IL MANIERISMO

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Se dovessimo attraversare con lo sguardo la situazione italiana della seconda metà del Cinquecento e più precisamente dal 1559, anno della pace di Cateau-Cambresis, fino alle soglie del ’600, noteremo una situazione di stasi politica, religiosa e culturale che dominerà l’intera penisola, portandola, in modo seppur lento ma deciso, verso la sua piena “provincializzazione” in quasi tutti i campi (con pochi strappi da parte di personalità eccezionali, basti pensare a Torquato Tasso o a Giordano Bruno). Sulla base di quanto detto, vediamo più da vicino tale situazione di crisi.

Situazione politica

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Filippo II d’Asburgo

La pace di Cateau-Cambresis che venne stipulata, per il nostro territorio, soprattutto da Filippo II di Spagna, gli Asburgo ed Enrico II di Francia, vide la nostra penisola, direttamente o indirettamente, quasi completamente assoggettata alla Spagna, come il Ducato di Milano, il Vicereame di Napoli, la Sicilia, la Sardegna, la terra dei Presìdi (che comprendeva una parte dei territori prima appartenenti a Siena, e quindi alla Toscana). Per questi territori venne creato un Consiglio d’Italia diretto da un nobile spagnolo. Altri territori, invece, pur nominalmente liberi, gravitarono intorno alla potenza spagnola, come lo stesso Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa, che vedeva nell’Impero di Filippo II un baluardo cattolico contro le forze allora emergenti del protestantesimo nell’Europa del Nord. Inoltre la sua flotta difendeva le coste di sua Santità dalla forza turca, che ancora imperversava nel Mediterraneo orientale.  Formalmente libere, invece, erano le piccole realtà della Repubblica di Genova, e dei ducati di Ferrara, Mantova, Lucca, Parma, tutte tese a mantenere la loro autonomia e a “non disturbare” troppo; mentre più libera e autonoma risulta essere la Repubblica di Venezia, ma economicamente impoverita dallo spostamento dei commerci nell’Atlantico e dalla guerra contro i Turchi e lo Stato Sabaudo, appena resosi autonomo dal predominio francese. Risulta evidente da tale situazione che:

  • era più difficile per qualsiasi entità all’interno della penisola farsi da “mecenate” per qualsiasi espressione culturale (ad eccezione di Roma, per motivi di potenza religiosa, riguardo l’architettura);
  • l’ambiente in cui si trovava a vivere l’intellettuale era molto più oppressivo, vivendo in una vera e propria situazione assolutistica.

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Enrico II di Francia

Situazione religiosa

Nel 1517 ebbe inizio la riforma protestante di Lutero con l’affissione delle sue 95 tesi nella porta della Cattedrale di Wittenberg. Senza entrare nello specifico della portata filosofica, politica e sociale che essa ebbe, ribadiamo qui alcuni suoi principi essenziali:

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Lutero

  • lettura diretta del credente dell’opera di Dio, quindi della Bibbia (da qui la sua traduzione in tedesco e, di conseguenza, grazie anche alla stampa, la nascita della lingua e letteratura tedesca);
  • la negazione nell’Eucarestia della transustanziazione (cioè la trasformazione del corpo di Dio in vino e pane), a favore della consustanziazione (cioè la presenza dello spirito di Cristo nell’atto dell’Eucarestia);
  • l’unico anello di congiunzione tra l’uomo e Dio è Gesù Cristo, quindi bisogna negare la presenza di qualsiasi altro intermediario (i santi);
  • l’ecclesia è la Chiesa di tutti i credenti, per cui non ci dev’essere, ed è contro le parole del Vangelo, la preminenza di uno su tutti (negazione della figura del papa);
  • salvezza per fede e non per opere.

Furono molti i tentativi, da parte della Chiesa cattolica di ricucire lo strappo che la rivoluzione teologica di Lutero aveva provocato. Ma ciò fu inutile dal momento in cui di tale teoria si appropriarono parte dei principi tedeschi che vedevano in essa un annullamento dell’autorità ecclesiastica e quindi un buon motivo per non pagare più decime e incamerarne i beni. Di fronte all’irrigidimento della situazione (che causò anche sanguinose guerre), Paolo III Farnese, aprì il Concilio di Trento con l’intento non solo di rispondere alle teorie luterane, ma anche di riformare al suo interno la Chiesa stessa. Il lavoro del Concilio durò circa un ventennio e determinò:

  • l’autorità del Pontefice;
  • la dottrina del libero arbitrio;
  • l’importanza delle opere per la salvezza;
  • l’importanza del magistero della Chiesa nell’esame del Testo Sacro;
  • la reale presenza di Cristo nell’Eucarestia attraverso la transustanziazione.

Se tali atteggiamenti possono sembrare essere stati assunti per difesa dell’Istituzione, non bisogna dimenticare, invece, la duplice opera che la stessa fece per rispondere sia sul piano della purificazione interna che esterna, operando per una maggiore moralizzazione (aspetto propositivo), sia per un maggior controllo (aspetto repressivo).

Per la moralizzazione ricordiamo:

  • celibato degli ecclesiastici e residenza degli stessi nel luogo in cui erano comandati;
  • negazione dei benefici ecclesiastici per chi non aveva una profonda fede;
  • evangelizzazione con assimilazione e non sovrapposizione delle culture altre;
  • maggiore attenzione alla formazione del clero, attraverso la creazione dell’ordine dei gesuiti (La Compagnia di Gesù dello spagnolo Ignazio de Loyola) il cui compito sarà quello di reprimere intellettualmente ogni forma di critica alla Chiesa e a quella popolare attraverso gli oratoriani, dediti all’educazione dei giovani di estrazione sociale non elevata (San Filippo Neri).

Per la repressione dobbiamo sottolineare:

  • la riorganizzazione del tribunale ecclesiastico (la cosiddetta Inquisizione Romana), con il compito d’indagine e di condanna per chi rifiuta l’ortodossia cattolica, fino alla consegna al Braccio Secolare che provvederà alla scelta e alla applicazione delle pene fisiche (che possono arrivare alla morte per rogo) per chi persevera nell’“errore”;
  • l’istituzione dell’Index Librorum Prohibitorum (1559) che da una parte revisiona tutti i testi precedentemente scritti e ne vieta la lettura per quelli ritenuti incompatibili con l’ortodossia (Il Principe di Machiavelli e alcune novelle di Boccaccio), dall’altra opera una severissima opera di censura per quelli che devono essere stampati (si pensi quale pressione sentirà, dentro di sé, lo scrittore).

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Paolo III Farnese

Cultura

E’ evidente che quanto detto abbia le sue conseguenze sul piano culturale. Se il Rinascimento aveva conosciuto il prevalere del concetto di uomo come faber capace di costruire “razionalmente” la realtà, attraverso il modello della grande cultura classica, l’uomo di questa età vuole allontanarsi da ciò che appariva come “perfetto”, inattaccabile, modellato sulla grande lezione degli antichi, per ricercare qualcosa di nuovo, se si vuole irrazionale e che guardi a quel mondo dell’inconoscibile, esoterico, come nuovo riferimento. Ma come è possibile elaborare un nuovo modo di concepire il mondo, se la Chiesa non permette il libero pensiero? Si tratta per gli intellettuali di forzare il nuovo pensiero all’interno di regole sempre più normative. Non è un caso che la traduzione della Poetica aristotelica diventi un vero e proprio codice coercitivo sul quale attenersi. Ecco allora che l’elaborazione culturale si mostra come espressione che forza la forma, anzi dà a quest’ultima un posto prevalente (preparando la stagione barocca). D’altra parte tra la l’obbligo di accettare la verità ecclesiale e il bisogno di “rinnovare” la cultura si situa la paura e l’angoscia di questo limite, provocando un senso di colpa e la paura del peccato. Da qui la richiesta di acquisire certezze, cui le norme danno un valido aiuto. Per questo non s’inventa ma si fa alla “maniera di”, cioè alla nascita del manierismo. In altre parole il classicismo s’irrigidisce attraverso la riscoperta, per meglio dire la rilettura “normativa” dell’opera di Aristotele, (contro il Platonismo del primo Cinquecento) e viene invischiato in una vera e propria forma precettistica che nega ogni spinta creatrice degli intellettuali. Si pensi al teatro tragico: se Aristotele descrive la situazione presente nella Grecia classica essa diventa norma nello scrivere tale genere: unità di tempo, luogo ed azione; ma poi all’interno di esso casi di estrema disarmonia “psicologica dei protagonisti” ripresi dai tre grandi tragediografi ellenici.

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Simbolo dell’Accademia della Crusca

D’altra parte agli intellettuali non è dato più grande spazio “critico”: le corti è vero che continuano ad essere il centro attrattivo, ma prese a difendere con difficoltà la loro libertà, cessano in qualche modo d’essere promotrici di cultura. Per questo gli intellettuali si rifugiano nelle Accademie, dai nomi improbabili per le stesse e per gli scritti. Tra di esse spicca l’Accademia della Crusca, fondata nel 1582, che con Lionardo Salviati come direttore, farà sì che il suo Vocabolario porterà all’estreme conseguenze il discorso bembesco, ma con una differenza: se infatti per Pietro Bembo l’utilizzo lessicale di Petrarca e Boccaccio mirava alla creazione di una lingua “ideale”, il Salviati restringendo l’uso dell’italiano letterario alle sole parole usate da qualsiasi fiorentino colto del Trecento ne dà una limitazione spazio/temporale che diventa pertanto anch’essa normativa.   

Interessante, più degli altri, è il caso di Machiavelli: messo all’indice e aspramente criticato, viene tuttavia riletto secondo la logica della “ragion di Stato”: Giovanni Botero in Della region di Stato (1589), dapprima infatti critica il maestro fiorentino in quanto ha separato la politica dalla religione, ma poi afferma che il fine del monarca è quello di preservare l’integrità dei suoi territori, ma tale fine, nella realtà odierna, coincide con quello della Chiesa, che è, a sua volta, ispirato da Dio. Il dibattito “politico” di questo periodo viene definito “Tacitismo”, riprendendo dallo storico latino il periodo dei primi Imperatori post augustei.

QUINTO ENNIO

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La cosiddetta testa di Ennio dal sepolcro degli Scipioni

Ennio è di due generazioni più giovane rispetto a Livio Andronico: è anche lui nato nell’attuale Puglia, più precisamente a Rudi, dove subisce l’influenza sia della cultura greca che di quella latina, ma non è esente quella locale, Osca, se lui afferma di possedere tria corda se habere dicebat quod loqui Graece et Osce et Latine. Viene a Roma a seguito di Catone il Censore che lo incontra in Sardegna, dove il nostro militava come soldato di guarnigione. Venuto nell’Urbe diviene insegnante, ma si afferma soprattutto come autore di tragedie. Non passerà molto tempo per allontanarsi dall’ideologia di Catone, diventando amico degli Scipioni: l’atto che sancisce questa sua scelta è quella di seguire il console Marco Fulvio Nobiliore come autore di versi ufficiale (con grande riprovazione del suo antico protettore) nella battaglia presso Ambracia, città greca, e su di essa scrive, ne deduciamo, una tragedia d’argomento romano (praetexta). In seguito, favorito dalla famiglia di Nobiliore e dalla casata dei nuovi amici , si dà alla composizione del suo poema epico, intitolato, come facevano i Pontefici Massimi, Annales.

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Mosaico in cui è rappresentato il poeta Ennio

Quest’opera è la prima opera latina scritta in esametri, verso tipico, di tipo quantitativo, dell’epica omerica. In essa si voleva celebrare la storia di Roma dalle origini fino ai suoi giorni. In fondo si trattava, per lui, di continuare ad avere una concezione eroica della letteratura: se con la scrittura della tragedia Ambracia aveva esaltato le gesta dell’eroe del cui seguito faceva parte, ora con il poema epico avrebbe coronato il sogno di cantare gli eroi di tutta quanta la romanità. Se anche Nevio, con il Bellum Poenicum, aveva esaltato le capacità belliche di Roma, Ennio voleva porsi al di là raccontando in un continuum narrativo la gloria della città che lo aveva onorato come grande scrittore e che ricambiava con un’opera altrettanto grande. Per questo è molto più vivo in lui il riferimento a Omero, sia per la struttura che per l’ideologia.

L’opera era forse strutturata in XVIII libri, con due prologhi, uno al primo ed uno al settimo. E’ in quest’ultimo brano che il riferimento al poeta greco diventa evidente:

somno leni placidoque revinctus
….
Visus Homerus adesse poëta

 Vinto da un sonno placido e leggero
sembrò che il poeta Omero si avvicinasse

infatti il poeta sembra quasi indicarci il suo sostituirsi al grande poeta antico. E lo fa anche perché sarà lui a riprenderne, orgogliosamente la versificazione:

… scripsere (scripserunt) alii rem
versibus quos olim Fauni vatesque canebant,
cum neque Musarum scopulos …
… ne dicti studiosus quisquam erat ante hunc
Nos ausi reserare

Gli altri scrissero la storia
Con i versi che un tempo i Fauni e gli Oracoli cantavano,
quando né le rocce delle Muse…
… né un qualche cultore della parola c’era prima di questo.
Noi abbiamo osato aprire…

Ma il dire enniano lo pone quasi al di là dello stesso Omero: egli qui si definisce infatti, dicti studiosus, cultore della parola e quindi della raffinatezza della poesia greca contemporanea.

La sua particolarità sta nell’ardito sperimentalismo con cui a volte cade nel ridicolo, come nel verso:

o Tite, tute, Tati, tibi tanta, tyranne, tulisti

o Tito Tazio, tu stesso ti attirasti tante disgrazie

dove l’allitterazione in t, viene usata, nel primo libro di retorica, come esempio da non imitare per il suono troppo duro.

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Ennio Annales in un’edizione del 1932

Ma Ennio è capace anche di pagine di grande poesia, come questo, uno dei più lunghi pervenutoci:

IL SOGNO DI ILIA

 Et cita cum tremulis anus attulit artubus lumen,
talia tum memorat lacrimans exterrita somno:
«Eurydica prognata, pater quam noster amavit,
vires vitaque corpus meum nunc deserit omne.
Nam me visus homo pulcher per amoena salicta
et ripas raptare locosque novos: ita sola
postilla, germana soror, errare videbar
tardaque vestigare et quaerere te neque posse
corde capessere: semita nulla pedem stabilibat.
exim compellare pater me voce videtur
his verbis: “O gnata, tibi sunt ante gerendae
aerumnae, post ex fluvio fortuna resistet.”
Haec effatus pater, germana, repente recessit
nec sese dedit in conspectum corde cupitus,
quamquam multa manus ad caeli caerula templa
tendebam lacrumans et blanda uoce vocabam.
vix aegro cum corde meo me somnus reliquit.»

E quando la vecchia, affrettandosi, portò con mani tremanti il lume, allora Ilia, atterrita dal sogno, piangendo così raccontò: «O figlia di Euridice amata da nostro padre, ora le forze della vita abbandonano tutto il mio corpo. Infatti ho sognato che un uomo di bell’aspetto mi trascinava attraverso ameni filari di salici e rive e luoghi a me ignoti; così dopo, sorella mia, mi sembrava di vagare e di mettermi, con lenta andatura, alla ricerca di te, ma non riuscivo ad orientarmi; su qualsiasi sentiero il mio piede vacillava. Poi mi sembrava che nostro padre mi rivolgesse queste parole: ‘Figlia, dovrai dapprima sopportare molte tribolazioni, poi la buona sorte ti sarà restituita dal fiume’. Dette queste parole, sorella, nostro padre improvvisamente scomparve, sebbene io lo desiderassi con tutto il cuore, sebbene tendessi molte volte le mani verso gli spazi azzurri del cielo, piangendo, e teneramente lo chiamassi. Proprio in quel mo-mento il sonno mi ha abbandonato lasciandomi con il cuore angosciato.

Si descrive qui il sogno premonitore di Ilia, che lo racconta a un’anziana sorellastra, figlia di Enea e della sua prima moglie Euridice (chiamata anche Creusa). Ilia, infatti, non sarebbe che la vestale Rea Silvia che incontra un uomo bello, cioè il dio Marte. Poi interviene il padre che le dice che saranno anni difficili per lei, ma il fiume la salverà, dove si mette in assoluto rilievo la mitica nascita di Romolo e Remo.

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Anfitreatro romano di Nora

Riguardo la produzione teatrale Ennio è portato maggiormente per lo stile tragico: infatti anche se ci ha lasciato i titoli di due commedie, la sua fortuna la deve a cothurnatae dove riprende il teatro d’Euripide, cioè opere con una forte introspezione psicologica. Non è possibile trarre una verità sul modo in cui affrontasse temi e personaggi, ma dai versi che ci sono rimasti delle sue tragedie, circa una ventina, (di cui due sole praetextae) sembra che egli dia anche importanza agli aspetti della natura.

LA NUTRICE DI MEDEA

Utinam ne in nemore Pelio securibus
caesa accidisset abiegna ad terram trabes,
neve inde navis inchoandi exordium
cepisset, quae nunc nominatur nomine
Argo, quia Argivi in ea delecti viri
vecti petebant pellem inauratam arietis
Colchis, imperio regis Peliae, per dolum;
nam numquam era errans mea domo efferret pedem
Medea animo aegro amore saevo saucia.

Volesse il cielo che nel bosco del Pelio mai fosse caduta a terra, tagliata dalla scure, quella trave di abete e che da qui non avesse mai avuto inizio la costruzione della nave che ora ha preso il nome di Argo perché, trasportato su di essa, il fior fiore degli eroi argivi, su ordine del re Pelia, cercò di ottenere (con l’inganno) dai Colchidi il vello d’oro dell’ariete. Ché la mia padrona Medea, dal cuore dolorante ferita da una grave passione d’amore non avrebbe mai lasciato la sua patria per andare raminga.

Pur in un così breve frammento è semplice identificare il modo attraverso cui egli cerca di raggiungere il “pathos” del lettore/spettatore dell’opera: potremo quasi dire che in questo lamento esistono solo due modi di costruire il discorso: il prendere atto della costruzione della nave e la sua terribile conseguenza, ma il dio (il fatto) non lo ha concesso.

Per l’aspetto della natura basta osservare questi versi:

LA PRIMAVERA

caelum nitescere, arbores frondescere,
vites laetificae pampinis pubescere,
rami bacarum ubertate incurvescere,
segetes largiri fruges, florere omnia

 il cielo risplendere, le piante metter fronde, le viti rigogliose sbocciare di pampini, i rami incurvarsi per l’abbondanza dei frutti i campi produrre messi in gran copia, tutta la natura fiorire

Per questi versi il discorso è completamente diverso: a dominare è la gioia della nascita, costruita qui con infiniti narrativi incoativi a dirci che essa non ha tempo, ma si ripete ciclicamente per la felicità umana.

 

 

LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO: L'EPICA E IL TEATRO DELLE ORIGINI

Roma, pur con un po’ di “soggezione” verso la più antica cultura greca, comincia ad elaborare delle vere e proprie opere letterarie solamente quando diventa padrona del Mediterraneo. Ma affinché ciò possa accadere deve attraversare uno dei momenti più difficili e carichi di conseguenze della sua storia. A caratterizzare il periodo infatti furono quelle che comunemente sono passate alla storia come le guerre puniche.

Roma e Cartagine, fino a quando l’Urbe non aveva raggiunto Taranto e quindi tutto lo stivale, erano andate nel complesso d’accordo: il nerbo del potere romano era nella terra, quello del potere cartaginese nel mare, nulla poteva far pensare, appunto, a un vicendevole “disturbo”. La conquista del sud Italia, invece, dopo la fuga di Pirro, portava Roma sulle coste mediterranee e, volente o nolente, ad aver a che fare con il mare, di cui la città punica si sentiva padrona. Infatti Cartagine, nata come colonia fenicia, la cui fondatrice mitica aveva il nome Ellissa o Didone, grazie alla posizione favorevole aveva intensificato la sua vocazione commerciale creando avamposti nelle maggiori coste mediterranee: sulle isole Baleari fu costituita Ibiza, in Spagna meridionale videro la luce Malaga, Cadige, Cartagena, in Sardegna furono fondate Cagliari, Sulci, Tharros ed in Sicilia Palermo, Trapani ed Erice. Fu proprio quest’ultima a creare problemi d’attrito con i signori qui presenti come Gerone di Siracusa e Terone di Agrigento, nonché con le città greche, come Catania e Messina. Lo scoppio dell’ostilità con Roma avvenne proprio nella città dello stretto.

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La situazione prima dello scoppio della prima guerra punica

Prima guerra punica

L’annoso problema sulla rivalità tra Gerone e i Cartaginesi si era in qualche modo acuito dopo la partenza di Pirro, sbilanciandosi a favore della popolazione d’origine fenicia. Quest’ultima infatti s’impadronì di quasi tutte le città della Sicilia. I mamertini, soldati mercenari d’origine capuana al soldo di Agatocle (tiranno di Siracusa), alla morte di questi, non avendo più chi li pagava, s’impadronirono di Messina, attirando l’attenzione di Gerone II che voleva ad ogni costo allontanarli. Visti alle strette chiamarono subito in aiuto i Cartaginesi, storici nemici dei greci di Siracusa, poi, visto che il loro aiuto significava sottomettersi, cambiarono e chiamarono i Romani.

Grande fu la discussione in Senato: i grandi proprietari terrieri temevano l’avventura siciliana che avrebbe significato, certamente, la guerra con Cartagine e con le città greche; il ricco ceto mercantile, invece, era favorevole all’intervento, sapendo che ciò avrebbe significato l’apertura di nuovi approdi commerciali. Di fronte a tale situazione la decisione venne demandata ai comizi popolari che di fronte alle ricche terre siciliane votarono a favore. Conquistata Messina, nel 264, dopo aver eluso la sorveglianza Cartaginese, iniziò lo scontro tra le due potenze. Gerone, che per interesse verso Messina s’era in un primo momento alleato con Cartagine, resosi conto che rischiava anch’esso di perdere l’autonomia, rovesciò l’alleanza. Se riuscirono a limitare il loro territorio alla sola parte occidentale dell’isola, era ben chiaro che la guerra con una così grande potenza poteva avvenire soltanto sconfiggendola nel mare. A tale scopo vennero montati sulle navi offerte dagli alleati navali i “rostri” che bloccavano ogni movimento alle agili imbarcazioni cartaginesi, che furono pesantemente sconfitte a Milazzo. Quindi Roma prese in esame un tentativo coraggioso: colpire il nemico al cuore. Nel 256 Attilio Regolo mise sotto assedio Cartagine, riuscendo infine a sconfiggerla. L’orgoglio del romano, che dettò condizioni di pace improponibili, rese più forte la resistenza di Cartagine che, affidatasi allo spartano Santippe, costrinse Roma ad una tragica sconfitta nei pressi di Tunisi. La guerra, quindi, continuò in Sicilia, rendendo quelle terre assolutamente desolate. Si trattò più che altro di una guerra di posizione in cui le contendenti erano ormai esauste. Quando entrò in gioco Amilcare Barca, Roma sembrò proprio capitolare, ma fu proprio il pericolo a dargli forza: approntata una nuova flotta sotto il comando di Lutazio Catulo, Roma vinse una decisiva battaglia presso le isole Egadi. Cartagine non riuscì a reagire: dovette abbandonare la Sicilia, pagare una pesante indennità e restituire, senza riscatto, i prigionieri. Il possesso della Sicilia pose Roma di fronte ad un nuovo problema, essa infatti prima docuit maiores nostros quam praeclarum esset exteris gentibus imperare come disse Cicerone; infatti i Siciliani furono i primi sudditi, privati di ogni libertà politica e sottoposti al governo di un magistrato, di solito un ex console che per questo prende il nome di proconsole. Quindi Roma conquistò, senza colpo ferire, la Sardegna e la Corsica. I mercenari infatti, non pagati per le difficili condizioni economiche della città africana, diedero vita ad una violenta sollevazione cui rispose un altrettanto violenta repressione. Cartagine impegnata in tale difficile frangente dovette osservare inerme l’occupazione romana delle due isole a cui non aveva la forza di ribellarsi. Non dobbiamo inoltre dimenticare che l’Urbe riuscì anche a conquistare i territori dei Galli, dopo la grande paura di una nuova invasione, nell’Italia settentrionale, dando vita a due importanti città Cremona e Piacenza, nate sul corso del Po.

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Salvator Rosa: La morte di Attlio Regolo (XVII sec.)

Seconda guerra punica

La politica cartaginese postbellica era profondamente divisa: da una parte i grandi proprietari terrieri, convinti dell’impossibilità da parte della città di poter ancora essere una grande potenza marittima e quindi ora votata ad una politica sulla terraferma interna, dall’altra quella capitanata dai Barca, presi invece dalla volontà di riscatto essendo anche convinti che prima o poi il conflitto con Roma si sarebbe riacceso. Per far ciò bisognava “ridiventare grande” e quindi ripartirono da una posizione più occidentale dell’Italia. Amilcare Barca, ottenuto i pieni poteri, partì per la Spagna. In pochi anni la terra iberica passò quasi interamente nelle mani cartaginesi. Alla morte di Amilcare il potere passò ad Adrubale. Il figlio di Amilcare e suo nipote pensarono bene che, come Roma aveva colpito Cartagine ferendola al cuore, lo stesso doveva fare loro, tanto più che, scendendo in Italia sarebbe parso come liberatore delle popolazioni soggette a Roma, come quella gallica appena conquistata e le città greche del sud. Pertanto, dopo aver cercato il casus belli con l’assedio di Sagunto, città collocata all’interno della sfera d’influenza cartaginese, ma alleata con Roma, s’apprestò a scendere con un esercito ben addestrato e trentasette elefanti. Mentre a Roma si discuteva (dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur), Annibale marciò con forte velocità lasciando impreparati i Romani tanto che egli poté varcare le Alpi senza che loro riuscissero ad intercettarlo. Il primo scontro avvenne sul Ticino e, seppure con gravi perdite cartaginesi, l’esercito Romano venne distrutto: la conseguenza fu la ribellione delle popolazioni galliche appena conquistate. Quindi continuò a marciare verso sud, e di nuovo, presso il lago Trasimeno, l’esercito romano fu completamente distrutto. Roma venne invasa dal terrore e, chiamato come dictator Quinto Fabio applicò la tattica attendista, cercando di non far approvvigionare l’esercito nemico. Ma tale condotta, che procurò al generale romano la definizione di cunctator (temporeggiatore) provocò la reazione dei piccoli proprietari terrieri che vedevano i loro campi completamente distrutti. Quindi Annibale decise di passare l’inverno in Puglia, mentre a Roma si voleva attaccare battaglia subito. Fu quindi preparato un grande esercito che si andò a situare presso Canne: ma la loro distruzione fu pressoché totale. A favore di Annibale alcune città greche diedero la defezione da Roma e gli si posero a fianco. Tra di esse vi fu Capua.

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Annibale giunge a Roma: particolare affresco Musei Capitolini

La grandezza, in questo frangente, di Roma fu quella di non arrendersi e di avere le popolazioni dell’Italia centrale come fedeli alleate. Inoltre, qui si situa l’errore di Annibale; i Cartaginesi, fermandosi in Campania per attendere rinforzi (che per beghe politiche gli Annoni rifornivano col contagocce) non aveva alcuna intenzione d’attaccare direttamente Roma. Roma cominciò dalla periferia: si prese Agrigento, nonostante alcune macchine d’invenzione d’Archimede, come la leva (alla mitologia appartengono gli specchi ustori). In seguito venne presa anche Capua e distrutta per aver appoggiato Annibale e sistemò anche Filippo V che, a seguito dell’espansionismo romano nell’Illiria, dopo la fine della prima guerra punica, si era alleato con Annibale in funzione antiromana (prima guerra macedonica). Ma la sorte della guerra si giocò in Spagna.

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Thomas Ralph Spence: Archimede dirige la guerra

Fu mandato lì Publio Cornelio Scipione, che colpì la capitale cartaginese in terra spagnola: Cartagena. Ma Asdrubale, fratello minore di Asdrubale, riuscì ugualmente a raggiungere l’Italia, ma fu intercettato nelle Marche, dove venne decapitato. Quindi il Senato mandò in Africa lo stesso Scipione: costui, messosi d’accordo con Massinissa, cui aveva promesso un regno, costrinse Annibale a recarsi velocemente in Africa, ma la vittoria toccò all’esercito romano, presso Zama. A Cartagine non restava che chiedere la pace e le condizioni furono durissime: rinuncia ad ogni possesso fuori dall’Africa, consegna completa di tutta la flotta e soprattutto impossibilità di dichiarare, senza il consenso di Roma, guerra.

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La battaglia di Zama: miniatura per un’edizione trecentesca di Ab urbe condita di Livio (1350 circa)

Guerre macedoniche

Certamente Roma era ormai la padrona incontrastata di tutto il Mediterraneo orientale. L’idea che ormai fosse invincibile e che potesse allargare il suo potere in Oriente era forte, proprio perché gli eredi di Alessandro Magno erano divisi, ma anche soprattutto ricchissimi. Inoltre già aveva avuto a che fare con Filippo V. Annibale, mai domo, ottemperati i doveri verso i Romani, si alleò con il re di Siria, Antioco III. Roma aspettava il casus belli e questo gli fu offerto dai Rodiesi. Filippo V e Antioco III si allearono contro Rodi e quest’ultima chiese aiuto a Roma. Il problema politico diventava culturale; aiutarli avrebbe significato far penetrare la cultura greca con tutte le sue caratteristiche. Si raggiunse il compromesso e la guerra fu dichiarata solo a Filippo V che venne facilmente vinto grazie anche alla compattezza che le libere città greche mostrarono nel combattere con i Romani. Ridimensionato Filippo, toccò ad Antioco III, il quale, di fronte alle rivalità greche che rinacquero dopo la libertà offerta loro dai Romani, vi partecipò in modo interessato. Rifiutò lo sgombero delle truppe dalle Grecia e quindi l’esercito Romano pensò bene di attaccarlo nei suoi territori, ridimensionandone grandemente la potenza. Ma non terminò così. L’intervento romano contro Antioco aveva mostrato cosa Roma intendesse per “libertà greca”. Spaventati da un oppressore “straniero”, si rivolsero ancora a Filippo V che appariva, ai loro occhi, come l’alleato “naturale”. Ma la morte di costui, l’assassino che egli compì verso suo figlio Demetrio, considerato filo romano, l’incapacità del suo erede, Perseo, ebbero la meglio e per i Romani si trattò di costituire quattro nuove province sotto la sua diretta giurisdizione (ma l’importanza fondamentale fu che fra i macedoni catturati ci furono anche grandi intellettuali, come lo storico Polibio).

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Moneta recante l’effigie di Filippo V, re di Macedonia

La terza guerra punica

Non vi è un vero e proprio motivo per cui Roma dovesse distruggere Cartagine: il fatto che si era ripresa non costituiva pericolo, avendo accettato costei d’essere stato satellite di Roma. Ma Roma non poteva tollerare che essa tornasse, non dico ricca, ma sufficientemente prospera e colse la palla al balzo quando Massinissa, che si sentiva assolutamente coperto dall’alleanza con l’Urbe, sconfinava impunemente nei confini della città, recando morte e distruzione. Stanchi di questa situazione i Cartaginesi lo attaccarono e Roma intervenne. Dopo la sua naturale vittoria fece una semplice richiesta: distruggetevi. I Cartaginesi invece vendettero cara la pelle: tre anni ci vollero ai Romani per averla definitivamente vinta. Come sfregio gettarono sul suolo sale. Anche questo territorio divenne provincia, come quello della Spagna, il cui duro assedio terminò con la conquista della loro capitale, Numanzia. Dal 264 a. C., inizio della I guerra punica, al 146, fine della III guerra punica e 133 a. C., Roma si era trasformata, completamente. Cominciava ora il suo compito di unificare in una sola civiltà quello che, iniziato col mondo greco, diverrà sapere occidentale.

Doc. 10. Espansione nel 133 ac.jpgRoma nel 133 dopo la terza guerra punica

L’epica
Introduzione all’epica e al teatro

Che cos’è un poema epico? Se ci si dovesse riferire all’epica arcaica, cioè omerica (VI – V secolo a.C.), esso è una narrazione nella quale vengono raccontate le vicende belliche di un popolo o le peregrinazioni di un eroe, accompagnate dalla volontà divina. Abbiamo pertanto un vero e proprio intreccio tra gli uomini e gli dei, in cui s’intersecano i destini e il fine della vicenda.

L’Iliade narra l’ira di Achille verso Agamennone, che le ha sottratto la schiava. Da qui deriva il suo rifiuto di combattere a fianco dei Greci contro i Troiani, finché l’uccisione di Patroclo, amico di Achille, da parte di Ettore, eroe troiano e l’intervento dello stesso Achille, che rientra in guerra per vendicarlo, fanno terminare il racconto con i suoi funerali.

Diversa è la vicenda dell’Odissea che narra il lungo viaggio per rientrare in patria di Ulisse. Infatti l’opera si apre con Telemaco, suo figlio, che va alla ricerca di notizie del padre, scomparso da dieci anni dopo la fine della guerra. Quindi ritroviamo Ulisse naufrago nella terra dei Feaci, al cui re racconta le sue avventure (Polifemo, Circe, gli inferi, le Sirene, la perdita dei compagni) finché, grazie al loro aiuto, può tornare in patria e, combattendo contro i pretendenti di Penelope, sua moglie, riconquista il regno.

Pur nella diversità i due poemi appartengono ambedue al filone “epico-eroico”. Ad identificarli in questo genere sono alcuni aspetti strutturali:

  • ambientazione in un passato cosiddetto “mitico”
  • linguaggio formulare (che ricorda la trasmissione orale)
  • il verso (nei poemi omerici l’esametro).

Ma a caratterizzarli come “opere” fondative l’identità culturale di un popolo non bisogna dimenticare che in esse vi è racchiusa tutta la conoscenza, sia religiosa che geografica, scientifica e morale che caratterizzava un popolo, riflettendo e veicolando allo stesso tempo il suo modo d’essere.

Quando con l’avvento dello spettacolo teatrale e quindi della filosofia il mondo mitico entrò in crisi, si sostituì ad esso un epos prettamente storico, di cui, però, non abbiamo testimonianza.

Testimonianza diretta, invece, abbiamo dell’epos ellenistico, quello delle Argonautiche di Apollonio Rodio (III – II sec. a.C.), che, chiaramente, non rispondevano più alle esigenze dell’opera omerica. Infatti in esso predomina la brevità (contro i 24 canti dell’Iliade e dell’Odissea, qui solo 4) e l’intento eziologico, cioè la ricerca della spiegazione di un nome “contemporaneo” ad un fatto mitico. Ma ciò che lo caratterizza è la forte presenza di una storia d’amore, assolutamente in secondo piano in Omero.

Se, come abbiamo visto, l’epica rappresenta il modo attraverso cui i Romani cercavano di crearsi un’identità, e, per questo, impararono prima l’arte, con Livio Andronico, quindi posero mano alle proprie opere epiche con il Bellum Poenicum di Nevio e gli Annales di Ennio, fu proprio con il teatro che il contatto con il mondo greco non venne mai meno, sin dall’inizio, da quando cioè Livio Andronico, nel 240 a. C. fece rappresentare, in lingua latina, un’opera originale greca.

Ma prima d’iniziare il discorso sul teatro romano delle origini è opportuno ricordare il modo in cui si struttura il teatro a Roma:

Fabula cothurnata Cothurni, calzari greci per attori delle tragedie Tragedia d’argomento greco
Fabula praetexta Toga praetexta, indossata dai magistrati Tragedia d’argomento romano
Fabula palliata Pallio, mantello quadrato per attori delle commedie Commedia d’argomento greco
Fabula togata Toga, abbigliamento maschile Commedia d’argomento romano

Quanto detto sinora serve ad illustrare il problema secondo il quale il primo intellettuale che a Roma portò la conoscenza del poema epico aveva a sua disposizione più di un modello e se scelse Omero e, più precisamente l’Odissea, non fu propriamente casuale.

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Trasferimento di uno schiavo a Roma

Livio Andronico

Livio Andronico, infatti, da cui si fa nascere la letteratura latina, sembra sia stato il primo a scrivere un testo drammatico (di cui si racconta fosse anche attore), la prima opera in assoluto in lingua latina, era il 240 a. C.

Di lui possediamo pochissime notizie. Si sa che venne portato schiavo, dopo le guerre tarantine, da Livio Salinatore, da cui, appunto, assunse il nome. Sembra inoltre facesse attività di insegnante per i suoi figli (da qui si fa derivare la sua “traduzione” dell’Odissea di Omero) e che, per meriti culturali, fosse stato insignito della carica di direttore nel Collegium scribarum histrionumque. Sappiamo inoltre che egli fu traduttore di commedie e tragedie greche, ma che la sua fama venne subito riconosciuta per la perizia con cui riportò in latino l’opera epica di Omero.

Facendo questo lavoro Livio Andronico fu veramente il primo a porsi un problema che poi avrebbe investito, sino ad oggi, tutta la cultura occidentale e non solo: che cosa è una traduzione? Come si concepisce il passaggio da un codice linguistico ad un altro codice linguistico?

A questo tipo di domande egli rispose definendo, sin da subito, che tradurre non vuol dire riproduzione fedele, ma “adattamento” di un testo alla cultura cui si rivolge, facendo dell’opera un’opera di quella determinata cultura.

Andronico infatti si rivolgeva ad un mondo che non aveva un mito vero e proprio, se non mutuato dalla cultura greca. Pertanto era impossibile per lui strutturare un’opera con tale valenza. Più importante era quindi rivolgersi ai personaggi: se avesse scelto l’Iliade, si sarebbe trovato di fronte ad un vero e proprio “mondo greco”, ad eroi che facevano della guerra di Troia un punto di partenza imprescindibile per la loro affermazione. Partire invece dall’Odissea significava prendere Ulisse come eroe che sì veniva da Troia ma che, viaggiando, aveva toccato le terre italiane, un eroe la cui virtù e pazienza ben si addicevano ad un uomo romano, come anche la fedeltà verso Penelope, e ancora l’amore filiale di Telemaco.

Altri discorsi che vanno oltre il tema devono tuttavia tener presente un dato fondamentale: noi non possediamo che di quest’opera che una quarantina di versi: pertanto i discorsi dei critici si basano, oltre che su di essi, da ciò che gli antichi scrittori di Roma dicevano dell’opera. Partiamo da un dato essenziale: Andronico, per dare “aulicità” al suo dettato poetico usa il verso degli antichi carmina religiosi: il saturnio. Già questo è un primo passo verso la “romanizzazione” del testo: usare il verso ritenuto sacro per dare al suo testo il senso che l’originale aveva per la cultura greca.

Vediamo ora il suo primo verso:

Virum mihi, Camena, insece versutum

Quell’uomo scaltro e accorto cantami, o Camena

che vuole “tradurre” il primo verso omerico:

ἄνδρα μοι ἔννεπε, μοῦσα, πολύτροπον (Andra moi ennepe Musa polutropon),

dove il sostantivo virum e l’aggettivo versutum stanno nella stessa posizione di ἄνδρα e πολύτροπον. Grande importanza ha invece la sostituzione di Musa con Camena, divinità romane arcaiche delle fonti, che avevano la capacità profetiche e divine.

Stesso discorso per il passo in cui Omero nel canto VIII afferma

ού γάρ έγώ γε τί φημι κακώτερον άλλο θαλάσσης
άνδρα γε συγχεύαι, εί καί μάλα καρτερός είη

Io dico che non c’è niente di peggio del mare
per conciar male un uomo, anche se è tanto forte.

in Andronico esso diventa:

Namque nullum peius macerat homonem (hominem)
quamde mare saevum: vires cui sunt magnae
topper … confringent importunae undae

E infatti niente di peggio tormenta un uomo
quanto un mare crudele: colui che ha grandi forze
presto annienteranno onde che non danno scampo

dove sviluppa il senso del pathos.

Come precedentemente detto, Livio Andronico, greco di Taranto, fu il primo a rappresentare, durante i Ludi Romani uno spettacolo teatrale. Tale testimonianza ci viene dallo storico Tito Livio, che nella monumentale opera storica Ab urbe condita ci offre l’analisi delle tappe con cui Roma giunse ad una vera e propria rappresentazione teatrale, ma non ci dice se Andronico abbia presentato una tragedia o commedia, ma solo che l’originale era greco. Questo ci porta subito al problema annoso del vertere latino: come per l’epica, l’autore tarantino traduce e reinterpreta il testo greco, per assimilarlo ad un pubblico, più vasto dei fruitori di poesia, di frequentatori di teatro. Di lui non possediamo alcun frammento, ma solo otto titoli, di cui sei cothurnatae, legate al ciclo troiano (si ripete qui il discorso di come tale ciclo fosse legato ad Enea e quindi ben accetto al pubblico latino) e due palliatae.

Gneo Nevio
Anche un altro grande autore arcaico, Gneo Nevio, che, come Livio Andronico scriverà tragedie e commedie, darà vita ad un importante poema epico, il Bellum Poenicum. Anche su di lui non si hanno notizie sicure: in primo luogo sappiamo che egli fu un cittadino romano, sia pur originario della Campania, e quindi sine suffragio. Combattente durante la prima guerra punica, di cui narrò la vicenda, sembra partecipasse anche alle operazioni della seconda. Di spirito libero, conservatore politicamente, si dice che fosse stato incarcerato per volontà della famiglia dei Metelli. Infatti si schierò contro di loro, che erano fautori di una linea espansionistica, con un verso rimasto famoso:

Fato Metelli Romae fiunt consulae

Per fortuna i Metelli sono fatti consoli a Roma

Ma se a fato do il significato di sfortuna e a Romae il senso di genitivo la traduzione sarà:

Per disgrazia di Roma i Metelli saranno fatti consoli.

Pare che i Metelli diedero alla frase quest’ultimo significato se gli risposero:

Dabunt malum Metelli Neviae poetaë

I Metelli daranno un dispiacere al poeta Nevio

Il Bellum Poenicum è il primo poema storico della letteratura latina. Esso ci è pervenuto in modo assai frammentario. Ma sembra fosse formato da circa quattromila o cinquemila versi in saturnio, obbedendo così sia alla tradizione appena inaugurata da Livio per la scelta del metro, sia al poema alessandrino per la brevità della narrazione. Di esso ci sono giunti solo una sessantina di versi.

L’opera inizia (anche se non si ha certezza) narrando direttamente i fatti inerenti la guerra. Poi forse avrebbe inserito un excursus in cui descriveva l’inizio dell’inimicizia tra Cartagine e Roma, menzionando anche la storia tra Enea e Didone, e quindi, in ulti-mo tornare alla guerra.

Quello che qui interessa è che egli, pur contrapponendosi a Livio per la scelta degli argomenti, si mostra invece ben preparato linguisticamente a rifarsi al modello omerico, come nella scelta di aggettivi composti, che sembrano richiamare gli epiteti dei poemi greci:

dein pollens sagittis inclutus arquitenens
sanctus Iove prognatus Pythius Apollo

Allora il forte arciere, potente di frecce
Pizio Apollo, santo figlio di Giove

L’esempio omerico vuole anche dimostrarci come Nevio volesse inserire il mito all’interno dell’epica nazionale, ma come lo facesse non lo sappiamo, anche perché le parti rimaste sono quasi tutte per lo più legate al mito più che alla storia. Sappiamo che come Livio egli cercasse di coinvolgere il pubblico attraverso il pathos. Si vedano questi tre esempi:

                               (…) amborum uxores
noctu Troiad (Troia) exibant capitibus opertis,
flentes ambae, abeuntes lacrimis cum multis.

(…) le donne di ambedue (Anchise ed Enea)
uscivano di notte da Troia con il capo coperto,
piangenti e andavano con molte lacrime

Eorum sectam sequuntur multi mortales
multi alii e Troia strenui viri:
ubi foras cum auro illinc exibant…

Molti uomini seguivano una parte di loro
molti altri uomini coraggiosi da Troia:
quando uscivano fuori con l’oro da lì…

Senex fretus pietati deum adlocutus

Un vecchio, forte della sua pietà, si rivolse al dio.

Dell’autore campano abbiamo maggiori testimonianze sulla sua esperienza teatrale, determinate da un numero, non certo ampio, di frammenti. Egli fu più noto come autore di commedie che di tragedie, sebbene è a lui che bisogna ascrivere la nascita della praetexta a Roma. Infatti gli vengono attribuiti due titoli che appartenevano sicuramente al genere tragico: il Romulus, sulla fondazione di Roma e il Clastidium, sulla conquista del console Marcello della città insubra (in Italia nord-occidentale) di Casteggio. Inoltre sembra che egli inauguri la tecnica della contaminatio: aggiungere ad una trama parti prese da un’altra opera teatrale.

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Attori romani con maschera (affresco di epoca romana a Palermo)

Per quanto riguarda le commedie egli scrisse sia palliate che togate. Bisogna ricordare che per quanto riguarda i temi, i modi di rappresentazione, la stessa “comicità”, sia i primi autori come Nevio ed Ennio, sia quelli seguenti come Plauto e Terenzio, tutti si rifanno alla commedia nuova greca di cui noi possediamo le opere di Menandro. Infatti si suole dividere la storia della commedia greca in tre fasce: l’antica, di mezzo e nuova. Della prima possediamo l’esempio di Aristofane, la cui comicità appare molto diretta con continui riferimenti all’attualità politica, nessun esempio della seconda, mentre la terza, cui prendono spunto gli autori latini, dà più attenzione ai personaggi e alla loro psicologia (sebbene Plauto spinga più l’acceleratore sulla comicità pura e Terenzio, invece, sul sorriso).

Famosi di Nevio sono i versi dedicati ad una leggera fanciulla: molto probabilmente qui si parla di due studenti di Roma, mandati a Taranto ad approfondire lo studio di greco, che al posto di applicarsi sui libri, preferiscono trascorrere il tempo con allegre fanciulle come appunto la tarentilla (donna di Taranto): 

TARENTILLA

Quasi pila
in coro ludens datatim dat se et communem facit.

Alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet.
Alibi manus est occupata, alii pervellit pedem;
anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat,
cum alio cantat, at tamen alii dat digito litteras. 

Come giocando con una palla in un gruppo offre se stessa a tutti e si rende comune. Ad uno annuisce, ad un altro ammicca, un altro ancora ama, un altro lo abbraccia. La mano è occupata altrove, ad uno stuzzica il piede; ad un altro offre l’anello da guardare, dalle labbra invoca uno, con un altro canta ma pure manda lettere ad un altro con un dito.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

ALLE ORIGINI DELLA CULTURA ROMANA

Roma, come ci dice la tradizione, nasce nel 754 a. C. Le ricerche archeologiche in parte confortano tale data, affermando come le popolazioni sia che lì abitavano sia che gravitassero lì intorno si strutturassero in qualcosa di più solido; ma i Romani, invece, confortarono tale data con leggende, tutte tese a valorizzare la città.

Romolo e Remo (Rubens) - WikipediaPeter Paul Rubens – Romulo and Remo (1615)

La prima leggenda è legata all’eroe mitico Romolo: si dice che il dio Marte sedusse una Vestale, Rea Silvia, figlia del re di Alba Longa, Numitore. La donna mise al mondo due gemelli. Il principe Amulio, che aspirava al trono, ordinò che la sacrilega donna fosse sepolta viva e i neonati fossero abbandonati alla furia del fiume. Ma la cesta in cui furono posti s’incagliò tra i rami di un fico (fico Ruminale); raccolti e allattati da una lupa (Livio pensa si tratti di una prostituta) diventarono grandi sotto il pastore Faustolo e sua moglie Acca Laurenzia. Una volta adulti, uccisero Amulio e, restituito il regno a Numitore, ottennero da quest’ultimo il permesso di fondare una città. Quindi decisero chi ne sarebbe stato il primo capo e si accordarono che toccasse a colui che avesse visto più uccelli volare in cielo. Vinse Romolo, che quindi ne delimitò il confine, ma Remo, invidioso, lo superò e fu quindi ucciso dal fratello.

Eneide libro 7: riassunto, personaggi, luoghi - Studia Rapido

Pietro da Cortona: Enea giunge a Roma (1654)

A questa leggenda ne seguì e se ne intrecciò un’altra, che legava la figura di Romolo con Enea, eroe giunto da Troia dopo la distruzione della città da parte dei Greci: giunto nel Lazio egli si unì con i Latini sposando Lavinia. Il suo primo figlio Ascanio, fu quindi il progenitore di Numitore. Un’altra leggenda s’aggiunse a spiegare, oltre l’elemento latino, quello sabino, la famosa tratta delle donne sabine, a cui seguì una guerra. Tarpea, invaghitosi del loro re o pagata con ricchi gioielli, fece entrare i soldati in città. Ne seguì un’alleanza che sancì l’unione con la popolazione. Riconosciuta colpevole, Tarpea fu gettata da una rupe. Invece Romolo, scomparso durante una tempesta fu onorato come un dio.

Tarpea tradisce i Romani per l'oro dei Sabini - Studia Rapido

La morte di Tarpea

Sempre miticamente viene quindi rappresentato il periodo monarchico, racchiundendolo intorno a sette re, Romolo compreso:

  • Romolo a cui è attribuita l’alleanza con i Sabini;
  • Numa Pompilio, sabino: a lui è attribuita tutta la componente religiosa della città;
  • Tullio Ostilio, re guerriero: a lui si deve la conquista di Alba Longa (mito dei tre fratelli Orazi e Curiazi);
  • Anco Marcio fece importanti opere pubbliche: costruì il primo ponte e fondò la colonia di Ostia;
  • Tarquino Prisco dà inizio alla dinastia etrusca (e quindi ad un forte predominio di quest’elemento su quello romano); costruì il tempio di Giove, il Circo Massimo e la Cloaca Massima;
  • Servio Tullio, anch’egli d’origine etrusca: egli costruì le prime mura delle città;
  • Tarquino il Superbo: fu un despota. Suo figlio Sesto violentò la virtuosa Lucrezia, moglie del nobile Collatino. Costei per l’onore perduto s’uccise. Il marito, con Lucio Giunino Bruto, cacciò la dinastia etrusca e fondò la repubblica aristocratica (509 a.C).

I sette re, la leggenda di Roma - RAI Ufficio Stampa

I sette re di Roma

Ad indicarci che la monarchia fosse più lunga di quella prospettataci di sette re è la pochezza del numero rispetto alla lunghezza dell’età (35 anni per ognuno) e le loro caratteristiche (ad essi è affidato un particolare aspetto tipico della città, militare, politico o civile). Ciò che è certo è che l’età monarchica finì non solo per una vera e propria controffensiva aristocratica, ma anche come una ripresa dell’elemento romano contro il predominio etrusco che i tre re avevano affermato. Pertanto i patrizi dovettero muoversi su due fronti: strutturazione di uno stato oligarchico con le sue cariche e funzioni; preparazione militare per ricercare un’egemonia in Italia centrale.

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Tiziano: Lucrezia e Sesto Pompeo

Aspetto politico

La società era già divisa in età romana in tre tribù, rappresentanti l’elemento indigeno (romano/latino), sabino e forse etrusco. Ogni tribù fu a sua volta divisa in curie formate dalle gentes. Ognuna di esse ne possedeva dieci, per un totale di trenta. Esse davano vita ai comizi (le assemblee) curiati (dei gentiles). All’interno delle gentes vi erano le familiae, termine comprensivo con il quale si indicava ogni componente un vasto gruppo “familiare” guidato da un paterfamilias. Tra di essi venivano scelti i senatori, cioè coloro che anticamente facevano parte del consiglio del re. Tutto il resto della popolazione costituiva la plebs, uomini liberi, di diversa condizione economica: alcuni di loro diventavano clientes di patroni, instaurando con essi un rapporto di fides. Attraverso loro i patrizi si fornivano di fanti e quindi escludevano dalla guerra tutti coloro che non potevano permettersi un’armatura. A porre un freno fu, probabilmente la dinastia etrusca che, poggiando i desideri dei mercanti e dei commercianti allargò le centurie, portandole a 193, e dividendole su base economica. Quindi avremo 7 classi, di cui la prima, la più ricca (i patrizi) disponeva di 18 centurie; la seconda, quella dei fanti, ben 80 centurie; seguivano quindi tre classi di 20 centurie l’una, la più povera ne aveva 30, più una dei nullatenenti (proletarii) che ne possedeva 5. Il voto andava per classe: 98 la prima classe, 95 la seconda. Si allargava il potere decisionale, ma non si intaccava il potere di chi possedeva maggior peso economico. Inoltre sempre fra l’ultima età monarchica o la prima repubblicana vennero riformate le tribù su base territoriale, quattro cittadine e le altre rustiche. Ognuna di esse doveva presentare al suo interno cives cum suffragio. Alla caduta della monarchia si decise che ogni carica ed officio politico avesse, per non trasformarsi in tirannide, come requisiti la collegialità, la temporalità e l’elettività. Esse erano:

  • Il consolato: nominati in due, era la maggior carica dello stato. Il loro nome indicava l’anno in cui erano al potere; avevano in mano il potere militare (comandavano gli eserciti), legislativo, proponevano leggi;
  • La questura: amministrava il denaro pubblico, incassando i tributi e pagando i vari amministratori dello stato. All’inizio furono due, poi, mano mano crebbero, fino ad arrivare a quaranta.
  • L’edilizia: sovrintendeva a tutto ciò che si richiedeva per l’approvvigionamento ed il divertimento della città: mercati, spettacoli; presiedevano inoltre all’ingegneria pubblica, strade, edifici e all’ordine pubblico che oggi chiameremo municipale.
  • La pretura era il vero e proprio organo giurisdizionale; all’inizio due (uno urbano, l’altro esterno). Aumentarono con l’aumentare dei possedimenti statali;
  • La censura si occupava del censimento politico e militare; aggiornava le liste elettorali.

Il V° secolo fu il secolo in cui più aspra si fece la lotta tra patrizi e plebei: tale lotta ebbe effetti importanti per la repubblica come l’instaurazione di una collegialità plebea che poteva eleggere i propri rappresentanti considerati inviolabili e con facoltà di porre il veto su decisioni contrarie alla sua classe. I plebei economicamente più forti riuscirono nel corso degli anni ad entrare nelle magistrature riservate al patriziato e a far approvare alcune richieste inderogabili: il matrimonio tra patrizi e plebei e la scrittura delle tavole delle leggi.

Aspetto militare

La cacciata dei re etruschi provocò la controffensiva del lucumone (alta magistratura etrusca) di Chiusi Porsenna. Al di là della tradizione che, raccontando atti di eroismo (vedi Muzio Scevola), voleva nascondere la verità, il re etrusco riuscì ad imporsi sui Romani; ma a cacciarlo via fu una coalizione latina e dei greci di Cuma. Ripresa la libertà i Romani dovettero affrontare le varie città del Lazio, ma, visto il pericolo rappresentato dagli Equi, i Volsci e i Sabini, si allearono tra loro. Mentre l’alleanza aveva la meglio sulle popolazioni italiche, la sola Roma conquistò Veio, città etrusca. Tale vittoria costituì l’incipit di una vera e propria espansione della città Romana che, con battute d’arresto (famosa la discesa dei Galli) e strepitose vittorie (si pensi alla difficile vittoria contro i Sanniti) fece diventare l’Urbe una vera e propria potenza. Tale potenza non poteva non entrare in contatto con le più progredite città della Magna Grecia. Quando, per uno sconfinamento navale, Roma dichiarò guerra a Taranto, avamposto delle città greche in Italia, quest’ultima chiese aiuto a Pirro, re dell’Epiro. La battaglia ebbe un esito vittorioso per il re greco, grazie anche agli elefanti, sconosciuti all’esercito romano, ma furono talmente grandi le sue perdite e veloci le capacità di ripresa romana che tale vittoria non risultò decisiva. La sua ambivalenza politica, il suo orgoglio personale alla fine lo perdettero e rientrò in Grecia. Roma, conquistata Taranto, completò l’occupazione della Puglia e della Basilicata, rimanendo, così, padrona del Mediterraneo.

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Nicola Poussin: Ritratto del vincitore dei Volsci Coriolano con ai piedi la madre Veturia

La cultura

La cultura di questo periodo non può che essere ancora una cultura autoctona (intendendo con questo termine una cultura che non vede ancora la preponderante e assoluta preminenza greca) ed è per la maggior parte orale, conosciuta per le testimonianze e piccole trascrizioni di autori tardi.

Cultura epigrafica

Tuttavia la prima espressione scritta, pertanto, non letteraria, la possediamo per via epigrafica (dal greco epì grafo = scrivo sopra, pietre, vasi in argilla o ceramica, lastre tombali ect.). Fra queste ricordiamo:

  • Lapis niger: pietra nera: questo cippo, su cui sovrastava una pietra nera (da qui il nome) veniva considerato il luogo della tomba di Romolo. E’ scritto in modo bustrofedico (scrittura a nastro da sinistra verso destra e, nella riga successiva da destra verso sinistra) e la sua interpretazione è ancora assai complessa.

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Lapis niger

  • Lapis Satricanus: scoperto piuttosto di recente presso Anzio, riporta una dedica al dio Marte.

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Lapis Satricanus

Vaso di Dueno: recipiente in argilla in tre corpi con un’iscrizione a caratteri greci su ognuno di essi. Difficoltosa l’interpretazione.

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Vaso di Dueno

  • Cista Ficoroni: prende il nome dell’antiquario che la scoprì. E’ un recipiente in bronzo probabilmente atto a contenere gioielli. Tale iscrizione, databile il IV sec. A. C., è in un latino più comprensibile e meno arcaico dei precedenti:

CISTA FICORONI

 Latino arcaico

Dindia malconia fileai dedit
novios plautios med romai fecid

Latino classico

Dindia Malconia filiae dedit
Novius Plautius me Romae fecit

Dindia Malconia donò alla figlia / Novio Plauto mi fece a Roma.

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Cista Ficoroni

Fibula Praenestina: parliamo di un vero e proprio “giallo” archeologico: scoperta come la più antica testimonianza epigafrica (VII secolo) dal tedesco Helbig (1887), una studiosa nel 1980 ne denunciò la falsità; ma fu ancora un’altra studiosa, in tempi recenti ne confermò, invece, l’autenticità. La fibula così recita: Manios med fefaked Numasioi (Manio mi fece per Numerio).

Fibula prenestina - Wikipedia

Fibula Praenestina

Carmina

Un aspetto assolutamente importante rivestono i carmina. Con questo termine non è possibile riferirci alla poesia o alla prosa, ancora non delineata in questo tipo di cultura. Si tratta invece di prender coscienza di alcuni strumenti retorici che delimitano il discorso da quotidiano a rituale. Per meglio dire l’uso consapevole dell’allitterazione, dell’assonanza, del ritmo, per alcuni addirittura di una vera e propria struttura metrica, rendono questi testi appunto “rituali”, dedicati ad alcuni scopi, religiosi o laici, ma tutti rivolti a rafforzare l’identità culturale. Se d’altra parte il termine carmen, trae origine dal verbo cano, cantare, vuol dire certo che essi andavano al di là della funzione comunicativa per andare a quella rituale.

Distinguiamo, per comodità, i carmina religiosi da quelli laici. Per i primi ricordiamo:

  • Carmen Saliare: apparteneva al collegio sacerdotale dei Salii, sacerdoti del dio Marte. Costoro custodivano dodici scudi insieme alla statua del dio. Si racconta, infatti, che essendo uno scudo caduto dal cielo, in cui era raffigurata la futura potenza romana, il re Numa Pompilio ne facesse costruire altri undici uguali affinché quello non fosse rubato. La loro protezione fu affidata a codesti sacerdoti il cui nome deriva da salto, danza che costituita il rito.

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Cavaliere salio (appartenente al colleio dei Salii)

  • Carmen Lustrale: dedicato anch’esso al dio Marte, ci è stato tramandato da Catone il Censore è veniva recitato dal paterfamilias in occasione dei sacrifici di animali per la difesa delle terre dall’attacco nemico.
  • Carmen Arvale: come dice il nome stesso, è collegato ai campi. All’inizio del mese di maggio, 12 sacerdoti, detti fratres Arvales, attraverso riti quali canti, processioni, sacrifici, propiziavano la fecondità della terra per un buon raccolto. La loro conservazione, attestata da un lastrone contenente il testo (II sec. a.C.) è data certamente anche dal linguaggio arcaico, e quindi sacrale, del carme:

30054283034.jpg Edizione del 1933 del Carmen Arvale

CARMEN ARVALE

Latino arcaico

E nos, Lases, iuvate!
Neve lue rue, Marmar, sins incurrerre in pleoris!
Satur fu, fere Mars, limen Sali, sta ber ber!
Sumenis alternei advocapit conctos
E nos, Marmor, iuvato!
Triumpe!

 Latino classico

O nos, Lares, iuvate!
Neve luem, ruinam, Marmar, sinas incurrere in plures!
Satur esto, fere Mars; limen Sali; sta illic, illic!
Sermonis alternis advocabit cunctos!
O nos, Marmar, iuvato!
Trumphe!

Oh, Lari, aiutateci! / Non permettere, o Marte, che pestilenza e rovina si abbattano su tanti uomini! / Sii sazio, feroce Marte, balza sulla nostra soglia e fermati lì, lì! / Invocherà tutti i sermoni a turno! / O Marte aiutaci! / Trionfo!

Fra i carmina laici ricordiamo

  • Carmina triumphalia: purtroppo di questo tipo di carmina non ci è giunto nulla. Tuttavia, grazie agli scrittori antichi sappiamo che essi venivano svolti durante il trionfo di un comandante a cui, oltre a cantargli lodi, si cantavano versi osceni ed offensivi, in senso sia politico che apotropaico,: la prima infatti voleva indicare la parità tra il comandante e il valore dei suoi soldati; la seconda, invece, aveva la funzione di malocchio.

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Immagine di un triumphator

  • Carmina convivalia: venivano svolti durante importanti banchetti in cui con il canto i convitati cantavano le grandi gesta di un illustre antenato.

ab-ovo-usque-ad-mala-2.jpgBanchetto romano da un affresco pompeiano

 

Cultura storica e giuridica

Vogliamo indicare con cultura storica un atto aristocratico attraverso cui il pontifex maximus annotava su una tabula dealbata (tavola imbiancata) i grandi fatti avvenuti in un anno, in cui venivano scritti i nomi dei grandi magistrati, i giorni fasti e i giorni nefasti (giorno in cui si poteva o non si poteva svolgere attività giuridica), gli esiti delle battaglie, i grandi commerci e via dicendo. Tale tavola poi veniva messa in un archivio (tablinum) per una futura consultazione. Questa attività cessò durante il II° secolo.

Sempre in riferimento ad una “specie” di attività storica possiamo citare sia le laudationes funebres che gli elogia funebres.

S’intende con laudatio funebris un atto in cui un parente stretto, a seguito di una processione in cui i partecipanti indossano una maschera rappresentante gli antenati del gruppo familiare, pronuncia una lode sulla virtù del morto. Tale laudatio entrava poi negli archivi a costituire una storia (certo un po’ esaltante e non veritiera) sulla gens cui la familia appartiene.

Per elogium funebre s’intende, invece, una vera e propria epigrafe in cui tale laudatio viene estesa, in forma breve, su una pietra in cui vengono riassunte le vittorie e le cariche che il morto aveva ricoperto.

Come esempio riportiamo l’iscrizione dedicata a Lucio Cornelio Scipione del 259 a.C.

ep0103.jpgLapide con l’iscrizione dell’Elogium Scipionis (Musei Vaticani)

ELOGIUM SCIPIONIS

(omane)
Duonoro optume fuise viro
Luciom Scipione.  Filio Barbati
consol, censor, aidilis  hic fuet a(pud vos.)
Hec cepit Corsica  Aleriaque urbe
dedet tempestatebus   aide mereto (D.)

Versione latino classico

Hunc unum plurimi consentiunt Romani
bonorum optimum fuisse virum,
Lucium Scipionem. Filius Barbati,
consul, censor, aedilis hic fuit apud vos.
Hic cepit Corsicam Aleriamque urbem,
dedit Tempestatibus aedem merito.

Moltissimi Romani condividono che solo lui fosse stato un ottimo uomo fra i nobili Lucio Scipione. Figlio di Barbato costui fu presso di voi console, censore ed edile. Costui catturò la Corsica e la città di Aleria, costui costruì doverosamente un tempio alle Tempeste.

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Ricostruzione delle XII Tavole nel Museo della Civiltà Romana 

Invece, quando parliamo di cultura giuridica, ci riferiamo alle XII tavole della legge, di cui conserviamo alcuni frammenti. Ci narrano gli storici che una delle vittorie dei plebei contro i patrizi fu proprio quella di aequare legibus omnibus. A tale scopo vennero nominati decemviri legibus scribundis che lasciarono sul foro dodici leggi che, non essendo uguali per tutti sul piano del contenuto, lo erano sul piano del rispetto delle stesse. Riportiamo di esse due esempi:

I.1

Latino arcaico

Si in ius vocat, ito. Ni it, antestamino. Igitur em capito.

Latino classico

Si in ius vocat, ito. Nisi it, antestamino. Igitur eum capito.

Se (uno) chiama in giudizio (un altro), vada. Se non va, si chiami un testimone. Dunque sia preso.

IV.2

Latino arcaico

Si pater filium ter venumduit, filius a patre liber esto.

Latino classico

Si pater filium ter venum dederit, filius a patre liber esto.

Se un padre avrà venduto un figlio tre volte, il figlio sia libero dal padre.

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Dettaglio di sarcofago con Muse e maschere teatrali

Cultura teatrale

Se il grande teatro latino è innegabilmente nato sotto l’influenza greca, non mancano nella Roma arcaica, esempi, più che altro rituali, di spettacoli. Livio, grande storico romano, ci parla, nel suo testo, di Fescennini versus (versi fescennini). E’ ancora estremamente difficile dare un significato a questo termine. Importa più che altro ricordare che si tratta di una farsa popolare con scherzi piuttosto pesanti sul piano sessuale, che in età classica venivano ancora menzionati durante i riti nuziali.

Ben diversa è la fabula atellana nella quale, pur nell’improvvisazione, operavano quattro personaggi fissi: Maccus (lo sciocco), Baccus (il ghiottone e il chiacchierone), Pappus (il vecchio stupido), Dossennus (il furbo).

Un altro aspetto, di cui poco si sa (è sempre Livio a riferircene), è costituito dai Ludi scaenici. Infatti si narra che durante una pestilenza i Romani, non riuscendo a placare gli dei, chiamarono attori etruschi che diedero vita a danze accompagnate dal suono del flauto. In seguito i Romani adattarono ad essi il carattere dei fescennini e da questa mescolanza sarebbe sorta la satura.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DIVINA COMMEDIA: PURGATORIO

Il Purgatorio viene scritto tra il 1306 e il 1312, quando Dante, già in esilio, trascorre questi primi anni, in Toscana, quindi un probabile viaggio dapprima a Parigi, quindi a Genova, infine a Milano, dove sembra abbia incontrato Arrigo VII, e quindi a Verona, da Cangrande Della Scala, dove viene ipotizzato che il poeta concludesse la seconda parte del poema e che cominciò a circolare dal 1315.

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Il Purgatorio dantesco è soprattutto una sua invenzione: non che lo stesso luogo non fosse stato, seppur piuttosto recentemente, inserito all’interno del dogma ecclesiastico, ma la sua struttura viene immaginata alla luce della visione oltremondana dantesca in cui la terra spostata dalla caduta di Lucifero formerà nell’emisfero australe una montagna al cui vertice si trova l’Eden, il paradiso perduto dall’uomo, caduto nel peccato.

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Il purgatorio

Canto I
Antipurgatorio

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l’altro polo,
là onde ’l Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ell’è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com’io l’ ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni».
«Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi».
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.

Illustrazione per il primo canto del Purgatorio

Per solcare acque migliori, per trattare argomenti più elevati, innalza adesso le proprie vele la nave del mio intelletto, lasciandosi alle spalle quel mare tanto spaventoso dell’Inferno; canterò quindi di quel secondo regno, del mondo dell’aldilà, nel quale le anime umane si purificano dalle proprie colpe per poter diventare meritevoli di salire al cielo, in Paradiso. Per fare ciò, possa la mia poesia risorgere, innalzarsi di nuovo, oh sante Muse, poiché appartengo a voi; e possa ora avere nuova forza il potere di Calliope, Musa della poesia epica, così che possa accompagnare il mio canto con lo stesso suono con cui sconfisse la superbia delle Piche, infliggendo loro un colpo tale che esse persero la speranza di poter ottenere il perdono. Un azzurro delicato, simile a quello degli zaffiri d’oriente, che si diffondeva nella serenità dell’atmosfera, puro fino al lontano orizzonte, diede nuovamente ai miei occhi la gioia della vista, non appena potei uscire da quell’aria intrisa di morte che mi aveva riempito occhi e cuore di tristezza ed angoscia. Il bel pianeta, Venere, che ci spinge ad amare, faceva risplendere tutta la parte orientale del cielo, mettendo in secondo piano, con la propria luce, la costellazione dei pesci, a lui vicina. Mi voltai verso destra e rivolsi l’attenzione all’altro emisfero, e vidi quindi quattro stelle mai viste da uomo ad eccezione dei primi, Adamo ed Eva. Il cielo sembrava gioire della loro luce: oh povero emisfero settentrionale, che non hai la possibilità di ammirare la bellezza di quelle stelle! Non appena distolsi la mia attenzione da loro, volgendo un poco il mio sguardo verso l’altro emisfero, là dove la costellazione del Carro, l’Orsa Maggiore, era ormai sparita sotto l’orizzonte, vidi accanto a me un vecchio, solo, dall’aspetto meritevole di tanto riverenza, di tanto profondo rispetto, che di più non ne deve un figlio al proprio padre. Aveva una lunga barba, bianca in alcuni punti, simile ai suoi capelli, che cadevano sul suo petto divisi in due parti. I raggi luminosi delle quattro stelle sante, facevano risplendere il suo viso tanto da rendermelo visibile come se fossimo stati in pieno giorno. «Chi siete voi che, percorrendo la riva del fiume sotterraneo a ritroso, siete scappati fuori dalla prigione eterna dell’Inferno?» chiese il vecchio, scuotendo la barba e la chioma. «Chi vi ha guidati, o cosa vi ha illuminato la strada, nel cammino per uscire dalla notte profonda, che oscura in eterno la grotta dell’inferno? Le leggi dell’Inferno sono state infrante? Oppure è cambiata la legge in paradiso, e voi anime dannate potete ora raggiungere queste grotte?» Il mio maestro a quella vista ed a quelle parole, mi afferrò, e con parole, gesti e cenni mi fece inginocchiare ed assumere una posizione di riverenza. Quindi rispose lui a quel vecchio: «Non sono giunto fin qui per mia iniziativa, una donna, Beatrice, scese dal cielo ed ascoltate le sue preghiere andai in soccorso di costui. Ma dal momento che vuoi che venga meglio spiegata la nostra condizione, come è nella realtà, non può il mio volere andare contro al tuo. Costui, Dante, non ha ancora visto la sua ultima sera, è vivo; ma a causa della sua follia, della sua arroganza intellettuale, fu tanto vicino alla morte, che mancava molto poco prima che gli capitasse. Come ti ho già detto, fui mandato da lui per salvarlo; e per fare ciò non esisteva altra via se non quella lungo la quale mi sono incamminato. Gli ho mostrato tutte le anime dannate; ed ora ho intenzione di mostrargli quegli spiriti che si purificano dei propri peccati sotto il tuo controllo. Come sono riuscito a condurlo attraverso l’Inferno, sarebbe lungo da raccontare; dal Cielo arriva una forza che mi ha aiutato a condurlo qui a vedere la tua persona e ad ascoltare le tue parole. Ti sia quindi cortesemente gratido il suo arrivo: Dante è alla ricerca della libertà, tanto cara, preziosa, come bene lo sa che per lei rifiuta la propria vita. Tu questo lo sai bene, poiché in nome della libertà non ti fu mai amaro andare incontro alla morte in Utica,  là dove lasciati quel corpo che tanto risplenderà nel giorno del giudizio. Non abbiamo infranto le eterne leggi divine, poiché costui è ancora vivo ed io non sono soggetto alle leggi infernali di Minosse; ma mi trovo invece nel Limbo, quel cerchio dove si trovano anche gli occhi casti della tua cara Marzia, che sembra tanto pregare, o santo cuore, perché tu possa ancora considerarla tua moglie: in nome dell’amore che ti lega a lei, esaudisci quindi le nostre richieste. Lasciaci andare per le sette cornici di cui sei custode; ed io riporterò a lei la mia gratitudine nei tuoi confronti, se desideri essere menzionato laggiù nell’Inferno.» »«La vista di Marzia fu tanto gradita ai miei occhi, tanto l’amai, fintanto che vissi», disse allora Catone, «che feci per lei qualunque cosa le fosse gradita. Ma ora che si trova, per l’eternità, al di là del fiume infernale, le sue richieste non possono smuovermi più, per quella legge divina che fu istituita quanto lasciai il Limbo. Ma se una donna del cielo ti spinge nel lungo viaggio e ti guida, come tu mi hai detto, non c’è bisogno allora di adularmi: basta soltanto che tu mi chiedi il permesso in nome suo. Procedi pure oltre, ma curati di cingere la vita di costui con un giunco liscio e di lavargli il viso, così che possa essere ripulito da ogni sporcizia; poiché non sarebbe opportuno che, con gli occhi offuscati da qualche velo, si presentasse al cospetto del primo ministro di Dio, uno degli angeli del Paradiso. Nei punti più bassi delle spiagge intorno a questa isoletta, laggiù dove si infrangono le onde del mare, potete trovare dei giunchi cresciuti sull’umida sabbia: nessuna altra pianta che produca fronde o che diventi legnosa, indurendosi, può vivere in quei punti, poiché non è in grado di piegarsi alle continue percosse delle onde, assecondandole. Dopo aver fatto ciò, non riprendete il vostro cammino da qua; il sole, che sta ormai per sorgere, vi mostrerà un via meno ripida da cui poter scalare il monte». Detto questo, scomparve; ed io mi alzai in piedi senza dire nulla, mi andai vicino alla mia guida ed il mio sguardo rivolsi a lui. Virgilio incominciò a dire: «Figliolo, segui i miei passi: torniamo indietro, perché da questa parte questa pianura scende di livello fino ai suoi punti più bassi.» L’alba incominciava ad avere la meglio sull’ultima ora della notte, che oramai fuggiva di fronte a lei, così che da lontano, grazie alla luce, potei riconoscere il luccichio tremolante del mare. Procedevamo lungo quella pianura deserta come chi ritorna alla strada che aveva perduto e sente di procedere inutilmente finché non l’ha raggiunta. Quando arrivammo a Nord dell’isola, là dove la rugiada combatte con il sole per non estinguersi, trovandosi in parte all’ombra ed evaporando quindi lentamente, entrambe le mani aperte pose delicatamente sull’erba tenera il mio maestro: allora io, essendomi reso conto delle sue intenzioni, gli porsi le mie guance rigate dalle lacrime; mi ripulì il viso con la rugiada, rendendo visibile quel colore che la sporcizia dell’inferno aveva offuscato. Raggiungemmo infine una spiaggia deserta, che non vide mai navigare, sulle acque che la bagnavano, uomini che furono poi in grado di tornare indietro. Qui mi cinse con un giunco, come Dio volle: che cosa meravigliosa! Non appena scelse e colse l’umile pianta, ne rinacque subito un’altra nello stesso punto dove aveva strappato la prima.

Il primo canto del Purgatorio ci presenta sin a subito un clima diverso, sia per stile che per contenuto. Tutto ciò è derivato da una ripresa “classica” della struttura proemiale della seconda cantica che vede la divisione classica tra argumentum ed invocatio. Se tale divisione “classica” non è presente nell’Inferno è perché il primo canto di essa non è un’introduzione alla prima cantica, bensì dell’intero poema e quindi ci tocca aspettare il secondo canto, con l’invocazione alle Muse. Qui invece tutto si svolge all’inizio del primo con la metafora della navicella che percorre “miglior acque” avendo abbandonato il “mar sì crudele” per poi sottolineare come la poesia precedente fosse “morta” e che quindi ora debba “risorgere”. Ecco che allora anche l’invocazione delle Muse viene specificato meglio, chiedendo l’intervento di Calliope, musa della poesia epica, che con il suo aiuto potrà sollevare un poco il suo canto (riprende qui il mito riportato da Ovidio delle figlie di Pierio, pieridi infatti, che tentarono di sfidare nel canto la musa stessa e che, per la loro presunzione, le trasformò in gazze). Perché sollevare un poco e non in modo assoluto? Proprio perché in questa cantica quello che deve prevalere è lo stile elegiaco, non sublime, in quanto egli si trova ora nel regno di mezzo, riservandosi pertanto di utilizzare lo stile sublime quando si troverà nel regno di Dio. Quindi il canto prosegue non più con sensazioni prevalentemente uditive (l’inferno è buio), quanto visive e, guardando il cielo, cominciano quelle precisazioni astrologiche che enorme importanza hanno nella conoscenza filosofica medievale. Il cielo ora appare in tutta la sua immensità, nel suo scorrere tra mattina e sera, come scorrere dovranno le anime purganti tal buio del peccato alla piena luce della beatitudine.

Guillon Lethiere: La morte di Catone l’Uticense

All’improvviso appare l’anima del guardiano del Purgatorio: la sua figura si mostra come quella di un uomo saggio, il cui volto è illuminato da quattro stelle (che rappresentano, simbolicamente le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, temperanza, prudenza), visibili soltanto dai primi uomini (Adamo ed Eva) abitatori del paradiso terrestre (quindi la sommità del monte purgatoriale è posta nell’emisfero australe). Egli si rivelerà essere Catone l’Uticense, campione, secondo l’immagine che il medioevo si era raffigurato di lui, della filosofia stoica e del concetto di libertà. La sua figura presenta, sin da subito, alcune problematiche critiche: storicamente egli era un fiero avversario di Cesare della tirannia del quale si era liberato uccidendosi: secondo la logica dantesca pertanto, in quanto nemico di Cesare, doveva essere in bocca a Lucifero insieme a Bruto e Cassio, oppure, in quanto suicida, nella selva infernale insieme a Pier delle Vigne e se proprio Dante lo avesse voluto “salvare” nel Limbo insieme a Virgilio e a sua moglie Marzia. Perché invece lo troviamo qui, come custode del Purgatorio?  Nel medioevo la cultura vedeva in Catone il campione della libertà: la sua morte infatti veniva letta non come rifiuto e quindi come atto vigliacco, ma come esempio estremo di protesta al fine di evitare un giogo degradante ed infamante; d’altra parte lo stesso Sant’Agostino (e quindi la Chiesa) ammetteva il suicidio in casi eccezionali. Pertanto Dante lo assume nel Purgatorio come esempio di Libertà. Tale esempio, d’altra parte, è fondamentale in questo regno, dove è necessaria la libertà morale, senza la quale non può esistere impegno per poter raggiungere Dio.

