ci mostra la presa di distanza da Ariosto e il modello imperante virgiliano: infatti Canto l’arme pietose e il capitano traduce in modo “letterale” l’Arma virumque cano dell’Eneide; inoltre l’aggettivo pietose rimanda in modo diretto al concetto di pietas virgiliana; il rimarcare poi il nome del protagonista vuole significare, inoltre, ricercare l’unità nel poema, cioè la figura unitaria che non permette di disperdessi in mille rivoli, ma il centro da cui dipartono e poi tornano i protagonisti;
  • Stanze 2-3: invocazione alla Musa. Come già chiarito nei Discorsi sull’arte poetica, Tasso intende la Musa come intelligenza angelica capace di ispirare dall’alto una poesia sacra (come in Dante, che nel Paradiso, invita Apollo “Entra nel petto mio, spira tue” ad ispirarlo). Egli, quindi, chiede scusa se, per allettare i lettori, intesse fregi al ver, cioè abbellisce, con il meraviglioso, la verità storica, riprendendo anche qui il concetto classico sia lucreziano che oraziano del miscere utile dulci (mescolare l’utile al dilettevole).
  • Stanze 4-5: motivo encomiastico. Tale motivo Tasso lo intreccia con quello personale. Infatti egli è un peregrino che cerca conforto dal duca Alfonso. Ma se i cavalieri erranti (verso 8) vengono richiamati nella giusta via per combattere per la vera fede da Goffredo, il duca, nuovo comandante, chiamerà a sé l’errante Tasso a dargli affetto e protezione.

Goffredo-Di-Buglione-2.jpgGoffredo di Buglione  in un anacronistico affresco del 1420 ad opera di un anonimo pittore italiano

Quindi il primo canto prosegue con Dio che volge lo sguardo sugli eserciti cristiani e sui loro principi, e vede Goffredo pieno di sacro ardore verso i pagani, ma gli altri principi pieni di brame (amore, gloria personale) che li fanno deviare dal loro vero compito. Allora chiama l’arcangelo Gabriele e gli ordina di andare presso Goffredo e d’imporgli la fine della guerra. A tale scopo, per sua volontà, egli sarà il comandante e chiamerà presso sé tutti gli altri principi per l’alto compito a lui affidato. A questo punto Tasso ci illustrerà i più grandi cavalieri dell’esercito cristiano, tra cui spiccano Tancredi, il cui cuore arde per la pagana Clorinda, che l’ha affascinato mentre bevono su una fontana (ma lei è restia all’amore) e Rinaldo, ancora fanciullo, ispirato da Marte, quando è in assetto da guerra e da Amore, quando è libero dalla corazza. I comandanti, anche su invito di Pietro l’Eremita accettano e si mettono in marcia verso Gerusalemme. Dall’altra parte Aladino, preoccupato, guarda le sue difese.

Canto II: Il diabolico mago Ismeno consiglia ad Aladino di rubare ai cristiani un’immagine della Madonna, che, se posta nella moschea di Gerusalemme, avrebbe reso la città inespugnabile. Ma tale immagine improvvisamente sparisce e Aladino per vendetta decide d’uccidere tutti i cristiani. Affinché ciò non avvenga s’incolpa del misfatto Sofronia, ma Olindo, innamorato di lei, s’incolpa a sua volta per liberarla. A sottrarre i due dalla morte interviene la bella guerriera Clorinda, già apparsa al cavaliere cristiano Tancredi, che se ne innamora perdutamente. Nella seconda parte del canto intervengono gli ambasciatori di Aladino, il mellifluo Alete e l’impetuoso Argante, che invitano Goffredo ad abbandonare l’impresa, se non vorrà anche l’intervento dell’esercito egiziano. Ma Goffredo risponde loro in modo risoluto e s’alza, infine, il grido di sfida di tutto il campo cristiano; ma non viene meno alle consuetudini che si usano verso gli ambasciatori e dona ad Alete un elmo e ad Argante una spada.

Canto III: la narrazione si apre con la marcia risoluta dei cristiani per la conquista di Gerusalemme, al cui approssimarsi si commuovono perché luogo della nascita di Cristo. Dall’alto di una torre vengono scorti ed Erminia li mostra ad Aladino, avendoli conosciuti in quanto è stata loro prigioniera. Clorinda intanto si muove verso i nemici, finché incontra Tancredi:

ERMINIA E TANCREDI, PRIGIONIERI D’AMORE
(17-28)

Porta sí salda la gran lancia, e in guisa
vien feroce e leggiadro il giovenetto,
che veggendolo d’alto il re s’avisa
che sia guerriero infra gli scelti eletto.
Onde dice a colei ch’è seco assisa,
e che già sente palpitarsi il petto:
«Ben conoscer déi tu per sí lungo uso
ogni cristian, benché ne l’arme chiuso.

Chi è dunque costui, che cosí bene

s’adatta in giostra, e fero in vista è tanto?»
A quella, in vece di risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
ma non cosí che lor non mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.

Poi gli dice infingevole, e nasconde
sotto il manto de l’odio altro desio:
«Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
fra mille riconoscerlo deggia io,
ché spesso il vidi i campi e le profonde
fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
ch’ei faccia, erba non giova od arte maga.

Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero
mio fosse un giorno! e no ’l vorrei già morto;
vivo il vorrei, perch’in me desse al fero
desio dolce vendetta alcun conforto.»
Cosí parlava, e de’ suoi detti il vero
da chi l’udiva in altro senso è torto;
e fuor n’uscí con le sue voci estreme
misto un sospir che ’ndarno ella già preme.

Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferirsi a le visiere, e i tronchi in alto
volaro e parte nuda ella ne resta;
ché, rotti i lacci a l’elmo suo, d’un salto
(mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
e le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo ’l campo apparse.

Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
dolci ne l’ira; or che sarian nel riso?
Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
non riconosci tu l’altero viso?
Quest’è pur quel bel volto onde tutt’ardi;
tuo core il dica, ov’è il suo essempio inciso.
Questa è colei che rinfrescar la fronte
vedesti già nel solitario fonte.

Ei ch’al cimiero ed al dipinto scudo
non badò prima, or lei veggendo impètra;
ella quanto può meglio il capo ignudo
si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
ma però da lei pace non impetra,
che minacciosa il segue, e: «Volgi» grida;
e di due morti in un punto lo sfida.

Percosso, il cavalier non ripercote,
né sí dal ferro a riguardarsi attende,
come a guardar i begli occhi e le gote
ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra sé dicea: «Van le percosse vote
talor, che la sua destra armata stende;
ma colpo mai del bello ignudo volto
non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto.»

Risolve al fin, benché pietà non spere,
di non morir tacendo occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fere
già inerme, e supplichevole e tremante;
onde le dice: «O tu, che mostri avere
per nemico me sol fra turbe tante,
usciam di questa mischia, ed in disparte
i’ potrò teco, e tu meco provarte.

Cosí me’ si vedrà s’al tuo s’agguaglia
il mio valore». Ella accettò l’invito:
e come esser senz’elmo a lei non caglia,
gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
già la guerriera, e già l’avea ferito,
quand’egli: «Or ferma», disse «e siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti».

Fermossi, e lui di pauroso audace
rendé in quel punto il disperato amore.
«I patti sian», dicea «poi che tu pace
meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non piú mio, s’a te dispiace
ch’egli piú viva, volontario more:
è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
omai tu debbia, e non debb’io vietarlo.

Ecco io chino le braccia, e t’appresento
senza difesa il petto: or ché no ’l fiedi?
vuoi ch’agevoli l’opra? I’ son contento
trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi».
Distinguea forse in piú duro lamento
i suoi dolori il misero Tancredi,
ma calca l’impedisce intempestiva
de’ pagani e de’ suoi che soprarriva.

400D9ED1-A284-4304-8F5E-4C52E9B6DE09.jpegPaolo Finoglio: Tancredi e Clorinda

Impugna così saldamente la lunga lancia ed avanza in un modo al contempo gentile e fiero il giovane (Tancredi) che, vedendolo dalla torre, il re (Aladino) suppone che sia scelto fra i guerrieri eletti. Quindi dice a colei (Erminia) che sta seduta vicina a lui e che già sente battere forte il cuore: «Per averli frequentati a lungo, tu devi ben conoscere tutti i cristiani, anche se sono nascosti nelle loro armature. // Chi è dunque costui, che si prepara così bene al combattimento ed è così fiero nell’aspetto?» Ad Erminia, invece della risposta, viene sulle labbra un sospiro e negli occhi il pianto. Ella trattiene i sospiri e le lacrime ma non fino al punto di non mostrarli per nulla: un delicato rossore si diffonde intorno agli occhi gonfi di pianto e il sospiro a metà si fa rauco. // Poi, fingendo e nascondendo sotto un falso odio un diverso desiderio (l’amore per Tancredi) dice ad Aladino: «Ahimè! Lo conosco bene ed ho buoni motivi per riconoscerlo tra altri mille cavalieri, poiché spesso lo vidi riempire i campi di battaglia e le fosse del sangue del mio popolo. Ah quanto è crudele nel colpire! Per guarire le ferite da lui inferte non servono le erbe medicamentose né la magia. // Egli è il principe Tancredi: oh fosse mio prigioniero un giorno! E non  lo vorrei morto, lo vorrei vivo, perché la dolce vendetta possa dare qualche sollievo al mio crudele desiderio». Così ella parlava, e chi ascoltava le sue parole ne interpretava in altro modo il senso; e mescolato con le sue ultime parole uscì un sospiro, che invano lei tentò di soffocare. // Clorinda intanto va a contrastare l’assalto di Tancredi, lancia in resta. Si colpirono sulle visiere degli elmi e i pezzi delle lance infrante volarono alti, a Clorinda rimase scoperta una parte del volto, perché rotti i lacci che lo tenevano fermo, l’elmo le cadde dalla testa; ella si rivelò quindi, in mezzo al campo di battaglia, come una giovane donna dai capelli biondi sparsi al vento. // I suoi occhi lampeggiarono e i suoi sguardi furono folgoranti, dolci anche nella rabbia: come sarebbero, allora, nella gioia dell’amore? Tancredi, a che cosa pensi ancora? Che cosa guardi ancora? Non riconosci quel viso altero? Questo è il viso per cui ardi tutto d’amore, te lo dica il tuo cuore dove è impressa la sua immagine. Questo è la donna che vedesti rinfrescarsi la fronte nella fonte solitaria. // Tancredi, che prima non aveva badato al pennacchio e all’insegna raffigurata nello scudo, ora vedendola rimane impietrito; lei si copre per quanto può il capo nudo e attacca Tancredi: egli indietreggia, va all’assalto di altri guerrieri ruotando la spada crudele, ma non ottiene tregua da lei, che lo segue minacciosa e grida: «Girati» e di due morti insieme lo minaccia. // Colpito, il cavaliere non risponde ai colpi, e non è accorto a difendersi dalla spada come, invece, è attento a contemplare i begli occhi e il volto da cui Amore tende l’arco al quale non si può sfuggire. Diceva fra sé: «A volte vanno a vuoto i colpi portati dal suo braccio, mai un colpo del suo bel volto cade nel vuoto: il mio cuore né è sempre colpito». // Decide infine, benché non speri in alcuna pietà, di non morire tacendo come un amante segreto. Vuole che lei sappia che sta colpendo un suo prigioniero indifeso, supplice e tremante, per cui le dice: «O tu, che fra tutti questi combattenti sembri avere solo me come nemico, usciamo da questa mischia così io potrò misurarmi in disparte con te, e tu provarti con me. // Così si vedrà se al tuo valore si avvicina il mio». Ella accettò l’invito e, come se l’essere senza elmo non le importasse, andava baldanzosa ed egli la seguiva smarrito. Già si era disposta a combattere e già aveva ferito Tancredi, quando egli disse: «Fermati, prima che il duello inizi, ne siano fissate le regole» // Lei si fermò, e l’amore disperato rese coraggioso lui che fino a quel punto era stato timoroso. Diceva: «I patti siano, poiché non vuoi essere in pace con me, che allora tu mi strappi il cuore. Il mio cuore, che non è più mio, se tu non vuoi che viva, è pronto ad accettare la morte: esso è tuo da molto tempo, e ora che tu lo prenda ed io non debba impedirtelo. // Ecco, io abbasso le braccia e ti offro il petto senza difesa: perché non lo colpisci? Vuoi che ti agevoli l’opera? Io sono contento di togliermi la corazza, proprio ora, se vuoi che il mio petto sia nudo». Il povero Tancredi forse avrebbe potuto esprimersi con parole più struggenti il suo profondo tormento, ma glielo impedì il sopraggiungere inopportuno delle truppe pagane e cristiane.

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Tancredi d’Altavilla

L’inizio del canto è ripreso dal modello omerico e prende il nome di teichoscopìa (guardare dall’alto delle mura della città): come Elena indica a Priamo i grandi eroi dell’esercito greco, Erminia fa lo stesso con i cavalieri cristiani. Ma qui l’episodio omerico si complica sentimentalmente, trasformando un episodio epico in un episodio lirico. Infatti quello che emerge in questo passo del terzo canto è uno dei temi che contraddistinguerà l’intera opera: il tema dell’amore impossibile. Infatti gli episodi sono due e ambedue strettamente legati: Erminia dalla torre vede Tancredi, di cui è fortemente innamorata, ma egli non può riamarla perché è a sua volta profondamente innamorato di Clorinda, che rifiuta il suo amore, perché donna-guerriera. Quindi Erminia e Clorinda, musulmane entrambe, rappresentano donne contrapposte: l’una tutta emozioni, l’altra tutta azione; e vengono significativamente posta una sull’alto di una torre; l’altra in pieno campo di battaglia. Tancredi, preda, da ambedue è disegnato come “passivo”: sordo all’amore di Erminia, succube di Clorinda. Non è un caso che egli impetri il suo amore, svestendosi della propria identità di cavaliere e addirittura della propria vita. Ma non ultimo, nella parte iniziale, la duplicità delle parole tassiane nel discorso di Erminia, ed è l’autore stesso a significarci l’ambiguità di fondo quando afferma de’ suoi detti il vero da chi l’udiva in altro senso è torto.

Il canto prosegue con l’approcciarsi dell’esercito pagano in fuga e del cristiano all’inseguimento. Un soldato di questi, passando dietro a Clorinda, vede parte del capo scoperta e la ferisce lievemente. Appena Tancredi se ne accorge, lo ferisce e alla sua fuga si dà all’inseguimento. Clorinda, li guarda un po’, poi si unisce ai suoi compagni e caccia i cristiani che può colpire e fugge da quelli che potrebbero a loro volta colpire. I soldati pagani indietreggiano e tentano di ripiegare dentro le mura. I cristiani vengono quasi accerchiati dal loro ripiegamento; infatti Argante, collocato su una collina, li attacca con un piccolo drappello d’artiglieria. Si riaccende la battaglia, da una parte Clorinda ed Armida, dall’altra il principe Dudone, danno vita ad un intenso scontro, finché giungono Tancredi e Rinaldo che riescono a indebolire il fronte avversario. Argante riceve da Tancredi un colpo, ma il suo cavallo è colpito; mentre tenta di liberarsi, Argante uccide Dudone, proprio con la spada, dono di Goffredo. Rinaldo vorrebbe sin da subito vendicare il cavaliere ucciso, ma viene fermato da Goffredo che decide di scavare fossati e trincee attorno alla città. Si fanno solenni esequie verso Dudone. Subito dopo si entra nella foresta da cui trarre la legna per fabbricare le armi d’assedio.

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Immagine per il canto IV

Canto IV: Il Diavolo, deciso di difendere la città dai cristiani, indice un concilio:

IL CONCILIO INFERNALE
(3-6)

Chiama gli abitator de l’ombre eterne
il rauco suon de la tartarea tromba.
Treman le spaziose atre caverne,
e l’aer cieco a quel romor rimbomba;
né sí stridendo mai da le superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né sí scossa giamai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.

Tosto gli dèi d’Abisso in varie torme
concorron d’ogn’intorno a l’alte porte.
Oh come strane, oh come orribil forme!
quant’è ne gli occhi lor terrore e morte!
Stampano alcuni il suol di ferine orme,
E ’n fronte umana han chiome d’angui attorte,
e lor s’aggira dietro immensa coda
Che quasi sferza si ripiega, e snoda.

Qui mille immonde Arpie vedresti e mille
Centauri e Sfingi e pallide Gorgoni,
molte e molte latrar voraci Scille,
e fischiar Idre e sibilar Pitoni,
e vomitar Chimere atre faville,
e Polifemi orrendi e Gerioni;
e in novi mostri, e non piú intesi o visti,
diversi aspetti in un confusi e misti.

Chiama i diavoli dell’inferno il suono rauco della tromba infernale. Tremano gli scuri anfratti e l’aria nera rimbomba a quel rumore; mai la folgore piomba dall’alto del cielo in modo così assordante, mai la terra trema scossa dai vapori che piena trattiene. // Subito gli dei infernali accorrono da tutte le parti in varie schiere verso la reggia di Satana. Oh, che forme orribili; oh, che forme strane! Quanto terrore e morte c’è nei loro sguardi! Alcuni camminano con i piedi d’animali feroci e hanno sulla fronte capelli di serpenti ritorti e dietro loro c’è un’immensa coda, che sferza, si piega e si snoda. // Qui si possono vedere tantissime orribili Arpie, e tantissimi Centauri, Sfingi, pallide Gorgoni, moltissime Scille lamentarsi latrando, Idri soffiare, Pitoni strisciare e le Chimere vomitare scure scintille e spaventosi Polifemi e Gerioni; ed anche nuovi mostri, mai sentiti e visti, mescolati e confusi in diverse forme.

In questo passo, il poeta mostra una straordinaria capacità di utilizzare diverse fonti: la prima è soprattutto virgiliana, ma non manca la lettura attenta di Dante e degli scrittori cristiani del Cinquecento.

In questo concilio si decide che il mago Idraote, re di Damasco, ordini a sua nipote Armida di recarsi in campo cristiano in apparenza per chiedere ai cavalieri aiuto, in realtà per distoglierli dalla guerra:

LA MAGA ARMIDA
(29-36)

Argo non mai, non vide Cipro o Delo
d’abito o di beltà forme sí care:
d’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo
traluce involta, or discoperta appare.
Cosí, qualor si rasserena il cielo,
or da candida nube il sol traspare,
or da la nube uscendo i raggi intorno
piú chiari spiega e ne raddoppia il giorno.

Fa nove crespe l’aura al crin disciolto,
che natura per sé rincrespa in onde;
stassi l’avaro sguardo in sé raccolto,
e i tesori d’amore e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel bel volto
fra l’avorio si sparge e si confonde,
ma ne la bocca, onde esce aura amorosa,
sola rosseggia e semplice la rosa.

Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
onde il foco d’Amor si nutre e desta.
Parte appar de le mamme acerbe e crude,
parte altrui ne ricopre invida vesta:
invida, ma s’a gli occhi il varco chiude,
l’amoroso pensier già non arresta,
ché non ben pago di bellezza esterna
ne gli occulti secreti anco s’interna.

Come per acqua o per cristallo intero
trapassa il raggio, e no ’l divide o parte,
per entro il chiuso manto osa il pensiero
sí penetrar ne la vietata parte.
Ivi si spazia, ivi contempla il vero
di tante meraviglie a parte a parte;
poscia al desio le narra e le descrive,
e ne fa le sue fiamme in lui piú vive.

Lodata passa e vagheggiata Armida
fra le cupide turbe, e se n’avede.
No ’l mostra già, benché in suo cor ne rida,
e ne disegni alte vittorie e prede.
Mentre, sospesa alquanto, alcuna guida
che la conduca al capitan richiede,
Eustazio occorse a lei, che del sovrano
principe de le squadre era germano.

Come al lume farfalla, ei si rivolse
a lo splendor de la beltà divina,
e rimirar da presso i lumi volse
che dolcemente atto modesto inchina;
e ne trasse gran fiamma e la raccolse
come da foco suole esca vicina,
e disse verso lei, ch’audace e baldo
il fea de gli anni e de l’amore il caldo:

«Donna, se pur tal nome a te conviensi,
ché non somigli tu cosa terrena,
né v’è figlia d’Adamo in cui dispensi
cotanto il Ciel di sua luce serena,
che da te si ricerca? ed onde viensi?
qual tua ventura o nostra or qui ti mena?
Fa’ che sappia chi sei, fa’ ch’io non erri
ne l’onorarti; e s’è ragion, m’atterri»

Risponde: «Il tuo lodar troppo alto sale,
né tanto in suso il merto nostro arriva.
Cosa vedi, signor, non pur mortale,
ma già morta a i diletti, al duol sol viva;
mia sciagura mi spinge in loco tale,
vergine peregrina e fuggitiva.
Ricovro al pio Goffredo, e in lui confido
tal va di sua bontate intorno il grido.