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William Blake: La purificazione dantesca 

Il canto prosegue con il suo intervento, ma è un intervento che ci dice molto di lui: egli, come custode del Purgatorio, ha un compito ben individuato dal Signore, quello d’essere il guardiano del regno che burocraticamente deve far rispettare le regole che presiedono a tale luogo. Infatti si presenta di sorpresa, sorpresa a cui risponderà in modo forse inadeguato Virgilio stesso, spiegando come Dante e lui stesso fossero giunti dopo il pellegrinaggio infernale, voluto da tre donne del cielo, come illustrato nel secondo canto dell’Inferno. Virgilio chiede al veglio (vecchio dal francese vieille) di compiacere al loro viaggio facendo leva sul sentimento, ricordandogli la sua compagna Marzia che adesso è ospitata nel Limbo (la donna è ricordata come emblema di fedeltà, essendo dapprima giovanissima sposa di Catone, poi data dal padre ad un altro uomo per fini procreativi e, alla cui morte, tornò dal primo marito). Ma la risposta di Catone è netta, forse un po’ dura, a sottolineare ormai la lontananza che separa le anime del luogo del peccato da quelle purganti. La captatio benevolentiae di Virgilio è sintomatica di una non certezza sul modus agendi del poeta latino nel Purgatorio e tale incertezza è determinata dal fatto che lui, come Dante, è neofita del secondo regno. Se nell’Inferno Virgilio non fa che affermarci che lui non fa che ripercorrere il luogo infernale, così come ci ha raccontato Lucano grazie alla maga Erittonio, nel Purgatorio lui è come Dante e questo permette al poeta di presentarci un nuovo rapporto che non è più di maestro e allievo, ma di compagno di viaggio, alla scoperta anch’esso del luogo e dei suoi abitatori. Catone quindi, dopo aver accettato la loro presenza grazie alla mediazione delle donne benedette, invita Dante a compiere gli atti di umiltà, necessari per “ripulirsi” del sudiciume infernale e cominciar così il nuovo viaggio.

Ci piace ricordare come D’Annunzio riprese un verso di questo canto, così efficace da divenire topos descrittivo. Dante: L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina. D’Annunzio: O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! (I pastori).

Canto II
Antipurgatorio

Spiaggia

Il canto inizia con una lunga digressione astronomica, nella quale Dante, precisando che il tempo tra l’emisfero boreale, al cui centro vi è Gerusalemme e quello dell’emisfero australe, in cui emerge, tra le acque, la montagna del Purgatorio, vi sono 12 ore. Il poeta quindi precisa che il momento in cui si trova nella spiaggia corrisponde alle sei del mattino, dove insieme a Virgilio, trovandosi in luogo sconosciuto ad entrambi, cerca il punto maggiormente digradante della montagna attraverso il quale iniziare l’ascesa.

All’improvviso da lontano appare dapprima un punto luminoso, quindi, dopo un attimo, questo diviene ancora più splendente, avvicinandosi si riconoscono subito due elementi distinti da un bagliore accecante, e infine si individuano con consapevolezza due ali.

Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,

cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo. 

Ed ecco che, come Marte, sorpreso dalla prima luce del mattina, appare con il suo colore rosso in mezzo alla fitta nebbia ad occidente, sull’orizzonte del mare, allo stesso modo mi apparve, e possa io in futuro rivederla, una luce che si muoveva sul mare tanto velocemente che nessun volo naturale può essere simile a lei per rapidità. Staccai per poco tempo il mio sguardo da quella luce per guardare la mia guida e domandare cosa fosse, e quando riguardai, la vidi più luminosa e più grande, più vicina di prima. Poi vidi apparire da ogni lato di quella luce qualcosa di bianco che non riuscivo a definire, e, a poco a poco, apparire anche sotto ad essa.

Prima che tocchi terra, Virgilio invita il suo discepolo ad inginocchiarsi, perché si trova  di fronte all’Angelo nocchiero che, su un vascelletto veloce, trasporta le anime che insieme intonano il salmo In exitu Isräel de Aegypto. Quindi si riversano sulla spiaggia e l’Angelo, dopo aver rivolto loro il segno della croce, si allontana velocemente. 

Con la solita circonlocuzione astronomica Dante ci informa che non sono passati che trenta minuti, quando le anime sbarcate, anche loro inesperte del luogo chiedono informazioni ai due pellegrini su come salire al monte. Mentre Virgilio spiega loro che anch’essi sono da poco giunti, il loro sguardo si affissa su Dante, notando, dall’atto del respirare, che era vivo e, provando una tal meraviglia da impallidire.

All’improvviso un’anima si stacca dalle altre:

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L’angelo nocchiero in una miniatura

E come messager che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: «Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?»
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo vïaggio»,
diss’io; «ma a te com’è tanta ora tolta?»
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!»
Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente. 

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Gustave Doré: L’arrivo della navicella con l’angelo

E allo stesso modo attorno al messo che porta liete notizie, accorre molta gente per apprendere le novità, e nessuno si ritrae dallo stringersi attorno, così intorno aklla mia persona si rivolsero fisse, quasi dimenticando di andarsi a purificare. Vidi quindi una di quelle anime avanzare verso di me ed abbracciarmi, con un affetto tanto profondo, che non potei fare a meno di ricambiare l’abbraccio. Ahimè, ombre senza nessuna consistenza, se non all’apparenza! Per tre volte strinsi le braccia intorno a lei, ed altrettante non riuscii ad afferrare nulla e tornai a toccare il mio petto. Credo di aver assunto quindi un’espressione di stupore; poiché l’anima sorrise e si allontanò un poco, ed io, per seguirla, avanzai.  Mi disse dolcemente di fermarmi, di non procedere oltre; sentendo la sua voce, riconobbi quindi chi era e la pregai di rimanere a parlare con me. Mi rispose: «Tanto ti ho amato quando avevo un corpo mortale, tanto ti amo ora che sono una anima libera: perciò, come mi chiedi, mi trattengo; ma perché fai questo viaggio?» «Mio caro Casella, per poter tornare ancora, dopo morto, qui dove mi trovo adesso, ho intrapreso questo viaggio», gli risposi; «ma tu, che sei morto già da tanto tempo, come mai arrivi solo ora?» Mi rispose lui: «Non mi è stato fatto alcun torto, se l’angelo che decide chi traghettare e quando partire, per più volte mi ha negato questo viaggio; poiché attraverso la sua volontà si manifesta quella di Dio: in verità negli ultimi tre mesi l’angelo ha preso a bordo ogni anima che voleva salirci, senza nessuna opposizione. Perciò io, che ero in quel momento rivolto al tratto di mare in cui sfociano le acque del Tevere, fui benevolmente accolto da lui. L’angelo ha ora di nuovo rivolto le sue ali verso quella foce, perché si raccolgono sempre in quel luogo le anime che non dovranno scendere al fiume Acheronte. Dissi allora io: «Se le nuove leggi dell’aldilà non ti hanno privato della memoria, o della facoltà di cantare rime d’amore, con cui riuscivi ad alleviare tutti i miei dispiaceri, ti prego di consolare un poco con una canzone la mia anima, che, giunta fino a questo punto insieme al suo corpo, si è tanto affaticata!» Amor che ne la mente mi ragiona cominciò ad intonare allora Casella, con tanta dolcezza che ancora adesso posso sentirla dentro di me. Il mio maestro, io e tutte le anime che si trovavano con Casella, sembravano così felicemente rapiti da quel canto, come se la loro mente non fosse attraversata da nessun altro pensiero.

Ma ecco che riappare Catone, con la sua inflessibilità, a ricordare loro che il compito è quello di andare a purificarsi. Tanta è la vergogna per il loro essere stati ad indugiare, che corrono via veloci verso la base della montagna e i nostri due eroi non sono da meno.

12danteelanavedelleanimedorgallerycassell1890_zpsd7c42cd9-807x1024.jpgL’angelo con Dante in ginocchio

Il secondo canto sin da subito presenta delle caratteristiche che poi troveremo inserite all’interno dell’intera cantica: 

  • la precisazione astrologica
  • la condizione psicologica dell’incertezza
  • il rapporto tra passato e presente

La precisazione astrologica è fondamentale non tanto per il dettato, quanto per sottolineare il concetto temporale (assente completamente nell’Inferno, come lo sarà nel Paradiso) perché la purificazione è un percorso, ed è un percorso che anche figurativamente avviene in uno spazio “immaginabile” realmente e quindi soggetto alle variazioni temporali;

Miniatura del secondo canto

La condizione dell’incertezza è tipica di queste anime, a detonare una fragilità interiore. Non è un caso che esse, come dice Casella, debbano aspettare un “tempo” deciso da Dio per imbarcarsi verso il Purgatorio e non è altrettanto un caso il fatto che esse, per rafforzarsi debbano intonare il salmo In exitu Isräel de Aegypto che Dante nel Convivio aveva definito anagogico, il cui sovrasenso è quello di liberarsi dalla situazione di peccato per ritrovarsi nella libertà della beatitudine;

Salvator Dalì: La navicella dell’angelo nocchiero

Il terzo è quello di Casella, il cui gesto ci ricorda il VI libro dell’Eneide, quando Enea per tre volte tenta inutilmente di abbracciare Anchise, che ci illustra come in questa cantica il “ruolo” dell’amicizia sia fondamentale. Ma ci dice anche come, in questa “sospensione” del secondo regno l’elemento storico combatta con l’elemento presente e come il primo spesso non permetta alle anime dei purganti di vedere fino a fondo il proprio bene.

Canto III
Antipurgatorio

Spiaggia
(Spiriti negligenti – I° schiera: scomunicati)

Gli spiriti negligenti

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna:

e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta, 
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?

Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ala?».
E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venïan lente.
«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;

sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ’l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così ’l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.

Dante e Manfredi 

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza».

Illustrazione che mostra l’incontro tra Dante e Manfredi

Sebbene l’improvvisa fuga avesse fatto disperdere tutte le anime per la pianura circostante, in direzione di quel monte dove la giustizia divina ci purifica con adeguate punizioni, io riuscii a riunirmi alla mia fidata guida: come avrei potuto correre senza di lui? chi mi avrebbe condotto su per la montagna? Virgilio sembrava si rimproverasse da sé, per la debolezza mostrata: oh coscienza limpida e piena di dignità, quanto amaro ti può apparire ogni tuo minimo errore! Quando i suoi piedi rallentarono il passo, terminando la fuga, che toglie dignità ad ogni azione, la mia mente, che prima era concentrata su un unico pensiero, allargò il proprio orizzonte, spinta dal desidero di nuove conoscenze, e rivolsi quindi lo sguardo verso il monte, che si slanciava alto, più della spiaggia circostante, verso il cielo. Il sole, che splendeva rosso mie spalle, aveva i suoi raggi interrotti davanti alla mia figura, trovando in me un ostacolo. Mi volsi di lato con la paura di trovarmi solo, abbandonato, quando vidi proiettata in terra davanti a me la mia sola ombra; Virgilio mi confortò: «Perché non hai fiducia in me?» cominciò a dirmi, premuroso nei miei confronti; «Credi che non sarò al tuo fianco e che non ti guiderò? La sera è ormai giunta là dove si trova sepolto il corpo dentro al quale potevo anch’io creare un ombra; ora il mio corpo è a Napoli, prima era a Brindisi. Quindi se davanti a me non vedi nessuna ombra, non provare più sorpresa di quanta tu possa provarne per il fatto che i cieli non impediscono l’uno all’altro il passaggio dei raggi solari. A sentire l’effetto del tormento causato dal caldo e dal freddo, questi corpi sono sono preparati dalla potenza di Dio, che non vuole mai che venga a noi rivelato come riesca a fare ciò. Solo un pazzo può sperare che la ragione umana possa comprendere la logica divina, la quale tiene in tre distinte persone una unica sostanza. Uomini, cercate di accontentarvi dei fatti, senza pretendere di conoscere anche i motivi; perché, se aveste potuto conoscere tutto, Maria non avrebbe dovuto partorire il figlio di dio; e avreste dovuto vedere, continuare a desiderare la conoscenza senza alcun successo, uomini di un tale ingegno che, fosse stato possibile, avrebbero sicuramente potuto soddisfare il loro desiderio, che si è invece trasformato nella loro eterna pena. sto parlando di Aristotele e di Platone e di molti altri.» Detto questo chinò il capo, non disse più nulla ed apparve turbato. Nel frattempo eravamo giunti ai piedi del monte; ci trovammo di fronte una parete tanto ripida che le gambe si sarebbero stancate inutilmente nel tentativo di scalarla. Il più selvaggio ed il più ripido pendio sulla costa tra Lerici e La Turbie, è in confronto a quella rupe una agevole ed ampia scalinata. «Chi può sapere ora da che parte diventa meno rigido il pendio», disse la mia guida fermandosi pensieroso, «così che possa salire al monte anche chi non può volare?» Nel frattempo che, tenendo bassa la propria testa, lui rifletteva su un possibile percorso ed io osservavo la parte alta di quel monte, alla mia sinistra mi apparve una folla di anime che muovevano i propri piedi verso di noi, pur sembrando ferme, tanto lentamente procedevano. Dissi a Virgilio: «Maestro, solleva il tuo sguardo: ecco arrivare qualcuno che potrà indicarci la via per salire, se tu non riesci a trovarla da solo.» Virgilio vide il gruppo di anime e, con espressione libera da preoccupazioni, rispose: «Andiamo noi là da loro, perché esse procedono troppo lente; e tu rafforza la speranza, caro figliolo.» Quella folla di anime ara ancora lontana da noi, anche dopo che eravamo avanzati verso loro di molti passi, per una distanza pari a quella che un buon tiratore può coprire con un sasso, quando le vidi stringersi tutte introno alle dure rocce di quell’alto pendio, e stare immobili e vicine, come si sofferma a guardarsi in giro chi procede incerto sulla via da seguire. «Oh anime morte in grazia di Dio, spiriti ormai eletti», cominciò a dire Virgilio, «in nome di quella pace che credo tutti voi vi aspettiate di ottenere, indicateci dove la montagna diviene meno ripida, e rende quindi possibile la sua scalata; perché a chi ha più conoscenza più dispiace perdere tempo.» Come le pecorelle escono dall’ovile una, a due, a tre per volta, e le altre stanno ferme, timorose, tenendo il muso e lo sguardo a terra; e ciò che fa la prima lo fanno anche le altre, stringendosi intorno a lei se lei si arresta, docili e serene, senza sapere il perché delle proprie azioni; così vidi io una anima muoversi la prima linea di quella mandria fortunata, di quella folla fortunata, umile nell’espressione del volto e decorosa nell’andatura. Non appena le prime anime videro interrotta in terra la luce del sole alla mia destra, formando un’ombra che dal mio corpo arrivava fino alla roccia, si fermarono ed indietreggiarono un poco, e tutte le altre che procedevano dietro di loro fecero altrettanto, non sapendo la motivazione di quel gesto. «Senza che voi me lo dobbiate domandare, vi rivelo che questo che vedete è un corpo in carne ed ossa; e perciò la luce del sole viene interrotta sul terreno. Non vi meravigliate, ma credete al fatto che è con l’aiuto di un potere divino che cerchiamo di scalare questa parete.» Così Virgilio spiegò loro la situazione; e quella folle di anime elette disse «Tornate indietro se volete salire sul monte», facendo segno con il dorso della mano. Uno di loro cominciò quindi a dire: «Chiunque tu sia, che hai intrapreso questo cammino, rivolgi a me lo sguardo e cerca di ricordare se mi hai mai visto quand’ero in vita.» Io rivolsi il mio sguardo verso di lui e lo guardai attentamente: era biondo, bello e dall’aspetto legante, ma il viso era sfigurato da colpo di spada aveva diviso in due una delle sue sopracciglia. Quando ebbi umilmente rinunciato al tentativo di riconoscerlo, lui mi disse: «Guarda allora»; e mi mostrò una ferita che aveva nella parte alta del petto. Proseguì quindi sorridendo: «Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza; e perciò ti prego, quando tornerai nel mondo dei vivi, di andare dalla mia bella figlia, madre dei due re di Sicilia e di Aragona, a raccontarle la mia vera storia, se viene raccontata un’altra versione. Dopo che il mio corpo subì queste due ferite mortali, io affidai la mia anima, piangendo per il pentimento, a Dio, lui che è sempre disposto a perdonare. I peccati che commisi in vita furono orribili; ma l’infinità bontà di Dio ha delle braccia tanto larghe che abbraccia chiunque si rivolga a lei, perdona chiunque si penta realmente. Se il vescovo di Cosenza, che fu mandato in cerca del mio corpo da papa Clemente dopo la mia morte, avesse ben compreso questo aspetto di Dio, le ossa del mio corpo si troverebbero ancora all’estremità del ponte presso Benevento, custodite dal quel pesante mucchio di pietre che le ricopriva. Ora stanno senza sepoltura, le bagna la pioggia e le smuove il vento, fuori dai confini del mio regno, presso il fiume Liri, là dove il vescovo le portò con una processione a candele spente. La loro scomunica non può comunque evitare la possibilità che possa tornare l’eterno amore di dio, fintanto che c’è anche la minima speranza. Tuttavia, è comunque vero che chi muore dopo essere stato cacciato dalla Santa Sede, scomunicato, anche se si pente sul punto di morte, prima di poter entrare nel purgatorio dovrà aspettare un tempo pari a trenta volte il periodo in cui si è ostinato a vivere nel peccato, a meno che tale sentenza non venga ridotta grazie alle preghiere pronunciate per lui da persone buone. Adesso che sai la mia storia, vedi se riesci ad accontentarmi, rivelando alla mia buona figlia Costanza che mi hai visto qui e non all’inferno, ed anche che mi viene ancora vietata l’ascesa; perché noi anime del purgatorio possiamo ottenere molto dalle preghiere dei vivi.»

Re Manfredi di Svevia

Il canto terzo inizia al punto in cui si era interrotto il secondo: a seguito del rimprovero di Catone, tutte si disperdono, colte in fallo per aver indugiato nell’ascoltare il canto di Casella. Non è un caso che tra di essi vi sia anche Virgilio, che, in quanto simbolo della “ragione”, avrebbe dovuto sin da subito non partecipare a quel momento di piacere laico. Ma proprio perché nessun passo in Dante si presenta senza sotto-testo, capiamo che nell’indugiare anche del poeta latino, il nostro abbia voluto sottolineare l’insufficienza della ragione nell’atto della purificazione. Anche essa deve “subire” un percorso iniziatico, in cui accompagnerà il suo discepolo fin che Dio lo desidera. L’insufficienza è sottolineata d’altra parte teologicamente attraverso due momenti conseguenti, ma al contempo diversi: la consapevolezza del fallo compiuto da parte di Virgilio e l’accorgersi da parte di Dante della propria ombra (elemento che diverrà topico nell’intera cantica, svolgendosi in un luogo e in un tempo transuente). In questi due passi Virgilio legge l’impossibilità di una cultura laica (qui rappresentata da Platone ed Aristotele) di raggiungere la verità. Essa non può essere capita “razionalmente”, perché solo attraverso il mistero della fede si può comprendere come le anime infernali o purgatoriali possano sentire il caldo, il freddo o provare dolore fisico, pur essendo incorporee (non proiettano ombra), così come si può comprendere l’incarnazione di Dio.

Costanza d’Altavilla

Il terzo canto ci presenta, inoltre, il primo grande personaggio della seconda cantica, Manfredi di Svevia, figlio del famoso Federigo II e padre di Costanza d’Altavilla, madre a sua volta del re di Sicilia (Federico) e di quello d’Aragona (Giacomo). Lui è insieme a una turba di uomini che camminando in senso inverso a Dante, si spaventano vedendo che il suo corpo non fa trapassare la luce. La similitudine dantesca è “ripresa” da quella evangelica: sono infatti paragonate a pecorelle, che si muovono, senza un motivo, all’unisono (il vero motivo è l’espiazione per tutti uguale). 

Dante nel presentarcelo si destreggia con estrema capacità tra il giudizio negativo della Chiesa e il favore popolare di cui godeva:

  • attraverso le parole di Manfredi stesso: Orribil furon li peccati miei
  • la descrizione del volto biondo era e bello e di gentile aspetto

Ma ancora più importante è il giudizio teologico che Dante sottolinea: quello che conta non è il giudizio della Chiesa, che, per quanto ispirato da Dio, è prodotto da uomini, ma ciò che l’uomo stesso prova in interiore animi, anche se provato un solo attimo prima di morire. Allora Dio saprà valutare la sincerità di un affido alle sua mani e per questo sarà degno di essere perdonato.

Canto IV
Antipurgatorio

I° Balzo
(Spiriti negligenti – II° schiera: pigri a pentirsi)

Da quando Dante ha parlando con Manfredi, con una lunga circonlocuzione, l’autore ci dice che erano passate circa tre ore e al passare delle quali viene mostrato ai due pellegrini il passaggio per salire; è veramente difficile inerpicarsi per quel sentiero incuneato tra le rocce, che obbliga ad una grande fatica sottolineata dal verbo “carpando” ad indicare che sale carponi dietro la sua guida; spossato, col volto verso l’alto non vede altro che roccia e vedendo il suo compagno continuare a salire, Dante teme di rimanere solo, ma sarà proprio la sua guida a spronarlo fino a raggiungere il primo balzo. 

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Luca Signorelli: Canto IV (Duomo di Orvieto)

Arrivati sin qui i due danno uno sguardo all’orizzonte e Dante si meraviglia vedendo il sole percorrere il cielo da sinistra: Virgilio ribadisce che il Purgatorio, nell’emisfero australe, è in posizione opposta a Gerusalemme (emisfero boreale): non muta il corso dell’astro solare ma il punto di osservazione. Quindi il poeta, provato dalla fatica nel percorrere il primo tratto vuole sapere se sempre così sarà il tragitto. Virgilio gli risponde che il percorso sarà sempre meno difficile, finché completamente libero sciolto, si renderà conto d’aver superato anche questo tragitto che porta alla libertà di Dio. Allora si percepisce una voce che ironicamente lo apostrofa sulla sua stanchezza: è Belacqua che sta scontando la sua pena dietro un masso, raccolta, la testa tra le ginocchia, mostrando la fatica che farebbe a compiere qualsiasi gesto. Quest’ultimo gli rivela che dovrà aspettare, per muoversi da quel balzo tanti anni quanto furono quelli della sua vita, a meno che il percorso non venga affrettato dalle preghiere dei viventi rivolte al Signore.

Canto V
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – III° schiera: morti di morte violenta)

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Dante e le anime degli spirito morti assassinati

Io era già da quell’ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando ’l dito,
una gridò: «Ve’ che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla»
.

Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l’uom di perdon talvolta degno.
E ’ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando Miserere a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E ’l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che ’l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
com’io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi non vid’io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,
che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?
Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n’accora».
E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ’l voler nonpossa non ricida.
Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!

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Buonconte di Montefeltro

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”.
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma».

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Mi ero ormai allontanato da quelle anime negligenti (che si pentirono sul punto di morte), e stavo seguendo da vicino la mia guida quando da dietro a me, puntandomi contro il dito, uno spirito gridò: “Guardate, sembra che non risplendano i raggi del sole alla sinistra di quello che cammina più in basso, e sembra quindi che si muova come un uomo vivo!” Al suono di queste parole rivolsi indietro lo sguardo, e vidi che le anime mi guardavano fisso con stupore, guardavano me e la luce che veniva interrotta dal mio corpo. “Perché la tua mente si distrae tanto”, disse il mio maestro Virgilio, “da farti rallentare il passo? Che ti importa di ciò che viene bisbigliato dietro a te? Continua a seguirmi e lascia parlare le altre persone: devi comportarti come la torre immobile, che non inclina mai la propria cima al soffiare dei venti; poiché sempre l’uomo i cui pensieri crescono l’uno sopra l’altro, finisce per allontanare da sé il suo fine ultimo, dato che la forza del nuovo pensiero è tale da indebolire il precedente.” Che cosa potevo rispondergli se non “Ti seguo”? Lo dissi arrossendo alquanto, cosa che a volte favorisce l’uomo nell’ottenere il perdono. Nel frattempo, trasversalmente lungo il versante del monte, vidi procedere delle anime un poco più in alto rispetto a noi, cantando a versetti alternati ‘Miserere’.Quando si accorsero che io non facevo attraversare il mio corpo dai raggi del sole, mutarono il loro canto in un grido di stupore lungo e roco; due di loro, scelti come messaggeri, ci corsero incontro e chiesero: “Rendeteci per piacere nota la vostra condizione.” Ed il mio maestro rispose: “Potete tornare e riferire a chi vi hanno mandato da noi che il corpo di questo uomo è di carne viva. Se si sono fermati per aver visto la sua ombra, come credo che sia, allora hanno ora una risposta soddisfacente: gli rendano onore, può essere vantaggioso per loro.”Non vidi mai stelle cadenti attraversare così velocemente il cielo nelle prime ore della notte, né, al calare del sole, saettare lampi tra le nuvole d’Agosto, quanto lo furono quelle due anime nel tornare su; e, raggiunto il loro gruppo, ritornarono verso di noi insieme a tutti gli altri, come una folle che corre senza controllo. “La folla di anime che si avvicina è molto numerosa, e viene per pregarti”, mi disse Virgilio: “continua però a salire, ed ascolta le loro parole camminando.” “Oh anima che sali verso la beatitudine con quello stesso corpo con cui sei nata in terra”, gridavano venendoci incontro, “rallenta un poco il passo. Guarda se riesci a riconoscere qualcuno di noi, così da poterne portare notizia nel mondo dei vivi: perché continui a camminare? Perché non ti fermi un poco? Noi anime siamo state tutte strappate alla vita con la violenza, e fino all’ultima ora siamo rimaste nel peccato; in quell’ultimo istante però la Grazia divina ci mostrò il male in cui vivevamo, così che, pentendoci dei nostri peccati e perdonando i nostri uccisori, lasciammo la vita in pace con Dio, che adesso ci affligge con il desiderio di vederlo.” Gli dissi io: “Per quanto guardi con attenzione i vostri volti, non riesco a riconoscere nessuno; ma se, anime destinate alla beatitudine, avete piacere che io faccia qualcosa per voi, nel limite delle mie possibilità, ditemelo, ed io lo farò in nome di quella pace che, al seguito di una tale guida, mi si permette di cercare passando da un regno all’altro.” Incominciò allora uno a parlare: “Ognuno di noi ha fiducia che farai il bene che ci hai promesso, senza bisogno che lo giuri, a meno che non ti risulti impossibile attuare la tua volontà. Perciò io (Iacopo del Cassero), che parlo da solo prima degli altri, ti prego, se mai vedi quel paese che si estende tra la Romagna ed il regno di Napoli, governato da Carlo d’Angiò, che tu sia così cortese da chiedere ai miei parenti e conoscenti di Fano, di adorare Dio per me, così che io venga aiutato ad espiare i miei gravi peccati. Nacqui in quel territorio; ma le profonde ferite da cui sgorgò il sangue nel quale soggiornava la mia anima, mi furono inferte nel territorio di Padova, là dove avevo creduto di poter vivere più al sicuro: me le fece infliggere il signore d’Este, che mi aveva in odio molto più di quanto ne avesse diritto. Ma se fossi fuggito in direzione di Mira, quando venni raggiunto dai miei assassini ad Oriago, mi troverei ora ancora tra i vivi. Corsi invece verso la palude del Brenta, e le canne di bambù ed il fango mi intralciarono la fuga fino a farmi cadere; e vidi perciò lì il mio sangue formare un lago sulla terra. Disse poi un’altra anima: “Possa realizzarsi il tuo desiderio di pace che ti spinge a salire l’alto monte, abbi la pietà di aiutarmi a realizzare il mio di desiderio! Il mio casato è dei Montefeltro, il mio nome è Buonconte; la mia vedova Giovanna e gli altri miei parenti non si curarono di pregare per me; perciò io per la tristezza cammino tra queste anime a testa bassa.” Gli chiesi allora: “Quale forza maggiore o quale caso fortuito ti trascinò così lontano da Campaldino, che non seppe mai il luogo della tua sepoltura?” Mi rispose l’anima: “Appena a sud del Casentino scorre un fiume chiamato Archiano, che nasce nell’Appennino sopra l’eremo di Camaldoli. Nel punto in cui questo fiume perde il suo nome, gettandosi nell’Arno, giunsi con una grave ferita alla gola, mentre fuggivo a piedi e bagnavo la pianura con il mio sangue. In quel punto persi la vista e la parola, morii; l’ultima mia parola fu il nome di Maria, poi lì caddi, ed abbandonai il mio corpo. Ti dirò la verità su quello che accadde in seguito, tu diffondila poi nel mondo dei vivi: l’Angelo di Dio mi prese con sé, mentre l’inviato dell’Inferno gridava: “Creatura del cielo, perché me lo porti via? Tu ti prendi l’anima di costui solo per una lacrimuccia, che quindi me ne priva; tratterò allora diversamente l’altra parte di costui, il suo copro!” Sai bene che nell’aria si raccoglie in nubi il vapore, che ritorna poi nuovamente acqua non appena raggiunge gli strati più freddi dell’atmosfera. Quel demonio unì la sua volontà malvagia, che aspira solo al male, all’intelligenza, ed agitò il vapore acqueo ed il vento, utilizzando i poteri propri dalla sua natura diabolica. Non appena il giorno fu terminato, coprì quindi tutta la valle, da Pratomagno alla catena dell’Appennino, di nebbia; e riempì il cielo che la sovrasta di denso vapore tanto che l’aria satura di umidità di tramutò in acqua; cadde la pioggia e fluì poi verso i fossati la parte di acqua che la terra non fu in grado di assorbire; ed appena si riversò nei fiumi più grandi, corse poi verso l’Arno, che sfocia nel mare, tanto velocemente che nessun ostacolo riuscì a trattenerla. Il mio corpo congelato per il freddo fu trovato dall’Archiano in piena alla sua foce; che lo spinse poi nell’Arno e fu così sciolta la croce che avevo formato sul petto con le braccia sul punto di morte; la corrente mi fece rotolare contro le sponde ed il letto del fiume, che infine mi sommerse con i suoi detriti.” “Quando sari tornato nel mondo dei vivi e ti sarai riposato del lungo viaggio”, disse un terzo spirito dopo le parole del secondo, “ricordati di far pregare anche per me, che sono la Pia; nacqui a Siena e morii nella Maremma: come sa bene colui che prima, sposandomi, mi aveva messo al dito il suo anello.”

pia-de-tolomei-viene-portata-in-maremma-orig.jpegPompeo Molmenti: Pia de’ Tolomei condotta in Maremma

Il canto ripete al suo inizio il topos letterario della presenza corporea dantesca: ma tale ripetizione non è peregrina, perché la morte violenta attraverso l’assassinio, ricorda loro il momento o la situazione i cui è stata tolta ogni dignità ai loro corpi. Dapprima, contrariamente ai penitenti del canto precedente, le anime di questo balzo che traversano perpendicolarmente il  dorso della montagna, senza timore due di esse si avvicinano a Dante e Virgilio per conoscere la natura dell’autore fiorentino; sentitola da Virgilio, corrono a riferirla ai loro compagni e quindi tutti insieme s’ apprestano perché sperano, essendo Dante vivo, che una volta rientrato nel mondo possa riferire a chi vuol loro bene di pregare per far sì che le loro anime raggiungano prima la salvezza eterna. L’urgenza è diversa dalla lentezza degli scomunicati, l’ieraticità di Manfredi contrasta con la vigoria dei due guerrieri della battaglia di Campaldino e non importa che essi siano di partito avverso: Iacopo del Cassero  e Buonconte di Montefeltro. 

Il primo di cui Dante non cita il nome ma la cui attribuzione è certa è Iacopo del Cassero, del partito Guelfo. Nato a Fano, fu chiamato come potestà a Bologna, e lì, come reggitore della città si oppose al tentativo degli Estensi di entrare in conflitto in contrasto con Firenze; quando venne chiamato come podestà a Milano i sicari dei signori ferraresi lo raggiunsero a Padova e fecero strazio del suo corpo. Quello che colpisce e la meditazione sulla morte. Se al posto di passare in territorio patavino avesse scelto il territorio veneziano non sarebbe stato raggiunto. il pensiero di Iacopo si accentra quasi sulla casualità della morte, ribadendo come il destino imperscrutabile colpisce quando Dio vuole. A contrasto con la sua figura abbiamo Buonconte di Montefeltro in questo caso ghibellino. Dante domanda che fine abbia fatto il suo corpo, che non viene numerato né tra i vinti né tra i vincitori della battaglia di Campaldino. Anche lui troviamo mentre corre, completamente insanguinato, a piedi della fonte dell’Arno, dove lascia la sua vita nel nome di Maria. Appena morto scendono dal cielo il diavolo e l’angelo per contendersi l’anima di Buonconte che raccolta da Dio, provoca l’ira del diavolo a cui rimane far scempio del corpo. Con il suo potere fa scoppaire un tremendo temporale che ingrossando le acque del fiume lo rapisce sciogliendo le braccia poste in segno di croce.

Io terzo personaggio si staglia da solo: 7 versi di cui i primi due di cortesia, rivolti a Dante, il terzo d’intermezzo dell’autore, e quindi nome e luogo di nascita. Come muore? Lo sa chi l’ha sposata con un anello di gemme.

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Gustave Doré: Pia dei Tolomei

Pia dei Tolomei non ci dice quasi niente: eppure la sua forza poetica è proprio nell’ellissi; poeti, pittori, si sono ispirati alla sua figura che si staglia rispetto agli due penitenti, corporei e sanguinolenti, con la grazia di un suono femminile la cui preoccupazione, da donna è che Dante possa star bene: Un accenno alla sua richiesta di preghiere “ricordati di me, che son la Pia”, ad indicare forse che nella terra non è rimasto nessuno a conservarne la memoria; dalle sue parole emerge una pudicizia tale da ritenerla una, dopo quella di Francesca, figure femminili più importanti.

Canto VI
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – III° schiera: morti di morte violenta)

L’inizio del canto ci mostra le anime che premono intorno a Dante, chiedendogli di intercedere, una volta tornato in terra, per “affrettare” la loro salvezza. Ciò determina un dubbio al pellegrino: Virgilio in un suo passo dell’Eneide aveva affermato desine fata deum sperare precando (non sperare che i decreti del cielo possano essere piegati dalla preghiera); in ultima analisi il compito che Dante si sta assumendo di riferire ai restanti in terra di pregare per i loro congiunti, non è inutile, visto che Dio ha già loro stabilito il tempo di permanenza nel Purgatorio? La risposa è certamente teologica: la preghiera non piega la volontà di Dio, anzi la rafforza; se il poeta latino aveva affermato un’altra verità dipendeva dal fatto che le preghiere non erano rivolte al vero Dio. Tuttavia soltanto Beatrice potrà illuminarlo completamente. 

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Cesare Zocchi: Dante e Virgilio incontrano Sordello (1896)

Quindi riprendono il cammino, cercando di camminare il più possibile finché è giorno. Infine vedono un’anima che può indicare loro la via: Virgilio gli si avvicina, ma il penitente vuol sapere chi gli sta rivolgendo la domanda, e non appena Virgilio pronuncia il nome di Mantova, egli si alza, per abbracciarlo, dichiarando di essere Sordello da Goito. Tale gesto sta alla base della “digressione”, come la chiama lo stesso Dante, sulla situazione italiana:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.

Ahi serva Italia, luogo di dolore, nave senza timoniere nella gran tempesta, non più signora di province, ma bordello! Quell’anima nobile fu così svelta soltanto per aver sentito risuonare il dolce nome della sua città, a festeggiare qui il suo concittadino; e invece i tuoi abitanti non stanno in te senza farsi guerra, anzi si dilaniano fra loro persino quelli che abitano rinchiusi da un unico muro e un unico fossato. Guarda misera, le tue marine lungo i litorali, e poi guarda nel tuo stesso seno, per vedere se alcuna parte di te vive in pace. A che valse che Giustiniano abbia restaurato per te il freno delle leggi, se la sella manca del cavaliere? La vergogna sarebbe minore se non vi fossero tali leggi. Ahi gente della Chiesa che dovresti essere obbediente al volere di Dio e lasciare che Cesare stia sulla sella, se comprendi nel senso giusto ciò che Dio ordina, guarda come questa bestia selvaggia è diventata ribelle perché non è governata dagli sproni dell’imperatore, dopo che tu prendesti le redini. O Albergo d’Asburgo che abbandoni l’Italia che è diventata ribelle e selvaggia, mentre dovresti guidarla cavalcandola, la giusta punizione scenda dal cielo contro la tua stirpe, e sia tremenda e chiara, in modo tale che il tuo successore ne abbia terrore! Perché tu e tuo padre avete sopportato, distolti dalla cupidigia dei domini tedeschi, che il giardino dell’Impero restasse abbandonato. Veni a vedere le lotte fra Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uomo che non ti prendi cura: i primi già abbattuti e i secondi col timore di esserlo! Vieni, o crudele, vieni e guarda la tribolazione dei tuoi seguaci, e cura i loro mali; e vedrai com’è in decadenza Santafiora! Vieni a vedere la tua Roma che, abbondonata dal marito piange e chiama giorno e notte: «Cesare, perché non i guidi?». Vieni a vedere quanto si ama la gente! e se non ti muove nessuna pietà di noi, vieni a vergognarti della tua fama. E se mi è permesso, o sommo Cristo, che fosti crocefisso per noi sulla terra, la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nella profondità della tua mente provvidenziale prepari un qualche bene, assolutamente disgiunto dalla nostra capacità di capire. Perché tutte le città d’Italia sono tutte piene di tiranni, e ogni villano che si destreggia nei partiti, diviene un Marcello. Firenze mia, puoi ben essere contenta di questa mia digressione che non ti riguarda, grazie all’opera del tuo popolo che si ingegna a ben operare. Molti hanno la giustizia nel cuore, ma si manifesta tardi, perché non scocchi la freccia del giudizio senza ponderazione; ma il tuo popolo l’ha in punta di labbra. Molti rifiutano il peso delle cariche pubbliche; ma il tuo popolo pronto senza esser chiamato risponde e grida: «Accetto la grave responsabilità!». Ora rallegrati, perché tu hai ben di che rallegrarti: tu che sei ricca, che vivi in pace, che hai in giudizio! I fatti mostrano chiaramente se io dico la verità. Atene e Sparta, che crearono le antiche leggi e furono tanto civili, fornirono per quanto riguarda io vivere civile un ben magro esempio a paragone di te, che emani provvedimenti così sottili, che quello che tu crei ad ottobre non giunge a metà novembre. Quante volte, nel tempo che ricordi, tu hai cambiato leggi, moneta, uffici pubblici e consuetudini, e hai rinnovato i tuoi cittadini! E se ben ricordi e hai ancora discernimento, potrai paragonare te a quell’inferma che non riesce a trovare una posizione riposante nel letto, ma cerca rivoltandosi di trovare sollievo al suo dolore.

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Miniatura di Sordello da Goito

La digressione politica s’inserisce, a livello strutturale, al pari degli altri VI canti delle tre cantiche: se nell’Inferno è lo stesso Ciacco a descrivere in modo negativo la situazione di Firenze, qui è la presenza di Sordello a far sì che Dante rifletta sulla situazione italiana, mentre nel Paradiso sarà Giustiniano a disegnare la storia ed il ruolo dell’Impero.

Il brano, posto a chiusura del canto e che interrompe la narrazione del viaggio purgatoriale, nasce da un atteggiamento di fratellanza che fa riflettere Dante sulle divisioni interne della nostra penisola. Essa è paragonata all’inizio per contrasto: ostello, ma di dolore; una nave senza timoniere, non padrona ma bordello. La personificazione della patria serve a sottolineare la mancanza di pace all’interno di essa e, addirittura, nelle stesse città. Essa stessa, su invito del poeta (anafora di vieni a veder / vieni crudele) sembra rendersi conto  della desolazione che l’attraversa dalle sue coste alle città dell’interno. La situazione attuale  Dante l’analizza attraverso un ragionamento sillogistico:

A: l’Italia è senza pace;
B: manca una guida;
C: l’Italia è preda all’anarchia

Dante riprende il suo concetto politico secondo il quale la mancanza di una guida politica e di una guida spirituale producono soltanto una situazione in cui la volontà di ogni città di prevalere sulle altre genera guerre e perdita morale. Il problema è che se Arrigo d’Asburgo si disinteressa completamente della sorte dell’Italia, è la stessa Chiesa che pur non cavalcando il cavallo Italia, prendendolo per le briglie, non permette che nessuno ci salga. Lo stupore per la situazione lo induce addirittura a rivolgersi a Dio, quasi la situazione attuale dipenda da un suo disegno imperscrutabile. L’indifferenza dell’Imperatore è per Dante imperdonabile, tanto da meritarsi la maledizione dello stesso pellegrino.

Così come l’apostrofe era cominciata nel nome dell’Italia, ora si chiude nel nome di Firenze; in quest’ultima parte Dante usa l’antifrasi, sfiorando il sarcasmo; quando il poeta afferma Molti rifiutan lo comune incarco; / ma il popol tuo solicito risponde / sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!», probabilmente fa riferimento a Baldo d’Aguglione che non permise il rientro degli esuli bianchi (1311). Firenze è malata, ci dice il poeta, una malattia che non le dà posa e la rende, tra le città d’Italia, la meno stabile e la più vile. 

Canto VII
Antipurgatorio
II° Balzo

(Spiriti negligenti – IV° schiera: principi negligenti)

Il canto riprende il racconto là dove esso si era interrotto a causa della digressione. All’abbraccio affettuoso tra i due concittadini, segue ora un vero gesto di venerazione, non appena Sordello viene a sapere che di fronte a sé ha il poeta latino. Quindi, dopo aver spiegato ai due pellegrini che, dopo il tramonto del sole, poiché sta giungendo la notte, non si può più procedere, li conduce in una valle fiorita dove mostra loro vari principi. 

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Gustave Dorè: Dante nella valletta fiorita

Canto VIII
Antipurgatorio
Valletta fiorita
(Spiriti negligenti – IV° schiera: principi negligenti)

E’ l’ora del tramonto:

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’ han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more
;

Era l’ora in cui il ricordo fa rivolgere il pensiero ai naviganti al giorno in cui dissero addio e intenerisce il loro cuore e in cui fa soffrire d’amore colui che da poco si è messo in viaggio, non appena sente il suono lontano di una campana che sembra piangere il giorno che finisce;

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Miniatura che accompagna l’VIII canto

Questo è uno dei maggiori incipit con cui Dante apre un canto: il rapporto tra momento divino e momento umano si fa intenso, struggente, velando il tutto di malinconia. E’ quasi sera, è il momento della riflessione, a livello religioso è quello della Compieta, quando liturgicamente si recita l’ultima preghiera, prima di andare a dormire, ma è questo anche il momento in cui Dante viene a contatto con la tentazione, sentimento cui i grandi principi, in quanto reggitori in terra,  potevano cadere, tentazione colpita dalla spada divina. 

Il canto prosegue descrivendo come i principi all’interno di questa valletta, rivolti ad oriente, intonino un inno Te lucis ante… (terminum). Quindi Dante invita il lettore a porre attenzione a ciò che succede: mentre i principi, pallidi e umili, innalzano lo sguardo ad osservare il cielo, dall’alto scendono due angeli, vestiti di verde, uno si mette sopra le anime, l’altro dalla parte opposta a comprendere tutta la valletta. Sordello preannuncia che tra poco sbucherà un serpente (simbolo delle tentazioni). Mentre Dante, un po’ spaventato, scende nella valletta, vede uno che lo guarda intensamente, quindi s’avvicina e, nonostante la luce si affievoliva sempre più, riconosce in lui Nino Visconti, signore del giudicato di Gallura. Al sapere che Dante è ancora vivo, sia Sordello che il giudice, si ritraggono un poco e chiama presso di sé un altro penitente, Corrado Malaspina. Nino Visconti chiederà a Dante, tornato in terra, di rivolgersi alla figlia Giovanna, perché alla moglie, andata in sposa ad un Este, non importa più nulla di lui. Dante volge gli occhi al cielo e vede tre stelle (fede speranza e carità) prendere il posto delle quattro presenti nella spiaggia purgatoriale e mentre Virgilio gli spiega la loro presenza in cielo, Sordello li avvisa dell’arrivo di una biscia; Dante non vede in che modo i due angeli si siano mossi ma al loro alzarsi, la biscia sparisce, mentre gli stessi servitori di Dio si alzano in cielo.   

Segue l’incontro con Corrado:

L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ’l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta».

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Lo spirito che si era avvicinato al giudice quando venne chiamato, non smise mai di guardarmi per tutta la durata dell’assalto e cominciò a dirmi: «Possa la luce divina che ti conduce in alto trovare nella tua volontà tanta perseveranza che ti conduca al paradiso terrestre, se sai qualche notizia veritiera della Val di Magra o dei paesi vicini, dimmelo, che fui un tempo famoso presso quei luoghi. Mi chiamarono Corrado Malaspina, non il vecchio, da cui discendo: verso la mia famiglia provai l’amore che qui si purifica. Gli risposi: «Purtroppo, non sono mai stato in quei luoghi, ma c’è un posto in tutta Europa dove non siano conosciuti? La fama che onora la vostra casata viene detta a gran voce sia dei signori che dei luoghi tanto da essere nota anche da chi non vi è mai stato; ed io vi giuro, possa giungere nella sommità del monte, che la vostra onorata famiglia non cessa di gloriarsi per la liberalità e per l’esercizio delle armi. La tradizione e l’indole la privilegiano al punto che, sebbene il capo della Chiesa tradisca il suo compito, essa cammina sola nel giusto, disprezzando il cattivo cammino». E lui: «Ora va’: il sole non tornerà sette volte nella costellazione dell’Ariete (non passeranno sette anni), che questa cortese opinione ti si fisserà nella mente con maggiori argomentazioni, sempre che non venga meno il giudizio divino». 

L’incontro con Corrado Malaspina è particolarmente importante perché rappresenta il primo caso di una “profezia” rovesciata: se infatti sinora, nel percorso infernale, tutte le profezie sottolineavano il concetto di dolore e solitudine, in questo caso, invece, si evince come il futuro dell’esule Dante possa diventare meno drammatico grazie all’ospitalità di Franceschino Malaspina, cugino di Corrado II qui presente nel Purgatorio, nei territori della Lunigiana, uno dei luoghi percorsi dall’autore fiorentino. 

Canto IX
Antipurgatorio
Valletta fiorita – Porta del Purgatorio

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Francesco Scaramuzza: L’aquila trasporta Dante in sogno

Il IX canto è una canto dottrinale, ma anche nodale nella narrazione della seconda cantica: infatti è il canto dove si entra nel Purgatorio vero e proprio, dove Dante stesso, per arrivare alla sua soglia deve librarsi, cioè distaccarsi ancor più di quanto ha fatto nell’Antipurgatorio dalle tentazioni. Il canto inizia infatti con Dante, che alle 9 di sera, (la terza ora secondo il computo dantesco) s’addormenta. Mentre dorme sogna che un aquila d’oro lo afferri per gli artigli e lo sollevi fino alla sfera del fuoco. L’ardore di tale luogo lo fa svegliare all’improvviso; il sogno spaventa Dante ma Virgilio lo rassicura dicendogli che all’alba era giunta Santa Lucia che, preso tra le braccia, lo aveva condotto fino alla porta del Purgatorio. Salendo per uno stretto spiraglio Dante si ritrova di fronte a tre scalini, il primo bianco come il marmo, il secondo scuro come pietra, il terzo rosso come il sangue; sull’ultimo è posto l’angelo con una spada fiammeggiante con la quale segna sette P sulla fronte di Dante. Alla richiesta di Dante di farlo entrare, l’angelo prende un mazzo con due chiavi, una d’oro e una d’argento; quindi apre la porta i cui cardini stridono. L’angelo raccomanda ai visitatori di non voltarsi mai.

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William Blake: Dante tra le braccia di Santa Lucia

E’ evidente che il canto è pieno di simbologie a partire dall’aquila, simbolo sia della grazia che della giustizia divina), per poi; quindi i tre gradini di cui il primo, bianco, rappresenta la contritio cordis, cioè l’esame di coscienza; il secondo, di colore scuro, la confessio oris, la vera e propria confessione verbale; il terzo, rosso fiammeggiante la satisfactio operis, la penitenza da espiare con le opere. Le sette P indicano i sette peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia); la durezza della porta, la forza morale per espiare i peccati.

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Gustave Dorè: L’angelo sulla porta del Purgatorio

Canto X
I cornice – I superbi

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Gabriele Dell’Otto: Illustrazione per il canto X

Superata la porta Dante e Virgilio devono procedere in tortuoso percorso che li conduce nella prima cornice. Qui essi si trovano di fronte, lungo la parete interna del monte, alla rappresentazione in bassorilievo di scene di umiltà: l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria; Davide re che, per onorare Dio, si umilia danzando con la veste alzata, ricevendo lo sguardo riprovevole della moglie; Traiano che, mentre sta per partire in guerra, riceve la preghiera di una vedova e, per ottemperare al suo desiderio di vendetta per la morte del figlio, rimanda la partenza. Mentre Dante guarda le immagini, Virgilio lo avvisa di una moltitudine che avanza esasperatamente lenta, gravata da pesi che non permettono loro di alzare lo sguardo: sono i superbi.

Canto XI
I cornice – I superbi

f319003cb8f93b16f70186ea8a0d888d.jpegMiniatura per il canto XI

Il canto si apre con una preghiera:

«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé e noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’ hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra’ morti».
Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ’mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.

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Dante s’inchina per parlare con i superbi

«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.

La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende, 
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena. 
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’opera li tolse quei confini».

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La prima cornice

«Padre nostro, che stai, nei cieli, non perché in essi rinchiuso, ma per più amore che nutri nei confronti delle tue prime creazioni che hai posto lassù, siano lodati il tuo nome e la tua potenza da ogni creatura, come è giusto che si renda grazia al tuo dolce spirito. Arrivi a noi la pace del tuo regno, perché noi non riusciremmo a conquistarla da soli, anche con tutti i nostri sforzi, se non fosse lei a venire da noi. Come i tuoi Angeli sacrificano a Te la loro volontà cantando “osanna” in tuo onore, lo stesso facciano gli uomini con la propria di volontà. Dacci oggi il nostro cibo quotidiano, senza il quale, per questo difficile deserto, chi più si affatica per procedere, più andrà invece indietro. E come noi perdoniamo a tutti il male che ci è stato fatto, tu perdona noi, misericordiosamente, e non giudicarci sulla base dei nostri meriti. La nostra virtù, che così facilmente si lascia abbattere, non metterla alla prova con l’antico nemico Satana, ma liberaci invece da lui, che la spinge al male. Questa ultima preghiera, Signore caro, non la facciamo per noi, non avendone più bisogno, ma per coloro che sono rimasti sulla terra.» Così quelle anime, pregando per la loro e per la nostra buona sorte, andavano sotto il peso, simile a quello di un incubo notturno, tormentate in misura diversa, a seconda del peso sostenuto, tutte disposte in cerchio e stremate, su per la prima cornice, purificandosi dalla sporcizia del mondo. Se nell’Aldilà si parla sempre a nostro favore, di qua, sulla terra, cosa si potrebbe fare e dire a loro favore, da parte di quelli che hanno una predisposizione a fare del bene? E’ necessario aiutarli a lavarsi da quelle macchie che si portarono dietro dal mondo dei vivi, così che, puri e leggeri, possano uscire e volare fino ai cieli stellati. «Possano la giustizia e la misericordia liberarvi presto, così che possiate volare ed innalzarvi in cielo come è vostro desiderio e mostrateci da quale parte si può andare più velocemente verso la scala; e se c’è più di un passaggio, indicateci quello che meno ripido; perché costui, che procede con me, per il peso di quel corpo umano che porta ancora con sé, fatica, nonostante la sua buona volontà, a salire.» Le loro parole, in risposta a quelle pronunciate dalla mia guida, non fu chiaro da chi provenissero; ma fu detto: «Verso destra, lungo la parete del monte, venite insieme a noi, e potrete raggiungere quel passaggio attraverso il quale può salire anche una persona viva. E se non me lo impedisse questo sasso che piega la mia testa di uomo superbo, per cui mi conviene procedere con la testa bassa, costui, che è ancora in vita e non ha detto ancora il suo nome, guarderei in viso, per vedere se lo conosco, e per renderlo pietoso per questo peso che mi opprime. Da vivo sono stato italiano, figlio di un nobile toscano: mio padre si chiamava Guglielmo degli Aldobrandeschi: non so se abbiate mai sentito il suo nome. L’origine nobile e le imprese virtuose dei miei antenati, mi resero tanto arrogante che, non pensando che siamo tutti figli di una stessa madre, ebbi a tal punto ogni uomo in disprezzo da morirne, come sanno gli abitanti di Siena e come a Campagnatico (dove aveva un castello) sa ogni bambino. Io sono Omberto, e la superbia non ha recato danno solo a me, ma a tutti i miei parenti che sono stati trascinati da lei nella rovina. E’ necessario che io porti questo peso per espiare la colpa della mia superbia tutto quel tempo finché Dio ne sia soddisfatto, poiché non l’ho fatto tra i vivi, qui tra i morti».  Per ascoltarlo meglio, abbassai anch’io la testa; ed uno di loro, non quello che aveva parlato, si contorse sotto il peso che ne impediva i movimenti, mi vide, mi riconobbe e mi chiamò, tenendo con fatica gli occhi fissi su di me, che procedevo ora insieme a loro anche io piegato in avanti. «Oh!», chiesi io a lui, «non sei tu forse Oderisi, motivo di gloria per Gubbio e per quell’arte, la miniatura, che a Parigi viene chiamata enluminer?» «Fratello», rispose allora lui, «sono molto più colorate le miniature dipinte da Franco Bolognese; l’onore ora è tutto suo e il mio solo in parte. Certamente sono sarei stato così generoso quando ero in vita, per il gran desiderio d’eccellere su ogni altro cui tesi ogni sforzo. Per tale superbia si paga qui la punizione; e certamente non sarei qui, in Purgatorio, se non fosse che, pur potendo continuare a vivere peccaminosamente (nella superbia) mi rivolsi a Dio. O vanità della potenza umana, come dura poco la gloria (il verde sulla cima) a meno che non è seguita da un’età di decadenza! Credette Cimabue di dominare nel campo della pittura, ma ora Giotto ha la gloria, tanto che a sua fama si pè oscurata. Così Cavalcanti ha tolto la gloria a Guinizelli, è forse è già nato chi prenderà loro il posto. Non è nient’altro il rumore della fama mondana che un fiato di vento, che ora viene da una parte, ora dall’altra e cambia nome, perché cambia direzione, Che fama avrai tu, se muori vecchio o muori prima di pronunciare “pappa” e “dindi”, prima che passino mille anni? che è uno tempo infinitesimale rispetto al tempo eterno, come lo sbattere di ciglia rispetto al cerchio del cielo più lento. La fama di quell’anima che procede poco davanti a me, risuonò per tutta la Toscana; adesso a malapena di lui a Siena si bisbiglia, dov’era signora quando si distrusse l’arroganza fiorentina, allora così superba, quanto ora puttana. La fama umana è come il colore dell’erba che sparisce allo stesso modo in cui appare, ed è lo stesso sole che la fa nascere a toglierle il colore.» Ed io a lui: «La verità che mi hai detto, mi incoraggia verso la buona umiltà e mitiga in me il grande male della superbia, ma dimmi chi è colui di cui prima mi parlavi?». Rispose: «Quello è Provenzano Salviati ed è qui perché ha valuto ridurre Siena tutta in suo potere. E’ andato e così continua ad andare, senza mai riposarsi, dal giorno in cui morì; deve pagare tale debito chi ha osato troppo al di là del lecito». Chiesi allora io: “Se uno spirito aspetta prima di pentirsi l’ultimo istante della propria vita, allora dovrà aspettare nell’Antipurgatorio e non potrà salire su, qui dove ci troviamo, a meno di non essere aiutato dalle preghiere di persone in grazia di Dio, un periodo di tempo pari alla propria vita; allora come è possibile che a lui sia stato concesso di salire?» Mi rispose: «Quando Provenzano era al punto più glorioso”, mi rispose «per propria volontà si mise in mezzo alla Piazza del Campo a Siena, senza alcuna vergogna; e lì si umiliò fino a far tremare ogni vena dentro di sé, chiedendo l’elemosina per far uscire un suo amico dalla prigione di re Carlo d’Angiò (pagandone il riscatto). Non ti dirò altro, e so che le mie parole ti appariranno oscure; ma non passerà gran tempo che i tuoi concittadini di daranno la possibilità d’intendere ciò che ho detto con chiarezza. Fu quest’opera che lo liberò dai confini dell’Antipurgatorio.

Il canto “personifica” il peccato di superbia, anche a livello icastico: le anime con un masso che grava loro il capo imparano l’umiltà, guardando in terra; sembra un ulteriore punizione il non poter guardare quell’uomo vivo che in linea con loro si abbassa per cercare di vedere chi gli rivolge la parola. A farlo sono due, ma i protagonisti sono tre, ognuno di loro “superbo” in un campo: il primo, Ombero Aldobrandeshi per nobiltà, il secondo Oderisi da Gubbio, nell’arte, il terzo Provenzale Salviati per il politico. Il primo è dimentico della comune natura da cui origina l’essere umano; il secondo disquisisce sulla vanità della gloria umana e sul tempo legata ad essa – appare qui una piccola carrellata legata alla pittura e alla letteratura: su quest’ultima si è accusato lo stesso Dante di “superbia”, facendo riferimento a se stesso come successore, nella gloria letteraria, di Cavalcanti; tuttavia se inserissimo tale affermazione all’interno della vanità della gloria in relazione al tempo, e quindi alla fine della stessa anche per lui, cessa tale accusa – l’ultimo ci viene presentato da Oderisi stesso ed è il senese Provenzano Salviati, la cui condizione suscita curiosità. Infatti il politico non è costretto a trascorrere l’inizio della penitenza nell’Antipurgatorio, ma comincia la sua redenzione dal peccato proprio nella prima cornice. A condurlo lì è un azione, descritta in modo esemplare, in cui il superbo reggitore di Siena, si umilia a Piazza del Campo a chiedere l’elemosina per pagare l’esoso riscatto di Carlo d’Angiò, che teneva prigioniero un suo amico.

2. Amos Cassioli.jpgAmos Cassioli: Provenzano Salviati a Piazza del Campo (1873)

Canto XII
I cornice – I superbi

Salita alla seconda cornice

E’ un canto senza protagonisti: se all’inizio Dante aveva visto ed ammirato le figure parietali, poste sulle pareti della montagna, ora invece è colpito dai bassorilievi incisi sul pavimento dove invece vengono rappresentati esempi di superbia punita: s’inizia da Lucifero, poi i giganti, tra cui Nembrot, costruttore della torre di Babele, Niobe che si era anteposta a Latona come madre prolifica, Aracne che aveva sfidato nella tessitura Atene ed altri ancora. Camminando ed osservando verso il basso, Dante e Virgilio giungono ai piedi di una scala, più stretta ma più agevole. Essa è custodita da un angelo, con un abito bianco il quale cancella dalla fronte del poeta fiorentino una P con un soffio di piuma. Nell’atto dell’uscita i beati intonano Beati i poveri di spirito ed è in quel momento che Virgilio gli comunica che una P gli è stata cancellata mentre Dante va cercandola con la mano.

Canto XIII
II cornice – Gli invidiosi

Dante entra così nella seconda cornice dove incontra il secondo peccato più grave, dopo la superbia (ricordiamo che la successione dei peccati è posta in modo contrario a quella dell’Inferno). La parete della montagna, questa volta è livida e grigia, proprio color di roccia; a colpire i dannati questa volta è l’organo dell’udito: infatti voci si diffondono nell’aria con esempi di amore caritatevole come Maria Maddalena nelle nozze di Cana, Oreste e Pilade, disposti a morire uno al posto dell’altro, Gesù che invita ad amare i nemici. La loro pena, d’altra parte non permette di vedere (invideo), infatti hanno le palpebre cucite con il fil di ferro. Di fronte alla loro situazione Dante si sente in imbarazzo, perché vedente risultava non veduto. Per cui su invito di Virgilio, domanda concisamente se vi sia un latino: 

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Gustave Doré: Dante e Virgilio nella cornice degli invidiosi

SAPIA

«Io fui sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ’l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe». 

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Adeodato Malatesta: Sapia (1839)

«Io fui senese», rispose, «e con questi purifico qui la mia colpevole vita, rivolgendo le lacrime a Dio affinché sia compassionevole (nei nostri confronti). Non fui saggia, sebbene fossi chiamata Sapìa e in vita godetti più dei danni altrui che delle mia sorte. E perché tu non creda che io non dica la verità, ascolta, come ti dico, se io non fui folle, quando ormai non ero più giovane. I miei cittadini erano scesi in campo contro gli avversari (fiorentini) in Colle Val d’Esla, ed io pregavo Dio di quello che poi effettivamente volle. Qui i senesi furono scossi e volti ad un’amara fuga, e vedendo la caccia (l’inseguimento dei vincitori), provai una gioia talmente grande da alzare il volto verso Dio e gridare “ormai non ho paura di Te”, proprio come fa il merlo, rallegrandosi per poca bonaccia. Volli fare pace con Dio alla fine della mia vita; e non avrei ancora scontato il debito nei suoi confronti con la penitenza se non si fosse ricordato di me Pier Pettinaio, che ebbe nei miei confronti compassione per pura carità.

Non cessa la perplessità critica su questa figura di donna senese: alcuni la reputano tracotante e spocchiosa, altri invece loquace ed affabile; ancora polemica, altri consapevole della colpa e vogliosa d’espiazione. Ma cosa rende Sapìa un personaggio non chiaro, la cui psicologia lascia sospesi? Indubbiamente il timbro militaresco al centro della sua narrazione, quasi godesse nel vedere lo schieramento dei suoi concittadini, la loro rotta, la fuga arricchita dalla caccia; in seguito la maledizione ottenuta per intercessione divina (sembra dire), col volto in aria ed espressione soddisfatta e la chiusa popolaresca con la rappresentazione del merlo. Ma ad attenuare c’è quell’alone di santità di Pier Pettinaio. Eppure sembra che l’antico vizio non sia completamente sparito quando chiede a Dante chi sia e perché, libero di vedere, va ad investigare sui dannati, sembra proprio che invidi la sua posizione.   

Canto XIV
II cornice – Gli invidiosi

Il canto continua nella seconda cornice, con le parole di un purgante che rivolgendosi ad un compagno chiede chi sia costui che, ancora vivo, ad occhi aperti varca il purgatorio, e l’altro, di rimando gli dice di domandarglielo con cortesia, per ottenere una gentile risposta. Il primo è Guido del Duca, colui che per tutto il canto prenderà la parola, l’altro è Rinieri da Calboli. A far partire la requisitoria contro i toscani è Dante stesso che, non rivelandogli sin da subito il nome ma riferendosi al fiume Arno, fa sì che il penitente parta per criticare aspramente le genti che vivono là dove il fiume trascorre; tale “cattiveria” sarà punita da un nipote, Fulceri,  del dannato Rinieri, là con Guido, che sarà potestà nella città di Firenze, portando morte e distruzione tra i ghibellini e i guelfi rimasti in città (si riferisce al 1303). La crudeltà di Fulceri sarà a sua volta motivo per denigrare le popolazioni emiliane, le cui casate hanno dimenticato oggi il valore della cortesia, che sembra essersi fermato appunto nella figura di Rinieri.

724b797d8c830d9fd2fff3ccd2607c34.jpegMiniatura medievale che illustra Dante con Guido del Duca e Rinieri da Calboli 

Canto XV
II cornice – Salita alla III cornice – III cornice (Iracondi)

E’ un canto privo di personaggi o per meglio dire senza penitenti con cui dialogare. Egli sì, percepisce dei suoni, ma sono inni che completano e chiudono la cornice degli invidiosi. Quindi, dapprima colpito dalla luce del sole, poi dal bagliore di un angelo, invitato da quest’ultimo, comincia a salire una scala, più agevole della precedente. Mentre salgono la scala Virgilio, ma solo in parte,  risolve un dubbio che scuote Dante dal colloquio con Guido del Duca, quando gli disse “o gente umana, perché poni il core / là v’è mestier di consorte divieto?” (“o uomini, perché vi attaccate a beni che necessariamente portano con sé l’impossibilità di fruirne in comune?”). Virgilio gli risponde che più sono gli uomini più sarà impossibile condividere i beni terreni che risulteranno sempre minori, ma se si rivolgesse lo sguardo all’unico bene indivisibile, cioè l’amore per Dio e quindi la carità tale problema non esisterebbe. Ma aggiunge che tale risposta è certamente limitativa perché solo la sapienza di Beatrice potrà rispondergli in modo più adeguato. Quindi Dante stesso viene quasi travolto da immagini estatiche che preannunciano i penitenti della terza cornice; sono immagini di mansuetudine come Maria che rimprovera con dolcezza Gesù che si era attardato con i dottori del Tempio; Pisistrato che di fronte a un ragazzo che aveva baciato sua figlia in strada e verso cui la moglie chiede una punizione esemplare risponde “e se trattassimo così chi ci ama, come dovremmo trattare chi ci vuol male?” ed ancora Santo Stefano che picchiato fino alla morte steso in terra, alza gli occhi al cielo per chiedere il pardono nei loro confronti. Risvegliatosi da quella sensazione un po’ svagata con cui aveva “vissuto” le immagini, Dante e Virgilio, giunti alla terza cornice, vengono immersi in una densa nube scura.

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Canto XVI
III cornice (Iracondi)

E’ questo il canto di Marco Lombardo:

Buio d’inferno e di notte privata
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant’esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò e l’omero m’offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che ’l molesti, o forse ancida,
m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
«Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d’iracundia van solvendo il nodo».
«Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».
Così per una voce detto fue;
onde ’l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».
E io: «O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».
«Io ti seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece».
Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia.
E se Dio m’ ha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte»

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Gustave Doré: Dante e Virgilio incontrano Marco Lombardo

«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco.
Per montar sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».
E io a lui: «Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.

Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ‘l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma».
«O Marco mio», diss’io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».
«O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».
Così tornò, e più non volle udirmi.

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Scuola italiana: La III cornice

Mai il buio dell’inferno né una notte priva di qualunque stella, sotto un cielo senza luce, annerito quanto è possibile dalle nubi, pose davanti al mio viso un velo tanto scuro quanto fece quel fumo che ci avvolse nella terza cornice, né fu mai così sgradevole a sentirsi tanto che i miei occhi faticarono a restare aperti; perciò la mia attenta e fedele guida mi si accostò e mi offrì la sua spalla per condurmi. Così come un cieco va dietro alla sua guida per non perdersi e per non urtare violentemente contro qualcosa che possa fargli male, se non addirittura ucciderlo, allo stesso modo procedevo io attraverso quell’aria pungente e densa, ascoltando la mia guida, Virgilio, che mi avvertiva continuamente: «Stai attento a non allontanarti da me.» Sentivo delle voci intorno a me e ciascuna sembrava pregare per la pace e la misericordia l’agnello di Dio, che toglie i peccati dell’uomo. Tutte con ‘Agnus Dei’ iniziavano le loro preghiere; cantando tutti le stesse parole con la stessa intonazione, tanto che sembrava regnasse tra loro l’armonia. «Maestro, sono anime queste che sento cantare?», chiesi. Mi rispose Virgilio: «Tu credi il vero, sono anime e stanno espiando i loro peccati d’ira.» «Chi sei tu che attraversi il fumo che ci avvolge, e parli di noi come se tu dividessi ancora il tempo in mesi e giorni?» Queste parole furono pronunciate da una voce; per cui il mio maestro mi disse: «Rispondigli, e chiedigli anche se è per questa strada che si sale alla prossima cornice.» Dissi: «Oh anima che ti purifichi qui dei tuoi peccati per poter poi tornare completamente pura a Dio, che ti creò, sentirai qualcosa di incredibile se mi segui.» «Io ti seguirò per quanto mi è concesso farlo», rispose, «e se il fumo non mi lascia vedere dove vado, sarà l’udito a tenerci vicini, facendo le veci della vista.» Cominciai allora a dire: «Con quell’involucro dell’anima, che la morte poi distrugge, salgo verso il cielo, e sono giunto qui dopo aver attraversato le sofferenze dell’inferno. E se Dio mi ha accolto nella sua Grazia, tanto da volere che io veda la sua corte celeste in un modo completamente diverso da quello è solito, non nascondermi la tua identità, chi eri prima di morire, ma anzi dimmelo, e dimmi anche se procedo nella direzione giusta verso la prossima cornice; siano le tue parole la nostra scorta.» «Nacqui nell’Italia settentrionale ed il mio nome fu Marco; fui molto esperto delle regole del mondo ed amai sempre quel valore morale, la cortesia, al quale ormai nessuno tende più. Per salire alla prossima cornice continua a camminare dritto.» Così mi rispose ad aggiunse infine: «Ti chiedo di pregare Dio per me quando sarai in cielo.» E gli dissi allora io: «Ti prometto solennemente di fare ciò che mi chiedi; ma rischio ora di scoppiare per un grosso dubbio che mi attanaglia se non me ne sbarazzo subito. Prima era semplice, piccolo, adesso è diventato doppio dopo la tua affermazione, che mi conferma qui, come già altrove, la frase a cui accoppio la tua. Il mondo è certamente privo di ogni valore, come tu stesso mi hai detto, ed è invece invaso e pieno di ogni forma di malvagità; ma ti prego di indicarmi la ragione, la causa di ciò, così che io la possa conoscere e quindi spiegarli anche ad altri; perché alcuni la attribuiscono agli influssi celesti, altri alla semplice responsabilità umana.» Un profondo sospiro, che il dolore tramutò in un lamento, fu prima emesso dallo spirito; che poi cominciò a dire: «Fratello, il mondo è cieco e tu, con questa domanda, dimostri di provenire proprio da lì. Voi che siete ancora in vita attribuite la causa di ogni cosa solo e sempre al cielo, come se necessariamente il cielo muovendosi trascinasse tutto con sé. Se così fosse, in voi cesserebbe di esistere il libero arbitrio, e non sarebbe giusto ricevere un premio per il bene compiuto e una punizione per il male. Il cielo dà l’impulso iniziale alle vostre azioni; non proprio a tutte, ma, ammesso anche che siano tutte, vi è comunque sempre data la facoltà di distinguere il male dal bene, ed anche la libera volontà; la quale, se fatica nei primi momenti ad opporsi alle tendenze suggerite dal cielo, in seguito ha sempre la meglio, se viene ben coltivata. Ad una forza maggiore e ad una natura superiore a quella degli astri voi siete soggetti, pur essendo liberi; è quella che crea la vostra mente, su cui il cielo non può influire. Perciò, se il mondo abbandona la retta via, la causa è in voi, in voi deve essere ricercata; e te ne darò ora la vera dimostrazione. L’anima esce dalla mano di Dio, che la pensa prima ancora di farla esistere, come una bambina che con innocenza passa dal pianto al riso, completamente ignara di tutto, salvo che, provenendo dall’infinita gioia del suo creatore, si rivolge spontaneamente verso ciò che le dà gioia. Nei primi tempi l’anima fa esperienza di un bene di poca importanza; questo la trae in inganno, e così l’anima corre dietro ad esso, a meno che una guida o un freno non riescano a distogliere la sua attenzione. Per questo fu necessario istituire delle leggi per porre il freno; fu necessario creare l’autorità del re, che distinguesse almeno la torre della vera città (la Giustizia). Le leggi ci sono, ma chi si preoccupa di farle rispettare? Nessuno, poiché il pastore che conduce il gregge, può ruminare (riflettere) ma non ha le unghie tagliate in due (la capacità di distinguere il bene dal male); perciò le persone, che vedono la loro guida desiderare soltanto quei beni materiali di cui è tanto avida, si nutrono a loro volta di quelli, e non desiderano nient’altro. Puoi vedere chiaramente che la cattiva gestione del Papa è la causa prima che ha reso malvagio tutto il mondo, non lo è la parte corrotta della vostra natura umana. Roma, che rese buono il mondo, era solita avere due diversi soli ad illuminare l’una e l’altra strada, quella materiale e quella spirituale. Adesso uno dei due ha spento la luce dell’altro; il potere imperiale si è unito con quello spirituale, e così uniti a forza, è inevitabile che vadano entrambi male; poiché, così messi insieme, non si controllano a vicenda come dovrebbero: se non mi credi, pensa alla spiga, perché ogni pianta si riconosce dal suo seme (che è poi contenuto nel suo frutto). Nel territorio italiano bagnato dai fiumi Adige e Po, un tempo si trovavano facilmente cortesia e virtù, prima che l’imperatore Federico II subisse l’attacco della Chiesa; ora può in tutta sicurezza passare da lì qualunque persona che prima evitava, vergognandosi della propria malvagità, di parlare o di avere semplicemente a che fare con le persone oneste. Ci sono in verità ancora tre vecchi attraverso la cui persona il passato rimprovera aspramente il presente, ed ai quali sembra non arrivare mai il giorno della loro morte: Corrado da Palazzo, il buon Gherardo da Camino e Guido da Castello, che è meglio conosciuto, alla francese, come il semplice Lombardo. Puoi dunque ormai affermare che la Chiesa di Roma, per aver voluto unire in sé due diversi poteri, cade nel fango ed imbratta così sé stessa e tutto il suo carico.» «O Marco mio», dissi io allora, «dici il giusto: ed ora capisco perché furono esclusi delle eredità materiali i Leviti, i sacerdoti degli Ebrei. Ma chi è quel Gherardo cui ti riferisci parlando di quell’uomo saggio che è rimasto ancora in vita, esempio della generazione scomparsa, a rimprovero di questo secolo incivile?» «O le tue parole non mi sono chiare, oppure vuoi provocarmi», mi rispose; «dal momento che, da toscano quale sei, sembra che tu non sappia nulla del buon Gherardo. Io non lo conosco con nessun altro soprannome, a meno che non lo prenda da sua figlia Gaia. Vi saluto, che Dio sia con voi, perché non posso più venire insieme a voi. Vedi che il sole con i suoi raggi, che attraversano il fumo, rischiara ormai la cornice, e mi conviene quindi allontanarmi, l’Angelo del perdono è poco distante e non vorrei comparirgli davanti.» Detto questo tornò indietro e non volle più stare ad ascoltarmi.

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L’incipit del canto sembra quasi riportarci all’inferno: era dall’inizio del Purgatorio che non lo abbiamo più trovato, ma è un buio diverso, derivato da nubi meteorologiche sebbene denso tanto da dar fastidio agli occhi. In questo buio s’incontrano con Marco Lombardi ed è un incontro che ricorda quella di un altro grande protagonista, Federico degli Uberti. Lì era un “O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.”, qui vi è quasi lo stessa domanda, la stessa lieta sorpresa d’incontrare un vivo, non dimenticando nè l’uno né l’altro, un po’ di supponenza e di alterigia: “Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?. Ambedue rivolgono il loro sguardo alla loro “storia”: Montaperti per il dannato, il nord d’Italia per Marco. Ma chi è Marco Lombardo, che presenta se stesso con uno splendido chiasmo? Non sappiamo nulla di lui, ci dice qualcosa il Novellino; fu probabilmente un nobile uomo di corte, non certo ricco e sembra che sulla sua figura abbia messo molto se stesso e delle sue idee politiche. E’ infatti un canto politico, in cui Dante, partendo dal concetto di libero arbitrio arriva alla teoria dei due soli, espressa in modo compiuto nel De monarchia, attraverso un ragionamento fortemente logico: il libero arbitrio, lasciando l’uomo appunto libero di scegliere il bene o il male ha bisogno di una legge che lo guidi; la legge a sua volta ha bisogno di chi la fa rispettare, ma se a farla rispettare è una istituzione che ha altro compito, come la “giurisdizione” divina, la guida è fallace in quanto non mitigata da chi è deputato a tale compito, la giurisdizione terrena, cioè quella imperiale. E’ evidente che tale visione, certamente, retrograda rispetto ai cambiamenti italiani del ‘300, conduca ad una forma di nostalgia, ben espressa da Marco Lombardo verso l’esiguità del numero di chi conserva il concetto di cortesia rispetto alla malignità del presente.

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Rubens: Progne e Tereo

Canto XVII
III cornice (Iracondi) – Salita alla IV cornice (accidiosi)

Posto al centro dell’iter purgatoriale, questo canto funge la funzione che nell’Inferno aveva avuto il canto XI, per meglio dire quello di spiegazione della struttura morale che sottintende l’intera montagna purgatoriale.

Il canto si può dividere in tre momenti: 

vv. 1-39: mentre riemergono dalla nebbia degli iracondi, a Dante appaiono le visioni dell’iracondia punita. Esse sono tre:

  • Progne, mito ripreso dal Vi libro di Ovidio in cui si narra del re della Tracia, sposo appunto di Progne. Quando viene a trovare quest’ultima la sorella Filomena, Tereo se ne infiamma e cogliendo il momento opportuno, la violenta. Affinché non riveli nulla alla sorella le taglia la lingua, ma riuscendo a gesti a confidarsi, ambedue imbandiscono a Tereo le carni del figlioletto: Progne verrà trasformata in usignolo, Filomena in rondine e Terreo in upupa;
  • Aman, nella corte di Assuero, re persiano, è l’eunuco che ha il compito di trovare delle vergini da portare all’harem, per sostituire la sposa del re fuggita. Tra esse vi è Ester, che vive col cugino Mardocheo. Costui diviene intimo del re e scopre un complotto degli eunuchi, mentre quest’ultimi, su istigazione di Aman, vogliono processare i giudei che non s’inchinano al sovrano. Sarà proprio l’eunuco ad essere ucciso tramite crocifissione.
  • Amata, madre di Lavinia che si uccide perché non vuole che la figlia, già fidanzata a Turno, re dei Rutuli, andasse sposa ad Enea. 

Il secondo momento è racchiuso tra i vv. 40 – 69: riemergendo dall’oscurità, una luce che sovrasta la capacità visiva di Dante, lo invita a salire: è l’angelo della pace. Prima che giunga la notte, in cui, com’è noto, non si procede, i pellegrini giungono nel IV cerchio.

Vv. 70 – 139: comincia qui la terza parte del canto in cui Virgilio spiega la ripartizione purgatoriale a partire dal concetto dell’amore. Ed egli a partire dal peccato dell’accidia (l’amore del bene, insufficiente rispetto al dovere), spiega appunto cosa sia l’amore, insito in ogni uomo: naturale, quindi, ma anche d’elezione (scelta dell’uomo). Quando quest’ultimo sceglie il d’amare il male o, come qui, non distogliendosi dal bene, ama troppo i beni secondi, distogliendogli dall’unico vero bene che è Dio, li purgherà qui nel Purgatorio.

Canto XVIII
IV cornice (accidiosi)

Il canto XVIII si lega con il precedente senza soluzione di continuità. Sembra quasi che Dante non si senta soddisfatto della teoria dell’amore illustrataci da Dante e cerchi di approfondire il discorso. 

Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogni buono operare e il suo contrario».

Allora io: «Maestro, il mio intelletto si rischiara così vivamente attraverso la tua sapienza, che comprendo facilmente ciò che la tua ragione formula e analizza. Perciò ti prego, padre caro, che tu mi spieghi cosa sia l’amore, al quale fai dipendere ogni azione buona o malvagia»

in altre parole, la domanda di Dante è chiara: mi spieghi che cosa è l’amore? Risulta evidente che da tale domanda ne discenda una spiegazione dottrinale. Virgilio le risponde semplicemente che l’amore è un sentimento innato in noi, che rivolge, sin dalla nascita il nostro volere verso il bene. Come il fuoco s’innalza verso l’alto, così l’amore che tende verso Dio si alimenta ancor di più tanto che l’amore, più s’avvicina al suo bene, più aspira alla perfezione dell’amore che non è mai paga (se non nella beatitudine). Alla domanda di Dante secondo cui, se l’amore è innato, non è colpa dell’uomo se tale amore va verso il bene o verso il male, Virgilio risponde che tale concetto lo potrà meglio capire da Beatrice, ma per il momento non può che sottolineare che Dio ha dato l’uomo la ragione, quindi il discernimento, che deve guidare gli istinti naturali, è pertanto la ragione degli uomini che permette loro di amare in modo pieno, o con minore intensità, come qui nel Purgatorio, o amare il male, come si è già visto nell’inferno.  

57608933_317266438946694_6680211510533257176_n.jpgAffresco che illustra la IV cornice del Purgatorio

E’ notte alta e dopo la spiegazione di Virgilio Dante si trova in una situazione di sonnolenza, che scompare improvvisamente dall’arrivo di anime che, dalle nostre spalle, si dirige verso di noi. Questa folla giunge correndo, declamando esempi contrari al loro peccato dell’accidia. Ad esse Virgilio domanda qual è il varco per continuare la salita ed essi, che non possono fermarsi, invitano i pellegrini a seguirli, e quindi rivelano la loro identità, tra cui l’abate di San Zeno di Verona e due anime che lamentano uno la scarsa volontà nel seguire Mosè nell’attraversare il Giordano, l’altro i compagni d’Enea, che rimasti in Sicilia, non poterono partecipare alla gloria di Roma. Ma mentre Dante li vede già allontanarsi, si perde in pensieri al fine di domandar loro, ma gli stessi si trasformano in sogno.

Canto XIX
IV cornice (accidiosi) – V girone (avari e prodighi)

Dante, dopo la solita precisazione astrologica che indica il momento più freddo della notte, poco prima dell’alba, sogna:

mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ’l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

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Dante in sogno

mi apparve in sogno una donna balbuziente, con lo sguardo strabico, storpia nel modo in cui si reggeva in piedi, con le mani monche e dal colorito pallido smorto. Io la fissavo; e così come il sole ridà vigore al corpo infreddolito ed intorpidito dalla notte appena passata, allo stesso modo il mio sguardo su di lei le sciolse la lingua (la fece parlare), e subito dopo le raddrizzava la postura in poco tempo, ed al suo volto pallido, come è capace di fare l’amore, ridava infine anche colore. Quando, in ultimo, la sua lingua, la sua capacità di parlare fu sciolta a sufficienza, cominciò a cantare con una tale grazia, che solo a fatica sarei riuscito a distogliere da lei la mia attenzione. «Io sono», cantava, «io sono la dolce sirena, che incanta i marinai in mezzo al mare; tanto è il piacere che si può provare nell’ascoltarmi! Io distolsi l’attenzione di Ulisse dal suo vagare per mareper rivolgerla al mio canto; e chi si abitua a stare con me, raramente poi decide di andarsene; tanto riesco ad appagarlo, a soddisfarlo! La sua bocca non si era ancora richiusa dopo il canto, quando una seconda donna, dall’aspetto santo e premuroso, mi apparve e si mise al mio fianco per confondere la prima, la sirena. «Oh Virgilio, Virgilio, chi è questa donna?» urlò con voce sdegnata; e Virgilio a quel punto venne da noi tenendo i suoi occhi fissi solamente sulla donna onesta. Afferrò poi l’altra, e le aprì la parte anteriore del vestito strappandone i lembi di stoffa, fino a mostrarmi il suo ventre; la terribile puzza che ne uscì mi risvegliò bruscamente.

Il passo presentato è stato uno dei più discussi, eppure l’allegoria in esso presente appare piuttosto chiaro: una donna deforme, balbuziente, si trasforma in una suadente “sirena”, ma interviene una “donna santa” che spinge Virgilio a lacerarle i panni, per cui si mostra l’immonda natura: cioè il vizio, il cui fascino ci attira percependolo come piacere, fino a quando interviene la ragione a ricondurci nella “dritta via”. Fino a qui ci troviamo di fronte ad una vera e propria simbologia medievale, che tuttavia lascia delle questioni aperte, soprattutto due:

  • Ulisse: nel medioevo era chiaro che il mito dell’eroe greco si conosceva, eppure qui ci troviamo di fronte ad una interpretazione secondo la quale Ulisse venne “desvia” grazie al canto di esse. La fonte è certamente ciceroniana (sappiamo che Dante non conosceva il greco e quindi l’opera omerica) dal De finibus: il filosofo arpinate afferma che il compito delle sirene era quello di flectere, piegare verso loro, che rappresentavano la conoscenza;  
  • la donna santa ha avuto moltissime interpretazioni, ma quella più appropriata ci sembra la filosofia/ragione, proprio perché più si lega al concetto di conoscenza prima illustrato; la conoscenza, per essere valida dev’essere guidata dall’apporto morale; d’altra parte a stracciare la veste menzognera è Virgilio, che sin dall’inizio del poema dantesco riveste il ruolo della ragione. 

Subito dopo, dopo l’incitamento di Virgilio a salire, Dante arriva alla V cornice in cui trova distesi in terra i penitenti del peccato di avarizia. Essi con il volto a terra intonano il salmo Adhesit pavimento anima mea (L’anima mia è prostata a terra), – in quanto gli avari furono troppo attratti dalle cose terrene – e, richiesti da Virgilio su quale fosse la via da seguire e individuato da chi giungesse la risposta, Dante, sente dire scias quod ego successor Petri (Adriano V, ma in realtà la persona di cui qui parla Dante è Adriano IV) e quindi  s’inchina per osservarlo meglio, ma lui lo invita a rialzarsi perché nel Purgatorio tutte le anime, al di là del grado di provenienza, sono uguali a Dio. Costui racconta che, appena eletto papa, si rese conto di quale fosse il suo compito, sebbene avesse potuto derogare da esso, ma il suo pontificato è stato di breve durata e se mai il pellegrino fiorentino dovesse tornare sulla terra, si rivolgesse a sua nipote Alagia, l’unica, forse, se non verrà corrotta dai familiari, la cui moralità permetterà di innalzare preghiere a Dio in grado di sollevarlo al cielo. E’ evidente il riferimento all’episodio dei simoniaci nel XIX canto dell’Inferno con la figura di Niccolò III: qui un esempio della chiesa morale, là la critica verso una mondanizzazione contraria, per Dante, al suo compito originario. 

Canto XX
V cornice (avari e prodighi)

Dante dopo il colloquio con Adriano continua a camminare nel girone, non dimenticando, però, di far pronunciare a Dante auctor un’invettiva contro l’avarizia, simboleggiata ancora dalla lupa che, all’inizio del poema sacro gli aveva impedito il cammino.

In seguito avviene l’incontro con Ugo Capeto:

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta. 
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia. 
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta. 
Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi, 
trova’ mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno, 
ch’a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa. 
Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male. 
Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna. 
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. 
Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ’ suoi. 
Sanz’arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia. 
Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta. 
L’altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l’altre schiave. 
O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c’ ha’ il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne? 
Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
 

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso. 
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele. 
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto? 

Coronation_of_Hugues_Capet_2.jpgUgo Capeto

Io sono stato la radice di quella pianta malvagia (il capostipite di quella malvagia famiglia) che ora danneggia tutto il mondo cristiano, tanto che raramente da essa si può raccogliere un buon frutto. Ma se le città di Douai, Lille, Gand e Bruges potessero, questa sua malvagità verrebbe subito punita; ed io chiedo che accada a Dio che tutto giudica. Il mio nome in vita è stato Ugo Capeto; da me sono discesi i Filippi ed i Luigi da cui attualmente la Francia è governata. Ero figlio di un macellaio di Parigi; quando l’antica dinastia dei sovrani si estinse completamente, tranne che per un discendente fattosi frate, mi trovai strette tra le mie mani le redini per guidare sia il governo che il regno, ed una così smisurata potenza derivante dalle nuove conquiste, ed una così ampia cerchia di amici, che la corona rimasta vacante fu posta sulla testa di mio figlio, dal quale discese poi tutta la dinastia dei re consacrati (i Filippi ed i Luigi). Finché il dominio della Provenza, ricevuto in dote da mia moglie, non tolse ai miei discendenti la capacità di contenere i propri impulsi, la dinastia aveva scarso valore, ma almeno non commetteva male alcuno.  Da lì iniziò però poi a compiere, usando la forza e l’inganno, le sue rapine; ed in seguito, per espiare tale peccato, estese il suo dominio sul Ponthieu, sulla Normandia e sulla Guascogna. Carlo I d’Angiò venne in Italia e, per penitenza, uccise, Corradino; e poi rispedì anche in cielo Tommaso, sempre per penitenza. Vedo che arriverà un giorno, non molto lontano da oggi, in cui un altro Carlo uscirà fuori dai confini della Francia, per far meglio conoscere il valore suo e dei suoi uomini. Uscirà senza nessuna arma ma solo con la lancia (l’astuzia e l’inganno) che fu in passato già utilizzata da Giuda, e la punterà con una tale precisione da fare scoppiare la pancia a Firenze. Pertanto, nessun dominio territoriale, ma solamente colpa e vergogna guadagnerà con questo suo operare, tanto più grave per sé quanto meno reputa valere una simile punizione. L’altro Carlo (Carlo II d’Angiò), che era già uscito dalla Francia su di una nave, come prigioniero, lo vedo vendere sua figlia e contrattare sul prezzo così come fanno i corsari con le figlie degli altri catturate e fatte schiave. Oh avidità, che cosa puoi fare peggio di così, dopo che la mia discendenza, la mia stirpe hai tirato a te a tal punto che non ha ora più cura nemmeno dei propri parenti stretti? Ma perché sembri meno grave il male che verrà fatto e quello già compiuto, vedo anche entrare nella cittadina di Anagni il giglio di Firenze, e vedo Cristo essere catturato nella persona del suo vicario in terra, il papa. Le vedo venire deriso ancora una volta; lo vedo subire nuovamente l’offesa dell’aceto e del fiele, ed essere infine nuovamente ucciso in mezzo a ladroni vivi. Vedo il nuovo Pilato (Filippo il Bello) essere tanto crudele da non sentirsi appagato da questa morte, e, senza permesso, dirigere le vele della sua avidità contro l’ordine dei Templari. Oh mio Signore, quando potrò finalmente gioire nel vedere punita tanta crudeltà che, nascosta agli uomini, rende più dolce la tua ira nella tua mente per noi inesplorabile?

Questo passo ci allontana dal clima di penitenza che sottende la cantica purgatoriale: L’unica eccezione l’avevamo già vista nel canto di Sordello, ma lì si trattava di una “digressione”; ora riprende l’argomento politico, piegando la storia secondo il fine dimostrativo che vuole dare a questa pagina, la cui forza e oggettività ideologica è rafforzata dal fatto che a pronunciarla sia proprio il fondatore della dinastia francese. Di me son nati i Filippi e i Luigi, afferma Ugo Capeto, che tanto male hanno fatto al mondo conosciuto.

Tre sono i peccati che Dante ascrive loro:

  • l’uccisione di Corradino di Svevia e la politica antimperialista che ha trascinato con sé, l’intervento della Chiesa nel gioco politico italiano, portandola ad una forte instabilità politica; 
  • il discesa a Firenze di Filippo il Bello, chiamato da Bonifacio VIII con la scusa di riportare la pace in Firenze ma in realtà per insediarci i Neri da cui deriverà l’esilio di Dante;
  • lo schiaffo di Anagni, nel 1303, contro cui l’emissario del re di Francia o un Colonna, che condivideva la politica francese, schiaffeggiarono Bonifacio VIII perché non voleva sottomettersi alla politica transalpina (vogliamo ricordare che subito dopo la morte di Bonifacio, la Chiesa, nel 1309, venne spostata ad Avignone) e la distruzione dell’ordina dei Templari (1307).

Non ci può sorprendere che Dante riprenda i re francesi di aver “schiaffeggiato” Bonifacio VIII, conoscendo l’opinione che il poeta fiorentino ha su tale pontefice: ma non è la persona che viene colpita, ma il ruolo che ricopre, che è pur sempre quello di vicario di Cristo in terra.

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Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville: Lo schiaffo di Sciarra Colonna

Abbandonando il re francese i due vengono sorpresi da un terremoto, accompagnato dal canto Gloria in excelsis Deo, che lascia i due pellegrini in uno stato di sospensione che sarà risolto solo nel canto seguente.

Canto XXI
V cornice (avari e prodighi)

La sete natural che mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia, 

mi travagliava, e pungeami la fretta
per la ’mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta. 
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca, 

ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 
dicendo: “O frati miei, Dio vi dea pace”.
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface. 

Poi cominciò: “Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l’etterno essilio”. 
“Come!”, diss’elli, e parte andavam forte:
“se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ ha per la sua scala tanto scorte?”. 
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni. 
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,

venendo sù, non potea venir sola,
però ch’al nostro modo non adocchia.
Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a’ suoi piè molli”.
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve; 
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade; 
secco vapor non surge più avante
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante. 
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ’n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai. 
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii”.
Così ne disse; e però ch’el si gode
tanto del ber quant’è grande la sete,
non saprei dir quant’el mi fece prode.
E ’l savio duca: “Omai veggio la rete
che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se’, ne le parole tue mi cappia”.
“Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond’uscì ’l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
era io di là”, rispuose quello spirto,
“famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l’Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz’essa non fermai peso di dramma.

E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando”.
Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ’Taci’;
ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne’ più veraci.
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;
e “Se tanto labore in bene assommi”,
disse, “perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?”.
Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e “Non aver paura”,
mi dice, “di parlar; ma parla e digli
quel ch’e’ dimanda con cotanta cura”.
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d’i dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.

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La sete naturale di sapere, che non si sazia mai se non bevendo l’acqua della verità divina, quella che la donna samaritana chiese a Gesù, mi tormentava e mi stimolava la fretta di seguire la mia guida lungo quella strada ostruita dalle anime, con le quali condividevo la sofferenza per la giusta punizione. Ed ecco che, proprio come nel vangelo Luca è scritto che Cristo apparve a due discepoli che erano in cammino, dopo essere risorto dal suo sepolcro, ci apparve all’ora un’ombra, che avanzava dietro a noi, mentre facevamo attenzione a non calpestare la folla di anime distese sulla via; ma non ci accorgemmo subito di lei, se non quando ci parlò, dicendoci: «Fratelli miei, possa Dio darvi la pace». Ci voltammo subito indietro e Virgilio le rese il cenno di saluto. Poi comincio a dire: «Possa concederti la pace nell’assemblea dei beati l’infallibile giudizio divino, che pone invece me in un eterno esilio». «Come è possibile?» disse all’ora l’anima, mentre tutti e tre camminavamo intanto in fretta: «Se voi siete anime indegne di salire fino a Dio, chi vi ha condotto così in alto sulla scala che conduce a lui?» Ed il mio maestro: «Se tu osservi i segni che costui porta sulla fronte, che vengono incisi dall’angelo custode, puoi ben capire che è giusto che lui faccia parte il regno dei buoni. Ma perché  colei che fila giorno e notte (Lachesi), non aveva ancora finito di filare tutta la lana della sua vita, che Cloto pone ed avvolge sulla rocca, (Atropo era la terza parca che recide il filo della vita) la sua anima, sorella mia e tua, nel suo salire non poteva procedere dal sola, senza una guida, non essendo in grado di percepire la realtà come possiamo noi puri spiriti. Per questo motivo fui chiamato fuori dalla profonda cavità infernale per mostrargli la via, e gli farò ancora da guida fin dove il mio insegnamento potrà condurlo. Ma spiegami, se lo sai, il motivo per cui ha tremato così tanto poco fa il monte, e perché all’unisono ha innalzato un grido fin dalla sua parte più bassa, immersa nel mare». Virgilio, ponendo questa domanda, colpì così bene nel segno il mio desiderio inespresso, che già solo con la speranza di essere soddisfatta la mia sete di sapere divenne meno intensa. Cominciò a rispondere quell’anima: «Non esiste cosa che la legge sacra della montagna faccia senza obbedire all’ordine divino, o che non sia per lei usuale. Questo luogo è immune da ogni perturbazione atmosferica: solo da ciò che il Cielo riceve in sé e produce da sé, non da altro, possono essere originate delle perturbazioni. Perciò né pioggia, né grandine o neve, né rugiada o brina può cadere sul monte al di sopra del punto in cui si trova la piccola scala di ingresso formata da tre soli gradini, ingresso del Purgatorio; non si vedono nuvole, né voluminose né tenui, non si vedono fulmini e neanche Iride, l’arcobaleno, figlia di Taumante, che nel mondo terreno cambia spesso luogo; il vapore secco non sale in cielo oltre il terzo, e più alto, dei tre gradini ai quali mi sono riferito, là dove tiene appoggiati i piedi il vicario di san Pietro, l’Angelo portiere del Purgatorio. Si verificano forse terremoti più o meno intensi al di sotto dei tre gradini; ma per il vento secco che resta chiuso nella terra, non so come, qua su non si verificarono mai dei terremoti. Qui i terremoti si verificano solo quando un’anima si sente ormai purificata, così da potersi alzare o muoversi per salire in Paradiso; ed il canto che hai potuto udire accompagna queste scosse della montagna. L’unica prova dell’avvenuta purificazione è la volontà, che, del tutto libero di cambiare luogo e compagnia, si impadronisce dell’anima e l’asseconda. Anche prima l’anima desidera salire, ma non glielo permette la volontà relativa, che la giustizia divina, contro la volontà assoluta (che tende a Dio), spinge verso la pena così come in vita la volontà relativa ha spinto l’anima a peccare. Ed io, che ho subito questa pena stando sdraiato per più di cinquecento anni, solo poco fa ho sentito la volontà, ora libera da impedimenti, di raggiungere una dimora più elevata: per tale motivo hai potuto sentire prima il terremoto e le anime buone ringraziare da ogni luogo del monte il Signore, pregandolo di farle salire presto fino a lui». Parlò così quell’anima; e poiché si ottiene tanta più soddisfazione dal bere quanto più si ha sete, non saprei esprimere a parole quanto mi fu gradito il suo discorso. Disse allora la mia saggia guida: «Comprendo ora quale sia l’impedimento che vi trattiene qui e come ve ne liberate, perché il monte tremi e per che motivo gioite tutte insieme. Ti piaccia però di rivelarmi ora anche chi sei stato nella vita terrena, ed il perché per così tanti secoli sei rimasto disteso qui me lo faccia capire le tue parole». «Nel tempo in cui il valoroso Tito, con l’aiuto di Dio, il supremo re, vendicò le ferite da cui uscì il sangue venduto per tre danari da Giuda, con il nome di poeta, che dona la fame più longeva e più grande», rispose a Virgilio quello spirito, «ero al mondo molto famoso, ma non avevo ancora la fede in Cristo. La mia poesia fu tanto armoniosa che, nato a Tolosa, fui chiamato a Roma, dove ottenni il merito di essere incoronato con le foglie di mirto. Nel mondo terreno sono ancora noto con il nome di Stazio: cantai la città di Tebe e scrissi poi dell’eroe Achille; ma morii mentre ero ancora intento a compiere questa seconda opera. Alimentarono il mio entusiasmo di poeta le scintille, ed anche mi scaldarono, di quella somma fiamma da cui furono accesi moltissimi poeti; sto parlando dell’Eneide, che fu per me come una madre e come una balia, nel campo della poesia: senza di essa non avrei fissato con la penna nulla che potesse avere il minimo peso. E per poter essere vissuto al mondo al tempo in cui visse Virgilio, sarei disposto ad uscire dal mio esilio in Purgatorio anche un anno oltre il dovuto». Queste ultime parole fecero volgere Virgilio verso di me con un atteggiamento tale che, senza bisogno di parole, mi diceva “Taci”; ma la volontà non può tutto; perché il riso ed il pianto seguono così rapidamente le passioni dalle quali hanno origine, da essere nelle persone più sincere molto poco assoggettate al controllo della volontà. Feci infatti un sorriso che fu come un cenno; perciò l’anima tacque e mi fissò quindi negli occhi, là dove si concentra maggiormente l’espressione del viso; e «Possa tu concludere bene la tua grande fatica», mi disse Stazio, «ma dimmi, perché il tuo viso è stato illuminato poco fa da un sorriso?» Mi trovo questo punto combattuto tra due fuochi: uno mi ordina di tacere, l’altro mi supplica di parlare; sospiro nell’indecisione, viene poi compresa la mia condizione dal mio maestro, che «Non avere paura», mi dice, «di parlare; ma parla pura e dagli la risposta che chiede con tanto interesse. Dissi io pertanto: «Se ti sei prima stupito, oh antico spirito, del fatto che io sorridessi; ma voglio adesso che tu abbia un motivo di maggiore meraviglia. Questa anima che mi guida verso l’alto è quel Virgilio dal quale tu hai assunto l’abilità poetica per cantare le vicende degli uomini e degli dei. Se hai creduto che fosse un altro il motivo del mio sorriso, lascialo ora perdere in quanto non vero, credi invece al fatto che la causa furono le parole che hai detto riguardo a lui». Stazio si era già inchinato per abbracciare i piedi del mio maestro, che però gli disse: «Fratello, non lo fare, perché sei uno spirito e davanti a te vedi un altro spirito.» Stazio, rialzandosi in piedi, rispose: «Puoi adesso comprendere l’intensità dell’amore che provo per te, per il fatto che mi fa dimenticare la nostra condizione incorporea, e tratto gli spiriti come fossero corpi solidi».

E’ il canto di Stazio, che proseguirà nel successivo, ma è, riprendendo il IV canto dell’Inferno, un nuovo tassello che il poeta fiorentino ci offrirà come testimonianza dei suoi amori letterari e dell’importanza che egli stesso afferma di possedere nei loro confronti.

Il XXI inizia laddove avevamo lasciato Dante, stupito da quel terremoto di cui cerca le ragioni e a spiegarlo, sopraggiunge un’anima alle loro spalle, che ancora non si rivela, ma afferma che il movimento terrestre che loro hanno sentito insieme al canto all’unisono di tutte le anime penitenziali sta ad indicare che una di loro viene accolta alla corte di Dio, cioè ascende in paradiso. Da qui il primo dubbio del lettore: non doveva l’anima percorrere l’intera montagna per espiare e quindi liberarsi definitivamente? Per questo personaggio, che afferma che la chiamata al cielo avviene quando l’anima si sente completamente libera dalla necessità che Dio le aveva imposto per espiare e che questo è avvenuto per lei dopo cinquecento anni, dobbiamo chiederci se tale “promozione” avviene all’improvviso o se sta percorrendo l’intera montagna per cui Dante lo incontra o ancora che, non avendo peccati ulteriori non deve necessariamente salire con fatica la cima del monte. Problema irrisolto, ma forse poco importa; più importante è certamente la figura di Stazio, che nel presentarsi mette prima il nome di poeta e quindi della poesia, poi circoscrive il tempo in cui è vissuto, nel tempo della Resurrezione di Cristo e della cacciata degli Ebrei da parte dell’imperatore Tito (in verità suo padre Vespasiano) e quindi pronuncia il suo nome e le opere per le quali è conosciuto la Tebaide – che Dante conosce assai bene – e l’Achilleide, non terminata per la sopraggiunta morte.

S’inserisce ora nella terza parte del canto un frammento che potremmo definire quasi “quotidiano”: Stazio afferma che l’ispirazione per il suo poema gliela ha offerta Virgilio con l’Eneide; Virgilio fa cenno a Dante di tacere, ma al Dante umano scappa un sorriso che viene quasi frainteso da Stazio stesso. Per evitare ciò la guida di Dante lo invita a chiarirsi e quindi lo stesso fa il nome del poeta latino, per cui l’autore della Tebaide si prostra ai suoi piedi per abbracciarlo, ma essendo pura materia il gesto non sarà che simbolico.

Canto XXII
VI cornice (golosi)

I tre poeti salgono insieme dal V al VI girone, con maggiore facilità, avendo Dante lavato man mano i peccati da lui incontrati fin qui. L’affetto di Stazio per Virgilio, mostrato alla fine del canto precedente, trova conferma dalle parole riferite al poeta mantovano da Giovenale, appena giunto nel Limbo. Tale sentimento spinge Virgilio a domandare del perché egli sia stato posto da Dio nel girone degli avari, ma Stazio nega che tale sia il suo peccato, e che, viceversa, egli sia macchiato del peccato inverso, la prodigalità. Ma è stato un verso dell’Eneide a riportarlo nella retta via. Quando era intento nella stesura della Tebaide, grazie ancora alle Egloghe virgiliane, la IV per esattezza, egli si convertì e ricevette il battesimo; ma non rese palese la nuova fede, non venendo meno, tuttavia, dall’aiutare i cristiani perseguitati. Per questo venne punito ed è stato punito, sino ad allora, per quattrocento anni. Quindi i tre poeti giungono alla VI cornice, dove vedono un grande albero dalle cui foglie sgorga un’acqua limpidissima, ma una voce li ammonisce di non bere né di nutrirsi. E’ il girone dei golosi. 

8f79c494179631ea2990af35925ba7ac.jpegCodice che illustra il canto XXII

Canto XXIII
VI girone (golosi)

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos’io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».
Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.

Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».
Ond’elli a me: «Sì tosto m’ ha condotto
a ber lo dolce assenzo d’i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna».

dante-forese-donati-purgatorio-divina-commedia-dorè-cult-stories.jpgDante incontra Forese

Già ero intento ad osservare che cosa fosse che li rendesse così affamati, perchè non mi era ancora chiaro il motivo della loro magrezza e della loro pelle squamosa, quando all’improvviso dal fondo di occhiaie scavate un’anima rivolse gli occhi verso me e mi guardò fissamente, poi a voce alta: «Che grazia è questa che mi viene offerta?». Non l’avrei certo riconosciuto dal volto, ma dalla sua voce mi rivelò ciò che l’aspetto mi aveva nascosto. Questo indizio mi riportò alla mente tutta la conoscenza di quel volto così mutato e riconobbi Forese. «Deh, non far caso alla secca pelle che m’impallidisce» pregava «né alla mia magrezza, ma dimmi la verità su di te, chi sono le due anime che ti fanno da scorta, non restare senza parlarmi!». Gli risposi: «La tua faccia, che io piansi già morta, ora mi fa piangere con non meno dolore per essere così tanto trasfigurata. Perciò dimmi, in nome di Dio, cos’è che vi consuma in tal modo. Non mi fare parlare mentre sono così stupito, perché la curiosità non soddisfatta potrebbe farmi parlare in modo svogliato». E lui a me: «Per l’eterna volontà divina, scende nell’albero e nell’acqua che sono rimaste alle spalle una virtù che ci fa dimagrire. Tutta questa gente che cantando il Miserere piangendo per aver secondato il piacere della gola eccessivamente e qui si purifica soffrendo la fame e la sete. L’odore che proviene dall’albero e dallo spruzzo d’acqua che come pioggia si sparge sulle foglie verdi suscita in noi il desiderio di bere e mangiare. E non solo una volta la nostra pena si rinnova mentre giriamo intorno alla cornice. Dico pena e dovrei dire gioia, perché ci conduce agli alberi quella stessa volontà che condusse Cristo a pronunciare Elì (o Dio) quando liberò l’uomo dal peccato originale con la sua morte». Ed io a lui: «Forese, da quel giorno i cui moristi per raggiungere un mondo migliore, non sono passati che cinque anni. Se la facoltà di peccare venne meno in te prima che giungesse in tuo soccorso l’ora del pentimento sincero che ci riconcilia con Dio (se ti sei pentito solo in punto di morte), come mai sei già giunto in questa cornice? Credevo di trovarti nella spiaggia dell’Antipurgatorio, dove al ritardo nel pentirsi corrisponde più tempo nell’espiazione.» E lui mi rispose: «Così presto mi ha condotto ad affrontare la lieta sofferenza della pena mia moglie Nella, con il suo continuo pianto Con le sue preghiere devoti e con i sospiri mi ha sottratto dal costone della montagna dove le anime attendono di essere ammesse alla purificazione e dalle pene delle altre cornici. Tanto è più cara e devota la mia vedovella a Dio, che amai molto, quanto è più sola nel comportarsi virtuosamente, che le donne della Sardegna centrale sono assai più pudiche della Barbagia in cui io la lasciai. Dolce fratello, cosa vuoi che io ti dica? Vedo già il tempo futuro, non così lontano da ora, durante il quale dal pulpito delle chiese sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine andare in giro mostrando il petto e le mammelle. Quali donne barbare, quali saracene, per cui fosse necessario, per farle andar coperte, stabilire sanzioni ecclesiastiche o civili? Ma se le donne svergognate sapessero con certezza quel che prepara il cielo contro di loro, già urlerebbero per il terrore, che se la capacità di prevedere non m’inganna, saranno rattristate prima che un bambino, ora consolato con la nanna, metta la barba». 

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E’ un canto che ci ricorda, almeno nell’incontro con l’anima di Forese, quello assai più famoso con Brunetto Latini nel canto XV dell’Inferno. In entrambi vi è incredulità, stupore quando incontrano l’anima vivente di Dante. “Qual meraviglia” dice il primo “Qual grazia m’è data” dice il secondo. Ad assimilarli c’è forse la stessa aria di dolce giovinezza condivisa con giovani cortesi che si dilettavano nel parlare d’amore. Ma se Brunetto Latini aveva insegnato a Dante “come l’uom si etterna“, con Forese se l’erano dette di tutti i colori nella famosa tenzone che si scambiarono: Dante dice a Forese che è un mezzo impotente e, vista la “leggerezza” della madre, non si sa nemmeno se sia suo figlio, Forese gli risponde che il padre è un uomo pieno di debiti tanto da vivere chiedendo la carità e che suo figlio, cioé Dante, gli somiglia tanto in quanto vigliacco e vendicativo verso chi richiama il dovuto a suo padre. Insomma non si era scambiati caramelline. Ma forse il tutto era un gioco all’interno della poesia comico-realista della fine del ‘200 ed inizio del ‘300. Ma qui Dante sembra fare ammenda, soprattutto quando fa una specie di apologia a Nella, moglie di Forese, uno dei suoi strali nella tenzone.

Il canto prosegue con la rivelazione a Forese del compito che Dio ha affidato Dante, chi sono le sue guide e chi sarà quando anch’esse cesseranno il loro compito. 

Canto XXIV
VI cornice (golosi)

Il canto inizia dove il precedente terminava: Dante e Forese continuano, come buoni amici, a parlare tra loro e così si viene a sapere che Piccarda, la sorella minore di Forese, sta tra i beati. Quindi questo mostra alcuni personaggi ai tre viandanti e li cita quasi passandoli in rassegna, tra essi vi è Bonagiunta Orbicciani, Ubaldino della Pila e Bonifacio dei Fieschi. Ma, tra essi, chi si mostra più voglioso di parlare è il primo, il poeta di Lucca: 

El mormorava; e non so che «Gentucca»
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
«O anima», diss’io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga».
«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”».
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.

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Egli mormorava: «Gentucca» sulla sua bocca, là dove lui sentiva più forte la pena della giustizia divina che così li scarna. «O anima», dissi io «che sembri così desiderosa di parlarmi, fatti capire meglio, e appaga me e te con il tuo dire». «E’ nata una donna, non ancora sposata», lui cominciò, che ti renderà gradita la mia città, nonostante le gente ne dica così male. tu andrai via da qui con questa previsione, e se il mio mormorare precedente ti ha fatto cadere in errore, i fatti reali ti chiariranno quanto detto. Ma dimmi se io qui vedo colui che iniziò una nuova poesia, a partire da “Donne che avete intelletto d’amore”. E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore lo ispira, annoto quello che mi dice e cerco di trascriverlo nel modo in cui lui me l’ho detta». «Fratello mio, adesso vedo l’impedimento che Giacomo da Lentini e Guittone d’Arezzo hanno trattenuto al di qua del dolce stile nuovo di cui ora sento parlare! Io vedo chiaramente come i vostri scritti seguono da vicino colui che l’ispira, l’Amore, che certo non avvenne nei nostri; e chiunque voglia procedere in modo più approfondito, non trova differenza tra lo stile dell’uno o dell’altro», e quasi soddisfatto, si tacque.
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E’ uno dei passi più importanti dell’intera Commedia alla luce della dichiarazione di poetica che qui Dante fa pronunciare da Bonagiunta. Infatti quest’ultimo non è certo il più importante fra i poeti siculi-toscani, ma è colui che certamente aveva capito e mostrato la differenza tra un “vecchio” ed un “nuovo” modo di poetare nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera. E’ quindi certamente il personaggio più adatto a discutere con Dante di “teoria letteraria”. Ma qui è importante fare una distinzione tra il Dante agens ed il Dante auctor e se è il primo che fa parlare a Bonagiunta è il secondo che mette in bocca allo stesso una propria poetica di cui lui è pienamente consapevole. Si parte infatti dalla Vita nuova ed esattamente dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, testo chiave in cui Dante inaugura la poesia “della loda”. Essa si ottiene ascoltando l’amore e facendosi quasi dettare da quest’ultimo le parole per farsi descrivere. Certo non s’intende con questo una poesia “spontanea”, anzi, al contrario, osservare “oggettivamente”, quasi “scientificamente” come l’amore ci possieda. Si tratta in ultima analisi d’osservare in modo più distaccato possibile la “fenomenologia dell’amore” e quindi la sua intellettualizzazione.

Dopo l’incontro con Bonagiunta, Dante e Forese continuano da buoni amici a discorrere (ci sorprende questa area fortemente tenera che i due instaurano, dopo essersene dette di tutti i colori nella tenzone ma, probabilmente, si trattava di un divertissement), domandandosi quando potrebbero incontrarsi e qui, Forese, parla dell’altro suo congiunto, Corso Donati, uno dei più violenti politici fiorentini del partito dei Neri, che è giù nell’Inferno, dopo esser stato trascinato da una coda di un cavallo (punizione data ai traditori). In seguito Forese si allontana e i tre pellegrini vedono un altro albero, il cui seme è lo stesso di quello del Paradiso terrestre; intorno ad esso i penitenti assetati. All’improvviso appare un angelo illuminato da un’abbagliante veste rossa. Invita i pellegrini a lasciare il cerchio e a salire al successivo e mentre lo dice Dante percepisce una lieve brezza che gli circonda il capo: è un’altra P che viene lavata. 

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Canto XXV
VII cornice (lussuriosi)

E’ questo un canto dottrinale, nato dalla volontà di capire da parte di Dante come possano le anime dei golosi dimagrire non essendo corpo, ma puri spiriti? Domanda assolutamente lecita, la cui risposta, non di Virgilio ma di Stazio (più addentro alle cose purgatoriali) sta tra il teologico e lo scientifico, tenendo ben presente che i due campi, nel medioevo, non erano affatto separati. Dapprima, dall’unione del seme maschile e ovulo femminile (che per Dante sono una parte pura e raffinata sanguigna) nasce l’anima vegetativa. Ad essa, nata quindi dall’unione sessuale, si aggiunge quella divina, che, attraverso la virtù celeste, offre l’anima intellettiva: da qui l’unicità dell’essere umano. Nella morte l’anima si scioglie dal corpo ed essendo dono di Dio sopravvive, rafforzando tuttavia, le sue capacità che aveva in vita (memoria, intelligenza, forza) che una volta libera la corcondano permettendo allo spirito di avere sensazioni come quando era in vita. I tre poeti camminano durante questa spiegazione fino a quando giungono ad una parete di fuoco. 

Canto XXVI
VII cornice (lussuriosi)

Mentre i tre poeti passano lungo il margine esterno della cornice, Virgilio avvisa Dante di stare attento perché il sole, colpendogli la spalla, irradiava chiarendo il colore del cielo, ma in parte rendeva più scuro il rosseggiare della parete infuocata, suscitando l’interesse delle anime che vi bruciavano dentro.

Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me, quanto potean farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo; 
ché tutti questi n’hanno maggior sete 
che d’acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com’è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora

di morte intrato dentro da la rete».

Questo fu il motivo che li spinse a parlare e cominciarono a dire: «Questo non sembra un corpo spirituale, cercarono di accertarsi, attenti a non uscire dalle fiamme: «O tu che vai, non per lentezza, ma forse per reverenza, dietro gli altri due, rispondimi, che ardo nella sete (di conoscere) e nel fuoco (per purgarmi). La tua risposta non è necessaria solo a me, che tutti questi  hanno una sete maggiore di quanti vivono in India o in Etiopia. Dicci com’è che tu impedisca al sole di passare, come se non fossi ancora caduto nella rete della morte»

Mentre un anima gli rivolgeva queste parole, Dante fu colpito da una schiera che al centro delle fiamme venne in senso contrario rispetto a coloro che con cui parlavo e incontrandosi si scambiavano un bacio dicendo uno “Sodoma e Gomorra” (omosessuali), e l’altro “Pasife entra nella vacca per soddisfare le voglie del toro” (eterosessuali); quindi tornavano indietro in senso opposto recitando esempi di castità. Quindi quelli che precedentemente avevano iniziato il discorso con Dante riprendono ad ascoltarlo:

e raccostansi a me, come davanti, 
essi medesmi che m’avean pregato, 
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe né mature 
le membra mie di là, ma son qui meco 
col sangue suo e con le sue giunture.   
Quinci sù vo per non esser più cieco; 
donna è di sopra che m’acquista grazia, 
per che ’l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba 
che se ne va di retro a’ vostri terghi».             
Non altrimenti stupido si turba 
lo montanaro, e rimirando ammuta, 
quando rozzo e salvatico s’inurba,
che ciascun’ombra fece in sua paruta; 
ma poi che furon di stupore scarche, 
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
«Beato te, che de le nostre marche», 
ricominciò colei che pria m’inchiese, 
«per morir meglio, esperienza imbarche!
La gente che non vien con noi, offese 
di ciò per che già Cesar, triunfando, 
‘Regina’ contra sé chiamar s’intese:  
però si parton ‘Soddoma’ gridando, 
rimproverando a sé, com’hai udito, 
e aiutan l’arsura vergognando.
Nostro peccato fu ermafrodito; 
ma perché non servammo umana legge, 
seguendo come bestie l’appetito,       
in obbrobrio di noi, per noi si legge, 
quando partinci, il nome di colei 
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei: 
se forse a nome vuo’ saper chi semo, 
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di me volere scemo: 
son Guido Guinizzelli; e già mi purgo 
per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
Quali ne la tristizia di Ligurgo 
si fer due figli a riveder la madre, 
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, 
quand’io odo nomar sé stesso il padre 
mio e de li altri miei miglior che mai 
rime d’amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai 
lunga fiata rimirando lui, 
né, per lo foco, in là più m’appressai. 
Poi che di riguardar pasciuto fui, 
tutto m’offersi pronto al suo servigio 
con l’affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, 
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, 
che Leté nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue parole or ver giuraro, 
dimmi che è cagion per che dimostri 
nel dire e nel guardar d’avermi caro».
E io a lui: «Li dolci detti vostri, 
che, quanto durerà l’uso moderno, 
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno 
col dito», e additò un spirto innanzi, 
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi 
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti 
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti, 
e così ferman sua oppinione 
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone, 
di grido in grido pur lui dando pregio, 
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio, 
che licito ti sia l’andare al chiostro 
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro, 
quanto bisogna a noi di questo mondo, 
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per dar luogo altrui secondo 
che presso avea, disparve per lo foco, 
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco, 
e dissi ch’al suo nome il mio disire 
apparecchiava grazioso loco.
El cominciò liberamente a dire: 
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s’ascose nel foco che li affina.

pg184_scaramuzza_purgatorio-xxvi_31-36.jpge come prima, si avvicinarono a me quelle stesse anime che mi avevano pregato di parlare, attenti nel loro atteggiamento ad ascoltarmi. Io, che per due volte avevo visto come costoro gradivano conoscere, cominciai: «O anime certe di raggiungere, quanto che sia, lo stato di pace eterna, le mie membra non sono rimaste giù in terra ne prematuramente né in età matura, ma sono qui com me con il loro sangue e con le loro articolazioni. Da qui salgo nel cielo per non essere più nelle tenebre dell’errore; c’è una donna più in alto che mi procura la grazia per poter condurre il mio corpo mortale nel vostro mondo. Ma possa il vostro maggiore desiderio presto addivenire, sicché possiate risiedere nel cielo che è pieno d’amore e che è infinito, ditemi, affinché lo scriva, chi siete voi e chi quella turba di anime che procede in direzione a voi opposta». Non diversamente si mostra stupito il montanaro e guardandosi attorno ammutolisce, quando rozzo e selvatico entra in città, allo stesso modo fecero all’apparenza quelle anime, ma dopo aver superato lo stupore, che negli spiriti superiori subito si smorza: «Beato te che delle nostre contrade», ricominciò colui che prima mi chiese di parlare «raccogli l’esperienza, per morire in grazia di Dio!». La gente che non cammina con noi, paga l’offesa di ciò che Cesare, durante il trionfo, si sentì rivolgersi contro l’epiteto di regina, per  questo si allontanano con il grido di Sodoma, rinfacciandosi il peccato al fine di accrescere la sete di espiazione con la vergogna. Il nostro peccato fu eterosessale, ma poiché non usammo la legge umana, ma seguimmo bestialmente l’appetito, quando partiamo da noi si dice, in vergogna di noi stessi, il nome di Pasife che si nascose in una bestia lignea (per unirsi con il toro). Ora conosci i nostri peccati e perché fummo colpevoli: se forse vuoi conoscere il nome delle anime che vi sono qui, non c’è abbastanza tempo e non lo conosco di tutte. Tuttavia di soddisferò del mio: sono Guido Guinizzelli, e qui mi purgo per essermi pentito prima della morte». Come nella disgrazia di Licurgo (che condannò a morte Isifile, per aver lasciato incustodito il figlio) corsero i due figli a vedere la madre (per salvarla), allo stesso modo io, ma non a giungere a tanto (gettarmi nel fuoco), quando sentii il nome di mio padre e dei compagni migliori di me, che in ogni tempo scrissero rime d’amore dolci ed eleganti; e in silenzio camminai per un bel po’ di tempo, osservandolo, non avvicinandomi più vicino a lui per il fuoco. Dopo averlo guardato, tutto mi offrii per accontentare ogni suo desiderio, con un giuramento che rende veritiero il mio dire. Ed egli a me: «Tu lasci una tale traccia, per quello che io sento, in me e tanto luminosa che il fiume Leté non potrà cancellare né oscurarla. Ma se le tue parole hanno detto il vero, dimmi qual è il motivo per cui dimostri nel parlare e nel guardarmi, di volermi così bene» E io a lui «I vostri scritti, che per quanto durerà la lingua volgare, renderanno graditi i codici in cui verranno vergati». «O fratello», disse «questo che io ti indico col dito» e mi mostrò uno spirito davanti a lui «fu il più grande artefice del suo volgare. Superò tutti nella poesia d’amore e nei romanzi cortesi, e lascia perdere gli sciocchi che antepongono a lui Giraut de Bornelh (nato nella regione del Lemosino). Danno retta più alla voce corrente che alla verità, e così formano la loro opinione prima d’ascoltare arte e la ragione. Così hanno fatto molti con Guittone, dandogli importanza di voce in voce, finché dal confronto con altri poeti, ha vinto la verità. Ora se tu hai un così grande privilegio di andare nel luogo dove è Cristo signore, recitagli per me un padrenostro, quanto è necessario a noi del purgatorio, dove non possiamo più peccare». Poi, forse per cedere il posto ad altri che gli erano vicini, sparì nel fuoco, allo stesso modo di un pesce in fondo all’acqua. Io mi diressi un poco più vicino alla persona indicata, e gli chiesi il suo nome che avrebbe ricevuto una gradita accoglienza. Ed egli così cominciò liberamente a dire: «Tanto mi piace la vostra gentile domanda, che io non voglio e non posso nascondermi a te. Io sono Arnaut (Daniel), che piango e vado cantando; afflitto vedo la passata follia, e vedo goioso davanti a me il giorno che aspetto con speranza. Quindi, vi prego, in nome di quella grazia che vi guida al sommo della scala purgatoriale, che al tempo opportuno vi sovvenga del mio dolore». Poi si nascose nel fuoco che purifica. 
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Questo canto costituisce quasi un dittico col precedente: ambedue sono dominati dal tema della poesia e sono i poeti, uno Bonagiunta Orbicciani, famoso per esser stato il tramite della definizione di dolce stil novo, questo, Guido Guinizzelli per esserne il padre: così lo definisce un Dante commosso. L’analisi poetica del canto XXV, diventa qui un’analisi delle fonti da cui essa nasce: se Guido ne è il primo, tutto tuttavia deriva dalla grande scuola provenzale. La derivazione dantesca è tanto più sottolineata dall’uso che lo stesso fa della lingua occitanica: certo non è sfoggio da parte di Dante mostrare la sua conoscenza linguistica, ma un vero e proprio omaggio di chi ha studiato e si è servito di della grande lezione di lingua, stile e contenuti che la poesia ed il romanzo cortese hanno avuto per la poesia italiana. 

Questo tema, così centrale ed importante per il percorso che sino ad allora aveva compiuto la poesia volgare, non ha nulla di astratto o, se si vuole, pedantesco: il tono che si respira è di dolcezza, di quella meravigliosa terzina in cui Guido Guinizzelli gli domanda del perché Dante gli voglia così bene. Si respira un’aurea di dolcezza, intimità di sentimenti che rende il canto elegiaco, elegia che si rafforza nei versi di Arnaut in lingua d’oc, vergati tutti in quella sospensione purgatoriale che li rene eterei.

Una cosa tuttavia ci lascia perplessi: la sorte degli omosessuali. Li avevano incontrati nel XV dell’Inferno sotto la pioggia infernale. Il loro peccato era derubricato tra i violenti, in questo caso verso natura. Che Dante abbia cambiato opinione su di loro, tanto da metterli nel Purgatorio? Non è certo una questione di personaggi: la parole che rivolge all’eterosessuale Guido (che tuttavia condivide la stessa pena, la lussuria) non sono diverse da quelle verso il maestro Brunetto Latini e ci mostra un Dante che non differenzia più l’amore omo o etero: qui rende punibili coloro che esercitarono il sesso con eccessivo impulso, senza ragione.   

Canto XXVII
VII cornice – Paradiso Terrestre 

E’ il tramonto: ecco un angelo di Dio, sul ciglio di una cornice che, con voce melodiosa intona “Beati i puri di cuore”, poi esorta i tre poeti ad attraversare il muro di fuoco. Dante è impaurito dal dover attraversare le fiamme e Virgilio lo rassicura, ricordando all’esitante Dante che dopo quel muro vi è Beatrice. Riconfortatolo entra tra le fiamme prima Virgilio, poi Dante e Stazio, dietro di lui. E pur vero che il poeta sente un calòore fortissimo, ma il poeta continua a ricordare lui la figura di Beatrice e così passano ino a trovare la scala per salire. Invitati da una voce i tre cominciano a salire, ma sparito il sole all’orizzonte si fermano su un gradino, Dante si addormenta sotto lo sguardo benevolo dei due poeti latini. Nel sonno appare una donna bella giovane camminare raccogliendo fiori, è Lia, personaggio biblico, con questi ha intenzione di adornarsi, mentre afferma che la sorella, Rachele è ferma a contemplare. Svanito il sogno e sollevatosi, Virgilio rivolge queste parole a Dante:

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William Blake: Canto XXVII

«Quel dolce pome che per tanti rami 
cercando va la cura de’ mortali, 
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me queste cotali 
parole usò; e mai non furo strenne 
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne 
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi 
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi 
fu corsa e fummo in su ‘l grado superno, 
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e l’etterno 
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte 
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; 
lo tuo piacere omai prendi per duce; 
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce; 
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli 
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli 
che, lagrimando, a te venir mi fenno, 
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno; 
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, 
e fallo fora non fare a suo senno: 
per ch’io te sovra te corono e mitrio».   

«Quel dolce frutto che l’affannosa sollecitudine dei mortali va cercando per tanti rami, oggi placherà i tuoi desideri». Virgilio, rivolto a me, pronunciò tali parole, e non ci furono mai doni augurali che procurassero piacere uguali a queste. un grande desiderio si aggiunse al desiderio di salire in alto, che ad ogni passo mi sentivo crescere la lena di salire. Non appena la scala fu salita tutta da parte nostra e ci trovammo nel gradino più alto, Virgilio mi guardò negli occhi e disse: «Figliolo, hai visto le punizioni temporanee e quelle eterne e sei giunto in in luogo in cui io non riesco più a distinguere oltre il mio cammino. Ti ho portato qui con i miei insegnamenti e gli aiuti, prendi ormai il tuo volere come guida, se fuori dalle vie erte, fuori sei da quelle strette. Vedi il sole che ti splende sulla fronte, vedi le erbette, i fiori, gli alberelli che qui la terra produce spontaneamente. Fino a che verranno gli occhi belli di Beatrice che, pieni di lacrime, mi portarono a soccorrerti, puoi sederti e metterti tra essi. Non aspettarti più una mia parola o un mio cenno; il tuo volere è libero (da ogni tentazione), indirizzato in maniera retta e sanato nella sua perfezione e sarebbe sbagliato non seguirlo: perciò sopra te stesso t’incorono e t’impongo la mitra». 

E’ il canto dove simbolismo e realismo si sposano in modo mirabile: il tramonto ed il sogno. Durante il tramonto Dante deve percorrere l’ultimo passo prima di raggiungere la perfezione spirituale, attraversare la barriera di fuoco. La bufera infernale ed il fuoco dei lussuriosi appaiono come i primi e gli ultimi ostacoli del poeta Dante coinvolto all’inizio del suo percorso dal peccato dell’amore corporeo e giunto, finalmente, a superare tale ultima barriera per raggiungere l’amore divino. E’ umana la paura, è umano il tentennamento e faticoso, ed il sole che tramonta all’orizzonte sembra quasi indicare l’ultima resistenza oscura nell’animo di Dante. Durante la notte, sotto gli occhi attenti delle due auctoritates, il poeta sogna la vita attiva e la vita contemplativa che si alleano per rinforzare la scelta giusta di Dante. Allora il cammino diventa più rapido per giungere infine in un paesaggio idillico di pace e serenità. E’ qui che Virgilio rivolge le ultime parole a Dante, perlomeno le ultime parole che la sua memoria (che non erra) registra. Sono parole di commiato e quasi malinconiche: ti ho portato fin qui con tutto me stesso, le mie parole e le mie azioni ti sono state di soccorso e di guida, ma ora non sono in grado di dirti o fare qualcosa per te. In ultima analisi, ti ho cresciuto spiritualmente, adesso cammina da solo. La malinconia pervade il passo ed il lettore, quest’ultimo sa con certezza che saranno le ultime.

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L’incoronazione di Dante da parte di Virgilio

Canto XXVIII
Paradiso Terrestre 

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E’ il canto del paradiso terrestre:

Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,
quand’Eolo scilocco fuor discioglie. 

Già m’avean trasportato i lenti passi 
dentro a la selva antica tanto, ch’io 
non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio, 
che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde 
piegava l’erba che ‘n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde, 
parrieno avere in sé mistura alcuna, 
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna 
sotto l’ombra perpetua, che mai 
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristretti e con li occhi passai 
di là dal fiumicello, per mirare 
la gran variazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’elli appare 
subitamente cosa che disvia 
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia 
e cantando e scegliendo fior da fiore 
ond’era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore 
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti 
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti», 
diss’io a lei, «verso questa rivera, 
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era 
Proserpina nel tempo che perdette 
la madre lei, ed ella primavera».

Una brezza dolce e regolare mi colpiva la fronte, non più forte di un dolce vento; a causa di essa le fronde, tremolando, si piegavano tutte verso la parte (a occidente) in cui il santo monte proietta la prima ombra; tuttavia non si piegavano tanto che gli uccellini, sui rami, cessassero di adoperare ogni loro arte (di cantare); ma con piena gioia, cantando, accoglievano le prime ore del giorno tra le foglie, che facevano accompagnamento ai loro canti, proprio come avviene di ramo in ramo nella pineta sul lido di Classe, quando Eolo scioglie il vento di scirocco. Ormai i lenti passi mi avevano trasportato dentro l’antica selva al punto che non potevo più vedere da dove ero entrato; ed ecco che mi impedì di procedere oltre un fiumicello (il Lete), che con le sue piccole onde piegava verso sinistra l’erba che cresceva sulla sua sponda. Tutte le acque che sulla Terra sono più pure, sembrerebbero sporche e fangose a paragone di quella, che non nasconde nulla, anche se scorre scura sotto quell’ombra perpetua, che non lascia mai filtrare i raggi del sole o della luna. Arrestai il passo e spinsi lo sguardo al di là del fiumicello, per osservare la gran varietà dei rami fioriti; e là mi apparve, come appare all’improvviso una cosa che, destando meraviglia, distoglie da ogni altro pensiero, una donna che se ne andava tutta sola, e mentre cantava coglieva i fiori di cui era cosparso il suo cammino. «Orsù, bella donna, che sei riscaldata dall’amore, se voglio credere all’aspetto che di solito è specchio fedele dei sentimenti, abbi la compiacenza di farti un poco avanti, verso questo fiume, così che io possa capire che cosa stai cantando. Tu mi fai ricordare dove si trovava e come era Proserpina, nel momento in cui la madre la perse, e lei l’eterna primavera (o i fiori che aveva raccolto)».

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E’ certamente questo uno dei momenti in cui poesia e simbologia si sposano in modo mirabile. Ci troviamo infatti in un locus amoenus,, nell’Eden cristiano, opposto alla “selva selvaggia”, su cui una donna dalle fattezze stilnovistiche, cogliendo fiori, invita alla pace e alla serenità. Vi è infatti in lei, di cui ancora non sappiamo il nome, una qualità salvifica: fra lei e i poeti vi è un fiume, il cui passaggio per il momento è interdetto.

Nel proseguo del canto, rispondendo, la donna chiarisce un dubbio che al poeta era venuto sentendo Stazio, che gli aveva detto che al di là della porta purgatoriale non potevano esserci fenomeni naturali o metereologici. Ella afferma infatti che qui, in quanto ancora partecipe dell’aria vivificante creata grazie al movimento dei cieli, sin dal primo mobile, è stato normale che vi fosse vita, tutta la vita, come anticipazione delle perfezione paradisiaca. Infatti qui è eterna primavera ed il fiume che scorre dalla fonte è il Letè che conduce all’oblio, l’altro che scorre in modo contrario è l’Eunoè colui che fa riacquistare la memoria delle cose belle e non si ottiene questo se non si è gustata l’acqua di entrabi i fiumi. La donna conclude affermando che questo Eden non è nient’altro che il Parnaso, cantato dai poeti classici. A tale affermazione Dante si volta e sorride ai due poeti.

Canto XXIX
Paradiso Terrestre 

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William Blake: Canto XXIX

Il canto continua quello precedente e la donna va verso la fonte, seguita, nell’opposta riva dai poeti. Giunti si volgono a guardare la santa processione: dapprima sfilano sette candelabri  luminosi (simbolo dei sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio), seguono ventiquattro anziani che innalzano, cantando le lodi dio (simbolo dei libri della Bibbia), ancora quattro animali, coronati di alloro con sei ali piene di occhi (simbolo dei Vangeli) . In mezzo ad essi sta il carro trionfante trainato da un grifone con ali gigantesche (simbolo della Chiesa): a fianco alla ruota destra danzano tre donne (virtù teologali) a quella sinistra quattro (virtù cardinali). Dietro loro altri vecchi: San Luca, autore degli Atti degli Apostoli, San Paolo, delle Epistole; i santi Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, autori delle Epistole Canoniche, san Giovanni, autore dell’Apocalisse. Quando la processione giunge davanti al poeta si sente un tuono e quindi si arresta.

Canto XXX
Paradiso Terrestre 

Quando il settentrion del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto 
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascun accorto
di suo dover, come ‘l più basso face
qual temon gira per venire a porto, 
fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ‘l grifone ed esso, 
al carro volse sé come a sua pace; 
e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano’ cantando 
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna, 
la revestita voce alleluiando, 
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis
ministri e messaggier di vita etterna. 
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’, 
e fior gittando e di sopra e dintorno, 
Manibus, oh, date lilia plenis!’. 
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte oriental tutta rosata, 
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata, 
sì che per temperanza di vapori 
l’occhio la sostenea lunga fiata: 
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva 
e ricadeva in giù dentro e di fori, 
sovra candido vel cinta d’uliva 
donna m’apparve, sotto verde manto 
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza 
non era di stupor, tremando, affranto, 
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse, 
d’antico amor sentì la gran potenza. 
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto 
prima ch’io fuor di puerizia fosse, 
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma 
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi: 
conosco i segni de l’antica fiamma’. 
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre, 
Virgilio a cui per mia salute die’mi;  
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada, 
che, lagrimando, non tornasser atre. 
«Dante, perché Virgilio se ne vada, 
non pianger anco, non pianger ancora; 
ché pianger ti conven per altra spada». 
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra 
per li altri legni, e a ben far l’incora; 
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio, 
che di necessità qui si registra, 
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa, 
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
Tutto che ‘l vel che le scendea di testa, 
cerchiato de le fronde di Minerva, 
non la lasciasse parer manifesta, 
regalmente ne l’atto ancor proterva
continuò come colui che dice 
e ‘l più caldo parlar dietro reserva: 
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte? 
non sapei tu che qui è l’uom felice?». 
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, 
tanta vergogna mi gravò la fronte.  
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro 
sente il sapor de la pietade acerba. 
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’; 
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
Sì come neve tra le vive travi 
per lo dosso d’Italia si congela, 
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri, 
sì che par foco fonder la candela; 
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ‘l cantar di quei che notan sempre 
dietro a le note de li etterni giri; 
ma poi che ‘ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto 
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,  
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia 
de la bocca e de li occhi uscì del petto. 
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie 
volse le sue parole così poscia: 
«Voi vigilate ne l’etterno die, 
sì che notte né sonno a voi non fura 
passo che faccia il secol per sue vie; 
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne, 
perché sia colpa e duol d’una misura. 
Non pur per ovra de le rote magne, 
che drizzan ciascun seme ad alcun fine 
secondo che le stelle son compagne, 
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova, 
che nostre viste là non van vicine, 
questi fu tal ne la sua vita nova
virtualmente, ch’ogne abito destro 
fatto averebbe in lui mirabil prova. 
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ‘l terren col mal seme e non cólto, 
quant’elli ha più di buon vigor terrestro. 
Alcun tempo il sostenni col mio volto: 
mostrando li occhi giovanetti a lui, 
meco il menava in dritta parte vòlto. 
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita, 
questi si tolse a me, e diessi altrui. 
Quando di carne a spirto era salita 
e bellezza e virtù cresciuta m’era, 
fu’ io a lui men cara e men gradita; 
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false, 
che nulla promession rendono intera.
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti 
lo rivocai; sì poco a lui ne calse! 
Tanto giù cadde, che tutti argomenti 
a la salute sua eran già corti, 
fuor che mostrarli le perdute genti. 
Per questo visitai l’uscio d’i morti
e a colui che l’ha qua sù condotto, 
li prieghi miei, piangendo, furon porti. 
Alto fato di Dio sarebbe rotto, 
se Leté si passasse e tal vivanda 
fosse gustata sanza alcuno scotto 
di pentimento che lagrime spanda».  

Quando la costellazione formata da sette stelle dell’Empireo (i candelabri), che non ha mai conosciuto alba o tramonto, né è mai stata offuscata da nebbia se non quella del peccato, e che lì indicava a ciascuno il suo dovere, proprio come l’Orsa Maggiore indica la via a chiunque gira il timone per giungere in porto, si fermò, la gente santa (i ventiquattro vecchi) che era venuta tra essa e il grifone si voltò verso il carro, come alla sua pace; e uno dei vecchi, come se fosse un inviato del cielo, gridò cantando per tre volte ‘Vieni, sposa, dal Libano’, seguito da tutti gli altri. Come i beati risorgeranno solleciti all’ultima chiamata (il Giorno del Giudizio), ognuno dalla sua tomba, cantando alleluia con la voce proveniente dal corpo di cui si saranno rivestiti, così sul carro divino si alzarono cento ministri e messaggeri di vita eterna (angeli), in risposta alla voce di un vecchio tanto autorevole. Tutti dicevano: ‘Benedetto tu che vieni!’, e, gettando fiori in alto e tutt’intorno, aggiungevano: ‘Oh, spargete gigli a piene mani!’ Io ho già visto all’inizio del giorno la parte orientale tutta di colore roseo, e il resto del cielo adornato da un bel colore sereno; e ho visto il sole nascere dietro un velo, così che l’occhio poteva fissarlo a lungo grazie a spessi vapori che lo temperavano: allo stesso modo, dentro la nuvola di fiori che saliva dalle mani degli angeli e ricadeva in basso dentro il carro e di fuori, mi apparve una donna che indossava un velo bianco ed era incoronata di ulivo, sotto un verde mantello e vestita di colore rosso fiammante. E il mio spirito, che era stato già tanto tempo senza tremare, colpito dallo stupore per la sua presenza, anche senza vederla con gli occhi, grazie a una virtù nascosta che mosse da lei, sentì la grande potenza di un antico amore. Non appena la mia vista fu colpita dall’alta virtù amorosa che già mi aveva trafitto prima che io uscissi dalla fanciullezza (quando avevo nove anni), mi voltai a sinistra con l’ansia con cui il bambino corre dalla mamma, quando ha paura o è turbato da qualcosa, per dire a Virgilio: ‘Non mi è rimasta neppure una goccia di sangue che non tremi: conosco i segni dell’antica fiamma amorosa’. Ma Virgilio ci aveva lasciati privi di sé, Virgilio, dolcissimo padre, Virgilio, al quale mi affidai per la mia salvezza; e tutto ciò (l’Eden) che perse l’antica madre (Eva) non impedì alle mie guance pulite dalla rugiada di tornare sporche per il mio pianto. «Dante, per il fatto che Virgilio se ne sia andato non piangere così presto, non piangere ancora, poiché dovrai piangere per altri motivi». E come un ammiraglio che a poppa e a prora va a sorvegliare i marinai che governano le altre navi, e li sprona a far bene; così io vidi sul fianco sinistro del carro, quando mi voltai al suono del mio nome che sono costretto a citare in questi versi, la donna che prima mi era apparsa velata dai fiori gettati dagli angeli, che fissava lo sguardo verso di me al di qua del fiume (Lete). Anche se il velo che le scendeva sulla testa, coronato dalle fronde di Minerva (ulivo), non permetteva di vederla in viso, ancora regalmente altera nel suo atteggiamento continuò, come colui che parla e riserva gli argomenti più efficaci per la fine del discorso: «Guarda bene qui! Sì, sono proprio io, sono proprio Beatrice! Come hai osato accedere al Paradiso Terrestre? Non sapevi che questa è la sede dell’uomo felice?» Gli occhi mi caddero giù nelle acque chiare del fiume; ma vedendo la mia immagine riflessa, li volsi all’erba perché una grande vergogna mi fece chinare la fronte. Come la madre sembra superba al figlio, così lei sembrava a me; infatti l’affetto che si manifesta col rimprovero ha un sapore amaro. La donna tacque; e gli angeli cantarono subito ‘In te, o Signore, ho riposto la mia speranza’, ma non andarono oltre il versetto che dice ‘I miei piedi’. Come la neve si ghiaccia tra gli alberi dell’Appennino, colpita dai venti freddi della Schiavonia, poi, liquefatta, si scioglie poco a poco, non appena l’Africa manda i suoi venti caldi, così che sembra una candela sciolta dal fuoco; allo stesso modo io fui senza lacrime e sospiri, prima del canto di quelli (gli angeli) che cantano sempre dietro l’armonia delle ruote celesti; ma dopo che sentii nelle loro dolci melodie che mi compativano, come se avessero detto: ‘Donna, perché lo avvilisci in tal modo?’, il gelo che mi si era stretto intorno al cuore si trasformò in acqua e fiato, e uscì fuori dalla bocca e dagli occhi con angoscia. Beatrice, sempre stando ferma sul fianco sinistro del carro, rivolse poi le sue parole a quelle creature devote (gli angeli): «Voi vegliate nell’eterna luce di Dio, così che né la notte né il sonno vi sottraggono alcun passo che il mondo compie nelle sue vie (sapete tutto ciò che accade sulla Terra); perciò la mia risposta ha lo scopo di farsi sentire da colui che piange al di là del fiume, perché il dolore sia commisurato alla colpa. Non solo grazie all’influenza dei Cieli, che indirizzano ciascun essere al suo fine secondo la virtù della stella che presiede alla sua nascita, ma anche per la generosità della grazia divina, che piove da nubi così alte che la nostra vista non può neppure avvicinarsi, questi (Dante) nella sua gioventù ebbe tali virtù in potenza che in lui ogni buona attitudine avrebbe portato a straordinari risultati. Ma un terreno si fa tanto più cattivo e selvatico, con cattive sementi e quando non è coltivato, quanto più esso è dotato di fertilità naturale. Per qualche tempo sostenni Dante col mio volto: mostrandogli i miei occhi giovani, lo conducevo con me sulla retta strada. Ma non appena io fui sulla soglia della mia giovinezza e cambiai vita (morii), questi tradì la mia memoria e si diede ad altre donne. Quando mi ero trasformata da carne a spirito e la mia bellezza e virtù erano accresciute, io gli fui meno cara e meno gradita; e rivolse i suoi passi per una via fallace, seguendo false immagini di bene, che non mantengono nessuna promessa fatta. Non mi servì ottenere dal Cielo buona ispirazione, con cui lo richiamai in sogno e in altro modo; a lui importò così poco! Cadde tanto in basso, che ormai ogni mezzo per salvarlo era inefficace, salvo che mostrargli le genti perdute (i dannati). Per questo visitai la soglia dell’Inferno (il Limbo) e rivolsi, piangendo, le mie preghiere a colui (Virgilio) che l’ha portato fin quassù. L’alta volontà di Dio sarebbe infranta se Dante superasse il Lete e gustasse una tale vivanda (bevesse l’acqua del fiume) senza provare un pentimento tale da fargli versare lacrime».

Il  canto si apre con due sublimi sequenze: la prima ad indicare le sette stelle  dell’Empireo, che non conobbero mai né alba né tramonto, le quali hanno mostrato agli espianti sempre il cammino da seguire (e semmai furono velate è per le colpe degli uomini), l’altro è il richiamo al giorno del Giudizio Universale, visto che questo è l’Eden primigenio, dove l’uomo viveva prima di commettere il peccato originale. Tale incipit solenne è anticipatore dell’arrivo di Beatrice la cui vista, per il poeta, lo fa riprovare l’antico amore che ha provato per lei.

Tale tempesta sentimentale Dante la vorrebbe condividere con l’antica guida (usando anche le stesse parole che Virgilio fa pronunciare a Didone riguardo Enea), ma voltatosi, si rende conto che è sparita. Il dolore per la sua perdita è grande, ma Beatrice, severamente, lo ammonisce di versare lacrime per i suoi peccati e non per l’abbandono del poeta latino.

La Beatrice che qui rimprovera Dante è una donna altezzosa, severa, non incline a nessuna comprensione verso il vecchio amato, che chiama per nome Dante, nome che viene menzionato per la prima ed ultima volta nel poema sacro, ad indicare tuttavia una certa intimità. Quindi passa in rassegna come lo scrittore fiorentino fosse ancora “virtuoso” quando s’innamorò di lei, ma, a seguito delle sua morte, percorse altre vie (quelle filosofiche) che lo condussero nel peccato, tanto da dover intercedere per lui.

Dante piange sentendosi aspramente rimproverato, ma saranno gli angeli ad intercedere per lui: ma se Beatrice fa ciò è per condurre Dante ad un pieno pentimento. Solo dopo potrà immergersi nel Lete.

Canto XXXI
Paradiso Terrestre 

Senza soluzione di continuità il canto prosegue con la requisitoria di Beatrice contro Dante, rimproverandogli di non aver seguito il vero bene, e una volta che lei perse il bel corpo, egli abbia rivolto “le penne in giuso / ad aspettar più colpo, o pargoletta / o altra novità con sì breve uso“, portando così le accuse su un fatti più personali; a queste accuse  Dante risponde a monosillabi, piegato dalla “verità”, necessaria a quella contritio cordis, e alla confessio oris, cui seguirà la satisfactio operis, cioè al rituale della purificazione. Infatti a seguito delle crude parole di Beatrice il nostro, dopo aver espresso il pentimento con il pianto, sviene e si risveglierà tra le braccia di Matelda: 

Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch’io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto m’avea nel fiume infin la gola, 
e tirandosi me dietro sen giva 
sovresso l’acqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva,
‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse 
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.

Poi quando il cuore mi permise di riprendere i sensi, Matilde, che avevo dapprima trovata sola, vidi sopra di me e diceva: «Tieniti a me, tieniti a me». Mi aveva immerso nel fiume sino al collo  e trascinandomi dietro sé se ne andava nell’acqua come una piccola nave. Quando fui vicino alla riva opposta, udii cantare così dolcemente, il cui ricordo è ora vago e difficile da scrivere. La bella donna aprì le braccia e mi abbracciò la testa e mi sommerse per cui fu naturale che i ne inghiottissi. quindi mi sollevò e, completamente bagnato mi offrì alla danza di quattro belle donne, e ciascuna di esse mi coprì con il braccio. 

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E’ questo il rito del bagno del fiume Leté, da cui Dante ne esce purificato e accompagnato dalle quattro donne, che rappresentano le virtù teologali e in seguito da altre tre (virtù teologali) potrà finalmente quasi entrare nel mistero della divinità: esso apparirà nello sguardo di Beatrice, dove apparirà la trasmutazione del grifone, ma riflettendosi nei suoi occhi rimarrà se stesso. E la poesia dantesca entrerà, in modo più diretto, a cantare l’ineffabile:

O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

O splendore della viva luce di Dio, quale poeta consumato all’ombra sotto l’ombra della poesia ed ha il possesso delle qualità poetiche che non apparirebbe avere la mente impedita tentando di rappresentarti come tu apparisti là dove il cielo nella sua unitaria armonia ti raffigura quando ti mostrasti nell’aria pura?

Canto XXXII
Paradiso Terrestre

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Si ritorna alla processione sacra: si giunge ad un albero spoglio, l’albero della scienza del bene e del male che Dio stesso mise nell’Eden; qui verrà legato il carro guidato dal grifone e ciò lo porterà a rinverdire (qui l’allegoria vuole l’albero dapprima inaridito dal peccato dell’uomo e quindi fatto riprendere dalla funzione salvifica della Chiesa). Rapito dal canto, Dante si addormenta e non vede più il grifone che è volato in alto (il grifone, simbolo di Cristo, è ora in cielo), mentre Beatrice rimane a guardia del carro  (simbolo della Chiesa). Ma questa viene insidiata dal male, dapprima un’aquila che la squassa (simbolo dell’Impero in lotta con la Chiesa), quindi una volpe che verrà cacciata da Beatrice, poi ancora l’aquila che lascia penne sul carro (la donazione di Costantino). Subentra in seguito un drago che infilza la coda avvelenata all’interno del carro (gli scismi che spaccano la Chiesa). Quindi il carro viene riempito completamente dalle penne dell’aquila e da loro sbucano quattro teste (rappresentanti i sette peccati capitali). Alla fine nel carro compare una puttana che amoreggia con un gigante e che la trascina nel mezzo del bosco (la Chiesa che si è prostituita ormai ai poteri mondani). 

William Blake - The Harlot and the Giant illustration to Canto 32 of Purgato - (MeisterDrucke-576894).jpgWilliam Blake: Il gigante e la prostituta

Canto XXXIII
Paradiso Terrestre 

Il canto inizia con le Virtù che commiserano la triste fine della Chiesa, che verranno confortate da Beatrice, che preannuncerà loro una rigenerazione non lontana. Quindi inizia l’ultimo percorso:

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Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
Sì com’io fui, com’io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t’attenti
a domandarmi omai venendo meco?».
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna.
Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.
Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ’l morso in sé punio.
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.
Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta?».
«Perché conoschi», disse, «quella scuola
c’ hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
«E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo foco s’argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
«O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l’acqua di Letè non gliel nascose».
E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.

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Con questa compagnia si incamminò; e non credo che avesse ancora poggiato a terra il decimo passo, quando con il suo sguardo colpì il mio sguardo; e, con espressione serena del volto, «Vieni più vicino» mi disse, «così che, se io mi rivolgo a te, tu sia nella condizione ideale per ascoltarmi.» Non appena mi fui avvicinato a lei, com’era mio dovere, mi disse: «Fratello, perché non provi a porgermi qualche domanda, ora che cammini insieme a me?» Come accade a coloro che, troppo reverenti, quando si trovano dinnanzi ad un loro superiore e devono parlargli, non riescono a farlo con voce chiara, lo stesso modo accadde a me, e con voce strozzata incominciai a dire: «Mia signora, le mie esigenze voi le conoscete, e conoscete anche ciò che serve per soddisfarle.» Mi rispose Beatrice: «Dal timore e dalla vergogna voglio tu ti liberi adesso, così da smettere di parlare in modo confuso, come un uomo che dorme. Sappi che il carro (la Chiesa) che è stato squarciato dal drago (corrotto), è stato, ma non è più; ma chi ne ha la colpa, sappia che la vendetta, la giustizia di Dio, non può essere evitata. Non rimarrà ancora per tanto tempo senza erede l’aquila (impero) che lasciò le sue penne al carro (poteri alla Chiesa), divenendo così un mostro e quindi preda del gigante (la Francia); perché io vedo con certezza, è quindi lo dico, che si avvicina ormai una costellazione favorevole, protetta da ogni impedimento e da ogni ritardo, inevitabile, con i favori della quale, qualcuno (DXV) mandato da Dio ucciderà la ladra (la Chiesa) insieme a quel gigante che con lei commette peccati. Ma forse le mie dichiarazioni, poco comprensibili, simili alle profezie dei Temi e della Sfinge, ti convincono poco, perché a loro modo confondono la mente; ma presto saranno i fatti a rendere chiari questi complessi enigmi, senza provocare alcun danno. Prendi nota delle mie parole; e così come io le ho dette a te, allo stesso modo tu dovrai farle conoscere ai vivi, che vivono una esistenza mortale, destinata alla morte. E ricordati bene, quando le trascriverai, di non tralasciare di raccontare della pianta (la conoscenza) che hai visto essere stata per due volte spogliata, depredata. Chiunque la saccheggi o la danneggi, offende di fatto Dio commettendo un atto sacrilego, perché fu creata da Dio per suo uso, per non essere toccata. Per aver voluto mordere un suo frutto, soffrendo il rimorso e la lontananza di Dio, per più di cinquemila anni la prima anima, Adamo, desiderò la venuta di Gesù Cristo, colui che con il proprio sacrificio punì il peccato originale. La tua intelligenza è assopita se non riesce a comprendere che c’è un motivo straordinario per cui questa pianta è tanto alta e ha la cima capovolta, è più larga in punta che alla sua base. E se i tuoi inutili pensieri, le tue speculazioni razionali, non avessero incrostato la tua mente, come fa l’acqua del fiume Elsa, ed il loro fascino non avesse avuto su di te l’effetto del sangue di Priamo sul frutto del gelso, solo attraverso tutti questi indizi sapresti riconoscere nell’albero, nel divieto di toccarlo, il simbolo del senso morale della giustizia di Dio. Ma poiché vedo che la tua mente è divenuta dura come pietra e quindi, così pietrificata, anche offuscata, tanto che la luce, la chiarezza delle mie parole ti abbaglia, voglio che tu porti, se non proprio inciso con le parole, almeno dipinto in te, il ricordo delle mie parole, per lo stesso motivo per cui al ritorno dalla Terrasanta si porta un bastone ornato di foglie di palma.» Dissi allora io: «Proprio come una cera da sigillo a cui non si può cambiare la figura che le è stata impressa, le vostre parole sono state adesso incise nella mia memoria. Ma poiché è molto al di sopra dalla mia capacità di comprensione il senso delle vostre parole, tanto da me desiderate, vi chiedo: perché tanto più mi sforzo di afferrare il senso, tanto più lo perdo?» Disse: «Perché tu possa renderti conto di quanto poco la scuola che hai seguito, e la sua scienza, possano comprendere le mie parole; e perché tu possa vedere che è tanto lontana da Dio la via da voi seguita, quanto dista dalla terra il cielo più alto e che ruota più velocemente.» Le risposi allora: «Non ricordo di essermi mai allontanato dalla vostra via, né provo alcun rimorso per un simile errore.» «Se non riesci a ricordarti di questo errore», rispose sorridendo Beatrice, «ricordati almeno che oggi hai bevuto l’acqua del fiume Lete, che cancella la memoria dei propri peccati; e se è vero che il fumo è indizio della presenza del fuoco, questa tua dimenticanza dimostra chiaramente che peccavi, rivolgendo i tuoi desideri verso altri beni. Ma d’ora in avanti saranno per te più chiare le mie parole, poiché sarà necessario renderle tali alla tua mente rozza.» Il sole, più incandescente e più lento nei suoi movimenti, occupava ormai la posizione corrispondente a mezzogiorno, che si sposta da una parte o all’altre a seconda di come la guardi, quando, così come si ferma all’improvviso chi procede davanti a qualcuno facendogli da guida, se trova qualche novità e qualche traccia di essa, si fermarono di colpo le sette donne al margine di una ombra pallida, simile a quella che, sotto a verdi foglie e rami neri, è possibile trovare in montagna al di sopra dei freddi ruscelli. Davanti a loro mi sembrò di vedere i fiumi Tigri ed Eufrate sgorgare da una sola sorgente, e, come fanno due amici, allontanarsi lentamente l’uno dall’altro. «Oh luce e gloria dell’umanità, che fiume è questo che viene qui alla luce da una unica sorgente, per poi allontanarsi da sé stesso, dividendosi in due?» A questa mia preghiera mi fu data la risposta: «Chiedi a Matelda ti dirtelo.» E mi rispose, con il tono di che cerca di discolparsi, la bella donna Matelda: «Gli ho già spiegato questa ed altre cose; e sono anche sicura che l’acqua del fiume Lete non gliele ha fatte dimenticare.» Disse allora Beatrice: «Forse una preoccupazione maggiore, che può capitare spesso possa ridurre la capacità di memoria, gli ha oscurato il ricordo di ciò che ora vede con gli occhi. Ma vedi il fiume Eunoé che scorre di là: conducilo ad esso, e come sei abituata a fare, ravviva la sua memoria indebolita.» Come una anima nobile, che non cerca scuse, ma al contrario fa propria la volontà altrui, non appena questa viene espressa; così, dopo avermi preso per mano, la bella donna subito si mise in viaggio, e a Stazio disse con signorilità: «Vieni anche tu con lui.» Caro lettore, anche se avessi un spazio maggiore su cui scrivere, riuscirei solo in parte ad esprimere il dolce sapore di quell’acqua, di cui non mi sarei mai saziato; ma poiché sono ormai tutti pieni i fogli che avevo preparato per scrivere questa seconda cantica, il limite di spazio, freno dell’arte, non mi lascia proseguire oltre. Riemersi da quell’acqua sacra ringiovanito, come fossi una giovane pianta rinnovata da giovani fronde, purificato e finalmente pronto per salire fino alle stelle.