Mai Argo, mai Cipro, né Delo videro un così bel portamento o un così bel corpo: (Armida) ha i capelli biondi ed appaiono ora avvolti da un velo bianco, ora completamente scoperti. Così, a volte si rasserena il cielo, o il sole appare appena coperto da una candida nube, oppure i raggi del sole, uscendo dietro una  nuvola, si irradiano più chiari e raddoppiano la loro luminosità. // L’aria intorno le crea nuovi riccioli, già per natura ondulati. Il timido sguardo sta chiuso in sé e nasconde le sue armi d’amore e i suoi sguardi. Dolce color rosa si sparge e si mescola in quel bel volto bianco come l’avorio, ma nella bocca, da cui escono sospiri d’amore, sola e semplice risplende la rosa (il color rosa). //  Mostra il petto il suo candore, da cui trova alimento il fuoco d’Amore. Appare una parte delle mammelle turgide e crudeli (per le ferite d’amore), un’altra la nasconde la gelosa veste; gelosa, ma se sottrae allo sguardo (le bellezze custodite) il pensiero d’amore non si ferma, perché non appagato da ciò che appare, s’addentra nei segreti interni. // Come un raggio di luce attraversa l’acqua o il cristallo rimanendo intero senza dividerlo o frantumarlo, il pensiero osa entrare così profondamente nei luoghi ricoperti dalla veste. Qui trova spazio e trova la certezza di tanta meraviglia in ogni parte; poi (il pensiero) le racconta e le descrive al desiderio, e rende le fiamme d’amore ancor più vive. // Lodata e desiderata passa Armida tra i desiderosi soldati e se ne rende conto. Non lo dà a vedere, benché ne goda e ne tragga motivo per progettare vittorie amorose e prede di amanti: Mentre piuttosto dubbiosa chiede che qualcuno la guidi dal capitano, Eustazio si presentò a lei, che era fratello minore del capo delle truppe cristiane. // Come una farfalla verso la luce, egli volle ammirare da vicino gli occhi (di Armida), che un atto di pudore fa dolcemente abbassare e ne derivò una gran fiamma d’amore e la raccolse come dal fuoco è solito raccogliere un’esca vicina, e disse verso la donna, che lo rendevano audace e e fiero nella giovanile età e pronto all’amore: //  «Donna, se tale nome a te si conviene, perché non somigli a una donna terrena, non c’è figlia d’Adamo in cui il Cielo abbia voluto mostrare così tanto la sua serena luce, che cosa stai cercando? E da dove vieni? Quale tuo o nostro destino, ti conduce qui? Dimmi chi sei, affinché io non erri nel renderti onore e se è giusto che io mi prostri davanti a te, come cosa divina». // Risponde: «La tua lode vola troppo in alto, non così il nostro merito. Tu vedi una donna, o cavaliere, non solo mortale, ma già morta ai piaceri e viva solo al dolore; la mia sventura mi spinge in questo luogo, vergine pellegrina e in fuga. Mi rifugio presso il pio Goffredo, e confido in lui, tale è la fama della sua virtù». 

L’apparizione di Armida rappresenta la sensualità, l’eros represso dei cavalieri, che attraverso lei riscoprono il loro essere uomini peccatori e non cavalieri integerrimi al cospetto di Dio (così si presenta a lei Eustazio, fratello più giovane di Goffredo). Ma lei, proprio per questo è demoniaca, così come l’austero medioevo aveva disegnato la donna, così come la Chiesa controriformistica voleva riproporre: il poeta indugia sul suo corpo, come un guerriero fa di fronte ad un’apparizione estranea, inusuale in un campo di battaglia; i capelli e il bianco viso rimandano ad una ispirazione petrarchesca, ma Tasso va oltre e ci fa soffermare lo sguardo sulle mammelle, trattenute a stento da una veste e sul pensiero che varca l’abito alla scoperta della sua nudità. La voluttà dei sensi contro il dovere della guerra; nel periodo tassiano peccato contro salvezza.

Armide.JPG

Jacques Blanchard: Armida

Quindi Eustazio la porta da Goffredo, a cui lei racconta, da attrice consumata le sue peripezie: figlia del re di Damasco, rimasta orfana fu affidata allo zio. Costui pensa di farne la moglie del figlio, ma quest’ultimo è rozzo e villano, pertanto rifiuta le nozze. Il malvagio zio, temendola in quanto erede legittima, pensa di darle il veleno, ma, avvisata dal ministro Aronte, fugge, e si rifugia nel suo castello. L’usurpatore, diffamandola, vuole attaccar battaglia contro ambedue. Per questo lei chiede aiuto a Goffredo offrendogli tributi e fedeltà, se l’aiuterà ad ottenere la libertà. Ma Goffredo non fidandosi e temendo d’indebolire l’esercito, promette d’aiutarla dopo aver liberato Gerusalemme. Allora lei scoppia in un pianto disperato, maledicendo la propria sfortuna. Eustazio prende le sue difese e, adducendo la norma cavalleresca secondo cui un cavaliere di ventura deve difendere una donna, convince molti cavalieri. A Goffredo non rimane che affidarle dieci cavalieri, scelti proprio da Eustazio.

Canto V: strettamente legato al precedente. Armida con le armi ammaliatrici cerca di conquistare quanti più cavalieri possibili, per indebolire l’esercito avversario. Nel frattempo Goffredo dispone che i cavalieri di ventura eleggano un capo in sostituzione di Dudone. Eustazio lo chiede a Rinaldo, sperando in un suo rifiuto. Ma la candidatura di Rinaldo irrita Gernando, orgoglioso discendente del re di Svezia. Spinto da una furia infernale la sua ira cresce a tal punto che non esita ad oltraggiare Rinaldo in campo aperto: il giovane cavaliere, colpito nell’onore, allora sfida apertamente Gernando e lo uccide. Il gesto di Rinaldo non può essere, tuttavia, ignorato; accusato da Arnaldo e difeso da Tancredi, vene consigliato dallo stesso Goffredo ad allontanarsi dal campo, finché le acque non si plachino. Intanto Armida continua la sua opera di seduzione anche con Tancredi e Goffredo: ma il primo non si lascia irretire, fermo nella pietas cristiana e nell’esperienza della vita e il secondo ha il cuore occupato solo dalla bella Clorinda. Nel giorno stabilito Armida si presenta a Goffredo per ricevere l’aiuto promesso; il Capitano fa scrivere i nomi dei cavalieri e li fa porre in un’urna da cui vengono estratti i nomi dei dieci “fortunati” che partiranno con lei; ma altri, come Eustazio, la seguono. Alla fine arriva un messaggero polveroso che annuncia a Goffredo l’arrivo dell’esercito egiziano.

Canto VI: Il re Aladino sovrintende ai lavori di rafforzamento per Gerusalemme, ma Argante gli rimprovera di essere poco coraggioso; quindi propone una sfida con cinque grandi cavalieri cristiani. Viene mandato un araldo in campo cristiano: la proposta viene accettata. Argante esce dalla città accompagnato da Clorinda e da mille cavalieri, secondo la volontà del re Aladino. Va incontro a lui Tancredi, ma vista Clorinda e rimanendone ammaliato cerca di raggiungerla; allora si lancia in duello Ottone, che viene abbattuto; Tancredi, infine, si riprende e ingaggia un grandioso duello con Argante: ma la notte interrompe il combattimento e i due vengono divisi. Tutti hanno ammirato l’arduo scontro tra i due campioni, solo Erminia ha sofferto vedendo il duello dalla torre del castello. Vuole ora accorrere dall’amato e curargli la ferite, col cuore che oscilla tra l’amore per Tancredi e l’onore per la sua bandiera. Erminia, infine, decisa per l’amore, vedendo le armi di Clorinda appese alla parete, decide di vestirsene, di uscire dalla città, sicura che le guardie non l’avrebbero fermata, e di andare verso il campo cristiano. 

ERMINIA NELLA NOTTE
(90-103)

Essa veggendo il ciel d’alcuna stella
già sparso intorno divenir piú nero,
senza fraporvi alcuno indugio appella
secretamente un suo fedel scudiero
ed una sua leal diletta ancella,
e parte scopre lor del suo pensiero.
Scopre il disegno de la fuga, e finge
ch’altra cagion a dipartir l’astringe.

Lo scudiero fedel súbito appresta

ciò ch’al lor uopo necessario crede.
Erminia intanto la pomposa vesta
si spoglia, che le scende insino al piede,
e in ischietto vestir leggiadra resta
e snella sí ch’ogni credenza eccede;
né, trattane colei ch’a la partita
scelta s’avea, compagna altra l’aita.

Co ’l durissimo acciar preme ed offende

il delicato collo e l’aurea chioma,
e la tenera man lo scudo prende,
pur troppo grave e insopportabil soma.
Cosí tutta di ferro intorno splende,
e in atto militar se stessa doma.
Gode Amor ch’è presente, e tra sé ride,
come allor già ch’avolse in gonna Alcide.

Oh! con quanta fatica ella sostiene

l’inegual peso e move lenti i passi,
ed a la fida compagnia s’attiene
che per appoggio andar dinanzi fassi.
Ma rinforzan gli spirti Amore e spene
e ministran vigore a i membri lassi,
sí che giungono al loco ove le aspetta
lo scudiero, e in arcion sagliono in fretta.

Travestiti ne vanno, e la piú ascosa
e piú riposta via prendono ad arte,
pur s’avengono in molti e l’aria ombrosa
veggon lucer di ferro in ogni parte;
ma impedir lor viaggio alcun non osa,
e cedendo il sentier ne va in disparte,
ché quel candido ammanto e la temuta
insegna anco ne l’ombra è conosciuta.

Erminia, benché quinci alquanto sceme
del dubbio suo, non va però secura,
ché d’essere scoperta a la fin teme
e del suo troppo ardir sente or paura;
ma pur, giunta a la porta, il timor preme
ed inganna colui che n’ha la cura.
«Io son Clorinda», disse «apri la porta,
ché ’l re m’invia dove l’andare importa».

La voce feminil sembiante a quella
de la guerriera agevola l’inganno
(chi crederia veder armata in sella
una de l’altre ch’arme oprar non sanno?),
sí che ’l portier tosto ubidisce, ed ella
n’esce veloce e i duo che seco vanno;
e per lor securezza entro le valli
calando prendon lunghi obliqui calli.

Ma poi ch’Erminia in solitaria ed ima
parte si vede, alquanto il corso allenta,
ch’i primi rischi aver passati estima,
né d’esser ritenuta omai paventa.
Or pensa a quello a che pensato in prima
non bene aveva; ed or le s’appresenta
difficil piú ch’a lei non fu mostrata
dal frettoloso suo desir, l’entrata.

Vede or che sotto il militar sembiante
ir tra feri nemici è gran follia;
né d’altra parte palesarsi, inante
ch’al suo signor giungesse, altrui vorria.
A lui secreta ed improvisa amante
con secura onestà giunger desia;
onde si ferma, e da miglior pensiero
fatta piú cauta parla al suo scudiero:

«Essere, o mio fedele, a te conviene
mio precursor, ma sii pronto e sagace.
Vattene al campo, e fa’ ch’alcun ti mene
e t’introduca ove Tancredi giace,
a cui dirai che donna a lui ne viene
che gli apporta salute e chiede pace:
pace, poscia ch’Amor guerra mi move,
ond’ei salute, io refrigerio trove;

e ch’essa ha in lui sí certa e viva fede
ch’in suo poter non teme onta né scorno.
Di’ sol questo a lui solo; e s’altro ei chiede,
di’ non saperlo e affretta il tuo ritorno.
Io (ché questa mi par secura sede)
in questo mezzo qui farò soggiorno».
Cosí disse la donna, e quel leale
gía veloce cosí come avesse ale.

E ’n guisa oprar sapea, ch’amicamente
entro a i chiusi ripari era raccolto,
e poi condotto al cavalier giacente,
che l’ambasciata udia con lieto volto;
e già lasciando ei lui, che ne la mente
mille dubbi pensier avea rivolto,
ne riportava a lei dolce risposta:
ch’entrar potrà, quando piú lice, ascosta.

Ma ella intanto impaziente, a cui
troppo ogni indugio par noioso e greve,
numera fra se stessa i passi altrui
e pensa: «or giunge, or entra, or tornar deve».
E già le sembra, e se ne duol, colui
men del solito assai spedito e leve.
Spingesi al fine inanti, e ’n parte ascende
onde comincia a discoprir le tende.

Era la notte, e ’l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ’l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.

2a5a5d6e4e633488bc9220bb65d0af63.jpgJulien de Parme. Erminia indossa l’armatura di Clorinda (1775)

Erminia, vedendo il cielo già trapunto di stelle farsi sempre più scuro, senza indugio chiama segretamente un fedele scudiero e una cara e fedele ancella e li mette al corrente, almeno in parte, del suo piano. Svela il suo progetto di fuga, ma finge che siano altri i motivi che la inducono a partire. // Lo scudiero fedele subito prepara ciò che ritiene necessario allo scopo. Erminia, intanto, si spoglia della sfarzosa veste, che le scende fino ai piedi, per rimanere comunque bellissima vestita in modo semplice succinto e snella più di quanto si potrebbe credere, né l’aiuta nessun’altra all’infuori di colei che si era scelta come compagna per la salvezza. // Così il durissimo acciaio preme ed appesantisce il suo delicato collo e la chioma dorata, e la tenera mano afferra lo scudo, benché sia un peso troppo grande e insopportabile. Così Erminia splende tutta ricoperta di ferro e con un atteggiamento militare doma la propria natura di donna. Amore, che assiste alla vestizione, gode e ride tra sé, come quando costrinse Ercole a vestire abiti femminili. // Oh con quanta fatica Erminia sostiene il peso sproporzionato alle sue forze e muove i passi lentamente, e alla fidata compagna si sostiene che va davanti a lei, per fornirle l’appoggio. Ma l’amore e la speranza rinforzano gli spiriti vitali e forniscono forza alle membra infiacchite, finché giungono nel luogo dove le aspetta lo scudiero e salgono in fretta sul cavallo. // Vanno travestiti, e prendono di proposito la via più lontana e nascosta, eppure incontrano molte persone e l’aria scura rifulge in ogni luogo dal balenio del ferro delle armi; ma nessuno osa impedire il loro cammino, e cedendo il passo si mette in disparte, che la bianca armatura (di Clorinda) e l’insegna temuta è da tutti riconosciuta. // Erminia, benché da questo fatto si senta meno dubbiosa, non è però del tutto rassicurata perché teme alla fine d’essere scoperta e del suo ardire ora prova paura; ma pure, giunta alla porta, soffoca il timore e inganna colui che vi è preposto. Disse: «Sono Clorinda, apri la porta, perché il re mi manda dove è necessario che io vada». // La voce femminile, simile a quella della guerriera, facilita l’inganno (chi avrebbe creduto vedere armata in sella un’altra donna incapace d’adoperare le armi?) tanto che il portiere subito ubbidisce, e lei, con i due che stanno insieme, esce veloce e per sicurezza, scendendo dentro la valle prendono lunghi e tortuosi cammini. // Mai poi che Erminia si vede in un solitario e profondo luogo, rallenta la corsa, perché crede d’aver superato i primi ostacoli, né teme di esser più trattenuta. Solo ora pensa a ciò che prima non aveva soppesato bene; ora le sovviene la difficoltà dell’entrata (nel campo cristiano) che non le fu mostrata dall’impetuoso suo desiderio. // Comprende ora che sotto l’armatura di Clorinda andare tra i nemici è gran follia, né vorrebbe mostrarsi ad altri, prima di giungere al suo signore (Tancredi); desidera arrivare a lui sicura del suo onore, come segreta ed improvvisa amante; perciò si ferma e resa più cauta, con maggior ponderazione, parla al suo scudiero: «O mio fedele, è necessario che tu mi preceda, ma sii pronto e astuto. Vai al campo (cristiano), e fa in modo che qualcuno ti conduca da Tancredi ferito, e gli dirai che a lui s’avvicinerà una donna che porterà salvezza e pace; pace, dal momento in cui Amore mi muove guerra, e dove egli trovi salvezza, che io possa trovare sollievo; e che lei ha così fiducia in lui che non teme, sotto la sua protezione, di ricevere offese e umiliazioni. Digli soltanto questo, e se lui chiede altro, digli di non saperlo e affretta il tuo ritorno. Io (che questo mi sembra un luogo sicuro) in questo posto aspetterò». Così disse la donna e quello scudiero leale già correva, come avesse le ali. // E sapeva destreggiarsi in quest’opera, tanto da essere raccolto amichevolmente entro il campo, e quindi condotto da Tancredi ferito, che ascoltò l’ambasciata con volto lieto; e già mentre lo lasciava, perché nella mente combattevano mille pensieri, faceva riportare a lei una dolce risposta: che potrà entrare, quanto più vuole, nascosta. // Ma lei nel frattempo, impaziente, a cui ogni attesa sembra troppo incresciosa e grave, conta in se stessa le mosse dello scudiero e pensa: «Ora arriva, ora entra, ora comincia a tornare». E già le sembra, e se ne dispiace, molto meno svelto del solito. Si spinge infine un poco avanti e sale da dove comincia a vedere le tende. // Era notte, e il suo stellato cielo dispiegava chiaro, senza alcuna nuvola, e già la sorgente luna spargeva i suoi aloni luminosi e rugiada di vive perle. La donna innamorata va sfogando con il cielo le sue fiamme d’amore e testimoni segreti della sua passione rende i campi e quel silenzio amico.

Il personaggio d’Erminia, nella notte, vestendosi da Clorinda, va verso l’innamorato ferito. Ma ciò che manca in lei è la risolutezza. Il suo stato d’animo, infatti, è tormentato da dubbi, mosso tra paura e desiderio, tra amore e dovere. Vorrebbe essere forte, decisa, risoluta, ma sa di non esserlo. Allora ci prova, vestendosi come Clorinda, cioè prendendone il posto, e sognando, per una volta, ad essere ciò che non è. In Erminia, infatti, troviamo vari stati d’animo ed un vissuto interiorizzato che ne fanno un personaggio “moderno”: ella, cioè sembra collocarsi tra la fine dell’epica e l’inizio del romanzo contemporaneo. Ciò è esemplificativo del bifrontismo tassiano: Erminia già sulla torre mostrava di dire cose contrarie al suo sentire, qui invece si copre di ferro, mentre dentro è fragile; instabilità psicologica, volontà scissa tra l’essere e il voler essere: il suo è un personaggio fortemente anti epico.  

Il canto prosegue con Erminia ansiosa, ma un raggio di luna colpisce il suo cimiero, che viene riconosciuto da alcuni cavalieri cristiani che la scambiano per Clorinda. Viene quindi assalita ed è costretta a fuggire.

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Eugène Delacroix: Erminia (1856)  

Il canto VII si apre con la fuga di Erminia:

LA PARENTESI IDILLICA DI ERMINIA
(1 – 22)

 Intanto Erminia infra l’ombrose piante
d’antica selva dal cavallo è scorta,
né piú governa il fren la man tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
il corridor ch’in sua balia la porta,
ch’al fin da gli occhi altrui pur si dilegua,
ed è soverchio omai ch’altri la segua.

 Qual dopo lunga e faticosa caccia
tornansi mesti ed anelanti i cani
che la fèra perduta abbian di traccia,
nascosa in selva da gli aperti piani,
tal pieni d’ira e di vergogna in faccia
riedono stanchi i cavalier cristiani.
Ella pur fugge, e timida e smarrita
non si volge a mirar s’anco è seguita.

 Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d’intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l’ora che ’l sol dal carro adorno
scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida,
giunse del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui si giacque.

 Cibo non prende già, ché de’ suoi mali
solo si pasce e sol di pianto ha sete;
ma ’l sonno, che de’ miseri mortali
è co ’l suo dolce oblio posa e quiete,
sopí co’ sensi i suoi dolori, e l’ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre ella dorme.

 Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.

 Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti
rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene,
che sembra ed è di pastorali accenti
misto e di boscareccie inculte avene.
Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,
e vede un uom canuto a l’ombre amene
tesser fiscelle a la sua greggia a canto
ed ascoltar di tre fanciulli il canto.

 Vedendo quivi comparir repente
l’insolite arme, sbigottír costoro;
ma li saluta Erminia e dolcemente
gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro:
«Seguite», dice «aventurosa gente
al Ciel diletta, il bel vostro lavoro,
ché non portano già guerra quest’armi
a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi».

 Soggiunse poscia: «O padre, or che d’intorno
d’alto incendio di guerra arde il paese,
come qui state in placido soggiorno
senza temer le militari offese?»
«Figlio», ei rispose «d’ogni oltraggio e scorno
la mia famiglia e la mia greggia illese
sempre qui fur, né strepito di Marte
ancor turbò questa remota parte.

 O sia grazia del Ciel che l’umiltade
d’innocente pastor salvi e sublime,
o che, sí come il folgore non cade
in basso pian ma su l’eccelse cime,
cosí il furor di peregrine spade
sol de’ gran re l’altere teste opprime,
né gli avidi soldati a preda alletta
la nostra povertà vile e negletta.

 Altrui vile e negletta, a me sí cara
che non bramo tesor né regal verga,
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l’acqua chiara,
che non tem’io che di venen s’asperga,
e questa greggia e l’orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.

 Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro
bisogno onde la vita si conservi.
Son figli miei questi ch’addito e mostro,
custodi de la mandra, e non ho servi.
Cosí me ’n vivo in solitario chiostro,
saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
ed i pesci guizzar di questo fiume
e spiegar gli augelletti al ciel le piume.

Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia
ne l’età prima, ch’ebbi altro desio
e disdegnai di pasturar la greggia;
e fuggii dal paese a me natio,
e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia
fra i ministri del re fui posto anch’io,
e benché fossi guardian de gli orti
vidi e conobbi pur l’inique corti.

 Pur lusingato da speranza ardita
soffrii lunga stagion ciò che piú spiace;
ma poi ch’insieme con l’età fiorita
mancò la speme e la baldanza audace,
piansi i riposi di quest’umil vita
e sospirai la mia perduta pace,
e dissi; ‘O corte, a Dio’ Cosí, a gli amici
boschi tornando, ho tratto i dí felici».

Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende
da la soave bocca intenta e cheta;
e quel saggio parlar, ch’al cor le scende,
de’ sensi in parte le procelle acqueta.
Dopo molto pensar, consiglio prende
in quella solitudine secreta
insino a tanto almen farne soggiorno
ch’agevoli fortuna il suo ritorno.

 Onde al buon vecchio dice: «O fortunato,
ch’un tempo conoscesti il male a prova,
se non t’invidii il Ciel sí dolce stato,
de le miserie mie pietà ti mova;
e me teco raccogli in cosí grato
albergo ch’abitar teco mi giova.
Forse fia che ’l mio core infra quest’ombre
del suo peso mortal parte disgombre.

 Ché se di gemme e d’or, che ’l vulgo adora
sí come idoli suoi, tu fossi vago,
potresti ben, tante n’ho meco ancora,
renderne il tuo desio contento e pago».
Quinci, versando da’ begli occhi fora
umor di doglia cristallino e vago,
parte narrò di sue fortune, e intanto
il pietoso pastor pianse al suo pianto.

 Poi dolce la consola e sí l’accoglie
come tutt’arda di paterno zelo,
e la conduce ov’è l’antica moglie
che di conforme cor gli ha data il Cielo.
La fanciulla regal di rozze spoglie
s’ammanta, e cinge al crin ruvido velo;
ma nel moto de gli occhi e de le membra
non già di boschi abitatrice sembra.

 Non copre abito vil la nobil luce
e quanto è in lei d’altero e di gentile,
e fuor la maestà regia traluce
per gli atti ancor de l’essercizio umile.
Guida la greggia a i paschi e la riduce
con la povera verga al chiuso ovile,
e da l’irsute mamme il latte preme
e ’n giro accolto poi lo strige insieme.

 Sovente, allor che su gli estivi ardori
giacean le pecorelle a l’ombra assise,
ne la scorza de’ faggi e de gli allori
segnò l’amato nome in mille guise,
e de’ suoi strani ed infelici amori
gli aspri successi in mille piante incise,
e in rileggendo poi le proprie note
rigò di belle lagrime le gote.

 Indi dicea piangendo: «In voi serbate
questa dolente istoria, amiche piante;
perché se fia ch’a le vostr’ombre grate
giamai soggiorni alcun fedele amante,
senta svegliarsi al cor dolce pietate
de le sventure mie sí varie e tante,
e dica: ‘Ah troppo ingiusta empia mercede
diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!’

Forse averrà, se ’l Ciel benigno ascolta
affettuoso alcun prego mortale,
che venga in queste selve anco tal volta
quegli a cui di me forse or nulla cale;
e rivolgendo gli occhi ove sepolta
giacerà questa spoglia inferma e frale,
tardo premio conceda a i miei martíri
di poche lagrimette e di sospiri;

 onde se in vita il cor misero fue,
sia lo spirito in morte almen felice,
e ’l cener freddo de le fiamme sue
goda quel ch’or godere a me non lice».

1200px-Joseph_Benoit_Suvee_-_Erminia_and_the_Shepherds.jpgJoseph-Benoît Suvée: Erminia tra i pastori (1776)

Frattanto Erminia è condotta (è scorta) dal cavallo fra gli alberi ombrosi dell’antica selva, e la sua mano tremante non riesce più a governare la griglia del cavallo, e sembra quasi esanime. Percorre tanti sentieri con il cavallo che la conduce a suo piacere, che alla fine fa perdere le tracce ai suoi inseguitori ed è ormai inutile che qualcuno la insegua. // Come i cani che dopo una lunga e faticosa battuta di caccia, tornano sconfortati e affannati dopo aver perso le tracce dell’animale selvatico inseguito che si è nascosto nel bosco (fuggendo) dall’aperta campagna, così ritornano stanchi i cavalieri cristiani, pieni d’ira e di vergogna sul volto. Erminia continua a fuggire e, paurosa e smarrita, non si volge indietro a guardare se è ancora inseguita. // Fuggì per tutta la notte e vagabondò per tutto il giorno senza meta e senza essere guidata, non vedendo e udendo altro intorno che le proprie lacrime e le proprie grida. Ma nell’ora in cui il sole slega i cavalli dal carro ornato e si inoltra nel grembo del mare, ella giunse alle limpide acque del bel fiume Giordano, scese in riva al fiume e qui si abbandonò in terra. // Non si ciba di nulla, perché si nutre solo delle proprie angosce e si disseta solo col proprio pianto, ma il sonno, che, col suo dolce oblio, è riposo e quiete dei miseri mortali, insieme con i sensi fece assopire i suoi dolori e distese sopra di lei le ali calme e serene; ma Amore, con diverse immagini oniriche, non cessa di turbare il suo riposo mentre ella dorme. // Non si risvegliò fino a quando non sentì cantare lieti gli uccelli e dare il saluto alle prime luci dell’alba, e mormorare il fiume e gli alberelli e la brezza scherzare con le acque e con i fiori. Apre i malinconici occhi e guarda quelle abitazioni solitarie di pastori e le sembra di udire una voce tra l’acqua e i rami che la fa tornare col pensiero al sospiro e al pianto. // Ma, mentre piange, i suoi lamenti sono interrotti da un suono nitido che giunge a lei, che sembra, ed è, una mescolanza di canti di pastori e di (suoni di) zampogne rustiche e rozze. Si alza e si dirige là (verso il luogo da dove provengono i suoni) a passi lenti e vede un uomo canuto che intreccia vimini sotto le ombre gradevoli, accanto al suo gregge, e ascolta il canto di tre fanciulli. // Costoro, vedendo apparire lì improvvisamente delle armi, cosa inconsueta (in un luogo tranquillo) si spaventano, ma Erminia li saluta e dolcemente li rassicura e scopre gli occhi e i bei capelli d’oro (togliendosi l’elmo): «Continuate il vostro piacevole lavoro», dice «o gente fortunata e cara a Dio, perché queste armi non portano la guerra alle vostre occupazioni e ai vostri dolci canti». // Poi soggiunse: «O padre, ora che la nostra terra arde tutt’intorno per il grande incendio della guerra, come potete stare qui dimorando tranquillamente senza temere gli attacchi dei soldati?». «Figlio», egli rispose «qui la mia famiglia e il mio gregge restarono sempre immuni da ogni aggressione e insulto, né il fragore della guerra (Marte) ha ancora disturbato questa lontana regione. // Sia ringraziato Dio, affinché protegga e onori l’umiltà dell’innocente pastore, o affinché, come il fulmine non colpisce le pianure ma le cime più alte, il furore dei soldati stranieri minacci soltanto le superbe teste dei grandi re e la nostra povertà bassa e disprezzata non alletti, come preda, i sodati avidi. // Per altri è bassa e disprezzata, (ma) a me è così cara che non desidero ricchezza né scettro regale, né la preoccupazione o il desiderio ambizioso e avido trovano posto nella tranquillità del mio cuore. Placo la mia sete nell’acqua limpida che non temo che venga inquinata da veleno, e questo gregge e l’orticello offrono alla mia umile mensa cibi non acquistati. // Perché poco è il desiderio e poco è ciò che ci occorre per vivere. Questi che io addito e mostro sono i miei figli, custodi della mandria, e non ho servi. Così trascorro la vita in un appartato luogo solitario, vedendo saltare gli agili capretti e i cervi e guizzare i pesci di questo fiume e gli uccellini aprire le ali al cielo. // Vi è stato un tempo, nella giovinezza quando si hanno le più grandi illusioni, in cui ebbi un desiderio diverso e disprezzai il mestiere di pastore e fuggii dal mio paese natale e vissi un tempo a Menfi, e nella reggia fui designato anch’io fra i servitori del re e, benché fossi il guardiano dei giardini, tuttavia vidi e conobbi le ingiustizie delle corti. // Solo allettato da una speranza temeraria, sopportai a lungo ciò che più dispiace; ma dopo che, insieme alla giovinezza, mi vennero a mancare la speranza e l’ardito entusiasmo, rimpiansi la tranquillità di questa umile vita e dissi: ‘O corte addio’. Così, tornando ai boschi amici, ho vissuto i giorni felici». // Mentre il vecchio parla, Erminia ascolta attentamente, concentrata e serena, le sue dolci parole; e quelle sagge parole, che le scendono nel cuore, acquietano in parte le tempeste della passione. Dopo aver riflettuto molto, prende la decisione di soggiornare in quella solitudine appartata, almeno fino a quando la sorte non favorirà il suo ritorno. // Perciò dice al buon vecchio: «O fortunato, che un tempo hai sperimentato cosa sia il male, possa Dio non privarti del tuo stato così felice e muoverti a compassione per le mie disperate condizioni, e accoglimi presso di te in una dimora tanto gradevole poiché mi piacerebbe abitare presso di te. Forse avverrà che, fra queste ombre, il mio cuore si liberi dal suo dolore mortale. // Perché se tu fossi desideroso di pietre preziose e di oro, che il popolo adora come suoi idoli, potresti certamente, poiché tante ricchezze ho ancora con me, appagare il tuo desiderio». Quindi, versando dai begli occhi un pianto di dolore limpido e pieno di grazia, narrò in parte le sue vicissitudini, e intanto il pietoso pastore pianse a udire il pianto di lei. // Poi la consola con dolcezza e la accoglie come se ardesse tutto di amore paterno, e la conduce presso la vecchia moglie, che Dio gli ha dato di sentimenti uguali ai suoi. La fanciulla di origini regali si veste con umili indumenti e si copre i capelli con un ruvido velo, ma dagli sguardi e dai gesti non sembra un’abitatrice dei boschi. // L’abito umile non è sufficiente a nascondere il suo nobile aspetto e ciò che in lei vi è di altero e nobile e la sua regale maestà traspare all’esterno anche attraverso i gesti delle umili occupazioni. Guida il gregge ai pascoli e lo riconduce all’ovile con l’umile verga e dalle pelose mammelle munge il latte e poi lo comprime in forme, dopo averlo fatto cagliare, mescolandolo. // Spesso, quando le pecorelle giacevano distese all’ombra durante la calura estiva ella incide il nome dell’amato in mille forme sulla corteccia dei faggi e degli allori e incide su innumerevoli alberi le tristi vicende del suo amore singolare e infelice, e rileggendo poi le proprie scritte rigò le guance con belle lacrime. // Poi diceva piangendo: «Amiche piante, conservate questa dolorosa storia, perché, se accadrà che sotto le gradevoli ombre si fermi un giorno qualche amante fedele, egli senta risvegliarsi nel cuore una dolce pietà per le mie vane e numerose sventure e dica: ‘Ah, la sorte e l’amore diedero una ricompensa troppo ingiusta e crudele ad una fedeltà così grande!’ // Forse accadrà, se Dio benevolo ascolta qualche appassionata preghiera dei mortali, che un giorno giunga anche in questi boschi colui al quale forse ora non importa nulla di me, e volgendo gli occhi dove giacerà sepolto questo mio corpo (che ora è) debole e fragile, conceda ai miei tormenti una tarda ricompensa di poche lacrime e di sospiri, // cosicché, se durante la vita il mio cuore fu infelice, almeno la mia anima sia felice dopo la morte e la mia fredda cenere (il mio cadavere) possa godere della fiamma d’amore di Tancredi,  di cui ora a me non è concesso godere». Così parla ai sordi tronchi e fa sgorgare due fonti di pianto dai begli occhi.

Il passo rappresenta quasi una digressione all’interno del poema, passando da un registro epico ad uno idillico. Nella prima parte è evidente il richiamo alla fuga ariostesca di Angelica: ambedue le  fanciulle fuggono per selve; ma è presente anche il richiamo dell’amore inciso sugli alberi: si tratta cioè di quello che, pur nella diversità abissale nella concezione del poema, per tale genere diventeranno topoi. Ma tornando alla fuga non si può non sottolineare come quella di Angelica rappresenti una fuga da (i suoi numerosi spasimanti), mentre quella di Erminia sia una fuga verso un luogo di pace, idillico, appunto, un luogo dove trovare, anche se l’adesione è problematica, un eden di pace contro la guerra. Questo è sottolineato, anche, dalla quasi mancanza di psicologia nell’Angelica ariostesca, simbolo di un desiderio mai appagato e descritta, a volte, con ironia; viceversa l’Erminia tassiana vive fortemente, in modo interiore, la fuga, diventando quasi una figura in cui si rispecchiano le angosce del poeta. Fortemente intento a costruire per sé una realtà cristologica, fa di Erminia una figura che, fuggendo di notte (peccato) si risveglia all’alba (purificata) in eden quasi paradisiaco. Ma questa adesione non  porta alla certezza: questo è sottolineato soprattutto nel discorso contro le corti del pastore, che definisce “inique”. Ma è il luogo dove l’intellettuale cortigiano ha trovato sicurezza e che nell’Aminta è definito come luogo abitato dalle Muse. Ed è per questo che, tornando all’inizio del nostro commento, abbiamo definito l’adesione al mondo semplice e idillico di Erminia sia, in qualche modo, problematico. E’ pur vero che veste abiti semplici, ma il suo modo d’essere permane sempre nobile.

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Ludovico Carracci: Erminia tra i pastori (1603)

Il canto prosegue con Tancredi che, credendo che la donna sia Clorinda e non vedendola arrivare va alla sua ricerca inutilmente. Quindi decide di tornare al campo cristiano, anche perché è vicino il giorno in cui dovrà riprendere il combattimento con Argante. Ma incontra un uomo che sembra un messaggero e gli chiede la via per il campo cristiano; il messaggero dice che è diretto proprio là, e lo conduce, invece, in un castello, cinto da un sozzo rivo: è questo il castello incantato di Armida. Tancredi riconosce il messo: Rambaldo, uno dei dieci che era partito con Armida e per suo amore aveva abiurato la religione cristiana facendosi pagano. I due mettono mani alle spade e a fatica Armida accorre in aiuto di Rambaldo facendolo scomparire nel buio. Tancredi varca una porta e si trova, così, intrappolato in una stanza. Nel frattempo Argante  attende spasmodico l’alba del sesto giorno per riprendere il combattimento con l’eroe cristiano. Tutto è pronto, ma di Tancredi nessuno sa nulla. Si offre allora lo stesso Goffredo, ma glielo impedisce l’anziano Raimondo di Tolosa che si prepara a combattere; sale sul suo cavallo, prega e Dio gli manda in aiuto un angelo; comincia il combattimento dopo gli scherni di Argante che cerca Tancredi. L’angelo protettore fa sì che ad Argante si spezzi la lancia e si frantumi la spada, ma quando si arriva al corpo a corpo Belzebù decide di aiutare il pagano, trasformando un’ombra leggera nelle sembianze di Clorinda e facendola apparire ad Oradino, spingendolo a colpire Raimondo con una freccia. Il patto viene così violato e scoppia la battaglia fra i due eserciti. Le forze cristiane stanno per prevalere, ma un improvviso acquazzone blocca tutte le operazioni.

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Immagine per il canto VIII

Nel canto VIII le forze del male continuano ad operare contro i cristiani e la furia Aletto mette zizzania tra loro. Il cavaliere Carlo il Danese narra la morte di Sveno, signore dei Danesi, che, desideroso di gloria, con uno stuolo di scelti compagni era partito per Gerusalemme. Una notte Sveno e i suoi sono assaliti da un gran numero di barbari; Sveno muore ucciso da Solimano e dei duemila restano solo in cento; Carlo cade svenuto. Al suo risveglio vede due eremiti; lo fanno alzare e vanno vicino al corpo di Sveno: uno dei due monaci prende dalla mano del principe morto la spada e l’affida a Carlo perché la consegni a Rinaldo che con essa possa vendicare la morte del giovane Sveno. Il racconto commuove tutti e fa venire in mente Rinaldo. Intanto tornano al campo cristiano quelli che erano usciti per depredare e raccogliere vitto per i Crociati, e fra le altre cose riportano indietro anche le armi e le vesti insanguinate di Rinaldo. Aliprando racconta il ritrovamento del corpo del giovane cavaliere, senza la testa e senza il braccio destro, e come gli sia stato rivelato che era stato assalito e ucciso da un gruppo di armati. Nella notte ad Argillano appare in sogno il cadavere di Rinaldo che regge nella mano sinistra la sua testa e lo invita a fuggire dalle tende cristiane e dal feroce Goffredo. Sbigottito si sveglia Argillano e raduna i guerrieri d’Italia rivelando loro il suo sogno e accusando Goffredo e i suoi Francesi. Ne nasce un tumulto; Baldovino accorre in aiuto di Goffredo e rivolge una preghiera a Dio affinché illumini la mente degli uomini. Goffredo, illuminato dal Cielo, parla agli uomini e frena gli audaci e fa mettere in catene Argillano; quindi decide che Gerusalemme sarebbe stata assalita due o tre giorni dopo.

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Immagine per il canto IX

Nel canto IX la furia Aletto, visto che non poteva più nulla contro i cristiani passa dai loro nemici ed incita Solimano, re dei Turchi, a sferrare un attacco contro Goffredo. Il piano escogitato dalla furia è chiaro: colpire i cristiani su due fronti; infatti va subito a Gerusalemme e spinge lo stesso re di Gerusalemme a muovere da un altro fronte contro l’esercito nemico. Infuria quindi la battaglia: Solimano fa orribile strage, come quella di Latino e dei suoi figli (Tasso non ci risparmia nulla: il taglio perpendicolare della testa del figlio maggiore, l’amputazione del braccio del fratello che lo sosteneva, un altro, più piccolo, caduto e calpestato dal cavallo del feroce pagano e i due gemelli, uno decollato e l’altro squartato; infine l’urlo disperato del padre cui ficca nel petto la spada da farlo vomitare sangue dalla ferita e dalla bocca). Goffredo si slancia in battaglia, cerca di raccogliere i dispersi e di rincuorare gli sbandati. Insieme al cavaliere Guelfo decidono di rispondere con attacchi ognuno su un lato; Dio allora rivolge lo sguardo nel campo di battaglia e fa intervenire l’arcangelo Gabriele, affinché ricacci i demoni nell’inferno. Nella battaglia contro i cristiani, si distinguono Argante e Clorinda, ma anche Argillano si libera dalle catene ed inizia una feroce lotta contro la guerriera pagana. Sarà proprio lui ad uccidere Lesbino, giovane paggio di Solimano, che piangerà amaramente sul suo corpo e ucciderà proprio lui che gliel’ha strappato. All’improvviso appaiono cinquanta cavalieri e dietro l’insegna della croce mettono in fuga l’esercito pagano. Chi sono costoro? Sono i cavalieri che Armida aveva fatto prigionieri. Ma Solimano, che assiste alla fuga dei suoi soldati, non cede all’impotenza della sconfitta:

SOLIMANO
(97-99)

Fatto intanto ha il Soldan ciò che è concesso
fare a terrena forza, or piú non pote;
tutto è sangue e sudore, e un grave e spesso
anelar gli ange il petto e i fianchi scote.
Langue sotto lo scudo il braccio oppresso,
gira la destra il ferro in pigre rote:
spezza, e non taglia; e divenendo ottuso
perduto il brando omai di brando ha l’uso.

Come sentissi tal, ristette in atto
d’uom che fra due sia dubbio, e in sé discorre
se morir debba, e di sí illustre fatto
con le sue mani altrui la gloria tòrre,
o pur, sopravanzando al suo disfatto
campo, la vita in securezza porre.
«Vinca» al fin disse «il fato, e questa mia
fuga il trofeo di sua vittoria sia.

Veggia il nemico le mie spalle, e scherna

di novo ancora il nostro essiglio indegno,
pur che di novo armato indi mi scerna
turbar sua pace e ’l non mai stabil regno.
Non cedo io, no; fia con memoria eterna
de le mie offese eterno anco il mio sdegno.
Risorgerò nemico ognor piú crudo,
cenere anco sepolto e spirto ignudo».

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Intanto il Soldano ha fatto ciò che è concesso fare ad una forza terrena, di più non può; è tutto sangue e ferite e un grave e forte ansimare gli opprime il petto e lo scuote fino ai fianchi. Riposa sotto lo scudo il braccio fiaccato e gira la mano destra la spada in lenti giri: spazza, ma non taglia; e diventando inefficace ha perso la sua funzione. // Come se si sentisse in uno stato di prostrazione, rimase come un uomo preso tra due dubbi, pensa tra sé se debba morire e di tale evento fatto con le sue mani, togliere da mani altrui la gloria, oppure sopravvivendo alla rovina del suo esercito, porre la sua vita in sicurezza. «Vinca» disse infine «il destino, e questa mia fuga sia la sua vittoria. Veda il nemico le mie spalle, schernisca di nuovo la nostra vergognosa ritirata, finché di nuovo armato quindi mi veda turbare la sua pace e il regno in pericolo. Non cedo io, no; sarà con memoria eterna delle mie sconfitte, eterno anche il mio sdegno. Risorgerò nemico, ogni volta più crudele, anche quando sarò cenere e sepolto, anche quando sarò solo spirito».

C’è nella descrizione di questo guerriero turco qualcosa di tragicamente eroico: l’avevamo visto nel pieno della crudeltà guerresca, non risparmiare niente e nessuno (né adulti né fanciulli) ed ora lo vediamo sconfitto, ma non domo. E’ l’uomo che grande nel male è grande anche nell’azione e, sebbene vinto, non si lascia abbattere. E’ ciò che Tasso non è: un uomo che non conosce paura, per questo il poeta lo disegna con ammirazione.