Katerina Machytkovà.jpgKaterina Machytkovà: Lettura del XXXIII del Purgatorio

Beatrice da donna rimproverante ora si fa guida, compagna del pellegrino, rivolgendosi a lui con il termine “frate” fratello ed e in questo “nuovo” ruolo che ammonisce Dante sul destino della Chiesa, e come essa ora abbia bisogno di un nuovo restauratore, di contro a coloro che l’hanno distrutta e mercificata. Si è che questo nuovo restauratore profetizzato appartiene ad una simbologia incomprensibile, in quando indicato con dei numeri che, sebbene disposti in modo diverso, dovrebbero dare come soluzione DUX. Che sia esso l’imperatore Arrigo VII su cui Dante nutriva speranze, oppure Cangrande della Scala? Dante chiude il Purgatorio così come aveva iniziato l’Inferno, in quest’ultimo il veltro, ora il DXV.

Quindi si riprende il cammino, le sette donne (virtù), Beatrice, Matelda, Dante e Stazio; giungono ad una fonte e Beatrice invita Matelda a compiere l’ultimo rito, quello del bagno dell’Eunoé, che permettono al nostro di purificarsi a tal punto da poter affrontare l’ultimo percorso, quello paradisiaco.

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Salvator Dalì: Dante purificato

Ma troviamo qui già qualcosa che ce lo richiama, l’ineffabilità del poter dire: le parole di Beatrice volano troppo alte per la comprensione di Dante. Le risposte potrebbero esser due:

  1. la conoscenza fino adesso seguita si basava sul “falso imaginar” senza l’aiuto della virtù divina che la possa illuminare;
  2.  si è appena bagnato nel Leté e non si è ancora bagnato nell’Eunoé: la condizione attuale e come di intorpedimento interiore, a cui soltanto l’ultimo rito potrà liberarlo.

DIVINA COMMEDIA: INFERNO

COMEDÌA

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Struttura della Comedìa

La Divina Commedia, con il titolo con cui noi oggi la conosciamo è un poema, scritto all’inizio del 1300 da un uomo fiorentino in esilio.

E’ un’opera che l’autore ha definito “comedìa” perché gli stili codificati nella cultura classica e quindi ripresi dalla cultura medievale, indicavano con questo termine ciò che aveva un duro e difficoltoso inizio ed un felice e piacevole fine ed inoltre utilizzavano uno stile “medio”. Nella prima cantica Dante infatti utilizza uno stile basso, medio nella seconda ed alto nella terza, riprendendo da un grande autore latino la concezione secondo cui nella commedia talvolta poteva presentarsi lo stile tragico ed alto. Inoltre lo stesso Dante ci dice in che modo è corretto leggere l’opera: nel Convivio, opera dottrinale del nostro, egli afferma che ci sono quattro sensi per intendere un’opera. Essi sono:

  1. letterale: percepire ciò che il testo dice nell’evidenza del suo dettato;
  2. allegorico: cercare un altro significato che va al di là del testo “letterale”;
  3. morale: indica il fine che nasconde l’opera e dev’essere colto dal lettore;
  4. anagogico: indica la spiritualità verso cui tendere il lettore.

Dante stesso invita il lettore a cogliere, nella sua opera. il senso allegorico.

Inferno

Noi non possediamo alcun manoscritto dantesco; la data entro cui inseriamo la stesura delle tre cantiche la ricaviamo da dati interni l’opera e dalla biografia del poeta. L’interruzione de Il Convivio e il De vulgari eloquentia c’invitano a collocare l’Inferno tra il 1306 e il 1309, il primo come data in cui tramontano definitivamente le speranze di una ripresa imperiale da parte di Arrigo VII, il secondo perché i fatti di cronaca presenti nel testo si fermano, appunto, a quella data.

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Struttura Inferno

Dante disegna l’Inferno come un gigantesco imbuto, creatosi dopo la rovinosa caduta di Lucifero che dal cielo venne precipitato giù, conficcandosi con la testa al centro della terra (cioè nel luogo più lontano della terra). Tale voragine si apre nell’emisfero boreale, presso Gerusalemme, e quella terra che fuggì via al suo arrivo, si raccolse a formare la montagna purgatoriale che domina alta e solitaria, completamente inaccessibile all’uomo, nell’emisfero australe.

Canto I
Proemio dell’opera

Sin dal primo verso, Dante c’immerge subito nella materia: egli, a 35 anni, nei giorni centrali dell’anno giubilare del 1300 proclamato, per la prima volta, da Bonifacio VIII, si ritrova in una selva, dal momento che ha perduto la “diritta via”. Ma se la “diritta via” è la via della salvezza, ne consegue che la selva è il “peccato”. Dante in tre versi ci fa passare dal senso letterale al senso allegorico. Ma c’è anche quello morale: bisogna liberarsi dal peccato, e quello anagogico, al fine di percorrere la via che giunge a Dio. Impaurito Dante si sente risollevato dalla vista del Sole, spera di raggiungerlo, ma tre animali gli sbarrano la strada: nulla è più evidente della capacità di Dante nel dare valore in tutti i sensi possibili al suo discorso: il Sole è Dio, le tre fiere, rispettivamente la lonza, il leone e la lupa, attraverso un crescendo morale ci rimandano alla lussuria, la forza e la violenza, ma soprattutto l’avarizia e alla frode. E mentre è sempre più trascinato dallo sconforto, ecco che gli si presenta una figura, Virgilio, ricco di sapienza e di virtù, che annuncia al poeta la fine del peccato nel mondo con una oscura profezia e quindi prospetta il viaggio ultraterreno, che lo condurrà a visitare, oltre all’inferno e a gran parte del purgatorio con la sua guida, il paradiso terrestre ed il regno dei cieli, con guide più degne di lui. Dante commosso accetta.

inferno-i-1.jpgGustave Doré: Inizio canto I

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

inferno-i-2.jpgGustave Doré: La lonza

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,

anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

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William Blake: Dante e le tre fiere

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

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Il veltro messianico di Dante

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro. 

Alla metà del percorso della mia esistenza (verso i 35 anni), mi sono ritrovato in un bosco oscuro (simbolo del peccato) in quanto avevo smarrito la diritta via (simbolo di via virtuosa). Ah quanto difficile cosa è dire qual era questa selva orrida, intricata di vegetazione e difficile da attraversare, che solo a pensarvi rinnova la paura! Tanto essa è amara che la morte sia naturale che spirituale lo è poco di più, ma per parlare del bene che io trovai in essa, dirò delle altre cose che io ho visto. Io non so ben riferire come io ci sia entrato, tanto ero ottenebrato nel momento in cui io abbandonai la via della verità. Ma poi quando giunsi ai piedi di un colle (il Purgatorio), là dove terminava lo spazio tra esso e la selva, che mi aveva riempito il cuore di paura, guardai in alto e vidi la sua sommità illuminata dal sole, che guida direttamente ciascuno qualunque via faccia. Allora la paura si acquietò un po’, che si era protratta a lungo nel profondo del cuore durante il tempo trascorso nella selva con tanta angoscia. E come il naufrago che, con respiro affannato, uscito dal mare e raggiunta la spiaggia, si rivolge al mare portatore di pericolo e lo osserva con attenzione, così l’animo mio, che ancora fuggiva (dalla selva), si volse indietro a contemplare il passaggio (che separa la selva dal colle) che non lasciò mai passare un uomo vivo. Dopo che ebbi riposato il corpo stanco, ripresi il cammino per il pendio solitario, in modo che il piede fermo era sempre il più basso (l’atto della salita). Ed ecco, quasi all’inizio della salita del colle una lonza (simbolo della incontinenza) agile e molto veloce, ricoperta di pelle screziata; essa non si allontanava dal mio cospetto, anzi impediva talmente il mio cammino che io fui tentato di ritornare indietro. L’ora era al principio del mattino ed il sole sorgeva con la costellazione dell’Ariete che era con lui quando Dio impresse agli astri il primo moto della creazione; cosicché sia l’ora che la stagione mi facevano ben sperare per quella bestia dalla pelle maculata; ma non abbastanza per la paura che mi diede l’aspetto di un leone (simbolo della superbia – per altri violenza) quando mi apparve. Questo sembrava venire contro di me, con la testa alta e minacciando distruzione, tanto che la stessa aria ne provava terrore. Ed una lupa (simbolo della fraudolenza, per altri avarizia), che sembrava carica di ogni bramosia e ha fatto vivere popolazioni afflitte, questa mi porse tanto affanno per la paura che emanava dal suo aspetto che io perdetti la speranza di raggiungere la sommità del colle. E come colui che facilmente raduna ricchezze, e giunge il momento in cui perde ogni cosa, che si rattrista in tutti i suoi pensieri, allo stesso modo mi rese la bestia senza pace, che venendomi incontro lentamente, mi sospingeva all’interno del bosco dove il sole non fa filtrare i suoi raggi. Mentre io precipitavo verso il fondo, mi apparve all’improvviso colui che, per l’oscurità del luogo, sembrava evanescente. «Abbi pietà di me», gli gridai, «chiunque tu sia, o spirito o uomo vivo». Mi rispose: «Non sono vivo, ma lo sono stato; i miei genitori furono dell’Italia settentrionale, nativi ambedue a Mantova. Nacqui sotto Giulio Cesare, sebbene troppo tardi per essere apprezzato da lui, e vissi a Roma, sotto il buon Augusto, nel tempo degli dei pagani (falsi e bugiardi). Fui poeta, e nel mio libro (l’Eneide) narrai di quel giusto figlio d’Anchise, Enea, che venne da Troia, dopo che la sua superba rocca fu bruciata. Ma tu perché ritorni all’afflizione della selva? Perché non sali il monte dilettoso che è il principio e la ragione di ogni possibile gioia?». «Allora sei tu quel Virgilio e quella sorgente che hai offerto un così largo fiume di eloquenza?», gli risposi con il volto vergognoso. «O onore e faro di tutti gli altri poeti, mi valga il lungo studio e la grande venerazione che mi ha fatto percorrere tutta la tua opera. Tu sei il mio maestro ed il mio autore, tu sei solo colui da cui io tratto lo stile che mi ha fatto onore. Vedi la bestia per cui io sono tornato indietro, aiutami a liberarmi di lei, famoso uomo sapiente, che essa mi fa tremare le vene e le arterie». «A te si addice affrontare un altro viaggio», rispose dopo che mi vide piangere, «se vuoi sottrarti da questa selva intricata; perché questa bestia, per la quale tu ti lamenti, non lascia passare nessuno per la sua via, ma tanto lo incalza finché non lo annienta; e la sua natura è così malvagio e cattiva, che mai non sazia la sua voglia bramosa, e dopo il pasto ha più fame di prima. Molti sono gli esseri viventi con cui si unisce, e ce ne saranno ancora molti, finché verrà il Veltro (segugio da caccia), che la farà morire con dolore. Questo non si ciberà né di terre né di ricchezze, ma solo di sapienza, amore e virtù, e la sua nascita sarà fra panni modesti (umili origini). Sarà la salvezza di quella Italia ormai decaduta per la quale morirono Eurialo e Niso (troiani) e Camilla (figlia del re dei Volsci) e Turno (re dei Rotuli) di ferite. Costui le darà la caccia in ogni città, fino a che la ricaccerà nell’Inferno, là dove Lucifero (invidia prima) la fece uscire contro gli uomini. Per cui per il tuo meglio penso e decido che tu mi debba seguire, ed io sarò la tua guida, e ti condurrò da qui per l’Inferno, dove ascolterai disperate grida, vedrai gli antichi spiriti dolenti che anelano alla morte definitiva; quindi vedrai coloro che sono felici di espiare le loro pene, perché sperano un tempo di unirsi alle persone beate. Alle quali, se tu vorrai raggiungerle ci sarà un’anima più degna di me: ti lascerò a lei quanto ti abbandonerò, perché Dio (imperatore che regna nell’Empireo), in quanto io fui incredulo in Cristo venturo, non vuole che io raggiunga la sua città. Egli impera in tutto il creato e nell’Empireo governa, qui è la sua città e l’alto trono, oh felice colui che Dio lassù destina!». Ed io a lui: «Poeta io ti richiedo per quel Dio che non conoscesti, affinché io fugga questo male e la dannazione, che tu mi conduca là dove mi hai detto, in modo che io possa vedere la porta del Purgatorio e quelli che tu descrivi essere tanto dolenti». Allora si mosse ed io lo seguii.

Canto II
Proemio dell’Inferno

Chiuso il prologo di tutta l’opera, Dante riprende la narrazione, con un nuovo prologo, ma ora soltanto dell’Inferno. Questo prologo, com’è consuetudine, inizia con l’argomento, attraverso un bellissimo “richiamo” virgiliano e con l’invocazione alle Muse. Esse devono dare forza a Dante, come dice lui stesso, aiutarlo. Dante, ripreso dal dubbio, e forse anche dalla paura, infatti, chiede per quale diritto lui deve compiere un viaggio così difficile, non essendo Enea, il cui andare nell’oltretomba, ha significato l’esaltazione di Roma e quindi, del papato che lì risiederà; non è San Paolo, il cui trasumanare da vivo aveva come scopo il rafforzamento della fede cristiana; ma lui perché deve andarci, chiede angosciosamente a Virgilio. E’ importante appunto istituire, in questi versi danteschi, il contatto continuo che nella sua mente di cristiano si situa tra fondazione di Roma e costituzione dell’Impero. A questo segue quello che la critica definisce un vero e proprio “prologo in cielo”: Maria Vergine, cogliendo lo smarrimento di Dante, ha pregato Lucia, simbolo della grazia illuminante, di intervenire per aiutare Dante. Quindi costei si reca da Beatrice per trasmetterle l’ordine della Vergine. Quest’ultima quindi non ha alcun timore a raggiungere il Limbo e a pregare con parole cortesi di aiutarlo. Apparirà ora chiaro come, se nell’inferno tre fiere non hanno potuto far raggiungere al poeta la vera via della fede, saranno tre donne benedette ad aiutarlo, cielo contro terra. Dante rinfrancato può riprendere il cammino. 

inferno-ii-1.jpgGustave Doré: Incipit del II canto 

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,

intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

 Di fronte alla paura e ai dubbi di Dante così il poeta risponde:

inferno-ii-2.jpgGustave Doré: Beatrice si rivolge a Virgilio

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
«O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui».
Tacette allora, e poi comincia’ io:
«O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi».
«Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente», mi rispuose,
«perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: “Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?”.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno».
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.

89353fc4d4530e88c9ee296466700670.jpgGiovanni Stradano o Jan Van der Straet: Le tre donne benedette

La luce del giorno andava via e l’oscurità allontanava tutti gli esseri viventi dalle loro fatiche; solo io mi preparavo a sopportare il travaglio interiore, sia del viaggio nell’oltretomba sino a Dio sia della compassione della miseria dei dannati che narrerà la memoria che riferisce il vero. O alto ingegno delle Muse, adesso aiutami; o memoria che hai scritto ciò che hai visto, qui si manifesterà il tuo valore. Io iniziai a parlare: «Virgilio, poeta che mi guidi in questo cammino, osserva se la mia capacità è abbastanza forte, prima che tu mi esponga allo straordinario viaggio. Tu affermi (nel VI libro dell’Eneide) che il padre di Silvio (Enea), ancora vivo, andò nel mondo eterno e fu con il corpo. Ma se Dio gli fu benevolo, pensando alle enormi conseguenze che derivarono da lui, e chi fosse e quali fossero le sue qualità, non sembra inopportuno ad un uomo dotato d’intelligenza; in quanto egli fu scelto nel decimo cielo dell’Empireo come padre della grande Roma e del suo Impero, la quale Roma e il quale Impero, a dir la verità, fu stabilita come luogo santo dove ora siede il successore del grande Pietro. Per questa discesa, di cui tu gli dai gloria, apprese cose che costituirono il motivo della sua vittoria e della scelta della sede papale. Ci è andato (nel mondo eterno) poi San Paolo, ricettacolo della volontà operante di Dio, per portare da lì conforto alla fede che è il principio per tutti della salvezza. Ma io perché dovrei andarci? O chi lo permette? Io non sono né Enea né Paolo; che io sia degno a compiere questo viaggio né io né altri credono: per cui se io mi abbandono alla volontà di compierlo, ho timore che questa scelta sia folle; sii saggio, cerca di capirmi che io non ragiono». E come colui che non vuole più ciò che ha desiderato e per nuovi sopraggiunti motivi cambia proposito, tanto da rinunciare del tutto a imprendere ciò che aveva intenzione di fare, così feci io in quella buia pendice del colle, perché ripensandoci annullai l’impresa che fu accettata all’inizio così prontamente.
 (…)
«Io ero nel Limbo (tra gli spiriti magni che vivono nel desiderio inappagabile di Dio) e una donna beata e bella mi chiamò tanto che io le richiesi di dirmi ciò che desiderava. I suoi occhi brillavano più di una stella; e cominciò a dirmi soavemente e dolcemente, con la voce di un angelo, nel suo modo di parlare: “O anima nobile mantovana, la cui gloria ancora dura nel mondo, e durerà a lungo, quanto il mondo, il mio amico, ma non amico della sorte, si è rivolto indietro nella deserta spiaggia, che è ricacciato indietro per la paura; e temo che si sia già smarrito, che io tardi sia soccorsa a lui, per quelle cose che ho udito su di lui nel cielo. Muoviti ora e con la tua parola ornata e con ciò che è opportuno per la sua salvezza, aiutalo affinché io ne sia consolata. Io che ti faccio andare sono Beatrice; vengo dal cielo in cui desidero tornare, mi mosse Amore che mi fa parlare. Quando sarò davanti a Dio, spesso ti loderò per quel che farai per me”. Tacque allora, ed iniziai io: “O donna di virtù, per le quali l’umana specie supera ogni essere contenuto nel cerchio della Luna, che compie giri più piccoli, tanto mi è gradito il tuo comando che l’ubbidirlo, se fosse già avvenuto, mi sembrerebbe avvenuto tardi, non ti abbisogna altro che esprimermi il tuo desiderio. Ma dimmi la causa per cui non temi di scendere quaggiù nel centro della terra, nell’Inferno, dall’Empireo dove desideri tornare ardentemente”. “Dal momento che tu vuoi conoscere il mistero della mia venuta, ti dirò brevemente”, mi rispose, “perché non temo di venir qua nel Limbo. Si devono temere solo quelle cose che hanno il potere di fare male agli altri; delle altre cose non bisogna temere, perché non possono nuocere. Io sono fatta da Dio, per sua grazia, tale che la vostra disgrazia non mi tocca, né le fiamme di questo Inferno mi assalgono. Nel cielo c’è una nobile donna (Maria, simbolo della carità) che ha compassione di questo impedimento (che le fiere procurano a Dante) tanto che attenua il duro giudizio di Dio. Questa donna fece chiamare per il suo servizio santa Lucia (simbolo della grazia) e disse: – Ora ha bisogno di te il tuo fedele, ed io te lo raccomando -. Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse e giunse nel luogo dove io ero, seduta a fianco della vecchia Rachele (moglie di Giacobbe, simbolo della vita contemplativa). Ella disse: – Beatrice (simbolo della fede), tu che sei la più vera lode di Dio, in quanto creata da lui perfettamente, perché non soccorri quell’uomo che ti ha tanto amato, che per lodarti si è staccato dalla schiera degli altri poeti volgari? Non senti angoscia per il suo pianto, non vedi tu la morte dell’anima che lo ha messo in pericolo come colui che si trova su un fiume, in cui questo incontra il mare e il mare non riesce a vincerlo? -. Al mondo non ci furono mai persone così sollecite a perseguire un loro bene o a sfuggire un loro danno come fui io, dopo aver ascoltato tali parole, e venni qua giù dal mio beato seggio, fidando del tuo parlare saggio, che ti rende onore e rende onore a coloro che lo hanno ascoltato”. Dopo aver detto queste cose, mi rivolse gli occhi lucenti per le lacrime, per cui mi rese più sollecito ad accorrere.»

Di fronte alle parole di Virgilio, che gli ha illustrato come tre donne benedette si siano adoperate per la sua salvezza, Dante si sente completamente rinato, come un fiore dopo il gelo notturno. Ora egli, insieme al suo maestro. è pronto a compiere il grande passo.

Canto III
Antinferno 

Comincia il vero viaggio infernale di Dante che inizia con le tremende parole di colore oscuro (nere/tremende) al sommo della porta. La sensazione che il poeta vuole trasmetterci è quella di un grande confusione, un clamore tanto più sconvolgente quanto meno è visibile. Il buio ed il chiasso infernale sono le prime sensazioni. Quindi il primo incontro con una figura diabolica, ripresa, fedelmente, da Virgilio e che riprende il suo stesso compito. A ciò segue la prima schiera di anime la cui condizione è di essere al di qua da ogni colpa e al di qua di ogni lode, quindi per Dante doppiamente stigmatizzabili in quanto se mai scelsero mai poterono raccogliere né biasimo né apprezzamento. Per questo essi ci offrono il primo esempio di contrappasso per contrasto. In questo canto, inoltre, pur non facendone mai il nome, si adombra il primo personaggio, Celestino V, papa per cinque mesi, che abdicò, lasciando il posto all’odiato, per Dante, Bonifacio VIII.

inferno-iii-1.jpgGustave Doré: Dante e Virgilio davanti alla porta dell’Inferno

PER ME SI VA NELLA CITTA’ DOLENTE,
PER ME SI VA NELL’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA POTESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E ’L PRIMO AMORE
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNO, E IO ETTERNO DURO.
LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’INTRATE.

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William Blake: La porta dell’Inferno

Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

inferno-iii-3.jpgGustave Doré: Gli ignavi

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

caronte.jpgJose Benlliure y Gil: La Barca de Caronte (1919) 

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

1200px-Charon_by_Dore.jpg

Gustave Doré: Caronte

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.

Stradano_Inferno_Canto_03_B.jpg

Giovanni Stradano: Terremoto e svenimento di Dante (1587)

ATTRAVERSO ME SI ENTRA NELLA CITTA’ DEL DOLORE, ATTRAVERSO ME SI ENTRA NEL DOLORE CHE NON HA FINE, ATTRAVERSO ME SI ENTRA TRA LE ANIME PERDUTE. LA GIUSTIZIA SPINSE A DIO A CREARMI: MI FECE LA POTENZA DEL PADRE, LA SOMMA SAPIENZA DEL FIGLIO, L’INFINITA CARITA’ DELLO SPIRITO SANTO. PRIMA DI ME FURONO CREATE SOLO COSE INCORRUTTIBILI, ED IO IN ETERNO DURO. ABBANDONATE QUALSIASI SPERANZA VOI CH’ENTRATE. Queste parole minacciose vidi scritte sopra una porta; per cui dissi: «Maestro, il loro significato è per me terribile». Ed egli a me come una persona saggia: «Qui è necessario abbandonare ogni esitazione; è necessario che qui ogni timore sia soffocato. Noi siamo arrivati al luogo dove ti ho detto che avresti visto gli spiriti dannati, che hanno perso il bene supremo dell’intelletto». E dopo che mi prese per mano con volto sereno, in modo da confortarmi, mi introdusse in quel mondo sconosciuto. Qui sospiri, pianti e grida di dolore risuonavano nell’oscurità, per cui all’inizio cominciai a piangere. Linguaggi diversi, modi di parlare orribili, parole di sofferenza, espressioni d’ira, voci alte e basse, insieme a rumori di mani, creavano un gran tumulto, il quale si agita sempre in quell’atmosfera buia senza giorno né notte, come la sabbia quando spira il vento. Ed io, che avevo la mente presa dall’orrore, dissi: «Maestro, che cos’è ciò che odo? E chi è quella gente che sembra così travolta dal dolore?» Ed egli a me: «Questo misero stato sopportano le anime dolenti degli ignavi, che vissero senza meritare né biasimo, né lode. Sono messe insieme a quella cattiva schiera di angeli che non furono né ribelli né fedeli a Dio, ma furono neutrali. I cieli, per non diminuire la loro bellezza li cacciano, e la parte più profonda dell’inferno non li accoglie, poiché i ribelli potrebbero trarre dalla loro presenza motivo di onore». Ed io: «Maestro, che cos’è tanto opprimente per gli ignavi, che li fa lamentare così forte?» Rispose: «Te lo dirò molto brevemente. Costoro non possono sperare di annientarsi e la loro oscura esistenza è tanto ignobile che sono invidiosi di qualsiasi altra sorte. Il mondo non tollera che resti fama di loro; la misericordia del Paradiso e la giustizia di Dio nell’Inferno li sdegnano: non parliamo di loro, ma guardali e passa oltre». Ed io, che guardai nuovamente, vidi una bandiera che girava intorno tanto veloce che mi sembrava sdegnosa di ogni riposo; e la seguiva una fila di gente così lunga, che non avrei mai creduto che la morte ne avesse colta tanta. Dopo che ebbi identificato qualcuno vidi e riconobbi l’ombra di colui (Celestino V) che per viltà rifiutò il suo grande compito. Subito compresi e fui certo che questa era la schiera dei vili, disdegnati da Dio e dai suoi nemici. Questi esseri abbietti, che non furono mai davvero vivi, erano nudi, punti continuamente da mosconi e da vespe che si trovavano lì. Tali insetti rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lacrime, era succhiato ai loro piedi, da ripugnanti vermi. E dopo che mi misi a guardare altrove, vidi gente presso la riva di un grande fiume; per cui io dissi: «Maestro, concedimi di sapere chi sono e quale legge le rende così ansiose di passare il fiume, come io posso vedere attraverso la debole luce». Ed egli a me: «Queste cose ti saranno note quando ci fermeremo presso la desolata riva dell’Acheronte». Allora io con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che le mie parole gli fossero state un po’ importune, stetti in silenzio fino al fiume. Ed ecco venire verso di noi su una barca un vecchio, canuto per la sua età antichissima, che gridava: «Guai a voi anime malvagie! Non sperate mai di vedere il Cielo: io vengo per condurvi all’altra riva, nelle tenebre eterne, nel caldo e nel freddo. E tu che ancora vivo sei in questo luogo, allontanati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo, disse: «Attraverso un’altra via, toccando altri porti, arriverai nella spiaggia per passare non di qui: un’imbarcazione più leggera conviene che ti trasporti». E la mia guida a lui: «Caronte, non arrabbiarti: è stabilito così nel Cielo dove è possibile fare tutto ciò che la volontà di Dio desidera e non chiedere più nulla». Allora non si mossero più le guance barbute del nocchiero della torbida palude, che aveva intorno agli occhi, a causa dell’ira, cerchi di fiamma. Ma quelle anime che erano spossate e nude impallidirono e si misero a battere i denti, non appena sentirono le parole crudeli: bestemmiavano Dio e i loro genitori, il genere umano, il luogo e il tempo della loro nascita, la loro discendenza e i loro antenati. Poi, piangendo amaramente, si riunirono tutte quante insieme presso la riva maledetta, che attende tutti coloro che non temono Dio. Il demonio Caronte, con gli occhi infuocati, facendo loro un cenno, li raduna tutti; colpisce col remo chiunque s’attarda. Come in autunno le foglie cadono una dopo l’altra, finché il ramo non le vede tutte a terra, allo stesso modo i malvagi discendenti di Adamo si calano da quella riva ad uno ad uno secondo i cenni di Caronte come fa l’uccello rispondendo al richiamo. Così se ne vanno sopra le acque torbide, e prima che siano scese dall’altra parte, anche da questa parte si raduna una nuova schiera. «Figlio mio» disse cortesemente il mio maestro «coloro che muoiono senza essere in grazia di Dio vengono tutti qui da ogni parte del mondo: e sono ansiosi di passare il fiume, perché la giustizia divina li sollecita, a tal punto che il timore della pena si muta in desiderio. Di qui non passa mai nessuna anima che non sia dannata; e perciò, se Caronte si lamenta di te, puoi ben capire ora che cosa intende il suo parlare». Terminato questo discorso, la buia regione infernale tremò così forte che il ricordo di quello spavento mi bagna ancora di sudore. La terra intrisa di lacrime mandò fuori un vento che suscitò un lampo, che mi fece perdere i sensi: e caddi, come chi è preso dal sonno.

Come si è potuto notare questo canto, pur non immettendoci ancora nell’inferno (siamo nell’antinferno) ce ne fa presagire tutte le tonalità:

  1. la presenza di un custode infernale, Cerbero, che pur somigliando molto a quello virgiliano, prende qui un autonomia propria di chi, pur dall’aspetto fiero ma ributtante, si fa esecutore di Dio; sarà lui inoltre a predire la non dannazione per il poeta;
  2. l’oscurità del luogo e le urla dei dannati;
  3. la legge del contrappasso, qui applicata per contrasto: così come queste anime malvagie non vollero mai “seguire” con passione una fede o ideologia, dovranno ora, nell’eternità, seguire una bandiera senza alcun simbolo e versare il sangue, punti da mosconi e vespe. Ma vi si affaccia anche un cenno di contrappasso per analogia: a raccogliere il sangue saranno i vermi, metafora del loro essere abietto.

Canto IV
Primo cerchio
(Limbo: anime giuste non battezzate)

Dopo lo svenimento, voluto da Dio affinché Dante non sapesse in quale modo venisse traghettato al di là dell’Acherone, il poeta si trova all’interno dell’Inferno. Tuttavia non è ancora un luogo dove i peccatori scontano pene tormentose: predomina anzi un clima d’incertezza, di continui sospiri. Questi derivano dal desiderio di conoscere Dio a loro negato perché o nati prima di Cristo o bambini non ancora battezzati. Per questo Dante percepisce nel volto della guida un strano pallore: è il luogo stesso dove l’anima di Virgilio condivide la sorte con i grandi intellettuali dell’antichità. Alla domanda se mai qualcuno fosse uscito dal Limbo Virgilio ricorda al poeta la discesa di Cristo che liberò gli antichi patriarchi e gli Ebrei presenti nell’antico testamento. I due pellegrini giungono pertanto in un luogo rischiarato dove sono accolti coloro che si sono distinti nella letteratura e nell’arte:

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Bartolomeo Pinelli: Dante incontra gli Spiriti Magni

«O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.   

Dissi: «Virgilio, tu che onori la scienza e l’arte, chi sono costoro che godono di tanto onore che li fa distinguere per condizione dagli altri?» Mi rispose la guida: «La loro onorata fama, che risuona ancora là su nel mondo dove tu vivi, gli fa ottenere favori da Dio e perciò sono trattati meglio degli altri.» Fu nel frattempo udita da me una voce: «Rendete onore all’eccelso poeta; è ritornato il suo spirito, che si era prima allontanato.» Dopo che la voce si fu interrotta e rimase quieta, vidi quattro grandi spiriti venire verso di noi: non sembravano in volto né tristi né felici. Il mio buon maestro incominciò a dire:«Guarda quello spirito con la spada in mano, che precede gli altri come se fosse un re: quello è il sommo poeta Omero; l’altro e Orazio, autore delle satire; il terzo è Ovidio e l’ultimo dei quattro è Lucano. Dal momento che ognuno dei quattro spiriti condivide con me il titolo di poeta, che la voce solitaria ha pronunciato poco fa, essi mi rendono onore ed in ciò fanno bene». Vidi così adunarsi la bella scuola di Omero, principe del più sublime tra tutti i generi poetici, che sovrasta gli altri poeti come fa l’aquila in cielo. Dopo che ebbero parlato un poco tra loro, si rivolsero a me con un cenno di saluto, e Virgilio sorrise compiaciuto per quel gesto; ed anzi mi fecero un onore ancora più grande, accogliendomi nel gruppo come uno di loro, così che fui la sesta persona in mezzo ai quei grandi saggi.

Il passo ci mostra, non solo i riferimenti culturali danteschi, ma quelli dell’intera cultura medievale: Omero, di cui Dante non conosce l’opera, ma condivide il pensiero sia degli autori latini sia degli intellettuali contemporanei secondo cui da lui derivano tutte le “belle lettere”, se per lui usa la metafora dell’aquila sopra tutti gli altri volatili nel cielo; seguono per l’epica storico-tragica Virgilio stesso (la cui presenza come guida ne testimonia la venerazione) e Lucano, di cui Dante sembra conoscere perfettamente la Farsaglia; insieme a loro, con una divisione stilistica, l’Orazio comico delle Satire, e l’Ovidio elegiaco degli Amores. Vi è ancora la consapevolezza da parte dell’autore di essere annoverato tra gli spiriti magni; Dante voleva sottolineare l’importanza e la grandezza della sua attività come poeta o voleva dirci che, saputolo da Virgilio, gli illustri poeti gli si rivolgano con un cenno di benevolenza per il compito scelto da Dio per lui?

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Victoria Olsen: Dante e Virgilio nel Limbo

Il canto prosegue citando i grandi relegati in quel mondo: ma saranno proprio loro a dar vita ad un dibattito critico che verte su teologia e sapienza: Dante infatti inserisce qui non solo gli esempi più alti della letteratura latina, ma anche suicidi (Lucrezia), musulmani (il Sultano, Avicenna e Avorroé), materialisti (Democrito). La teologia afferma che senza la preveggenza o la conoscenza di Dio non vi è salvezza, ma Dante, che non li salva, crea per loro uno spazio apposito, in cui vi è comunque una piccola luce di quella virtù che discende da Dio per illuminare gli uomini per il bene dell’umanità.   

Canto V
Secondo cerchio
(Peccatori d’incontinenza: lussuriosi)

Con questo canto si entra nel vero e proprio inferno: infatti se sinora Dante ha percorso il tratto che precede il fiume e, misteriosamente, si è trovato al di là di esso, in un luogo in cui la grazia di Dio non è del tutto assente se riluce nel castello dove abitano i grandi spiriti dell’antichità, qui, invece, emerge proprio l’assenza totale di luce e, come appena varcata la porta dell’Inferno, un vero e proprio predominio di rumore, come fa il mare in tempesta. Quindi ecco l’apparizione del mostro infernale Minòs che si fa esecutore della volontà divina nell’assegnare ai dannati il luogo che spetta loro ed infine l’incontro, carico di significati, con Paolo e Francesca:

04 Minosse, che giudica le anime dannate.jpg

Gustave Doré: Minosse

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;

Così discesi dal primo cerchio (limbo) giù nel secondo, che racchiuso in meno spazio e maggior dolore, induce ai lamenti. Vi stava a ringhiare l’orribile Minosse, che esaminava le colpe all’ingresso del girone, giudicava i peccatori e con la coda li condannava. Dico infatti che quando l’anima dannata gli andava innanzi, confessava tutto, e lui, conoscitore dei peccati, decideva il giusto cerchio infernale, cingendosi la coda tante volte quanti erano i gironi in cui farla precipitare. Davanti a lui ve n’erano sempre molte (di anime): l’una aspettava il turno dell’altra, che confessava, ascoltava e piombava giù. Quando Minosse mi vide interruppe le sue funzioni e disse: «Ehi tu che entri in questo luogo di dolore, sta’ attento a come ti muovi e a chi ti guida, che non ti sia d’inganno il facile ingresso!». Ma la mia guida gli rispose: «Che hai da gridare? Non puoi impedire la sua visita, perché si vuole così là dove si vuole ciò che si può, e non domandare oltre». A quel punto cominciai a udire voci lamentose; là dov’ero ero colpito da molto pianto. In quel luogo privo di luce si urlava come fa il mare tempestoso, agitato da venti contrari. Una bufera mai doma travolgeva nel suo turbinio gli spiriti, tormentandoli e sbattendoli con violenza. Quando giungevano sul ciglio del dirupo, urlavano piangevano singhiozzavano, bestemmiando la virtù divina. Dal tipo di pena capii che dannati erano i lussuriosi, che sottomettono la ragione all’istinto. E come le ali portano gli stornelli d’inverno in una schiera ampia e compatta, così quel vento agita gli spiriti perversi su e giù, di là e di qua e nessuna speranza li conforta mai, né di una pausa né di uno sconto della pena. E come le gru emettono i loro lamenti, disposte nell’aria in lunghe file, così vidi venir, gemendo, le ombre sconvolte dalla tormenta.

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William Blake: I lussuriosi

Dante quindi dapprima vede delle anime “sballottate dalla tempesta, e sono appunto i lussuriosi, il cui contrappasso è evidente: così come essi si lasciarono “trascinare” dalla passione ora sono trascinati dalla “bufera infernal”. Ma c’è un’altra schiera di dannati e sono coloro che vanno in lunga fila, attraversando il vento come fanno le gru: essi sono le anime di coloro che morirono per amore. Chiesto chi fossero, Virgilio gli nomina i nomi di grandi personaggi dell’antichità e dei cavalieri dei romanzi cortesi.

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Mosé Bianchi: Paolo e Francesca (1877)

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volentieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».

PaoloefrancescaCrop.jpgAnselm Feuerbach: Paolo e Francesca (1864)

Queste parole da lor ci fuor porte.
quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.

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Amos Cassioli: Paolo e Francesca (1870)

Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

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 Gaetano Previati: La morte di Paolo e Francesca (1887)

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Poi gli chiesi: «Poeta, vorrei parlare a quei due che vanno insieme e che paiono così leggeri nella bufera». Mi rispose: «Aspetta che siano venuti più vicini a noi, poi pregali per quell’amore che li lega e loro verranno». Appena il vento li piegò verso di noi, esclamai: «Oh anime tormentate, venite a parlarci, se nessuno lo vieta!». Come colombe, chiamate dai piccoli, con le ali levate e ferme al dolce nido vengono per l’aria, spinte dall’istinto, così quelle anime si staccarono dalla schiera di Didone attraverso l’aria maligna, sentendo il mio affettuoso grido. «Oh uomo cortese e benigno, che vieni a visitare, in quest’aria tenebrosa, chi ha macchiato la terra del proprio sangue, se ci fosse amico il re dell’universo, lo pregheremmo per la tua pace, avendo tu pietà del nostro perverso peccato. Quel che a voi piacerà dire e ascoltare piacerà anche a noi, almeno finché il vento lo permetterà. La mia città natale lambisce il mare ove sfocia il Po, che coi suoi affluenti trova pace. L’amore, che subito accende i cuori gentili, fece innamorare costui del mio bellissimo corpo, che mi fu tolto in modo ch’ancor m’offende. L’amore, che induce chi viene amato a ricambiare, mi prese del corpo di costui un piacere così forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. L’amore ci portò a una stessa morte: Caina in sorte attende l’assassino». Ecco le parole che ci dissero. E io, dopo aver ascoltato quelle anime travagliate, chinai il viso e rimasi così mesto che il poeta a un certo punto mi chiese: «A che pensi?» Io gli risposi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio condusse costoro al tragico destino!» Poi mi rivolsi direttamente a loro e chiesi: «Francesca, le tue pene mi strappano dolore e pietà. Ma dimmi, al tempo dei dolci sospiri, come faceste ad accorgervi che il desiderio era reciproco?». E quella a me: «Non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella disgrazia; cosa che sa bene il tuo maestro. Ma se tanto ti preme conoscere l’ inizio della nostra storia te lo dirò unendo le parole alle lacrime. Stavamo leggendo un giorno per diletto come l’amore vinse Lancillotto; soli eravamo e in perfetta buona fede. In più punti di quella lettura gli sguardi s’incrociarono con turbamento, ma solo uno ci vinse completamente. Quando leggemmo che la bocca di lei venne baciato da un amante così coraggioso, costui, che mai sarà da me diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Traditore fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno finimmo lì la lettura». Mentre uno spirito questo diceva, l’altro piangeva, sicché ne rimasi sconvolto, al punto che svenni per l’emozione e caddi come corpo morto cade.

L’intero canto si può definire come uno dei più alti e celebrati dell’intera Commedia, e mostra, per la prima volta,  un turbamento reale di Dante, determinato dall’esperienza umana e presumibilmente dalla conoscenza personale con Paolo Malatesta (sono testimoniati i rapporti tra Firenze e l’ambiente romagnolo). Il canto si può dividere in tre parti: la prima dominata da Minosse, la parte centrale dalla rassegna dei grandi amanti della storia e della letteratura, l’ultima da Francesca e Paolo (uno dei più noti personaggi muti della letteratura italiana). Tra questi momenti c’è continuità: se Minosse infatti può rappresentare il destino in cui incorrono i peccatori che sottomettono la ragione all’impulso naturale, lo stesso accade a coloro che peccano di lussuria, tra cui uno dei più celebrati della letteratura d’amore, Tristano, la cui lettura sarà a sua volta strumento della dannazione di Paolo e Francesca. Quest’ultima parte, dedicata ai due amanti, pur essendo tra le più alte, per il pathos che essa rappresenta con il tema d’amore e di morte, ci offre la possibilità di cogliere un momento fortemente significativo per Dante. Uscendo infatti dai personaggi, il passo mostra un vero e proprio “iter” culturale che il poeta stesso ha attentamente attraversato. Francesca, infatti, è un attenta lettrice del romanzo cortese, ma utilizza un linguaggio stilnovista con una forte anafora che in tre terzine ne sottolinea i temi. Per questo Dante si sente scosso: la cultura di Francesca è la sua cultura. Ed è per questo che il poeta, per la seconda volta, sviene: ma se il primo trasferimento nel terzo canto è voluto da Dio per non far comprendere al poeta il suo passaggio al di là del fiume infernale, qui è per il suo “turbamento”.

Canto VI 
Terzo cerchio
(Peccatori d’incontinenza: golosi)

Tra il quinto ed il sesto canto Dante non pone alcuna frattura. Infatti, appena risvegliatosi, il poeta si trova di fronte ad una nuova situazione, maggiormente “punitiva” per i dannati, sin dal custode Cerbero, che con i suoi latrati rompe loro le orecchie (avendo ecceduto nei sensi, è in essi che vengono tormentati). Quindi inizia quello che si suole definire come il primo canto “politico” dell’intera Commedia: nucleo ideologico appare la sua città, con un suo famoso, al tempo, rappresentante che, nei confronti del poeta avrà anche la capacità profetica di disegnargli il destino futuro (che sarà compreso, poi, solo nel Paradiso dal suo avo Cacciaguida).

Dopo un paio di versi, Dante si trova immerso nel terzo cerchio:

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Ero nel terzo cerchio della pioggia eterna, maledetta, fredda e difficile da sopportare, sempre uguale nella quantità e qualità. Acqua sporca, grandine grossa e neve, nell’aria tenebrosa si riversa; puzza la terra che né è bagnata.

Cerberus-Blake.jpegWilliam Blake: Cerbero

A cui segue la descrizione del nuovo custode infernale:

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
e l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Cerbero, fiera crudele e straordinaria, simile ad un cane affamato latra con tre gole sopra la gente che qui è sommersa. Ha gli occhi rossi, la barba unta e scura, il ventre largo e le mani unghiate, graffia gli spiriti, li scuoia e li squarta. La pioggia sferzante del dolore li fa urlare come cani. Or con l’uno e or con l’altro lato cercano di fare schermo al lato opposto, ma inutilmente si volgono spesso i miseri profani. Quando Cerbero, il grande e ripugnante animale, ci vide, aprì le bocche e mostrò i lunghi denti e non aveva parte del corpo che stesse ferma. Allora Virgilio distese le palme, prese la terra e a pieni pugni, la gettò nelle gole di Cerbero.

Dopo che Virgilio, con il suo gesto, mette a tacere la bestia i due pellegrini entrano in contatto con i dannati, fra i quali Ciacco:

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se’ per questo ’nferno tratto»
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,

sì che non par ch’i ’ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».

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Gustave Doré: Ciacco

Noi passavamo ponendo i piedi sulle anime che sono fiaccate dalla maledetta e pesante pioggia, la cui inconsistenza ha forma di corpo. Esse stavano tutte sdraiate in terra all’infuori di una che, vedendoci passare, si alzò immediatamente a sedere. Mi disse: «Tu che sei venuto in questo inferno riconoscimi se sai: tu nascesti prima che io morissi». Gli risposi: «Forse la sofferenza fisica dei tuoi lineamenti, mi impedisce di riconoscerti. Ma dimmi chi sei tu che in un luogo così dolente sei condannato a tale pena. Se altre pene possono essere maggiori di questa, nessuna è così spiacevole». Egli rispose: «Firenze, la tua città, ch’è piena d’odio, malevolenza mi fece crescere durante la vita umana. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco ed ora, come vedi, alla pioggia mi accascio. ed io, anima dannata, non son sola, poiché tutte queste anime espiano uguale colpa». E non parlò più. Io gli risposi: «Ciacco, il tuo dolore mi spinge a piangere, ma dimmi, se lo sai, dove perverranno gli uomini città (Firenze) divisa (politicamente); se nessuno degli uomini è giusto; e dimmi la ragione per cui essa è assalita da tanta discordia». E Ciacco disse (profetizzando): «Dopo lunghe lotte, perverranno a sanguinose guerre e la parte selvaggia (i Cerchi, del partito dei Bianchi) caccerà l’altra (i Donati, del partito dei Neri) con grande offese (multe e perquisizioni). Dopo tre anni avverrà un cambiamento, e l’altra parte (i Neri) prenderà il potere con l’aiuto di colui che adesso sembra barcamenarsi (Bonifacio VIII). Costoro terranno alte per lungo tempo le fronti, tenendo la parte avversa sotto gravi pesi, sebbene pianga e si sdegni per ciò. Ci saranno solo pochissimi uomini giusti (onesti), ma non saranno ascoltati: la superbia, l’invidia e l’avarizia sono le tre faville che accendono d’odio il cuore degli uomini».

Nel passo Dante sottolinea, attraverso la tecnica della profezia, la realtà della Firenze a lui contemporanea, mettendo in evidenza quel cambiamento economico e sociale che lui percepisce come negativo: gli ultimi tre sostantivi alludono a quella forza borghese che secondo il poeta fiorentino ha cancellato le virtù di un mondo sulla via del tramonto, e che sta prendendo il potere con forza e violenza; d’altra parte non dobbiamo dimenticare che sarà Dante stesso a pagare le conseguenze di questa lotta tra partiti politici e famiglie che si contendevano il potere con l’esilio.

Dopo tali parole il poeta chiede ancora a Ciacco se egli possa incontrate, nel suo cammino, altri fiorentini che ben operarono per la città, che egli ha grande desiderio di sapere se sono dannati a più gravi pene o sono nella grazia del Signore. Ciacco gli rivela che nel fondo dell’inferno vi sono altre anime che egli potrà riconoscere e se può essere ricordato nella mente dei suoi amati cittadini. Quindi si ritorse e ricadde in terra e Virgilio rivela al suo discepolo che così rimarrà fino al giudizio universale. Al dubbio di Dante che gli chiede se in tale giorno la loro pena sarà minore o maggiore, il maestro risponde che ogni cosa, giunta al fine, otterrà la perfezione: pertanto maggiori saranno le pene e la gloria. Quindi continuano il cammino fino al punto in cui essi scenderanno, custodito da Pluto.

Canto VII
Quarto e quinto cerchio
(Peccatori d’incontinenza: Avari e prodighi – Iracondi ed accidiosi)
La palude Stigia

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Gustave Doré: Pluto

All’inizio del canto troviamo Pluto che, con voce rauca inizia a gridare:

Papé Satàn, papé Satàn aleppe!

e Virgilio, uomo saggio, tranquillizza Dante sulla discesa tra il terzo e il quarto cerchio e con acconce parole costringe il mostro infernale al silenzio. I due scendono così nella quarta fossa, dove Dante vede una moltitudine assai numerosa, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti. (Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: «Perché conservi?» e «Perché sperperi?» Allora rifacevano il giro in senso opposto in entrambe le direzioni fino al punto in cui, allo scontro successivo, si gridavano di nuovo il loro ritornello ingiurioso; Dante allora chiede alla sua guida chi costoro fossero e Virgilio gli risponde che furono coloro che non fecero alcuna spesa secondo misura (avari e prodighi) come denunciano in modo aperto le loro espressioni.

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Bartolomeo Pinelli: Avari e prodighi (1824)

La loro condizione spinge Dante a voler sapere quale sia il ruolo della fortuna nel distribuire ricchezze e povertà:

«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?»
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode».

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Cornelis Anthonisz Thenissen (attr.), Allegoria della Sfortuna/Accidia, (1530 ca.) 

«Maestro», dissi a Virgilio, «spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra?» E Virgilio: «O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ). Dio, la cui sapienza oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia angelica trasmette la luce al suo cielo, distribuendola equamente: allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una guida che le amministrasse tutte e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi; per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba. L’accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro. I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato. Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano; ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della sua beatitudine.

Come si vede per Dante la Fortuna muta dal concetto classico (ricordiamo che per la cultura romana il termine è una vox media che può indicare sia fortuna che sfortuna, e, come simbolo, viene rappresentata cieca). Dante ci offre invece una spiegazione teologica: è un’ intelligenza angelica, il cui volere obbedisce a Dio. Per questo, in quanto presiede alla facoltà divina, non può essere capita da una facoltà umana e quindi ci appare incomprensibile e spesso ci lamentiamo di lei. Ma essa sta al di sopra dell’individuo e guida i destini sia dell’uomo che dei popoli, per cui si sale e si scende perché così Dio vuole.

Quindi continuano a scendere attraversando il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e che si riversa in un fossato d’acqua scura; è la palude Stige, in cui sono immerse anime che si colpivano l’un l’altro con le mani, la testa il petto e i piedi, e si dilaniano pezzo a pezzo coi denti. Sono gli iracondi, accompagnati con gli accidiosi che denunciano la loro condizione sott’acqua, creando un gorgoglio sulla superficie della palude. Costeggiano così per lungo tratto la sozza palude, tenendosi tra il pendio asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango: giungono alla fine alla base d’una torre».

Canto VIII
Quinto cerchio
La palude Stigia
(Iracondi ed accidiosi)

Prima d’arrivare alla torre, Dante e Virgilio vedono due fiammelle e un’altra lontana che rispondeva ai segnali. Chiede quindi a Virgilio cosa stia succedendo, e lui gli fa sapere che sta per giungere il nocchiero infernale Flegiàs con una piccola nave per traghettarli sull’altra riva. Virgilio scende nella barca, e Dante dopo di lui; soltanto quando quest’ultimo entra, essa sembra carica.

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Miniatura

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». 
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango». 
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». 
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».

La vecchia barca comincia a fendere l’acqua, e mentre solca l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: «Chi sei tu che arrivi prima del termine stabilito?», ed io: «Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso così sporco dal fango?» Rispose: «Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (un dannato)». Ed io: «Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango». Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: «Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti !»

E’ la prima volta che vediamo Dante “arrabbiato” rivolgere parole ingiuriose verso un dannato. Tale atteggiamento forse gli è stato suggerito dalla scortesia del dannato, che gli si rivolge con arroganza, come a dire “che ci fai tu qui?”, quasi la sua presenza segnalasse il peccato in cui Dio lo aveva confinato. E’ un gesto di giusta rabbia, accompagnato, infatti, da quello del maestro che respinge il dannato con parole ingiuriose.

Virgilio quindi si congratula del gesto del suo allievo, che ha risposto con veemenza all’arroganza del dannato. E’ tanta la rabbia dantesca che prega affinché Filippo Argenti (tale è il nome del peccatore) venga sommerso: infatti poco dopo Dante vede gli iracondi fare di lui un tale scempio, gridando contro Filippo Argenti tanto che il dannato rivolge contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti. Quindi dopo aver sentito un urlo e in seguito aver visto torri rossastre (per l’eterno fuoco che le brucia eternamente), raggiungono la città di Dite:

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Daniele Albatici: Filippo Argenti

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno. 
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ ha negate le dolenti case!”.
E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».

15385736856_b690477371_b.jpgDante e Virgilio e  i diavoli (Miniatura, Biblioteca di Firenze)

Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: «Chi è costui che ancora in vita visita il regno dei morti?». E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte. Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: «Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire è penetrato in questo regno. Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui». Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi. «Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare» dissi «in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui).» E Virgilio, che mi aveva condotto lì, mi disse: «Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto. Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con la speranza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’inferno». Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza. Non potei udire quello che disse loro, ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura. Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti. Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: «Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore!». E rivolto a me: «Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso. Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata. Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione, colui ad opera del quale la città ci sarà aperta».

E’ un passo, che, legato al seguente, descrive uno degli atteggiamenti più umani da parte del protagonista: la paura. Sono tremende le parole dei diavoli, è indecisa, non tempestiva la risposta di Virgilio. La paura è giustificata proprio dall’inizio del canto IX.

Canto IX
Quinto e Sesto cerchio
Davanti e dentro la città di Dite
(Eretici)

Virgilio infatti non ha la forza per combattere i diavoli da solo: «Eppure dovremo vincere questa battaglia» dice, «a meno che… Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno!». L’angoscia di Dante è giustificata dall’attesa di questo qualcuno. Quindi vuol sapere se qualcuno dal Limbo (Virgilio stesso) sia mai già stato in questo luogo, riferendosi in modo indiretto a Virgilio stesso, che gli afferma che il viaggio lo ha già compiuto grazie alla maga Eritone (episodio raccontato nel Bellum civile di Lucano).

E altro disse, ma non l’ ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte. 
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine. 
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. 
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

5050161212860013.jpgBartolomeo Pinelli: Dante e Virgilio di fronte alle Erinni

«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l’assalto». 
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi. 
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani.

E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata, dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamento di donna, e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste. E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: «Ecco le implacabili Erinni. Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone»; ciò detto, tacque. Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio. «Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra» dicevano tutte quante guardando verso il basso: «fu male non punire nella persona di Teseo l’assalto (portato al regno dell’oltretomba).» «Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra.» Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue. O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi.

caravaggiomedusa.jpgCaravaggio: Medusa (1597)

Che l’allegoria sia complessa ce lo afferma lo stesso Dante. E’ un allegoria dei poeti, piuttosto che dei filosofi, perché si nutre di riferimenti classici già dall’inizio del canto, facendo riferimento alla negromanzia di Lucano. Bisogna pertanto districarsi per capire cosa il poeta volesse insegnarci attraverso questi riferimenti classici: in primo luogo le Erinni, che Dante non poteva conoscerle in modo diretto (non sapeva il greco ed esse appaiono nell’Orestea di Eschilo), ma certamente conosceva il loro significato, disegnate come portatrici di rimorso (in questo caso il rimorso del peccato), e quindi Medusa, dal duro cuore. Tutte loro stanno ad indicare che se non ci si libera dal peso del peccato e si persevera con forza in esso, non si può andare oltre la via che lo condurrà verso la salvezza. Se infatti i peccati precedenti erano sotto il segno del senso (peccati d’incontinenza), ora bisogna individuare i dannati per intelletto e malizia. Quindi non basta più la forza razionale dell’intelletto, ma qualcosa che la superi, come è mostrato dall’intervento del messo celeste:

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica, 
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte. 
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso. 
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. 
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno. 
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? 
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ ha cresciuta doglia? 
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». 
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda 
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.

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Gustave Doré: L’angelo apre le porte della città di Dite

Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra, così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi. Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione. Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui. Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo. «O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata», prese a dire sullo spaventoso limitare, «da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi? Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore? A che serve opporsi ai decreti divini ? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo.» Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette.

E’ appunto l’intervento divino, qui trasmesso attraverso un suo messo, che può cancellare quelle forze oppositive (rimorso e persistenza del peccato) che impediscono al pellegrino di liberarsi dalle scorie della vita ed ottenere, così, la grazia dell’ascensione al cielo. Quindi Virgilio e Dante entrano nella città di Dite e vedono un terreno tutto pieno di sepolcri circondati dalle fiamme. I peccatori posti nel IV cerchio, informa il maestro sono gli eretici.

Canto X
Sesto cerchio
(Eretici)

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. 
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face»

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Dante nel cerchio degli epicurei (miniatura lombarda)

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno. 
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’ hai non pur mo a ciò disposto». 

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Andrea del Castagno: Farinata degli Uberti (1449/1450)

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. 
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». 
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio. 

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Gustave Doré: Farinata nell’arca infernale

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi». 
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte». 
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 

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William Blake: Dante Farinata e Cavalcante de’ Cavalcanti

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe?” non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa; 
e sé continüando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. 
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa. 
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. 
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». 
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». 
«Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. 
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. 
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». 
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto; 
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto». 
e già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava. 
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. 
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. 
«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio». 
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

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Duilio Cambellotti: Inferno canto X

Il mio maestro proseguiva ora lungo uno stretto sentiero, tra le mura di Dite e le tombe roventi dei dannati (eresiarchi), ed io procedevo dietro di lui. «Oh uomo di virtù superiore, che mi conduci attraverso i crudeli cerchi dell’inferno», cominciai a dire,«come a te piace, parlami e soddisfa i miei desideri. Potrei vedere la gente che giace in questi sepolcri roventi? Tutti i coperchi sono già alzati, i sepolcri sono aperti, e non c’è nessun demonio a fare la guardia.» Mi rispose Virgilio: «Tutti i sepolcri verranno chiusi quando dalla valle di Giosafat, dopo il giudizio universale, i dannati torneranno qua con i loro corpi, lasciati lassù in terra. In questa parte del cerchio hanno il loro cimitero Epicuro e tutti i suoi seguaci, che credono che l’anima muoia insieme al corpo. In ogni caso, alla richiesta che hai mi avanzato, qui dentro ti verrà data subito soddisfazione, ed anche al desideri che hai lasciato inespresso, di poter parlare con loro.» Ed io a lui: «Mia buona guida, ti tengo nascosto il mio desiderio solo per non darti noia, parlando troppo, come tu stesso mi hai chiesto di fare in più occasioni.» «Oh toscano, che attraverso la città del fuoco te ne vai ancora in vita e parlando in modo rispettoso e gentile, ti sia cosa grata il fermarti un poco in questo luogo. Il tuo modo di parlare rende evidente che tu nascesti in quella nobile patria, verso la quale io fui in vita forse troppo molesto.» Uscì improvvisamente questo suono, questa voce, da uno dei sepolcri; mi accostai perciò, intimorito, un poco di più alla mia guida. Virgilio mi disse: «Che fai? Voltati! Guarda là Farinata degli Uberti che si è alzato dalla tomba: potrai vederlo tutto dalla cintola in su.» Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; lo spirito di Farinata emergeva fiero dal sepolcro con il petto e la fronte, come se avesse a sdegno le pene dell’inferno. Le mani coraggiose e pronte di Virgilio mi spinsero tra le tombe fino a lui, dicendo: «Le tue parole siano misurate, moderate». Non appena giunsi ai piedi del sepolcro di Farinata, lo spirito mi guardò un poco, e poi, con tono quasi irato, mi chiese: «Chi furono i tuoi antenati?» Io ero desideroso di ubbidire e non gli nascosi quindi le mie origini, anzi gliele esposi chiaramente; alle mie parole, lo spirito alzò un poco gli occhi in alto, in tono ostile; poi mi disse: «Essi, guelfi, furono fieramente avversari miei, dei miei antenati e della mia fazione ghibellina, tanto che per due volte li sconfissi e li caccia in esilio.» «Se è vero che furono cacciati, lo è anche che tornarono poi da ogni parte», risposi io a lui, «entrambe le volte; i vostri non appresero invece mai quell’arte, del ritorno in patria.» A quelle parole, dall’apertura scoperchiata del sepolcro, uscì, visibile fino al mento, un altro spirito accanto a quello di Farinata: credo che quest’anima fosse in ginocchio. Guardò intorno a me come per voler vedere se ero in compagnia di qualcun’altro; e dopo che il suo sospetto si fu dileguato, mi disse piangendo: «Se attraverso questo carcere tenebroso tu puoi andare grazie al tuo alto ingegno, allora mio figlio dove è? Perché non è insieme a te?» Dissi a lui: «Non vado in giro da solo: mi conduce attraverso questi luoghi quello spirito che mi aspetta là, Virgilio, e che forse il vostro Guido ebbe a sdegno, trascurandolo.» Le sue parole ed il modo in cui soffriva mi avevano già fatto capire chi fosse costui, Cavalcante dei Cavalcanti; per tale motivo la mia risposta fu così esaustiva. Scattato in piedi, lo spirito subito grido: «Come? Hai detto “ebbe”? Non è più in vita? La dolce luce del sole non ferisce più i suoi occhi?» Quando si accorse della mia esitazione nel fornirgli una risposta, subito ricadde disteso nella tomba e non ricomparve più alla mia vista. Invece quell’altro coraggioso spirito, rispondendo al cui invito mi ero fermato presso quella tomba, non cambiò espressione, non volse nemmeno la testa e non si piegò neanche a guardare il compagno; continuando il primo discorso interrotto, «Il fatto che loro non hanno ben appreso quell’arte», mi disse, «mi tormenta di più di questo letto di fuoco in cui giaccio. Ma non si illuminerà per cinquanta volte la faccia di quella donna, Proserpina (la Luna), che governa quaggiù, prima che tu stesso possa imparare quanto pesa quell’arte del ritorno in patria. Augurandoti che tu possa fare ritorno nel dolce mondo dei vivi, dimmi in cambio: perché il popolo fiorentino è così crudele nei confronti dei Ghibellini in ogni legge che approva?» Gli risposi: «Lo strazio e la grande strage che fecero tingere di sangue il fiume Arbia, nella battaglia a Montaperti, ci spinge ad emettere tali leggi nei vostri confronti.» Dopo che lo spirito, sospirando, ebbe scosso il suo capo, «Non c’ero là soltanto io contro i fiorentini», disse, «né certo mi sarei mosso insieme agli altri senza avere buone ragioni. Ma fui soltanto io, là, ad Empoli, dove fu all’unanimità approvata la decisione di distruggere Firenze, l’unico che la difese a viso aperto.» «Possa avere un giorno un po’ di pace la vostra discendenza», lo pregai io, «scioglietemi cortesemente un dubbio che ha appena avvolto i mie pensieri. Se ho ben capito, sembra che voi spiriti possiate prevedere il futuro, quello che il passare del tempo farà accadere, mentre sembrate al contrario ignorare gli avvenimenti del presente.» «Noi vediamo, come chi è presbite, con una vista imperfetta», mi rispose, «solo le cose che sono lontane; tanto ci illumina ancora Dio. Quando si avvicinano o stanno già accadendo, questa nostra capacità non ci giova più; e se altri non ci informano dei fatti, nulla possiamo sapere della vostra vicende umane. Puoi perciò ora comprendere bene che la nostra conoscenza verrà completamente annullata a partire dal giorno del giudizio, quando i nostri sepolcri saranno chiusi per l’eternità.» Allora, dispiaciuto per non aver risposto all’altro spirito, dissi: «Dite allora al vostro compagno, caduto nella tomba, che suo figlio Guido non è ancora morto, è ancora insieme ai vivi; e se di fronte alla sua domanda rimasi muto, fategli sapere che lo feci soltanto perché fui colto da quel dubbio che ora mi avete voi sciolto.» Ma già Virgilio mi richiamava a sé; pregai perciò con più premura lo spirito di Farinata affinché mi dicesse i nomi dei suoi compagni nel sepolcro. Mi disse: “Giaccio in questa tomba insieme ad altri mille: qua dentro c’è Federico II di Svevia ed il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; degli altri non parlo.» Tornò infine nel sepolcro; io rivolsi i miei passi verso Virgilio, poeta dei tempi antichi, ripensando a quella sentenza di Farinata (sull’esilio) che sembrava minacciosa. Anche Virgilio si mosse; poi, mentre camminavamo, mi chiese: «Perché sei turbato?» Ed io diedi soddisfazione alla sua curiosità raccontandogli delle parole di Farinata. «Conserva nella memoria ciò che hai ascoltato profetizzare contro di te», mi raccomandò la mia saggia guida; «e prestami attenzione», e così dicendo alzo il dito al cielo: «quando sarai di fronte al dolce raggio di Beatrice, il cui bell’occhio è in grado di vedere il futuro in Dio, saprai da lei le vicende che ti attendono in vita.» Indirizzò quindi il passo verso sinistra: lasciammo il muro e piegammo verso il centro del girone attraverso un sentiero che termina in una valle, la quale faceva sentire la sua nauseabonda puzza fin lassù.

018r-1024x521.jpgPriamo Della Quercia (XV secolo)

E’ uno dei canti centrali nell’economia del racconto dantesco, sia per l’evidenza dei fatti politici qui velocemente ricordati (la battaglia di Montaperti) sia per la parentesi lirica riguardante il padre di Cavalcanti e l’amore che nutre per il figlio.

Ma il vero nucleo è nel personaggio protagonista dell’intero canto: Farinata. Egli, di due generazioni più grande di Dante, fu un uomo di grande importanza politica. Capo dei Ghibellini, riuscì dapprima a scacciarne i Guelfi (1248), ma dopo la morte di Federico II, toccò a lui andare in esilio. Tentò con dei fuoriusciti di riprendersi la città, cosa che avvenne nel 1260. Morì a Firenze, opponendosi alla distruzione della città, ma cacciandone gli avversari politici. Sarà proprio dopo la sua scomparsa che i Guelfi riuscirono a tornare, radendo al suolo tutte le proprietà degli Uberti e bandendoli in aeternum dalle mura cittadine.

Si spiega così il dialogo, il confronto tra due titani. Non importa che qui Farinata sia un dannato: importa la sua coerenza, la sua forza e la sua dignità, sottolineate dall’atteggiamento fiero di chi non ha sbagliato. Tale modo di porsi viene quasi sottolineato dall’allitterazione in m (Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, dove ad emergere è il pronome personale e gli aggettivi possessivi, tutti in prima persona) che oltre al suono rievoca qui la fierezza del proprio io e nel contempo il rispetto col pellegrino ancor vivo che, seppur nemico, di fronte a lui ha la stessa fierezza, se non superiore, proprio di colui che è stato scelto da Dio, di contro all’indifferenza di Farinata.

A questo punto si pone la parentesi lirica, a staccare l’ultima parte, la più importante, che vede la figura di Cavalcante de’ Cavalcanti: se Farinata è dritto, tanto che da la cintola in sù tutto ’l vedrai (dice Virgilio a Dante), Cavalcante surse a la vista scoperchiata come un’ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata denota l’apprensione e l’orgoglio del padre verso il figlio. Ma è evidente che qui Dante abbia sottolineato la distanza culturale che ormai tra Cavalcanti e lui si era istituita: Guido si era fermato all’aspetto filosofico, oserei dire, raziocinante; Dante aveva raggiunto la verità della fede attraverso la teologia, per questo, pur grandissimo poeta, Dio non ha potuto servirsi di Guido per illuminare la realtà, ma Dante che si era inchinato a Lui, attraverso Beatrice.

Solo ora può riprendere il canto, mostrando un Farinata che non si era distratto, ma continua, come se non vi fosse stata interruzione, meditando sulla violenza della contrapposizione tra guelfi e ghibellini che hanno determinato la damnatio memoriae della sua famiglia. Ma ciò non toglie che a salvare Firenze fu proprio lui, che si oppose alla sua demolizione. Quindi con cortesia augura al Dante di poter tornare sulla terra, così, come Dante gli augura che possano finalmente cessare le misure contro la sua casata.

Ma per concludere è bene ricordare la profezia che Farinata rivolge a Dante sull’esilio che dovrà subire: in questo cerchio i dannati possono vedere il futuro (da qui le parole del condottiero che “vede” il futuro di Dante), ma non il presente (Cavalcanti che non riesce a sapere la sorte del figlio).

Le parole di Farinata non riescono ad essere cancellate dalla mente di Dante: ma Virgilio gli rammenta che solo la grazia illuminante di Beatrice potrà rivelargli ciò che il futuro gli prepara.

Canto XI
Sesto cerchio
(Eretici)

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 Gustave Doré: Dante e Virgilio sostano dietro la tomba di papa Atanasio

E’ un canto, come si suol dire “dottrinale”. Viene qui presentato, infatti, l’ordinamento dell’Inferno, spiegato da Virgilio a Dante, cogliendo l’occasione della necessità di abituarsi all’insopportabile puzza che proviene dal basso inferno.

Il maestro dapprima definisce il peccato, come atto ingiurioso, (in ius, iuris) cioè che va contro la legge, lo ius divino. La malizia è l’atto consapevole del peccato stesso è può avere origine o per violenza o per frode.

I violenti sono posti nel VII cerchio che è diviso, a sua volta, in tre gironi.

Si può essere violenti sotto tre forme (corrispondenti ai tre gironi) contro il prossimo, sia nelle cose che nelle persone, se stessi e Dio. Quelli contro il prossimo, infatti possono uccidere (violenti contro le persone) o depredare, estorcere beni altrui o compiere rapine dannose (violenti contro le cose): questi sono puniti nel primo girone. Quelli violenti contro se stessi sono i suicidi e gli scialacquatori (giocatori d’azzardo e chi spreca, dannosamente, il suo patrimonio). Costoro sono puniti nel secondo girone. Nel terzo vengono i violenti contro Dio e la natura. Troviamo infatti qui i sodomiti, violenti contro la natura e quindi Dio, gli usurai e i bestemmiatori che con parole o con la mente offendono il Signore.

I fraudolenti sono posti nell’VIII cerchio e vengono distinti in dieci bolge.

La frode è ancora più grave, perché figlia dell’intelligenza dell’uomo che la esercita scientemente o contro chi non si fida o contro chi si fida.

Dopo questa spiegazione Dante chiede a Virgilio che peccato avessero commesso quelli incontrati sinora. La risposta è che essi appartengono tutti al peccato d’incontinenza, meno grave di quelli fin qui visti, perché si tratta di un uso non “buono” di disposizioni “buone” date da Dio all’uomo: quindi tali peccati sono visti con minor severità. Tale divisione d’altra parte, è figlia dell’Etica aristotelica che divide le azioni peccaminose degli uomini in tre grandi categorie, poste in modo ascendente: incontinenza, malizia e matta bestialità.

Dopo tale spiegazione Dante domanda ancora perché è ritenuto così grave il peccato d’usura: afferma Virgilio che il lavoro dell’uomo nasce ad imitazione di quello divino che si riflette, appunto nella natura. Come si dice nella Genesi, il lavoro deve produrre il sudore della fronte, cioè adoperarsi affinché la natura crei. L’usura nega il tempo, che è di Dio, e porta un guadagno che non è frutto di lavoro.

Inf._11_Priamo_della_Quercia_.jpgPriamo Della Quercia (XV secolo)

Canto XII
Settimo cerchio
I Girone

Violenti contro il prossimo
(Tiranni, omicidi-guastatori, predoni)

Il canto inizia la descrizione con il baratro da cui esalava l’odore nauseabondo per cui i due si erano fermati e Virgilio aveva mostrato l’ordinamento morale dell’Inferno.

Al fondo di questo baratro vi è il Minotauro (personaggio mitologico) a guardia, non tanto del luogo, quanto dell’intero cerchio:

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Gustave Doré: Il Minotauro

e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa 
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse? 
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene». 
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella, 
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale». 

e proprio sulla cima di quella spaccatura era distesa l’infamia, il disonore dell’isola di Creta (il Minotauro) che fu concepito nella falsa vacca di Pasifae; e quando ci vide, si prese a morsi da solo, come chi, impotente, è sopraffatto da un’ira interiore. La mia saggia guida gridò contro di lui con ironia: «Credi forse che sia venuto qui da te il principe ateniese, Teseo, che ti diede la morte lassù, nel mondo terreno? Fatti da parte bestiaccia: perché costui, Dante, non è venuto fin qui con gli insegnamenti di tua sorella Arianna (su come ucciderti), ma viene solamente per vedere le vostre punizioni.» Così come un toro che si è liberato dopo aver però già ricevuto il colpo mortale non sa fuggire ma si limita a saltellare da una parte all’altra, allo stesso modo vidi comportarsi in modo scomposto il Minotauro; e allora Virgilio, prudente, mi gridò: «Corri subito al varco: è meglio che ti cali già dalla sponda ora che quel mostro è infuriato.»

Quindi i due pellegrini cominciano a scendere e Virgilio spiega a Dante che poco prima che giungesse Cristo per liberare i padri che si trovavano nel limbo, la profonda valle infernale tremò così forte per un terremoto che diede origine alla frana appena passata. quindi lo invita a porre attenzione al fiume di sangue in cui sono immersi i violenti contro il prossimo.

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Gustave Doré: Centauri

A guardia del fiume sono i centauri che saettano chiunque tenti di emergere dal ribollente sangue. Accortisi dei due pellegrini, Chirone, che sembra essere il loro capo, fa notare ai compagni la corporeità di Dante:

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Gabriele Dell’Otto: Chirone

Noi ci appressammo a quelle fiere insnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
  fece la barba in dietro a le mascelle. 
  Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
  disse a’ compagni: «Siete voi accorti
  che quel di retro move ciò ch’el tocca? 
  Così non soglion far li piè d’i morti».
  E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,
  dove le due nature son consorti, 
  rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
  mostrar li mi convien la valle buia;
  necessità ’l ci ’nduce, e non diletto. 
  Tal si partì da cantare alleluia
  che mi commise quest’officio novo:
  non è ladron, né io anima fuia. 
  Ma per quella virtù per cu’ io movo
  li passi miei per sì selvaggia strada,
  danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, 
  e che ne mostri là dove si guada,
  e che porti costui in su la groppa,
  ché non è spirto che per l’aere vada». 
Ci avvicinammo intanto a quelle belve agili: Chirone prese una freccia e con la cocca, la parte terminale, sistemò i lunghi baffi ai lati della mascella, separandoli. Quando ebbe infine scoperto la bocca, disse ai suoi compagni: «Vi siete accorti che quello che sta più indietro muove le cose, i sassi che tocca? I piedi dei morti non sono soliti farlo.» E la mia brava guida, Virgilio, che era già arrivato vicino al suo petto, dove si uniscono le due nature dei centauri, quella umana e quella animale, rispose loro: «Lui è proprio vivo, ed io, così tutto solo, sono stato incaricato di mostrargli la valle tenebrosa dell’Inferno: ci ha portati fino a qua la necessità, non il puro piacere. Un tale personaggio ha lasciato il paradiso, dove si canta di gioia, e mi ha affidato questo nuovo incarico: non è un ladrone, e neppure io sono l’anima di un ladro. Per quella potenza divina che fa muovere i miei passi attraverso una strada tanto selvaggia, dacci uno dei tuoi, così che possiamo seguirlo da vicino, uno che ci mostri il punto in cui è possibile guadare il fosso e che porti costui sulla sua groppa, dal momento che non è uno spirito e non può volare.»

5050161212860056.jpgBartolomeo Pinelli: Dante e Virgilio in groppa a Nesso

Chirone affida i due pellegrini a Nesso il quale dapprima gli mostra dapprima i tiranni, immersi fino agli occhi, quindi coloro che si macchiarono di omicidio, immersi fino alla gola. A seguire, con l’intero dorso emerso, erano i guastatori (predoni) e gli incendiari. intanto il fiume di sangue s’abbassa, tanto da scottare solamente i piedi dei peccatori. Nesso indica loro che lì sarà il loro guado, spiegando inoltre che la profondità del fiume di sangue dove sono posti i violenti è proporzionale al peccato loro commesso.

Di questo canto i protagonisti sono i Centauri: non vi è nessun peccatore che emerge, ma solo i loro guardiani: ciò può essere determinato da un duplice motivo: da un lato le reminiscenze della cultura classica (ricordiamo che Chirone fu il maestro di Achille), dall’altra essi fanno da contrasto ai violenti. Infatti il loro corpo mostruoso nasconde  gentilezza e cortesia, il corpo umano dei violenti era carico di “mostruosità”, per questo non ha bisogno di mostrarli. Inoltre il contrappasso per analogia è molto evidente: colpevoli di aver sparso sangue nel mondo, ora sono immersi in esso a seconda della gravità delle loro azioni.

Canto XIII
Settimo cerchio
II Girone
Violenti contro se stessi
(Suicidi e scialacquatori)

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Gustave Dorè: le Arpie

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. 
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. 
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. 

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William Blake: I suicidi e le Arpie

(…)

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 
Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse. 
Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’ hai si faran tutti monchi». 
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? 
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi». 
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via, 
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme. 
«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima, 
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece». 

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Gustave Dorè: Pier delle Vigne

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi, 
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio, 
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto. 
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede». 
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». 
Ond’ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora». 
Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia 
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega». 
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi. 
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce. 
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta. 
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra. 
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. 
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». 

Il centauro Nesso non era ancora arrivato sull’altra sponda del fiume di sangue, quando io e Virgilio ci inoltrammo in un bosco privo di qualunque sentiero. Le fronde degli alberi non erano verdi, ma di colore nero; i rami non erano lisci e dritti ma nodosi e contorti, intricati; non c’erano frutti appesi ma solo spine velenose. Non abitano sterpaglie né più aggrovigliate né più folte di queste infernali, quegli animali selvaggi che fuggono, che evitano i luoghi coltivati tra Cecina e Corneto. Qua queste sterpi fanno i loro nidi le luride Arpie, che un tempo cacciarono i troiani dalle isole Strofadi con una lugubre predizione delle loro disgrazie future. Le Arpie hanno ampie ali e colli e volti dalle sembianze umane, artigli ai piedi ed una ampio ventre ricoperto di penne; da dagli alberi i mostri emettono strani lamenti.