Il canto X si apre con l’allontanamento scorato di Solimano che, salito in groppa a un cavallo si allontana dalla battaglia, decidendo infine di andare in Egitto. Giunta la notte si addormenta e gli appare in sogno il mago Ismeno, che, su un carro reso invisibile da una nube, lo porta tra le mura di Gerusalemme. Smontati dal carro, si avviano a piedi verso il monte su cui sorge la città, ai piedi del quale s’apre una grotta: al centro si trova una porta che nasconde un cammino sotterraneo. Arrivano in una sala dove sono a consiglio i capi arabi e il re Aladino. Il loro piano è rivolto alla prudenza ma Solimano appare, per la gioia di tutti, e spinge tutti loro alla lotta affermando che Francesi e Arabi mai potranno vivere su una stessa terra. Intanto Goffredo, completate le esequie dei caduti, chiama alla presenza di Pietro l’Eremita i cinquanta cavalieri che avevano salvato le sorti della battaglia e si fa raccontare cos’era successo con Armida; parla Guglielmo, il figlio minore di Goffredo, e racconta come Armida con arti magiche aveva mutato ogni loro pensiero e chiesto che si facessero pagani e combattessero contro i Cristiani, ma tutti si erano ribellati; come un giorno vi sia capitato Tancredi, che viene tenuto ancora prigioniero; come furono inviati in catene come dono al re d’Egitto, ma durante il viaggio vennero liberati da Rinaldo, che pertanto è ancora vivo. Ciò viene confermato anche da Pietro l’Eremita che predice le grandi future glorie della Casa d’Este, cui Rinaldo appartiene.

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Il mago Ismeno e Solimano

Il canto XI si apre con l’invito di Pietro l’Eremita che spinge il capo cristiano a fare una processione per invocare l’aiuto del Cielo. Il mattino dopo si snoda la processione che si dirige verso il Monte Oliveto, mentre dalle mura i pagani che, dapprima guardano per loro gli strani riti, ma poi cominciano a gridare. I Cristiani, giunti sul colle, erigono l’altare per la celebrazione della Messa e viene poi deciso l’assalto per il mattino seguente. All’alba comincia l’attacco, mentre sulle mura di Gerusalemme tutti sono pronti alla difesa, soprattutto Solimano, Argante e Clorinda. Disposto l’esercito Goffredo dà il segnale della battaglia e comincia l’assalto alle mura; Clorinda, dall’alto, abbatte sette cristiani colle sue frecce. Intanto Goffredo attacca con una torre da un’altra parte, ma viene anche lui ferito da una freccia di Clorinda. L’attacco viene respinto: Argante e Solimano attaccano improvvisamente i Cristiani uscendo dalle mura, mentre Tancredi con altri cavalieri si difendono disperatamente. Goffredo, la cui ferita viene guarita da un angelo, ritorna alla battaglia ferendo Argante. La notte separa i combattenti.

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Bernardo Castello; Illustrazione per il canto XI

Nel XII, durante la notte, i pagani cercano di riorganizzare le difese, mentre Clorinda e Argante decidono d’uscire per incendiare la grande torre dei cristiani; Ismeno darà loro aiuto preparando un miscuglio che la possa bene incendiare. Mentre Clorinda si veste, Arsete, suo fedele servitore, le chiede di rinunciare all’impresa, ma è inutile; allora le svela quali sono le sue vere origini: figlia di un re cristiano d’Etiopia, era nata bianca da madre nera e, per non urtare la gelosia del re, era stata abbandonata alla nascita con gran dolore della madre e raccolta da Arsete, che la nascose e la crebbe nella religione pagana, valorosa e ardita nelle armi. Clorinda lo rasserena dicendogli che sempre avrebbe seguito la fede nella quale era stata educata. A notte alta, Clorinda, Argante e Ismeno escono dalla città e incendiano la torre; accorrono due squadre di cristiani: breve è la battaglia; mentre Argante e Ismeno  riescono a rientrare in città, Clorinda rimane fuori; allora si mescola ai soldati cristiani.

LA MORTE DI CLORINDA
(50 – 69)

Ma poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da’ nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
nov’arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti
cheta s’avolge; e non è chi la noti.

Poi, come lupo tacito s’imbosca

dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ’n gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte,
che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte».

«Guerra e morte avrai»; disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sí memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,
piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.

Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.

L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.

L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:

«Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore».

Risponde la feroce: «Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese».
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese
«il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta».

Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.

Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.

«Amico, hai vinto: io ti perdon… perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave».
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace».

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma. 

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Johann Friederich Overbeck, Stanza del Tasso: 1819-27, Morte di Clorinda

Clorinda, dopo che ebbe placata la sua ira nel sangue del nemico e fu tornata in sé vide che le porte erano chiuse e si trovò circondata dai nemici e si ritenne morta. Ma, vedendo che nessuno guardava verso di lei, escogitò un nuovo stratagemma per salvarsi. Si finge cristiana e si mescola tra i nemici senza dare nell’occhio, e nessuno la nota. // Poi, come un lupo silenzioso, si nasconde nel bosco, dopo aver di nascosto sbranato la preda ed essersi allontanata dalla confusione, Clorinda se ne andava favorita e nascosta dall’aria densa di fumo. Solo Tancredi la riconosce; egli è giunto lì poco prima, vi è giunto quando Clorinda ha ucciso Ariamone: ha visto, l’ha tenuta d’occhio e si è messo al suo inseguimento. // (Tancredi) vuole sfidarla a duello, la ritiene un uomo valoroso, degno di misurarsi con il suo valore. Ella tenta di aggirare la cima montuosa (procedendo) verso un’altra porta (della città), da dove ha intenzione di entrare. Egli la segue pieno d’impeto e perciò, molto prima che la raggiunga, accade che le sue armi risuonino e che ella si volti indietro e gridi: «O tu che corri così, che cosa porti?». Risponde: «O guerra o morte». // «Guerra e morte avrai», disse Clorinda, «io non mi rifiuto di dartela, se la cerchi», e lo attende ferma. Tancredi, che ha visto il suo nemico a piedi, non vuole usare il cavallo (per combattere) e scende. E impugna l’una e l’altra spada affilata e stimola il proprio orgoglio di guerriero e si accende d’ira; e si vanno a scontrare come due tori gelosi e ardenti di rabbia. // Le loro imprese degne di (compiersi) sotto un sole luminoso o in un teatro affollato, sarebbero da ricordare. Notte, che nella tua oscura profondità hai chiuso nell’oblio un evento così importante, voglia tu che io lo tragga dall’oblio e lo tramandi ai posteri nella chiara luce del poema. Resti vivo il loro ricordo, e risplenda tra la loro gloria il nobile ricordo delle tue tenebre. // Costoro non vogliono schivare i colpi, pararli o ritirarsi, in questo duello l’accortezza non conta. Non fanno finte o affondi, (non danno) colpi leggeri: l’oscurità e il furore impediscono di avvalersi delle tecniche guerresche. Ascolti le spade urtarsi violentemente nel centro della lama, il piede non si stacca dall’orma; il piede è sempre fermo e la mano sempre in movimento e nessun colpo di taglio o di punta della spada scende inutilmente. // La vergogna (di essere colpiti) incita l’orgoglio alla vendetta e poi la vendetta (di chi ha colpito) rinvigorisce l’orgoglio (di chi ha ricevuto il colpo); perciò alla brama di ferire e alla fretta si aggiunge sempre un nuovo stimolo e una nuova ragione. Di ora in ora il duello diventa più confuso e serrato, non serve usare la spada, si colpiscono con le impugnature e, inferociti e crudeli, cozzano insieme con gli elmi e con gli scudi. // Per tre volte il cavaliere stringe la donna con le robuste braccia ed altrettante ella si libera da quelle strette di feroce nemico e non d’amante. Tornano a combattere con la spada e si colpiscono procurandosi molte ferite; stanchi e sfiniti entrambi alla fine si ritraggono e, dopo una lunga fatica, riprendono fiato. // Si guardano reciprocamente e appoggiano il peso del loro corpo esangue sull’impugnatura della spada. Ormai si sta spegnendo la luce dell’ultima stella all’apparire dell’alba, che si dà luminosa ad oriente. Tancredi vede in maggior quantità il sangue del suo nemico e (vede) se stesso non molto ferito. Di ciò gioisce e insuperbisce. Oh la nostra folle mente, che esalta ogni minimo soffio della fortuna. // Misero, di cosa gioisci? Oh quanto tristi saranno i tuoi trionfi e infelice il tuo vanto! I tuoi occhi (se resterai vivo) pagheranno un mare di pianto per ogni goccia di quel sangue (che hai versato). Questi cruenti guerrieri, così facendo e continuando a guardarsi, cessarono di combattere per un po’. Alla fine Tancredi ruppe il silenzio e parlò affinché l’altro gli rivelasse la sua identità. // «La nostra sventura sta nel fatto che qui s’impiega tanto coraggio in un luogo dove il silenzio lo copre. Ma, dal momento che la nostra sorte ostile fa in modo di negarci la lode e la testimonianza degne di questa impresa, ti prego – ammesso che le preghiere trovino posto in guerra  – di rivelarmi il tuo nome e la tua condizione, affinché io sappia, sia da sconfitto, sia da vincitore, chi renda onorata la mia morte o la mia vittoria. // Risponde la fiera Clorinda: «Chiedi invano ciò che sono solita non rivelare. Ma chiunque io sia, tu vedi dinanzi a te uno di quei due guerrieri che incendiarono la grande torre». A quelle parole Tancredi fu preso da una sdegnosa ira e disse: «Pagano irrispettoso, le tue parole e il tuo tacere allo stesso modo mi spingono alla vendetta». // Nei loro cuori ritorna l’ira e li spinge, benché debilitati, a combattere. Oh crudele duello, in cui la tecnica guerresca è al bando, in cui la forza fisica è perduta, in cui, invece, combatte soltanto la furia cieca di entrambi! Oh, che sanguinose e profonde ferite producono entrambe le spade, dovunque colpiscano, nell’armatura o nella carne viva! E se essi non muoiono (se la vita non esce) è la loro ira che non lo consente. // Come il profondo Egeo non si calma sebbene cessino di soffiare l’Aquilone e il Noto che in precedenza l’avevano tutto sconvolto e agitato, ma mantiene il rumore e il moto delle onde ancora agitate e grosse, così, sebbene in loro manchi, insieme al sangue versato, la forza che mosse le braccia a colpire, (Clorinda e Tancredi) mantengono ancora l’impeto iniziale e continuano, spinti da quello, ad aggiungere ferita a ferita. // Ma ecco che è ormai giunta è l’ora fatale in cui la vita di Clorinda deve (giungere) alla sua fine. Egli spinge nel bel petto di lei la spada dalla punta che vi si immerge e fa sgorgare copiosamente il sangue, e (il sangue) le riempie di un caldo fiume la veste, che, trapuntata d’oro fino, le stringeva il petto delicatamente e leggermente. Ella ormai si sente morire e le vacilla il piede debole e malfermo. // Egli persegue la vittoria, incalza e schiaccia, minacciando la fanciulla trafitta. Ella, mentre cadeva, parlando con voce afflitta, disse le sue ultime parole, parole che un nuovo sentimento le ispira, un sentimento di fede, carità e speranza una virtù che ora Dio le infonde; e se ella fu in vita una ribelle (perché musulmana), (Dio) la vuole devota a sé (ancella) nella morte. // «Amico, hai vinto, io ti perdono… anche tu perdona il mio corpo, che nulla teme, ma la mia anima; ah! Prega per lei e donami il battesimo che purifichi ogni mia colpa». In queste parole deboli risuona un non so che di flebile e dolce, che scende nel cuore di Tancredi e smorza ogni suo rancore e induce e costringe i suoi occhi a lacrimare. // Poco lontano da lì, dall’insenatura del monte, scaturiva mormorando un piccolo ruscello. Egli accorse là, riempì l’elmo alla fonte, e tornò triste per compiere il grande e sacro rito (del battesimo). Sentì tremare la mano, mentre liberò (dall’elmo) e scoprì il volto che non aveva ancora riconosciuto. La guardò, la riconobbe, e restò muto e immobile. Ahi vista! Ahi conoscenza! // Non morì ancora, perché raccolse tutte le sue forze vitali in quell’istante e li mise a sostegno del cuore e, reprimendo il suo affanno, si rivolse a donare con l’acqua la vita a colei che uccise con la spada. Mentre egli pronunciò la formula del sacro rito, ella assunse un’espressione di gioia e sorrise, e nel momento di morire, in modo lieto e sereno, sembrava dire: «Si apre il cielo per me, io vado in pace». // Ha il candido volto cosparso di un delicato pallore, come se le viole fossero mescolate ai gigli, e fissa gli occhi al cielo, e il cielo e il sole sembrano rivolti verso di lei per la pietà; alzando la mano nuda e fredda verso il cavaliere, gliela offre come pegno di pace, al posto delle parole. In questo modo muore la bella Clorinda, e sembra che dorma. 

Tintoretto,_Domenico_-_Tancred_Baptizing_Clorinda_-_c._1585.jpg

Tintoretto: La morte di Clorinda (1585)

E’ questo uno degli episodi più famosi del poema, in quanto in esso emergono, in forma difficilmente trattenuta, forti elementi di sensualità. Il loro duellare senza cavalli, come tori inferociti, il loro stringersi sempre più, carichi d’ira, il loro corpo a corpo, tanto che Tancredi cinge per ben tre volte le braccia intorno al corpo della donna, indicano che sì, vi è guerra tra i due, ma anche, per chi scrive una forte “tendenza” alla sessualità: ne fa spia il linguaggio: la spada che s’immerge nel bel seno facendo uscire un caldo fiume che bagna le mammelle mal trattenute, rappresenta una forte spia di un atteggiamento certamente ambiguo, da parte del poeta, verso l’amore. Tale ambiguità è accresciuta nel non riconoscere la donna, nel vedere in lei soltanto un fiero nemico: ma forse questo serve a Tasso per accentuare la trasformazione di Clorinda, da guerriera negatrice di ogni sessualità a donna solo dopo che questa dimensione non potrà più viverla. A confermare tale interpretazione è anche lo spazio e il tempo, che in Tasso assumono forte valore connotativo: lo spazio è separato, oscuro, non conosciuto, allo stesso tempo la notte nasconde, non fa vedere. Così come Tancredi non vede l’avversario: soltanto alla fine, preannunciato dall’inserto “commentativo” di Tasso che, a differenza di Ariosto, vive psicologicamente il futuro tormento, sarà testimone della doppia trasformazione di Clorinda, da guerriera a donna, da pagana a cristiana.

Tancredi nell’immenso dolore, venato da enormi “sensi di colpa” per aver ucciso ciò che più ama, trova conforto solo alle parole di Pietro l’Eremita. Nella notte prima dei funerali, la sogna Clorinda, che gli si mostra in tutta la sua bellezza celeste. Al mattino l’eroe si sveglia consolato. Si diffonde nella città la notizia delle morte di Clorinda; piange Arsete, mentre Argante giura di uccidere il rivale per vendicare l’amica.

Nel XIII Ismeno pensa a nuovi sistemi per rendere sempre più sicura la città di Gerusalemme; non lontano dalla città si estende la selva di Saron, popolata di streghe, violata dai Cristiani per procurarsi legna; qui si reca Ismeno e la popola di demoni; poi se ne torna dal re Aladino per rassicurarlo. Intanto Goffredo di Buglione decide di far ricostruire la torre e manda i fabbri nel bosco per tagliare l’occorrente:

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Immagine per il canto XIII

LA SELVA INCANTATA
(17-46)

Ma in questo mezzo il pio Buglion non vòle
che la forte cittade in van si batta,
se non è prima la maggior sua mole
ed alcuna altra machina rifatta.
E i fabri al bosco invia che porger sòle
ad uso tal pronta materia ed atta.
Vanno costor su l’alba a la foresta,
ma timor novo al suo apparir gli arresta.

Qual semplice bambin mirar non osa
dove insolite larve abbia presenti,
o come pave ne la notte ombrosa,
imaginando pur mostri e portenti,
cosí temean, senza saper qual cosa
siasi quella però che gli sgomenti,
se non che ’l timor forse a i sensi finge
maggior prodigi di Chimera o Sfinge.

Torna la turba, e misera e smarrita
varia e confonde sí le cose e i detti
ch’ella nel riferir n’è poi schernita,
né son creduti i mostruosi effetti.
Allor vi manda il capitano ardita
e forte squadra di guerrieri eletti,
perché sia scorta a l’altra e ’n esseguire
i magisteri suoi le porga ardire.

Questi, appressando ove lor seggio han posto
gli empi demoni in quel selvaggio orrore,
non rimiràr le nere ombre sí tosto,
che lor si scosse e tornò ghiaccio il core.
Pur oltra ancor se ’n gian, tenendo ascosto
sotto audaci sembianti il vil timore;
e tanto s’avanzàr che lunge poco
erano omai da l’incantato loco.

Esce allor de la selva un suon repente
che par rimbombo di terren che treme,
e ’l mormorar de gli Austri in lui si sente
e ’l pianto d’onda che fra scogli geme.
Come rugge il leon, fischia il serpente,
come urla il lupo e come l’orso freme
v’odi, e v’odi le trombe, e v’odi il tuono:
tanti e sí fatti suoni esprime un suono.

In tutti allor s’impallidír le gote
e la temenza a mille segni apparse,
né disciplina tanto o ragion pote
ch’osin di gire inanzi o di fermarse,
ch’a l’occulta virtú che gli percote
son le difese loro anguste e scarse.
Fuggono al fine; e un d’essi, in cotal guisa
scusando il fatto, il pio Buglion n’avisa:

«Signor, non è di noi chi piú si vante
troncar la selva, ch’ella è sí guardata
ch’io credo (e ’l giurerei) che in quelle piante
abbia la reggia sua Pluton traslata.
Ben ha tre volte e piú d’aspro diamante
ricinto il cor chi intrepido la guata;
né senso v’ha colui ch’udir s’arrischia
come tonando insieme rugge e fischia».

Cosí costui parlava. Alcasto v’era
fra molti che l’udian presente a sorte:
l’uom di temerità stupida e fera,
sprezzator de’ mortali e de la morte;
che non avria temuto orribil fèra,
né mostro formidabile ad uom forte,
né tremoto, né folgore, né vento,
né s’altro ha il mondo piú di violento.

Crollava il capo e sorridea dicendo:
«Dove costui non osa, io gir confido;
io sol quel bosco di troncar intendo
che di torbidi sogni è fatto nido.
Già no ’l mi vieterà fantasma orrendo
né di selva o d’augei fremito o grido,
o pur tra quei sí spaventosi chiostri
d’ir ne l’inferno il varco a me si mostri».

Cotal si vanta al capitano, e tolta

da lui licenza il cavalier s’invia;
e rimira la selva, e poscia ascolta
quel che da lei novo rimbombo uscia,
né però il piede audace indietro volta
ma securo e sprezzante è come pria;
e già calcato avrebbe il suol difeso,
ma gli s’oppone (o pargli) un foco acceso.

Cresce il gran foco, e ’n forma d’alte mura
stende le fiamme torbide e fumanti;
e ne cinge quel bosco, e l’assecura
ch’altri gli arbori suoi non tronchi e schianti.
Le maggiori sue fiamme hanno figura
di castelli superbi e torreggianti,
e di tormenti bellici ha munite
le rocche sue questa novella Dite.

Oh quanti appaion mostri armati in guardia
de gli alti merli e in che terribil faccia!
De’ quai con occhi biechi altri il riguarda,
e dibattendo l’arme altri il minaccia.
Fugge egli al fine, e ben la fuga è tarda,
qual di leon che si ritiri in caccia,
ma pure è fuga; e pur gli scote il petto
timor, sin a quel punto ignoto affetto.

Non s’avide esso allor d’aver temuto,
ma fatto poi lontan ben se n’accorse;
e stupor n’ebbe e sdegno, e dente acuto
d’amaro pentimento il cor gli morse.
E, di trista vergogna acceso e muto,
attonito in disparte i passi torse,
ché quella faccia alzar, già sí orgogliosa,
ne la luce de gli uomini non osa.

Chiamato da Goffredo, indugia e scuse
trova a l’indugio, e di restarsi agogna.
Pur va, ma lento; e tien le labra chiuse
o gli ragiona in guisa d’uom che sogna.
Diffetto e fuga il capitan concluse
in lui da quella insolita vergogna,
poi disse: «Or ciò che fia? forse prestigi
son questi o di natura alti prodigi?

Ma s’alcun v’è cui nobil voglia accenda
di cercar que’ salvatichi soggiorni,
vadane pure, e la ventura imprenda
e nunzio almen piú certo a noi ritorni».
Cosí disse egli, e la gran selva orrenda
tentata fu ne’ tre seguenti giorni
da i piú famosi; e pur alcun non fue
che non fuggisse a le minaccie sue.

Era il prence Tancredi intanto sorto

a sepellir la sua diletta amica,
e benché in volto sia languido e smorto
e mal atto a portar elmo o lorica,
nulla di men, poi che ’l bisogno ha scorto,
ei non ricusa il rischio o la fatica,
ché ’l cor vivace il suo vigor trasfonde
al corpo sí che par ch’esso n’abbonde.

Vassene il valoroso in sé ristretto,

e tacito e guardingo, al rischio ignoto,
e sostien de la selva il fero aspetto
e ’l gran romor del tuono e del tremoto;
e nulla sbigottisce, e sol nel petto
sente, ma tosto il seda, un picciol moto.
Trapassa, ed ecco in quel silvestre loco
sorge improvisa la città del foco.