Il maestro informa Dante che si trova nel secondo girone e che in esso scoprirà cose straordinarie:

Sentivo lamenti provenire da ogni parte ma non riuscivo a vedere chi li potesse emettere; mi arrestai pertanto tutto smarrito, sbalordito. Credo che Virgilio pensasse che io credessi che quelle innumerevoli voci provenissero, tra quegli alberi, da persone nascoste alla nostra vista. Mi disse pertanto il mio maestro: «Se tu recidi qualche ramoscello da una di queste piante, vedrai che i tuoi attuali pensieri cesseranno.» Allungai allora la mano in avanti e strappai un ramoscello da un grande arbusto; ed il suo tronco gridò: «Perché mi tratti così?» Dopo che fu tinto di sangue nerastro, uscito dal moncone, ricominciò a dire: «Perché mi laceri, mi ferisci? Non provi nessuna pietà per la nostra condizione? In vita siamo stati uomini, ed ora siamo trasformati in sterpi: la tua mano dovrebbe essere ben più rispettosa, anche se in vita fossimo state anime di serpenti.» Come una pezzo di legno ancora verde, bruciato da una delle sue estremità, geme dall’altra estremità e stride per l’aria che libera dal suo interno, allo stesso modo dalla scheggiatura nel tronco uscivano insieme parole e sangue; lasciai pertanto cadere la cima strappata e rimase impietrito, immobilizzato dalla paura. «Se costui avesse potuto credere subito», rispose la mia saggia guida, «oh anima lacerata, con le sole mie parole, in ciò che ora ha potuto vedere, non avrebbe disteso la sua mano tra i tuoi rami; Ma la vostra condizione è tanto incredibile che mi ha fatto decidere di spingerlo a compiere un gesto che a me stesso dispiace. Ma digli ora chi sei stato in vita, così che, in sostituzione di qualche altra ammenda, lui possa rinfrescare la tua fama nel mondo dei vivi, dove gli sarà consentito ritornare.» Il tronco disse: «Mi inciti a parlare con parole tanto cortesi, che io non posso tacere; e non vi pesi quindi se mi trattengo un poco a parlare con voi. Io (Pier della Vigna) sono colui che in vita tenne entrambi le chiavi del cuore di Federico II, e che le impiegò, per chiuderlo o aprirlo, volgendolo all’odio o all’amore, tanto dolcemente da escludere infine quasi ogni altro uomo dalle sue confidenze; operai con fedeltà e zelo nel mio glorioso lavoro di consigliere, tanto da perdere il sonno e le forze. La prostituta che dalla corte imperiale non allontanò mai i suoi occhi avidi, l’invidia, male del mondo e vizio comune a tutte le corti, accese contro di me tutti gli animi; e gli animi infiammati riuscirono ad infiammare contro di me anche l’imperatore, così che i lieti onori da me conquistati come consigliere si trasformarono in tristi disgrazie. Il mio animo, che per sua natura sdegna le giustificazioni, credendo di poter fuggire con la morte al disprezzo, mi rese crudele contro me stesso, e così mi uccisi. Ma sulle nuove radici di questo arbusto, vi giuro di non essere mai venuto meno alla fedeltà verso il mio signore, che fu tanto degno di onore. E se qualcuno di voi ritorna nel mondo dei vivi, dia nuovo vigore alla mia memoria, che giace ancora tutta malconcia per il colpo inflitto dall’invidia.» Virgilio stette un poco in silenzio, poi disse rivolto a me: «Dal momento che egli tace, non perdere tempo, parla e chiedigli pure qualcosa se hai il piacere di sentirlo ancora parlare.» Dissi allora alla mia guida: «Domandagli tu ciò che credi opportuno che io sappia; perché io non ne sarei capace, tanta è la pietà che provo per lui .» Virgilio ricominciò pertanto a dire: «Faccia quest’uomo generosamente ciò che tu lo hai pregato di fare, oh spirito imprigionato in questa pianta, ma a te piaccia in cambio spiegare perché la vostra anima venga incarcerata in questi tronchi nodosi; e dicci anche, se lo puoi fare, se mai alcuna ne sarà liberata.” Il tronco soffiò allora forte e quel vento si tramutò poi in queste parole: “Risponderò brevemente a voi. Quanto l’anima che è stata feroce contro sé stessa, lascia il corpo dal quale essa stessa si è voluta strappare, il giudice Minosse la manda in questo settimo cerchio. Essa cade in questa selva, in un punto non premeditato; là dove il caso l’ha lanciata, lei germoglia e mette rami come fosse stata un chicco di biada. Cresce poi come un virgulto e quindi come un albero silvestre: le Arpie vengono infine a nutrirsi delle sue foglie, strappandole dolorosamente e creando un ferita, finestra per il dolore. Come le altre anime, il giorno del giudizio anche noi verremo sulla terra per riprenderci i nostri corpi, ma non per indossarli; non sarebbe giusto riavere ciò che abbiamo gettato via. Trascineremo qui i nostri corpi ed in questo triste bosco verranno appesi, impiccati, ciascuno all’arbusto dell’anima che gli fu molesta in vita.”

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Marco Papagni: Pier delle Vigne (scultura)

Mentre Dante è ancora presso l’albero tronco di Pier delle Vigne, sente un rumore improvviso, determinato dalla fuga di due anime lacerate e graffiate inseguite da cagne nere. Uno si rivela essere Lano, che perse la vita nella battaglia del Toppo (presso Arezzo), mentre l’altro cercherà riparo nascondendosi dietro un tronco. Raggiunto dalle cagne viene morso e lacerato, così come vengono percossi i rami del cespuglio su cui aveva cercato rifugio. Quest’ultimo si lamenta col dannato, rivelandoci l’identità, Iacopo di Sant’Andrea e colpiti dal suo incolpevole lamento e dalla preghiera loro rivolta di raccogliere i rametti per metterli vicino alle sue radici.  Virgilio invita Dante ad interrogarlo, ma egli non rivelerà il suo nome: indicherà il luogo dov’era vissuto (Firenze) e svelerà il suo suicidio all’interno delle mure domestiche.

Il XIII canto presenta un altro grande personaggio della Comedìa dantesca: Pier delle Vigne, intellettuale e poeta della Scuola Siciliana. Tale grandezza Dante la risolve in modo retorico. Pier delle Vigne, infatti, era funzionario federiciano il cui stile cancelleresco latino risulta fortemente artificioso, ricco di figure retoriche, ampolloso e ridondante. Dante fa del poeta siciliano un dannato verbale, cioè capace del suono della parola (ha perso la connotazione di uomo con lo strumento atto a tale compito) l’unico che può caratterizzarlo e la sua parola è ricca di metafore, riprese dalla cacciagione (“adescare”, attirare e “inveschire” rimanere impigliato nel vischio) e dalla vita di corte (le chiavi per aprire il cuore per definire se stesso come consigliere privato) e ancora il poliptoto (la ripetizione di una stessa parola in proposizioni separate) riferite alla parola infiammati (“infiammò, infammati, infammiar”), l’allegoria della corte come meretrice, così come il parallelismo d’inizio e fine frase (ingiusto…. giusto). Non è tuttavia solo il linguaggio a caratterizzare il canto, quanto l’emulazione e la differenziazione con l’episodio di Polidoro nell’Eneide di Virgilio. E’ che lì non vi era una metamorfosi tra uomo e pianta: quest’ultima prendeva forma dalle frecce conficcate nel corpo di Polidoro, Dante va oltre inserendo anche reminiscenze ovidiane. Un ultima osservazione: dalla lettura del verso in cui Pier delle Vigne potremo arguire che il gesto compiuto non ebbe l’effetto sperato e che il suicidio sia stato in seguito interpretato come conferma di colpevolezza ed è questo, probabilmente, che ci voleva dire il cattolico Dante. L’ultima parte del canto ci presenta gli scialacquatori in una scena che sarà ripresa, in altro contesto, da Boccaccio nel suo Decameron.

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Bartolomeo Pinelli: Gli scialacquatori

Canto XIV
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

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Gustave Doré: Il sabbione infuocato

Il canto si apre senza soluzione di continuità con il precedente: infatti i due pellegrini, mossi da pietà per l’anonimo suicida fiorentino, raccolgono i rami ai piedi del suo albero. Quindi scendono nel terzo girone, costituito da un sabbione sabbioso su cui scende una lenta pioggia di fuoco che tormenta i dannati e incendia la sabbia. Vi sono dannati stesi in terra (bestemmiatori), che corrono (sodomiti) e altri seduti rannicchiati (usurai). I primi peccatori che Dante incontra sono i bestemmiatori. Fra di essi nota un dannato, che si mostra indifferente al fuoco, quasi a testimoniare il suo disprezzo verso Dio e l’espiazione che ha scelto per lui. E’ costui Capaneo, uno dei sette re di Tebe, che combatterono Eteocle per ridare il trono a Polinice. Dante riprende il mito dalla Tebaide di Stazio che lo vede dissacrare e sfidare Giove e la sua pena sta nella sua superbia e nella rabbia che mai si mitiga.

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William Blake: Capaneo

Dopo l’incontro con il possente re, giungono presso un fiumicciatolo (Flegetonte), rosso come il sangue, che attraversa l’intero sabbione, riparato da argini di pietra. E’ lui che smorza le falde di fuoco. Interrogato da Dante sui fiumi infernali, Virgilio le racconta il mito del Veglio di Creta:

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. 
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta. 
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida. 
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio. 
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata; 
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto. 
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta. 
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia, 
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta». 
E io a lui: «Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?». 
Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, 
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto». 
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova». 
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci. 
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa». 
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi, 
e sopra loro ogne vapor si spegne». 

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John Flaxman: Veglio di Creta (1793)

«In mezzo al mare si trova un paese decaduto dall’antico splendore» disse allora lui, «che si chiama Creta, che, nel tempo in cui il mondo era ancora casto, fu già dominata da un re (Saturno). C’é là una montagna che fu ricca di acqua e di vegetazione e che si chiama Ida: ed ora è invece deserta, abbandonata come una cosa vecchia. Rea scelse quella montagna come asilo sicuro per il suo figlioletto Giove, per meglio nasconderlo al padre Saturno, e quando il piccolo piangeva faceva fare frastuono per coprire il suo pianto. Nella cavità del monte sta ritto un vecchio gigante (il Veglio di Creta), che tiene le spalle rivolte verso Damietta d’Egitto e guarda invece Roma come se fosse il suo specchio. La sua testa è fatta d’oro puro, e di argento puro sono fatte le sue braccia ed il suo petto, è poi di rame fino al punto in cui si divaricano le gambe (il ventre); dalle gambe in giù è tutto fatto di ferro selezionato, ad eccezione del piede destro che è di terracotta; ma si tiene in piedi più su questo che sull’altro, il destro. Ogni parte del suo corpo, tranne la testa d’oro, è rotta da una fessura dalla quale gocciolano delle lacrime, che, raccolte ai piedi, attraversano il fondo della grotta. Il percorso di quelle lacrime arriva fin qua di roccia in roccia: e formano il fiume infernale Acheronte, la palude Stige ed il Flagetonte; ed infine scendono ancora più giù attraverso questo stretto canale fino ad arrivare al punto più profondo, dove non è possibile scendere oltre: e là formano lo stagno Cocito; ma come sia fatto questo, tu lo vedrai; perciò qui, ora, non ti dico nulla a riguardo.» Ed io gli chiesi allora: «Se questo rigagnolo nasce, come hai appena detto, nel nostro mondo, perché lo vediamo solo ora, vicino a questo lato della selva?» E lui mi rispose: «Tu sai bene che questo abisso è tondo; ma sebbene tu ne abbia già girato un bel pezzo camminando quasi sempre verso sinistra, scendendo verso il fondo, non sei ancora arrivato a compiere un intero giro: perciò, se improvvisamente ti appare alla vista una novità, non devi mostrare in volto nessuna meraviglia.» Ed io chiesi ancora: «Maestro, dove si trovano i fiumi Flegetonte e Léte? Quest’ultimo non lo hai neanche citato, dell’altro mi hai invece detto che si forma dalle lacrime che piovono quaggiù.» «Tutte le tue domande mi piacciono molto» mi rispose; «però quelle acque bollenti e color rosso sangue dovevano aver già risolto uno dei tuoi due dubbi (sul Flegetonte). Vedrai anche il fiume Léte, ma fuori da questo abisso infernale, lo vedrai là dove vanno a lavarsi le anime del Purgatorio quando hanno finalmente pagato le colpe di cui si sono pentiti.»

Ci troviamo di fronte ad un allegoria: se la testa è d’oro e non piange è perchè vi è stata un’età dell’oro, esente dal peccato. Ma le lacrime che dal corpo escono, il piede di ferro (potere temporale diminuito) e il piede d’argilla (potere spirituale corrotto), stanno a dimostrare che le lacrime versate sono frutto della malvagità del mondo che pertanto è giusto che si raccolga nell’inferno.

Canto XV
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Il canto inizia con il continuo avanzare dei due pellegrini in mezzo al vapore che il Flegetonte crea inghiottendo all’interno delle sue acque, tanto da non vedere più la selva dei suicidi.  

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi, 
quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera 
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. 

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Francesco Scaramuzza: Brunetto Latini (1859)

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». 
E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese 
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». 

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Anonimo: Incontro tra Dante e Ser Brunetto

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia.»
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco». 
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni». 
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada. 
El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?». 
«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena. 

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle». 
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto. 
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno, 

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico. 
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi. 

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Gustave Doré: Brunetto Latini e Dante

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba. 
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,

s’alcuna surge ancora in lor letame, 
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta». 
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando; 
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,

la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora 
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna. 
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo. 

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto. 
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra». 
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;

poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

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Renato Guttuso: Brunetto Latini (1970)

Già ci eravamo talmente allontanati dalla selva dei suicidi che io non avrei potuto più scorgerla, per quanto mi fossi rivolto indietro, quando incontrammo una schiera di anime che venivano lungo l’argine e ci guardavano, come sono soliti guardare qualcuno di sera sotto la luna nuova e aguzzavano lo sguardo verso di noi, come fa il vecchio sarto quando deve infilare il filo nella cruna. Così guardato fissamente da questa schiera, fui riconosciuto da un dannato, che mi prese per il lembo della veste e gridò: «Che meraviglia!». Ed io, quando lui distese verso di me il braccio, guardai fisso nel suo volto devastato dal fuoco, tanto che il viso bruciato non nascose la sua conoscenza nella mia mente; e avvicinando la mano verso il suo volto, risposi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». E lui: «O figliolo mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latini torna con te un po’ indietro e lascia andare la fila». Gli dissi: «Per quanto posso, ve ne prego; se volete che io mi fermi, lo farò, se mi è permesso da colui che m’accompagna». Disse: «O figliolo, chi di questa schiera si ferma anche solo un momento, deve stare disteso poi cento anni senza potersi difendere quando le falde di fuoco lo feriscono. Perciò cammina: io ti seguirò da presso, e poi raggiungerò la mia schiera, che procede piangendo i suoi eterni peccati». Io non osavo scendere dagli argini per camminare insieme a lui; ma tenevo il capo chino come uomo riverente. Egli cominciò a dire: «Quale caso o destino prima dell’ultimo tuo giorno di vita ti conduce quaggiù? E chi è costui che ti mostra il cammino?». «Lassù sulla terra, durante la vita illuminata dal sole» gli risposi «mi smarrii in una selva, prima che la mia vita avesse raggiunto il suo culmine. Solamente ieri mattina volsi le spalle alla selva: costui mi apparve, mentre io rovinavo verso di essa, e mi riconduce a casa attraverso questo cammino». Ed egli a me: «Se tu segui l’influenza della tua costellazione (i Gemelli), non puoi fallire nel raggiungere un porto glorioso, se io riuscii ben a capire durante la mia esistenza; e se io non fossi morto presto, rispetto a te, considerando come il cielo è nei tuoi confronti benevolo, ti avrei dato conforto alla tua opera (di uomo civilmente impegnato). Ma quell’ingrato popolo malvagio che anticamente discese da Fiesole e per questo ha ancora i caratteri aspri e selvatici, ti si farà, per il tuo bene operare, nemico, ed è naturale, perché tra i frutti aspri non è conveniente che frutti un dolce fico. Un vecchio detto definisce i fiorentini ciechi; è un popolo avaro, invidioso e superbo: cerca di restare immune dai loro costumi. La tua sorte ti riserva un così grande onore, che sia i Bianchi che i Neri vorranno divorarti; ma avranno il becco lontano dall’erba. Le bestie fiesolane si divorino tra loro, e non si permettano di toccare la pianta, se ve n’è ancora qualcuna che possa nascere nel loro letame, in cui riviva il seme santo di quei pochi romani che là rimasero quando fu fondato il nido di tanta malizia».«Se fosse del tutto esaurito il mio desiderio» gli risposi «voi non sarete ancora fuori della schiera umana, perché ho ancora ben vivo il ricordo, ed ora mi addolora, la cara e buona immagine paterna di voi quando, durante la vita, di tanto in tanto m’insegnavate come l’uomo possa eternarsi tra i vivi (per i suoi atti meritevoli): e quanto io l’abbia in gratitudine, finché vivo, si deve riconoscere nelle mie parole. Scrivo nella mia mente ciò che voi narrate circa il mio futuro, lo serbo perché mi sia spiegato, con altre parole, da Beatrice, se giungerò a lei. Voglio soltanto che vi sia ben chiaro, purché la mia coscienza non abbia da rimproverarmi nulla, che sono pronto a sostenere i colpi della Fortuna, qualunque cosa mi riserva. Non è nuovo ai miei orecchi questo impegno, perciò giri la Fortuna la sua ruota come vuole, ed il contadino volti la sua zappa». Il mio maestro, allora, si volse verso destra e mi guardò, quindi disse: «Ascolta bene, chi annota ciò che sente».

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Alberto Martini: Virgilio, Dante e Brunetto Latini (1901)

Il XV canto è importante non soltanto perché vi si conferma la profezia dell’esilio dantesco, ma perché ci proietta in un problema che, già intravisto con Francesca e Farinata, vede Dante rapportarsi con persone di cui ha avuto (una letteraria, l’altra politica) profonda stima. Tuttavia la stima si basava su qualcosa di extra biografico: l’aver sentito la storia di Francesca da Rimini e il conoscere in modo indiretto le gesta di Federigo, attraverso il racconto di Pier delle Vigne (quest’ultimo muore nel 1265, Dante nascerà dopo trent’anni esatti) lo portano lontano dallo stesso rapporto con Brunetto Latini, di cui Dante fu discepolo. Il problema pertanto è continuare il sentimento di stima, nonostante il peccato, considerato abominevole nel Medioevo, dell’omosessualità. Certo Dante non poteva averlo ignorato, neppure quand’era giovane, ma quando si trova di fronte alla moralità cattolica, non può allo stesso modo, non stigmatizzarlo. Dante, genialmente, lo fa in modo plastico, non contenutistico: egli prevale (essendo sopra l’argine) in quanto guidato dalla legge di Dio, ma al contempo china il capo, riconoscendogli il merito di avergli insegnato come l’uom s’eterni. Per meglio dire: Dante riconosce la validità tutta umana di Brunetto, ma rivela la sua peccaminosità dal punto di vista della morale cattolica. Il riconoscimento di Dante verso il suo maestro tuttavia ha disturbato a lungo una certa critica (soprattutto nel periodo del fascismo) che non poteva ammettere alcun segno di riverenza verso un omosessuale, per questo si era favoleggiato che l’andare contro natura di Ser Brunetto riguardava il suo uso della lingua francese (non naturale) di contro al volgare, ma è evidente che tale teoria si sia sviluppata contro ogni evidenza nella distribuzione dei peccati dantesca, sebbene sia da sottolineare come del peccato stesso di Ser Brunetto Dante non faccia mai menzione.

Dopo aver risposto alla domanda di Dante di chi fossero i suoi compagni (soprattutto intellettuali e chierici) Brunetto si congeda da Dante:

«Sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.»

«Ti raccomando il mio Tresor (opera il lingua d’oc), nel quale io vivo ancora, e più non chiedo.»

chiusa nella quale all’immortalità di Dio, Brunetto risponde con l’immortalità della cultura.

Canto XVI
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Lasciato definitivamente ser Brunetto, mentre in sottofondo si ode il rumore del Flegetonte che si versa nel girone sottostante, Dante vede avvicinarsi a sé tre sodomiti, disposti a cerchio, che si rivelano essere personalità eminenti della politica e dell’arte militare: Guido Guerra, famoso guerriero, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci (ambedue cavalieri di parte guelfa).

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Bartolomeo Pinelli: I tre sodomiti (1824)

Essi riferiscono a Dante che un nuovo compagno, unitosi nel girone dei sodomiti, Guglielmo Borsiere, ha riportato notizie sconfortanti sulla città di Firenze e loro vogliono sapere da Dante se quanto detto loro risponde a verità.

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Tom Phillips: I tre sodomiti (1982)

Così risponde loro il poeta:

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,

Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

«I nuovi ricchi e gli improvvisi guadagni hanno dato vita alla superbia e alla sregoletezza in te, Firenze, di cui sin da ora ti lamenti.»

Con questa risposta Dante mostra ancora una volta che ciò che rovina la città è il suo imborghesimento. L’importanza data al denaro e non più ai valori corrompono, secondo il poeta, i fiorentini che tuttavia non riesce a vedere in essi una nuova forza storica, capace non solo di rovinare, ma anzi di preparare la grande stagione del ‘400 italiano.

Canto XVI.JPGDante si sofferma ad osservare la cascata del Flegetonte

Intanto il rumore del fiume di sangue che si getta nel girone successivo diventa assordante. Virgilio domanda a Dante la corda che egli ha intorno ai fianchi, con la quale voleva aver ragione della lonza nella selva oscura. Il poeta latino la getta in fondo al burrone, come segnale per chi dovrà sopraggiungere dal basso per mostrarsi infine a Dante. Egli infatti, affacciatosi vede un essere che si eleva lentamente verso loro.

Canto XVII
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Ecco svelato il mostro che vince gli ostacoli della natura, penetra i muri e le armature e che appesta col suo fetore l’intero mondo:

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto; 
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle. 

(…)

così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

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Bernhard Gillessen: Gerione

Aveva la faccia dell’uomo giusto, tanto benevoli apparivano le sue sembianze esteriori, e tutto il resto del corpo di un serpente; aveva due branche pelose fino alle ascelle; la schiena ed il petto ed entrambi i fianchi erano tutti dipinti con nodi e scudetti: (…) allo stesso modo stava allora quella malefica belva sull’orlo estremo in pietra che circonda il sabbione. Tutta la sua coda guizzava libera nel vuoto, tendendo verso l’alto la forcella velenosa che armava la punta come quella di uno scorpione.

Il mostro è Gerione, diversamente interpretato, rispetto all’immagine classica, da Dante. Egli rappresenta l’allegoria della frode con la sua triplice natura: il volto umano, il corpo di serpente e la coda di scorpione. Virgilio invita Dante ad avvicinarsi ad esso, ma proprio lì vicino vede seduti gli usurai ed è la stessa guida a dire a Dante di farsi loro incontro per aver piena conoscenza dell’intero girone.

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Gli usurai (miniatura ferrarese del XV secolo) 

Dante li riconosce attraverso le loro borse che hanno tutte disegnato lo stemma di famiglia. Sembra non far piacere loro essere riconosciute, se si apprestano a nominare anche altri che giungeranno con lo stesso peccato. Ma sarà proprio il gesto dell’unico padovano dei tre (gli altri due sono fiorentini) che lo licenzia con una volgare linguaccia, a mostrare il fastidio che Dante nutre per questo peccato.

Quindi, Dante si avvicina al maestro e lo stesso lo invita a sedersi sulla groppa maculata di Gerione, nella parte anteriore, in quando Virgilio, ponendosi alle sue spalle, lo avrebbe sorretto e difeso dalla coda biforcuta; e così inizia la discesa, raccontata dall’io narrante in soggettiva:

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. 
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio. 
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti. 
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”, 
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello; 
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone, 
si dileguò come da corda cocca.

Gerione procede nuotando lentamente: gira in cerchio e scende continuamente, ma non me ne accorgo se non per l’aria che sento arrivare sul volto e dal basso. Io iniziavo già a sentire alla mia destra il vortice d’acqua del fiume Flegetonte rumoreggiare orribilmente sotto di noi, e sporgo quindi la testa per guardare verso il basso. Divenni allora ben più timoroso nell’allentare la presa delle gambe, vedendo giù in fondo dei fuochi e sentendo dei pianti; e tutto tremante strinsi di nuovo le cosce intorno al mostro. Mi accorsi poi, cosa che non avevo notato prima, del nostro scendere e girare in cerchio vedendo le grandi punizioni (dell’ottavo cerchio) che si facevano vicine da tutte le parti. Come il falcone da caccia che è stato per tanto tempo in volo, e senza aver sentito il richiamo o visto una preda fa dire al falconiere: “Ahimè, tu stai scendendo!”, planando stanco fino al punto da cui era partito agile, facendo centinaia di cerchi nell’aria, atterra infine lontano dal suo padrone, sdegnoso ed afflitto; allo stesso modo Gerione si depose sul fondo del burrone ai piedi della parete di roccia a strapiombo e, dopo aver lasciato scendere me e Virgilio, si dileguò infine veloce come una freccia scoccata da un arco.

La “Favolosa discesa” viene descritta a livello sensoriale: dapprima l’udito, col fragore delle acque del Flegetonte, quindi visivo/auditivo con i fuochi ed i pianti ed in ultimo visivo, perché il ruotare di Gerione gli permette un prospettiva completa, anticipando in questo modo la struttura delle Malebolge.

Canto XVIII
Ottavo cerchio
I Bolgia (Ruffiani e seduttori)
II Bolgia (Adulatori)

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Mappa dell’ottavo cerchio in Dante con l’esposizione di Bernardino Daniello da Lucca (1568)


Il canto inizia con il nuovo luogo (l’ottavo cerchio) in cui i due pellegrini si trovano dopo essere scesi dalla groppa di Gerione:

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.Botticelli, Malebolge: First and Second Bolge | The Core Curriculum

Botticelli: prima e seconda bolgia

C’è una regione dell’Inferno che è chiamata Malebolge, fatta tutta di pietra del colore del ferro, e cinta tutt’intorno da una parete della stessa natura. Nel centro esatto di quel campo maledetto si apre un pozzo molto largo e profondo, della cui funzione parlerò più avanti, quando sarà il momento. Rimane pertanto uno spazio circolare tra il pozzo ed i piedi dell’alta parete di roccia, ed ha il fondo diviso in dieci fossati distinti. Come, dove a difesa delle mura ci sono molti fossati a cingere i castelli appare l’area dove quei fossati si trovano, allo stesso modo apparivano laggiù quelle valli distinte; e come alle porte di tali fortezze ci sono dei ponticelli che portano da una riva all’altra, allo stesso modo là nell’Inferno dai piedi della roccia partivano degli scogli che attraversavano argini e fossati fino a raggiungere quel pozzo che li termina e raccoglie.

La topografia con cui il canto si apre è precisamente descritta : un cerchio in cui sono iscritti dieci centri concentrici, attraversati, come fossero i raggi di una ruota, da ponti di roccia: tale descrizione così dettagliata presenta già  una particolarità: la parola Malebolge è d’invenzione dantesca e “bolgia” nel medioevo significava “borsa, sacca”. Quindi il luogo è come se fosse composto da dieci sacche di “mala gente”, non più guardati da “mostri animali” (Gerione è come se soprassedesse alla complessità), ma da veri e propri diavoli: I ruffiani e seduttori, stipati nella prima bolgia, vendono frustati nel deretano da diavoli, riprendendo una forma di punizione piuttosto in voga nelle città medioevali per i peccati a sfondo sessuale.the-inferno-canto-18-1.jpgGustave Doré: Ruffiani e seduttori

Fra di essi Dante individia Venedico Caccianemico, suo contemporaneo, che ha costretto sua sorella Ghisola a prostituirsi con Obizzo d’este e Giasone (maestoso, tra gli altri dannati) che ha ingannato e poi lasciate sole Ifisile e Medea.lecchino-5.jpg

Giovanni Stradano: Gli adulatori (1857)

Nella seconda bolgia i peccatori sono immersi nella merda: qui riconosce Alessio Interminei da Lucca e la Taide della commedia l’Eunuco di Terenzio.

Ci sono alcune particolarità da rivelare in questo canto e che verranno riprese nell’ottavo cerchio: la disumanizzazione dei peccati e dei peccatori che tendono sempre più a non volersi fare riconoscere e l’accoppiamento classico / contemporaneo delle anime.malebolge_by_nivalis70-d7s72ot.jpgNivalis ’70: Gli adulatori

Per quanto riguarda Taide, i pochi versi a lei riferiti, ci dicono di una cattiva interpretazione del testo da parte di Dante, conosciuto attraverso il De amicitia di Cicerone: nella commedia, infatti, nell’atto III, scena I, Trasone chiede al servo Gnatone, che a nome di lui aveva presentato il dono: “Magnas vero agere gratias Thais mihi?” (Dunque Taide mi ringrazia?) e Gnatone risponde: “Ingentes” (ti ringrazia moltissimo); Dante scambia Thais per un vocativo, facendolo diventare: “Ho io, Taide, grandi benemerenze presso te?”, “Non grandi, straordinarie”, come fossero ricompense per i favori che la puttana Taide riceva dal suo drudo.

Canto XIX
Ottavo cerchio
III Bolgia (Simoniaci)

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».
E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec’io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
 ciascun da l’altra costa li occhi volse,
 quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
 fermò le piante a terra, e in un punto
 saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
 ma quei più che cagion fu del difetto;
 però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
 non potero avanzar; quelli andò sotto,
 e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
 quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
 ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
 volando dietro li tenne, invaghito
 che quei campasse per aver la zuffa;
e come ’l barattier fu disparito,
 così volse li artigli al suo compagno,
 e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
 ad artigliar ben lui, e amendue
 cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
 ma però di levarsi era neente,
 sì avieno inviscate l’ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
 quattro ne fé volar da l’altra costa
 con tutt’i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
 porser li uncini verso li ’mpaniati,
 ch’eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così 'mpacciati.
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Gustave Doré: Alichino alle prese con Ciampolo

Già mi capitò di vedere i cavalieri muoversi verso il campo, e lanciarsi in combattimento e mettersi in assetto, e qualche volta anche scappare, abbandonando il campo per mettersi in salvo; di vedere drappelli fare ispezioni nella vostra terra, o Aretini, e di vedere fare scorrerie, razzie, e di vedere combattere nei tornei e correre nelle giostre; e, a seconda dei casi, si davano segnali ora con trombe, ora con campane, oppure con i tamburi e con bandiere o fuochi accesi dai castelli, con modalità tradizionali nostrane oppure imparate dagli stranieri; ma mai mi capitò di vedere con una così diversa cornamusa (come quella di Barbariccia) mettere in moto cavalieri o pedoni, e neppure navi che si muovessero per cenni di terra o per apparire di stelle. Noi proseguivamo quindi il cammino con i dieci demoni: ahi che terribile compagnia! ma è normale che in chiesa ci siano i santi, e nelle taverne i golosi. Stavo sempre attento anche alla pece, per vedere tutte le condizioni della bolgia e delle persone che dentro di essa ardevano. Come fanno i delfini, quando lanciano segnali ai marinai facendo emergere l’arco della loro schiena, così che abbiano cura di mettere al sicuro la loro nave da una imminente tempesta, allo stesso modo, a volte, per ridurre la sofferenza della loro punizione, alcuni peccatori venivano a galla mostrando la schiena, per reimmergerla di nuovo subito dopo, all’istante. E così come sull’orlo dell’acqua di un fosso se ne stanno le rane con solo la loro testa fuori all’aria, celando in questo modo nell’acqua le zampe ed il grosso corpo, allo stesso modo se ne stavano da tutte le parti i peccatori; ma non appena si avvicinava loro Barbariccia, (per evitare la punizione) subito si ributtavano dentro la pece bollente. Vidi quindi, ed ancora il mio cuore rabbrividisce quando ci penso, un dannato rimanere invece a galla, come fa ogni tanto una rana intontita, quando ci si avvicina, mentre la sua vicina è già saltata via; allora Graffiacane, che era il più vicino a quel miserabile, con il suo uncino gli afferrò i capelli tutti ricoperti di pece e lo tirò fuori dalla fossa, tanto che mi parve una lontra. Io avevo già imparato il nome di tutti quei demoni, avendoli notati quando furono chiamati uno ad uno da Malacoda, ed, anche, quando si chiamavano, stavo attento a chi di loro rispondeva.
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William Blake: Ciampolo tormentato dai diavoli

«Oh Rubicante, fa’ in modo di mettergli addosso i tuoi unghioni, per scuoiarlo!» gridarono tutti insieme quei maledetti demoni. Ed io dissi allora a Virgilio: «Maestro mio, se puoi, fai in modo di conoscere il nome di quell’anima disgraziata caduta nelle mani dei suoi nemici.» La mia guida allora si avvicinò a lui; chiedendogli di dove fosse, da dove venisse, e l’altro rispose: «Io sono nato nella Navarra (in Spagna). Fui messo al servizio di un signore locale da mia madre, che mi aveva dato alla luce dalla relazione con furfante, sperperatore dei propri beni ed anche della sua vita (suicida). In seguito entrai nella corte del valoroso re Tebaldo: e là mi misi a fare il barattiere; di quelle mie azioni pago ore le conseguenze in questa pece calda.» A quel punto Ciriatto, dalla cui bocca sporgevano, una per parte, due zanne come ad un cinghiale, gli fece sentire come (con la zanna) fosse capace di stracciare la carne. La povera anima era finito come un topo tra gatte malvagie; ma Barbariccia lo strinse tra le sue braccia, e disse agli altri: «State lontani voi, mentre io lo tengo così, come inforcato.» E al mio maestro Virgilio rivolse quindi la sua faccia: «Fai le tue domande» disse, «adesso, se desideri sapere altro da lui, prima che intervenga qualcun’altro e lo faccia a pezzi.» La mia guida allora domandò: «Dimmi adesso: tra tutti i peccatori, ne conosci tu qualcuno che sia stato italiano ed ora si trova immerso nella pece?». E quello rispose: «Io mi allontanai, proprio poco fa, da uno che abitò vicino all’Italia: potessi stare ancora immerso là nella pece insieme a lui! non sarei ora qui a temere né le unghie né gli uncini.» Allora Libicocco disse «Abbiamo già aspettato troppo»; e gli afferrò quindi il braccio con il suo bastone uncinato, in modo da, stracciando, strappargli un pezzo di carne viva. Anche Draghignazzo volle afferrarne il corpo in basso alle gambe; ma Barbariccia allora, loro comandante, si volse tutti intorno verso di loro con modi molto più aggressivi. Quando tutti i demoni si furono un poco calmati, al peccatore, che stava ancora guardando la ferita subita, Virgilio domandò senza esitare oltre: «Chi è colui dal quale ti sei malauguratamente separato, come hai detto tu di aver fatto, per finire poi su questa riva?» Ed egli rispose: “E’ frate Gomita, quello che abitava in Gallura, maestro di ogni tipo di truffa, che, avuti in mano i nemici del suo padrone, lì tratto in un modo che può ancora essere motivo di vanto per ciascuno di loro. Ricevette del denaro e li lasciò liberi con un processo sommario, come dice lui nel suo gergo (sardo); ma anche negli altri suoi incarichi agì non solo come barattiere, ma come il re dei barattieri. Insieme a lui si trova anche il signor Michele Zanche di Logudoro; e di parlare della loro Sardegna non si stancano mai le loro due lingue. Ohimé, vedete anche voi l’altro demone che digrigna i suoi denti: Io continuerei anche a parlare, ma temo che egli si stia preparando a grattarmi la rogna di dosso.» A queste parole Barbariccia, il grande capo, si rivolse a Farfarello che stava stralunando gli occhi per vibrare il colpo e ferire Ciampòlo e disse: «Fatti più in là, allontanati, uccellaccio maligno». «Se voi volete vedere e sentire» riprese a parlare allora Ciampòlo, ripreso un poco il coraggio, «anime Toscane o Lombarde, io ne farò venire a galla qualcuna; ma è necessario che i diavoli Malebranche stiano un pò distanti, cosicchè i miei compagni non abbiamo a temere la loro vendetta; allora io, stando seduto in questo stesso posto in cui mi trovo, pur trovandomi da solo, ne farò venire a riva sette, mettendomi solo a fischiettare, come siamo soliti fare quando qualcuno si tira a galla, fuori dalla pece, e vede che non ci sono pericoli.» Cagnazzo, sentendo una simile proposta, alzò il muso scrollando il capo in segno di disapprovazione, e disse: «Senti che inganno si è inventato per riuscire a scapparci, ributtandosi nella pece.» Ma Ciampòlo, che in fatto di inganni era un grande esperto, rispose: «Se al limite inganno qualcuno, inganno i miei compagni, che richiamo esponendoli a pericoli maggiori.» Alichino non seppe allora trattenersi, e, in contrapposizione agli altri demoni, disse all’anima: «Sappi che se tu ti getterai giù nella fossa, io non ti correrò certo dietro, ma verrò ad afferrarti volando veloce con le ali sopra la pece: lasciamolo pure libero sull’argine e noi andiamo a nasconderci dietro il pendio, e vediamo se da solo vale più di tutti noi.» Oh lettore, sentirai adesso di una gara mai vista: ogni demonio si girò, rivolgendo il proprio sguardo verso l’altro pendio della bolgia, primo tra tutti Cagnazzo, che sembrava essere quello più difficile da convincere. Ciampòlo, il navarrese, colse al volo il momento giusto: puntò bene entrambi i piedi a terra e nello stesso istante spiccò un salto, liberandosi da Barbariccia, il loro gran comandante. Ogni diavolo si sentì punto dal rimorso, ma più di tutti si sentì punto Alichino, che era stato la causa; perciò spiccò subito il volo gridando: «Ora ci sei! Sei mio». Ma gli servì a poco: perché le sue ali non riuscirono a battere in velocità la paura di Ciampòlo: questo si immerse subito nella pece, l’altro dovette tirarsi dritto e tornare indietro a mani vuote: non diversamente l’anatra, improvvisamente, si tuffa sott’acqua quando sente avvicinarsi il falcone, che torna su in alto nel cielo sconfitto e per questo adirato. Calcabrina, arrabbiato per la beffa subita, volò subito dietro ad Alichino sperando che Ciampòlo riuscisse a scappare, così da poter attaccare lite con il compagno; perciò, non appena il barattiere si fu messo al riparo sotto la pece, rivolse subito i propri artigli verso Alichino, lo afferrò e lo trascinò così preso sopra il fosso. Ma a sua volta Alichino si comportò da bravo rapace, riuscendo ad afferrare a sua volta l’altro con i propri artigli, ed entrambi caddero così nel bel mezzo della pece bollente. Il calore spinse subito tutti e due a lasciare la presa; ma non riuscirono comunque a sollevarsi dalla pece, tanto avevano le ali impiastrate ed appesantite. Barbariccia allora, tanto addolorato per quanto era accaduto, così come lo erano gli altri, fece volare quattro suoi demoni dalla riva opposta, tutti dotati di bastoni uncinati, e velocemente, da una parte e dall’altra, scesero lungo la riva fino alla pece: allungarono i loro uncini verso i due demoni tutti invischiati; che oramai erano già cotti dall’esterno fino al dentro; e noi li lasciammo così, imbarazzati per l’accaduto.
L’incipit del canto è legato, in modo fortemente ironico, al canto precedente, facendo sì che fra i due non ci fosse alcuna frattura, ma che costituissero un solo episodio, una solo cerchio, una sola bolgia e gli stessi protagonisti. Eppure qualcosa di diverso c’è ed è la presenza dei dannati: se nel precedente a farla da padrone erano stati i diavoli, cui spalla era la paura di Dante, qui, una volta che si è già venuto a sapere chi sono e come si comportano lo sguardo è posato sui dannati.
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William Blake: La lotta tra i diavoli
Questi ultimi sin dall’inizio sembrano usciti dai bestiari medievali in un crescendo di ributtante similitudine: dapprima delfini che mostrano la schiena, quindi rane appiattite a gracidare osservando il mondo ed il modo per scampare il pericolo ed infine la lontra, tirata su con un pendaglio. Tra questi dannati vi è il protagonista, Ciampolo: nessuna umanità in lui (d’altra parte è difficile averne in questa lotta serrata con i diavoli), ma “figuralmente” la capacità di continuare a barattare con essi per trarne vantaggio.
In ultimo la stupidità dei diavoli, che probabilmente si odiano e fanno a gara loro stessi contendendosi i dannati. E’ stato proprio il barattiere spagnolo a giocare con loro mettendo in luce l’inconsistente boria e l’imbecillità che li contraddistingue: lancia una sfida che il diavolo Alichino raccoglie e perde e per la rabbia di essersi fatto fuggire un dannato Calcabrina lo va a colpire dando vita alla famosa zuffa tra diavoli. Insomma pur rotti dai vizi della vita si fanno fregare da un piccolo furfante, ma a far vincere quest’ultimo è l’intelligenza di Ciampolo di cui sembra che a loro difetti del tutto. 

Canto XXIII
Ottavo cerchio
V Bolgia (I barattieri)
VI Bolgia (Gli ipocriti)

Il canto si lega con i precedenti due: i diavoli “sconfitti” in astuzia da Ciampolo, sono stati visti perdere la battaglia e l'”onore” da Virgilio e Dante e sanno che essi non sono affatto lieti che, scampando, possano in seguito raccontarlo in giro. Pertanto s’affrettano a raggiungere il declivio che li porterà alla sesta gioia essendo stato detto loro (falsamente) che il ponte atto a traghettarli è crollato. Infatti mentre corrono sentono alle loro spalle i diavoli; Virgilio prende in braccio Dante e, lasciandosi scivolare tra le pietre, non lo pone in terra finché non giunge alla sesta bolgia, osservando i diavoli che, grazie alla provvidenza divina, s’arrestano di colpo perché non è concesso loro di superare il luogo da loro presieduto. 

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Denis Forkas: Gli ipocriti

Scampato il pericolo il nostro trova un manipolo di persone che camminano, in lacrime, lentamente, con il volto prostrato dalla fatica. Infatti indossano un mantello, come i monaci cluniacensi, fuori color d’oro e dentro piombati; noi li seguiamo nel loro giro, ma procedono talmente lentamente che noi, più veloci, ci imbattiamo sempre in volti nuovi. Ad un certo punto uno, guardando biecamente da sotto in su, invita loro ad andare più lentamente, informandoli di essere nella bolgia degli ipocriti e d’essere Catalano, un frate gaudente di Bologna. Quindi incontrano un uomo conficcato nudo in terra sopra ilm quale essi devono passare: è Caifa e con lui è qui tutto il sinedrio che ha condannato Gesù. Virgilio, rivolgendosi al frate, gli chiede se ci fosse, sulla destra, un modo d’uscire dalla sesta bolgia: quando viene a sapere che non è il ponte della quinta bolgia crollato, come gli aveva detto Malacoda (che chissà dove voleva portarli) ma quello della sesta, Virgilio si rabbuia, prendendosi anche lo sberleffo del frate che gli ricorda che lo sanno anche nell’Università di Bologna che il diavolo è falso, facendosi beffe dell’ingenuità del grande poeta latino.

Canto XXIV
Ottavo cerchio
VII Bolgia (I ladri)

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Bartolomeo Pagani: I ladri (1825)

Come sappiamo dal canto precedente per raggiungere il ponte che copre la settima bolgia, Dante e Virgilio si devono inerpicare sull’argine che li divide: cammino assolutamente non facile che metaforicamente sta ad indicare la fatica che il peccatore deve affrontare per raggiungere la salvezza; questo ci dice l’estrema attenzione che il poeta dedica alla descrizione del luogo (la solita esigenza realistica in un luogo fantastico) finalizzata a farci percepire la stanchezza che il Dante protagonista prova, la sua esigenza di riprender fiato ed il rimprovero di Virgilio che lo sprona a vincere l’affaticamento che qui risulta quasi nullo rispetto a quello che l’aspetterà nella montagna del Purgatorio.

Quindi spostando lo sguardo in soggettiva, con una focalizzazione interna, il poeta mentre sale, con difficoltà nel ponte, dapprima sente delle voci, quindi invita Virgilio ad andare nell’atro argine e qui vede un incredibile groviglio di serpenti:

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci».
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: «Più mi duol che tu m’ hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ ho perché doler ti debbia!».

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Claudio Buz: Vanni Fucci

La Libia non si può più vantare delle sue spiagge; perché anche se produce chelidri, iaculi e faree e cencri e anfisibene, svariate specie di serpi, non può dire di avere mai avuto serpenti così pestiferi e velenosi nemmeno mettendosi insieme a tutta l’Etiopia ed a tutte le terre che si trovano sopra al Mar Rosso, a tutto il deserto arabico. In mezzo a questa gran quantità di serpenti feroci correva della gente nuda tutta spaventata, senza la speranza di poter trovare un rifugio o la pietra elitropia, che dà invisibilità: avevano le mani legate dietro la schiena con dei serpenti; le serpi ficcavano la coda e la testa tra le mani ed i reni dei dannati, di qua e di là, ed si annodavano poi sul dorso. Improvvisamente un dannato che si trovava dalla nostra parte, fu assalito da un serpente e trafitto là dove il collo si unisce alle spalle. Mai fu scritta né una “o” né una “i” tanto velocemente, quanto ci impiegò quel disgraziato a prendere fuoco e bruciare, tanto che divenne tutto cenere mentre cascava al suolo; e dopo che fu così ridotto a cenere in terra, la sua polvere si raccolse da sola e nello stesso istante ritornò di colpo ad essere la medesima figura di prima, così come i grandi saggi del passato dichiarano che la Fenice muore per poi subito rinascere, quando si avvicina ai cinquecento anni di vita: lei che quando è in vita non si nutre né di biada né di erba, ma solo di lacrime d’incenso e d’amomo, ed il suo drappo funerario sono il nardo e la mirra. Ed al modo di chi cade, e non sa come sia accaduto, se a causa di un demone che lo ha strattonato in terra, o per un altro tipo ostacolo che lega e non lo lascia stare in piedi, che quando si rialza, si guarda intorno tutto smarrito a causa della grande angoscia che ha provato, e guardandosi intorno sospira; allo stesso modo fece il peccatore quando si rialzò. Oh quant’è severa la potenza di Dio, che per punire i peccatori sferra tali colpi! La mia guida Virgilio gli domandò chi dunque egli fosse; ed egli rispose: «Io sono piovuto dalla Toscana, non molto tempo fa, per finire in questa bolgia feroce. Mi piacque la vita bestiale e non quella umana, essendo io un bastardo; io sono Vanni Fucci detto Bestia, e Pistoia fu la tana degna della mia esistenza». E io dissi a Virgilio: «Digli di non scappare, e chiedigli quale colpa lo ha spinto quaggiù; perché io l’ho conosciuto come uomo sanguinario e litigioso, non come ladro». E il peccatore che aveva capito le mie parole, non finse di non aver udito, ma si rivolse a me tutta la sua attenzione ed anche il volto, che si colorò di rosso per la triste vergogna; poi mi disse: «Mi dispiace di più che tu mi abbia incontrato qui nella miseria in cui mi vedi, piuttosto che non la stessa morte con cui fui tolto alla vita. Io non posso negarti quanto tu mi chiedi: io sono stato sistemato in questa bolgia dell’inferno perché fui io che derubai dei bei arredi la Sagrestia di San Giacomo a Pistoia, delitto la cui colpa fu però assegnata falsamente ad altri. Ma affinché tu non possa godere per avermi visto quaggiù, se mai uscirai da questi luoghi bui, apri bene le orecchie alla mia predizione, e ascolta: prima Pistoia vedrà cacciati da sé i Neri: ma poi Firenze sostituirà nuovamente i Banchi con i Neri, cambiando governo e leggi. Per opera di Marte, dalla Valle di Magra soffierà un vento con nuvole scure; e si abbatterà una tempesta impetuosa e terribile sopra il territorio di Pistoia, dove si combatterà duramente; il vento violento spazzerà poi via la foschia che lo avvolge con una forza tale che ogni Bianco ne resterà ferito. E questo te l’ho predetto così che tu te ne possa dolere!”.

Il brano qui presentato si può dividere in due parti:

  • la sfida letteraria con i classici, in questo caso l’Ovidio delle Metamorfosi, nella rappresentazione della Fenice che costituisce la prima metamorfosi che avvengono nella bolgia;
  • la presentazione di Vanni Fucci che occupa l’ultima parte dell’intero canto. 
In questa VII bolgia risulta addirittura scoperto il contrappasso: la presenza dei serpenti, popolarmente giudicati infigardi, astuti, mimetici e il loro passarsi i corpi con i dannati, indica appunto il furto presentati qui in forma parossistica (soprattutto nel canto seguente con questo costituisce un dittico); ma più importante è la figura di Vanni Fucci: il rapporto tra la “bestia” (vita bestial dice della sua esistenza il peccatore) e Dante è nullo, se invita Virgilio a parlare con lui evitando appunto alcuna forma di dialogo; lo ha riconosciuto come assassino, ma non come ladro e sarà lo stesso Fucci a rivelargli il furto sacrilego di cui è incolpato. La vergogna per esser stato scoperto lo rende ancora più cattivo nei confronti di Dante, tanto da profetizzare il suo esilio, ma questa volta al contrario delle precedenti (quella di Farinata, con la consapevolezza dolorosa di un destino comune chi li accomunerà, quella di Brunetto Latini doloroso, ma pieno di orgoglio per il discepolo preferito) la predizione di Vanni è piena di rabbia e di vendetta, oserei dire contenta di poter far provare dolore, lo stesso che egli ha sentito, mescolato alla vergogna, per il riconoscimento. 

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Priamo della Quercia: canto XXIV

Canto XXV
Ottavo cerchio
VII Bolgia
(I ladri)

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Giovanni Stradano: I ladri (1857)

L’inizio del canto XXV inizia allo stesso modo con cui si era interrotto il XXIV, all’ira espressa verbalmente da Vanni Fucci ne segue il gesto osceno rivolto contro Dio, reo di averlo fatto riconoscere da un vivo:

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse “Non vo’ che più diche”; 
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

Dopo aver finito di parlato il ladro alzò entrambe le mani facendo il gesto delle fiche (pugno chiuso e pollice tra l’indice e il medio) gridando: «Prendi, Dio, le rivolgo direttamente a te!». Da quel momento in poi i serpenti mi diventarono simpatici, perché uno di essi lo avvolse subito intorno al collo, come a dire: «Non voglio che tu parli ancora»; e un’altra si attorcigliò alle sue braccia, legandolo e rilegandolo, ponendosi più volte sul petto del dannato, cosicché non potesse con le braccia dare uno scossone per liberarsi.

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Francesco Scaramuzza: Vanni Fucci (XIX sec.)

Segue quindi l’invettiva contro Pistoia  (paese originario di Vanni) e la sua fuga, quindi prosegue il racconto, con la descrizione del centauro Caco:

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia. 
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco. 
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».

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Il centauro Caco

Egli fuggì e non poté più dire una parola; e intanto vidi un centauro avvicinarsi, tutto pieno di rabbia, gridando: «Dov’è, dov’è quel dannato non ancora piegato dalla pena?». In tutta la Marenna toscana non credo ci siano tante bisce, quante ne aveva quel centauro sulla schiena, fino a dove cessa la natura di cavallo e inizia l’aspetto umano. Sopra le spalle, dietro alla nuca, si trovava un dragone con le ali dispiegate; che sputava fuoco contro chiunque incontrasse sulla sua via. Il mio maestro Virgilio mi disse: «Questo centauro è Caco, il quale, nella grotta che si trova sotto il monte Aventino, spesso fece un lago con il sangue delle sue vittime. Non corre sulla riva del Flegetonte insieme ai centauri suoi fratelli a causa dell’astuto furto che compì sottraendo parte della mandria condotta da Ercole, quando l’ebbe vicino; furto a causa del quale egli cessò poi le sue azioni malvagie sotto la mazza di Ercole, che forse gli diede cento colpi, ma furono talmente forti, che forse egli non sentì nemmeno i primi dieci».

Mentre Virgilio parla si sentono le voci di tre ladri di cui assistiamo le metamorfosi, la cui consapevolezza della perizia letteraria dello scrittore, gli fa dire di aver superato le capacità linguistica di Lucano e di Ovidio:

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, 
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. 
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more. 
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno». 
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. 
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste. 
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. 
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa, 

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe; 
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso. 
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse. 
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca. 
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio; 
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. 
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme. 
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse. 
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti. 
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela, 
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso. 
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie; 
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. 
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia; 
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. 
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle».
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra. 
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato; 
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

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William Blake: La metamorfosi del ladro fiorentino

Io non li conoscevo; ma accadde allora, come può capitare che accada a volte per caso, che l’uno dovette chiamare l’altro per nome, dicendo: «Cianfa dove sarà rimasto?»: perciò io, affinché il duca prestasse loro attenzione, mi misi l’indice sulla bocca, dal mento al naso, per farlo stare zitto. Se tu ora, lettore, stenti a credere in quello che io ora sto per scrivere, non ci sarà certo da sorprendersi, perché pure io che lo vidi con i miei occhi, faccio fatica a ritenerlo vero. Mentre io tenevo il mio sguardo bene concentrato sui tre dannati, un serpente con sei zampe che si lancia all’improvviso su uno di loro, e gli si avvinghia tutto addosso. Con le zampe di mezzo gli circondò la pancia, con quelle anteriori gli afferrò le braccia; poi gli addentò entrambe le guance; poi distese le zampe posteriori in mezzo alle cosce, e tra esse mise la coda che ritorse poi su lungo i reni del dannato. Non ci fu mai una edera così tanto avvinghiata ad un albero come quell’orribile animale tutto attorcigliato con le sue membra intorno a quelle di quell’infelice. Poi si fusero insieme come fossero fatti di cera calda e mischiarono quindi anche il loro colore, tanto ché né l’uomo né il serpente sembravano essere più quelli di prima, come accade alla carta quando la si mette davanti alla fiamma, che va prendendo un colore bruno che non è comunque ancora nero, mentre il bianco va via via scomparendo. Gli altri due dannati li stavano a guardare e gridavano entrambi: «Ohimè, Agnello, come stai cambiando! Vedi come ormai non sei né uomo né serpente e nemmeno uomo e serpente». Le due teste erano già divenute una sola, quando, nell’unica faccia, apparvero due figure mischiate tra loro, quella d’umana e quella di serpente, ma entrambe irriconoscibili. Si fecero due braccia dalle quattro iniziali; le cosce, le gambe, il ventre e il busto divennero delle membra mostruose, mai viste prima. Ogni aspetto originale era stato cancellato: quella figura deforme non assomigliava più né all’uomo né al serpente; e in questa sua nuova forma se ne andò infine a passo lento, instabile. Come il ramarro sotto la l’opprimente caldo dei giorni di afa, passando da una siepe all’altra, sembra un lampo quando attraversa la strada, tanto è veloce, allo stesso modo sembrava procedere, venendo verso il ventre degli altri due, un serpentello fiammeggiante (Francesco Cavalcanti), di color bluastro e nero come un grano di pepe; e in quella parte, l’ombelico, dalla quale riceviamo il nostro primo nutrimento quando siamo nel ventre materno, trafisse uno di loro; e poi cadde a terra davanti al dannato che aveva trafitto. Il ferito (Buoso Donati) stette a guardarlo ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava come se avesse sonno o gli stesse venendo la febbre. Lui guardava il serpente, e il serpente fissava lui; l’uno dalla ferita, e l’altro dalla bocca emettevano un fumo intenso, e i due flussi si scontravano. Taccia Lucano là dove scrive delle sorti del povero Sabello e di Nassidio, e stia anzi ora a sentire quello che ora parte dall’arco del mio dire. Taccia anche Ovidio riguardo a Cadmo e Aretusa; perchè se lui muta Cadmo in serpente e Aretusa in fonte nella sua poesia, io non lo invidio affatto la sua arte; poiché mai arrivò a mutare due nature così diverse, come quella umana e quella del serpente, una nell’altra, così che entrambe le forme fossero disposte a scambiarsi la propria materia. Insieme i due si risposero l’un l’altro con tali leggi, che mentre il serpente divideva la coda come una forca, il ferito stringeva i piedi a formare un unico membro. Le gambe e più su le sue stesse cosce si saldarono insieme tra loro tanto che in poco della giuntura non rimase più alcun segno visibile. La coda aperta del serpente prendeva invece la forma delle gambe, che andavano scomparendo nell’uomo, e la sua pelle si faceva più molle, mentre quella dell’uomo diventava al contrario più dura e squamosa. Vidi poi che le braccia dell’uomo rientravano nel corpo dalle ascelle, mentre le zampe anteriori del serpente, che erano corte, si allungavano tanto quanto le braccia dell’uomo si accorciavano. Poi le zampe posteriori, attorcigliandosi e fondendosi diventarono il membro (il pene) che l’uomo pudicamente cela, e l’altro misero dannato spingeva fuori dal suo due nuovi arti. Questo succedeva mentre il fumo avvolgeva l’uno e l’altro in un colore nuovo, e generava peli sulla pelle del serpente facendo nello stesso tempo perdere all’uomo, quello che prima era serpente si alzò e l’altro cadde a terra, senza smettere però mai di guardarsi fissi negli occhi, sotto i quali ciascuno di loro andava cambiando faccia. Quello che era in piedi, accorciò il muso da serpente verso le tempie, e dalla materia in più che rimase si formarono le orecchie, che sporsero dalle gote che prima ne erano prive: dalla materia che non passo indietro e che era presente in abbondanza, si formarono quindi il naso e si ingrossarono le labbra nella giusta misura, tanto quanto conveniva. Quello che giaceva a terra, allungò il muso all’infuori, e ritirò le orecchie dentro la testa come è solita fare la lumaca con le sue corna; e la lingua, che prima aveva unita e capace a parlare, si divise e divenne biforcuta, mentre quella dell’altro, prima divisa,si saldò in unico pezzo; poi il fumo cessò di uscire dai loro corpi. L’anima che si era tramutata in bestia, fuggì via per la valle sibilando, mentre l’altro le sputò dietro e riprese a parlare. Quindi gli voltò le spalle appena riacquistate, e disse all’altro: «Io voglio che Buoso corra, come ho fatto io, a carponi, per questo sentiero». Così io vidi le anime dannate della settima bolgia mutare e trasformarsi; e qui la novità della materia trattata mi valga da scusa se la mia arte ha generato un poco di confusione. E sebbene i miei occhi fossero un po’ confusi per quanto appena visto, e l’animo mio fosse smarrito, i due dannati non mi poterono sfuggire alla vista, così che io riuscii a riconoscere bene Puccio Sciancato; che era l’unico, dei tre compagni giunti prima presso di noi, che non era stato trasformato: l’altro era Francesco Guercio dei Cavalcanti, quello la cui morte tu, Gaville, piangi.

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Manoscritto del XIV secolo con l’illustrazione dell’ultima metamorfosi

E’ un canto che, iniziatosi con l’icastica scena di Vanni Fucci, ancora stagliatosi come “personaggio forte” nella bolgia dei ladri, cessa di parlare dell’uomo, per soffermarsi nello sguardo attonito, ed insieme ammaliato, di un Dante contemplatore le metamorsi come castigo divino. Se la prima, presente nel canto precedente, ci mostrava un Vanni Fucci continuamente morente e risorgente (dove l’immagine icastica – paragonata a quella della Fenice – appare quasi funzionale al personaggio), qui le trasformazioni cancellano quasi del tutto i protagonisti di esse, lasciandoci appena il ricordo di tre ladri fiorentini dai nomi appena accennati e senza passato, per concentrarsi nella mirabilia di ciò che succede: la seconda è la fusione di un uomo ed un serpente che dà vita ad una forma mostruosa, che non conserva nulla né della prima, né della seconda natura, la terza la lo scambio simmetrico tra una serpe e un uomo, risolto stilisticamente in terzine che mostrano, alternativamente, ciò che accade in una natura e nell’altra. Lo stesso Dante si rende conto dell’estrema perizia lessicale che contraddistingue questo passo tanto che lo stesso Francesco De Sanctis lo definì “il più grande sforzo dell’immaginazione umana”.

Canto XXVI
Ottavo cerchio
VIII Bolgia
(I consiglieri fraudolenti)

La prima parte del canto, ricollegandosi alla bolgia dei ladri, inizia con un’apostrofe a Firenze, riconosciuti in mezzo alle metamorfosi dei dannati. Quindi inizia sottolineando il concetto d’ “ingegno” che lui deve limitare, ma che il protagonista del canto non seppe frenare, diventando il simbolo di chi, per conoscere, supera i limiti posti da Dio: 

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Gaspare Landi: Ulisse e Diomede rubano la statua di Atena

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
“.

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo
,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

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Miniatura del XIV secolo

Mi rattristai quindi, e mi rende ancora triste oggi riportare alla mente ciò che allora vidi, e limito quindi il mio ingegno più di quanto non sia solito fare perché non corra senza essere guidato dalla virtù; così che, sa la mia buona stella o la divina provvidenza mi hanno fatto dono dell’ingegno, io non possa usarlo contro di me, recandomi danno, come farebbe un nemico invidioso. Quante il contadino che si riposa in collina, d’estate, quando il sole, che illumina il mondo, ci mostra la sua faccia in modo meno nascosto, non appena, al tramonto, le mosche lasciano il posto alle zanzare, vede lucciole giù per la vallata, presenti forse anche là dove prima vendemmiava ed arava: di altrettante fiamme risplendeva tutta quanta l’ottava bolgia, così come me ne resi conto non appena giunsi là dove riuscivo a scorgere il fondo della valle. E come Eliseo, colui che ottenne vendetta per mezzo di orsi, vide la partenza del carro su cui si trovava Elia quando i cavalli che lo trainavano si levarono dritti al cielo, e non era in grado di seguirne il percorso con gli occhi riuscendo a vedere nulla d’altro che una sola fiamma salire in cielo simile ad una nuvoletta: allo stesso modo si muoveva ogni fiammella che vedevo, lungo la gola di quel fossato, senza lasciare intravedere il peccatore rapito in essa, ed ognuna al proprio interno ne nascondeva uno. Io stavo sul ponte, sporto in avanti per vedere meglio, tanto che se non mi fosse aggrappato da un masso sporgente, sarei di certo caduto giù anche senza essere stato spinto. E Virgilio, che mi vide tanto attento, mi disse: «Dentro quei fuochi ci sono gli spiriti dannati; ciascuno è ricoperto di quel fuoco da cui è bruciato.» «Mio maestro», risposi, «sentendotelo anche dire, sono ora più certo di ciò che vedo; ma già prima avevo pensato che le cose stessero come tu dici, e già volevo domandarti: chi c’è in quel fuoco che viene verso noi, diviso in alto in due fiamme, tanto che sembra essere stato generato dalla pira sulla quale furono bruciati i cadaveri di Eteocle e del fratello Polinice?» Mi rispose la mia guida: «Là dentro scontano la loro pena Ulisse e Diomede, che così come insieme suscitarono l’ira di Dio, insieme ne subiscono le conseguenze; e dentro alla loro fiamma piangono l’inganno fatto a Troia con il famoso cavallo, che aprì la via dalle quale uscì Enea, fondatore di Roma. Piangono anche per la triste astuzia a causa della quale Deidamia, anche se ormai morta, piange ancora della perdita del suo Achille, ed anche per rapimento di Palladio.» «Se possono, seppure dentro a quelle fiamma, parlare», dissi allora io, «maestro, ti prego intensamente e ti prego ancora, così che la mia preghiera valga quanto mille, di non impedirmi di rimanere qui ad aspettare fino a ché quella fiamma a doppia punta sia qui giunta; vedi quanto mi sporgo, spinto dal desiderio di parlare con loro, verso quella fiamma!» E Virgilio mi disse quindi: «La tua preghiera e degna di molta lode, e perciò sono disposto ad esaudirla; ma trattieniti però dal parlare con loro. Lascia parlare me, ho ben capito ciò che tu vorresti chiedere loro; perché altrimenti loro, essendo greci, non si degnerebbero di ascoltarti.» Quando la fiamma giunse là dove la mia guida ritenne che fosse tempo e luogo di parlare, sentii lui esprimersi in questo modo: «O voi, che vi trovate ad essere in due dentro ad un solo fuoco, per i meriti acquistati davanti a voi quando fui in vita, per i meriti acquistati davanti a voi, molti o pochi che furono, quando, ancora al mondo, scrissi gli immortali versi, fermatevi qui un poco; e uno di voi, Ulisse, ci racconti dove, per sua colpa, andò a morire smarrito nei suoi viaggi.» Il corno, la metà maggiore della fiamma accesa in tempi antichi incominciò ad agitarsi, mormorando e vibrando come fa la fiamma affaticata dal vento; vibrò la propria punta di qua e di là, quasi come fosse una lingua che parlava, buttò fuori la voce e disse quindi: «Quando mi separai da Circe, che mi sequestrò per più di un anno sul monte Circello vicino a Gaeta, prima ancora che Enea attribuì questo nome alla città, né l’affetto verso mio figlio Telemaco, né la pietà verso il mio vecchio padre Laerte, né il doveroso amore che avrebbe dovuto rendere felice la mia sposa Penelope, poterono vincere l’ardente desiderio, che sentivo in me, di esplorare il mondo, per divenire un esperto conoscitore suo, dei vizi e delle virtù dell’uomo. quindi mi spinsi verso il mare aperto con solo una nave e quel piccolo gruppo di compagni che mai mi abbandonò. Vidi l’una e l’altra costa del mediterraneo, fino alla Spagna e fino al Marocco, vidi la Sardegna e tutte le altre isole bagnate da quel mare. Io ed i miei compagni di viaggio eravamo ormai vecchi e lenti quando giungemmo a quello stretto passaggio dove Ercole costruì le sue due colonne, come limiti invalicabili, affinché l’uomo non si fosse spinto oltre; lasciai alla mia destra Siviglia ed alla mia sinistra Ceuta. “Fratelli”, dissi ai miei compagni, “che affrontando mille pericoli siete infine giunti all’estremo occidente del mondo abitato, in questa tanto breve vigilia della pace dei sensi, che ancora vi resta da vivere, non vogliate negarvi la possibilità di conoscere, il mondo disabitato, seguendo verso Ovest il cammino del sole. Tenete a mente le vostre origini: non siete nati per viver una vita inutile, come bestie, ma siete nati invece per vivere di virtù e di conoscenza.” Stimolai talmente i miei compagni, con queste poche parole, a proseguire oltre, che, l’avessi voluto, a stento sarei stato in grado di trattenerli; voltata la nostra poppa verso oriente, dove sorge il sole, utilizzammo i remi, come fossero ali, per il nostro folle volo, procedendo sempre in direzione sud-ovest. Già incominciavamo a vedere di notte tutte le stelle dell’emisfero australe, e la stella polare tanto bassa all’orizzonte che infine non emerse più dal livello del mare. Già per cinque volte si era riaccesa e per tante volte spenta la luce emanata dalla faccia della luna rivolta verso la terra, da quando avevamo fatto quel passo estremo, quando ci apparve alla vista una montagna (la montagna purgatoriale), scura per la distanza, e mi sembrava tanto alta quanto mai avevo potuto vederne prima d’allora. A quella vista ci rallegrammo, ma subito iniziò invece il pianto; poiché da quella terra inesplorata si scatenò un vortice che percosse la prua della nostra nave. La fece girare su sé stessa per tre volte insieme al mare circostante; alla quarta volta fece alzare in cielo la poppa ed andare in basso la prua, affondandoci, come a Dio piacque, finché il mare si richiuse sopra di noi.»

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Anonimo lombardo XIV secolo

Quando Dante inizia la sequenza che vede protagonista Ulisse, non può continuare ad utilizzare un linguaggio freddo, oggettivo quanto la descrizione metamorfica di uomo/serpente che aveva caratterizzato il canto precedente e nemmeno continuare, come l’inizio del canto, con il tono tra il rammaricato e l’iroso dell’apostrofe verso Firenze, ma deve adeguare il paesaggio e il mito religioso all’altezza del protagonista: per il primo una sera estiva, con le lucciole a illuminare l’oscura notte; per il secondo l’episodio di Elia che salito al cielo su un carro infiammato, non lasciò che a Eliseo, suo compagno, l’immagine luminosa senza poter percepire più l’uomo. L’ardore del sapere (lo stesso dell’uomo greco) spinge Dante a voler investigare con più attenzione il fondo della bolgia tanto che, se non fosse stato tenuto da Virgilio, sarebbe caduto. La curiosità del poeta è attirata da una fiamma biforcuta che fascia i corpi di Ulisse e Diomede. Qual è il peccato di Ulisse che lo costringe tra i consiglieri fraudolenti? L’aver “scovato” con un inganno Achille, che la madre Teti aveva nascosto nell’isola di Sciro con panni femminili dove si era unito alla dolce Deiamira e portato con sé in guerra e di aver sottratto la statua di Atena che i troiani  aveva posto nel tempio per placare la sua ira contro di loro. Forse sono queste le colpe; eppure il canto non ci è noto per questo ma per il discorso stesso di Ulisse. A condurre il colloquio sarà Virgilio, forse per una di queste tre ragioni:

  • l’alterigia di Ulisse che non avrebbe permesso a un “poeta volgare” di rivolgersi a lui;
  • l’ignoranza incolpevole di Dante della lingua greca;
  • la riconoscenza verso Virgilio che con la sua Eneide aveva svolto un ruolo di mediazione culturale tra l’epica greca e quella latina.   

Ma cosa sapeva Dante di Ulisse (di Diomede conosceva la fine, avendola Virgilio raccontata nell’Eneide): quasi nulla. Quello che era giunto di lui nelle parole di Ovidio, Cicerone e Orazio era la somma curiosità, l’avidità di conoscere il mondo, così lontano dall’immagine ulissiaca che lo vuole a casa cum parentibus, cum uxore et cum filio, come dice l’oratore arpinate nel De Officiis. Forse Dante non seppe mai che, nel racconto omerico, Ulisse era tornato a casa; quello che lui ci racconta è un folle volo verso la “morte”: Dante sa che, oltre lo stretto di Gibilterra, c’è il vuoto, il mondo inconoscibile per gli uomini e ciò che lui fa, orgogliosamente, è quello di sfidare l’intelligenza umana con quella divina, non riconoscendo i limiti che Dio stesso ha posto (State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria, dirà nel Purgatorio) all’uomo. Ma rivolgendo la prospettiva si può anche dire che Dante rivendichi in qualche modo la capacità dell’uomo d’investigare in quel meraviglioso verso in cui incita l’uomo: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, ma forse non si può collegare il poeta fiorentino ad un orgoglio preumanista se è proprio ciò, insieme ai peccati succitati, a fare di Ulisse un dannato e del suo racconto una delle più belle pagine dell’intera Comedìa per la sua ambiguità e complessità semantica.

Canto XXVII
Ottavo cerchio
VIII Bolgia
(I consiglieri fraudolenti)

Il canto XXVII continua il precedente sia per luogo che peccatori, ma se ad essere protagonista prima era un personaggio tratto dalla storia antica, per Dante esistente, nel nuovo canto è un suo contemporaneo, il romagnolo Guido di Montefeltro.

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Bartolomeo Pinelli: Guido di Montefeltro (1825)

Il canto si muove tutto su un livello di fraintendimento allo stesso modo del XIX, quando il papa Niccolò III aveva scambiato Dante per Bonifacio VIII. Ed è ancora questo odiato papa ed essere qui evocato come portatore di male. 

Dapprima, nascosto dalla fascia di fuoco che lo circonda, il dannato si avvicina chiedendo quale fosse la situazione della Romagna e riceve la risposta di un luogo perennemente rissoso, pieno di piccoli tiranni che fanno la guerra l’un con l’altro; quindi richiesto chi fosse risponde alla luce del malinteso sapendo che il richiedente, in quanto come lui dannato, non potrà mai riportare nel mondo la sua memoria. Quindi parla di sé come uomo avvezzo all’inganno, fino alla maturità, quando pentendosi, divenne francescano al fine di espiare la peccaminosa vita fino ad allora condotta. Da frate venne avvicinato da Bonifacio VIII, il quale gli chiese aiuto per combattere i suoi avversari politici (i Colonna) ed ottenere, con fraudolenza, la vittoria definitiva. Di fronte ai dubbi di Guido il papa stesso rispose:

E poi mi disse: «Tuo cor non sospetti: 
     finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
     sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
     come tu sai: però son due le chiavi,
     che il mio antecessor non ebbe care.»

Bonifacio così mi disse: «Non ti preoccupare, già da ora ti assolvo (dal peccato) e tu insegnami ad abbattere Palestrina (dove si erano rifugiati i Colonna). Io posso aprire e chiudere il Cielo, come sai, dal momento che ho le due chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non volle possedere.

1103guido.jpgSuloni Robertson: Guido di Montefeltro

Di fronte al comando papale, Guido tornò a peccare e sul punto di morte venne conteso tra Francesco e un diavolo, che, proprio per l’ultimo gesto colpevole, se lo portò nell’inferno, dove Minosse con la sua coda lo confinò nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti. 

Canto XXVIII
Ottavo cerchio
IX Bolgia
(Seminatori di scandali)

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Giovanni Stradano: I seminatori di discordia (1857)

Questo è forse uno dei canti “meno amati” della Divina Commedia, in cui sembra prevalga il gusto dell’orrido. Ci troviamo infatti nella bolgia in cui si puniscono i seminatori di scisma e di discordia e così come essi hanno voluto portare divisioni all’interno delle comunità, essi sono mutilati dalla spada del diavolo che, passandogli davanti ricevono fendenti recidendo parte del loro corpo, le quali si ricompongono nel loro percorso circolare per poi subirle di nuovo di fronte a lui.

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Dante e Maometto

Dante li osserva non appena ricevuta la pena, quindi agli occhi suoi il primo che appare è Maometto (considerato nel Medioevo non fondatore di una nuova religione, ma scismatico) lacerato con taglio netto dal mento all’ano, a cui pendono le interiora fino allo stomaco; al suo fianco Alì, anch’egli a sua volta scismatico rispetto allo scisma maomettano: e lui è squarciato dal mento fino all’attaccatura dei capelli; Pier da Medicina (seminatore di discordia in Romagna) ha un foro nella gola, in modo che, ad ogni parola pronunciata, questa si riempia di sangue ed inoltre gli è stato tagliato il naso e un orecchio; a fianco ha Curione, colui che consigliò a Cesare il passaggio del Rubicone dando inizio alla guerra civile, a cui è stata rimossa la lingua; segue ancora Mosca de Lamberti uno degli iniziatori della lotta tra guelfi e ghibellini, con entrambi gli arti superiori privi di mani e quando solleva le braccia il suo volte si ricopre di sangue.

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William Blake: I seminatori di discordia

Ma certamente l’immagine che colpisce di più nell’intero canto è quella di Bertrand de Born:

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia; 
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”. 
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa. 
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue, 
che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa. 
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti. 
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli. 
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone. 
Così s’osserva in me lo contrapasso”.

Io vidi di certo, e mi sembra ancora di vederlo, un busto d’uomo senza testa che procedeva, come procedevano tutti gli altri dannati di quel triste gregge; e teneva il proprio capo per i capelli, portandoselo dietro a penzoloni come fosse una lanterna; e il capo ci guardava, e diceva: “Oh me!”. Egli faceva di sé luce a se stesso, ed erano due in uno e uno in due: come ciò possa succedere, lo sa solo colui che così ha deciso, Dio. Quando fu giunto fino ai piedi del ponte, alzò il braccio in alto tenendo appesa la testa, per avvicinare a noi le sue parole, che furono: “Ora vedi la mia pena durissima tu che, respirando ancora, vai visitando i morti: vedi se c’è un’altra pena dura come questa. E perché tu possa portare mie notizie nel mondo, sappi che io sono Betram de Born, colui che diede al giovane Re d’Inghilterra (Enrico) i cattivi consigli. Io feci diventare nemici tra loro padre e figlio: Achitofel non fece peggio di me con Assolone e Davide, dando i suoi malvagi suggerimenti. Visto che io divisi persone così legate tra loro, porto il mio misero cervello diviso dal midollo spinale di questo mio troncone, che è il suo principio. Così in me è osservata la legge del contrappasso (corrispondenza tra pena e colpa).

Che qui Dante faccia, come già capitato nella “sarabanda dei diavoli”, uso d’un linguaggio “comico, con rime difficili (lulla: pertugia: trulla: minugia) il cui significante rimanda ad un significato altrettanto osceno, risulta palese; d’altra parte è lo stesso Dante ad avvertirci, nei primi versi, della difficoltà che lui stesso ha incontrato nel “dipingere” l’intera bolgia. Di “immagini” in effetti si tratta: non incontriamo personaggi, li vediamo, sebbene parlino, ma nulla ci dicono di loro. Forse, come già detto, ad emergere è l’ultimo, proprio per l’icasticità con cui viene presentato, con la sua testa tenuta per mano, il braccio steso e il corpo monco: sarà lui ad insegnarci cos’è il contrappasso, citato per la prima volta da Dante stesso, che così chiaramente colpisce i dannati della nona bolgia.

Canto XXIX
Ottavo cerchio
IX – X Bolgia
(Seminatori di scandali – Falsatori di metalli)

Il canto inizia con la commozione di Dante, commozione inspiegabile per Virgilio, di fronte alla macelleria che si è trovato di fronte: ma non è questo il vero motivo: è che si accorto troppo tardi di un suo parente, Geri del Bello, cugino del padre che, mentre lui stava a colloquio con Bertrand de Born, gli aveva rivolto minaccioso il dito ma, vedendo uno della sua famiglia “indifferente”, aveva voltato le spalle e se n’era andato. Ma perché tale fatto influenza così tanto la psicologia dantesca? Forse perché egli è morto “invendicato” e non c’è stato nessuno, della famiglia dell’Alighieri, che si è preso la briga di lavare l’onta procuratagli dalla famiglia dei Sacchetti, sua nemica. Ma che Dante voglia dirci altro? Forse che, con il suo atteggiamento, vissuto con difficoltà perché ancora non totalmente condiviso socialmente, voglia por fine a quel susseguirsi senza fine di vendette che continuavano ad insanguinare la città?

6b1ddbe9e4acaf72da93e9bee9d04aee.jpgGustave Doré: Geri il Bello

Dopo questo episodio Dante entra nella X ed ultima bolgia dove sono puniti gli alchimisti o i falsari delle moneta: se nella bolgia precedente si entrava in una macelleria, qui si entra in grande ospedale dove i lamenti della malattia si elevano a tal punto da ferire l’udito del pellegrino. Fra di essi riconosce due senesi, attaccati uno all’altro a grattarsi la rogna ed un emiliano. Il contrappasso: forse l’alterazione di un elemento della natura fa trasformare patologicamente i dannati, costretti a convivere con la loro infermità per l’eternità.    