Allor s’arretra, e dubbio alquanto resta
fra sé dicendo: «Or qui che vaglion l’armi?
Ne le fauci de’ mostri, e ’n gola a questa
devoratrice fiamma andrò a gettarmi?
Non mai la vita, ove cagione onesta
del comun pro la chieda, altri risparmi,
ma né prodigo sia d’anima grande
uom degno; e tale è ben chi qui la spande.

Pur l’oste che dirà, s’indarno i’ riedo?
qual altra selva ha di troncar speranza?
Né intentato lasciar vorrà Goffredo
mai questo varco. Or s’oltre alcun s’avanza,
forse l’incendio che qui sorto i’ vedo
fia d’effetto minor che di sembianza;
ma seguane che pote». E in questo dire,
dentro saltovvi. Oh memorando ardire!

Né sotto l’arme già sentir gli parve
caldo o fervor come di foco intenso;
ma pur, se fosser vere fiamme o larve,
mal poté giudicar sí tosto il senso,
perché repente a pena tocco sparve
quel simulacro, e giunse un nuvol denso
che portò notte e verno; e ’l verno ancora
e l’ombra dileguossi in picciol ora.

Stupido sí, ma intrepido rimane
Tancredi; e poi che vede il tutto cheto,
mette securo il piè ne le profane
soglie e spia de la selva ogni secreto.
Né piú apparenze inusitate e strane,
né trova alcun fra via scontro o divieto,
se non quanto per sé ritarda il bosco
la vista e i passi inviluppato e fosco.

Al fine un largo spazio in forma scorge

d’anfiteatro, e non è pianta in esso,
salvo che nel suo mezzo altero sorge,
quasi eccelsa piramide, un cipresso.
Colà si drizza, e nel mirar s’accorge
ch’era di vari segni il tronco impresso,
simili a quei che in vece usò di scritto
l’antico già misterioso Egitto.

Fra i segni ignoti alcune note ha scorte

del sermon di Soria ch’ei ben possede:
«O tu che dentro a i chiostri de la morte
osasti por, guerriero audace, il piede,
deh! se non sei crudel quanto sei forte,
deh! non turbar questa secreta sede.
Perdona a l’alme omai di luce prive:
non dée guerra co’ morti aver chi vive».

Cosí dicea quel motto. Egli era intento
de le brevi parole a i sensi occulti:
fremere intanto udia continuo il vento
tra le frondi del bosco e tra i virgulti,
e trarne un suon che flebile concento
par d’umani sospiri e di singulti,
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.

Pur tragge al fin la spada, e con gran forza
percote l’alta pianta. Oh meraviglia!
manda fuor sangue la recisa scorza,
e fa la terra intorno a sé vermiglia.
Tutto si raccapriccia, e pur rinforza
il colpo e ’l fin vederne ei si consiglia.
Allor, quasi di tomba, uscir ne sente
un indistinto gemito dolente,

che poi distinto in voci: «Ahi! troppo» disse
«m’hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.
Tu dal corpo che meco e per me visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché il misero tronco, a cui m’affisse
il mio duro destino, anco mi guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi?

Clorinda fui, né sol qui spirto umano
albergo in questa pianta rozza e dura,
ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
che lassi i membri a piè de l’alte mura,
astretto è qui da novo incanto e strano,
non so s’io dica in corpo o in sepoltura.
Son di sensi animati i rami e i tronchi,
e micidial sei tu, se legno tronchi».

Qual l’infermo talor ch’in sogno scorge
drago o cinta di fiamme alta Chimera,
se ben sospetta o in parte anco s’accorge
che ’l simulacro sia non forma vera,
pur desia di fuggir, tanto gli porge
spavento la sembianza orrida e fera,
tal il timido amante a pien non crede
a i falsi inganni, e pur ne teme e cede.

E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso

da vari affetti che s’agghiaccia e trema,
e nel moto potente ed improviso
gli cade il ferro, e ’l manco è in lui la tema.
Va fuor di sé: presente aver gli è aviso
l’offesa donna sua che plori e gema,
né può soffrir di rimirar quel sangue,
né quei gemiti udir d’egro che langue.

Cosí quel contra morte audace core
nulla forma turbò d’alto spavento,
ma lui che solo è fievole in amore
falsa imago deluse e van lamento.
Il suo caduto ferro intanto fore
portò del bosco impetuoso vento,
sí che vinto partissi; e in su la strada
ritrovò poscia e ripigliò la spada.

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Alcasto tenta di entrare nel bosco incantato

Ma nel frattempo il pio Buglione non vuole che la città fortificata venga percorsa inutilmente (con macchine più piccole) se non vengono prima rifatte la grande torre e qualche altra macchina bellica. Ed invia al bosco fabbri che sono soliti offrire legna pronta e adatta a tale scopo. All’alba costoro vanno nella foresta, ma un timore strano all’apparire di essa, li blocca. // Come l’ingenuo bambino non osa guardare dove gli sembra siano presenti fantasmi inquietanti, o come prova paura nella notte tenebrosa, immaginando solo mostri o fatti straordinari, così (i fabbri) temevano, senza sapere che cosa sia ciò che li sgomenti, se non che forse la loro paura rappresentava ai loro sensi prodigi più spaventosi della Chimera o della Sfinge. // Torna il gruppo dei fabbri e, misera e smarrita, espone i fatti in modo diverso e confonde talmente le varie versioni che ne è schernita e non creduta. Allora Goffredo vi manda una forte e coraggiosa schiera di guerrieri, affinché accompagni l’altra e le infonda coraggio mentre lavora. //  A questi, avvicinandosi al luogo in cui i demoni avevano trovato posto nell’orrida selva, guardando le nere ombre, il cuore tremò e si agghiacciò. Nonostante ciò andarono oltre, nascondendo la paura dietro un atteggiamento ardimentoso. E avanzarono molto, sino quasi alle soglie del luogo incantato. // Esce allora dal bosco un suono all’improvviso, che sembra un rimbombo della terreno che trema, e dentro si sente un mormorare di vento e lo sbattere del mare sugli scogli. E senti un ruggito come di un leone, il sibilo come di un serpente, e l’ululato di un lupo e il fremere d’un orso, e senti le trombe, ed un tuono, tanti e così strani suoni che mescolati tra loro ne producono uno solo. // Allora tutti impallidirono e la paura apparve in mille segni, né la disciplina militare o la ragione possono far sì che osino andare avanti o fermarsi, perché contro la misteriosa potenza che li colpisce le loro possibilità di difesa sono deboli e insufficienti. Infine fuggono, e uno di loro, informa Buglione, giustificando così l’accaduto: // «Signore, non vi è più nessuno di noi che si vanti di tagliare gli alberi nella selva, che quella è così difesa che io credo (e ci giurerei) che fra quegli alberi abbia preso dimora Satana. Il cuore di chi la guarda ha il cuore chiuso da tre strati di duro diamante, ne ha sentimento in cuore colui che si arrischia ad udire come insieme tuoni, ruggisca e sibili». // Così questo riferisce a Goffredo. Vi era lì per caso Alcaste che lo ascoltava, uomo di coraggio incosciente e feroce, disprezzatore degli uomini e della morte; non avrebbe temuto un orribile animale, né un mostro straordinario (rispetto) a un uomo forte, né un terremoto, un fulmine, il vento, né altro che il mondo abbia di violento. // Scrollava il capo, sorrideva e diceva: «Dove costui non ha coraggio d’andare, vado io; io solo ho intenzione di tagliare gli alberi di quel bosco che è diventato sede di oscuri fantasmi. Non mi impedirà l’andare un orrendo fantasma, né il fremito del bosco o degli uccelli, e neppure se tra quei così spaventosi luoghi mi si mostrasse la porta dell’inferno». // In questo modo si vanta col capitano, e ottenuta da lui la facoltà, il cavaliere s’avvia; e (giunto) osserva la selva e dopo ascolta quello strano rimbombo che usciva da essa, ma non  indietreggia il passo, coraggioso, ma sicuro e sprezzante è come prima, e avrebbe già calpestato il terreno difeso dai diavoli, ma gli si oppose (o così a lui parve) un fuoco acceso. // Il gran fuoco cresce e propaga le fiamme scure e fumanti a forma di alte mura e ne circonda il bosco, e così lo rende protetto affinché gli alberi suoi non siano tagliati e schiantati in terra. Le fiamme più alte hanno forma di castelli grandissimi e forniti di torri e questa nuova città infernale ha le sue mura difese da macchine infernali. // Oh quanti mostri armati appaiono a guardia sugli alti merli e con quale faccia terribile! Fra questi alcuni lo guardano con occhi torvi, e agitando le armi altri lo minacciano. Infine anch’egli fugge, e troppo lenta è la fuga, come un leone quando è cacciato, eppure è fuga; e il petto è scosso da timore, sentimento a lui, fino adesso, ignoto. // Egli non si accorse d’aver avuto paura, ma allontanatosi se ne accorse, e n’ebbe stupore e rabbia, e un dolore acuto d’amaro pentimento gli morse il cuore. E infiammato e reso muto dalla triste vergogna, rivolse i passi altrove, perché non ha il coraggio di guardare gli altri in faccia. // Chiamato da Goffredo, ritarda e trova scuse per il ritardo, e desidera non andare. Ma infine va, lentamente; ma tiene la bocca chiusa  o parla con aria trasognata. Goffredo deduce che egli abbia avuto paura e sia fuggito, per quella insolita vergogna che ora egli prova, quindi dice: «Che sarà mai? Forse questi sono incantesimi o straordinari prodigi della natura? // Ma se c’è qualcuno in cui la voglia di compiere un atto nobile lo spinga ad andare in quei selvatici luoghi, vada pure, e prenda su di sé il compito o perlomeno sia un per noi una fonte di conoscenza più certa». Così egli disse e nei tre giorni seguenti il grande bosco spaventevole fu affrontato dai cavalieri più famosi, eppure non ci fu nessuno che sia fuggito dalle sue minacce. // Intanto il principe Tancredi si era alzato (dal letto doveva giaceva ferito) per seppellire la sua amata, e benché sia pallido in volto e non adatto a portare elmo e corazza, tuttavia, dal momento che ha visto la necessità, non rifiuta l’impresa rischiosa, perché il suo coraggioso animo trasfonde forza al corpo, tanto che sembra abbondare. // Il valoroso se ne va verso il rischio ignoto raccolto in sé, silenzioso e guardingo, e riesce a sopportare la terribile vista della selva e il gran rumore del tuono e del terremoto. Passa oltre ed ecco che in quel posto silvano sorge improvvisa la città di fuoco. // Allora indietreggia, E dubbioso, si ferma un po’, dicendo fra sé: «Ora qui a cosa servono le armi? Mi getterò in bocca ai mostri e nella gola di questa fiamma divoratrice? Nessuno risparmi la vita, quando una causa giusta lo richieda per il vantaggio comune, ma un uomo degno non sia prodigo di un’anima grande, e così sarebbe chi qui la spreca. Che cosa dirà l’esercito, se torna indietro inutilmente? Quale speranza ha di tagliare un’altra selva? Né Goffredo lascerà mai il tentativo di accedere alla selva di Saron. Ora, se si va avanti, forse l’incendio che qui vedo divampare sarà negli effetti minori di quanto appaia. Avvenga ciò che deve avvenire». E così dicendo, saltò dentro. Oh straordinario coraggio! // Sotto l’armatura gli parve di non sentire né il caldo né il bruciore che avrebbe dovuto procurargli un fuoco intenso, ma, fossero state vere fiamme o solo immagini di esse, non poté saperlo, perché all’improvviso, appena toccato, quell’apparenza sparì all’improvviso, e arrivò una nuvola densa, che portò freddo e gelo, e il gelo e la notte si dileguarono in un momento. // Certo è stupefatto, ma rimane coraggioso Tancredi, e dopo, quando vede che tutto si è placato, avanza nel terreno del bosco profano e guarda al suo interno ogni angolo nascosto, non trova strane e paurose forme, né alcun impedimento od ostacolo, se non il bosco stesso che, essendo intricato e buio, impedisce la vista e ritarda il cammino. // Infine scorge un ampio slargo a forma d’anfiteatro, non c’è nessuna pianta in esso, ad eccezione che nel centro dove alto sorge un cipresso. Si porta là, e nell’osservarlo s’accorge che il tronco era stato inciso con geroglifici già usati nell’antico Egitto.  // Fra segni sconosciuti, ne riconosce alcuno della lingua siriana, ch’egli conosce bene: «O tu che hai osato porre il tuo piede tra le regioni della morte, guerriero audace, ah, se non sei  crudele quanto forte, ah, non disturbare questo luogo appartato. Perdona ormai le anime prive di vita, chi vive non porta guerra ai morti».  Così diceva quella scritta. Egli era tutto preso a capire il senso oscuro delle brevi parole, e ascoltava intanto un fremere di vento tra gli alberi del bosco e tra le piante e le parve un suono di una flebile concerto di sospiri e singhiozzi umani, e un non che di pietoso, spaventoso e doloroso, gli preme il cuore. // Infine trae la spada, e con un gran colpo percuote la grossa pianta. Oh, meraviglia! La scorza recisa fa uscire sangue, rendendo intorno a sé la terra rossa. Tancredi prova ora paura, e tuttavia dà un colpo più forte e decide di vedere quale sarà il risultato. Allora, come uscisse da una tomba, sente un gemito dolente uscire dalla pianta, risolvendosi poi in parole distinte: «Ah, mi hai fatto troppo male, Tancredi, ora basta. Tu mi hai cacciato dal corpo che visse per me e con me, felice dimora dell’anima, perché tormenti anche il misero tronco cui mi legò un duro destino? Vuoi offendere, crudele, i tuoi avversari anche dopo che sono morti? Fui Clorinda, e non sono il solo umano che risieda nella pianta dalla scorza ruvida e dura, ma ancora altri, sia cristiani che pagani, che hanno lasciato il corpo sotto le alte mura di Gerusalemme, è costretto da un incantesimo insolito e strano qui, non so se chiamarlo corpo o nostra tomba, sei tu un assassino, se tronchi l’albero». Come talvolta il malato che in sogno vede un drago o una Chimera enorme cinta di fiamme, sebbene sospetti, anzi si accorga che non è forma vera, tuttavia desidera fuggire, tanto l’apparenza orrida e spaventosa gli incute terrore, così il timoroso amante non crede pienamente ai falsi inganni, tuttavia ne ha paura e si ritrae. // E dentro di lui il cuore è così dominato da vari sentimenti, che si agghiaccia e trema, e nell’emozione potente ed improvvisa gli cade la spada ed il timore è il sentimento meno forte. E’ fuori di sé per il terrore, capisce di aver offeso la sua donna che implora e piange, né sopporta di guardare quel sangue, né di sentire i lamenti di un malato che piange. // Così nessuna immagine turbò con profondo spavento quel cuore audace di fronte alla morte, ma una falsa immagine e finti lamenti ingannarono lui, che è solo debole, vulnerabile in amore. La sua spada caduta intanto un vento impetuoso la trasportò via dal bosco, così che vinto si allontanò; la ritrovò poi per via e la raccolse.

Tasso Castello13.png

Tancredi tenta l’albero in cui si nasconde Clorinda

E’ una delle pagine in cui il male non si offre ai soldati cristiani sotto forma di una straordinaria bellezza, quindi come vera e propria tentazione, ma sotto forma d’incantesimo, terrore, di male assoluto. Esso è rappresentato attraverso una tecnica soggettiva: non esiste un quadro d’insieme in cui il lettore possa immaginare l’intera scena, ma è un climax ottenuto con la visione singolare con cui dapprima i fabbri, poi i guerrieri, quindi Alcaste e infine Tancredi osservano accrescere il potere demoniaco e la loro paura e con essi il lettore (suspance). Ma l’interesse bisogna riservarlo proprio al cavaliere Tancredi. Egli, ormai privo quasi di motivazioni per vivere, vinto da un senso di necessità più che di dovere, sebbene l’idea di sconfiggere il male gli dia un po’ di vigore, è pronto ad affrontare il demonio, e lo dimostra quando supera i boati, il fuoco, l’improvviso ghiaccio e freddo. Ma non riesce a superare il pianto dell’uomo (il rumore di sottofondo della selva) e l’urlo disperato di Clorinda. Egli non combatte più contro un bosco infestato dai diavoli, ma dentro a i chiostri de la morte, cioè dell’inferno. Ma l’inferno in cui sta, non è altro che la proiezione di ciò che vive dentro, e il pianto degli uomini e l’accusa di Clorinda gli esplodono dentro in un immane senso colpa.

Intanto il campo cristiano è afflitto dalla siccità; cominciano i lamenti; qualcuno, come il duce dei Greci Tatino, abbandona di notte il campo cristiano, seguito da altri quando si sparge la notizia. Goffredo allora volge al Cielo un’ardente preghiera, che viene ascoltata da Dio che ordina che cessi la persecuzione dei demoni contro i Crociati e manda sul campo una pioggia abbondante.

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Carlo e Ubaldo con il vecchio mago

Il XIV con Dio che durante la notte vigila dal Cielo e manda il suo sguardo favorevole a Goffredo che vede in sogno Ugone, che gli consiglia di permettere il ritorno di Rinaldo. Il giorno dopo Guelfo, per ispirazione di Dio, propone a Goffredo, che acconsente, di richiamare l’eroe. Si offrono Carlo ed Ubaldo, che, dopo essere stati ricevuti da Pietro l’Eremita, vanno alla  ricerca di Rinaldo; si dirigono verso il mare, raggiungendo Ascalona: qui appare loro un mago, un vecchio che era nato di fede pagana e li conduce con sé nella sua grotta sottomarina, nel grembo immenso della terra dove si convertì al cristianesimo e acquisì la sua grande cultura. Parlando di sé, li conduce nella meravigliosa dimora in cui abita e narra come Armida prese prigioniero Rinaldo e con quali arti lo trattiene; svela che si nasconde nell’oceano, nell’isola Fortuna, dove nessuna nave arriva mai, che incontreranno una giovinetta che tenterà di ammaliarli; infine raggiungeranno il castello posto sopra una montagna, dove troveranno Rinaldo. Finito di parlare, li porta a riposare.

XV: All’alba, il mago d’Ascalona accomiata i due cavalieri dopo aver dato loro un foglio, uno scudo e una verga. Sono accolti nella barca guidata dalla Fortuna, cominciano il viaggio attraverso il Mediterraneo, e sulle spiagge di Gaza e verso l’interno vedono le nuove truppe che stanno per andare contro l’esercito cristiano. Attraversano il Mediterraneo, passano oltre le rovine della grande Cartagine e dopo quattro giorni, oltrepassate le colonne d’Ercole, cominciano la navigazione nell’Oceano; chiedono alla Fortuna se altri mai hanno già intrapreso la navigazione nell’aperto Oceano; e la donna parla di Ercole e soprattutto di Ulisse, per cui è ignoto il mare che stanno solcando.

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Carlo e Ubaldo sulla barca con Fortuna

LE SCOPERTE GEOGRAFICHE
(30-32)

Tempo verrà che fian d’Ercole i segni
favola vile a i naviganti industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti ancor tra voi saranno illustri.
Fia che ’l piú ardito allor di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.

Un uom de la Liguria avrà ardimento
a l’incognito corso esporsi in prima;
né ’l minaccievol fremito del vento,
né l’inospito mar, né ’l dubbio clima,
né s’altro di periglio e di spavento
piú grave e formidabile or si stima,
faran che ’l generoso entro a i divieti
d’Abila angusti l’alta mente accheti.

Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo
lontane sí le fortunate antenne,
ch’a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama c’ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
basti a i posteri tuoi ch’alquanto accenne,
ché quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e d’istoria.

Verrà un giorno che i confini posti da Ercole (le colonne d’Ercole) diventeranno leggenda senza importanza per gli arditi naviganti. Ed i mari finora nascosti e senza nome e regni sconosciuti saranno noti anche fra voi uomini. Accadrà che il più coraggioso di tutti i comandanti (Magellano) circuisca ed esplori quante terre il mare circonda e misuri così l’immenso cerchio della terra emulando vittoriosamente il quotidiano raggio del sole. // Un ligure (Colombo) avrà per primo il coraggio d’intraprendere un viaggio sconosciuto, e né il soffio minaccioso del vento, né il mare agitato, né un cattivo clima, né se un altro pericolo o uno spavento più grave e formidabile di quanto ora potessimo ritenere, faranno sì che il marinaio coraggioso tenga la sua grande anima rinserrata entro i confini di Gibilterra. // Tu spiegherai, o Colombo, le vele verso un nuovo mondo, che a stento gli occhi della fama, che ha mille occhi e mille ali, seguiranno il tuo volo. Ella s’accontenti di cantare Ercole e Bacco (famosi, nell’antichità, per i viaggi), ma ti basterà che la fama fornisca appena qualche accenno a chi verrà dopo di te, che sarà di lunga memoria per un poema degnissimo e per la storia.

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Carta geografica del 1548 con il Nuovo Mondo

Anche Tasso, come Ariosto, non può fare a meno d’inserire nel suo poema un accenno alle scoperte geografiche, che tanta eco ebbero nell’Europa dell’intero ’500. Quello che emerge è che lui le inserisca in un discorso di gloria umana, non disgiunta da quella divina, perché come prima di questo elogio al marinaio ligure, sottolinea come esse, per maggior sua gloria saranno tutte riportate alla vera religione.

Giungono finalmente nelle isole Felici, sette abitate e tre disabitate; sbarcano nell’isola dove si trova il palazzo d’Armida e s’incamminano verso un alto monte, vincendo via via gli ostacoli che loro si presentano per mezzo dei talismani del mago (un serpente con la verga, un leone con un fischio). Salgono il monte e giungono presso la fonte del riso che contiene pericoli mortali, rappresentati da due donzelle nude che nuotano nell’acqua e che cercano di allettarli a sé; ma memori dei consigli ricevuti, essi passano oltre.

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François Lemoyne: Carlo e Ubaldo

XVI: Carlo e Ubaldo entrano nel palazzo d’Armida dalle cento entrate, e penetrano nel giardino incantato:

IL CASTELLO D’ARMIDA
(1-2; 8-22; 30-31; 35-40)

Tondo è il ricco edificio, e nel piú chiuso
grembo di lui, ché quasi centro al giro,
un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso
di quanti piú famosi unqua fioriro.
D’intorno inosservabile e confuso
ordin di loggie i demon fabri ordiro,
e tra le oblique vie di quel fallace
ravolgimento impenetrabil giace.

Per l’entrata maggior (però che cento
l’ampio albergo n’avea) passar costoro.
Le porte qui d’effigiato argento
su i cardini stridean di lucid’oro.
Fermàr ne le figure il guardo intento,
ché vinta la materia è dal lavoro:
manca il parlar, di vivo altro non chiedi;
né manca questo ancor, s’a gli occhi credi.

Sulla porta del palazzo Carlo e Ubaldo vedono raffigurate storie di amanti famosi: la vicenda mitica dell’amore di Ercole per Onfale e quella di Antonio e Cleopatra, con la rappresentazione della battaglia di Azio. Distolto lo sguardo da queste immagini, i due cavalieri entrano nell’insidioso palazzo dalla struttura labirintica

Qual Meandro fra rive oblique e incerte
scherza e con dubbio corso or cala or monta,
queste acque a i fonti e quelle al mar converte,
e mentre ei vien, sé che ritorna affronta,
tali e piú inestricabili conserte
son queste vie, ma il libro in sé le impronta
(il libro, don del mago) e d’esse in modo
parla che le risolve, e spiega il nodo.

Poi che lasciàr gli aviluppati calli,
in lieto aspetto il bel giardin s’aperse:
acque stagnanti, mobili cristalli,
fior vari e varie piante, erbe diverse,
apriche collinette, ombrose valli,
selve e spelonche in una vista offerse;
e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre,
l’arte, che tutto fa, nulla si scopre.

Stimi (sí misto il culto è co ’l negletto)
sol naturali e gli ornamenti e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
l’imitatrice sua scherzando imiti.
L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto,
l’aura che rende gli alberi fioriti:
co’ fiori eterni eterno il frutto dura,
e mentre spunta l’un, l’altro matura.

Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia
sovra il nascente fico invecchia il fico;
pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico;
lussureggiante serpe alto e germoglia
la torta vite ov’è piú l’orto aprico:
qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have
e di piropo e già di nèttar grave.

Vezzosi augelli infra le verdi fronde
temprano a prova lascivette note;
mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde
garrir che variamente ella percote.
Quando taccion gli augelli alto risponde,
quando cantan gli augei piú lieve scote;
sia caso od arte, or accompagna, ed ora
alterna i versi lor la musica òra.

Vola fra gli altri un che le piume ha sparte
di color vari ed ha purpureo il rostro,
e lingua snoda in guisa larga, e parte
la voce sí ch’assembra il sermon nostro.
Questi ivi allor continovò con arte
tanta il parlar che fu mirabil mostro.
Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
e fermaro i susurri in aria i venti.

«Deh mira» egli cantò «spuntar la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella,
quella non par che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.

Cosí trapassa al trapassar d’un giorno

de la vita mortale il fiore e ’l verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno
di questo dí, che tosto il seren perde;
cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando».

Tacque, e concorde de gli augelli il coro,
quasi approvando, il canto indi ripiglia.
Raddoppian le colombe i baci loro,
ogni animal d’amar si riconsiglia;
par che la dura quercia e ’l casto alloro
e tutta la frondosa ampia famiglia,
par che la terra e l’acqua e formi e spiri
dolcissimi d’amor sensi e sospiri.

Fra melodia sí tenera, fra tante
vaghezze allettatrici e lusinghiere,
va quella coppia, e rigida e costante
se stessa indura a i vezzi del piacere.
Ecco tra fronde e fronde il guardo inante
penetra e vede, o pargli di vedere,
vede pur certo il vago e la diletta,
ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta.

Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
e ’l crin sparge incomposto al vento estivo;
langue per vezzo, e ’l suo infiammato viso
fan biancheggiando i bei sudor piú vivo:
qual raggio in onda, le scintilla un riso
ne gli umidi occhi tremulo e lascivo.
Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle
le posa il capo, e ’l volto al volto attolle,

e i famelici sguardi avidamente
in lei pascendo si consuma e strugge.
S’inchina, e i dolci baci ella sovente
liba or da gli occhi e da le labra or sugge,
ed in quel punto ei sospirar si sente
profondo sí che pensi: “Or l’alma fugge
e ’n lei trapassa peregrina”. Ascosi
mirano i due guerrier gli atti amorosi.

Dal fianco de l’amante (estranio arnese)
un cristallo pendea lucido e netto.
Sorse, e quel fra le mani a lui sospese
a i misteri d’Amor ministro eletto.
Con luci ella ridenti, ei con accese,
mirano in vari oggetti un solo oggetto:
ella del vetro a sé fa specchio, ed egli
gli occhi di lei sereni a sé fa spegli.

L’uno di servitú, l’altra d’impero

si gloria, ella in se stessa ed egli in lei.
«Volgi», dicea «deh volgi» il cavaliero
«a me quegli occhi onde beata bèi,
ché son, se tu no ’l sai, ritratto vero
de le bellezze tue gli incendi miei;
la forma lor, la meraviglia a pieno
piú che il cristallo tuo mostra il mio seno.

Deh! poi che sdegni me, com’egli è vago
mirar tu almen potessi il proprio volto;
ché il guardo tuo, ch’altrove non è pago,
gioirebbe felice in sé rivolto.
Non può specchio ritrar sí dolce imago,
né in picciol vetro è un paradiso accolto:
specchio t’è degno il cielo, e ne le stelle
puoi riguardar le tue sembianze belle.»

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Cecco Bravo: Armida (1650)

Superba Armida si ricompone e prende commiato da Rinaldo, per tornare alle “sue magiche carte”. Rinaldo, invece, rimane nel giardino, dal quale l’incanto non gli consente di allontanarsi. Approfittando dell’assenza della maga, Carlo e Ubaldo entrano nel giardino: la vista dei cavalieri armati scuote Rinaldo:

Egli al lucido scudo il guardo gira,
onde si specchia in lui qual siasi e quanto
con delicato culto adorno; spira
tutto odori e lascivie il crine e ’l manto,
e ’l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira
dal troppo lusso effeminato a canto:
guernito è sí ch’inutile ornamento
sembra, non militar fero instrumento.

Qual uom da cupo e grave sonno oppresso
dopo vaneggiar lungo in sé riviene,
tal ei tornò nel rimirar se stesso,
ma se stesso mirar già non sostiene;
giú cade il guardo, e timido e dimesso,
guardando a terra, la vergogna il tiene.
Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro
il foco per celarsi, e giú nel centro.

Ubaldo risveglia Rinaldo ai suoi doveri e questo arrossisce, si vergogna del suo sviamento e di avere lasciato il campo di battaglia.

(…)
Intanto
Armida de la regal porta

mirò giacere il fier custode estinto.
Sospettò prima, e si fu poscia accorta
ch’era il suo caro al dipartirsi accinto;
e ’l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
dar, frettoloso, fuggitivo il tergo.

Volea gridar: «Dove, o crudel, me sola
lasci?», ma il varco al suon chiuse il dolore,
sí che tornò la flebile parola
piú amara indietro a rimbombar su ’l core.
Misera! i suoi diletti ora le invola
forza e saper, del suo saper maggiore.
Ella se ’l vede, e invan pur s’argomenta
di ritenerlo e l’arti sue ritenta.

Quante mormorò mai profane note
tessala maga con la bocca immonda,
ciò ch’arrestar può le celesti rote
e l’ombre trar de la prigion profonda,
sapea ben tutte, e pur oprar non pote
ch’almen l’inferno al suo parlar risponda.
Lascia gli incanti, e vuol provar se vaga
e supplice beltà sia miglior maga.

Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.
Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno
volse e rivolse sol co ’l cenno inanti,
e cosí pari al fasto ebbe lo sdegno,
ch’amò d’essere amata, odiò gli amanti;
sé gradí sola, e fuor di sé in altrui
sol qualche effetto de’ begli occhi sui.

Or negletta e schernita in abbandono
rimase, segue pur chi fugge e sprezza;
e procura adornar co’ pianti il dono
rifiutato per sé di sua bellezza.
Vassene, ed al piè tenero non sono
quel gelo intoppo e quella alpina asprezza;
e invia per messaggieri inanzi i gridi,
né giunge lui pria ch’ei sia giunto a i lidi.

Forsennata gridava: «O tu che porte

parte teco di me, parte ne lassi,
o prendi l’una o rendi l’altra, o morte
dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,
sol che ti sian le voci ultime porte;
non dico i baci, altra piú degna avrassi
quelli da te. Che temi, empio, se resti?
Potrai negar, poi che fuggir potesti.

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Annibale Carracci: Armida e Rinaldo

Il ricco edificio è di forma circolare e, nella sua parte più interna, che è quasi nel cerchio delle mura, vi è un giardino ornato oltre misura dei fiori più famosi che mai fiorirono. Intorno i demoni, mutati in costruttori, fecero un incredibile complicata serie di logge e (il giardino) è posto, impenetrabile, tra i sentieri tortuosi di quell’ingannevole labirinto. // I crociati Carlo e Ubaldo passarono per l’entrata più grande (perché l’ampio edificio ne aveva cento), qui le porte, effigiate d’argento, stridevano sui cardini di oro lucido. Fermarono il loro sguardo attento sulle figure scolpite, perché la materia è superata dall’arte con cui è lavorata: (alle figure) manca la parola, non servirebbe  altro affinché sembrino vive, e non manca nemmeno questa, se credi a ciò che vedi.
Come il fiume Meandro sembra divertirsi fra rive tortuose e non ben definite e con un labirintico percorso ora discende e ora risale, devia alcune acque verso le fonti e altre verso il mare e mentre scorre si scontra con se stesso che rifluisce, così sono questi sentieri, e anche più inestricabilmente intrecciati, ma il libro contiene il loro disegno (il libro, dono del mago d’Ascalona) e il libro li descrive in modo da risolvere le difficoltà che esse presentano. // Dopo che Carlo ed Ubaldo lasciarono i sentieri intrecciati si aprì il bel giardino dall’aspetto sereno; ad un solo sguardo mostrò laghetti, acque cristalline, svariati fiori e piante, singolari erbe, soleggiate collinette, ombrose valli, selve e grotte e, pregio dell’opera, non si vede l’artificio magico che ha creato il tutto. // I decori e i luoghi ti sembrano (tanto bene sono mescolate le parti coltivate e quelle incolte) del tutto naturali. Sembra un artificio della natura che, per gioco, imiti, scherzando, la sua imitatrice. La brezza, che fa fiorire gli alberi, non è altro che un artificio della maga: con i fiori eterni, anche il frutto dura in eterno e, mentre il fiore spunta, il frutto matura. // Nello stesso albero e fra le stesse foglie accanto al fico che nasce, matura un altro fico; pendono da un unico ramo il frutto nuovo e quello vecchio, l’uno dall’aspetto maturo, l’altro acerbo, la lussureggiante vite ritorta si arrampica in alto e germoglia, dove il giardino è più soleggiato, qui essa ha sia l’uva acerba in fiori, sia l’uva di colore dorato e rosso e già gravida di succo. // Graziosi uccelli modulano, a gara, note sensuali; la brezza mormora e fa risuonare le acque che colpisce in vari modi. Quando tacciono gli uccelli, il vento soffia forte, quando cantano gli uccelli, scuote più lievemente, sia casualmente, sia ad arte; l’aura musicale ora accompagna ed ora alterna i versi degli uccelli. // Fra gli altri vola un uccello che ha le piume variegate di colori diversi ed ha il becco rosso, e muove la lingua abilmente e modula la voce in modo da imitare il parlare umano. Esso allora continuò con tale abilità che il suo parlare fu per noi motivo di grande stupore. Tacquero gli altri uccelli, intenti ad ascoltarlo, e i venti fermarono i sussurri nell’aria. // «Deh, guarda», cantò quello, «spuntare la rosa piccola e ancora in bocciolo dal suo stelo che, non ancora del tutto sbocciata, è tanto più bella quanto meno si mostra. Ecco che poi distende i suoi i suoi petali ormai spavalda; ecco che poi appassisce e non sembra la stessa, non sembra la stessa che prima fu desiderata da mille fanciulle e mille amanti. // Così muore, con il morire di un giorno, la bellezza e la giovinezza della vita mortale; e non ritrova più la sua bellezza e la sua giovinezza, per quanto la primavera ritorni. Cogliamo la rosa nel mattino luminoso di questo giorno, perché presto si oscura; cogliamo la rosa dell’amore: amiamo ora, quando, amando, si può ancora essere amati».  // Tacque e il coro unanime degli uccelli, come per approvare le sue parole, riprende il canto. Le colombe raddoppiano i loro baci ed ogni animale si decide di darsi all’amore; sembra che la robusta quercia, il casto alloro, tutto il genere delle piante, la terra e l’acqua producano ed emanino dolcissimi sentimenti d’amore. //  Fra una melodia così dolce, fra tante dolcezze allettatrici e piacevoli, procede quella coppia (di cavalieri) e, ferma e imperturbabile, si rende insensibile alle seduzioni del piacere. Ecco che lo sguardo penetra innanzi fra ramo a ramo e vede, o gli pare di vedere, infine con certezza l’amante (Rinaldo) e l’amata (Armida): egli è in grembo alla donna, lei in mezzo all’erbetta. // Ella ha il velo aperto sul petto e scioglie i capelli scomposti al vento estivo; si abbandona languida, e le lievi gocce di sudore rendono più luminoso il suo viso arrossato (per la passione): come un raggio sull’acqua, le risplende un sorriso fremente e passionale negli occhi umidi. E’ ricurva sopra di lui; ed egli le posa il capo sul grembo morbido e solleva il volto verso quello di lei e, rivolgendo a lei avidamente gli anelanti sguardi, si consuma e si strugge. Armida si china e ora assapora spesso i dolci baci dagli occhi e ora li succhia dalle labbra, e in quel momento si ode lui sospirare profondamente, tanto che pensi: “Ora l’anima gli sfugge e, pellegrina, trapassa in lei”. I due guerrieri guardano di nascosto gli atti amorosi. // Dal fianco dell’amante pendeva (insolito strumento) uno specchio lucido e nitido. Si alzò e lo pose fra le mani di lui, scelto come ministro ai riti d’Amore. Lei con occhi ridenti, lui con occhi accesi, guardano un unico oggetto in vari oggetti: lei si riflette nello specchio e lui si rispecchia negli occhi sereni di lei. // Rinaldo si vanta della propria schiavitù, Armida del proprio potere; lei si vanta di se stessa, lui di lei. «Rivolgi» diceva «rivolgi a me quegli occhi grazie ai quali, essendo tu felice, dono felicità, perché la mia passione è, se non lo sai, l’immagine fedele delle tue bellezze; il mio cuore riflette appieno, più dello specchio, la loro forma, la meraviglia (che suscitano). // Deh, dato che mi disdegni, almeno potessi mirare com’è bello il tuo volto, perché il tuo sguardo, che non trova appagamento altrove, gioirebbe felice rivolto verso sé. Non può lo specchio riflettere un’immagine così dolce, né in un piccolo specchio può essere contenuto il paradiso della tua bellezza: il cielo è uno specchio degno di te, e solo nelle stelle puoi ammirare la tua bellezza». 
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Tiepolo: Rinaldo abbandona Armida

Rinaldo volge lo sguardo al lucido scudo, nel quale si specchia e vede in quali condizioni si è ridotto e di quali effeminate raffinatezze è circondato; emanano profumi voluttuosi i capelli e il mantello; e guarda la spada, solo la spada, che ha accanto, effeminata per il troppo lusso: è ornata in modo tale che sembra un inutile orpello, non un fiero strumento di guerra. // Come un uomo oppresso da un sonno cupo e pesante, dopo un lungo delirare torna in sé, così si riebbe Rinaldo guardandosi nello scudo, ma non sopporta oltre di guardare se stesso, lo sguardo si abbassa e, guardando a terra, timido e dimesso, è colto dalla vergogna. Per nascondersi si chiuderebbe sotto il mare e dentro il fuoco e fin e fin nel centro della terra
Intanto Armida vide a distesa a terra morto il feroce custode della porta regale. Dapprima sospettò, poi fu certa che il suo caro (Rinaldo) stava accingendosi a partire; infatti lo vide (ah, vista terribile!) volgere frettolosamente la schiena alla loro dolce dimora. // Voleva gridare: «Dove, o crudele, sola mi lasci?», ma il dolore chiuse il varco alle parole, così che esse tornarono dietro flebili e più amare, a rimbombare nel suo cuore infelice! Una forza ed un sapere più forti delle sue arti magiche le rubavano i suoi piaceri. Lei capisce e invano si ingegna per trattenere Rinaldo e ritenta le sue magie. // Quante empie formule magiche mai mormorò una maga tessala con la sua bocca immonda, capace di fermare il moto degli astri e far tornare le ombre dall’inferno, lei tutte le sapeva bene, eppure non può far sì che almeno l’inferno le risponda. Lascia da parte le magie e vuol provare se la sua bellezza leggiadra e supplicante sia miglior maga. // Corre verso Rinaldo senza ritegno e cura per la propria dignità. Ah! dove sono ora i suoi trionfi e i suoi vanti? Costei che in passato poteva signoreggiare con un solo cenno sul regno d’Amore, per quanto grande sia, e mostrò ugualmente l’orgoglio di essere amata e il disprezzo verso i suoi amanti: amò solo se stessa e all’infuori di sé negli altri amò soltanto gli effetti d’amore provocati dai suoi begli occhi. // Ora rimasta sola, trascurata e disprezzata, insegue Rinaldo che fugge da lei e mostra di disprezzarla; e cerca di rendere più gradito, ornandolo di pianti, il dono della sua bellezza di per sé rifiutato. Se ne va, e al suo tenero piede non fanno ostacolo le nevi né le pendici scoscesi del monte; e manda innanzi le grida come messaggeri del suo dolore; ma non riesce a raggiungere Rinaldo prima che egli arrivi sulla spiaggia. // Gridava forsennata: «O tu che porti via una parte di me, e me ne lasci solo un’altra (il corpo) prendili o restituiscili entrambe, oppure a entrambe dà la morte: ferma, ferma i tuoi passi, solo per il tempo in cui io possa rivolgerti le mie ultime parole, non i baci: quelli li avrà da te qualche altra donna più degna. Che cosa temi, crudele, a fermarti? Potrai respingere (ogni mia offerta) dal momento che hai potuto fuggire».

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Tiepolo: Rinaldo lascia Armida 

Potremo individuare in questo passo quattro momenti:

  1. La descrizione del castello e della natura;
  2. Gli amori tra Rinaldo e Armida;
  3. La presa di coscienza del cavaliere e il suo allontanamento;
  4. La trasformazione di Armida;
  1. Partiamo dal primo aspetto: qui Tasso mostra di poter giocare e confrontarsi con i grandi del passato fino agli immediati suoi predecessori nella descrizione di un locus amoenus. Tuttavia, qualcosa di estremamente particolare c’è: esso, infatti, è “labirintico” e dove, se non si ha una guida (il libro di Carlo e Ubaldo), si ci perde la ragione e quindi la fede. Poi è anche innaturale, in quanto i diavoli lo hanno costruito facendo in esso coincidere da una parte morte e vita (nello stesso ramo vi è la nascita e il raggiungimento della maturità) tra realtà e arte (il giardino confonde ciò che è “natura” da ciò che è “artificio”). Ancora rappresenta il trionfo dell’amore, riprendendo il tema classico della “rosa”: ma qui a cantare la “necessità di coglierla” non è un cavaliere “ringalluzzito”, ma un vero e proprio “mostro” diabolico, un uccello dalla voce quasi umana;

  2. A caratterizzare l’amore tra Rinaldo e Arminia è anch’esso un fatto innaturale; infatti essi non si guardano ma si specchiano: lei in un vero e proprio specchio, lui negli occhi di lei in cui vede la donna riflessa: torna l’“arte” a vincere sulla realtà: ma a questo punto è bene sottolineare che qui appare un oggetto che sarà estremamente presente, poi, nella poetica barocca; anche il rinsavimento di Rinaldo avviene per un’immagine riflessa; se nello specchio vede la bellezza, nello scudo vede la sua degradazione (da cavaliere a imbelle amante)
  3. Ma il personaggio più riuscito è certamente quello di Armida: da ammaliatrice di uomini a donna innamorata, ferita per l’abbandono. Ella dopo la fuga di Rinaldo non è più lei e se pur maturerà all’inizio l’idea di una vendetta, quello che conta e la morte di ciò che rappresenta, quando, prima si denigra di fronte a Rinaldo che la rifiuta (nessun arte magica le può essere utile) e infine, quando sale su un carro per andare via dall’isola, tutto ciò che la sua arte aveva prodotto (castello e giardino) sparirà nel nulla.