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William Blake: I falsari

Canto XXX
Ottavo cerchio
X Bolgia
(Falsatori di persona, di moneta, di parola)

Il canto XXX riprende, senza soluzione di continuità, quello precedente: ci troviamo sempre nella decima bolgia, in cui sono puniti i falsari. Stilisticamente il canto è costruito attraverso il contrasto tra il registro alto e quello basso, come si preannuncia al suo inizio. Infatti al mito ovidiano di Atamante che ha scambiato la moglie per una leonessa e per questo ne uccide i figli e quello di Ecuba, che latra a mo’ di cane per la morte di Polissena, quasi contrasta con l’immagine di due maiali che scappano appena liberati dal recinto e corrono come fanno qui i due falsari di persona, Gianni Schicchi (che si scambiò con Buoso Donati, nel letto agonizzante, per carpirne l’eredità) e Mirra (falsando la sua persona, riuscì a portare a compimento il sacrilego gesto), che nel loro correre si mordono come porci che addentano tutto.

Canto-30-Inferno-Dante.jpgPriamo della Quercia: canto XXX

Nella seconda sequenza lo stile si alterna tra l’elegiaco ed il surreale come si evince dai pensieri e dalla descrizione del maestro Adamo, falsario della moneta: 

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia, 
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte. 
«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete 
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. 
Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga 
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga. 
Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai. 
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista. 
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ ho le membra legate? 
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero, 
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha. 
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».

Ne vidi uno, che avrebbe avuto la forma di liuto se l’inguine gli fosse stato separato dove normalmente nell’uomo si divide in due. La grave idropisia, che rende sproporzionate le membra a causa del liquido vitale o della linfa che vengono male elaborate, così che il viso non rispecchia il ventre (viso magro e ventre gonfio) lo costringeva a tenere le labbra aperte come fa il tubercolotico, che per la sete febbrile ripiega un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. «O voi che vi trovate, senza alcuna pena, ed io non so il perché, in questo mondo triste”, disse egli a noi, “guardate e riflettete sulla miseria di maestro Adamo: in vita io ebbi in abbondanza quello che volli, e ora, ahimé! desidero solo una gocciolina d’acqua. I ruscelletti che dalle verdi colline del Casentino scendono giù fino all’Arno, facendo diventare i lori corsi freddi e molli, mi stanno sempre davanti agli occhi, e non invano, perchè la loro immagine m’inaridisce sempre più, più dell’idropisia, che mi smagrisce sempre più il volto. La severa giustizia divina che mi tormenta trae la sua origine dal luogo dove io peccai per rendere i miei sospiri sempre più frequenti e veloci. Nel Casentino si trova Romena, là dove io falsificai la moneta fiorentina con impressa l’immagine di San Giovanni Battista; e per questo motivo io lasciai il mio corpo arso lassù in terra (morii bruciato vivo). Ma se io potessi vedere qui, dannata insieme a me, la triste anima di Guido II o d’Alessandro I o del loro fratello Aghinolfo, non scambierei di certo la vista di loro con la possibilità dissetarmi a Fonte Branda. Dentro questa bolgia c’è già una di queste anime, se quelle ombre rabbiose che girano intorno dicono il vero; ma a cosa mi serve saperlo, se ho le membra tanto legate da non poter vedere? Se io fossi ancora tanto agile che poter almeno, in cent’anni, muovermi anche solo di qualche centimetro, mi sarei già messo in cammino lungo il sentiero, cercandolo tra questa gente contraffatta, anche se la bolgia ha un circuito di undici miglia, ed è larga non meno di mezzo miglio. Io sono qui in mezzo a tali anime a causa loro: loro m’indussero a coniare fiorini mescolando tre carati di metallo falso».

Jan Van der Straet, Maestro Adamo e Sinone - Inferno - Canto XXX, Illustrazione, 1587.jpg Giovanni Stradano: I falsari (1857)

In questo passo, che fanno di maestro Adamo una figura non di secondo piano dell’intera cantica, si possono sottolineare la precisione lessicale con cui Dante descrive la condizione della malattia, utilizzando in modo analitico i termini della scienza medica del tempo. La deformazione fisica non lede tuttavia la capacità del protagonista di vagheggiare luoghi freschi e ricchi di vegetazione con fonti che stillano acqua, vagheggiamento che la divina giustizia provoca per esacerbare la pena. A tale vagheggiamento non viene  meno quello della vendetta, che tuttavia ripete lo stessa tonalità del precedente: al vagheggiamento si sostituisce il rimpianto di chi è impossibilitato nel movimento, che non permette lui di “vedere” puniti chi lo ha spinto a peccare.

A isolare l’episodio e l’intervento “comico” della rissa tra maestro Adamo e Sinone, falsatore di parole (indusse con un inganno a far entrare il cavallo di legno nella città di Troia decretandone la distruzione). Infatti ad introdurre il personaggio e lo stesso Sinone che risponde ad una domanda di Dante sull’identità di peccatori che esalano vapore per l’altissima febbre da cui sono afflitti. Forse irato per esser stato “scoperto” comincia una vera e propria lite, che Dante osserva con tale curiosità da essere rimproverato da Virgilio, che, visto il pentimento di Dante, poi lo perdona.

Canto XXXI
Pozzo dei giganti

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Gustave Doré: I giganti

Ed è proprio il richiamo alla vergogna che si richiama l’incipit del XXXI canto, immediatamente superato da un improvviso suono che richiama l’attenzione di Dante che rivolge lo sguardo al luogo di provenienza. La visuale non era chiara, come se si fosse al crepuscolo o in mezzo ad una nebbia. Dante crede di vedere le torri di una città, ma Virgilio chiarisce subito che si tratta di giganti, peccatori di quello che i greci definiscono “hybris” orgoglio che fa sfidare loro con la potenza di Dio. Essi sono nel contempo guardiani e dannati, costretti a porsi intorno al pozzo, al fondo del quale vi è il Cocito, il lago ghiacciato. Essi sono poggiati intorno al pozzo con metà corpo all’interno del terreno e l’altro che emerge e colui, fra di loro, che si mostrò maggiore peccatore è inoltre punito avendo il suo tronco circondato di catene.

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Jesse Glass: Nembrot

Il primo che incontra è Nembrot, gigante che si rivolge ai pellegrini con linguaggio incomprensibile: infatti egli è il responsabile della confusione delle lingue con la costruzione della torre di Babele. Il secondo è Fialte, le cui braccia sono legate dietro con una pesante catena: egli tentò, insieme ad altri Titani, la scalata all’Olimpo per cui furono colpiti dalle folgori di Giove. Infruttuoso il tentativo di Dante di vedere Briareo, posto lontano, ed incontrano Anteo (che combatté contro Ercole) al quale Virgilio rivolge parole gentili, pregandolo di “accompagnare” con la mano lui e Dante al fondo del pozzo (ricorda l’episodio di Gerione). Allungata la mano, fattosi salire Virgilio che prende Dante, li deposita con leggerezza sulla nuova zona infernale. 

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William Blake: Nembrot raccoglie Dante

Canto XXXII
Nono cerchio
Prima zona: Caina
(Traditori di congiunti)

Seconda zona: Antenora
(Traditori politici)

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Gustave Doré: Dante con Bocca degli Abati

Dapprima il canto s’apre con una dichiarazione di poetica in cui Dante ammette di non avere un linguaggio talmente “aspro” attraverso il quale descrivere la crudeltà che il nuovo luogo gli offre (ci ricorda l’inizio della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro, con l’utilizzo della stessa parola): si tratta di un lago ghiacciato dove sono immersi i traditori, all’infuori del capo. I peccatori battono i denti per il freddo e le lacrime che gli scorgono dagli occhi per il forte dolore, si ghiacciano improvvisamente facendo loro chiudere gli occhi. Dante dovrebbe stare attento a non calpestarli, ma passando (non essendo ancora accorto di come funziona), ne colpisce due, i fratelli Alessandro e Napoleone Alberti che, attraverso una lotta fratricida, si uccisero a vicenda); quindi, passando nell’Antenora, s’imbatte in Bocca degli Abati, il quale si rifiuta di confessare il suo nome, nonostante il poeta gli strappi i capelli ghiacciati, ma non vi è bisogno, essendogli rivelato da un dannato vicino. Ma l’acme del canto vi è dal verso 124, dove s’incontrano due anime, di cui una morde con rabbia il capo dell’altro:

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Kateřina Machytková: Canto XXXII

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca».

Noi ci eravamo già allontanati da lui, quando io vidi due dannati ghiacciati in una sola buca, in modo che il capo dell’uno faceva da cappello all’altro; e come si mangia il pane per fame, così quello che stava sopra aveva i denti conficcati nell’altro là dove il cranio si congiunge alla nuca: non diversamente Tideo rose le tempie a Menalippo per rabbia, come costui rodeva il teschio e il resto della testa all’altro. «O tu che mostri in modo così bestiale l’odio contro costui che stai divorando, dimmi il perché» dissi io, «a questo patto: che se tu hai un buon motivo per lagnarti così di lui, potendo sapere chi siete e quale è la sua colpa, lassù nel mondo io contraccambierò, se non mi si seccherà la lingua con cui io ora parlo».
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Gustave Doré: Il conte Ugolino e il cardinal Ruggieri

Come ci ha preannunciato Dante, lo stile del canto è “aspro”, cioè consono alla freddezza del canto, come se lo stesso lago ghiacciato del Cocito stridesse sotto il peso dei due pellegrini. L’altezza dello stile si nota proprio alla fine grazie al riferimento al poema di Stazio che ci racconta che Tideo, durante l’assedio di Tebe, ferito a morte da Melanippo, dopo averlo ucciso, si fece portare la testa e cominciò a divorarla. In questo modo il poeta fiorentino, attraverso la tecnica della suspence, ci prepara al grande canto del conte Ugolino.

Canto XXXIII
Nono cerchio
Seconda zona: Antenora
(Traditori politici)

Terza zona: Tolomea
(Traditori degli ospiti)

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Conte Ugolino

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio disse:
“Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno».

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Auguste Rodin: Il conte Ugolino

L’anima dannata sollevò la propria bocca dal suo bestiale pasto, pulendola con i capelli di quel capo che aveva roso da dietro, sulla nuca. Cominciò poi a dire: «Tu vuoi che io rinnovi quel dolore disperato che mi opprime già il cuore solo a pensarci, prima ancora di cominciare a parlarne. Ma se le mie parole devono essere il seme che dà come risultato l’infamia per il traditore di costui che mordo, mi vedrai allora piangere e parlare allo stesso tempo. Io non so chi tu sia né in che modo sei venuto quaggiù nell’inferno; ma mi sembri un vero fiorentino dal modo in cui ti sento parlare. Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino, e questo sotto di me, che mordo, è l’arcivescovo Ruggieri: ora ti dirò perché gli sono vicino e lo tratto in questo modo. Come, grazie ai suoi perfidi intrighi, fidandomi di lui, io fui fatto prigioniero e venni poi ucciso, non occorre che te lo racconti; invece, ciò che non puoi certamente aver saputo, cioè di quanto la mia morte sia stata crudele, potrai ascoltarlo da me e ti renderai quindi conto delle offese che ricevetti. Una piccola finestra nella mia oscura prigione, la quale è detta ora “torre della fame” per la mia morte, e dove converrebbe rinchiudere anche altre persone, attraverso la sua stretta apertura mi aveva lasciato vedere parecchie lune nuove, prima che io feci quel sogno funesto che mi squarciò il velo che nasconde il futuro. Questa altra anima dannata mi apparve come guida e signore della schiera che dava la caccia al lupo ed ai suoi piccoli verso il monte San Giuliano, a causa del quale i pisani non possono vedere Lucca. Scortati da cagne (la plebe) affamate, bene addestrate e avide, le famiglie dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi, costui aveva mandato in prima fila. Dopo una breve corsa, cominciarono a sembrare stanchi il lupo ed i suoi piccoli, e le cagne, con le loro zanne aguzze, mi sembrava che dilaniassero i loro fianchi. Quando, prima che iniziasse il nuovo giorno, mi fui svegliato, sentii piangere nel sonno i miei giovani figli, che si trovavano a letto con me, e li sentii anche chiedere del pane. Saresti ben crudele se non provassi dolore solo pensando a quello che il sogno preannunciava al mio cuore di padre; se non piangi per questo, allora per cosa sei solito piangere? I mie figli si erano già svegliati e si avvicinava l’ora in cui in genere il cibo ci veniva portato, ed in ognuno era sorto il dubbio a causa del precedente sogno; sentii qualcuno che inchiodava la porta inferiore di quell’orribile torre; guardai pertanto in viso i miei poveri figli senza riuscire a proferire a parola. Non piansi, tanto il terrore mi lasciò impietrito: loro invece piangevano; e mio figlio Anselmuccio mi disse: “Padre, perché ci guardi in quel modo?” Pertanto non piansi né diedi a mio figlio una risposta per tutto quel giorno e nemmeno per tutta la notte seguente, finché si fece un nuovo giorno. Non appena un piccolo raggio di sole entrò in quel doloroso carcere ed io vidi sui visi dei miei quattro figli la stessa mia consapevolezza per la nostra condanna a morte, l’immenso dolore mi spinse a mordermi entrambe le mani; ed essi, pensando fossi stato spinto a quel gesto dalla fame, subito si alzarono in piedi e dissero: “Padre, sarebbe per noi molto meno doloroso se tu mangiassi noi invece di te stesso: tu ci hai rivestito di queste misere carni, tu hai il diritto ora di togliercele.” Mi quietai allora un poco per non rattristarli ulteriormente; rimanemmo in silenzio per tutto quel giorno e per il seguente; terra crudele, perché non ti sei aperta per inghiottirci? Giunti al quarto giorno di digiuno, mio figlio Gaddo, disperato, mi si getto ai piedi dicendomi: “Padre, perché non mi aiuti?” E detto questo morì; e come vedi ora me, vidi io allora cadere a terra gli altri tre rimasti, uno dopo l’altro, tra il quinto ed il sesto giorno di prigionia; io incominciai perciò, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di essi e per due giorni gridai il loro nome, dopo che furono morti. Infine il digiuno vinse il dolore, smisi di gridare e poi morii.»

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William Blake: Il conte Ugolino con i figli

Il canto del Conte Ugolino è tra i più celebrati dell’intera Commedia dantesca, insieme a quello dedicato a Paolo e Francesca di cui riprende anche un verso o, per meglio dire, un atteggiamento dei due protagonisti rispetto alla richiesta di sapere cosa e perché sono giunti nel luogo destinato al loro peccato: dirò come colui che piange e dice afferma Francesca (canto V, v. 126) e qui parlare e lagrimar vedrai insieme dice Ugolino (canto XXXII, v. 9). Forse un altro punto di contatto tra i due canti è l’atteggiamento “emotivamente” molto forte di Dante (lo svenimento per il primo, l’ira per il secondo che si traduce in un’invettiva contro Pisa). Ma ci fermiamo qui, forse perché quest’ultimo canto presenta un insieme di punti interrogativi di difficile soluzione, che molto probabilmente derivano dal fatto che non ci viene ben chiarito il peccato: un tradimento politico fatto da Ugolino verso l’arcivescovo Ruggeri (Ugolino ghibellino, ma per rientrare nella città di Pisa messosi d’accordo con i Guelfi – primo tradimento) ma lo stesso di Ruggeri verso Ugolino (chiamato per “accordarsi” sul suo tradimento e invece rinchiuso in una torre – secondo tradimento), e tutto sembra finire qui. Ma il canto non si ricorda per il peccato del traditore della patria, ma forse nella pausa tra le fine del canto precedente e l’inizio di questo, dove prevale un clima “orrorifico”: un uomo morde ferocemente la nuca del suo nemico nel punto in cui il collo si unisce con il cuoio capelluto e utilizza proprio i capelli per pulirsi la bocca sanguinolente. L’incipit, con l’anticipazione dell’aggettivo sul sostantivo (anastrofe), coglie come immagine quasi statica nella sua atrocità, l’atteggiamento di profonda rabbia del conte contro il suo nemico, rabbia di cui sente l’urgenza di rivelare il perché, a riscattare lo “schifo” del presente con una motivazione forte. Come Francesca sembra che anche a lui il rinnovare con le parole il triste ricordo procuri un “disperato dolor”, e quindi inizia con il suo drammatico racconto: una torre (dopo lui definita “Torre della fame”) in cui vengono chiusi lui con i suoi quattro figlioli. Quindi il sogno rivelatore (non bisogna dimenticare l’importanza dei sogni nei racconti classici e biblici) in cui si vedono un lupo e quattro lupacchiotti rincorsi da nere cagne fino ad essere raggiunti. Quando si sveglia, i figli gli chiedono il pane: è l’ora del pasto, ma al posto del pane si sente la porta della torre che viene chiusa ermeticamente. L’inutile attesa del cibo, vedere i propri figli denutrirsi fino a spegnersi, ha condotto quest’uomo all’estremo dolore. E’ pertanto un canto sull’amore filiale e sulla pietas che non dovrebbe mai venir meno rispetto al dettato evangelico di “offrire ai bisognosi”, soprattutto quando a non rispettare tale precetto è un rappresentante della chiesa. Ma quello che ha fatto di questo passo uno dei più celebrati è anche l’ambiguità dell’ultimo verso del suo racconto che ha fatto credere, a livello popolare ed anche a critici attrezzati, che il conte Ugolino si fosse macchiato del peccato di cannibalismo necrofilo verso i figli. E’ evidente che così non è: tale peccato non lo avrebbe confinato nell’Antenora dove sono posti i peccatori politici. Il meraviglioso verso ci dice solamente che anche lui morì di fame.

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Giuseppe Diotti: Il conte Ugolino

Nel prosieguo del canto Dante passa nel terzo cerchio, quello della Tolomea, che “ospita” i traditori degli ospiti: essi subiscono una diversa pena, sono sdraiati supini in terra e le lacrime che sgorgano fanno un tutt’uno con il ghiaccio, quasi non permettessero al dolore di fuoriuscire. Qui incontra frate Alberigo, che fece uccidere Manfredi e Alberghetto che lo avevano offeso, invitandoli, con la scusa della rappacificazione, e trucidandoli alla portata della frutta.

Canto XXXIV
Nono cerchio
Quarta zona: Giudecca
(Traditori dei benefattori)

Lucifero

062v.jpgPriamo della Quercia: canto XXXIV

«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ’l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi».
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non morì e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’ hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell’anima là sù c’ ha maggior pena»,
disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’ hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.
«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era camminata di palagio
là ’v’ eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.
«Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio», diss’io quando fui dritto,
«a trarmi d’erro un poco mi favella:
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu hai i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse».
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

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Gustave Doré: Lucifero

«Le insegne del re dell’Inferno avanzano verso di noi; perciò guarda davanti a te», disse il mio maestro, «e prova a riconoscerlo.» Come quando una nebbia fitta si espande, o quando sul nostro emisfero cala la notte, ciò che vedevo sembrava da lontano un mulino fatto girare dal vento, mi sembrò inizialmente di intravedere quel tipo di congegno; poi a causa del vento fui costretto a ripararmi dietro alla mia guida, non essendoci una grotta, un altro riparo. Mi trovavo già, e lo ricordo con orrore per metterlo in versi, là dove tutte le anime dannate erano coperte di ghiaccio, e potevano essere intraviste così come una pagliuzza imprigionata nel vetro. Alcune stavano distese; altre stavano dritte, alcune con il capo ed altre con i piedi in alto; altre curve come un arco e con il volto rivolto verso terra. Quando fummo avanzati tanto che a Virgilio piacque di mostrarmi Lucifero, creatura che un tempo era stata molto bella, il mio maestro si tolse da davanti e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite ed ecco il luogo nel quale conviene che tu ti armi di coraggio.» Quanto gelai per la paura e rimasi senza forze in quel momento, non chiedermelo, lettore, perché non lo racconterò, ogni frase sarebbe insufficiente a descriverlo. Non morii ma neanche rimasi vivo; immagina dunque tu, se hai un poco d’intelletto, come rimasi allora, privo sia della vita che della morte. L’imperatore di quel regno, tanto doloroso, emergeva dal petto in su fuori da quel blocco di ghiaccio; e mi avvicino di più io alle dimensioni di un gigante, di quanto un gigante possa avvicinarsi alle dimensioni delle sue braccia: immagina quindi quanto fosse immenso il resto del suo corpo, se le sole braccia erano tanto grandi! Se in precedenza fu tanto bello quanto è ora mostruoso, e se contro il suo creatore, contro Dio, osò alzare la testa da ribelle, deve ben da lui avere origine ogni male. E quanto rimasi stupito ed inorridito quando vidi che la sua testa aveva tre facce! Una davanti, ed era di colore rosso acceso per l’odio; le altre due facce si aggiungevano alla prima delineandosi dalla metà di ciascuna spalla, ed alla loro sommità si congiungevano tra loro: la faccia destra era di un colore tra il bianco ed il giallo (debolezza); la faccia di sinistra era del colore nero (ignoranza) di quelli, gli Etiopi, che vengono da dove il Nilo scende a valle. Da sotto a ciascuna faccia uscivano due grandi ali, proporzionate alla grandezza di quel mostruoso uccellaccio: non vidi mai vele di navi tanto grandi. Le due ali non avevano penne, ma erano simili a quelle del pipistrello; e Lucifero le agitava tanto da generare tre venti: a causa dei quali il fiume Cocito era completamente congelato. Lucifero piangeva con i suoi sei occhi, e dai suoi tre mentigocciolavano le sue lacrime e la sua bava insanguinata. In ogni bocca stritolava infatti tra i denti un peccatore, come fosse ognuna una gramola, così da infliggere la giusta pena ai tre disgraziati. Per quei peccatori i morsi inflitti da Lucifero erano nulla in confronto ai graffi ricevuti, che talvolta erano tanto duri da lasciare la loro schiena completamente scuoiata. «Quell’anima là in alto, nella bocca centrale, che subisce la punizione peggiore», disse Virgilio, «è Giuda Iscariota, che sta con la testa all’interno della bocca ed agita le gambe di fuori. Riguardo agli altri due, che invece stanno con testa di fuori, quello che pende dalla faccia di colore nero è Bruto: guarda come si contorce per il dolore senza emettere urla! l’altro invece, che sembra tanto in carne, è Cassio. Ma sulla terra si sta facendo già notte, è quindi già ora di partire, poiché abbiamo ormai visto tutto ciò che c’era da vedere.» Come la mia guida voleva, mi tenni stretto al suo collo; Virgilio scelse quindi il tempo ed il luogo giusto, e quando le ali si furono sufficientemente aperte, con un balzo si aggrappò alle costole pelose di Lucifero; di ciuffo in ciuffo scese quindi lungo il suo folto pelo e le croste di ghiaccio che lo circondavano. Quando fummo giunti là dove la coscia si piega, proprio in corrispondenza della sporgenza dell’anca, il mio maestro, con grande fatica ed affanno, si capovolse, mettendo la testa là dove prima aveva le gambe, e si aggrappò al pelo di Lucifero come per risalire, tanto che credetti di dover tornare ancora nell’inferno. «Tieniti bene aggrappato, perché con scale di questo tipo», disse il mio maestro, ansimando come un uomo sfinito, «dobbiamo allontanarci da tutto questo male.» Poi sbucò fuori attraverso il foro in una roccia e mi mise a sedere sull’orlo di essa; quindi con un piccolo salto mi si avvicinò lasciando il pelo di Lucifero. Io alzai lo sguardo credendo di vedere Lucifero nella stessa posizione in cui l’avevo visto poco prima, ma lo vidi invece capovolto, con le gambe in alto; e se rimasi quindi perplesso per ciò che vidi,lo pensi pure la gente rozza, ignorante, che non può capire la natura di quel punto della terra che avevo appena attraversato. «Alzati in piedi;» mi disse Virgilio «poiché la strada da percorrere è ancora lunga e difficile, ed il sole si trova già a metà strada della terza ora.» Non era la sala di un palazzo il luogo in cui ci trovavamo in quel momento, ma una grotta naturale scarsamente illuminata e con suolo irregolare. «Prima di allontanarmi da questo abisso, mio maestro,» dissi non appena mi fui alzato, «parlami un poco, così da togliermi qualche dubbio: dove si trova la ghiaccia? E costui, Lucifero come ha fatto a finirci così, sottosopra? e come ha fatto, in così poco tempo, il sole a passare dalla sera al mattino?» E Virgilio mi rispose: «Tu credi ancora di trovarti al di là dal centro della terra, dove io mi aggrappai al pelo di Lucifero, verme malefico che perfora il mondo. Tu sei stato di là dal centro della terra finché discesi; quando mi sono capovolto, allora tu hai oltrepassato il punto centrale, verso il quale vengono attirati tutti i pesi, da qualunque direzione provengano. E sei quindi ora arrivato sotto l’emisfero australe, contrapposto a quello nostro, boreale, ricoperto dalle terre emerse, e sotto lo zenit del quale si consumò, morì, Cristo, l’uomo che nacque e visse senza macchiarsi di peccati; tu poggi ora i piedi su quel piccolo piano circolare che costituisce l’altra faccia della Giudea. Qui è mattino quando di là è invece sera; e Lucifero, che con il suo pelo ci ha fatto da scala, è ancora conficcato nel punto in cui è caduto allora. Cadde giù dal cielo da questa parte della terra; e le terre, che prima anche da questo lato erano emerse, per paura di lui si inabissarono, nascondendosi nel mare, e si spinsero, nella fuga, fino al nostro emisfero; forse per scappare da Lucifero, la terra che costituisce il monte del purgatorio, e che è qua visibile, lasciò intorno a Lucifero il vuoto, una caverna, e corse verso l’alto.» Laggiù dove ci trovavamo c’era una galleria, lontana da Belzebù tanto quanto è lunga la sua stessa tomba, che scoprimmo non grazie alla vista ma grazie al suono che da essa proveniva, generato dallo scorrere di un piccolo ruscello, che discendeva attraverso un buco in un sasso, da esso creato per erosione, con il proprio corso tortuoso ed un poco in pendenza. Virgilio ed io entrammo in quel cammino nascosto per poter ritornare nel modo illuminato dal sole; senza badare a concederci un poco di riposo, tanto era il desiderio di uscire all’aperto, iniziammo a risalire, lui per primo ed io al suo seguito, fino a che riuscii ad intravedere un poco di tutte quelle cose meravigliose che il cielo offre alla vista, attraverso un foro tondo nella roccia. E uscimmo quindi all’aperto a rivedere le stelle.

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Codex Altonesis

Nell’ultimo canto dell’Inferno, Dante non incontra nessun peccatore, vi cammina sopra in quanto essi, traditori dei benefattori, sono sotterrati nel ghiaccio in posizione, oserei dire, plastica: chi in piedi chi sdraiato, chi a testa in giù; la loro tomba e il loro silenzio tombale stanno quasi ad indicare che nel profondo inferno viene a mancare qualsiasi elemento che possa rimandare alla “storia”, ai “vissuti” dei dannati, che, nell’estremo dolore dell’espiazione eterna del peccato, faceva pur sperare loro in un ricordo nella vita terrena, di cui Dante stesso era mediatore. La loro fissità sembra rimandarli alla “meccanicità” dell’intera struttura del canto, in cui anche l’Inferni rex sembra, più che l’espressione del male assoluto, quello di un’assoluta solitudine che si traduce in una meccanicità d’atteggiamenti (più macchina infernale che angelo caduto) che maciulla con le tre bocche i tre peccatori senza neanche accorgersi che i pellegrini gli stanno davanti.

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Francesco Scaramuzza: Lucifero

L’apparizione è improvvisa per Dante: spostandosi all’improvviso Virgilio, alle cui spalle si era posizionato Dante, Lucifero gli appare nella sua grandezza fisica, abnorme, con tre facce (rossa, gialla e nera – odio, debolezza e ignoranza), cui sembrano corrispondere le tre fiere del I canto, in cui maciulla i tre, secondo Dante, più grandi peccatori: Giuda, traditore di Gesù, con il corpo dentro la bocca di Lucifero e le gambe fuori e ai lati da una parte Bruto e dall’altra Cassio, traditori di Cesare, ambedue con il capo esterno ed il corpo nella bocca. Ad ognuna delle tre facce rispondono due ali dalla conformazione membranosa ed il loro continuo sbattere crea il ghiaccio del Cocito. Non c’è drammaticità nell’incontro nessun dialogo, Lucifero non è che uno strumento nelle mani di Dio, addirittura, lui Re degli Inferi, meno libero dei suoi sudditi. Basta loro cogliere il momento della massima apertura alare per balzare sul suo corpo e fare dei suoi peli uno scala. Raggiunto il femore – che rappresenta il centro della terra – Virgilio con gran sforzo, si capovolge insieme a Dante, tanto che a quest’ultimo pare aver cambiato prospettiva: davanti a sé ha ora i piedi di Lucifero e non più la testa. Spiega Virgilio che ciò è avvenuto perché quando il re delle tenebre è caduto si è conficcato al centro della terra. Le terre per non aver contatto con lui si sono raccolte formando la montagna purgatoriale mentre le altre sono state spinte nell’emisfero boreale, che è quello abitato: per questo si sono capovolti, ora si trovano nell’emisfero australe e sarà tutto capovolto: al giorno di un emisfero corrisponderà la notte dell’altro e, più importante ancora, se a Dante sembra essere disceso nell’imbuto infernale, invece egli è salito, iniziando la sua ascesa verso il Creatore.

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Codice manoscritto: L’uscita di Virgilio e Dante dall’Inferno

Ma non possiamo terminare senza perlomeno citare il senso di luce che comincia a trasparire in questo canto per diventare “importante” nel Purgatorio, fondamentale nel Paradiso; da puntino in lontananza all’inizio della “natural burella” al cielo stellato che, riavvicinandolo alla naturalità degli astri, lo avvicina allo splendore divino.

LUDOVICO ARIOSTO

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Tiziano: Ritratto di Ludovico Ariosto (1510)

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474 da Nicolò, capitano nella città appartenente ai domini estensi, e dalla nobildonna Daria Malaguzzi. Trascorre la prima giovinezza a Rovigo, al seguito paterno, lì recatosi per la guerra che gli Estensi conducevano contro Venezia. Al compimento dei dieci anni, fa rientro a Ferrara, dove riceve i primi rudimenti letterati da un precettore che lo fa innamorare della cultura latina, nonostante fosse spinto dal padre a seguire studi giuridici, verso i quali mostra scarso interesse.

Ferrara, nonostante la sua precarietà politica, vive in questo periodo un forte vitalismo culturale, dove Ariosto passerà quasi tutta la sua vita e dove verrà in contatto con un numero vario di artisti, tra cui ricordiamo Dosso Dossi e letterati che la città estense allora ospitava. Conosce, tra gli altri, Pietro Bembo, autore delle Prose della vulgar lingua: alla sua amicizia, molto probabilmente, sono collegati i Carmina in latino, ispirati soprattutto alla poesia oraziana e agli elegiaci Tibullo e Properzio. 

Tiziano: Ritratto di Ippolito d’Este

Sono, per il nostro autore, anni molto felici, fra feste e spettacoli teatrali, cui offre una serie rappresentazioni riprese dall’autore latino Plauto; ma tale spensieratezza verrà interrotta nel 1500 dall’improvvisa morte paterna. Ludovico si trova a sobbarcarsi tutte le incombenze familiari: primo di dieci tra fratelli e sorelle e con a carico la madre, deve assumere la responsabilità del loro mantenimento: la dura realtà entra prepotentemente a cancellare un mondo perfetto dove corte e poesia sembravano non essere in contraddizione. Diventa anche lui, come il padre, capitano; prende inoltre gli ordini minori (per godere dei benefici ecclesiastici) e si mette al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso I. Per conto del cardinale svolge vari incarichi, tra cui va ricordato quello presso il battagliero papa Giulio II, in urto con gli Estensi, che lo caccia in malo modo. Nel 1509 gli nasce il primo figlio, Virginio, che sarà accanto a lui per tutta la vita. In seguito si innamora di una nobildonna, Alessandra Benucci, moglie del mercante Tito Strozzi. Alla morte di quest’ultimo i rapporti fra i due si faranno più intensi, ma non giungeranno al matrimonio (che avverrà in segreto molto più tardi, nel 1527) per non perdere i benefici ecclesiastici e i diritti ereditari della vedova.

Nel 1517 il cardinale Ippolito prende possesso della sua diocesi a Budapest. Invitato a seguirlo, Ariosto rifiuta, adducendo motivi di salute (motivo di una celeberrima Satira). Entra pertanto alle dipendenze del duca Alfonso, il quale lo manda come governatore in Garfagnana, luogo da poco annesso ai territori estensi e infestato da briganti.

Dopo aver compiuto in modo egregio il suo lavoro, torna a Ferrara: ormai la sua vita scorre tranquillamente; compra un piccola casetta in contrada Mirasole, dove vi andrà a vivere con suo figlio Virginio. Corregge e revisiona le sue opere (Rime, Orlando furioso, Satire), ma già dal 1531 comincia a soffrire per una grave malattia intestinale, per la quale morirà nel 1533, a cinquantanove anni.


Il castello degli Estensi a Ferrara

L’uomo

Il tono bonario delle Rime e delle Satire, la grande conoscenza e saggezza umana che traspare nel Furioso, hanno fatto credere che l’uomo Ariosto e la sua vita, siano da iscriversi nella sfera dell’otium, cioè di quella predisposizione d’animo che sembra contraddire il “vitalismo” sia pur così diverso di Machiavelli e dello stesso Guicciardini. Dobbiamo tuttavia sottolineare alcune differenze sostanziali:

La casa in contrada Mirasole dove Alfieri passerà gli ultimi anni della sua vita

  • Sia Machiavelli che Guicciardini vivono un momento di trapasso tra Repubblica e Signoria che fa sì che le loro opere e le loro riflessioni siano piene di voglia o di cambiare o di accettare, comunque di “vedere” la realtà circostante.
  • Ariosto non sceglie: è costretto a muoversi, a partecipare per la morte del padre, all’interno di uno Stato che non vede né prospettive diverse dall’essere un ducato né sommovimenti tali da “prendere” una posizione. Non si tratta infatti di disegnare il futuro “politico” interno della città, com’era per Firenze. Bisognava invece misurare la capacità estense di barcamenarsi o cercare d’allargarsi tra le mire papali, l’influenza e concorrenza veneziana e/o milanese. Il tutto aggravato dalle guerre d’Italia tra Spagna e Francia.
  • Machiavelli e Guicciardini, in una Firenze che si trasforma da Repubblica a Signoria possono essere, con gioia o meno, scegliendolo o meno, liberi; Ariosto non può: all’interno del sistema ducale deve imparare, senza disobbedire troppo, ad essere libero. Per questo darà, nella sua opera maggiore, sfogo alla fantasia.

OPERE DI LUDOVICO ARIOSTO 

L’attività letteraria di Ludovico Ariosto può essere racchiusa nella ripresa di generi ed opere classiche, alla ricerca di una perfezione formale che le ponesse alla pari col modello; infatti riprende:

  • la letteratura latina per i Carmina appunto in latino, dove ha come punto di riferimento la poesia elegiaca;
  • la lezione di Petrarca e della tradizione lirica in lingua volgare con le Rime;
  • Orazio con le Satire, ma “modernizza” il genere portato a perfezione dall’autore latino italianizzandolo, in quanto usa per esso la terzina dantesca;
  • le Commedie scritte in versi, ad imitazione plautina;
  • il poema cavalleresco, l’Orlando Furioso, che vuole apparire, generosamente come un atto d’amore verso un altissimo prodotto della cultura estense del ’400, l’Orlando Innamorato; ma sarà lui a portarlo alla perfezione, decretandone quindi la fine. La Gerusalemme liberata, del Tasso, non lo supererà (benché la lotta tra ariosteschi e tassiani sia ancora viva), perché sarà altro.

CARMINA E RIME

Pagina autografa di un carmen d’Ariosto

Possiamo dire che queste due opere appartengono alla giovinezza letteraria dell’Ariosto. Nei Carmina, in lingua latina, il nostro sembra apprendere gli strumenti per un’operazione di perfetta imitatio dei modelli. Sembra un’opera, appunto, in cui prevalga l’apprendistato formale.

Più difficile definire le Rime, perché ad esse Ariosto ci lavora quasi tutta la vita. In esse non prevale soltanto come modello Petrarca, come è abbastanza evidente in questo sonetto:

O SICURO, SECRETO E FIDEL PORTO

O sicuro, secreto e fidel porto,
dove, fuor di gran pelago, due stelle,
le più chiare del cielo e le più belle,
dopo una lunga e cieca via m’han scôrto:

or io perdono al vento e al mare il torto
che m’hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poi che se non per quelle,
io non potea fruir tanto conforto.

O caro albergo, o cameretta cara,
ch’in queste dolci tenebre mi servi
a goder d’ogni sol notte più chiara!

Scorda ora i torti e sdegni acri e protervi;
che tal mercé, cor mio, ti si prepara,
che appagherà quant’hai servito e servi.

O porto sicuro, riparato e fidato, dove due stelle (le più luminose e belle del cielo) mi hanno scortato dopo un lungo e tenebroso cammino, fuori da un mare in tempesta: ora io perdono al vento e al mare il torto che mi hanno fatto sinora con grandissime bufere, dal momento che se non era per quelle, non avrei potuto godere di un simile conforto. O caro rifugio, cara cameretta, che in queste dolci tenebre mi permetti di godere di una notte più luminosa di qualunque sole! O cuore mio, scordati ora i torti e le parole ingiuriose, aspre e arroganti; infatti si prepara per te un grande premio, che appagherà gli sforzi che hai fatto e che farai per servire. 
 

Immagine d’Ariosto

Basti pensare al famoso O cameretta che già fosti un porto del poeta aretino in cui lo spazio privato è il luogo in cui versare lacrime e cercar rifugio per gli affanni perduti mentre qui, capovolgendo la situazione la cameretta sembra promettere una notte d’amore. Si pensi alle stelle, metafora di bei occhi che l’hanno “scorto” in tale luogo e come esso venga illuminato, dopo aver trascorso del tempo a cercare amore (le procelle), per portare luce ed amore. E’ evidente come prevalga una certa vena “sensuale” , che mostra l’importanza certo formale di Petrarca ma senza abbandonare un attento sguardo alla poesia erotica di Catullo e dei poeti elegiaci. Si può dire, insomma, che già mostra, in queste opere cosiddette “minori”, un’attenzione particolare verso il dato reale, fisico dell’amore, anche se, verso la fine, sembra prevalere la purezza formale del grande autore del ’300.

Copertina del libro delle Rime d’Ariosto del 1558

MADRIGALE

La bella donna mia d’un sì bel fôco
e di sì bella neve ha il viso adorno,
che Amor mirando intorno
qual di lor sia più bel, si prende giôco.
Tal’è proprio a veder quell’amorosa
fiamma che nel bel viso
si sparge, ond’ella con soave riso
si va di sue bellezze innamorando;
qual’è a veder qualor vermiglia rosa
scôpre il bel paradiso
delle sue foglie, allor che ’l sol diviso
dall’orïente sorge, il giorno alzando.
E bianca è sì, come n’appare, quando
nel bel seren più limpido la luna
sovra l’onda tranquilla
co’ bei tremanti suoi raggi scintilla.
Sì bella è la beltade che in quest’una
mia donna hai posto. Amor, e in sì bel lôco,
che l’altro bel di tutto il mondo è poco.

 

Sandro Botticelli: Simonetta Vespucci (1480) (modello di bellezza rinascimentale)

Anche questo madrigale rappresenta una ripresa di un modello petrarchesco, anche se bisogna ricordare che l’autore del Canzoniere su 366 componimenti ne inserisca soltanto quattro. Ma anche di essi l’Ariosto ne fa un uso non pedissequo, ma personale e ciò si nota dal cambio metrico che se vedeva in quelli del modello l’uso dell’endecasillabo, Ariosto l’alterna con il settenario, permettendo ad esso una maggiore musicalità quale sarà percepita successivamente da Tasso, ma soprattutto da Monteverdi che farà di questo genere poetico la base per la nascita del teatro musicale italiano.

COMMEDIE

L’attenzione che Ariosto dedica al teatro non è certo formale, in obbedienza alla volontà e all’estro di Ippolito e d’Alfonso, quanto una vera e propria esigenza di maturazione poetica, in cui egli può misurare sia l’aderenza al modello classico che il bisogno di realtà che ne caratterizza la personalità. Inoltre in esse il nostro può esercitare la sua capacità nell’intreccio: infatti qui organizza storie, trova battute esilaranti, sperimenta un linguaggio che sta tra l’aulico e il quotidiano: tutte cose fondamentali per la stesura del Furioso. Le commedie sono cinque e composte tra il 1508 e il 1528:

La Cassaria (1508): è la prima commedia volgare della letteratura italiana. S’ispira all’Aulularia di Plauto e narra la vicenda di una cassa d’oro intorno cui ruotano due giovani innamorati della stessa ragazza. Vediamo come “si giustifica” secondo il modello dei prologhi antichi:

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Rappresentazione scenica de La Cassaria del 2016

PROLOGO

Nova comedia v’appresento, piena
di vari giochi, che né mai latine
né greche lingue recitarno in scena.
Parmi veder che la più parte incline
a riprenderla, subito c’ho detto
nova, senza ascoltarne mezo o fine:
ché tale impresa non li par suggetto
de li moderni ingegni, e solo estima
quel che li antiqui han detto esser perfetto.
E’ ver che né volgar prosa né rima
ha paragon con prose antique o versi,
né pari è l’eloquenzia a quella prima;
ma l’ingegni non son però diversi
da quel che fur, che ancor per quello Artista
fansi, per cui nel tempo indietro fersi.
La vulgar lingua, di latino mista,
è barbara e mal culta; ma con giochi
si può far una fabula men trista.
Non è chi ’l sappia far per tutti i lochi:
non crediate però che così audace
l’autor sia, che si metta in questi pochi.
Questo ho sol detto, a ciò con vostra pace
la sua comedia v’appresenti; e inanzi
il fin non dica alcun ch’ella mi spiace.
Per ch’ormai si cominci, e nulla avanzi
ch’io vi dovessi dir: sappiate come
la fabula che vol ponervi inanzi
detta Cassaria fia per proprio nome:
sappiate ancor che l’autor vol che questa
cittade Metellino oggi si nome.
De l’argumento, che anco udir vi resta,
ha dato cura a un servo, detto el Nebbia.
Or da parte di quel che fa la festa
priega chi sta a veder che tacer debbia.

Vi presento una nuova commedia piena di diversi accadimenti che nessuno mai mise in scena prima né in greco né il latino. Mi sembra di vedere la maggior parte di voi pronta a criticarla, appena ho pronunciato la parola “nuova”, senza averne ascoltato né un atto o la fine perché l’impresa di scriver commedie non le sembra compito da farsi dagli autori moderni e crede solo che le (commedie) perfette siano quelle scritte in lingua classica. E’ pur vero che il volgare, né in prosa né in versi, può essere paragonato con la prosa o con le rime antiche e neppure con la sua eloquenza; ma gli ingegni non sono diversi da quelli che un tempo ci furono, che ancora attraverso Dio si fanno allo stesso modo in cui li fece prima. La lingua volgare, mescolata con quella latina, è spiacevole e poco adatta alla cultura, ma con (valide) invenzioni si può narrare una storia un po’ piacevole. Non è che non ci sia qualcuno che sappia costruirla perfettamente in tutte le parti (come negli antichi): non pensate tuttavia che l’autore si sia mescolato fra questi incoscienti temerari. Ho detto soltanto questo, affinché con vostra pace la commedia si rappresenti e, prima che sia finita, nessuno dica che non gli è piaciuta. Dunque per cominciare, e affinché non rimanga nulla da aggiungere, sappiate come la commedia che vi voglio rappresentare si chiama Cassaria: sappiate anche che la città in cui l’autore vuole ambientarla oggi prenda il nome di Metellino (città dell’Egeo). Dell’argomento, che ancora deve esservi detto ho lasciato ad un servo il compito, detto il Nebbia. Ora da parte di chi ha organizzato la festa (in cui tale rappresentazione è inserita) / vi si prega che chi sta seduto per vederla, faccia silenzio.

E’ una vera e propria dichiarazione d’intenti quella che qui Ariosto porta avanti: non si tratta infatti di imitare pedissequamente il modello antico, ma d’inserire una “nuova favola” all’interno di una struttura classica. Anche questo prologo fa parte di questa struttura, che riprende il modo attraverso cui Terenzio “rispondeva” alle critiche che il pubblico poteva rivolgergli. Il nostro si tutela giustificandosi, sia pure con consapevolezza, essendo questa commedia la prima in assoluto che riprendeva il teatro classico in volgare. A ciò si aggiunga che l’utilizzo dell’endecasillabo sciolto che voleva riprendere e ripetere la metrica utilizzata dai commediografi latini.

I Suppositi (1509): il cui titolo vuol dire Gli scambiati, viene ripresa (attraverso l’idea della contaminatio, in pieno vigore nella commedia latina) dai Captivi di Plauto e dall’Eunuchus di Terenzio, dove si narra, appunto, la vicenda di uno scambio di persone.

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Antica edizione del Negromante

Il Negromante (1520, ma rappresentata per la prima volta nel 1530) : in parte ripresa da Terenzio, il cui protagonista è appunto un astrologo, finto mago, che approfitta dei creduloni, ma alla fine sarà scornato:

IL FALSO MAGO
(ATTO I, scena III)

CINTIO: Temolo, che ti par di questo astrologo / o negromante voglio dir?
TEMOLO: Lo giudico / una volpaccia vecchia.
CINTIO: Or ecco Fazio. / Io domandavo costui de l’astrologo / nostro che gli par.
TEMOLO: Dico ch’io el giudico / una volpaccia vecchia.
CINTIO: Et a voi, Fazio / che te ne par?
FAZIO: Io stimo uom di grande astuzia / e di molta dottrina.
TEMOLO: In che scienza / è egli dotto?
FAZIO: In l’arti che si chiamano / liberali.
CINTIO: Ma pur ne l’arte magica / credo che intenda ciò che si può intendere / e non ne sia per tutto il mondo un simile?
TEMOLO: Che ne sapete voi?
CINTIO: Cose mirabili / di lui mi narra il suo garzone.
TEMOLO: Fateci, / se Dio v’aiuti, udir questi miracoli.
CINTIO: Mi dice che a sua posta fa risplendere / la notte e il dì oscurarsi.
TEMOLO: Anch’io so simile- / mente cotesto far.
CINTIO: Come?
TEMOLO: Se accendere / di notte anderò un lume / e di dì chiudere / le finestre.
CINTIO: Deh, pecorone! Dicoti che estingue el sol per tutto il mondo, e splendida / fa la notte per tutto.
TEMOLO: Gli dovrebbono / dar gli speciali dunque un buon salario.
FAZIO: Perché?
TEMOLO: Perché calare il prezzo e crescere, / quando gli paia, può alla cera e all’olio. / Or sa fa altro?
CINTIO: Fa la terra muovere, / sempre che ’l vuol.
TEMOLO: Anch’io talvolta muovola, / s’io metto al fuoco o ne levo la pentola; / o quando cerco al buio se più gocciola / di vino è nel boccale, allor dimenola.
CINTIO: Te ne fai beffe, e ti par d’udir favole? / or che dirai di questo: che invisibile / va a suo piacer?
TEMOLO: Invisibile? Avetelo / voi mai, padron, veduto andarvi?
CINTIO: Oh, bestia! / Come si può veder, se va invisibile?
TEMOLO: Ch’altro sa far?
CINTIO: De le donne e de gli uomini / sa trasformar, sempre che vuole, in varii / animali e volatili e quadrupedi.

TEMOLO: Si vede far tutto il dì, / né miracolo è codesto.
FAZIO: U’ si vede far?
TEMOLO: Nel populo / nostro.
CINTIO: Non date udienza alle sue chiacchiere, / che ci dileggia.
FAZIO: Io vo’ saperlo: narraci / pur come.
TEMOLO: Non vedete voi, che subito / un divien podestate, commissario / proveditore, gabelliere, giudice, / notaio, pagator de li stipendii, / che li costumi umani lascia, e prendeli / o di lupo o di volpe o di alcun nibio?
FAZIO: Codesto è vero.
TEMOLO: E tosto ch’un ignobile / grado vien consigliere o segretario, / e che di commandar gli altri ha ufficio, / non è vero anco che diventa un asino?
FAZIO: Verissimo.
TEMOLO: Di molti che si mutano / in becco, vo’ tacer.
CINTIO: Cotesta, Temolo, è una cattiva lingua.
TEMOLO: Lingua pessima / la vostra è pur, che favole mi recita / per cose vere.

CINTIO: Temolo, voglio chiederti cosa ti sembra di questo astrologo o negromante?TEMOLO: Lo giudico un vecchio furbastro. CINTIO: Ecco Fazio. Io domandavo a costui cosa pensava del nostro astrologo. TEMOLO: Ripeto che sembra un vecchio furbastro. CINTIO: E a voi, Fazio, che ve ne pare? FAZIO: Lo credo un uomo di grande capacità e di molta cultura. TEMOLO: In quale disciplina egli è colto? FAZIO: Nelle arti che si chiamano liberali (cioè intellettuali). CINTIO: Ma soprattutto nell’arte magica credo che egli capisca tutto ciò che c’è da capire e che non ve ne sia in tutto il mondo uno esperto come lui. TEMOLO: Cosa ne sapete? CINTIO: Il suo servo mi racconta cose mirabolanti su di lui. CINTIO: Fateci, per piacere, ascoltare questi miracoli. CINTIO: Mi dice che a suo piacere illumina la notte ed oscura il giorno. TEMOLO: Anch’io lo so fare. CINTIO: Come? TEMOLO: Se andrò ad accendere una luce di notte e a chiudere una finestra di giorno. CINTIO: Ma va là, ignorante! Ti dico che spegne la luce in tutto il mondo e fa la notte splendente dappertutto. TEMOLO: I droghieri dovrebbero dargli un buon stipendio. FAZIO: Perché? TEMOLO: Perché potrebbero alzare o abbassare il prezzo della cera o dell’olio (che servono per l’illuminazione). Sa fare altro? CINTIO: Fa muovere il mondo quando vuole. TEMOLO: Anch’io qualche volta la muovo, se metto o levo dal fuoco una pentola; o quando cerco al buio se ancora vi è qualche goccia di vino nel bicchiere, allora lo scuoto. CINTIO: Lo prendi in giro oppure ti sembra d’ascoltare bugie? Ora che mi dirai di questo, che quando vuole diventa invisibile? TEMOLO: Invisibile? L’avete mai visto, padrone? CINTIO: Scemo che non sei altro! Come si può vedere, se è invisibile? TEMOLO: Cos’altro sa fare? CINTIO: Sa trasformare, quando vuole, gli uomini e le don-ne in animali, sia uccelli che mammiferi. TEMOLO: Questo succede tutti i giorni: non è un miracolo. FAZIO: E dove si fa? TEMOLO: Fra la nostra gente. CINZIO: Non dategli retta, che ci prende in giro. FAZIO: Io voglio saperlo: dicci come. TEMOLO: Non vedete che appena uno diventa podestà, commissario, provveditore, gabelliere, giudice, notaio, amministratore, abbandona le abitudini umane e prende quelle di lupo, di volpe, o di qualche rapace? FAZIO: E’ vero. TEMOLO: E non appena uno di bassa condizione diventa consigliere o segretario, che ha come potere quello di comandare sugli altri, non è anche vero che diventa un asino? FAZIO: Verissimo. TEMOLO: Dei molti che diventano cornuti, come un cervo, non voglio parlare. CINTIO: Questa, o Temolo, è una battuta infelice. TEMOLO: Battute infelici sono soltanto le vostre, che mi vende come cose serie, vere e proprie favole.

Questo piccolo esempio ci serve per capire in che modo Ariosto, nonostante l’uso dell’endecasillabo, cerchi di usare un ritmo brioso e colloquiale tra i personaggi; esso si nota anche nelle differenze tra la scelta terminologica dei signori Cintio e Fazio ed il servo Temolo. Quello che tuttavia qui interessa è la polemica che l’autore conduce contro una delle branche del sapere più in voga in epoca rinascimentale: la magia. Non è tale fatto in contraddizione con lo spirito razionale di cui Ariosto qui si fa portavoce. Per altri intellettuali la magia e la stregoneria (non dico a livello popolare) erano studiate come mezzi che, andando al di là della scienza, potevano spiegare la contraddittorietà della natura, per arrivare a capire l’essenza della creazione voluta da Dio.

La Lena (1529) è una commedia d’intreccio, che ha per protagonista una mezzana, la Lena appunto, sposata a Pacifico (di nome e di fatto) e due giovani, Licinia e Flavio, che alla fine coroneranno il loro amore con il matrimonio. E’ un’opera piuttosto tarda del ’29, ambientata a Ferrara, mentre Ariosto sta lavorando al Furioso. Per la caratterizzazione dei personaggi ed intreccio è considerata la sua commedia migliore.

Gli Studenti (postuma): è una commedia non completata da Ariosto, di cui conosciamo due versioni: una portata a termine dal fratello Gabriele, l’altra dal figlio Virginio, che ha per protagonisti due giovani studenti dell’università di Pavia.

SATIRE 

Quando nel 1517 il cardinale Ippolito va a Budapest nella sua diocesi, Ariosto rifiuta. E’ tale episodio che dà vita all’inizio della stesura delle Satire. Nel periodo infatti tra il ’17 e il ’25 vengono infatti composte sette satire, genere poetico da lui composto in terzine dantesche, che diverrà in seguito “canone” per tale genere poetico. Esse si strutturano come epistole poetiche, con diversi destinatari, fra cui fratelli e cugini di Ludovico; solo una di esse è indirizzata a Pietro Bembo.

Sette_libri_di_satire_di_[...]Arioste_L'_bpt6k314470k.JPEGEdizione 1560

Nella I satira viene raccontato il rifiuto di Ludovico di seguire il Cardinale Ippolito in Ungheria. Dietro tale rifiuto non vi è comunque soltanto il motivo “salutare” che sconsiglia al nostro climi freddi, ma anche l’orgogliosa consapevolezza della superiorità morale della poesia rispetto alla ricchezza:

PIU’ TOSTO CHE ARRICCHIR, VOGLIO QUIETE
(I, 160-177)

Più tosto che arricchir, voglio quïete:
più tosto che occuparmi in altra cura,
sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

Il qual, se al corpo non può dar pastura,
lo dà alla mente con sì nobil ésca,
che merta di non star senza cultura.

Fa che la povertà meno m’incresca,
e fa che la ricchezza sì non ami
che di mia libertà per suo amor esca;

quel ch’io non spero aver,  fa ch’io non brami,
che né sdegno né invidia me consumi
perché Marone o Celio il signor chiami;

ch’io non aspetto a mezza estade i lumi
per esser col signor veduto a cena,
ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;

ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
le bisaccie gli attacco su la schiena.

Piuttosto che diventare ricco, voglio la pace: / piuttosto da lasciarmi occupare in altre preoccupazioni / tanto da lasciare inondare il mio studio alle acque dell’oblio. / Il quale (studio) se non può nutrire il corpo / lo dà alla mente con un cibo così nobile / che merita essere coltivato. / (Lo studio) fa che la povertà mi dispiaccia meno e fa che non ami tanto la ricchezza / fino al punto di perdere la mia libertà; / ciò che non spero di avere, fa sì che io non lo desideri / che non mi consumi né rabbia né invidia / perché il cardinale Ippolito chiami Ippolito e Marone (poeti al seguito del Cardinale, dopo il rifiuto di Ariosto); / fa sì che io non aspetti le lampade a mezza estate / per esser visto a cena col Signore / perché non mi faccio acceccare dai lumi della vanità; / perché io vado solo e a piedi dove mi conduce / la mia necessità, e quando vado a cavallo / gli attacco le bisacce sul dorso.

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Ritratto d’Ippolito da un disegno di Giovanni Maria Zappi (XVI sec.)

Pochi versi, tratti dalla prima Satira, già ci indicano il problema fondamentale dell’intellettualità non civile ma cortigiana dei primi anni del ’500: la perdita di libertà. Vi è qui l’orgoglio del poeta ferito, non capito, che tuttavia rivendica non solo la propria grandezza, ma anche la semplicità della vita fatta di piccoli piaceri. Pur infarcita pertanto di riflessioni personali, si nota in essa il riferimento oraziano della recusatio verso Augusto, di cui ripete anche il concetto della mediocritas.

Nella II Satira il poeta tratta il tema della corruzione papale (prendendo spunto da un suo viaggio a Roma.

Più importante la terza Satira, indirizzata al cugino, in essa il poeta spiega la sua condizione sotto il signore Alfonso:

UNA DICHIARAZIONE DI LIBERTA’
(III, 1-9)

Poi che, Annibale, intendere vuoi come
la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento
più grave o men de le mutate some;

perché, s’anco di questo mi lamento,
tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto,
o ch’io son di natura un rozzon lento:

senza molto pensar, dirò di botto
che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
e fòra meglio a nessuno esser sotto.

Dal momento che Annibale (Malaguzzi, cugino del poeta) desidera sapere come / me la passi col duca Alfonso / e se mi sento più libero o meno con il nuovo padrone; / perché, se mi lamento anche di lui / tu mi dirai che ho il guidalesco rotto (vescica del cavallo provocata dallo sfregamento delle finiture) / e che per natura sono un ronzino malandato: / senza starci molto a pensare ti dirò / che un padrone e l’altro mi spiacciono ugualmente / e sarebbe molto meglio non esser sotto a nessuno.

Pur nella piena consapevolezza dell’impossibilità della libertà per il mantenimento dei fratelli egli si rende conto come vi sia incompatibilità tra poesia e servitù: mancanza di studio, amore per la letteratura scevro da qualsiasi altra preoccupazione, impegno per le opere prodotte e da rivedere, non si conciliano con i compiti, pur se onorevoli, che deve compiere per il Duca. Quindi prosegue:

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Battista Dossi: Ritratto di Alfonso d’Este in abiti militari (1530)

LIBERTA’ DI SCELTA
(III, 29-57)

So ben che dal parer dei più mi tolgo,
che ’l stare in corte stimano grandezza,
ch’io pel contrario a servitù rivolgo.

Stiaci volentier dunque chi la apprezza;
fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figliuolo
di Maia vorrà usarmi gentilezza.

Non si adatta una sella o un basto solo
ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia,
all’altro stringe e preme e gli dà duolo.

Mal può durar il rosignuolo in gabbia,
più vi sta il gardelino, e più il fanello;
la rondine in un dì vi mor di rabbia.

Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.

E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre.

Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.

Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna
a me piace abitar la mia contrada.

So bene che mi allontano dall’opinione comune, che considera un grande onore vivere a corte, e che io al contrario lo ritengo servitù. Ci rimanga volentieri chi lo apprezza, io ne uscirei con gioia se un giorno Mercurio (figlio di Maia, dio della ricchezza) si mostrerà propizio. Una sella o un basto non si adattano ad ogni schiena, ad un cavallo sembra di non avere niente addosso, ad un altro stringe e fa male. Male può vivere l’usignolo in gabbia, ci sta meglio il cardellino e il fanello, una rondine ci muore in un giorno per la rabbia. Chi desidera onori di cavalleria o di sacerdozio, serva re, duchi, cardinali o il papa, io no, che non mi interessano. In casa mia preferisco una rapa, cotta da me, infilzata su uno spiedo che poi sbuccio e la cospargo di aceto e di mostarda, che in tavola d’altri un tordo, una starna ed un cinghiale, e poi mi corico sotto una misera coperta, come se fosse di seta e d’oro. E preferisco riposare le pigre membra, che vantarmi di aver viaggiato in Russia, in India, in Africa e oltre. Gli uomini hanno diversi desideri a chi piace la vita ecclesiastica a chi la militare, a chi la sua patria, a chi i luoghi esotici. Chi vuole girare il mondo, lo giri: veda l’Inghilterra, l’Ungheria, la Francia, la Spagna, a me piace stare nel mio paese.

Vi è in questo brano una forte rivendicazione tra l’onore e il servilismo: con ironia, talvolta venata di sarcasmo, egli si distanzia da chi cerca onore e gloria e chiede poco, quasi nulla. Il quadretto domestico, costruito con similitudini tratte dalla quotidianità del vivere, ci rimandano al concetto di mediocritas. Anche ad esso deve a volte rinunciare, ma in modo meno deludente che col Cardinale: il duca sembra essere meno oppressivo. Tuttavia per spiegare al cugino la sua vera situazione ricorre ad una favola, anche qui, riprendendo il suo maestro latino, che in una Satura aveva inserito il famoso apologo del topo di campagna e del topo di città.

IL PASTORE E LA GAZZA
(III, 109-150)

Una stagion fu già, che sì il terreno
arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte
de’ suoi corsier parea aver dato il freno;

secco ogni pozzo, secca era ogni fonte;
li rivi e i stagni e i fiumi più famosi
tutti passar si potean senza ponte.

In quel tempo, d’armenti e de lanosi
greggi io non so s’i’ dico ricco o grave,
era un pastor fra gli altri bisognosi,

che poi che l’acqua per tutte le cave
cercò indarno, si volse a quel Signore
che mai non suol fraudar chi in lui fede have;

et ebbe lume e inspirazion di core,
ch’indi lontano troveria, nel fondo
di certa valle, il desiato umore.

Con moglie e figli e con ciò ch’avea al mondo
là si condusse, e con gli ordegni suoi
l’acqua trovò, né molto andò profondo.

E non avendo con che attinger poi,
se non un vase picciolo et angusto,
disse: «Che mio sia il primo non ve annoi;

di mógliema il secondo; e ’l terzo è giusto
che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi
l’ardente sete onde è ciascuno adusto:

li altri vo’ ad un ad un che sien concessi,
secondo le fatiche, alli famigli
che meco in opra a far il pozzo messi.

Poi su ciascuna bestia si consigli,
che di quelle che a perderle è più danno
inanzi all’altre la cura si pigli».

Con questa legge un dopo l’altro vanno
a bere; e per non essere i sezzai,
tutti più grandi i lor meriti fanno.

Questo una gazza, che già amata assai
fu dal padrone et in delizie avuta,
vedendo et ascoltando, gridò: «Guai!

Io non gli son parente, né venuta
a fare il pozzo, né di più guadagno
gli son per esser mai ch’io gli sia suta;

veggio che dietro alli altri mi rimagno:
morò di sete, quando non procacci
di trovar per mio scampo altro rigagno». 

 
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Disegno di una gazza

Ci fu un tempo che il terreno era così riarso, che sembrava che il Sole avesse dato il permesso di guidare il suo carro a Faetonte che, passando troppo vicino alla terra la bruciò; ogni pozzo, ogni fonte era secca, i rivi, gli stagni, anche i più famosi fiumi si potevano attraversare senza bisogno di un ponte. In quel tempo, non so se ricco o povero di greggi, vi era un pastore, anche lui bisognoso d’acqua. Poi che l’aveva cercata inutilmente in ogni pozzo, si rivolse a quel Signore che non hai mai ingannato chi crede in Lui; ed ebbe l’illuminazione e l’ispirazione del cuore, che avrebbe trovato non molto lontano, nel fondo di una valle, la desiderata bevanda. Con la moglie ed i figli e tutto ciò che era in suo possesso, si portò lì, e con i suoi strumenti, trovò l’acqua, senza andare troppo in profondità. Non avendo, per raccoglierla, che un vasetto piccolo e stretto, disse: «Che io sia il primo, non vi dispiaccia; il secondo sarà di mia moglie, il terzo è giusto che sia dei figli, fino al quarto, finché non cessa l’ardente sete da cui ognuno è oppresso. Gli altri voglio che siano distribuiti secondo le fatiche sostenute, ai servi che misi all’opera insieme a me per lo scavo del pozzo. Poi si conceda ad ogni capo di bestiame e si prenda cura di quelli che possono essere più utili prima degli altri». Con questo patto uno dopo l’altro vanno a bere; e per non essere ultimi, tutti rendono più grandi i loro meriti. Una gazza, che fu molto amata e procurò molta gioia al padrone, vedendo e ascoltando tutto questo gridò: «Guai! Io non sono sua parente, né l’ho aiutato a fare il pozzo, né potrò essergli più utile di quanto sia stata sinora. Vedo che rimango indietro rispetto agli altri: morirò di sete, se non cerco di trovare un altro rigagnolo per la mia salvezza».

Vi è qui l’allegoria, un po’ amara di Leone X e del poeta. Infatti egli aveva tentato, inutilmente, quando era ancor giovane, d’entrare al suo servizio. Quest’ultimo infatti, figlio di Lorenzo il Magnifico, aveva mostrato un vivo apprezzamento per l’opera del poeta; ma è chiaro, qui, che non poteva aspettarsi troppo, dovendo Giovanni de’ Medici, ripagare con uffici e prebende tutti coloro che lo avevano aiutato. Si tratta di un’amara considerazione di un modus vivendi “amorale”, ma che egli osserva, attraverso la favola, con grande ironia, sapendo che “così va il mondo”.

Nella IV Satira racconta la sua esperienza come governatore in Garfagnana, mentre nella V disserta sulla fortuna o sfortuna di prender moglie; la VI è indirizzata a Pietro Bembo perché trovi un maestro di greco per il figlio Virginio, mentre la VII riafferma la volontà di non volersi spostare da Ferrara per diventare ambasciatore presso Clemente V.

Come si vede esse sono tutte basate su elementi autobiografici. Ma non per questo dobbiamo riferirci ad essi per scoprire la verità sull’esistenza del nostro: sono infatti frutto di una accurata rielaborazione letteraria. Non si tratta, cioè di scoprirsi presso il pubblico, quanto di mostrare ad esso la capacità di svolgere in una terzina modellata sul verso di Dante argomenti tratti dalla quotidianità, in cui la parola aulica si sposi con quella d’uso comune. Si osservi l’argomento e lo stile della III Satira: la riaffermazione della libertà, dove all’alto orgoglio si sposa l’esempio del ronzino; ho ancora lo sfarzo della vita di corte con il pasto di una rapa e, infine l’impossibilità di aver servito il papa con la favola della gru. E’ questo il processo dell’abbassamento ottenuto con la sua capacità ironica, che nel poema sarà utilizzata per abbracciare il mondo intero.

ORLANDO FURIOSO

L’Orlando Furioso, poema cavalleresco, viene definito dall’autore stesso una gionta (aggiunta) al non terminato Orlando Innamorato che il nobile Boiardo aveva composto, per il diletto della corte di Ercole I, nel 1495. Egli infatti riprende la vicenda interrotta dal predecessore e dedica la sua opera al figlio d’Ercole, il cardinale Ippolito. Dunque l’opera ariostesca si presenta subito come una continuazione. Eppure essa ha una vera e propria autonomia narrativa ed una qualità che il suo predecessore non possedeva, tanto da diventare, nella coscienza comune, come l’emblema di tutto il Rinascimento. Frutto di tutto il lavoro che l’autore ferrarese profuse nell’estensione del suo capolavoro sono le tre edizioni in cui essa si fece conoscere al pubblico:

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Edizione del 1551

  • 1516, in 40 canti, ritenuta sin da subito provvisoria dall’autore;
  • 1521 in cui l’opera subisce un’importante revisione linguistica, grazie all’apporto amicale di Pietro Bembo, che di lì a poco avrebbe pubblicato le Prose della vulgar lingua (1525). Alcuni critici pensano che l’autore abbia avuto per questa edizione l’intenzione di aggiungere qualche canto (si tratterebbe dei Cinque canti, mai pubblicati, poi, perché sentiti poco coesi all’interno dell’opera dallo stesso poeta, ma resi postumi per opera del figlio);
  • 1532, l’edizione definitiva in ben 46 canti, con un ulteriore e più perfetta revisione linguistica.

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Riproduzione anastatica di cinque Canti pubblicati da Virginio

Se è quasi impossibile riassumere il poema, per la varietà e l’intrecciarsi delle vicende. È tuttavia possibile enuclearne tre temi principali:

  1. Il tema bellico, con la guerra tra i Franchi e i Mori;
  2. Il tema sentimentale con l’amore tra Orlando e Angelica, incluso la pazzia d’Orlando;
  3. Il tema encomiastico con l’amore tra Ruggiero e Bradamante.

Vediamone la struttura e i principali temi attraverso l’opera stessa:

PROEMIO E INCIPIT
(I, 1-16)

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.

 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.

 Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

 Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensier cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.

 Orlando, che gran tempo innamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti ed immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,

 per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentì d’esservi giunto:

 che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperi ai liti eoi
avea difesa con sì lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.

 Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che ambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era

tolse, e diè in mano al duca di Bavera;

in premio promettendola a quel d’essi,

ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degl’infideli più copia uccidessi,
e di sua man prestasse opra più grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.

Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi al caso era salita in sella,
e quando bisognò le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.

Indosso la corazza, l’elmo in testa,
la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
e più leggier correa per la foresta,
ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
Timida pastorella mai sì presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.

 Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l’angelico sembiante e quel bel volto
ch’all’amorose reti il tenea involto.

 La donna il palafreno a dietro volta,
e per la selva a tutta briglia il caccia;
né per la rara più che per la folta,
la più sicura e miglior via procaccia:
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al destrier che la via faccia.
Di sù di giù, ne l’alta selva fiera
tanto girò, che venne a una riviera.

 Su la riviera Ferraù trovosse
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
né l’avea potuto anco riavere.

 Quanto potea più forte, ne veniva
gridando la donzella ispaventata.
A quella voce salta in su la riva
il Saracino, e nel viso la guata;
e la conosce subito ch’arriva,
ben che di timor pallida e turbata,
e sien più dì che non n’udì novella,
che senza dubbio ell’è Angelica bella.

 E perché era cortese, e n’avea forse
non men de’ dui cugini il petto caldo,
l’aiuto che potea tutto le porse,
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:
trasse la spada, e minacciando corse
dove poco di lui temea Rinaldo.
Più volte s’eran già non pur veduti,
m’al paragon de l’arme conosciuti.

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L’Orlando Furioso visto dai Pupari Siciliani

Le donne, i cavalieri, le battaglie, gli amori, gli atti di cortesia, le audaci imprese io canto, che ci furono nel tempo in cui gli Arabi attraversarono il mare d’Africa, e arrecarono tanto danno in Francia, seguendo le ire e i furori giovanili del loro re Agramante, il quale si vantò di poter vendicare la morte di Traiano contro il re Carlo, imperatore romano. // Nello stesso tempo, racconterò di Orlando cose mai dette né in prosa né in rima: che per amore, divenne furioso e matto, lui che prima era considerato uomo così saggio; dirò queste cose se da parte di colei che mi ha quasi reso tale e che a poco a poco consuma il mio piccolo ingegno, me ne sarà concesso a sufficienza (di ingegno) tanto che mi basti a finire l’opera che ho promesso. // Vi piaccia, o Ippolito, generosa e nobile figlio di Ercole I, ornamento e splendore del nostro tempo, di gradire questo poema che vuole e darvi solo può il vostro umile servitore. Il mio debito nei vostri confronti, lo posso solo pagare in parte con le mie parole ed opere scritte; non mi si potrà accusare di darvi poco, perché io vi dono tutto quanto posso donarvi. // Voi mi sentirete ricordare fra i più valorosi eroi, che mi appresto a citare lodandoli, di quel Ruggiero che fu il vostro e dei vostri nobili avi il capostipite. Il suo grande valore e le sue imprese vi farò udire se mi presterete ascolto; e le vostre profonde preoccupazioni cedano un poco, in modo che tra loro i miei versi possano trovare spazio. // Orlando, che per tanto tempo era stato innamorato della bella Angelica e per lei in India, in Oriente, aveva lasciato trofei immortali ed in numero infinito, era tornato infine con la donna amata in Occidente dove, sotto gli alti monti Pirenei, con i Francesi ed i Tedeschi, il re Carlo si era insediato in campo aperto, // perché il re Marsilio ed il re Agramante si pentissero ancora una volte delle loro folli azioni; Agramante per avere condotto dall’Africa tante persone quante erano in grado di portare spada e lancia, Marsilio per avere condotto la Spagna nella distruzione del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò sul posto al momento giusto, ma subito si pentì di esservi giunto. // Perché gli anche fu tolta la donna che amava: ecco come il giudizio umano spesso sbaglia! La donna che dalle coste Orientali a quelle Occidentali aveva difeso con una tanto lunga guerra, ora gli viene tolta tra tanti suoi amici, senza che sia adoperata spada alcuna, sulla sua terra. Il saggio imperatore, con la volontà di estinguere un grave incendio (pericolosa contesa d’amore), fu a togliergliela. // Pochi giorni prima era infatti iniziato un conflitto tra il conte Orlando e suo cugino Rinaldo, poiché entrambi, per la rara bellezza di Angelica, avevano l’animo infiammato dal desiderio amoroso. Carlo non vedeva di buon occhio tale lite, che poteva mettere in dubbio il loro aiuto, questa fanciulla (Angelica), che ne era la causa, prese e consegnò nelle mani del duca Namo di Baviera; // promettendola in premio a chi dei due, nell’imminente conflitto, in quella battaglia campale, avesse ucciso il maggior numero di infedeli, e con la sua mano avesse quindi reso maggior servizio. Gli eventi fecero però venire meno le promesse; perché i cristiani dovettero ritirarsi, insieme a molti altri, il duca Namo fu fatto prigioniero e la sua tenda rimase vuota. // Rimasta sola nella tenda, la donzella, che avrebbe dovuto essere la ricompensa del vincitore, visto l’andamento degli eventi, salì in sella ad un cavallo e ad momento opportuno scappò, avuto presagio che, quel giorno, avversa alla fede cristiana sarebbe stata la fortuna. Entrò in un bosco e per lo stretto sentiero incontrò un cavaliere che avanzava a piedi. // Con addosso la corazza, in testa l’elmo, al fianco la spada ed al braccio lo scudo, correva per la foresta più rapidamente di un contadino poco vestito in una gara di corsa. Una timida pastorella mai così rapidamente sottrasse il piede dal morso di un serpente letale, quanto rapidamente Angelica tirò le redini per cambiare direzione non appena si accorse del guerriero che sopraggiungeva a piedi. // Era questo guerriero (Rinaldo) quel paladino, figlio di Amone, signore di Montalbano, al quale poco prima il proprio destriero per uno strano caso era fuggito di mano. Non appena posò lo sguardo sulla donna, riconobbe, nonostante fosse lontana, l’angelica figura ed il bel volto che lo avevano fatto prigioniero delle reti dell’amore. // La donna volta indietro il cavallo e per il bosco lo lancia in corsa a briglia sciolta; più per la sgombra che per la fitta boscaglia non va cercando la via migliore e più sicura, perché pallida, tremante, e fuori di sé, lascia che sia il cavallo a frasi strada da solo. L’animale da ogni parte, nell’inospitale foresta, tanto vagò che infine giunse alla riva di un fiume. // In riva al fiume trovò Ferraù tutto impolverato e sudato. Poco prima lo aveva tolto dalla battaglia un grande desiderio di bere e di riposarsi; e poi, contro la sua volontà, lì si dovette fermare, perché, nella fretta di bere, lasciò cadere nel fiume il proprio elmo ed ancora non era riuscito a ritrovarlo. // Sopraggiunse, gridando quanto più poteva la donzella spaventata. Udita la voce, il Saracino salta sulla riva la guarda attentamente in viso e subito riconosce che chi sta arrivando al fiume, nonostante fosse pallida e turbata dalla paura e fossero passati più giorni dall’ultima volta che ne ebbe notizia, era senza dubbio la bella Angelica. // Essendo di indole gentile e forse avendo anche l’animo infiammato non meno dei due cugini, porse a lei tutto l’aiuto che era in grado di dare, come se avesse riavuto l’elmo, temerario e spavaldo: sguainò la spada e corse minaccioso verso Rinaldo, che in realtà non era per niente intimorito da lui. Più volte si era già non solo visti, ma anche scontrati con le armi.

Abbiamo qui sia il proemio che l’incipit del poema stesso. Nel primo vi è la scansione classica: presentazione dell’argomento, invocazione e dedica. Ma Ariosto stravolge queste parti classiche di ogni poema. Vediamo come:

  • l’argomento presenta il tema bellico ed il sentimentale che vengono strutturati attraverso un doppio chiasmo in cui è evidente che tale figura retorica vuole indicarci la varietà e l’intrecciarsi delle vicende:

         le donne                                  i cavalier

        l’arme                                      gli amori

                       le cortesie                                l’audaci imprese

  • l’invocazione viene abbassata a tal punto che non si parla più né di figure celesti né di altissime figure pagane il cui compito è quello d’ispirare l’alto compito che il poeta deve elaborare, ma la semplice sua compagna che ama talmente tanto da poter finire “pazzo” come Orlando;
  • La dedica è dedicata ad Ippolito d’Este, cardinale a cui egli presta servizio, ma non pare così interessato, tra le sue mille attività d’uomo di mondo e di chiesa, come ci ha fatto intendere già nelle Satire.

Quindi dopo avercelo presentato, il poeta, molto “umilmente” inizia il poema proprio dove Boiardo l’aveva cominciato e con un sunto estremamente veloce ci dice cosa nell’Orlando Innamorato si era raccontato: il paladino Orlando, tornato a Parigi dalla guerra vittoriosa in Oriente con la bella Angelica, figlia del re del Catai, si scontra con Rinaldo per la conquista della bella giovane. Re Carlo ne approfitta per prometterla in premio a chi si mostrerà più valoroso nella lotta contro i Saraceni e intanto l’affida in custodia al duca di Baviera Namo. Attraverso questo modo Ariosto non inizia il suo poema, ma continua il precedente; cioè, egli struttura un vero e proprio non inizio, in quanto vuole che il suo lavoro abbia una struttura “aperta”. Quindi parte in medias res, con la fuga d’Angelica, inseguita a piedi da Rinaldo, che aveva smarrito il cavallo, fino a che giunge ad un rivo dove vi è il soldato Ferraù, che cerca un elmo che gli era caduto. Alle grida della fanciulla si volge e riconosciutala, poiché anche a lui piaceva immensamente, la difende contro Rinaldo che intanto sopraggiungeva. Fra i due sorge un epico duello, di cui Angelica approfitta ridandosi alla fuga. Allora Rinaldo, accortosi dell’assenza della fanciulla, propone una tregua al rivale, affinché, solo dopo averla riacciuffata, si possa fra di loro stabilire chi la dovrà possedere. Tale proposta viene accettata da Ferraù di buon grado, che, essendo assai cortese, non lascia che il suo avversario rimanga a piedi, e caricatolo nel suo cavallo, insieme vanno all’inseguimento d’Angelica.

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Ida Saitta: Orlando alla corte del re Carlo

RIFLESSIONI D’AUTORE 1
(I, 22-23) 

Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
Da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva. 

E come quei che non sapean se l’una
o l’altra via facesse la donzella
(però che senza differenza alcuna
apparia in amendue l’orma novella),
si messero ad arbitrio di fortuna,
Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraù molto s’avvolse,
e ritrovossi al fine onde si tolse.