Alla fine, grazie anche all’intercessione di Ubaldo, Armida raggiunge il cavaliere e gli parla in modo accorato, lo prega di accettarla almeno come ancella o addirittura come schiava. Rinaldo le risponde che devono lasciarsi, e parte mentre la donna dà libero sfogo al suo dolore disperato minacciando infine vendetta. Partiti i tre guerrieri, Armida con le sue arti magiche, distrutto il suo palazzo e il giardino incantato, vola sul suo carro a Gaza nel campo del re d’Egitto.

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Carlo e Ubaldo incontrano il mago di Ascalona

Il XVII inizia con il Califfo che a Gaza passa in rassegna il suo esercito, mentre giunge Armida circondata da cento donzelle e cento paggi. Il Califfo recatosi poi a mensa nella gran tenda; viene raggiunto da Armida, che promette di divenire moglie di colui che ucciderà Rinaldo. Per primo le risponde Adrasto, poi Tisaferno e quindi tutti. Rinaldo, intanto, con Carlo e Ubaldo si imbarca nella nave della Fortuna; dopo quattro giorni di navigazione giungono in Palestina; appare loro da lontano un albero luminoso con armi nuove appese e a guardia un vecchio, il mago d’Ascalona, che lietamente li riceve e fa vedere a Rinaldo, in uno scudo lucente, tutti i suoi antenati e le glorie della Casa d’Este. Quindi si dirigono verso  Gerusalemme e giunti nella Città Santa, Rinaldo e i suoi compagni si separano dal mago e giungono al campo cristiano.

Nel XVIII Rinaldo s’incontra con Goffredo che lo accoglie e con gioia e gli racconta come la selva sia dominata da oscuri incantesimi; dopo aver ricevuto dimostrazioni di affetto da tutti i principi cristiani, l’eroe si offre per varcare la selva maledetta. Quindi su consiglio di Pietro l’Eremita va a pregare sul Monte Oliveto, dove, tra una natura bellissima, rimane fino all’alba. Finita la preghiera va verso la selva:

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Scuola napoletana: La foresta incantata

RINALDO NELLA SELVA INCANTATA
(17-38)

Era là giunto ove i men forti arresta
solo il terror che di sua vista spira;
pur né spiacente a lui né pauroso
il bosco par, ma lietamente ombroso.

Passa piú oltre, e ode un suono intanto
che dolcissimamente si diffonde.
Vi sente d’un ruscello il roco pianto
e ’l sospirar de l’aura infra le fronde
e di musico cigno il flebil canto
e l’usignol che plora e gli risponde,
organi e cetre e voci umane in rime:
tanti e sí fatti suoni un suono esprime.

Il cavalier, pur come a gli altri aviene,
n’attendeva un gran tuon d’alto spavento,
e v’ode poi di ninfe e di sirene,
d’aure, d’acque, d’augei dolce concento,
onde meravigliando il piè ritiene,
e poi se ’n va tutto sospeso e lento;
e fra via non ritrova altro divieto
che quel d’un fiume trapassante e cheto.

L’un margo e l’altro del bel fiume, adorno
di vaghezze e d’odori, olezza e ride.
Ei stende tanto il suo girevol corno
che tra ’l suo giro il gran bosco s’asside,
né pur gli fa dolce ghirlanda intorno,
ma un canaletto suo v’entra e ’l divide:
bagna egli il bosco e ’l bosco il fiume adombra
con bel cambio fra lor d’umore e d’ombra.

Mentre mira il guerriero ove si guade,
ecco un ponte mirabile appariva:
un ricco ponte d’or che larghe strade
su gli archi stabilissimi gli offriva.
Passa il dorato varco, e quel giú cade
tosto che ’l piè toccata ha l’altra riva;
e se ne ’l porta in giú l’acqua repente,
l’acqua ch’è d’un bel rio fatta un torrente.

Ei si rivolge e dilatato il mira
e gonfio assai quasi per nevi sciolte,
che ’n se stesso volubil si raggira
con mille rapidissime rivolte.
Ma pur desio di novitade il tira
a spiar tra le piante antiche e folte,
e ’n quelle solitudini selvagge
sempre a sé nova meraviglia il tragge.

Dove in passando le vestigia ei posa,
par ch’ivi scaturisca o che germoglie:
là s’apre il giglio e qui spunta la rosa,
qui sorge un fonte, ivi un ruscel si scioglie,
e sovra e intorno a lui la selva annosa
tutte parea ringiovenir le foglie;
s’ammolliscon le scorze e si rinverde
piú lietamente in ogni pianta il verde.

Rugiadosa di manna era ogni fronda,
e distillava de le scorze il mèle,
e di novo s’udia quella gioconda
strana armonia di canto e di querele;
ma il coro uman, ch’a i cigni, a l’aura, a l’onda
facea tenor, non sa dove si cele:
non sa veder chi formi umani accenti,
né dove siano i musici stromenti.

Mentre riguarda, e fede il pensier nega
a quel che ’l senso gli offeria per vero,
vede un mirto in disparte, e là si piega
ove in gran piazza termina un sentiero.
L’estranio mirto i suoi gran rami spiega,
piú del cipresso e de la palma altero,
e sovra tutti gli arbori frondeggia;
ed ivi par del bosco esser la reggia.

Fermo il guerrier ne la gran piazza, affisa
a maggior novitate allor le ciglia.
Quercia gli appar che per se stessa incisa
apre feconda il cavo ventre e figlia,
e n’esce fuor vestita in strana guisa
ninfa d’età cresciuta (oh meraviglia!);
e vede insieme poi cento altre piante
cento ninfe produr dal sen pregnante.

Quai le mostra la scena o quai dipinte
tal volta rimiriam dèe boscareccie,
nude le braccia e l’abito succinte,
con bei coturni e con disciolte treccie,
tali in sembianza si vedean le finte
figlie de le selvatiche corteccie;
se non che in vece d’arco o di faretra,
chi tien leuto, e chi viola o cetra.

E cominciàr costor danze e carole,
e di se stesse una corona ordiro
e cinsero il guerrier, sí come sòle
esser punto rinchiuso entro il suo giro.
Cinser la pianta ancora, e tai parole
nel dolce canto lor da lui s’udiro:
«Ben caro giungi in queste chiostre amene
o de la donna nostra amore e spene.

Giungi aspettato a dar salute a l’egra,
d’amoroso pensiero arsa e ferita.
Questa selva che dianzi era sí negra,
stanza conforme a la dolente vita,
vedi che tutta al tuo venir s’allegra
e ’n piú leggiadre forme è rivestita».
Tale era il canto; e poi dal mirto uscia
un dolcissimo tuono, e quel s’apria.

Già ne l’aprir d’un rustico sileno
meraviglie vedea l’antica etade,
ma quel gran mirto da l’aperto seno
imagini mostrò piú belle e rade:
donna mostrò ch’assomigliava a pieno
nel falso aspetto angelica beltade.
Rinaldo guata, e di veder gli è aviso
le sembianze d’Armida e il dolce viso.

Quella lui mira in un lieta e dolente:
mille affetti in un guardo appaion misti.
Poi dice: «Io pur ti veggio, e finalmente
pur ritorni a colei da chi fuggisti.
A che ne vieni? a consolar presente
le mie vedove notti e i giorni tristi?
o vieni a mover guerra, a discacciarme,
che mi celi il bel volto e mostri l’arme?

giungi amante o nemico? Il ricco ponte
io già non preparava ad uom nemico,
né gli apriva i ruscelli, i fior, la fonte,
sgombrando i dumi e ciò ch’a’ passi è intrico.
Togli questo elmo omai, scopri la fronte
e gli occhi a gli occhi miei, s’arrivi amico;
giungi i labri a le labra, il seno al seno,
porgi la destra a la mia destra almeno».

Seguia parlando, e in bei pietosi giri
volgeva i lumi e scoloria i sembianti,
falseggiando i dolcissimi sospiri
e i soavi singulti e i vaghi pianti,
tal che incauta pietade a quei martíri
intenerir potea gli aspri diamanti;
ma il cavaliero, accorto sí, non crudo,
piú non v’attende, e stringe il ferro ignudo.

Vassene al mirto; allor colei s’abbraccia
al caro tronco, e s’interpone e grida:
«Ah non sarà mai ver che tu mi faccia
oltraggio tal, che l’arbor mio recida!
Deponi il ferro, o dispietato, o il caccia
pria ne le vene a l’infelice Armida:
per questo sen, per questo cor la spada
solo al bel mirto mio trovar può strada».

Egli
alza il ferro, e ’l suo pregar non cura;

ma colei si trasmuta (oh novi mostri!)
sí come avien che d’una altra figura,
trasformando repente, il sogno mostri.
Cosí ingrossò le membra, e tornò oscura
la faccia e vi sparír gli avori e gli ostri;
crebbe in gigante altissimo, e si feo
con cento armate braccia un Briareo.

Cinquanta spade impugna e con cinquanta
scudi risuona, e minacciando freme.
Ogn’altra ninfa ancor d’arme s’ammanta,
fatta un ciclope orrendo; ed ei non teme:
raddoppia i colpi e la difesa pianta
che pur, come animata, a i colpi geme.
Sembran de l’aria i campi i campi stigi,
tanti appaion in lor mostri e prodigi.

Sopra il turbato ciel, sotto la terra
tuona: e fulmina quello, e trema questa;
vengono i venti e le procelle in guerra,
e gli soffiano al volto aspra tempesta.
Ma pur mai colpo il cavalier non erra,
né per tanto furor punto s’arresta;
tronca la noce: è noce, e mirto parve.
Qui l’incanto forní, sparír le larve.

Tornò sereno il cielo e l’aura cheta,
tornò la selva al natural suo stato:
non d’incanti terribile né lieta,
piena d’orror ma de l’orror innato.
Ritenta il vincitor s’altro piú vieta
ch’esser non possa il bosco omai troncato;
poscia sorride, e fra sé dice: «Oh vane
sembianze! e folle chi per voi rimane!»

1beef6868b619ea0b90542a4d52154c9.jpgGiacinto Gimignani: Rinaldo nella selva vuole colpire il mirto sul quale
Armida è abbracciata

Era giunto nella selva, dove il terrore che ispira anche solo il guardarlo ferma i più deboli; tuttavia il bosco non gli sembra né sgradevole né terribile, ma dolcemente ombroso. // Precede oltre, e ode frattanto un suono che si diffonde molto soavemente. Nel suono sente il roco mormorare di un ruscello e il soffiare della brezza sui rami e il debole canto di un cigno canoro e l’usignolo che piange e gli risponde, organo e cetre e voci umane in canti: un unico suono contiene tanti e tali suoni. // Il cavaliere, come anche era successo agli altri crociati, si aspettava un fragore di tuono spaventoso e invece ode un dolce concerto di ninfe, sirene, brezze, acque e uccelli, cosicché, stupito, si ferma e poi procede tutto incerto e sospettoso; e sulla strada non trova altro impedimento che un fiume trasparente e calmo. // Entrambe le rive del bel fiume, ornato di fiori belli ed odorosi, profumano e risplendono. Esso allarga tanto il suo corso serpeggiante che nella sua insenatura ha sede il grande bosco, e non solo lo circonda dolcemente, ma lo penetra con un suo ruscelletto e lo divide: il ruscelletto bagna il bosco e il bosco lo ombreggia con un vicendevole scambio di acqua e di ombra. // Mentre il guerriero guarda dove è guadabile, ecco che compare un meraviglioso ponte: un ricco ponte d’oro che gli offriva un ricco passaggio su archi assai stabili. Passa il ponte dorato, e cade nell’acqua non appena ha messo piede sulla riva opposta; l’acqua se lo trascina giù velocemente, l’acqua che da bel ruscello si è trasformata in torrente. // Egli si volge indietro e lo vede ingrandito in gran piena, come se si fossero sciolte le nevi, tanto che si rigira in se stesso vorticoso con mille rapidissimi vortici. Ma il desiderio di vedere cose nuove lo spinge a scrutare tra le pianti secolari e folte e, in quei luoghi deserti e selvaggi una nuova e sorprendente meraviglia lo attira a sé. Dove posa i piedi nel passare, sembra che scaturisca una fonte o germogli un fiore: là si apre un giglio e là spunta una rosa, qui zampilla una fonte e là un ruscello scorre: e sopra e intorno a lui il vecchio bosco sembrava rinvigorire tutte le foglie; le cortecce si bagnano e le foglie di ogni albero rinvigoriscono più lietamente. // Ogni ramo stillava manna e dalle cortecce colava il miele e di nuovo si udiva quella piacevole insolita musica di canto e di lamenti; ma non sa dove si nascondesse il coro di voci umane che faceva da contrappunto ai cigni; alla brezza e all’acqua non riesce a capire chi produca suoni umani, né dove siano gli strumenti musicali. // Mentre continua a guardare e il pensiero non crede a quello che i sensi gli trasmettono come vero, vede in disparte un mirto e si dirige là dove il sentiero termina in una grande piazza. Lo straordinario mirto dispiega i suoi grandi rami, superbo più di un cipresso, e di una palma, e dirama le sue fronde sopra tutti gli alberi, e lì sembra essere il centro del bosco. // Il guerriero, fermo nella grande piazza, rivolge allora intensamente lo sguardo a una più straordinaria novità. Gli appare una quercia che, spaccatasi spontaneamente, apre fertile il tronco scavato, come fosse un ventre, e genera; ne esce fuori, vestita in modo singolare, una ninfa adulta, (oh, meraviglia!) e vede poi altre cento piante generare contemporaneamente cento ninfe dal ventre gravido. // Come le mostra il teatro o come talvolta ammiriamo dipinte le dee dei boschi, con le braccia nude e l’abito succinto, con belle calzature e con le trecce sciolte, così si vedevano nell’aspetto le finte ninfe, figlie delle cortecce di boschi; senonché, al posto dell’arco e della faretra, alcune hanno il liuto, alcune la viola, altre la cetra. // E cominciano a fare danze e girotondi e formano una corona con se stesse e circondano il guerriero, così come un punto è solito essere circondato dalla sua circonferenza. Circondano anche la pianta e si udirono tali parole tra il dolce loro canto: «Veramente gradito giungi in questi ameni luoghi appartati, o amore e speranza della nostra signora. // Giungi atteso a salvare la malata, bruciante e ferita per la passione amorosa. Questo bosco che prima era fosco, come una sede adatta alla vita senza gioia, vedi come si rallegra tutto al tuo arrivo e si riveste delle forme più belle». Questo era il canto, e poi dal mirto uscì un dolcissimo suono, ed esso si aprì. // Un tempo gli antichi vedevano immagini di dei nelle statue cave dei boschivi sileni, ma quel grande mirto dal tronco aperto mostrò le immagini più belle e rare: incontrò una donna che somigliava del tutto, nel suo falso aspetto, a una bellezza angelica. Rinaldo guarda e gli sembrava di vedere la figura d’Armida e il dolce viso. // Egli la vede al tempo stesso felice e addolorata: in un unico sguardo appaiono mille sentimenti. Poi dice: «Anch’io ti vedo e finalmente torni da colei dalla quale sei fuggito. A quale scopo torni? Per consolare, con la tua presenza, le mie solitarie notti e i giorni tristi? O vieni per muovere guerra, per cacciarmi, tu che mi nascondi il bel volto (sotto l’elmo) e mostri le armi? // Giungi come amante o come nemico? Non avrei preparato il ponte d’oro per un nemico, né avrei aperto per lui i ruscelli, i fiori, la fonte, eliminando i cespugli spinosi e ciò che impedisce il passaggio. Togli questo elmo ormai, scopri il volto e gli occhi al mio sguardo, se giungi come amico: congiungi le labbra alle mie labbra, il tuo petto al mio, porgi almeno la mano alla mia». Continuava a parlare e volgeva gli occhi in bei giri che destavano compassione e facevano impallidire il volto, simulando sospiri dolcissimi, soavi singhiozzi e dolci pianti, tanto che una pietà imprudente, di fronte a quelle sofferenze, avrebbe potuto intenerire i duri diamanti; ma il cavaliere accorto sì, non crudele, non vi bada più e stringe la spada sguainata. // Se ne va verso il mirto, allora Armida abbraccia il caro tronco e si pone in mezzo e grida: «Ah, non accadrà mai che tu mi faccia un oltraggio così grave da tagliare il mio albero! Deponi la spada, o crudele, o conficcala prima nelle vene dell’infelice Armida: attraverso questo petto, attraverso questo cuore, la spada può trovare la strada per raggiungere il mio bel mirto». // Egli alza la spada e non bada alle sue preghiere; ma ella si trasforma (oh eccezionali prodigi!) così come accade che un sogno mostri una figura nascere da un’altra, trasformarsi rapidamente. Così ingrossò il suo corpo, e il viso divenne cupo e ne sparirono il biancore e il rossore; diventò un gigante altissimo e si trasformò in un Briareo dalle cento braccia armate. // Impugna cinquanta spade e risuona con cinquanta scudi e minacciando freme d’ira. Anche le altre ninfe si rivestono di armi, diventando orrendi ciclopi; ma egli non ha paura: raddoppia i colpi al mirto ben difeso, che, come se fosse vivo, emette gemiti, quando è colpito. Gli spazi dell’aria sembrano spazi infernali, tanti appaiono in essi mostri e prodigi. // Sopra il cielo è sconvolto, sotto la terra tuona: il cielo lancia fulmini, la terra trema; giungono per far guerra i venti e i nubifragi e gli soffiano sul volto una terribile tempesta. Tuttavia il cavaliere non sbaglia mai un colpo, né si ferma per tanto furore; taglia il noce: è un noce, ma sembra un mirto. Qui l’incantesimo si esaurì e sparirono le apparizioni. //Tornò il sereno e la calma brezza, il bosco tornò alle sue condizioni naturali: non più terribile o ridente per gli incantesimi: ancora pieno di pauroso buio, ma quello naturale. Il vittorioso Rinaldo prova di nuovo se qualcos’altro gli impedisca di tagliare il bosco, poi sorride e dice tra sé: «Oh, felici immagini. E’ folle chi si ferma per causa vostra».

285996.jpgFrançois Lemoyne: Rinaldo e Armida nella selva incantata

Se a sconfiggere i cavalieri cristiani la prima volta sono stati i peccati che si sono materializzati in suoni e immagini orrorifiche, qui a voler sedurre Rinaldo è invece la tentazione, cui era già caduto. Il locus amoenus del giardino d’Armida, viene qui replicato nella selva infernale che, a seconda da chi viene tentata, cambia modus e forma (si pensi al cipresso per Tancredi, simbolo di morte – l’uccisione di Clorinda – e il mirto di Rinaldo, simbolo di poesia e d’amore – l’avvenuta maturazione sessuale per lo stesso – ). E’ evidente, tuttavia, che il giovane eroe cristiano per poter vincere l’amore sensuale e quindi peccaminoso debba prima purificarsi e, come novello Dante, va verso il monte Oliveto dove all’alba (simbolo della rinascita) prega e viene bagnato dalla rugiada (simbolo di acqua benedetta). Ma la forza “morale” tassiana ci lascia un po’ interdetti; non perché egli si serva, nella descrizione del locus amoenus, di tutta la tradizione tanto da arrivare ad utilizzare immagini del Paradiso dantesco, ma addirittura della sua opera, laddove questo luogo si presentava ricco di piacere e libertà nella sua favola pastorale Aminta.

Il canto prosegue con Rinaldo che, dopo aver vinto le forze del male nella selva, torna verso l’accampamento mentre nel campo si diffonde la notizia della fine dell’incantesimo. Si va a raccogliere il legname, si costruiscono arieti e catapulte. Intanto una colomba sorvola lo stuolo francese; la raccoglie Goffredo; reca un messaggio del Califfo d’Egitto ad Aladino. Quindi Goffredo delibera di affrettare l’assalto a Gerusalemme; e intanto manda Vafrino, scudiero di Tancredi, a riconoscere le forze del campo egiziano. Finiti i preparativi vien dato da tre lati l’assalto alla città; Rinaldo sconfigge l’empio Ismeno; la gran torre ricostruita arriva sotto le mura, e invano vi si oppone Solimano. Allora appare agli occhi di Goffredo l’angelo Michele. Rinaldo lascia a Goffredo l’onore di entrare per primo in Gerusalemme e di piantare la Croce sulle mura: esplodono grida di gioia e nello stesso istante Tancredi riesce a vincere la resistenza di Argante; dall’altra parte della città il re Aladino resiste strenuamente; ma quando vengono udite le grida di vittoria degli altri Cristiani, raddoppiano gli sforzi di Raimondo e dei suoi, e allora Aladino fugge in un luogo alto e fortificato, dove spera di continuare la disperata difesa: Gerusalemme è tutta nelle mani cristiane. 

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Illustrazione per il XVIII canto

Il canto XIX si apre con la lotta tra Argante e Tancredi: escono dalla città e si accende il combattimento, Argante rimane ucciso, mentre Tancredi cade ferito presso di lui e sviene. Nel frattempo Rinaldo assale il tempio di Salomone e lo conquista mentre Solimano e Aladino si rifugiano nella torre di David. Goffredo rimanda all’indomani l’assalto alla torre di David per poter raccogliere e curare i feriti. Intanto Vafrino, giunto nel campo pagano, può rendersi conto della grandezza dell’esercito raccolto; gira e, capitato vicino alla tenda del re egiziano, viene a sapere di una congiura contro Goffredo e del pericolo che corre Rinaldo. Il giorno dopo marcia con l’esercito egiziano, e alla sera, durante la sosta, gira di tenda in tenda e vede Armida con Adrasto, Tisaferno e Altamoro. Ma una giovane donna lo riconosce: è Erminia, che lo rassicura confessandogli il suo amore per Tancredi; è la stessa Erminia a svelargli le modalità della congiura e poi, spinta da Vafrino, racconta del suo amore per il principe cristiano. Insieme ritornano a Gerusalemme, per una strada diversa da quella seguita dall’esercito egiziano.