Oh gran bontà dei cavalieri antichi! Erano rivali, parlavano una diversa lingua, si sentivano dei duri colpi crudeli ancora dolere tutto il corpo; eppure per boschi oscuri e sentieri tortuosi vanno insieme senza temersi tra loro. Da quattro speroni punto, il destriero arriva ad un bivio. // E come quelli che non sapevano se l’una o l’altra via avesse imboccato la donzella (poiché senza alcuna differenza, su entrambi i sentieri l’impronta appariva fresca, recente) misero la propria sorte nelle mani della fortuna. Rinaldo per questo sentiero, il saracino per quello. Per il bosco Ferraù molto s’aggirò ad alla fine si ritrovò al punto di partenza.

Ci troviamo qui di fronte a dei procedimenti che ricorreranno moltissimo nel poema:

  • Intervento dell’autore: con esso Ariosto pratica un abbassamento e “modernizzazione”: ciò avviene nello “svelamento” della favola, così come la presenta nel duello, descritto in modo “altisonante ed eroico”, ma anche una riflessione amara sull’odio che percorre l’intera penisola con le guerre del primo Cinquecento;
  • Concetto di biforcazione: i due cavalieri si trovano di fronte ad un bivio; attraverso questa tecnica, Ariosto introduce il tema della simultaneità e quindi, narrativamente, il bisogno dell’intreccio presente nell’opera (racconto un episodio, che poi interrompo, perché voglio raccontarvi cosa nel frattempo succede in un altro episodio e via discorrendo);
  • Concetto di circolarità: Ferraù si ritrova nel luogo in cui era partito: è un concetto collegato al precedente, quello dell’intreccio. Se quest’ultimo non mi può offrire una linea verticale della narrazione, basato sul prima e sul poi, mi darà viceversa un aspetto circolare in cui le cose tornano al punto stesso in cui erano.

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Immagine che mostra Ferraù ed Argalia per un’edizione genovese dell’Orlando Furioso (XVI sec.)

Riprendendo la narrazione Ferraù si ritrova nel fiume a ricercare l’elmo. Ma mentre tenta il terreno sotto l’acqua esce il fantasma d’Argalia (fratello di Angelica) con l’elmo tra le braccia che rimprovera al cavaliere di non averglielo restituito come aveva promesso quando l’aveva ucciso. Ne cercasse un altro, come quelli di Rinaldo ed Orlando, altrimenti lui non ne avrà più. Vergognandosi molto, Ferraù così decide. Rinaldo intanto vede il suo cavallo. Angelica capisce che lui è vicino e ricomincia la fuga.

FUGA D’ANGELICA
(I, 33-45)

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura trema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.

Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno

s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fin in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.

Quivi parendo a lei d’esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l’estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
che di fresca erba avean piene le sponde.

Ecco non lungi un bel cespuglio vede

di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose;
così voto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l’ombre più nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che ’l sol non v’entra, non che minor vista.

Dentro letto vi fan tenere erbette,
ch’invitano a posar chi s’appresenta.
La bella donna in mezzo a quel si mette,
ivi si corca ed ivi s’addormenta.
Ma non per lungo spazio così stette,
che un calpestio le par che venir senta:
cheta si leva e appresso alla riviera
vede ch’armato un cavallier giunt’era.

Se gli è amico o nemico non comprende:
tema e speranza il dubbio cor le scuote;
e di quella aventura il fine attende,
né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
Il cavalliero in riva al fiume scende
sopra l’un braccio a riposar le gote;
e in un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.

Pensoso più d’un’ora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò con suono afflitto e lasso
a lamentarsi sì soavemente,
ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,
una tigre crudel fatta clemente.
Sospirante piangea, tal ch’un ruscello
parean le guance, e ’l petto un Mongibello.

«Pensier (dicea) che ’l cor m’agghiacci ed ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,
e ch’altri a corre il frutto è andato prima?
a pena avuto io n’ho parole e sguardi,
ed altri n’ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affligger per lei mi vuo’ più il core?

La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avvicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che ’l fior, di che più zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.

Sia vile agli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sì larga copia.

Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
Dunque esser può che non mi sia più grata?
dunque io posso lasciar mia vita propia?
Ah più tosto oggi manchino i dì miei,
ch’io viva più, s’amar non debbo lei!»

Se mi domanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch’egli è il re di Circassia,
quel d’amor travagliato Sacripante;
io dirò ancor, che di sua pena ria
sia prima e sola causa essere amante,
è pur un degli amanti di costei:
e ben riconosciuto fu da lei.

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Carlo Jacono: La fuga di Angelica (1957)

Fugge tra spaventosi ed oscuri boschi, per luoghi inabitati, selvaggi e solitari. Il rumore provocato dal movimento dei rami e dalla vegetazione di querce, olmi e faggi, che Angelica sentiva, causa le improvvise paure, le avevano fatto intraprendere insoliti sentieri da ogni parte; perché ogni ombra che vedeva sui monti o nelle valli, le facevano temere di avere ancora alle spalle Rinaldo. // Come un cucciolo di daino o capriolo, che tra i rami del boschetto nel quale è nato abbia visto la gola della madre dal morso del leopardo stretta, o che le squarcia il petto od il fianco, scappa dall’animale crudele di bosco in bosco e trema per la paura e per il sospetto della sua presenza: per ogni cespuglio che tocca al proprio passaggio crede di essere già in bocca alla belva crudele. // Quel giorno, la stessa notte e per metà del giorno seguente vagò senza sapere dove stesse andando. Venne a trovarsi infine in un boschetto leggiadro, mosso delicatamente da un vento fresco. Due ruscelli trasparenti, riempiendo l’aria del loro gorgoglio, consentono la presenza sempre dell’erba e la sua crescita; e rendevano piacevole da ascoltare la dolce armonia, interrotta solo tra piccoli sassi, dal loro scorrere lento. // Qui, credendo di essere al sicuro e lontana mille miglia da Rinaldo, per lo stancante tragitto ed il caldo estivo decide di riposare per un po’ tempo: scende da cavallo tra i fiori e lascia andare a nutrirsi, senza briglia, libero, il proprio destriero; l’animale vaga quindi nei dintorni dei ruscelli, che avevano piene le rive di fresca erba. // Non lontano da sé Angelica scorge un bel cespuglio, fiorito di biancospini e di rose rosse, che si specchia nelle onde limpide dei ruscelli ed è riparato dal sole dalle alte querce ombrose; vuoto nel mezzo, così da concedere fresco giaciglio tra le ombre più nascoste: le sue foglie ed i suoi rami sono talmente intrecciati che non passa il sole, e nemmeno la vista dell’uomo, meno penetrante. // L’erbetta morbida crea un letto all’interno del cespuglio, invitando a stendersi sopra chi vi giunge. La bella donna si mette in mezzo al cespuglio, lì si corica e quindi si addormenta. Ma non rimane lì addormentata molto tempo, che le sembra di sentire avvicinarsi un rumore di calpestio: si solleva piano piano e presso la riva di un ruscello vede essere giunto un cavaliere armato. // Angelica non riesce a capire se gli è amico o nemico: il timore e la speranza le scuotono il suo cuore dubbioso; attende che quella avventura giunga ad un termine senza emettere neanche un solo sospiro. Il cavaliere si siede in riva al ruscello reggendosi la testa con un braccio; e viene tanto rapito dai propri pensieri, al punto che, immobile, sembra essersi mutato in insensibile pietra. // Assorto dai propri pensieri, con il capo basso, per più di un’ora stette, cardinale Ippolito, il cavaliere abbattuto; dopo di ché cominciò con un la-mento afflitto e dolente a lamentarsi in modo tanto struggente, che avrebbe infranto un sasso per pietà, una crudele tigre fatta misericordiosa. Piangeva tra i sospiri, tanto che un ruscello sembrava scorrergli sulle guance ed il petto un vulcano infuocato. // Diceva: «Pensiero che mi ghiaccia ed arde il cuore, e causa del dolore che sempre lo consuma, che ci posso fare se sono giunto tardi ed altri, arrivati prima, hanno già colto il frutto (Angelica)? Ho ricevuto a stento i suoi sguardi e parole, altri hanno invece ricevuto tutto il ricco bottino. Se a me non spettano né il frutto né il fiore, perché per lei voglio ancora tormentare il mio cuore? // La vergine è simile ad una rosa, che in un bel giardino, sul rovo che l’ha generata, si riposa finché è sola ed al sicuro, e né gregge né pastore le si avvicinano; la brezza delicata e la rugiada del mattino, l’acqua e la terra si inchinano davanti al suo fascino: giovani amanti e donne innamorate amano ornarsi il collo e la testa di lei, la rosa. // Ma non appena dallo stelo materno e dal ceppo verde del cespuglio viene staccata, quanto aveva per gli uomini e per il cielo fascino, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che il proprio fiore, del quale deve avere cura più che dei propri begli occhi e della propria vita, lascia cogliere ad altra persona, perde l’ammirazione che poco prima aveva nel cuore di tutti i propri amanti. // Diviene di scarso valore agli occhi degli altri, ed amata solo da colui al quale fece così grande dono di sé. Ah, fortuna crudele, fortuna ingiusta! Gli altri godono mentre io muoio di stenti. Non potrebbe allora essermi lei meno cara? Non potrei forse abbandonare la mia propria vita? Ah, che io muoia oggi stesso piuttosto che vivere più a lungo, se non dovessi amare lei!». // Se qualcuno mi domandasse chi sia questo cavaliere, che versa così tante lacrime sopra il torrente, io risponderò che lui è il re di Circassia, Sacripante, tormentato dall’amore; dirò ancora che della sua pena, grave da sopportare, la prima e sola causa è l’amare una donna, ed è proprio uno degli amanti di Angelica: è subito fu infatti da lei riconosciuto.

Qui Ariosto tocca due tecniche estremamente presenti nella cultura classica e quindi riprese nell’età rinascimentale: l’aspetto dell’elegia e del locus amoenus; infatti la selva in cui fugge Angelica, oltre a richiamare Dante, riflette lo stato ansioso della fanciulla; mentre il prato in cui ella trova riposo rimanda ad echi petrarcheschi, in cui egli idealizzava la sua amata Laura. Ma è proprio qui che egli crea il contrasto ironico: al piacevole e perfetto posto in cui trova riposo la fanciulla, fa da contrasto l’atteggiamento malinconico di Sacripante; alla bellezza e purezza d’Angelica, fa da contrasto la certezza che Orlando, nel portarla da Oriente a Parigi, l’abbia sverginata ed una donna, cui è stato colto il frutto, perde d’ogni qualità. Così pensa lui. Angelica che ha sentito il suo lamento e che, vistosi sola, una compagnia per tornare al suo paese l’avrebbe voluta volentieri, ma senza compromettersi, si svela al re e, per meglio convincerlo, afferma d’esser ora vergine così come Dio l’ha fatta.

RIFLESSIONI D’AUTORE 2
(I, 56) 

Forse era ver, ma non però credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch’era perduto in via più grave errore.
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibiIe,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu; che ’l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.

Forse era vero ciò che diceva, ma non era però credibile a chi fosse padrone della propria ragione; ma parve facilmente possibile a Sacripante, che aveva commesso un ben più grave errore, innamorandosi. Quel che l’uomo potrebbe vedere, l’amore gli nasconde, e ciò che non sarebbe visibile viene fatto vedere dall’amore. Il racconto fu creduto; poiché l’uomo misero è solito credere troppo facilmente a ciò che ha bisogno di credere.

E’ evidente qui l’ironia di Ariosto, che tuttavia nasconde riflessioni sulla realtà umana e sulla sua debolezza; in primo luogo il solito contrasto tra apparenza e realtà, tra forma idealizzata e forma concreta: la bella Angelica (tale anche nel nome) non è che una furba ragazza; dall’altra, più con saggezza che con ironia, la constatazione di un aspetto dell’amore che crea bugie nella nostra mente, ma alle quali non sappiamo opporci. Ma Sacripante, ben pensandoci, riflette che se Orlando è stato così stupido da non approfittare della presenza di una così splendida fanciulla, ci penserà ben lui a farle provare la dolcezza dell’amore. Mentre si prepara al dolce assalto vede giungere un cavaliere, completamente bianco: estremamente arrabbiato perché lo ha interrotto sul più bello, lo sfida subito a duello. Monta sul cavallo e, dopo l’assalto, rimane disarcionato:

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Giuseppe Bergomi: Angelica che fugge (2014)

DA RE A UOMO
(I, 63-64) 

Già non fero i cavalli un correr torto,
anzi cozzaro a guisa di montoni:
quel del guerrier pagan morì di corto,
ch’era vivendo in numero de’ buoni:
quell’altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch’al fianco si sentì gli sproni.
Quel del re saracin restò disteso
adosso al suo signor con tutto il peso. 

L’incognito campion che restò ritto,
e vide l’altro col cavallo in terra,
stimando avere assai di quel conflitto,
non si curò di rinovar la guerra;
ma dove per la selva è il camin dritto,
correndo a tutta briglia si disserra;
e prima che di briga esca il pagano,
un miglio o poco meno è già lontano.

I due cavalli, uno di fronte all’altro, non deviarono in corsa, anzi si scontrarono violentemente tra loro come fanno i montoni: il cavallo di Sacripante morì sul colpo, pur potendo essere annoverato, da vivo, tra i buoni destrieri: anche l’altro cadde a terra, ma si rialzò non appena sentì pungere al suo fianco gli speroni. Quello del re saracino restò disteso, tendendo schiacciato con il proprio peso il padrone. // Il misterioso campione che rimase dritto a cavallo, e vide l’altro cavaliere in terra con il cavallo, ritenendo di avere avuto sufficiente trionfo da quel conflitto, non ritenne necessario rinnovare il combattimento; là dove, attraverso la selva, il sentiero è dritto, si lancia invece al galoppo; e prima che il pagano riesca a liberarsi dall’impaccio, si è già allontanato di un miglio o poco meno.

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Immagine per il 1° canto del Furioso

E’ questo quello che si definisce l’“abbassamento” ariostesco: da re a uomo profondamente turbato per la vergogna d’esser stato disarcionato e gettato a terra di fronte alla donna che un attimo prima pensava di far sua. Ma ad acuire la vergogna di Sacripante è la notizia che a batterlo è stata una donna, Bradamante, anch’ella in cerca del suo Ruggero. Quindi Angelica prende il re sul proprio cavallo, e s’incammina. Di lontano riconosce Baiardo, cavallo di Rinaldo, ma a lei legato (Spiega Calvino: “Come mai Baiardo, così fedele, gli era scappato? Non tarderemo a comprendere che questa fuga – da cui a ben vedere, si scatenano tutte le vicissitudini dell’Orlando furioso – era una straordinaria prova di fedeltà e intelligenza. Per servire il suo padrone innamorato, Baiardo s’era messo di sua iniziativa sulle tracce di Angelica, di modo che Rinaldo, correndo dietro al destriero, avrebbe trovato la sua bella. Se si lasciava montare dal padrone, sarebbe stato il padrone a dirigerlo, come sempre avviene ad ogni cavallo; fuggendo è Baiardo a dirigere Rinaldo. Questo Baiardo, così corposamente cavallo, tende a sconfinare dalla natura equina, proprio perché vuole essere un cavallo ideale”). Il saraceno cerca di cavalcarlo, ma viene allontanato e si mostra solamente grato ad Angelica. Mentre i due lasciano il cavallo precedente e montano su questo, assai più forte, riappare Rinaldo. Sacripante si fa raggiungere, e si accinge a sostenere un duello, per vendicare l’offesa di ladro di cavallo e di donna lanciatagli da Rinaldo, ma mentre cominciano a combattere, Angelica stringe le briglia e fugge.

Quel che si seguì tra questi due superbi
vo’ che per l’altro canto si riservi.

Quello che seguì tra questi due superbi, voglio che sia riservato per il prossimo canto.

E’ questa la tecnica della dilazione: si è già mostrato come Ariosto tenda a non chiudere le vicende, per il concetto della contemporaneità, in cui tutto avviene in un tempo e tutto ad un tempo dev’essere seguito. Ma anche per esercitare la curiosità del lettore, facendo terminare il canto nel momento topico in cui si prepara un duello, per differire l’esito del duello stesso nel canto successivo. Un altro elemento caratterizzante il primo e quindi l’intero poema è il concetto della queste (ricerca): tutto l’episodio è costellato da Rinaldo che cerca Angelica, Ferraù l’elmo, Angelica un accompagnatore, Bradamante Ruggiero, senza ottenerlo. Ma vedremo spesso che chi cerca è a sua volta cercato e a quale destino porterà la ricerca esasperata.

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Bradamante e Pinabello

Il canto II si apre con il duello tra Sacripante e Rinaldo, e Angelica, vista la forza del cavaliere francese, e temendo di divenire sua prigioniera, approfitta della situazione e fugge a cavallo nel bosco. Qui incontra un eremita, il quale, con un incantesimo, evoca uno spirito, che interrompe il duello tra i due contendenti comunicando loro che Angelica è intanto fuggita a Parigi con Orlando. Rinaldo monta subito Baiardo, lascia a piedi Sacripante, e si precipita a Parigi. Nel frattempo re Carlo, sconfitto in battaglia, si era ritirato a Parigi con i propri soldati e si apprestava ai preparativi necessari per sostenere l’imminente assedio e quindi dà ordine a Rinaldo di partire immediatamente per l’Inghilterra per chiedere soccorsi. Rinaldo, malvolentieri parte, ma deve affrontare una bufera. Bradamante, sua sorella, continua la ricerca di Ruggiero finché giunge ad un torrente dove incontra un cavaliere che, disperato ed in lacrime, le racconta che un uomo in groppa ad un cavallo alato, l’ippogrifo, era sceso dal cielo ed aveva rapito la sua amante. Inseguendolo era arrivato ai piedi di una roccia dove aveva visto un castello luminoso dimora del mago Atlante, irraggiungibile se non a piedi. Anche il re Gradasso e Ruggiero, andati a misurarsi con lui, vengono quindi subito fatti prigionieri. E’ questo cavaliere Pinabello, discendente dei Maganza, famiglia nemica di Bradamante, ma, per il momento, lei non lo sa e ancora all’oscuro della sua identità gli chiede di essere condotta al castello. Pinabello apprende, per un messaggero, che la sua compagna di viaggio discende dal casato dei Chiaromonte, suo acerrimo nemico, e progetta quindi o di tradire o di abbandonare la giovane alla prima possibilità. Così preso dal pensiero del tradimento, Pinabello smarrisce però la strada ed i due si trovano infine in un bosco, dove Pinabello, con uno stratagemma fa precipitare Bradamante sul fondo di una caverna, che non muore, ma rimane priva di sensi per molto tempo.

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Melissa evoca gli spiriti e mostra a Bradamante la dinastia estense 

Il canto III si apre con Pinabello che si allontana dalla caverna con il cavallo di Bradamante, convinto d’averla uccisa. Invece lei si riprende, ed entra attraverso la roccia in una caverna molto ampia, con al centro un altare. Entra nella stessa caverna anche una altra donna, chiama Bradamante per nome, e le dice di trovarsi nella tomba del mago Merlino e che le era stata annunciata la sua venuta dallo stesso mago, la cui voce può essere ancora ascoltata. La maga Melissa conduce la donna verso il sepolcro e subito la voce del mago si rivolge a lei profetizzando il suo matrimonio con Ruggiero, nonostante gli interventi del mago Atlante, e quindi la gloria a cui saranno destinati tutti i loro discendenti. Quindi le mostra le immagini dei suoi illustri discendenti della famiglia d’Este (momento encomiastico). Spariti gli spiriti Melissa promette a Bradamante di condurla fuori dal bosco e di indirizzarla poi verso il castello di Atlante, dove Ruggiero è tenuto prigioniero. Durante il viaggio la maga sollecita Bradamante a correre in soccorso del suo amato e, per vincere gli incantesimi d’Atlante le racconta che un certo Brunello ha con sé un anello magico in grado di annullare ogni incantesimo. Quindi la indirizza ad un ostello dove lo incontrerà per farsi accompagnare al castello dove dovrà ucciderlo senza pietà, prima che lui possa infilarsi in bocca l’anello e sparire. Quindi Bradamante si incammina, raggiunge l’albergo e conosce Brunello. I due stanno parlando insieme, quando sentono un forte rumore.

Il canto IV inizia così:

L’APPARIZIONE DI ATLANTE
(IV, 1-8)

Quantunque il simular sia le più volte
ripreso, e dia di mala mente indici,
si trova pur in molte cose e molte
aver fatti evidenti benefici,
e danni e biasmi e morti aver già tolte;
che non conversiam sempre con gli amici
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d’invidia piena.

Se, dopo lunga prova, a gran fatica
trovar si può chi ti sia amico vero,
ed a chi senza alcun sospetto dica
e discoperto mostri il tuo pensiero;
che de’ far di Ruggier la bella amica
con quel Brunel non puro e non sincero,
ma tutto simulato e tutto finto,
come la maga le l’avea dipinto?

Simula anch’ella; e così far conviene
con esso lui di finzioni padre;
e, come io dissi, spesso ella gli tiene
gli occhi alle man, ch’eran rapaci e ladre.
Ecco all’orecchie un gran rumor lor viene.
Disse la donna: «O gloriosa Madre,
o Re del ciel, che cosa sarà questa?»
E dove era il rumor si trovò presta.

E vede l’oste e tutta la famiglia,

e chi a finestre e chi fuor ne la via,
tener levati al ciel gli occhi e le ciglia,
come l’ecclisse o la cometa sia.
Vede la donna un’alta maraviglia,
che di leggier creduta non saria:
vede passar un gran destriero alato,
che porta in aria un cavalliero armato.

Grandi eran l’ale e di color diverso,
e vi sedea nel mezzo un cavalliero,
di ferro armato luminoso e terso;
e ver ponente avea dritto il sentiero.
Calossi, e fu tra le montagne immerso:
e, come dicea l’oste (e dicea il vero),
quel era un negromante, e facea spesso
quel varco, or più da lungi, or più da presso.

Volando, talor s’alza ne le stelle,
e poi quasi talor la terra rade;
e ne porta con lui tutte le belle
donne che trova per quelle contrade:
talmente che le misere donzelle
ch’abbino o aver si credano beltade
(come affatto costui tutte le invole)
non escon fuor sì che le veggia il sole.

«Egli sul Pireneo tiene un castello
(narrava l’oste) fatto per incanto,
tutto d’acciaio, e sì lucente e bello,
ch’altro al mondo non è mirabil tanto.
Già molti cavallier sono iti a quello,
e nessun del ritorno si dà vanto:
sì ch’io penso, signore, e temo forte,
o che sian presi, o sian condotti a morte».

La donna il tutto ascolta, e le ne giova,
credendo far, come farà per certo,
con l’annello mirabile tal prova,
che ne fia il mago e il suo castel deserto;
e dice a l’oste: «Or un de’ tuoi mi trova,
che più di me sia del viaggio esperto;
ch’io non posso durar: tanto ho il cor vago
di far battaglia contro a questo mago».

Sebbene il fingere la maggior parte delle volte venga rimproverato, e fornisca anche indizio di mente malvagia, si può comunque vedere come in molte situazioni abbia anche portato evidenti benefici, evitando danni, critiche ed anche morti; perché non abbiamo a che fare sempre con amici in questa nostra vita mortale, molto più scura che serena, sempre piena di invidia. // Se, dopo lunghi tentativi, molta fatica, si riesce a trovare una persona che possa essere un vero amico, alla quale, senza avere sospetti, si possa dire e rendere quindi chiaro il nostro pensiero; che deve fare allora Bradamante, la bella amante di Ruggiero, con quel Brunello che non è né puro né sincero, ma è invece maestro di simulazione e di finzione, così come la maga glielo aveva descritto? // Anche lei finge; e conviene fare così trattando con lui, che è il padre della menzogna; e, come vi ho già raccontato, spesso lei getta lo sguardo sulle mani di lui, che erano avide e da ladro. All’improvviso giunge al loro orecchio un forte rumore. Chiede allora la donna: «Oh Madre gloriosa, oh Re del cielo, che cosa è questa cosa?» E rapidamente raggiunge il punto da cui proviene il rumore. // E vede così l’oste e tutta la servitù, chi dalle finestre e chi all’aperto, lungo la strada, tenere fissi gli occhi verso il cielo come se ci fosse l’eclisse o il passaggio di una cometa. Bradamante vede una cosa incredibile, che non sarebbe stato possibile credere facilmente: vede passare un grande cavallo alato, che porta in giro per il cielo un cavaliere armato. // Le sue ali sono grandi e multicolore, e si può vedere in mezzo a loro un cavaliere, con indosso una armatura luminosa e limpida; e si dirige verso ovest. Scende di quota e sparisce quindi tra le montagne: e, come dice l’oste (e dice una cosa vera), quel cavaliere è un mago, e passa spesso da là, a volte da più lontano altre da più vicino. // In volo, a volte va tanto in alto sino alle stelle, e poi scende quasi fino a toccare terra; e porta sempre con sé tutte le belle donne che riesce a trovare in quei paesini: a tal punto che le povere ragazze che sono o si credono belle (come se il mago le rapisse proprio tutte) non escono mai di casa, non escono alla luce del sole. // «Il mago possiede un castello sui Pirenei (racconta l’oste) costruito con un incantesimo, tutto in acciaio, ed è così bello e lucente, che non ne esiste al mondo uno tanto meraviglioso. Molti cavalieri sono già andati fino a questo castello, ma nessuno di loro può vantarsi di essere anche poi tornato: tanto che io credo, signore, e temo anche molto, o che siano stati fatti prigionieri, o che siano stati uccisi.» // La donna ascolta tutto il racconto, e se ne compiace, pensando già di affrontare, come è sicuro che farà, tale impresa con l’aiuto dell’anello magico, sino a sconfiggere il mago e distruggere il castello; e dice quindi all’oste: «Trovami ora uno dei tuoi servitori, che conosca quale strada occorre seguire; perché non posso rimanere più a lungo, essendo il mio cuore tanto desideroso di scontrarsi contro questo mago.»

In questo passo appare evidente come, su suggestione del ciclo bretone (quello relativo alla corte di re Artù) il nostro lasci libero sfogo all’elemento fantastico. Esso tuttavia non elude la capacità ariostesca di filosofeggiare sulla stregua certamente machiavelliana sulla necessità della finzione se essa porta ad un buon fine. Era certamente un tema assai dibattuto tra gli intellettuali del ‘500, che tuttavia fa già presagire un clima diverso, meno solare di quanto la critica abbia voluto inquadrare il Rinascimento.  Ciò rende il poema dell’autore ferrarese ricco di questa incredibile oscillazione tra riflessione morale, contemporanea, come questa sull’opportunità di fingere, se si è circondati dalla falsità degli uomini, e la necessità puramente edonistica della narrazione com’è appunto l’apparizione dell’ippogrifo.

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Brunello legato ad un albero da Bradamante che gli ruba l’anello magico

Il barone Brunello cade nella trappola, si offre subito come guida e il mattino dopo partono insieme. Giungono quindi ai piedi del dirupo, sui monti Pirenei, in cima al quale sorge la fortezza di Atlante. Bradamante capisce che è il momento di uccidere la propria guida per impossessarsi dell’anello, ma non vuole commettere un atto vile, e lo immobilizza legandolo ad un albero, riuscendo così ad impadronirsene senza spargere sangue. Giunta sotto la torre, suona il proprio corno e chiama alla battaglia il mago.

IL DUELLO TRA BRADAMANTE E ATLANTE
(IV 16-24)

Non stette molto a uscir fuor de la porta
l’incantator, ch’udì ’l suono e la voce.
L’alato corridor per l’aria il porta
contra costei, che sembra uomo feroce.
La donna da principio si conforta;
che vede che colui poco le nuoce:
non porta lancia né spada né mazza,
ch’a forar l’abbia o romper la corazza.

Da la sinistra sol lo scudo avea,
tutto coperto di seta vermiglia;
ne la man destra un libro, onde facea
nascer, leggendo, l’alta maraviglia:
che la lancia talor correr parea,
e fatto avea a più d’un batter le ciglia;
talor parea ferir con mazza o stocco,
e lontano era, e non avea alcun tocco.

Non è finto il destrier, ma naturale,
ch’una giumenta generò d’un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l’ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l’altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,

molto di là dagli aghiacciati mari.

Quivi per forza lo tirò d’incanto;

e poi che l’ebbe, ad altro non attese,
e con studio e fatica operò tanto,
ch’a sella e briglia il cavalcò in un mese:
così ch’in terra e in aria e in ogni canto
lo facea volteggiar senza contese.
Non finzion d’incanto, come il resto,
ma vero e natural si vedea questo.

Del mago ogn’altra cosa era figmento,

che comparir facea pel rosso il giallo;
ma con la donna non fu di momento,
che per l’annel non può vedere in fallo.
Più colpi tuttavia diserra al vento,
e quinci e quindi spinge il suo cavallo;
e si dibatte e si travaglia tutta,
come era, inanzi che venisse, istrutta.

E poi che esercitata si fu alquanto

sopra il destrier, smontar volse anco a piede,
per poter meglio al fin venir di quanto
la cauta maga istruzion le diede.
Il mago vien per far l’estremo incanto;
che del fatto ripar né sa né crede:
scuopre lo scudo, e certo si prosume
farla cader con l’incantato lume.

Potea così scoprirlo al primo tratto,
senza tenere i cavallieri a bada;
ma gli piacea veder qualche bel tratto
di correr l’asta o di girar la spada:
come si vede ch’all’astuto gatto
scherzar col topo alcuna volta aggrada;
e poi che quel piacer gli viene a noia,
dargli di morso, e al fin voler che muoia.

Dico che ’l mago al gatto, e gli altri al topo
s’assimigliar ne le battaglie dianzi;
ma non s’assimigliar già così, dopo
che con l’annel si fe’ la donna inanzi.
Attenta e fissa stava a quel ch’era uopo,
acciò che nulla seco il mago avanzi;
e come vide che lo scudo aperse,
chiuse gli occhi, e lasciò quivi caderse.

Non che il fulgor del lucido metallo,
come soleva agli altri, a lei nocesse;
ma così fece acciò che dal cavallo
contra sé il vano incantator scendesse:
né parte andò del suo disegno in fallo;
che tosto ch’ella il capo in terra messe,
accelerando il volator le penne,
con larghe ruote in terra a por si venne.

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Giovan Battista Sirani: Bradamante sconfigge Atlante (1655)

Non aspettò molto prima di uscire dalla porta del castello il mago, avendo ascoltato sia il suono del corno che le grida. Il destriero alato lo porta per aria a combattere contro di lei, che sembra ai suoi occhi un fiero cavaliere. La donna da subito si dà coraggio, vedendo che il suo avversario non può farle molto male: dal momento che non ha né la spada né un bastone ferrato, che le possa forare o rompere la corazza. // Alla sua sinistra aveva con sé solo lo scudo, completamente coperto da un telo di rossa seta; ne la mano destra teneva quindi un libro, dal quale faceva scaturire, leggendo, i suoi prodigiosi incantesimi: così che a volte sembrava combattere con la lancia, e a più di un cavaliere aveva fatto temere di essere colpito; a volte sembrava ferire con la mazza o con una arma corta, ma era in realtà lontano e non aveva colpito nessuno. // Non è invece un incantesimo il cavallo, ma è vero, è opera della Natura, perché nacque da una cavalla e da un grifone: aveva le piume e le ali simili a quelle del padre, e anche le zampe davanti, la testa ed il muso; in tutte le altre parti del corpo era invece tale e quale alla madre, ed il suo nome era Ippogrifo; come ne nascono sui monti Urali, anche che sono rari, molto al di là dei mari ghiacciati. // Il mago lo portò al suo castello grazie ad un incantesimo; e dopo che l’ebbe avuto, non si dedicò a null’altro, ma si impegnò con così grande cura e fatica, che nel giro di un mese riuscì a cavalcarlo con tanto di sella e briglia: così che adesso in terra, in aria, in ogni luogo, lo faceva volteggiare a proprio piacere. Non quindi come la finzione frutto di un incantesimo, come ogni altra cosa, ma vero ed al naturale era visto dalla donna. // Qualunque altra cosa del mago era finzione; che faceva vedere una cosa per un’altra, il rosso al posto del giallo: ma con Bradamante non gli servì però a nulla; poiché, grazie all’anello, non può essere ingannata. Nonostante ciò, lei sferra parecchi colpi a vuoto, finge di combattere, e spinge in giro il proprio cavallo; e si dibatte e si affatica tutta, come le era stato spiegato prima di giungere in quel posto. E dopo essersi esercita a lungo in questa finzione a cavallo, volle anche smontare e continuare a piedi, per poter meglio portare a compimento ciò su cui l’attenta maga Melissa l’aveva istruita. Il mago si avvicinò per fare il suo ultimo incantesimo; poiché né sa né crede possibile che sia stata fatta una difesa; scopre il proprio scudo, e ritiene cosa certa che lei cada a terra a causa del suo bagliore incantato. Avrebbe anche potuto scoprirlo subito, senza dover controllare le mosse dei cavalieri; ma gli piaceva stare a guardare qualche bel colpo dato con la lancia o dal roteare di una spada: così come si può vedere a volte che all’astuto gatto piace scherzare con il topo per piacere; e quando quel piacere gli va a noia, gli dà un morso ed alla fine lo vuole vedere morto. // Dico che il mago somigliava al gatto, e gli altri somigliavano al topo nelle precedenti battaglie; ma questa somiglianza non c’era stata quando, con l’anello, Bradamante si era fatta avanti per sfidarlo. Stava attenta e concentrata nel fare tutto ciò che era necessario affinché il mago non si potesse avvantaggiare nei suoi confronti; e non appena vide che il mago aveva scoperto lo scudo, chiuse subito gli occhi, e si lasciò cadere sul posto. // Non perché il forte bagliore generato dal lucido metallo le avesse fatto male, come era invece solito fare agli altri; ma si lasciò cadere così che da cavallo scendesse ed andasse verso di lei il mago, non efficace nell’occasione: nessuna parte del piano di lei andò storto; perché non appena Bradamante appoggiò a terra la propria testa, dopo aver aumentato il moto delle ali, il cavallo alato atterrò infine seguendo ampie spire.

Segue la narrazione dell’ippogrifo, di Atlante e dell’avversaria Bradamante (si ricordi, donna dalla cui discendenza nasceranno gli Estensi). Ciò che colpisce in questo brano è quasi il capovolgimento ludico a cui deve sottostare il lettore: gli si chiede infatti  di porre l’attenzione su come sia vero ciò che è palesamente falso (l’ippogrifo) e come sia falso ciò che un comune uomo cinquecentesco ritiene vero (l’atteggiamento guerresco di sfida). Appare evidente quindi cosa s’intenda qui per edonismo: il puro gusto di un episodio avventuroso-fantastico; ma ciò non esime il nostro dall’esprimere “caratteristiche umane”: la voglia del mago d’andare a vedere, orgogliosamente, la sua ipotetica vittima, proprio come fa il gatto con il topo (abbassamento).

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Il mago Atlante (tavola di LorCarmi – Fabrizio Carminati) (2018)

Una volta in terra Bradamante lo blocca, vorrebbe ucciderlo, ma vede che Atlante non è che un povero vecchio. Nonostante il mago le chieda di ucciderlo, lei non vi riesce, e gli domanda chi fosse e perché incantasse gli uomini. Così le viene risposto:

ATLANTE RIVELA LA VERITA’
(IV, 30-31)

Non vede il sol tra questo e il polo austrino
un giovene sì bello e sì prestante:
Ruggiero ha nome, il qual da piccolino
da me nutrito fu, ch’io sono Atlante.
Disio d’onore e suo fiero destino
l’han tratto in Francia dietro al re Agramante;
ed io, che l’amai sempre più che figlio,
lo cerco trar di Francia e di periglio.

La bella rocca solo edificai
per tenervi Ruggier sicuramente,
che preso fu da me, come sperai
che fossi oggi tu preso similmente;
e donne e cavallier, che tu vedrai,
poi ci ho ridotti, ed altra nobil gente,
acciò che quando a voglia sua non esca,
avendo compagnia, men gli rincresca.

In tutto il mondo, tra il nostro polo e quello australe, non esiste un altro giovane tanto bello e vigoroso: il suo nome è Ruggiero, e quando era ancora un bambino fu allevato da me, che mi chiamo Atlante. Il desidero di conquistare onore ed anche il suo crudele destino l’hanno convinto a seguire re Agramante sino in Francia; ed io, che l’ho sempre amato più di un figlio, faccio di tutto per allontanarlo dal pericolo e dalla Francia. // Ho costruito questa bella fortezza per mettervi al sicuro il cavaliere Ruggiero, che fu da me fatto prigioniero, allo stesso modo in cui sperai che tu fossi fatto oggi prigioniero; sia donne che cavalieri, come potrai vedere, vi ho rinchiuso, insieme a tanta altra nobile gente, così che anche se non può uscire quando vuole, avendo comunque compagnia, la prigionia non gli arrechi troppo dispiacere.

La capacità dell’Ariosto sta nel lasciare il lettore, insieme, in questo caso, alla protagonista, di fronte al dubbio: vi è in questo nemico che “ruba” uomini e donne, un profondo senso di bontà, il cui fine è quello di salvare Ruggiero da morte certa, o vi è un secondo fine, guidato da reconditi fini suggeriti dal re Saraceno? Fatto sta che Bradamante non gli crede e si dimostra ferma nel volere liberare il proprio amato, lega il mago e si avvia con lui verso il castello scalando la montagna. Giunti in cima Atlante spezza l’incantesimo, si libera da Bradamante e scompare insieme al castello. Tutti i suoi prigionieri, tra i quali re Gradasso, Sacripante e Ruggiero, vengono così a trovarsi liberi all’aria aperta. Bradamante e Ruggiero possono finalmente incontrarsi. Scendono poi tutti insieme a valle dove è l’ippogrifo di Atlante con al fianco lo scudo incantato. Cercano tutti di prendere il cavallo alato ma questo va incontro a Ruggiero. Il cavaliere gli sale in groppa credendo di poterlo condurre, ma il cavallo, per volontà del mago Atlante, prende il volo e scappa lontano con Ruggiero. Bradamante non può fare altro che vedere ancora una volta scomparire il proprio amante. La donna si allontana con Frontin, il cavallo di Ruggiero, intenzionata a restituirlo al legittimo proprietario.

Quindi si torna a Rinaldo, giunto in Scozia:

IL COMPITO D’UN CAVALIERE ERRANTE
(IV, 52-54)

Vanno per quella i cavallieri erranti,
incliti in arme, di tutta Bretagna,
e de’ prossimi luoghi e de’ distanti,
di Francia, di Norvegia e de Lamagna.
Chi non ha gran valor, non vada inanti;
che dove cerca onor, morte guadagna.
Gran cose in essa già fece Tristano,
Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano,

ed altri cavallieri e de la nuova
e de la vecchia Tavola famosi:
restano ancor di più d’una lor pruova
li monumenti e li trofei pomposi.
L’arme Rinaldo e il suo Baiardo truova,
e tosto si fa por nei liti ombrosi,
ed al nochier comanda che si spicche
e lo vada aspettar a Beroicche.

Senza scudiero e senza compagnia
va il cavallier per quella selva immensa,
facendo or una ed or un’altra via,
dove più aver strane aventure pensa.
Capitò il primo giorno a una badia,
che buona parte del suo aver dispensa
in onorar nel suo cenobio adorno
le donne i cavallier che vanno attorno.

Vanno alla sua ricerca i cavalieri erranti, famosi nell’esercizio delle armi, di tutta la Bretagna, delle regioni vicine ed anche di quelle lontane, della Francia, della Norvegia e della Germania. Chi non ha un grande valore in questa arte, non proceda oltre; perché in quel luogo dove cerca l’onore, può trovare solo la morte. Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano, // ed anche altri cavalieri famosi sia della nuova (di Artù) che della vecchia (del padre di Artù) Tavola Rotonda di più di una loro impresa sono ancora visibili monumenti ed i trofei sfarzosi. Rinaldo riprende le sue armi ed il suo cavallo Baiardo, e subito si fa lasciare sulle spiagge ombrose, ed al capitano della nave ordina di staccarsi dalla costa per andarlo ad aspettare a Berwick. // Senza scudiero al seguito e senza nessuna altra compagnia il cavaliere si avvia all’interno di quell’immenso bosco, seguendo ora uno ed ora un’altro sentiero, dove ritiene di poter avere maggiori probabilità di imbattersi in insolite avventure. Il primo giorno capitò presso una abbazia, che spende buona parte dei suoi averi per rendere onore, poi arriva nel suo bel monastero, alle donne ed ai cavalieri in viaggio per quei luoghi.

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 Evelyn: Ritratto di Rinaldo (per un pupo siciliano) (2017)

Passo di passaggio, ma al contempo fondamentale: viene qui mostrato il compito del cavaliere errante: cercare l’avventura. Ma se tale è il suo destino, esso costituirà un punto fermo per:

  • essere il motore di una narrazione;
  • riaffermare, laddove ce ne fosse bisogno, che il destino dell’uomo sta nella “quete”, nella ricerca.

Rinaldo chiede se ci siano imprese da compiere in quel territorio che possano dare fama ad un cavaliere. Gli viene risposto che la migliore impresa che può compiere consiste nell’andare in aiuto di Ginevra, figlia del re di Scozia, minacciata dal barone Lurcanio, che l’accusa di averla vista insieme ad un amante. Per questo motivo, la donna rischia la condanna al rogo se nessun cavaliere sarà disposto a combattere per lei, sostenendo la sua innocenza. Rinaldo decide quindi di combattere per la salvezza di Ginevra e, vinto il duello, il giorno dopo lascia il monastero insieme ad uno scudiero. Abbandonata la strada maestra per abbreviare il viaggio, i due sentono il pianto di una donna. Corrono in suo aiuto e vedono una donna, bellissima, nelle mani di due malviventi intenzionati a darle la morte. Alla vista di Rinaldo i due si mettono subito in fuga ed il cavaliere riesce così a salvarla.

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Illustrazione della pagina che apre al V° canto in un’edizione della fine XV° secolo

Nel canto V si scopre che la donna è Dalinda, cameriera di Ginevra. Lei rivela di essersi innamorata del duca d’Albania, Polinesso, passando in sua compagnia notti di passione nella camera della sua padrona, quando lei non c’era.

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Rinaldo e Dalinda

Ma il vero interesse del duca è per Ginevra e le aveva quindi chiesto di aiutarlo nei suoi intenti. Al fine di sposarla, goderne i ricchi frutti e mantenere la cameriera come amante. Tuttavia ciò non succede perché lei odia il duca ed è profondamente innamorata di un altro uomo, Ariodante, cavaliere tanto valoroso e già nelle grazie del re. Per lo scacco subito Polinesso ora vuole solo diffamare la donna. Fa vestire Dalinda come Ginevra e si mostra con lei per fare ingelosire Ariodante. Colui non crede che la figlia del re lo tradisca, ma il duca d’Albania gliene vuol dare la prova: quindi lo convince ad appostarsi fuori della stanza di Ginevra e quella sera, come richiesto a Dalinda, si fa accogliere dalla cameriera nelle sue vesti. Ariodante, accompagnato dal fratello Lucarnio, quindi vede la triste scena e per gelosia decide d’uccidersi. Il fratello cerca di dissuaderlo. Egli allora lascia la città, scrivendo il motivo a Ginevra, e, dopo pochi giorni si viene a sapere che si è ucciso gettandosi ad un dirupo. Ora è Lucarnio, che, spinto dall’ira e dal dolore, accusa apertamente Ginevra di essere stata la causa di quella morte e racconta quindi al re ciò che aveva visto quella notte: l’incontro amoroso di lei con un uomo a lui sconosciuto. Si dichiara quindi infine disposto a sostenere con le armi la propria accusa. La legge condanna al rogo una donna accusata di essersi unita con un uomo che non è suo marito, se entro un mese nessun cavaliere prende le sue difese contro l’accusatore. Ginevra è quindi in pericolo di morte.

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Dalinda e Polisseno

Dalinda, per paura che si venga a sapere la verità, scappa e corre ad informare Polinesso. Il duca d’Albania fingendo di volerla mettere al sicuro, decide però di farla uccidere, così da eliminare ogni testimone del suo inganno. L’arrivo di Rinaldo ha però messo in fuga i due assassini e l’ha salvata da morte certa. Rinaldo, che aveva già prima deciso di prendere le difese della donna, ora è ancora più convinto; corre verso la città e scopre che era da poco iniziato il combattimento tra Lucarnio ed un cavaliere sconosciuto, nascosto dal suo elmo, che aveva deciso di combattere per l’innocenza di Ginevra. Rinaldo giunge sul campo di battaglia, convince il re a fermare il combattimento in atto e rende quindi evidente a tutti ciò che era realmente accaduto. Per sostenere la propria accusa, sfida a duello Polinesso e lo sconfigge. Il duca d’Albania sul punto di morte confessa il proprio inganno. Il re chiede infine al cavaliere misterioso di mostrare la sua identità, per essere premiato per il proprio valore mostrato e per le proprie buone intenzioni.

Solo nel canto VI sapremo che il cavaliere misterioso è Ariodante, che sul punto di morte, si era pentito all’ultimo del proprio gesto e si era quindi messo in salvo a nuoto. Giunto in un ostello, aveva appreso della disperazione di Ginevra alla notizia della sua morte e delle pubbliche accuse del fratello. Spinto dal proprio amore per la donna e risentito per il gesto crudele del fratello, aveva così deciso di prendere lui le difese di Ginevra. Il re concede la mano della figlia al cavaliere, dando in regalo agli sposi il ducato di Albania, appena liberatosi. Dalinda ottiene la grazia e “per espiare” si farà monaca.

Ma il racconto torna a Ruggiero che con l’ippogrifo lascia l’Europa, passano le colonne d’Ercole per atterrare infine su un’isola meravigliosa.

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Ruggiero sull’ippogrifo approda sull’isola di Alcina

ASTOLFO NELL’ISOLA DI ALCINA
(VI, 24-35)

E quivi appresso, ove surgea una fonte
cinta di cedri e di feconde palme,
pose lo scudo, e l’elmo da la fronte
si trasse, e disarmossi ambe le palme;
ed ora alla marina ed ora al monte
volgea la faccia all’aure fresche ed alme,
che l’alte cime con mormorii lieti
fan tremolar dei faggi e degli abeti.

Bagna talor ne la chiara onda e fresca
l’asciutte labra, e con le man diguazza,
acciò che de le vene il calor esca
che gli ha acceso il portar de la corazza.
Né maraviglia è già ch’ella gl’incresca;
che non è stato un far vedersi in piazza:
ma senza mai posar, d’arme guernito,
tremila miglia ognor correndo era ito.

Quivi stando, il destrier ch’avea lasciato
tra le più dense frasche alla fresca ombra,
per fuggir si rivolta, spaventato
di non so che, che dentro al bosco adombra:
e fa crollar sì il mirto ove è legato,
che de le frondi intorno il piè gli ingombra:
crollar fa il mirto, e fa cader la foglia;
né succede però che se ne scioglia.

Come ceppo talor, che le medolle
rare e vote abbia, e posto al fuoco sia,
poi che per gran calor quell’aria molle
resta consunta ch’in mezzo l’empìa,
dentro risuona e con strepito bolle
tanto che quel furor truovi la via;
così murmura e stride e si corruccia
quel mirto offeso, e al fine apre la buccia.

Onde con mesta e flebil voce uscìo
espedita e chiarissima favella,
e disse: «Se tu sei cortese e pio,
come dimostri alla presenza bella,
lieva questo animal da l’arbor mio:
basti che ’l mio mal proprio mi flagella,
senza altra pena, senza altro dolore
ch’a tormentarmi ancor venga di fuore».

Al primo suon di quella voce torse
Ruggiero il viso, e subito levosse;
e poi ch’uscir da l’arbore s’accorse,
stupefatto restò più che mai fosse.
A levarne il destrier subito corse;
e con le guance di vergogna rosse:
«Qual che tu sii, perdonami (dicea),
o spirto umano, o boschereccia dea.

Il non aver saputo che s’asconda
m’ha lasciato turbar la bella fronda
e far ingiuria al tuo vivace mirto:
ma non restar però, che non risponda
chi tu ti sia, ch’in corpo orrido ed irto,
con voce e razionale anima vivi;
se da grandine il ciel sempre ti schivi.

E s’ora o mai potrò questo dispetto
con alcun beneficio compensarte,
per quella bella donna ti prometto,
quella che di me tien la miglior parte,
ch’io farò con parole e con effetto,
ch’avrai giusta cagion di me lodarte».
Come Ruggiero al suo parlar fin diede,
tremò quel mirto da la cima al piede.

Poi si vide sudar su per la scorza,
come legno dal bosco allora tratto,
che del fuoco venir sente la forza,
poscia ch’invano ogni ripar gli ha fatto;
e cominciò: «Tua cortesia mi sforza
a discoprirti in un medesmo tratto
ch’io fossi prima, e chi converso m’aggia
in questo mirto in su l’amena spiaggia.

Il nome mio fu Astolfo; e paladino
era di Francia, assai temuto in guerra:
d’Orlando e di Rinaldo era cugino,
la cui fama alcun termine non serra;
e si spettava a me tutto il domìno,
dopo il mio padre Oton, de l’Inghilterra.
Leggiadro e bel fui sì, che di me accesi
più d’una donna: e al fin me solo offesi.

Ritornando io da quelle isole estreme
che da Levante il mar Indico lava,
dopo Rinaldo ed alcun’altri insieme
meco fur chiusi in parte oscura e cava,
ed onde liberati le supreme
forze n’avean del cavallier di Brava;
ver ponente io venìa lungo la sabbia
che del settentrion sente la rabbia.

E come la via nostra e il duro e fello
destin ci trasse, uscimmo una matina
sopra la bella spiaggia, ove un castello
siede sul mar, de la possente Alcina.
Trovammo lei ch’uscita era di quello,
e stava sola in ripa alla marina;
e senza rete e senza amo traea
tutti li pesci al lito, che volea.

Giuseppe Cades, Astolfo trasformato in mirto si rivela a Ruggiero. .jpg

Giuseppe Cades: Ruggiero e il mirto

E vicino a quel luogo, là dove sgorgava una fonte circondata da cedri e da palme ricche di frutti, depone il suo scudo, si toglie l’elmo dalla fronte, e disarma infine entrambe le mani (si toglie i guanti di ferro); e ora verso il mare ed ora verso il monte rivolge la faccia ai venticelli freschi e vivificatrici che, con dolci mormorii, fanno vibrare le alte cime dei faggi e degli abeti. // Si bagna a volte nell’acqua fresca e trasparente della fonte le sue labbra asciutte, ed agita in acqua le sue mani per fare in modo che dalle sue vene se ne vada quel calore che gli provoca il portare ancora la corazza. Non c’è da meravigliarsi che la corazza gli dia fastidio; dal momento che il viaggio non è stato certo una passeggiata in piazza: al contrario, completamente armato, senza mai fermarsi, ha percorso tremila miglia senza mai rallentare. // Mentre sta lì, alla fonte, il destriero che ha lasciato alla fresca ombra dove la boscaglia è più fitta, si ribella per riuscire a fuggire, spaventato da non so che cosa, che dentro al bosco lo atterrisce: e fa così crollare il mirto al quale era stato legato, che gli ostruisce le zampe con i rami caduti in terra: fa crollare il mirto e fa cadere anche le sue foglie; senza però riuscire a liberarsi dall’albero. // Come a volte fa il ceppo, che ha la parte più interna meno densa e vuota, quando viene messo sul fuoco, dopo che per il grande calore l’aria più umida che riempiva la sua parte centrale viene consumata, (il ceppo) emette suoni dal suo interno, e ribolle con strepitii fintanto che quell’aria ardente non trova la via per uscire; allo stesso modo emette mormorii e stride e si lamenta quella pianta di mirto lesionata, ed infine si lacera la sua corteccia. // Dalla lacerazione con una triste e lamentosa voce escono chiare e fluenti parole, e dice: «Se tu sei gentile e pietoso, come può dimostrare la tua bella presenza, togli questo animale dal mio albero: può ben bastare che mi faccia soffrire il mio proprio male, senza un’altra pena, senza un altro dolore che venga a tormentarmi dall’esterno». // Al sentire il primo suono di quella voce Ruggiero piega il viso verso l’albero e subito si alza in piedi; e dopo essersi accorto che viene proprio dall’albero, resta più sorpreso di quanto fosse mai stato in vita sua. Corre subito a togliere il destriero da in mezzo ai rami; e con le guance rosse di vergogna dice: «Qualunque cosa tu sia, perdonami sia tu uno spirito umano o una ninfa dei boschi. Il non aver saputo che si nascondeva uno spirito umano sotto una ruvida corteccia, mi ha lasciato danneggiare la bella chioma e arrecare danno al tuo vivo mirto: ma non fare però che tu non mi faccia sapere chi tu sia, che in un corpo ispido e pungente, vivi con una voce ed una anima razionale; possa sempre il cielo proteggerti dalla grandine. // E se adesso o se per caso in futuro potrò a questo mio torto porre rimedio con qualche atto benefico, ti prometto sul nome di quella bella donna (Bradamante), quella che possiede la mia parte migliore, la mia anima, che con le parole e con i fatti io farò sì che potrai poi avere una buona ragione per essere soddisfatto di me». Non appena Ruggiero pone fine al suo discorso, il mirto trema dalla sua cima fino alle radici. // Si può poi vedere che il mirto lacrima da tutta la sua corteccia, come fa un pezzo di legno appena tagliato dal bosco, quindi ancora verde, quando sente arrivare la forza del fuoco, dopo che invano ha cercato di porre resistenza; e comincia a dire: «La tua gentilezza mi costringe a rivelarti allo stesso tempo chi sono stato prima, quando ero uomo, e chi mi ha trasformato poi in questa pianta di mirto su questa piacevole spiaggia. // Il mio nome era Astolfo; ed ero un paladino della Francia molto temuto in guerra: ero cugino di Orlando e di Rinaldo, la fama dei quali non ha confini in tutto il mondo; e sarebbe spettato a me tutto il dominio dell’Inghilterra, dopo la morte di mio padre Oton. Ero talmente bello e grazioso, da fare innamorare di me più di una donna; ma alla fine la mia bellezza danneggiò solo me stesso. // Durante il viaggio di ritorno dalle Isole Lontane, situate a Levante e bagnate dall’Oceano Indiano, là dove Rinaldo ed alcuni altri insieme a me erano stati fatti prigionieri in una caverna buia, dalla quale fummo poi liberati dalla suprema forza del cavaliere Orlando; stavo navigando verso ponente, lungo le coste di mare che sentono la rabbia della tramontana, del vento freddo da Nord. // E come il nostro tragitto ed il duro ed avverso destino vollero condurci, ci ritrovammo così una mattina sopra la bella spiaggia dove un castello sorge a ridosso del mare, il castello della potente maga Alcina. Trovammo lei in persona che era uscita da quella sua dimora e stava tutta sola in riva al mare; e senza usare nessuna rete o amo, tirava a riva tutti i pesci del mare che voleva».

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Giolito: Astolfo sull’ippogrifo tenta di fuggire dai mostri di Alcina (1554)

E’ evidente il duplice richiamo: dapprima al Palinuro virgiliano, quindi al Pier delle Vigne dantesco (che a Virgilio si rifà). Il classicismo rinascimentale ariostesco abbraccia tutta la letteratura precedente, da quella latina a quella italiana. Eppure vi è un elemento che fa di questa reminiscenza un qualcosa di completamente nuovo: la leggerezza dell’ottava. Il passo infatti non si carica di valenze sacrali, ma si svolge in un mondo favolistico, dove la cortesia fa da contorno ad un episodio dipinto con colori pastello.

Vista la bellezza di Astolfo, Alcina decide di farlo prigioniero. Con una scusa, lo fa salire con sé su una balena e lo rapisce. Rinaldo pur tuffandosi in mare non riesce a raggiungerlo, mentre i due, sul dorso della balena, finiscono infine sull’isola meravigliosa. Questa in realtà era stata lasciata in eredità a sua sorella Logistilla, ma le due sorellastre, Morgana ed Alcina, appunto, si sono alleate per sottrarle ogni avere; lei possiede ora solo una piccola parte dell’isola, e solo perché è un territorio irraggiungibile. Alcina arde d’amore per Astolfo ed il cavaliere ricambiava il sentimento, essendo lei molto bella e tanto premurosa nei suoi riguardi. Completamente si perdono nei piaceri dimenticando ogni altra cosa. Un giorno però lei rivolge improvvisamente il proprio cuore altrove, caccia Astolfo e lui scopre che nella sua stessa situazione ci sono altri mille amanti, trasformati in alberi, animali, fonti… per evitare che vadano in giro per il mondo a raccontare le abitudini della maga. Astolfo avverte quindi Ruggiero del pericolo che potrebbe correre. Ruggiero conosceva già Astolfo di nome, in quanto cugino di Bradamante e decide pertanto di aiutarlo. Astolfo gli indica la via per raggiungere il regno di Logistilla senza passare da quello di Alcina. Lo avverte però che la maga malvagia ha messo a guardia del sentiero un gruppo di suoi guerrieri dall’aspetto mostruoso. Ruggiero riprende il cavallo alato, senza salirgli in groppa per paura di dover ancora volare contro la propria volontà, e si mette in cammino. Raggiunge poco dopo la fortezza di Alcina e si dirige poi verso il monte in cima al quale si trovava il regno di Logistilla. Il suo cammino viene però interrotto dai guerrieri: esseri metà animali e metà uomini, metà uomini e metà donne, a cavallo di animali di ogni genere e con ogni tipo di arma in pugno. Ruggiero sguaina la spada e si lancia tra di loro, ma sono troppi, è accerchiato; escono allora dalla città di Alcina due bellissime donne in groppa a due unicorni. Costretto ad entrare nella fortezza,  lui vi trova una bellissima festa amorosa, tanto che si può ritenere essere il posto dove sia nato Amore. Quindi gli viene dato un cavallo sul quale poter salire, mentre l’ippogrifo viene consegnato ad un giovane, che lo segue a piedi. Le due donne chiedono aiuto al cavaliere per sconfiggere la gigante Erifile, che sta a guardia di un ponte ed impedisce il suo attraversamento. Ruggiero dice loro di essere completamente al loro servizio, qualunque sia il loro desiderio.

Il VII canto si apre con la sconfitta che Ruggiero imprime ad Erifile. Quindi, liberato il sentiero, viene accolto da Alcina:

ALCINA
(VII, 9- 18)

La bella Alcina venne un pezzo inante,
verso Ruggier fuor de le prime porte,
e lo raccolse in signoril sembiante,
in mezzo bella ed onorata corte.
Da tutti gli altri tanto onore e tante
riverenze fur fatte al guerrier forte,
che non potrian far più, se tra loro
fosse Dio sceso dal superno coro.


Non tanto il bel palazzo era eccellente,

perché vincesse ogn’altro di ricchezza,
quanto ch’avea la più piacevol gente
che fosse al mondo e di più gentilezza.
Poco era l’un da l’altro differente
e di fiorita etade e di bellezza:
sola di tutti Alcina era più bella,
sì come è bello il sol più d’ogni stella.

Di persona era tanto ben formata,

quanto me’ finger san pittori industri;
con bionda chioma lunga ed annodata:
oro non è che più risplenda e lustri.
Spargeasi per la guancia delicata
misto color di rose e di ligustri;
di terso avorio era la fronte lieta,
che lo spazio finia con giusta meta.

Sotto duo negri e sottilissimi archi
son duo negri occhi, anzi duo chiari soli,
pietosi a riguardare, a mover parchi;
intorno cui par ch’Amor scherzi e voli,
e ch’indi tutta la faretra scarchi
e che visibilmente i cori involi:
quindi il naso per mezzo il viso scende,
che non truova l’invidia ove l’emende.

Sotto quel sta, quasi fra due vallette,
la bocca sparsa di natio cinabro;
quivi due filze son di perle elette,
che chiude ed apre un bello e dolce labro:
quindi escon le cortesi parolette
da render molle ogni cor rozzo e scabro;
quivi si forma quel suave riso,
ch’apre a sua posta in terra il paradiso.

Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte;
il collo è tondo, il petto colmo e largo:
due pome acerbe, e pur d’avorio fatte,
vengono e van come onda al primo margo,
quando piacevole aura il mar combatte.
Non potria l’altre parti veder Argo:
ben si può giudicar che corrisponde
a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde.

Mostran le braccia sua misura giusta;

e la candida man spesso si vede
lunghetta alquanto e di larghezza angusta,
dove né nodo appar, né vena eccede.
Si vede al fin de la persona augusta
il breve, asciutto e ritondetto piede.
Gli angelici sembianti nati in cielo
non si ponno celar sotto alcun velo.

Avea in ogni sua parte un laccio teso,
o parli o rida o canti o passo muova:
né maraviglia è se Ruggier n’è preso,
poi che tanto benigna se la truova.
Quel che di lei già avea dal mirto inteso,

com’è perfida e ria, poco gli giova;
ch’inganno o tradimento non gli è aviso

che possa star con sì soave riso.

Anzi pur creder vuol che da costei

fosse converso Astolfo in su l’arena
per li suoi portamenti ingrati e rei,
e sia degno di questa e di più pena:
e tutto quel ch’udito avea di lei,
stima esser falso; e che vendetta mena,
e mena astio ed invidia quel dolente
a lei biasmare, e che del tutto mente.

La bella donna che cotanto amava,
novellamente gli è dal cor partita;
che per incanto Alcina gli lo lava
d’ogni antica amorosa sua ferita;
e di sé sola e del suo amor lo grava,
e in quello essa riman sola sculpita:
sì che scusar il buon Ruggier si deve,
se si mostrò quivi incostante e lieve.

1200px-Niccolò_dell'abate,_affreschi_dell'orlando_furioso,_da_palazzo_torfanini_04_alcina_riceve_ruggero_2.jpgNiccolò dell’Abate, Ruggiero e Alcina

La bella Alcina viene avanti, per un pezzo di strada, fuori dalle prime porte d’ingresso del palazzo, verso Ruggiero, e lo accoglie, con modi signorili, in mezzo ad una corte bella e stimabile. Da tutti gli altri, sono fatte al forte guerriero tanti onori e tante reverenze, che non si potrebbero fare di più se fosse disceso Dio direttamente dal Paradiso. // Il bel palazzo è tanto superiore agli altri non perché non ha pari per ricchezza, quanto perché è abitato dalle persone più piacevoli, e con i modi più gentili, che ci potessero essere al mondo. Ogni persona è poco differente dall’altra sia per la giovane età che per bellezza: solo Alcina supera gli altri per bellezza, così come il sole è più bello di ogni altra stella. // La sua persona è tanto bene formata, quanto meglio sanno fare i più abili pittori; con una bionda chioma lunga ed annodata: non c’è oro che risplenda di più e sia più lucente. Si diffonde lungo la sua delicata guancia un misto di colore di rose e di ligustri; simile a limpido avorio è la sua lieta fronte, che si estende entro giusti limiti. // Sotto due neri e sottilissimi archi si trovano due occhi neri, anzi due chiari soli, benevoli nel guardare, lenti nel muoversi; intorno ai quali sembra che voli e giochi il dio Amore, che da lì scagli tutte le sue frecce e che in modo chiaro i cuori rubi: da qui il naso scende attraverso il viso, sul quale nemmeno l’invidia potrebbe trovare un difetto. // Sotto al naso si trova, tra due piccole fossette, la bocca cosparsa di un rosso naturale; qui stanno due file di perle rare, che un bello e dolce labbro apre e chiude: da qui escono dolci e cortesi parole tali da rendere molle, ingentilire, ogni cuore rozzo e ruvido; qui si forma quel dolce sorriso, che apre a suo piacere il Paradiso in terra. // Neve bianca è il suo bel collo, il petto è latte; il collo è tondo, il petto largo e bene riempito: due seni piccoli e sodi, fatti come d’avorio, vengono e vanno con il suo respiro come onde sul margine estremo della spiaggia, quando un piacevole venticello percuote il mare. Neppure Argo, con i suoi cento occhi, potrebbe vedere le altri parti del suo corpo: si può a buon ragione ritenere che ciò che rimane nascosto corrisponda a quello che si può ammirare dal fuori. // Le braccia mostrano la loro giusta lunghezza; e la bianca mano spesso appare alquanto lunga ed affusolata, sulla quale non compare nessun nodo, né alcuna vena sporge. Si vede alla fine della maestosa persona il piccolo piede, asciutto ma ben rotondo. Coloro, nati in cielo, che hanno aspetto angelico non possono essere nascosti sotto nessun velo. // Ogni sua parte del corpo era una laccio teso per catturare gli amanti, sia che parli o rida o canti o muova passi: non c’è quindi da meravigliarsi se Ruggiero fu preso in trappola, trovandola così tanto buona nei propri confronti. Quello che riguardo a lei aveva appreso dal mirto (nel quale Astolfo è stato trasformato), di come fosse perfida e crudele, a poco gli serve; dal momento che non gli sembra possibile che l’inganno ed il tradimento possa convivere con un così gioioso sorriso. // Anzi vuole anche credere che da costei Astolfo fosse stato trasformato in mirto, in riva al mare, a causa del suo comportamento ingrato e malvagio, e che fosse stato degno di questa ed anche di più grave pena: e tutto ciò che riguardo a lei aveva udito, ritiene ora essere falso; e che sono il desiderio di vendetta, l’invidia e l’astio nei confronti di lei, a spingere quell’infelice Astolfo, a rimproverarla, e che quindi lui mente su ogni cosa. // La bella donna, Bradamante, che Ruggiero così tanto amava, all’improvviso non trova più posto nel suo cuore; poiché per incantesimo Alcina gli purifica il cuore da ogni antica ferita d’Amore; e lo occupa solo con il pensiero di se stessa e dell’Amore nei suoi confronti, e rimane in quel cuore impressa solo lei: tanto che Ruggiero si deve scusare per essere stato in quell’occasione incostante e leggero.

E’ questo uno dei passi più famosi del poema, che si figura, allegoricamente, come un processo iniziatico, da cui si uscirà fortificati e con maggior saggezza. Precedentemente abbiamo visto come, egli, con l’ippogrifo, sia giunto nell’isola. Possiamo anche dire che, in questo caso, il cavallo alato, metafora di un sogno, l’abbia condotto in un giardino di delizie (sessuali), anch’esse idealizzate in un mondo onirico. Infatti, non manca nessuna forma di piacere in quella corte e già dalla prima sera i due vengono travolti dalla passione amorosa. Bradamante, disperata per aver nuovamente perso il proprio amante, vaga alla ricerca di Ruggiero:

BRADAMANTE ALLA RICERCA
(VII, 33-41)

Con questa intenzion prese il camino
verso le selve prossime a Pontiero,
dove la vocal tomba di Merlino
era nascosa in loco alpestro e fiero.
Ma quella maga che sempre vicino
tenuto a Bradamante avea il pensiero,
quella, dico io, che ne la bella grotta
l’avea de la sua stirpe istrutta e dotta;

quella benigna e saggia incantatrice,
la quale ha sempre cura di costei,
sappiendo ch’esser de’ progenitrice
d’uomini invitti, anzi di semidei;
ciascun dì vuol sapere che fa, che dice,
e getta ciascun dì sorte per lei.
Di Ruggier liberato e poi perduto,
e dove in India andò, tutto ha saputo.

Ben veduto l’avea su quel cavallo

che regger non potea, ch’era sfrenato,
scostarsi di lunghissimo intervallo
per sentier periglioso e non usato;
e ben sapea che stava in giuoco e in ballo
e in cibo e in ozio molle e delicato,
né più memoria avea del suo signore,
né de la donna sua, né del suo onore.

E così il fior de li begli anni suoi
in lunga inerzia aver potria consunto
sì gentil cavallier, per dover poi
perdere il corpo e l’anima in un punto;
e quel odor che sol riman di noi,
poscia che ’l resto fragile è defunto,
che tra’ l’uom del sepulcro e in vita il serba,
gli saria stato o tronco o svelto in erba.

Con questa intenzione Bradamante intraprese il cammino verso le foreste vicine a Pontiero, feudo dei Maganza, là dove la tomba parlante di Merlino stava nascosta in un luogo montuoso e selvaggio. Ma quella maga, Melissa, che sempre vicino a Bradamante aveva tenuto il proprio pensiero, quella, mi riferisco a lei, che nella bella grotta l’aveva istruita e messa a conoscenza della sua stirpe; // quella buona e saggia incantatrice, la quale ha sempre avuto cura di costei, sapendo che sarebbe stata progenitrice di uomini vittoriosi, anzi, di semidei; (riprende l’elemento encomiastico) ogni giorno vuole sapere che cosa stia facendo, che cosa dica, ed ogni giorno fa incantesimi per sapere presente e futuro di lei, di Ruggiero liberato e poi smarrito, e del luogo in India dove si è recato, ha saputo tutto. // L’aveva visto molto bene su quel cavallo che non poteva guidare, non ubbidendo al freno, allontanarsi per una così grande distanza lungo un sentiero pericoloso e mai battuto, per la via dell’aria; e molto bene sapeva anche che si trovava ora preso da giochi, balli, dal cibo e dal morbido e delicato ozio, senza avere più memoria del proprio signore, né della sua donna amata, né del proprio onore. // Ed in questo modo, il fiore dei più bei anni della sua vita, il meglio della sua giovinezza, avrebbe potuto consumare nella lunga inerzia, nella lunga inattività, un così gentile cavaliere, per dover poi perdere il proprio corpo e la propria anima, trasformato in pianta, ad un certo punto; e quel buon nome, che solo rimane di noi dopo che tutto il resto, più fragile, è ormai defunto, che toglie l’uomo dal sepolcro e lo mantiene in vita, gli sarebbe stato o troncato o divelto come erba.

13-1-ksf--835x437@IlSole24Ore-Web.jpg«Coppa con Bradamante», maiolica di Castel Durante, 1525-1530, Sèvres, Cité de la Céramique

Infatti Bradamante, nella continuazione allegorica, rappresenta la coscienza fatta tacere da Ruggiero, per lasciar libero il sogno, come appare nella prima stanza dei versi seguenti:

MELISSA E L’ANELLO MAGICO
(VII, 46-52)

La giovane riman presso che morta,
quando ode che ’l suo amante è così lunge;
e più, che nel suo amor periglio porta,
se gran rimedio e subito non giunge:
ma la benigna maga la conforta,
e presta pon l’impiastro ove il duol punge,
e le promette e giura, in pochi giorni
far che Ruggiero a riveder lei torni.

«Da che, donna – (dicea) – l’annello hai teco,
che val contra ogni magico fattura,
io non ho dubbio alcun, che s’io l’arreco
là dove Alcina ogni tuo ben ti fura,

ch’io non le rompa il suo disegno, e meco
non ti rimeni la tua dolce cura.

Me n’andrò questa sera alla prim’ora,
e sarò in India al nascer de l’aurora».

E seguitando, del modo narrolle
che disegnato avea d’adoperarlo,
per trar del regno effeminato e molle
il caro amante, e in Francia rimenarlo.
Bradamante l’annel del dito tolle;
né solamente avria voluto darlo,
ma dato il core e dato avria la vita,
pur che n’avesse il suo Ruggiero aita.

Le dà l’annello e se le raccomanda;
e più le raccomanda il suo Ruggiero,
a cui per lei mille saluti manda:
poi prese ver Provenza altro sentiero.
Andò l’incantatrice a un’altra banda;
e per porre in effetto il suo pensiero,
un palafren fece apparir la sera,
ch’avea un piè rosso, e ogn’altra parte nera.

Credo fosse un Alchino o un Farfarello,
che da l’Inferno in quella forma trasse;
e scinta e scalza montò sopra a quello,
a chiome sciolte e orribilmente passe:
ma ben di dito si levò l’annello,
perché gl’incanti suoi non le vietasse.
Poi con tal fretta andò, che la matina
si ritrovò ne l’isola d’Alcina.

Quivi mirabilmente transmutosse
s’accrebbe più d’un palmo di statura,
e fe’ le membra a proporzion più grosse;
e restò a punto di quella misura
che si pensò che ’l negromante fosse,
quel che nutrì Ruggier con sì gran cura.

Vestì di lunga barba le mascelle,
e fe’crespa la fronte e l’altra pelle.

Di faccia, di parole e di sembiante

sì lo seppe imitar, che totalmente
potea parer l’incantator Atlante.
Poi si nascose, e tanto pose mente,
che da Ruggiero allontanar l’amante
Alcina vide un giorno finalmente:
e fu gran sorte; che di stare o d’ire
senza esso un’ora potea mal patire.

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Bradamante dà l’anello magico a Melissa

La giovane rimane quasi morta, le viene quasi un colpo, quando si sente dire che il suo amante è così lontano da lei; ed ancora di più ascoltando che il suo amore si trova in pericolo, se non dovesse arrivare un rimedio efficace e rapido: ma la benigna maga la conforta, e subito pone il medicamento là dove serve, dove il dolore è pungente, e le promette e le giura, in pochi giorni, di riuscire a fare in modo che Ruggiero possa tornare a guardarla. // Disse la maga: «Dal momento che, donna, hai con te l’anello magico, che si oppone ad ogni possibile incantesimo, rendendolo vano, io non ho nessun dubbio che se io lo portassi là, dove Alcina ti sottrae ogni tuo bene, potrei rendere vano ogni sua intenzione, e con me potrei riportare indietro l’uomo amato per cui tanto ti affanni. Partirò questa sera alla prima ora della notte, e sarò in India al sorgere del sole». // E proseguendo, le raccontò il modo in cui aveva pensato di adoperare quell’anello, per sottrarre al regno effeminato e molle di Alcina il caro amante, e ricondurlo in Francia. Bramante si sfilò quindi l’anello dal dito; avrebbe voluto dare non solo quello, ma avrebbe dato anche il proprio cuore e la propria vita se solo avessero potuto essere d’aiuto a Ruggiero. // Le dà l’anello magico e le si raccomanda; ma più le affida la protezione del suo Ruggiero, al quale tramite lei manda mille saluti: infine prese un sentiero verso la Provenza. La maga proseguì lungo un’altra direzione; e per poter mettere in pratica le proprie intenzioni, alla sera fece apparire un destriero che aveva un piede rosso ed ogni altra parte del corpo nera, simile ad un demonio. // Credo fosse un diavolo Alchino o Fanfarello, (nomi usati da Dante nell’Inferno) che dall’inferno fu evocato sulla terra sotto quelle sembianze; e poco vestita e scalza montò sopra a quel cavallo, con i capelli sciolti ed orribilmente sparsi: ma si levò a buon ragione l’anello dal dito, così che non potesse annullare i propri incantesimi. Dopo di che partì con una tale fretta, che la mattina seguente si trovò sull’isola di Alcina. // Giunta lì si trasformò in maniera incredibile: crebbe più di un palmo in altezza, e l’intero corpo si fece più grosso in proporzione alla nuova altezza e si portò giusta giusta in quella misura che si poteva credere fosse il mago Atlante, colui che aveva nutrito Ruggiero con così tanta cura. Vestì la mascella con una lunga barba e rese rugosa la fronte e tutte le altre parti del corpo. // In faccia, nel parlare e nelle sembianza lo seppe tanto imitare, riprodurre, che per ogni suo aspetto poteva sembrare l’incantatore Atlante. Quindi si nascose e rimase a studiare a lungo la situazione, fino a che da Ruggiero vide finalmente un giorno allontanarsi l’amante Alcina: e fu una grande fortuna; perché di stare o di andare in giro senza di lui, anche per una sola ora, era per lei difficile da sopportare.

Quindi, per chiudere la rappresentazione allegorica, non ci rimane che la ratio, nelle vesti di Melissa e del suo mezzo, che, proprio attraverso l’anello fatato gli mostra la realtà. Anche qui Ariosto non cessa di giocare con i lettori: che la magia sveli la realtà è uno splendido ossimoro, ma è anche una profonda convinzione umanistico-rinascimentale (si pensi alla fortuna che in questo tempo ebbe l’alchimia, sebbene un po’ ironizzata da Ariosto).

Continuando il racconto della vicenda, Melissa trova il paladino totalmente mutato in abitudini; ha abbandonato ogni arma ed è completamente vestito, acconciato ed adornato come fosse una donna. Melissa, nelle sembianze di Atlante, lo rimprovera aspramente per avere dimenticato tutti i suoi insegnamenti, che avrebbero dovuto portarlo a compiere gloriose imprese e non a trascorrere una vita molle nell’ozio. Gli consegna quindi l’anello magico, e lo invita ad andare da Alcina per vedere in quale inganno sia caduto. Il paladino si infila l’anello al dito, gli incantesimi di Alcina svaniscono: la donna appare finalmente a Ruggiero nel suo aspetto reale: una orribile vecchia. Come suggeritogli, il cavaliere dapprima non fa trasparire il proprio disgusto ed il proprio odio e mette in atto il piano di fuga consigliato dalla maga. Fingendo di voler solo vedere se con le proprie armi indosso può risultare ancora più bello agli occhi di Alcina, si rimette l’armatura, prende la propria spada Balisarda e lo scudo incantato di Atlante. Va quindi nella stalla, monta su Rabican, il velocissimo cavallo appartenuto ad Astolfo, e scappa dal castello e si lancia poi al galoppo in direzione del regno di Logistilla (quindi come un piccolo romanzo di formazione, dopo il sogno, più maturo e consapevole, affronta di nuovo la realtà).

Nell’VIII canto vediamo Alcina raccogliere tutta la sua gente intorno a sé e partire alla ricerca di Ruggiero sia per terra che per mare. Lei, presa dal desiderio di catturarlo, si unisce a questa gente e lascia così la propria città incustodita. Quindi vi giunge Melissa che riesce ad annullare con comodo tutti gli incantesimi della maga e tutti gli amanti trasformati in varie forme che così tornano ad essere come erano e, con Ruggiero, si mettono in salvo nel regno di Logistilla, per tornare quindi ai rispettivi paesi di origine. Melissa libera anche il paladino Astolfo, gli fa montare l’ippogrifo e lo fa volare in salvo. Infine si reca anch’essa da Logistilla.

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Filippo Pistrucci: Melissa libera i soldati dall’incantesimo di Alcina
(illustrazione del XIX sec.)

Cambiando completamente scena, vediamo Rinaldo chiedere aiuto al re di Scozia e al principe di Galles per il re Carlo assediato a Parigi. Spostandoci di nuovo ci troviamo invece davanti all’eremita, che aveva aiutato Angelica ad allontanare Rinaldo e Sacripante (vedi canto II). Colpito dalla bellezza di lei, l’eremita cerca di trattenerla, ma la donna fugge; allora evoca un demone che prende possesso del cavallo di Angelica, mentre l’uomo la segue da lontano. Giunta sulle rive dell’Oceano Atlantico, il demone spinge il cavallo in mare aperto verso nord, senza che Angelica possa fare nulla per fermarlo. Quando è sera l’animale e la donna raggiungono una spiaggia deserta e spaventosa. L’eremita, che aveva già raggiunto questo luogo grazie ad un altro demonio, compare improvvisamente e, ingannando Angelica, la fa cadere addormentata. Tenterà di abusare di lei, ma a causa dell’età finirà solo per addormentarsi al suo fianco.