Poussin - Tancredi e Erminia.JPG

Nicolas Poussin: Erminia cura Tancredi

Arrivano sotto le mura della città e si imbattono nel corpo esanime di Tancredi; piange Erminia credendolo morto, ma all’improvviso sente un debole lamento uscire dalle labbra di Tancredi, e gli presta le prime cure; Tancredi apre gli occhi e riconosce Vafrino; intanto accorrono in molti e preparano una barella colla quale il principe viene trasportato nella città insieme al corpo di Argante, al quale vuole dare degna sepoltura, perché come un grande aveva combattuto. Vafrino va in cerca di Goffredo, lo trova presso il letto di Raimondo ferito e gli rende conto del suo operato, svelandogli congiure e pericoli. Goffredo decide di combattere gli Egizi in campo aperto. Viene la notte.

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Il Guercino: Erminia cura Tancredi

Con il XX canto si arriva al termine dell’opera: Goffredo dispone l’esercito e rivolge loro un discorso d’incitamento, alla fine del quale pare a molti di vedere un lampo celeste. Nello stesso tempo anche il condottiero egizio ordina le sue schiere incitandole. I due eserciti sono schierati l’uno di fronte all’altro, infine viene dato il segnale della battaglia. Goffredo sventa la trama ordita contro di lui, mentre Rinaldo comincia a far grande strage intorno a sé, e ad un certo punto giunge dove si trova Armida che cerca di colpirlo con le sue frecce, ma mentre saetta, Amor lei piaga. Intanto dalla Torre il Sultano guarda la battaglia, e allora insieme ad Aladino esce a combattere; anche il ferito Tancredi si arma di scudo e spada e scende in battaglia. Raimondo uccide Aladino, conquista la rocca e nel sommo di lei scioglie al vento il vessillo crociato. Infuria la battaglia con morte di cavalieri cristiani per mano di Solimano, che rimane a sua volta ucciso da Rinaldo. L’esercito egiziano va in fuga e la battaglia finisce con Rinaldo che, guardandosi intorno, vede tutti abbattuti i vessilli nemici. Si ricorda allora di Armida che fuggiva sola e dolente. 

RINALDO E ARMIDA
(123-136)

Piacquele assai che ’n quelle valli ombrose
l’orme sue erranti il caso abbia condutte.
Qui scese dal destriero e qui depose
e l’arco e la faretra e l’armi tutte.
«Armi infelici» disse «e vergognose,
ch’usciste fuor de la battaglia asciutte,
qui vi depongo; e qui sepolte state
poiché l’ingiurie mie mal vendicate.

Ah! ma non fia che fra tant’armi e tante
una di sangue oggi si bagni almeno?
S’ogn’altro petto a voi par di diamante,
osarete piagar feminil seno?
In questo mio, che vi sta nudo avante,
i pregi vostri e le vittorie sieno.
Tenero a i colpi è questo mio: ben sallo
Amor che mai non vi saetta in fallo.

Dimostratevi in me (ch’io vi perdono
la passata viltà) forti ed acute.
Misera Armida, in qual fortuna or sono,
se sol da voi posso sperar salute?
Poi ch’ogn’altro rimedio è in me non buono
se non sol di ferute a le ferute,
sani piaga di stral piaga d’amore,
e sia la morte medicina al core.

Felice me, se nel morir non reco
questa mia peste ad infettar l’inferno!
Restine Amor; venga sol Sdegno or meco
e sia de l’ombra mia compagno eterno,
o ritorni con lui dal regno cieco
a colui che di me fe’ l’empio scherno,
e se gli mostri tal che ’n fere notti
abbia riposi orribili e ’nterrotti.”

Qui tacque e, stabilito il suo pensiero,
strale sceglieva il piú pungente e forte,
quando giunse e mirolla il cavaliero
tanto vicina a l’estrema sua sorte,
già compostasi in atto atroce e fero,
già tinta in viso di pallor di morte.
Da tergo ei se le aventa e ’l braccio prende
che già la fera punta al petto stende.

Si volse Armida e ’l rimirò improviso,
ché no ’l sentí quando da prima ei venne:
alzò le strida, e da l’amato viso
torse le luci disdegnosa e svenne.
Ella cadea, quasi fior mezzo inciso,
piegando il lento collo; ei la sostenne,
le fe’ d’un braccio al bel fianco colonna
e’ ntanto al sen le rallentò la gonna,

e ’l bel volto e ’l bel seno a la meschina
bagnò d’alcuna lagrima pietosa.
Qual a pioggia d’argento e matutina
si rabbellisce scolorita rosa,
tal ella rivenendo alzò la china
faccia, del non suo pianto or lagrimosa.
Tre volte alzò le luci e tre chinolle
dal caro oggetto, e rimirar no ’l volle.

E con man languidetta il forte braccio,
ch’era sostegno suo, schiva respinse;
tentò piú volte e non uscí d’impaccio,
ché via piú stretta ei rilegolla e cinse.
Al fin raccolta entro quel caro laccio,
che le fu caro forse e se n’infinse,
parlando incominciò di spander fiumi,
senza mai dirizzargli al volto i lumi.

»O sempre, e quando parti e quando torni
egualmente crudele, or chi ti guida?
Gran meraviglia che ’l morir distorni
e di vita cagion sia l’omicida.
Tu di salvarmi cerchi? a quali scorni,
a quali pene è riservata Armida?
Conosco l’arti del fellone ignote,
ma ben può nulla chi morir non pote.

Certo è scorno al tuo onor, se non s’addita
incatenata al tuo trionfo inanti
femina or presa a forza e pria tradita:
quest’è ’l maggior de’ titoli e de’ vanti.
Tempo fu ch’io ti chiesi e pace e vita,
dolce or saria con morte uscir de’ pianti;
ma non la chiedo a te, ché non è cosa
ch’essendo dono tuo non mi sia odiosa.

Per me stessa, crudel, spero sottrarmi
a la tua feritade in alcun modo.
E, s’a l’incatenata il tòsco e l’armi
pur mancheranno e i precipizi e ’l nodo,
veggio secure vie che tu vietarmi
il morir non potresti, e ’l ciel ne lodo.
Cessa omai da’ tuoi vezzi. Ah! par ch’ei finga:
deh, come le speranze egre lusinga!”

Cosí doleasi, e con le flebil onde,
ch’amor e sdegno da’ begli occhi stilla,
l’affettuoso pianto egli confonde
in cui pudica la pietà sfavilla;
e con modi dolcissimi risponde:
«Armida, il cor turbato omai tranquilla:
non a gli scherni, al regno io ti riservo;
nemico no, ma tuo campione e servo.

Mira ne gli occhi miei, s’al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch’a la tua mente alcun de’ raggi suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com’io farei che ’n Oriente alcuna
non t’agguagliasse di regal fortuna».

Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov’arda il sole o tepid’aura spiri,
cosí l’ira che ’n lei parea sí salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
«Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno
Dispon», gli disse «e le fia legge il cenno».

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Anonimo (scuola Guercino): Rinaldo ed Armida 

Fu soddisfatta infine che il caso abbia portato il suo vagare senza meta in quelle oscure valli. Scese dal cavallo e depose in terra l’arco, le frecce e tutte le sue armi. «Armi disonorate» disse «e sfortunate, che, finita la battaglia, non siete riuscire a bagnarvi del sangue del nemico (Rinaldo) qui vi lascio; e qui, rimarrete sepolte, perché avete mal vendicato le offese a me recate. // Ah, ma non avverrà che tra tantissime armi, almeno una non sia bagnata dal sangue? Se ogni altro petto a voi (spade) vi è parso impenetrabile come fosse di diamante, avrete il coraggio di ferire a morte il mio petto di donna? Saranno qui, in lui, che sta nudo di fronte a voi, i vostri pregi e le vostre vittorie. Il mio petto è tenero ai vostri colpi, lo sa Amore, che mai colpisce in modo errato. // Mostratevi contro di me, che io vi perdono la passata vigliaccheria, forti e penetranti. Povera Armida, in quale condizione misera adesso sono, se posso sperare salvezza soltanto da voi? Dal momento che ogni altro rimedio non è per me efficace tranne quello che oppone ferite a ferite, una ferita mortale che guarisce la ferita d’amore che già porto nel cuore. Felice se, nel morire non porto con me questa ferita ad infettare l’inferno! Rimanga Amore; venga solo con me lo sdegno e sia dell’anima mia eterno compagno o ritorni dall’inferno, accompagnato d’Amore, per perseguitare colui che mi schernì e gli sia tale che nelle tremende notti abbia sonni orribili e agitati». // Così parlò e, decisa a darsi la morte, sceglieva la spada più acuminata e resistente, quando giunse il cavaliere (Rinaldo) e la vide così vicina alla morte, già pre-paratasi all’atto atroce e crudele, già col pallore della morte in viso. Dalle spalle egli le si avventa e gli prende la mano che già la terribile punta porta sul petto. // All’improvviso Armida si volse e lo guardò, che non lo sentì prima, quando egli s’avvicinava: gridò, distolse lo sguardo dal viso amato e svenne. Cadeva, come un fiore tagliato a metà, piegando il molle collo; lui la sostenne, le fece da colonna col suo braccio e le slacciò l’abito al petto (per facilitarne la respirazione)  // e bagnò con qualche lacrima di pietà il suo bel volto e il seno. Come alle gocce di rugiada inargentata mattutina dai biancori dell’alba si rinvigorisce la rosa scolorita, così Armida rinvenendo non dal suo pianto e dalle sue lacrime, alzò la faccia reclinata. Tre volte rivolse lo sguardo e tre volte lo riabbassò dal caro Rinaldo, per non vederlo. // E con il braccio debole respinse sdegnosa il forte braccio, suo sostegno; ci provò più volte, ma non riuscì a liberarsi, che anzi lui la teneva più forte e la stringeva. Infine raccolta dentro quelle care braccia, che le era caro, ma voleva dissimularlo, parlando cominciò a spargere fiumi di lacrime, senza mai rivolgere gli occhi verso il suo viso. // «Sempre crudele, sia quando vai via per abbandonarmi, sia quando torni per impedirmi di morire, chi ti ha portato qui? Grande meraviglia che ad allontanarmi dalla morte e a ridarmi la vita sia colui che mi ha già ucciso. Cerchi di salvarmi? Quali offese, quali tormenti hai riservato per Armida? Conosco bene le astuzie del traditore Rinaldo, ma può fare ben poco chi non può morire. // Certo è sconveniente per il tuo onore, se per il tuo trionfo non si mostra incatenata una femmina ora presa a forza e prima tradita: questo è il maggiore tra i titoli guerreschi. Ci fu un tempo in cui io ti chiesi pace e vita, ora sarebbe dolce uscire dai pianti con la morte: ma non te la chiedo, perché se fosse un dono tuo, sarebbe per me una cosa odiosa. // Da me stessa, o crudele, spero liberarmi dalla tua crudeltà in ogni modo. E, seppure incatenata come una schiava, il veleno e una spada, i precipizi e il nodo di una corda non mancheranno; vedo vie sicure per cui tu non potrai impedirmi di morire, e ne lodo il Cielo. Smetti le tue false lusinghe. Ah, come recita bene e come lusingandomi rianima le mie speranze!». Così si lamentava e con piccoli fiumi di lacrime, che stilla dai begli occhi per rabbia e per amore; lui confonde il suo affettuoso pianto (a quello d’Armida) in cui rifulge la pietà, e in modo dolcissimi risponde: «Armida, ormai calma il cuore turbato, non gli scherni, ma un regno io riservo per te; non nemico, ma tuo servo e cavaliere. Guarda nei miei occhi, se non vuoi credere alle mie parole, l’ardore della mia fede. Nel trono, dove regnarono i tuoi antenati, giuro di riportarti; ed, oh, volesse il cielo che, con uno dei suoi raggi, venisse ad illuminarti, tale da liberarti dalla fede pagana, così farei che in Oriente alcuna donna possa competere con te per fortuna». Così parla e prega, e le preghiere bagna di lacrime e con sospiri; per cui allo stesso modo come avviene sul suolo nevoso, quando arde il sole o spira un’aria tiepida, così si dissolve l’ira di Armida e restano solo i desideri d’amore: «Ecco la tua ancella, disponi del suo volere», gli disse «ed ogni tuo cenno sia legge».

Si completa così la trasformazione di Armida, prima maga, poi donna, ora “femmina”. A caratterizzare il passo è il pianto, fiumi di pianto sia di lei che di lui, dove vengono mescolati vari sentimenti: rabbia, amore, pietà. Essi accentuano il pathos e sottolineano il modo attraverso cui Tasso mostra il mondo interiore dei suoi personaggi.

E’ il momento culminante: Goffredo, dopo aver ucciso Emireno, e fatto prigioniero Altamoro, invade e prende il campo degli Egizi. Poi, sul far della sera, sale al Santo Sepolcro e scioglie il voto.

L’ULTIMA OTTAVA
(144)

Cosí vince Goffredo, ed a lui tanto
avanza ancor de la diurna luce
ch’a la città già liberata, al santo
ostel di Cristo i vincitor conduce.
Né pur deposto il sanguinoso manto,
viene al tempio con gli altri il sommo duce;
e qui l’arme sospende, e qui devoto
il gran Sepolcro adora e scioglie il voto.

Così vince Goffredo, e a lui rimane ancora tanta parte del giorno, da quando ha liberato la città e conduce i vincitori al Santo Sepolcro. Senza neppure togliersi il mantello sanguinoso, il grande capitano viene al Tempio con gli altri principi e qui depone le armi, e qui devoto adora il grande Sepolcro e scioglie il voto.

Il poema si chiude con la vittoria di Goffredo, eroe che lascia di sé l’immagine di uomo devoto e porta a compimento la liberazione del Santo Sepolcro e prega umilmente su di esso.

L’opera si chiude, così come l’opera si era aperta: la presa di Goffredo, con l’immagine sopra descritta, certo sentita, ma in linea con le tendenze controriformistiche presenti in quel periodo ci dice che la storia è terminata. Si tratta di un vero e proprio epilogo che contraddice l’“opera aperta” d’Ariosto. In Tasso il poema segue altre linee

verisimiglianza vs fantasia

centralità vs dispersione

e attraverso queste direttive egli comincerà a dare segnali della fine di un genere e dell’inizio di un altro genere: il romanzo; non bisogna dimenticare infatti che, al di là delle azioni belliche, il poema viva maggiormente di analisi e introspezione psicologica: caratteristiche che saranno raccolte in modo parodico certo, con più Ariosto che Tasso, perché migliore è il riferimento verso l’epica del passato, nel primo grande romanzo europeo: il El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Cervantes.

 

IL TEATRO A ROMA

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Maschera tragica e comica in un mosaico di Pompei

Sappiamo già che il teatro a Roma fu un genere di importazione: se la sua antica origine, quella dell’atellana, è italica, i fescennini provengono dall’Etruria; lo stesso nome histrio sembra sia originario della regione controllata dagli Etruschi.

Sappiamo tuttavia che per tematica, soprattutto per quanto riguarda la palliata e la cothurnata (rispettivamente commedia e tragedia d’argomento greco), le maggiori in quel tempo rappresentazioni teatrali, l’influenza è certamente d’origine ellenistica. Ciò non deve apparire contraddittorio, esemplificando potremmo dire che su una struttura di tipo etrusco veniva inserito un tema d’argomento greco.

Le rappresentazioni teatrali a Roma erano d’interesse pubblico e avvenivano durante le principali festività:

  • ludi Megalenses (aprile): istituiti in onore della Magna Mater sin dal 194 a.C.; l’organizzazione teatrale era curata dagli edili curuli (in seguito anche da altri magistrati);
  • ludi Apollinares (luglio) , istituiti in onore di Apollo sin dal 212 a.C., organizzati dal pretore urbano;
  • ludi Romani (settembre), i più antichi, in onore di Giove. Tito Livio afferma che fu proprio durante questa festività che Livio Andronico nel 240 a.C. rappresentò per la prima volta il primo dramma tradotto dal greco. Anch’essi venivano organizzati dagli edili curuli;
  • ludi plebei (novembre) istituiti dal 220 a.C. sempre in onore di Giove; erano organizzati dagli edili plebei.

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Da quanto detto è evidente che l’organizzazione di uno spettacolo teatrale è di spettanza pubblica, mentre l’autore di una pièce teatrale, i capocomici e gli attori sono dei privati.

Sappiamo con certezza che le compagnie teatrali avevano un capocomico chiamato il dominus gregis dove quest’ultimo termine sta ad indicare l’intera compagnia. Era costui un liberto, come liberti erano gli altri attori, anche se non si può escludere che la “bassa manovalanza” (musicanti o attrezzisti) fossero schiavi del dominus gregis.

Per quanto riguarda i copioni non sappiamo con certezza come avvenisse il contatto tra magistrato ed autore: si può supporre che fossero i dominus gregis a sottoporre al magistrato il testo anche se nei prologhi del teatro terenziano sembra si possa alludere ad un rapporto tra autore e magistrato stesso.

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La struttura del teatro:

  1. Orchestra: parte semicircolare posta alla base della cavea e frapposta tra la scena e gli spettatori;
  2. Cavea: insieme delle gradinate divise in settori;
  3. Fronte scenico:  il fondale dipinto;
  4. Proscenio: parte del palco più vicina al pubblico (spesso rappresentava la piazza)
  5. Quinte: collocate a destra e a sinistra, inquadrano la scena, lasciando spazi per l’entrata e l’uscita degli attori
  6. Ingresso degli spettatori

L’onere era tutto in mano dello stato, i magistrati preposti avevano una somma forfettaria con la quale pagavano l’intera compagnia; tale somma variava sulla base del nome dell’autore, dello stesso capocomico, della commedia stessa; sappiamo per certo che gli spettatori non pagavano. Non sappiamo bene quale fosse il ruolo dell’autore nella rappresentazione, da alcuni prologhi possiamo supporre che facessero un po’ da registi, aiutando il capocomico nella messinscena.

Per quanto riguarda lo “spazio teatrale” fino al 55 a.C. a Roma non venne edificato alcun luogo in pietra atto allo svolgimento delle rappresentazioni. Sappiamo che ci fu qualche tentativo a seguito dell’esperienza dei due grandi commediografi latini di edificarlo, ma la linea misoneista (avversa a qualsiasi novità) di Catone il Censore prese il sopravvento.

Gli spettacoli avvenivano in strutture lignee che, dopo lo spettacolo, venivano demolite: l’allestimento scenico prevedeva un fondale che rappresentava due case o tre case, delle volte due case e un tempio; la scena si svolgeva davanti ad esse immaginando una pubblica via o una piccola piazza; per le scene d’interni si aggiungeva una piccola pensilina sopra una porta. L’allestimento era in mano ad un choragus, figura che sta tra il trovarobe e il moderno regista.

Il pubblico o stava in piedi o era seduto di fronte al ligneo palcoscenico e ci piace immaginare che le sedie se le portassero da casa. I primi certamente sono gli schiavi, i secondi artigiani e commercianti e un pubblico femminile che chiacchiera durante la rappresentazione e con bimbi in braccio che frignano. Sembra non ci fossero senatori o cavalieri ma ipotizziamo che la mancanza di qualsiasi riferimento alla loro presenza nei prologhi sia determinata da una sorta di autocensura; infatti sicuramente a loro erano riservati dei posti nella parte più comoda della platea in subsellia (panche) che permettono loro una migliore visione.

Gli attori erano tutti maschi e portavano tutti una maschera e ognuna di essa rappresenta un “tipo” scenico: vecchio, lenone, signora per bene, cortigiana, ragazza di buona famiglia, servetta, schiavo, parassito, soldato e i loro sottotipi: vecchio benevolo o arcigno, giovane dagli irreprensibili costumi e dedito ai piaceri ecc. Ciò permetteva al pubblico, all’entrata scenica di un attore, di riconoscere immediatamente il ruolo che l’attore in quel momento stava interpretando, non solo, dava anche la possibilità per uno stesso attore di svolgere più ruoli; attraverso il suo uso si utilizzavano non più di quattro o cinque attori. Fra di essi dovevano esserci perlomeno due “virtuosi” capaci di eseguire dei cantica degli assolo cantati con base flautistica (nello Pseudolo Ballione e Pseudolo).

Ricordiamo che le rappresentazioni teatrali avvenivano in orario diurno.

800px-Exteriortheatreofpompey.jpgTeatro marmoreo di Pompeo

Il primo teatro marmoreo fu edificato da Pompeo Magno nel 52 a.C., vincendo l’opposizione di senatori tradizionalisti, i quali rifiutavano l’idea di un teatro lontano da un tempio cui lo spettacolo era dedicato. Pompeo lo costruì per festeggiare il suo terzo trionfo (Sertorio in Spagna, i pirati, Mitridate) vincendo la contrarietà di coloro che temevano ogni novità inserendo all’interno di esso un tempio di Venere il cui ingresso corrispondeva con la cavea del teatro. Al contrario di quello greco, che sfruttava il terreno costruendoli al fianco di una collina, per sfruttarne il pendio naturale, il teatro di Pompeo era tutto in muratura ed occupava una porzione importante del Campo Marzio. Intorno ad esso Pompeo fece inserire un quadriportico, detto portico di Pompeo, nel quale in seguito i Romani, nelle calde giornate estive, andavano a riposarsi dalla calura estiva.