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Paul e Gaetan Brizzi: Angelica e l’eremita

Nel mare del nord, oltre l’Irlanda, si trova l’isola di Ebuda. In un tempo passato, il re dell’isola aveva una figlia tanto bella da fare innamorare di sé il dio marino Proteo, che trovandola un giorno da sola, l’aveva quindi posseduta ed ingravidata. Il re, uomo crudele, non perdonò il gesto alla figlia e la decapitò subito, facendo quindi morire anche il nipote prima che potesse nascere. Proteo, colmo d’ira, infrange le regole della natura e manda sulla terra ferma tutte le creature marine, a seminare distruzione e a tenere d’assedio gli abitanti dell’isola. Per placarlo bisogna offrire al dio una donna che, quando verrà reputata di pari bellezza della donna uccisa, farà terminare l’ira del dio contro gli uomini. Da allora ogni giorno una bella donna viene portata sulla spiaggia e finisce mangiata da un’orca, tanto che gli abitanti di Ebuda hanno cominciato a rapire le donne delle vicine isole, per salvare le proprie mogli. Ed è per questo che Angelica viene fatta prigioniera e messa insieme alle altre donne destinate al sacrificio.

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Gustave Doré: Proteo rapisce una fanciulla

Orlando (che appare qui per la prima volta) viene tormentato la notte dal pensiero di Angelica, della quale non aveva avuto più notizie. Si dispera tutto il tempo finché una voce misteriosa gli dice di non sperare di poterla ancora rivedere e lo fa svegliare tra le lacrime. Temendo che Angelica sia in pericolo, appena sveglio si mette l’armatura, monta su Brigliadoro ed a mezzanotte parte alla sua ricerca. Il re Carlo, accortosi della sua lontananza, è molto adirato. Un caro compagno di Orlando, senza dire nulla a nessuno, nemmeno alla sua donna Fiordiligi, parte all’inseguimento dell’amico: ma non tornerà subito, tanto che la stessa Fiordiligi partirà alla sua ricerca.

Il canto IX inizia con il paladino che cerca tracce della donna amata in ogni luogo possibile. Arrivato un giorno sulla riva del fiume Quesnon, per attraversarlo chiede aiuto ad una ragazza al comando di una imbarcazione. La donna in cambio del favore chiede però ad Orlando di unirsi all’esercito che sta allestendo il re d’Irlanda, per muovere guerra agli abitanti dell’isola di Ebuda, e porre quindi fine ai loro saccheggi ed al rapimento delle donne più belle, che vengono ogni giorno sacrificate da quel popolo ad una orca. Orlando accetta subito, sia perché è contrario ad ogni ingiustizia, sia perché crede che anche Angelica sia stata fatta da loro prigioniera, visto che non era riuscito a trovarla in nessuno luogo. Quindi già il giorno seguente si imbarca per l’isola, ma non la raggiunge perché un vento impetuoso lo riporta subito indietro fino ad Anversa. Qui, Orlando sbarca e viene accolto da un vecchio che lo invita a dare il proprio aiuto ad una donna in difficoltà. La donna, di nome Olimpia, vestita a lutto e piena di dolore, racconta al conte Orlando la propria storia. Figlia del conte d’Olanda, si era innamorata del duca Bireno, che era poi dovuto andare in Spagna per prendere parte alla guerra contro gli arabi. Il re di Frisia, Cimosco, aveva deciso di farla sposare con il proprio figlio Arbante, e ne chiede quindi la mano. La donna, per non venire meno all’amore ed alla parola data, risponde però di preferire la morte, ed il re di Frisia, in tutta risposta, invade l’Olanda ed uccide in guerra tutti i familiari di Olimpia. Cimosco possiede infatti un’arma avveniristica, un archibugio (un’arma da fuoco), e non esiste avversario che possa competere con lui.

Pavia-RH1.jpgRuprecht Heller: Particolare della battaglia di Pavia del 1525, combattenti con in mano gli archibugi

IL MALEDETTO ORDIGNO
(IX, 27-31)

Il mio buon padre, al qual sol piacea quanto
a me piacea, né mai turbar mi volse,
per consolarmi e far cessare il pianto
ch’io ne facea, la pratica disciolse:
di che il superbo re di Frisa tanto
isdegno prese e a tanto odio si volse,
ch’entrò in Olanda, e cominciò la guerra
che tutto il sangue mio cacciò sotterra.

Oltre che sia robusto, e sì possente,
che pochi pari a nostra età ritruova,
e sì astuto in mal far, ch’altrui niente
la possanza, l’ardir, l’ingegno giova;
porta alcun’arme che l’antica gente
non vide mai, né fuor ch’a lui, la nuova:
un ferro bugio, lungo da dua braccia,
dentro a cui polve ed una palla caccia.

Col fuoco dietro ove la canna è chiusa,
tocca un spiraglio che si vede a pena;
a guisa che toccare il medico usa
dove è bisogno d’allacciar la vena:
onde vien con tal suon la palla esclusa,
che si può dir che tuona e che balena;
né men che soglia il fulmine ove passa,
ciò che tocca, arde, abatte, apre e fracassa.

Pose due volte il nostro campo in rotta
con questo inganno, e i miei fratelli uccise:
nel primo assalto il primo; che la botta,
rotto l’usbergo, in mezzo il cor gli mise;
ne l’altra zuffa a l’altro, il quale in frotta
fuggìa, dal corpo l’anima divise;
e lo ferì lontan dietro la spalla,
e fuor del petto uscir fece la palla.

Difendendosi poi mio padre un giorno
dentro un castel che sol gli era rimaso,
che tutto il resto avea perduto intorno,
lo fe’ con simil colpo ire all’occaso;
che mentre andava e che facea ritorno,
provedendo or a questo or a quel caso,
dal traditor fu in mezzo gli occhi colto,
che l’avea di lontan di mira tolto.

Il mio buon padre, al quale piaceva solamente ciò che a me piaceva, non volendomi assolutamente turbare, per consolarmi e fare quindi cessare il pianto mio, ruppe la trattativa di nozze; il re di Frisia, peccatore di superbia, di tale azione tanto si sdegnò e tanto iniziò ad odiarci, che invase l’Olanda e iniziò una guerra che provocò la morte di tutti i miei familiari. // Oltre ad esser robusto e molto possente, tanto che se ne trovano pochi eguali nella nostra età, è così astuto, furbo, nel fare del male, che agli altri a niente giova la propria prestanza fisica, l’ingegno e l’audacia; porta con sé una certa arma che la gente antica non ha mai potuto vedere, e, ad eccezione di lui, neanche la nuova gente: un archibugio (un ferro bucato), lungo circa due braccia, dentro al quale infila della polvere ed una palla. // Con una miccia accesa, sul retro della canna, dove è chiusa, tocca un piccolo foro che a malapena si riesce a vedere; allo stesso modo in cui il medico è solito toccare nel punto in cui dovrà ricucire una vena: a quel punto la palla viene espulsa con un tale frastuono, che si può dire che tuona e balena, simile ad un temporale; e non meno di quanto è solito fare un fulmine dove colpisce, tutto quello che tocca brucia, abbatte, spezza e distrugge. // Mise due volte in fuga il nostro campo con questo archibugio, ed uccise i miei due fratelli: durante il primo assalto uccise il primo, al quale il colpo, rotta la corazza, gli indirizzò in mezzo al cuore; durante l’altro combattimento al secondo fratello, che insieme agli altri fuggiva, separò l’anima dal corpo, lo uccise. Da lontano, lo colpì sulla schiena e fuori dal petto fece uscire la palla. // Un giorno, difendendosi mio padre dentro al castello, unica cosa che gli era rimasta, poiché aveva perso tutto il resto che possedeva nei pressi del castello, lo ammazzò con un colpo simile; perché mentre andava e veniva per il castello, occupandosi ora di questa ed ora di altra faccenda, fu colpito in mezzo agli occhi dal traditore, che da lontano lo aveva preso di mira.

E’ chiaro come qui Ariosto “contemporaneizzi” il suo discorso: abbiamo già visto come egli riesca a rappresentarci l’eterna anima umana dietro gli atteggiamenti fantastici dei protagonisti attraverso l’abbassamento ironico che ci permette di guardare e nel contempo sorridere di noi e dell’umanità intera. Qui invece nessun processo di svelamento, ma la vera e propria denuncia di un’arma di fuoco, chiaramente sconosciuta nel tempo dei cavalieri, ma che una volta introdotta avrebbe sconvolto i canoni di cortesia e virtù ai quali egli malinconicamente si richiama. 

Continuando nella narrazione troviamo Olimpia, imprigionata nel proprio castello. Cimosco fa sapere che avrebbe posto fine alla guerra se lei si fosse concessa in sposa ad Arbante. Olimpia rifiuta ed i suoi sudditi, per non rischiare anche la loro vita, consegnano lei ed il suo castello nelle mani di Cimosco. Olimpia decide ci uccidersi, ma prima, di vendicarsi. Sposa Arbante e durante la prima notte di nozze, lo ammazza e scappa poi per mare con quel poco che le era rimasto. Durante il matrimonio però Cimosco, saputo che Bireno stava giungendo per mare, si era assentato per muovergli guerra. Il re di Frisia aveva sconfitto l’avversario e l’aveva fatto prigioniero. Visto il figlio morto, Cimosco uccide ogni persona che fosse vicina ad Olimpia. A Bireno pone invece una condizione crudele: gli dà un anno di tempo per portargli la donna tanto odiata, pena la morte. Olimpia tenta ogni stratagemma per liberare l’uomo amato ma senza successo alcuno. L’anno sta ormai per scadere e lei è infine disposta a consegnarsi nelle mani di Cimosco. Per essere sicura che questo sia di parola, chiede ad Orlando di stare al suo fianco durante lo scambio e di intervenire quindi prontamente se qualcosa dovesse andare storto. Orlando promette subito di dare il proprio supporto ed anzi di fare di più di quanto lei gli chieda. Quindi partono insieme e giungono in Olanda. Scende solo il paladino, la donna dovrà aspettare di aver notizia della morte di Cimosco. Trova alla porta della città una folta schiera di cavalieri. Il paladino sfida il re di Frisia: in caso della sua sconfitta gli verrà consegnata l’assassina di suo figlio Arbante, in caso di sua vittoria dovrà essere invece liberato il prigioniero.

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Orlando uccide il re di Fresia

Ma il re vuole catturare anche Orlando e con i suoi cavalieri lo circonda, convinto che l’impresa sia semplice che non prende neanche con sé l’archibugio. Orlando si butta sugli avversari e fa una strage. Inutilmente Cimosco chiede a gran voce che gli venga portata l’arma, tutti scappano; chi può tornare alla città non ha nessuna intenzione di uscirci ancora. Allora anche il re tenta di mettersi in salvo inseguito da Orlando e, quando finalmente entra in possesso dell’arma, spara, ma forse a causa della paura che gli fa tremare le mani, sbaglia mira e colpisce ed uccide solo il cavallo. Il cavaliere si lancia subito contro il re di Fresia e lo uccide. Quindi Bireno viene liberato e può nuovamente abbracciare Olimpia. Orlando si imbarca nuovamente per raggiungere Ebuda, porta con sé l’archibugio ed appena è in mare aperto lo getta nelle profondità dell’oceano.

Il canto X quindi inizia con la coppia appena ricostituita di Olimpia e Bireno: ma succede un fatto imprevisto; appena vede piangere la figlia del re di Frisia per la morte del proprio padre, Bireno subito se ne innamora e la ragazza, seppure quattordicenne, prende il posto di Olimpia nel suo cuore. Quest’ultima all’improvviso risulta insopportabile, ma lui non lo dà a vedere e nessuno si accorge del cambiamento. Partono per nave alla volta della sua patria, ma dopo tre giorni di tempesta raggiungono un’isola sconosciuta. Bireno ed Olimpia si accampano sulla spiaggia e lui, approfittando del sonno profondo di lei, torna di corsa sulla nave e riparte, abbandonandola. Olimpia si risveglia così sola; guarda la nave che si allontana e inveisce contro il crudele Bireno. Si accorge di non avere nessuna via di scampo; se anche si salvasse non sa dove poter andare, dal momento che aveva consegnato il suo regno, l’Olanda, nelle mani di Bireno.

OperaArteImmagineHigh-125.jpgGiovani Martinelli: Olimpia abbandonata da Bireno (XVII sec.)

Nel frattempo Ruggiero, sotto il cocente sole di mezzogiorno, continua il suo viaggio verso il regno di Logistilla; è stanco, assetato e le armi che ha indosso sono infuocate. Dopo esser riuscito ad evitare l’insidia di tre donne, al soldo della maga, il cavaliere giunge infine allo stretto che separa le terre di Logistilla dal regno di Alcina. Trova ad aspettarlo un vecchio su una imbarcazione pronta a salpare e subito partono per raggiungere l’altra riva. All’inseguimento, giunge la flotta di Alcina con a bordo la stessa maga. Viene battuta dopo un’aspra battaglia ed infine è costretta a fuggire. Passerà i successivi giorni a piangere la perdita dell’amante ed a disperarsi perché, in quanto fata, non può morire. Ruggiero raggiunge la bellissima roccaforte di Logistilla; ritrova Astolfo nel castello e successivamente arriveranno anche tutti gli altri precedenti amanti della maga Alcina, liberati ora da Melissa. Logistilla insegna a Ruggiero a comandare l’ippogrifo ed appena il cavaliere è pronto, lo fa tornare dall’amata Bradamante, ma spinto dal desiderio di visitare il mondo, arriverà solo dopo mesi in Inghilterra ed atterrerà quindi una mattina a Londra. Qui il cavaliere vede riunito un immenso esercito di uomini pronti ad imbarcarsi per la Francia. Riprende il volo e si dirige poi verso Irlanda. e scorge su una isola, Ebuda, la bella Angelica incatenata nuda ad uno scoglio.

103168.jpgGiorgio De Chirico: Ruggiero libera Angelica (inizi anni ’70)

Chiede chi sia stato ad incatenarla. Mentre Angelica sta per iniziare a raccontare le proprie vicende, emerge dal mare la mostruosa orca. Ruggiero pur colpendola non riesce a ucciderla ma con lo scudo incantato di Atlante fa svenire il mostro che rimane quindi rovesciato in mare. Il cavaliere libera Angelica, la fa salire sul cavallo alato e vola con lei in cielo. Atterranno su una vicina spiaggia della Bretagna e Ruggiero, preso dalla passione (era ormai anche lui vittima della bellezza di Angelica), inizia a togliersi l’armatura.

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Il canto XI si apre con Ruggiero completamente preso dal desiderio per Angelica e si strappa l’armatura per poterla sfogare. La donna, imbarazzata per essere completamente nuda, guardandosi il corpo si accorge di avere al dito l’anello, che le permette di scomparire dalla vista del cavaliere.

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Ruggiero cerca invano di ritrovarla, ma lei è ormai lontana, in una grotta dove trova cibo, vestiti, che seppur rozzi non riescono però a non farla comparire bella e nobile, ed una cavalla con cui poter proseguire il proprio viaggio verso casa. Il cavaliere intanto, perso anche l’ippogrifo che, liberatosi dal morso, vola ora libero in cielo, riprende le proprie armi e si incammina a piedi. Giunto in un bosco, sente un gran rumore d’armi ed assiste alla battaglia tra un gigante ed un valoroso cavaliere. Questo ultimo, tramortito da un colpo alla testa, è Bradamante, riconosciuta dal cavaliere, ma prima che possa intervenire in difesa della donna, il gigante se l’è messa in spalla ed è fuggito. Intanto, nonostante il debole vento, Orlando giunge all’isola di Ebuda prima del re Oberto d’Irlanda. Lasciata la nave al largo, la raggiunge con una scialuppa portando con sé solo la spada, la più grossa ancora della nave ed una robusta fune. Avvicinatosi alla riva, sente il pianto di una donna, che, nuda, è stata incatenata ad uno scoglio. Si avvicina a lei, quando improvvisamente compare il mostro marino che, vista l’imbarcazione del paladino, spalanca la bocca per inghiottirla. Allora Orlando le pianta in bocca l’enorme ancora, così da impedirle di richiederla. Si immerge quindi anche lui nel mostro e dal di dentro inizia a trafiggerla con la propria spada. Il cavaliere abbandona infine la gola dell’animale e impugna la robusta fune che aveva legato all’ancora, nuota fino alla riva ed inizia a tirare a sé l’orca con tutta la sua forza, fino a trascinarla a riva dove morirà.

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Gli abitanti di Ebuda, temendo l’ira del dio marino, si arrabbiano e sono intenzionati a sacrificare Orlando al dio Proteo buttandolo in mare, ma il paladino, sguainata la spada si apre giusto la strada verso la donna. Nel frattempo arriva l’esercito mandato dall’Irlanda, fa strage del nemico, saccheggia e distrugge tutto ciò che incontra. La donna incatenata nuda è Olimpia. Orlando ascolta la sua storia e la libera. Arriva sulla spiaggia anche re Oberto, che conosce Orlando e quindi l’abbraccia contento. Il paladino racconta al re il tradimento subito da Olimpia per opera di Bireno. Le lacrime della donna, la sua storia e soprattutto il suo bellissimo corpo nudo, accendo all’istante d’amore il re d’Irlanda, che subito si propone di portarla in Olanda e di punire adeguatamente il crudele Bireno. Orlando, soddisfatto della situazione, può quindi continuare a ritrovare Angelica, mentre il re Oberto, insieme ai re d’Inghilterra e di Scozia, toglierà a Bireno tutti i possessi ed infine anche la vita. Sposa infine anche Olimpia che da contessa diventa regina. Orlando, ritornato al porto di partenza, riprende il proprio cavallo Brigliadoro e continua il viaggio alla ricerca dell’amata. La primavera seguente, mentre è in viaggio, sente le urla di una donna in pericolo, sguaina la propria spada e corre in suo aiuto.

Il canto XII si apre con il paladino che vede passare al galoppo un cavaliere misterioso con in braccio una donna, contro la sua volontà, che ad Orlando sembra Angelica. Il duca si lancia al suo inseguimento con Brigliadoro e raggiunge infine, uscito dal bosco, un vasto prato con al centro un bellissimo castello, all’interno delle cui mura è entrato il misterioso cavaliere.

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Giovan Battista Galizzi: Atlante ed il suo castello incantato (1945)

IL CASTELLO INCANTATO
(XII, 8-12)

Di vari marmi con suttil lavoro
edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d’oro
con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
né più il guerrier, né la donzella mira.

Subito smonta, e fulminando passa
dove più dentro il bel tetto s’alloggia:
corre di qua, corre di là, né lassa
che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d’ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde anco a cercar di sopra,
che perdessi di sotto, il tempo e l’opra.

D’oro e di seta i letti ornati vede:
nulla de muri appar né de pareti;
che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son da cortine ascose e da tapeti.

Di su di giù va il conte Orlando e riede;
né per questo può far gli occhi mai lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n’ha portato il bel viso leggiadro.

E mentre or quinci or quindi invano il passo
movea, pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso,
re Sacripante ed altri cavallieri
vi ritrovò, ch’andavano alto e basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavan del malvagio
invisibil signor di quel palagio.

Tutti cercando il van, tutti gli dànno
colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d’altro l’accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.

Con perizia lavorato, il palazzo era stato edificato con diversi marmi. Il cavaliere con la fanciulla in braccio sorpassa la porta lavorata d’oro. Dopo non molto giunge Brigliadoro, cavalcato da Orlando sdegnato e furioso. Orlando, come giunge dentro il palazzo, gira lo sguardo, ma non vede più né il cavaliere né la fanciulla. // Subito smonta da cavallo, e come un fulmine si dirige verso le stanze; corre di qua, corre di là, non trascura alcuna camera né ogni loggiato. Dopo aver cercato nelle stanze del pian terreno, sale le scale e impiega lo stesso tempo a cercare in quelle di sopra. // Vede letti ornati d’oro e di seta, nelle pareti son nascosti i muri, che sono, come il pavimento, coperti da tendaggi e da tappeti. Il conte Orlando va su, giù, torna indietro, ma gli occhi tristi non riescono a vedere Angelica o il ladro che l’ha rapita. // E mentre inutilmente va ora da una parte ora dall’altra, pieno di pena e di pensieri, ritrovò lì dentro Ferraù, Brandimarte, il re Gradasso, Sacripante e altri cavalieri che vagavano come lui inutilmente e si rammaricavano del malvagio ed invisibile signore di quel luogo. // Tutti girano per il palazzo alla sua ricerca, tutti lo accusano di aver rubato loro qualcosa: uno è all’affannata ricerca del destriero che il signore gli ha sottratto; un altro si arrabbia  per aver perduto la propria donna; altri lo accusa per altri misfatti: e stanno così senza sapere come poter abbandonare quella gabbia; e ci sono molti, catturati con l’inganno, in trappola da intere settimane e mesi.

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Immagine di Esher che ben rappresenta il castello incantato di Ariosto

E’ evidente che la descrizione di questo castello, nuova magia di Atlante, rappresenti l’intero poema: infatti esso è il palazzo del desiderio insoddisfatto, la cui rincorsa diviene affannosa, ripetitiva: non raggiunto, produce un rinnovato movimento, per la sua conquista, ma completamente invano. Infatti non riuscendo a trovare quello che cerca, Orlando esce nel prato circostante ma subito vede Angelica ad una finestra e sente le donna chiedergli aiuto. Torna nel castello e continua la ricerca; la voce di lei proviene sempre da un luogo diverso, sempre da tutt’altra parte rispetto a quella dove si trova lui.

Giunge nel palazzo d’Atlante anche Ruggiero:

RUGGIERO NEL PALAZZO D’ATLANTE
(XII, 17-20)

Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando
dissi che per sentiero ombroso e fosco
il gigante e la donna seguitando,
in un gran prato uscito era del bosco;
io dico ch’arrivò qui dove Orlando
dianzi arrivò, se ’l loco riconosco.
Dentro la porta il gran gigante passa:
Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa.

Tosto che pon dentro alla soglia il piede,
per la gran corte e per le logge mira;
né più il gigante né la donna vede,
e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira.
Di su di giù va molte volte e riede;
né gli succede mai quel che desira:
né si sa imaginar dove sì tosto
con la donna il fellon si sia nascosto.

Poi che revisto ha quattro volte e cinque
di su di giù camere e logge e sale,
pur di nuovo ritorna, e non relinque
che non ne cerchi fin sotto le scale.
Con speme al fin che sian ne le propinque
selve, si parte: ma una voce, quale
richiamò Orlando, lui chiamò non manco;
e nel palazzo il fe’ ritornar anco.

Una voce medesma, una persona
che paruta era Angelica ad Orlando,
parve a Ruggier la donna di Dordona,
che lo tenea di sé medesmo in bando.
Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei ch’andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.

Ma tornando a raccontare di Ruggiero, che ho abbandonato quando dissi che, attraverso un sentiero ombroso e buio, seguendo il gigante e la donna, era finalmente giunto, uscito dal bosco, in un grande prato; potrei dire che arrivò nel luogo dove Orlando era arrivato poco prima, se ho riconosciuto il luogo. Il gigante passa attraverso la grande porta; Ruggiero gli è subito dietro e non smette di seguirlo (entra anche lui). // Appena mette il piede dentro alla porta, da un’occhiata alla grande corte ed alle stanze ma non vede più né il gigante né la donna. Invano gira gli occhi tutt’intorno. Più volte va su e giù e ci ritorna ma mai trova quel che va cercando e non riesce ad immaginare dove, così velocemente, il fellone si sia nascosto con al donna. // Dopo che ha controllato più e più volte le camere, le logge e le sale del primo e del secondo piano, torna comunque di nuovo a controllare, e non rinuncia a cercare fin sotto le scale. Infine, con la speranza che siano tornati nel vicino bosco, esce dal castello. Ma una voce, simile a quella che richiamò Orlando, richiamò anche lui non di meno e lo fece tornare nel palazzo. // La medesima voce, una persona che era sembrata Angelica ad Orlando, sembrò ora a Ruggiero esser Bradamante, della quale era lui innamorato (che lo faceva sentire fuori di sé). Se dovesse discutere con re Gradasso, o con altra persona di quelle che andavano vagando per il palazzo, a ciascuno sarebbe sembrata essere ciò che più ciascuno ambisce e desidera avere per sé.

E’ una vera e propria ripetizione questa che succede a Ruggiero: come Orlando, anche lui segue la sua irraggiungibile “quete”. Si noti, tuttavia, un elemento estremamente interessante quando Ariosto afferma se ’l loco riconosco: infatti sembra quasi, dall’alto, possedere la mappa dei luoghi e delle azioni dei suoi personaggi, che lui “manovra” ed esegue con estrema attenzione. Quindi i personaggi sono tutti vittima del nuovo incantesimo di Atlante, che dopo il castello d’acciaio e dopo l’isola della maga Alcina, cerca ora di tenere impegnato il proprio protetto in questo nuovo castello per salvarlo dalla morte predetta dagli astri. Il mago aveva deciso di condurre in quel posto anche tutti i valorosi cavalieri che avrebbero potuto uccidere Ruggiero. Vi giunge anche Angelica:

ANGELICA, IL CASTELLO E L’ANELLO FATATO
(XII, 23-34)

Ma torniamo ad Angelica, che seco
avendo quell’annel mirabil tanto,
ch’in bocca a veder lei fa l’occhio cieco,
nel dito, l’assicura da l’incanto;
e ritrovato nel montano speco
cibo avendo e cavalla e veste e quanto
le fu bisogno, avea fatto disegno
di ritornare in India al suo bel regno.

Orlando volentieri o Sacripante
voluto avrebbe in compania: non c’ella
più caro avesse l’un che l’altro amante;
anzi di par fu a’ lor disii ribella:
ma dovendo, per girsene in Levante,
passar tante città, tante castella,
di compagnia bisogno avea e di guida,
né potea aver con altri la più fida.

Or l’uno or l’altro andò molto cercando,
prima ch’indizio ne trovasse o spia,
quando in cittade, e quando in ville, e quando
in alti boschi, e quando in altra via.
Fortuna al fin là dove il conte Orlando,
Ferraù e Sacripante era, la invia,
con Ruggier, con Gradasso ed altri molti
che v’avea Atlante in strano intrico avolti.

Quivi entra, che veder non la può il mago,

e cerca il tutto, ascosa dal suo annello;
e trova Orlando e Sacripante vago
di lei cercare invan per quello ostello.
Vede come, fingendo la sua immago,
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor, molto rivolve
nel suo pensier, né ben se ne risolve.

Non sa stimar chi sia per lei migliore,
il conte Orlando o il re dei fier Circassi.
Orlando la potrà con più valore
meglio salvar nei perigliosi passi:
ma se sua guida il fa, sel fa signore;
ch’ella non vede come poi l’abbassi,
qualunque volta, di lui sazia, farlo
voglia minore, o in Francia rimandarlo.

Ma il Circasso depor, quando le piaccia,
potrà, se ben l’avesse posto in cielo.

Questa sola cagion vuol ch’ella il faccia
sua scorta, e mostri avergli fede e zelo.
L’annel trasse di bocca, e di sua faccia
levò dagli occhi a Sacripante il velo.
Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne
ch’Orlando e Ferraù le sopravenne.

Le sopravenne Ferraù ed Orlando;
che l’uno e l’altro parimente giva
di su di giù, dentro e di fuor cercando
del gran palazzo lei, ch’era lor diva.
Corser di par tutti alla donna, quando
nessuno incantamento gli impediva:
perché l’annel ch’ella si pose in mano,
fece d’Atlante ogni disegno vano.

L’usbergo indosso aveano e l’elmo in testa
dui di questi guerrier, dei quali io canto;
né notte o dì, dopo ch’entraro in questa
stanza, l’aveano mai messi da canto;
che facile a portar, come la vesta,
era lor, perché in uso l’avean tanto.
Ferraù il terzo era anco armato, eccetto
che non avea né volea avere elmetto,

fin che quel non avea, che ’l paladino
tolse Orlando al fratel del re Troiano;
ch’allora lo giurò, che l’elmo fino
cercò de l’Argalia nel fiume invano:
e se ben quivi Orlando ebbe vicino,
né però Ferraù pose in lui mano;
avenne, che conoscersi tra loro
non si poter, mentre là dentro foro.

Era così incantato quello albergo,
ch’insieme riconoscer non poteansi.
Né notte mai né dì, spada né usbergo
né scudo pur dal braccio rimoveansi.
I lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo i morsi da l’arcion, pasceansi
in una stanza, che presso all’uscita,
d’orzo e di paglia sempre era fornita.

Atlante riparar non sa né puote,

ch’in sella non rimontino i guerrieri
per correr dietro alle vermiglie gote,
all’auree chiome ed a’ begli occhi neri
de la donzella, ch’in fuga percuote
la sua iumenta, perché volentieri
non vede li tre amanti in compagnia,
che forse tolti un dopo l’altro avria.

E poi che dilungati dal palagio
gli ebbe sì, che temer più non dovea
che contra lor l’incantator malvagio
potesse oprar la sua fallacia rea;
l’annel che le schivò più d’un disagio,
tra le rosate labra si chiudea:
donde lor sparve subito dagli occhi,
e gli lasciò come insensati e sciocchi

 

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Salvator Dalì: Orlando alla ricerca di Angelica

Ma torniamo da Angelica, che con sé avendo portato quell’anello molto speciale, che la rende invisibile quanto viene tenuto in bocca, ed al dito la protegge da ogni incantesimo; ed avendo trovato, nella conca della montagna, cibo, un cavallo, vestiti e quanto altro di cui aveva bisogno, aveva ora deciso di ritornare in India al suo bel regno. // Volentieri Orlando o Sacripante avrebbe voluto al suo fianco: lei non aveva voluto più bene a l’uno o all’altro dei due suoi amanti, allo stesso modo, anzi, si era opposta ai loro desideri. Ma dovendo, per tornare in Oriente, attraversare tante città, tanti castelli, aveva bisogno di compagnia e di una guida, e solo con Orlando e Sacripante poteva avere la più fidata compagnia. // Continuò a cercare ora l’uno ed ora l’altro prima di riuscire a trovare un indizio o una loro traccia, a volte in città, a volte in ville, altre volte in alti boschi ed a volte ancora in tutt’altri luoghi. La fortuna infine la inviò là dove il conte Orlando, Ferraù e Sacripante si trovavano insieme a Ruggiero, re Gradasso e molti altri ancora che il mago Atlante aveva imprigionato in uno strano incantesimo. // Entra nel castello, invisibile agli occhi del mago, e gira dappertutto, nascosta dall’anello. Incontra Orlando e Sacripante che vagano nel tentativo invano di cercarla in quel palazzo. Vede come, simulando con l’incantesimo la sua immagine, Atlante inganni l’uno e l’altro. Chi di loro due debba prendere come guida valuta molto nei suoi pensieri senza riuscire a decidersi. // Non riesce a valutare chi dei sia il meglio per lei, il conte Orlando o Sacripante. Orlando la potrà con più valore proteggere nei punti più pericolosi del cammino: ma se lo farà sua guida, lo farà anche suo signore; non riesce quindi a vedere come potrà poi togliergli la signoria, non appena, non più utile, vorrà poi sminuirne l’importanza o rimandarlo in Francia. // Al contrario, quando più le piaccia, valuta di potersi liberare facilmente da Sacripante, agendo nel giusto modo. Questa sola ragione fa sì che lei decida di scegliere Sacripante come sua scorta e di mostrare a lui la sua fiducia ed il suo affetto. Angelica si toglie l’anello dalla bocca, e dalla sua faccia levò quindi quel velo che la rendeva invisibile a Sacripante. Pensò di potersi mostrare a lui solo, accadde invece che sia Orlando che Ferraù sopraggiunsero in quel momento. // Giunsero Ferraù ed Orlando, che allo stesso modo avevano girato, sopra e sotto, fuori e dentro, alla ricerca di lei dentro tutto il palazzo, che era la donna da loro amata ed adorata. Corsero tutti insieme verso Angelica, dal momento che nessun incantesimo poteva ora impedirglielo, perché l’anello che la donna si mise alla mano, rese vano ogni tentativo di incantesimo da parte di Atlante. // Avevano addosso la corazza e in testa l’elmo, due (Sacripante ed Orlando) di questi guerrieri le cui gesta io vi canto; non di notte e neanche di giorno, dopo che furono entrati in questo palazzo, se li erano mai levati di dosso. Facili da portare, come fossero un vestito, erano per loro, tanto erano abituati a portarli. Ferraù, il terzo guerriero, era anche lui armato, ma non aveva, e non voleva avere, nessun elmo, // fino a ché non fosse entrato in possesso di quello che il paladino Orlando tolse ad Almonte, fratello del re troiano. Perché ciò aveva giurato allora, quando l’elmo, di buona fattura, di Argalia aveva cercato senza successo nel fiume. Sebbene avesse a portata di mano Orlando, Ferraù non lo assalì. Incrociare fra loro le armi non fu possibile fintanto che furono nel castello. // Era così incantato quel palazzo, che non poterono riconoscersi l’un l’altro. Né di notte né di giorno, né la spada né la corazza e nemmeno solo lo scudo dal braccio si toglievano. I loro cavalli, con la sella sul dorso, con il morso a penzoloni dall’arcione, si rilassavano in una stanza, che in prossimità dell’uscita del castello, era sempre fornita di orzo e di paglia. // Il mago non sa e non può nemmeno evitare che i tre guerrieri rimontino in sella dei loro destrieri per correre dietro alle rosee guancie, alla chioma dorata ed ai begli occhi neri di Angelica, che spinge la sua cavalla alla fuga, perché non gradisce vedere insieme i tre amanti, che forse avrebbe preso come guida, se fossero arrivati separatamente. // E dopo che li ebbe allontanati dal palazzo a sufficienza, da poter non più temere che contro loro l’incantatore malvagio potesse usare le proprie ingannevoli arti magiche; l’anello, che più di una brutta situazione le aveva evitato, chiuse tra le sue rosse labbra, di conseguenza scomparve alla loro vista, e li lasciò istupiditi ed increduli.

Se dovessimo pensare in modo non contenutistico a questo passo, ma “narratologico”, ci troveremo al primo episodio in cui tutti i protagonisti, racchiusi nel labirinto di Atlante, si ritrovano insieme. Cosa fa agire l’autore in questo modo? Il bisogno di raccogliere le fila che egli aveva tessuto ma che, se non le avesse raccolte, avrebbe corso il pericolo di perderle e quindi di farle perdere al lettore; ciò fa sì che egli trovi quest’escamotage per “raccoglierle” e ritrovarle. Ma, a questo punto, l’autore si trova di fronte ad un altro pericolo: quello di “aggrovigliarsi” e creare il caos nella sua storia; affinché ciò non sia possibile è necessario che la narrazione ritrovi il suo “motore”, e tale “motore” sta, come abbiamo visto, nel movimento centripeto, in altre parole, nella fuga di Angelica.

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Sacripante, Orlando e Ferraù all’inseguimento di Angelica

Riprendendo la narrazione ritroviamo i tre cavalieri, stupiti per aver visto scomparire Angelica, che iniziano a litigare. Ferraù dichiara apertamente di ricercare l’elmo del paladino Orlando senza averlo riconosciuto nel cavaliere che ha di fronte. Il cavaliere spagnolo, spavaldo, sostiene anche di avere già incontrato molte volte il conte e di averlo ogni volta messo alle strette, ma non di aver voluto allora prendergli le armi. Acceso d’ira, Orlando rivela la propria identità, si toglie l’elmo e si lancia nel combattimento con lo spagnolo. Il duello è crudele, ma entrambi sono stati resi invulnerabili da un incantesimo. Ferraù può essere ferito solo all’ombelico ed Orlando solo sotto le piante dei piedi, tutto il resto dei loro corpi è più duro del diamante e portavano quindi l’armatura solo per ornamento. Angelica è l’unica testimone del combattimento perché Sacripante, approfittando della situazione, è ripartito a cavallo alla ricerca di lei e quindi per far loro dispetto, ruba l’elmo di Orlando con l’intenzione di tenerlo per poco e restituirlo appena possibile. Orlando e Ferraù si rendono conto della sua sparizione, accusano Sacripante di quel gesto e subito corrono al suo inseguimento. Seguendo tracce diverse, Orlando rifà il percorso di Sacripante e Ferraù invece quello di Angelica. Angelica nel frattempo si era fermata ad una fonte per riposarsi, lasciando incustodito l’elmo. Quando vede giungere Ferraù, riprende subito la fuga e rimette l’anello in bocca per scomparire alla vista del cavaliere. Il pagano vede la donna sparire, la cerca inutilmente ed infine torna alla fonte, dove trova l’elmo tanto desiderato. Torna quindi all’accampamento spagnolo presso Parigi. Angelica è pentita per aver sottratto l’elmo al conte, consegnandolo infine involontariamente allo spagnolo Ferraù. Non è questo ciò che Orlando meritava per quanto aveva fatto per lei, e si lamenta quindi con sé stessa. Precedendo il suo viaggio verso l’oriente, incontrerà infine un giovane ferito mortalmente al petto. Nel frattempo, recuperato un altro elmo senza cimiera, Orlando procede nella propria ricerca di Angelica. Giunge nei pressi di Parigi nel periodo in cui re Agramante è impegnato a cingere d’assedio la città. A tale scopo lo stesso re aveva riunito un enorme gruppo di soldati e si apprestava a organizzarlo. Alzirdo, capitano di una delle schiere di soldati, vede passare un cavaliere dall’aspetto fiero e valoroso, vuole metterlo alla prova e si lancia a cavallo contro il conte; finisce morto con il cuore trafitto. Gli altri soldati, avendo assistito alla scena, circondano l’avversario misterioso ed iniziano a colpirlo in ogni modo. Orlando estrae la propria spada, Durindana, e fa una strage di saraceni, fino a che non vede che sul campo di battaglia non è rimasta nessuna persona viva. Quindi il conte Orlando prosegue il proprio viaggio, incontra una grotta con l’ingresso bloccato ma dalla quale vede uscire una luce intensa. Pensando che al suo interno si trovi prigioniera Angelica, vi entra e trova così al suo interno una giovane e bellissima ragazza, con gli occhi bagnati di lacrime, in compagnia di una vecchia. Orlando le domanda chi sia la persona tanto crudele che le tiene imprigionate in quella caverna.

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Orlando e Isabella

Nel XIII canto sappiamo che si tratta di Isabella, saracena e figlia del re di Galizia (Maricoldo, ucciso da Orlando, ma lei non lo sa). Il padre aveva organizzato una giostra ed erano giunti cavalieri da ogni parte del mondo per sfidarsi, tra i quali Zerbino, figlio del re di Scozia, del quale lei si innamorò subito. Zerbino ricambiando il sentimento e sapendo di non poterla avere in moglie, a causa della loro diversa fede, organizza il suo rapimento. Non potendo compiere l’opera di persona, poiché impegnato nella guerra in Frisia, la fa accompagnare per mare dal suo fedele amico Odorico. Ma una tempesta, costringe loro ad abbandonare la nave e a salire su una scialuppa, insieme a Almonio e Corebo. Raggiungono una spiaggia deserta, e Odorico, acceso d’amore per la ragazza, ha intenzione di possederla; a tal fine, manda Almonio a compiere una missione e confessa tutto a Corebo, ma quest’ultimo, volendo fermare l’amico, rimarrà da lui ucciso. Rimasti ormai soli, Odorico tenta di usare la forza per possedere la donna, ma arriva all’improvviso un gruppo di persone e lui è costretto a fuggire. Isabella non ottiene però aiuto da loro, viene anzi imprigionata in una caverna con l’intenzione di riuscire poi a venderla.

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Orlando esce dalla grotta

Proprio mentre lei termina il racconto, entrano in quel momento nella caverna alcune persone armate, Orlando lancia loro contro una immensa tavola e ne mette fuori gioco buona parte. Lega poi con una fune i rimasti e li appende come cibo per i corvi ad un albero fuori dalla grotta. La vecchia fugge di corsa ed incontra infine un guerriero sulla riva di un fiume. Quindi Orlando si allontana con Isabella ed i due proseguono insieme il viaggio finché non incontrano un cavaliere che stava per essere portato in prigione. Nel frattempo Bradamante, tornata a Marsiglia per difendere la città, non aveva più avuto notizie del suo amato Ruggiero; quando Melissa le fa finalmente visita e la maga le racconta della trappola che il mago Atlante ha ancora una volta teso al cavaliere, le chiede di partire subito per andare a salvarlo. Una volta giunta nel castello vedrà il mago nelle sembianze di Ruggiero per ingannarla, ma lei dovrà ucciderlo senza esitazione per porre fine ad ogni suo incantesimo. Le due donne intanto parlano ancora del valore della stirpe d’Este, attraverso le donne che la rappresentano, che da lei e da Ruggiero avrà origine. Giunte infine nei pressi del castello incantato, Bradamante si separa dalla maga, ma appena vide Ruggiero combattere contro due giganti, si dimentica degli avvertimenti della maga ed anzi pensa che Melissa abbia in odio il cavaliere e lo voglia morto. Il mago Atlante, con le sembianze di Ruggiero, le chiede aiuto e subito parte al galoppo inseguito dai due aggressori. Bradamante insegue l’amato e non esita ad entrare nel castello, cadendo anche lei in trappola.

Canto-405-59.jpgOrlando lascia i corpi accesi come cibo per i corvi

Il canto XIV si apre con i due re che, di fronte alle forti perdite subite da entrambi le parti, stanno assegnando nuovi comandanti alle truppe. Tra i comandanti di reparto c’è anche Brunello, che già aveva tentato di uccidere Brandimarte, da cui si era fatto rubare l’anello incantato.

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Un’altra schiera dell’esercito è guidata invece da Rodomonte, il più forte e coraggioso cavaliere saraceno ed anche il più acerrimo nemico della fede cristiana. Mancano ancora comandanti, e Agramante viene così a sapere che molti cavalieri sono morti per mano di un oscuro cavaliere (Orlando). Mandricardo, valorosissimo e crudele cavaliere saraceno, proprietario dell’armatura che mille anni prima era appartenuta ad Ettore, sentita la storia, si propone subito, senza farne parola, di inseguire le tracce di quel cavaliere per confrontarsi con lui. Cavalcando incontra un giorno sulla riva di un fiume un gruppo di soldati; proteggono Doralice, figlia del re di Granata e sposa di Rodomonte. Il crudele cavaliere vuole mettere alla prova quel gruppo di soldati, chiede di poter vedere la ragazza e li assale.

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Grazia Nidasio: Mandricardo rapisce Doralice (1970)

Mandricardo combatte con una lancia. Aveva infatti trovato solo l’armatura di Ettore, la spada Durindana era stata già presa da Orlando, e non potrà usare nessuna spada finché non riuscirà ad impossessarsi di quella del paladino. Anche con la sola lancia spezzata, il saraceno fa una strage. Alcuni soldati cercano di scappare ma Mandricardo non vuole lasciare superstiti: li insegue e completa la sua opera. Vista la bellezza di Doralice in lacrime, Mandircardo se ne innamora e come premio per la propria vittoria diviene quindi prigioniero d’amore. Prende sul proprio cavallo la donna, saluta benevolmente i servitori di Doralice, dicendo di prendersi ora lui cura di lei, e continua il suo viaggio. Ma non è più interessato a ritrovare il cavaliere misterioso. Infatti il saraceno mente alla donna dicendo di averla sempre amata e di essere arrivato in Europa solo per poterla rivedere. Confortata da tanto amore la sera stessa Mandricardo e Doralice si fermano ad un villaggio e sfogano la passione. Ripartiti il giorno dopo, incontrano poi due cavalieri ed una donna che riposano all’ombra sulla riva di un fiume. Si torna quindi a Parigi, dove re Agramante, prima dell’arrivo dei rinforzi di re Carlo, tenta di espugnare la città e prepara tutto il necessario per l’assalto. I parigini cristiani chiedono aiuto a Dio che domanda all’arcangelo Michele di far giungere Silenzio all’esercito arrivato dall’Inghilterra così da creare nell’esercito saraceno liti accese e ridurne quindi la forza. L’arcangelo, dopo lungo cercare, infine troverà Silenzio e lo porterà a Rinaldo che, grazie a quell’aiuto, raggiunge in un solo giorno Parigi senza essere visto o sentito dagli avversari pagani.

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Inizia l’assalto dei Saraceni, e Rodomonte riesce a passare però lo sbarramento; quindi fa strage di cristiani e libera una delle torri di difesa della città, creando quindi una via facile di accesso per i propri compagni che conquistano così la prima cerchia di mura. Ma i cristiani intanto danno fuoco al letto di rami secchi che avevano posto tra mura e mura, facendo morire bruciati tutti i pagani che si erano avventurati oltre la prima cerchia.

Nel canto XV continua l’aspra battaglia all’interno della città di Parigi. Il duca Astolfo, salvato da Melissa e giunto nel regno di Logistilla, riesce infine a partire per mare per fare ritorno in patria e per proteggerlo durante il viaggio, la maga lo fa accompagnare da una forte scorta armata dal libro contro gli incantesimi ed il corno magico, il cui orrendo suono è in grado di mettere in fuga qualunque avversario.

Prendendo spunto dal viaggio di Astolfo, Ariosto fa una riflessione sulle recenti scoperte geografiche:

LE SCOPERTE GEOGRAFICHE
(XV, 21-24)

Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire
da l’estreme contrade di ponente
nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire
la strada ignota infin al dì presente:
altri volteggiar l’Africa, e seguire
tanto la costa de la negra gente,
che passino quel segno onde ritorno
fa il sole a noi, lasciando il Capricorno;

e ritrovar del lungo tratto il fine,

che questo fa parer dui mar diversi;
e scorrer tutti i liti e le vicine
isole d’Indi, d’Arabi e di Persi:
altri lasciar le destre e le mancine
rive che due per opra Erculea fersi;
e del sole imitando il camin tondo,
ritrovar nuove terre e nuovo mondo.

Veggio la santa croce, e veggio i segni
imperial nel verde lito eretti:
veggio altri a guardia dei battuti legni,
altri all’acquisto del paese eletti:
veggio da dieci cacciar mille, e i regni
di là da l’India ad Aragon suggetti;
e veggio i capitan di Carlo quinto,
dovunque vanno, aver per tutto vinto.

Dio vuol ch’ascosa antiquamente questa
strada sia stata, e ancor gran tempo stia;
né che prima si sappia, che la sesta
e la settima età passata sia:
e serba a farla al tempo manifesta,
che vorrà porre il mondo a monarchia,
sotto il più saggio imperatore e giusto,
che sia stato o sarà mai dopo Augusto.

Ma passando gli anni, io vedo uscire dall’estreme coste occidentali, nuovi navigatori (coraggiosi come gli Argonauti, guidati da Tifi) e mostrarci strade sconosciute fino ai giorni d’oggi: (vedo) alcuni circumnavigare l’Africa seguendo le coste degli uomini neri, fino a passare il tropico del Capricorno, dove torna indietro il sole durante il solstizio d’inverno // e scoprire il termine lungo tutto il tratto (africano), che fa apparire i due mari così diversi, e quindi costeggiare le isole indiane, arabe, persiane: (vedo) altri lasciare le colonne d’Ercole e seguendo il corso del sole, trovare nuove terre e un nuovo mondo. Vedo la santa croce e i santi segnali dell’Impero eretti nel verde suolo; altri ne vedo di guardia alle stanche navi, altri ancora intenti alla conquista del nuovo paese; vedo dieci (cavalieri) cacciare mille uomini, ed i regni al di là dell’India diventare soggetti a quello d’Aragona, e vedo i capitani di Carlo V, dovunque essi vadano, diventare vincitori. // Dio vuol tenere nascosta questa strada e vuole che lo sia ancora per molto tempo lo sia, né che si sappia prima di sei o sette secoli, e si riserva di renderla palese, quando vorrà porre il mondo in una monarchia, sotto il più saggio e giusto imperatore che ci sia stato o che mai ci sarà dopo Augusto.  

E’ evidente che qui Ariosto adotti la tecnica già messa bene in evidenza in Dante della profezia post eventum. Ma non deve sembrare strano che tale profezia non sia “direttamente” rivolta verso la casa d’Este: sembra infatti un passo “encomiastico” indiretto, visti gli ottimi rapporti che, nel momento in cui l’autore ferrarese li scriveva, esistevano fra i duchi di Ferrara e Carlo V rapporti eccellenti.

Giunti allo stretto di Bahrein, Astolfo approda e prosegue il proprio viaggio sulla terra. Cavalcando lungo il Nilo sul suo cavallo incontra un vecchio eremita su di una imbarcazione, che gli consiglia, se ha cara la vita, di continuare il viaggio sull’altra riva del fiume, così da non incontrare il gigante Caligorante che è solito catturare le persone con una rete che egli tiene nascosta, divorarle ed adornare con le loro pelli la propria dimora. Astolfo, con estremo onore e coraggio, prosegue invece oltre alla ricerca del gigante. Quest’ultimo, visto arrivare Astolfo, pensa di prendere il cavaliere alle spalle, ma il duca però ferma subito il cavallo e suona il corno magico, facendo cadere il gigante nella rete. Catturato Caligorante, dapprima lo lega, poi lo libera dalla rete divina e se lo porta dietro come trofeo.

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Gustave Doré: Astolfo porta in trofeo il gigante Caligorante

Ancora un’altra avventura per Astolfo, infatti viene a sapere che alla foce del Nilo vive un ladrone, di nome Orrilo, che il cavaliere vuole andare a vedere. Arrivato sul posto, il duca assiste al combattimento tra quella persona incantata ed due nipoti di Orlando, Grifone e Aquilante. Qualunque ferita o mutilazione venga inflitta al ladrone, lui si ricompone e riprende normalmente il combattimento. Assistono alla scena anche due donne, le due fate che avevano nutrito i due, quando erano giovani, che dopo averli sottratti alla loro madre, li avevano spinti a confrontarsi in duello con Orrilo. Astolfo viene a sapere che l’unico modo per rendere Orrilo vulnerabile è di strappargli di testa un capello fatato. Quindi, il giorno dopo, durante il combattimento, il duca decapita l’avversario e rade completamente la testa di Orrilo. Subito la testa perde vita, così come ogni altra parte del corpo del ladrone. I due giovani ora si possono unire ad Astolfo per combattere contro i saraceni. Uno dei due giovani, Grifone, viene a sapere che Orrilige, la donna da lui amata (tanto bella quanto crudele), ha abbandonato Constantinopoli, dove lui l’aveva lasciata, per seguire un suo nuovo amante. Il ragazzo pensa quindi di raggiungere l’amata per riprendersela.

Arnold Böcklin, Astolfo che fugge con la testa di Orrillo, 1874.jpgArnold Böcklin, Astolfo che fugge con la testa di Orrillo, 1874

Nel canto XVI Grifone incontra Orrilige, donna crudele ed infedele, a Damasco in compagnia di un cavaliere, altrettanto ingiusto; i due si stanno dirigendo in città per partecipare ad una giostra. Orrilige finge che il cavaliere sia suo fratello, e così Grifone entra in città in compagnia della donna e del nuovo amante di lei.

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Il canto XVI in una miniatura

Nel frattempo, a Parigi, infuria la guerra: Rodomonte giunge nella cerchia interna di mura della città di Parigi, fa strage del popolo inerme; uccide senza alcuna pietà vecchi e bambini e infine dà fuoco a tutte le abitazioni e le percuote così da farle crollare. Rinaldo, giunto infine a Parigi con i rinforzi inglesi, li incita a difendere la città; suona la carica e assale le schiere saracene all’improvviso. Il rumore della guerra è assordante. Il cielo viene oscurato dalla polvere sollevata dagli eserciti, dall’alito dei soldati e dal vapore rilasciato dal loro sudore. La terra si tinge di rosso ed è coperta di cadaveri. L’esercito pagano subisce grosse perdite, molti scappano, ed inizia a perdere terreno. Re Agramante abbandona l’assedio e manda parte dell’esercito a difendere l’accampamento contro gli Irlandesi. Questi cavalieri, visto il numero immenso di soldati che li assale, scappano lasciando indietro il cavaliere Zerbino, senza più cavallo. Rinaldo blocca la fuga degli scozzesi, giunge in soccorso di Zerbino e conquista con le armi spazio sufficiente per consentirgli di salire su un nuovo destriero. Zerbino si lancia subito al combattimento contro la schiera di re Agramante. Rinaldo lancia al galoppo Baiardo contro re Agramante stesso, lo colpisce e lo butta a terra insieme al cavallo. Intanto, re Carlo viene informato della distruzione e della strage che sta compiendo un solo uomo nell’altra parte della città; infatti si accorge delle fiamme che avvolgono parte della città e dei pianti e delle grida che da lì giungono; raccoglie intorno a sé i più valorosi cavalieri e si dirige contro il nemico saraceno.

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Miniatura per il XVII canto

Nel XVII re Carlo vede che la maggior parte del popolo si è barricata nel palazzo reale e dalle sue mura esterne butta pezzi di tetto e di colonne su Rodomonte, che a colpi di spada sta per aprirsi un passaggio nel portone principale. Re Carlo, insieme ai paladini ed ai cavalieri al suo seguito si lancia contro il saraceno. Tornando a parlare di Grifone, il cavaliere entra nella bellissima e ricchissima città di Damasco in compagnia della donna e del nuovo amante di lei. Un cavaliere li ferma lungo la via e li accoglie nel proprio palazzo, invitandoli alla giostra organizzata dal re Norandino. Quest’ultimo era stato per lungo tempo innamorato di Lucina, figlia del re di Cipro. Dopo averla finalmente sposata, al ritorno in patria la loro nave era stata colta da una tempesta, e dopo tre giorni in mare erano infine giunti su una spiaggia. Mentre il re è intento nella caccia per procurare del cibo, il resto dell’equipaggio viene assalito da un orco. Il mostro è cieco ma compensa la mancanza con un infallibile fiuto e così riesce a catturarne molti; poi porta i rimanenti nella propria tana e li rinchiude in una caverna, dove prima si trovava il suo gregge. L’orco va quindi a fare pascolare gli animali. Tornato dalla caccia, il re si accorge di quanto successo. Quelli che si sono salvati sulla nave gli raccontano l’accaduto e lui decide subito di andare a caccia dell’orco per riprendersi Lucina. Raggiunta la tana del mostro, la moglie dell’orco gli dice che non deve temere per la vita di Lucina, perché il mostro è solito mangiare solo uomini, le donne vengono invece rinchiuse in quella grotta in cui si trova lei stessa insieme a tante altre. Consiglia a Norandino di andarsene, ma il desiderio del re di ritrovare l’amata è tanto grande da non farlo muovere da lì, e quindi la donna lo aiuta, ungendogli il corpo con del grasso animale, in modo da coprire completamente il suo odore. Mettendosi inoltre la pelle di un caprone si mescola al gregge riportato alla tana dal mostro e riesce quindi a rivedere Lucina. Norandino spiega agli altri come travestirsi e scappare.

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Giovanni Lanfranco: Oroco, Norandino e Lucina, 1621

Il mattino dopo l’orco apre la grotta ed insieme al gregge escono anche Norandino e tutti gli altri. Eccetto Lucina perché il mostro riconosce che non si tratta di un vero caprone e la ricaccia nella grotta. La sera l’orco, ritornato alla grotta, si accorge della fuga di tutti i sui prigionieri e punisce Lucina incatenandola nuda sulla cima dello scoglio. Arriveranno i re Mandricardo e Gradasso che la libereranno; la giostra è quindi in memoria della salvezza ottenuta dopo quattro mesi passati nella grotta dell’orco. Quindi Grifone, Orrilige e Martano (nome dell’amante della donna) si recano al torneo. Sarà vincitore chi riuscirà a sconfiggere tutti e otto i cavalieri scelti dal Norandino tra i più valorosi e più fedeli suoi servitori. Entra dapprima Martano, ma per viltà fugge deriso da tutti gli spettatori. Quindi tocca a Grifone che si lancia al combattimento e sconfigge tutti e otto i cavalieri. Norandino elegge Grifone vincitore. Irato con Martano, ma convinto da Orrilige i tre lasciano la città, ma a Grifone, addormentato, gli viene rubata l’armatura. Martano, con l’armatura del vincitore, si presenta dal re, ma Grifone si rende conto dell’inganno. Prende le armi, l’armatura ed il cavallo lasciati dal vile cavaliere e si mette subito in viaggio per abbandonare la città. Dall’alto di un castello il re riconosce però il cavaliere tanto deriso il giorno prima e Grifone, nascosto dall’armatura di Martano viene fatto prigioniero. Lasciato finalmente libero all’ingresso della città, Grifone si mostra pronto a vendicarsi dell’umiliazione e combattere nuovamente per il proprio onore.

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Miniatura che introduce il canto XVIII

Quindi il XVIII libro si apre con Grifone, acceso d’ira per il disonore subito, che fa strage degli abitanti di Damasco. Si torna immediatamente a Parigi, dove re Carlo si lancia contro Rodomonte insieme al suo seguito di paladini e cavalieri. Ma la corazza del pagano, costruita con scaglie di drago, resiste a qualsiasi colpo e Rodomonte non subisce alcuna fatica. Accortosi però che, pur uccidendone molti, nuovi avversari si accalcano intorno a lui, Rodomonte si apre una via a colpi di spada e lascia infine la città buttandosi nel fiume. Ma quando esce dall’acqua, dispiaciuto per non aver distrutto la città, sta per tornare indietro, quando Discordia lo informa che la propria donna è stata rapita da Mandricardo. Allora il feroce saraceno decide subito di partire alla ricerca della donna. Intanto a Parigi, allontanato Rodomonte dalla città, re Carlo esce dalle mura e assale la retroguardia dell’esercito saraceno, che si trova tra due fuochi, essendo l’altro fronte battuto dai cavalieri cristiani Lucarnio, Zerbino e soprattutto Rinaldo. Ma Ferraù e Dardinello incitano i compagni saraceni alla battaglia; Dardinello uccide Lucarnio, ma sarà Rinaldo a vendicarlo. Si torna a Damasco dove re Norandino, visto il valore di quel cavaliere che su consiglio di Orrilige e Martano aveva esposto alla pubblica umiliazione, si accorge dell’errore commesso e chiede quindi scusa a Grifone e placa così l’ira del cristiano (sfinito dal combattimento ed anche ferito in più punti). Il cavaliere viene quindi accolto nel palazzo reale. Astolfo e Aquilante, che sono alla ricerca di Grifone, vengono infine anche loro a sapere che Orrilige, la donna da lui amata, ha abbandonato Constantinopoli, dove lui l’aveva lasciata, per seguire il suo nuovo amante Martano. Aquilante parte subito per l’Antiochia, quindi per Damasco e sulla sua via incontra infine Martano con le armi, l’armatura ed il cavallo dal fratello Grifone. Aquilante temendo per la vita del fratello, minaccia i due di morte se non gli raccontano subito l’accaduto. Martano credendo di ridurre le proprie colpe, dice di essere il fratello della donna e di aver sottratto con l’astuzia armi. Il cavaliere cristiano sa però che i due sono amanti e non fratelli, li lega entrambi e li trascina quindi con sé fino a Damasco. Nella città tutti hanno saputo da Grifone il vero corso degli avvenimenti e quindi i due malvagi vengono rinchiusi in prigione. Re Norandino per ripagare ulteriormente Grifone del torto subito fa bandire un’altra giostra in suo onore; la notizia del torneo si sparge ovunque, fino in Palestina. Sansonetto e Zerbino, saputo del torneo, partono a cavallo per raggiungere Damasco. Incontrano durante il viaggio Marfisa, una donna tanto valorosa in combattimento da aver fatto faticare gli stessi Orlando e Rinaldo; si unisce a loro per mostrare il proprio valore partecipando alla giostra organizzata da re Norandino. Il premio è costituito da un destriero e da altre armi (convinto della vittoria di Grifone, Norandino voleva donargli il completo da cavaliere) che vengono messe in bella mostra insieme all’armatura già vinta da Grifone. Marfisa riconosce nell’armatura esposta quella che, per poter inseguire Brunello, le era stata rubata. La donna si impossessa subito di ciò che era stato suo ed inizia una feroce battaglia. Marfisa si apre con la spada un via di fuga tra l’ira dei cittadini, ma dopo essersi riconosciuti, Marfisa spiega loro, e poi anche al re Norandino, la ragione del suo gesto. Tornata quindi la pace e terminata la giostra tutti e cinque i cavalieri partono infine via mare per la Francia. La loro nave verrà però sorpresa da una tempesta poco dopo aver lasciato l’isola di Cipro. Nella battaglia tra saraceni e cristiani Rinaldo lancia il proprio cavallo Baiardo contro Dardinello. Tutti i soldati saraceni rimangono impietriti dalla paura vedendo con quanta ferocia il paladino, la cui spada era molto temuta, si scagli contro Dardinello, che rimane ucciso poco dopo. Quel giorno, infatti, viene fatta strage dell’esercito saraceno e solo la ritirata lo salva dal suo completo annientamento. L’esercito cristiano, guidato da Re Carlo, si accampa all’esterno dell’insediamento avversario. Tra i molti arabi che piangono amici o parenti morti quel giorno, ci sono Cloridano e Medoro, senza pari per bellezza in tutto l’esercito pagano, che piangono la morte dell’amato Dardinello.

CLORIDANO E MEDORO
(XVIII, 165-192)

Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
ed or passato in Francia il mar con quello.

Cloridan, cacciator tutta sua vita,

di robusta persona era ed isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.

Erano questi duo sopra i ripari

con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanze pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ’l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.

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Medoro con il corpo del suo re

Volto al cornpagno, disse: «O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.

Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sì bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra.»

Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.

Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: «E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto.»

Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.

Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
«Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ’l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada.»

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Gustave Doré: Medoro che trascina il corpo di Dardanello

Cloridano e Medoro s’inoltrano dunque nell’accampamento cristiano, immerso nel silenzio e nel sonno, e fanno strage dei nemici, fino a giungere a ridosso del padiglione di Carlo, circondato e protetto dai paladini.

Gl’insidiosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l’empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’abbia a trovar un che non dorma.

E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove più creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade ed archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.

Quivi dei corpi l’orrida mistura,

che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:

«O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi.»

La luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano,

Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.

Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.

Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l’amata soma che gl’ingombra.
E già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traea nei primi albori.

E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
«Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto.»

E gittò il carco, perché si pensava
che ’l suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che ’l suo signor più amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non ch’una morte.

Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s’abbino o a morire,
chi qua chi là si spargono, ed han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
più degli altri è sollicito a seguire;
ch’in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.

Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s’intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d’averla i duo pagan sì amica,
ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

Lì insieme agli altri si trovarono anche due arabi, nati nella Tolometta, di sconosciuta stirpe, la storia dei quali, come raro esempio di vero amore, è degna di essere raccontata. Cloridano e Medoro erano i loro nomi, sia nella buona che nella cattiva sorte avevano sempre avuto a cuore Dardinello, ed avevano quindi poi attraverso con lui il mare per giungere in Francia. // Cloridano, cacciatore da quando era nato, era una persona forte e snella: Medoro aveva le guancie colorite, bianche e leggiadre della prima giovinezza; e tra le persone accorse dall’Africa per partecipare a quella impresa non vi era viso più bello ed allegro: aveva occhi neri, e capelli riccioli color oro: sembra un angelo, Serafino, appartenente alla gerarchia più elevata. // Si trovavano entrambi sopra le fortificazioni, insieme a molti altri, a difesa degli alloggiamenti, quando la notte, a metà del suo corso, guardava ormai il cielo con occhi sonnolenti. Medoro, tra tutti gli argomenti di discussione non può fare a meno di ricordare il proprio signore, Dardinello figlio di Almonte, e non riesce a non piangere per il fatto che resti senza degna sepoltura sul campo di battaglia. // Rivolto al compagno disse quindi: «Oh Cloridano, io non riesco ad esprimere quanto mi dispiaccia della sorte capitata al mio signore, rimasto abbandonato sul terreno, per i lupi ed i corvi, ahimè, cibo troppo nobile. Pensando a quanto è stato sempre buono nei miei confronti, mi sembra che se anche dovessi morire per salvare l’onore della sua buona reputazione, non potrei compensare né sciogliere gli immensi obblighi che ho nei suoi confronti. // Io voglio andare a cercarlo, affinché non rimanga insepolto in mezzo alla campagna: e forse Dio vorrà aiutarmi, tenendomi nascosto mentre procedo attraverso l’accampamento, immerso nel sonno, di re Carlo. Tu invece rimarrai qui: perché se in cielo è scritto che io debba morire durante tale impresa, potrai tu comunque raccontarla: così che, se la Fortuna non permetterà una così bella opera, il mio buon cuore possa essere reso noto almeno a voce». Cloridano si stupisce che così tanto cuore, tanto amore, tanta fedeltà, possa avere un ragazzo: cerca quindi in ogni modo, intenerito da lui, di rendere quel suo pensiero vano, incompiuto; ma non ci riesce, perché un così grande dolore non può ricevere conforto né subire distrazione. Medoro aveva deciso o di morire o di seppellire in una degna tomba il suo signore. // Visto che non riesce né a piegare né a smuovere la sua volontà, Cloridano gli risponde: «Verrò allora anche io con te, anche io voglio intraprendere una tanto lodevole prova, anche io desidero ed amo una morte tanto gloriosa. Quale cosa potrà mai giovarmi di più, se io dovessi restare senza di te, mio caro Medoro? Morire con le armi insieme a te è molto meglio che farlo per il dolore, se dovesse accadere che tu mi sia tolto, tu muoia». Così decisi, misero al loro posto su quel bastione le guardie del turno successivo, e se ne andarono. Superano fossati e trincee, e dopo poco sono tra i soldati cristiani, che non mostrano nessuna preoccupazione. Tutto l’accampamento dorme, tutti i fuochi sono spenti, perché hanno poca paura dei saraceni. Stanno rovesciati tra le armi ed i carri, ubriachi, immersi in un sonno profondo. Cloridano si fermò un poco e disse: «Le occasioni, quando si presentano, non sono mai da lasciare. Di questo esercito, che ha trafitto ed ucciso il mio signore, non devo fare, Medoro, strage? Tu, affinché nessuno ci giunga addosso, poni orecchie ed occhi da ogni parte; che io mi offro di farti con la mia spada una spaziosa via di passaggio tra i nemici».
(…)
Le minacciose spade di Cloridano e Medoro erano ormai vicine ai padiglioni che i paladini avevano allestito tutt’intorno al padiglione principale di re Carlo, così da poter fare ognuno, a turno, la guardia; a quel punto i saraceni ritirarono le loro spade dal compiere la crudele strage, e tornarono quindi indietro in tempo; perché a loro sembra impossibile, in mezzo a così tanta gente, non tro-vare infine uno che in realtà non dorma. // E sebbene possano anche andarsene carichi di bottino, pensino piuttosto salvare se stessi, perché sarebbe un grande guadagno. Cloridano procede dove crede di avere il più sicuro passaggio, dietro sé ha il proprio compagno. Giungono sul campo di battaglia, dove tra spade ed archi e scudi e lance, in una pozza rossa sangue, giacciono morti poveri e ricchi, re e semplici vassalli, ed i cavalli sottosopra con i loro cavalieri. // Quell’orribile ammasso intricato di corpi, che riempiva in ogni luogo tutta la vasta campagna, avrebbe potuto vanificare il fedele proposito di ritrovare Dardinello, dei due compagni, fino alla mattina del giorno seguente, se la Luna non avesse tratto fuori da una scura nube, come da preghiere di Medoro, la sua falce luminosa. Medoro con devozione fissò in cielo, verso la luna, i propri occhi, e così si pronunciò: // «Oh santa Dea, che dai nostri antenati sei stata giustamente detta triforme (Dea di cielo, terra ed inferno); che nel cielo, sulla terra e nel profondo inferno mostri la tua suprema bellezza sotto più forme, e nelle selve, animali selvaggi e mostri vai cacciando, nelle vesti di Diana, seguendone le orme; indicami il punto dove giace in mezzo a tanti altri il mio re, che da vivo si dedicò all’attività sacra a te consacrata, la caccia. // A quelle preghiere la Luna aprì la scura nube che la nascondeva (fosse stato un puro caso o altrimenti la tanta fede mostrata da Medoro), e si mostrò bella come lo fu quando offrì sé stessa, e si abbandonò nuda tra le braccia di Endimione. A quella luce Parigì venne scoperta, resa visibile, insieme ad entrambi gli accampamenti; furono visibili il monte e la pianura: si videro i due colli lontani, Montmartre sulla destra e Montlhery sulla sinistra. // Lo splendore della Luna fu più vivo laddove giaceva morto il corpo di Dardinello, figlio di Almonte. Medoro andò, piangendo, nei pressi del suo caro signore: del quale riconobbe l’insegna a riquadri bianchi e rossi: e gli bagnò tutto il viso con le lacrime del suo doloroso pianto, che gli rigava il viso, come un fiume, sotto entrambi gli occhi, con così dolci gesta, con così dolci lamenti, che ad ascoltarlo avrebbe potuto fermare i venti per la compassione. // Ma si lamenta con una voce bassa ed a malapena udibile; non perché si guardi bene dall’essere udito, avendo preoccupazione per la salvezza della sua propria vita, al contrario, infatti, la odia e vorrebbe abbandonarla: lo fa per la paura che gli possa essere impedito il compimento di quella opera pia che la ha fatto andare fino a quel luogo. Il corpo morto del loro re fu sollevato sulle spalle di entrambi, così da dividere il peso tra di loro. // Procedono quindi affrettando quanto possono i loro passi, sotto il caro peso che li ostruisce. Già sopraggiungeva il sole, signore della luce, a togliere le stelle dal cielo, e l’ombra dalla terra; quando Zerbino, al quale libera il petto dal sonno, nel momento del bisogno, la suprema virtù che possiede, avendo dato la caccia tutta la notte ai nemici, ritorna, con le prime luci del giorno, all’accampamento. // E con sé aveva al seguito un buon numero di cavalieri, che da lontano videro subito i due compagni, Medoro e Cloridano. Ognuno dei cavalieri si dirigeva da quella parte, verso di loro, sperando di poter trovare un bottino ed un guadagno. Disse Cloridano: «Fratello, bisogna gettare il peso che portiamo e darsi alla fuga; sarebbe al contrario un’idea non troppo astuta perdere due persone vive per salvarne una morta». // E gettò quindi il carico, pensando che il suo caro Medoro dovesse fare altrettanto: ma quel meschino, che amava il suo signore più di sé stesso, tenne invece tutto il peso sopra le proprie spalle. Cloridano di tutta fretta si mise in fuga, come se avesse avuto l’amico o al fianco od almeno dietro di sé: se si fosse reso conto di averlo abbandonato a quella sorta, avrebbe atteso senza alcuna cura non una morte, ma mille. // Quei cavalieri, con l’animo risoluto che i due si debbano arrendere o altrimenti morire, chi da una parte e chi dall’altra, si sparpagliano, e subito bloccano ogni possibile via di fuga. Poco lontano da loro, il loro capitano si lancia all’inseguimento anche più velocemente degli altri; poiché vedendoli così agire spinti dalla paura, è certo che entrambi appartengano all’esercito nemico. // C’era a quel tempo lì vicino una antica selva, fitta di piante ombrose e di giovani arbusti, che, alla pari di un labirinto, al suo interno si avvolge su stretti sentieri frequentati solo da bestie. I due pagani sperano possa essere tanto loro amica da riuscire a tenerli nascosti tra i suoi rami intricati. Ma chi trova piacere dal mio raccontare, e vuole saperne di più, dovrà aspettare ancora prima di poterlo nuovamente ascoltare.

Il canto seguente, il XIX, dopo una piccola introduzione sulla fedeltà (su cui Ariosto, con un sorriso, sembra alludere a se stesso riguardo al suo “padrone”), riprende la storia di Cloridano e Medoro:

LA MORTE DI CLORIDANO
(XIX, 3-16)

Cercando già nel più intricato calle
il giovine infelice di salvarsi;
ma il grave peso ch’avea su le spalle,
gli facea uscir tutti i partiti scarsi.
Non conosce il paese, e la via falle,
e torna fra le spine a invilupparsi.
Lungi da lui tratto al sicuro s’era
l’altro, ch’avea la spalla più leggiera.

Cloridan s’è ridutto ove non sente

di chi segue lo strepito e il rumore:
ma quando da Medor si vede absente,
gli pare aver lasciato a dietro il core.
«Deh, come fui – dicea – sì negligente,
deh, come fui sì di me stesso fuore,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né sappia quando o dove io ti lasciassi!»

Così dicendo, ne la torta via
de l’intricata selva si ricaccia;
ed onde era venuto si ravvia,
e torna di sua morte in su la traccia.
Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
e la nimica voce che minaccia:
all’ultimo ode il suo Medoro, e vede
che tra molti a cavallo è solo a piede.
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Medoro in mezzo ai soldati irlandesi

Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
Zerbin commanda e grida che sia preso.
L’infelice s’aggira com’un torno,
e quanto può si tien da lor difeso,
or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
né si discosta mai dal caro peso.
L’ha riposato al fin su l’erba, quando
regger nol puote, e gli va intorno errando:

come orsa, che l’alpestre cacciatore
ne la pietrosa tana assalita abbia,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietà e di rabbia:
ira la ’nvita e natural furore
a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia;
amor la ’ntenerisce, e la ritira
a riguardare ai figli in mezzo l’ira.

Cloridan, che non sa come l’aiuti,
e ch’esser vuole a morir seco ancora,
ma non ch’in morte prima il viver muti,
che via non truovi ove più d’un ne mora;
mette su l’arco un de’ suoi strali acuti,
e nascoso con quel sì ben lavora,
che fora ad uno Scotto le cervella,
e senza vita il fa cader di sella.

Volgonsi tutti gli altri a quella banda
ond’era uscito il calamo omicida.
Intanto un altro il Saracin ne manda,

perché ’l secondo a lato al primo uccida;
che mentre in fretta a questo e a quel domanda
chi tirato abbia l’arco, e forte grida,
lo strale arriva e gli passa la gola,
e gli taglia pel mezzo la parola.

Or Zerbin, ch’era il capitano loro,
non poté a questo aver più pazienza.
Con ira e con furor venne a Medoro,
dicendo: «Ne farai tu penitenza».
Stese la mano in quella chioma d’oro,
e strascinollo a sé con violenza:
ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gli ne venne pietade, e non l’uccise.

Il giovinetto si rivolse a’ prieghi,
e disse: «Cavallier, per lo tuo Dio,
non esser sì crudel, che tu mi nieghi
ch’io sepelisca il corpo del re mio.
Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi,
né pensi che di vita abbi disio:
ho tanta di mia vita, e non più, cura,
quanta ch’al mio signor dia sepultura.

E se pur pascer vòi fiere ed augelli,
che ’n te il furor sia del teban Creonte,
fa lor convito di miei membri, e quelli
sepelir lascia del figliuol d’Almonte».
Così dicea Medor con modi belli,
e con parole atte a voltare un monte;
e sì commosso già Zerbino avea,
che d’amor tutto e di pietade ardea.

In questo mezzo un cavallier villano,
avendo al suo signor poco rispetto,
ferì con una lancia sopra mano
al supplicante il delicato petto.
Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano;
tanto più, che del colpo il giovinetto
vide cader sì sbigottito e smorto,
che ’n tutto giudicò che fosse morto.

E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che disse: «Invendicato già non fia!»
e pien di mal talento si rivolse
al cavallier che fe’ l’impresa ria:

ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
dinanzi in un momento, e fuggì via.
Cloridan, che Medor vede per terra,
salta del bosco a discoperta guerra.

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Immagine di un’edizione illustrata dell’Orlando Furioso

E getta l’arco, e tutto pien di rabbia
tra gli nimici il ferro intorno gira,
più per morir, che per pensier ch’egli abbia

di far vendetta che pareggi l’ira.
Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra tante spade, e al fin venir si mira;
e tolto che si sente ogni potere,
si lascia a canto al suo Medor cadere.

Seguon gli Scotti ove la guida loro
per l’alta selva alto disdegno mena,
poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro,
l’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena.
Giacque gran pezzo il giovine Medoro,
spicciando il sangue da sì larga vena,
che di sua vita al fin saria venuto,
se non sopravenia chi gli diè aiuto.

Il giovane infelice andava allora cercando nei sentieri più intricati di salvarsi; ma il pesante carico che aveva sulle spalle, rendeva vani tutti i suoi tentativi. Non conosce quei luoghi, e sbaglia la via, tornando ad avvolgersi nei rovi. Lontano da lui si era invece messo al sicuro Cloridano, avendo la spalla più leggera, senza pesi da sostenere. // Cloridano si è rifugiato in un luogo dal quale non può sentire il rumore egli schiamazzi di chi è al suo inseguimento: ma quando si accorge che Medoro non è più con lui, gli sembra di avere lasciato indietro il proprio cuore. Diceva a sé stesso: «Come sono stato tanto negligente, come ho perso il controllo di me stesso, che mi sono trovato ad essere senza di te, Medoro, qui, senza neppure sapere quando e dove ti ho lasciato!» // Così dicendo, si ributta nell’attorcigliato sentiero di quell’intricata selva; riavviandosi verso il punto da dove era venuto, e torna sulle tracce che condurranno alla sua morte. Sente continuamente il rumore dei cavalli, le urla dei cavalieri, ed i nemici che pronunciano minacce: infine sente il suo Medoro, e lo vede, tra molti altri a cavallo, unico a piedi. // Ce ne sono cento a cavallo e sono tutti intorno a lui: Zerbino comanda i cavalieri e grida loro l’ordine di catturarlo. L’infelice Medoro si aggira come un tornio, e quanto può cerca di difendersi da loro, ora dietro una quercia, ora un olmo, ora un faggio ed ora un ornello, senza mai separarsi dal caro peso che porta sulle spalle. Alla fine lo posa nuovamente sull’erba, quando non può più reggerne il peso, e gli gira intorno, vagando senza meta: // come un orsa, che il cacciatore di montagna abbia sorpreso nella sua tana di pietra, si pone con animo combattuto sopra i propri figli, e si agita con frastuono tra l’amore per i cuccioli e la ferocia per il cacciatore: spinta dall’ira e dal suo furore innato a tirar fuori le unghie ed a voler insanguinare le labbra; l’amore la intenerisce e la fa indietreggiare, nel mezzo dell’ira, per guardare con attenzione ai propri figli. // Cloridano, che non sa come poter essere d’aiuto a Medoro, e che vuole essere al suo fianco anche nella morte, ma non vuole che il suo vivere sia trasformato in morte  prima di aver trovato il modo di uccidere più di un nemico: pone nell’arco una delle sue frecce acuminate, e, rimanendo nascosto, fa con quell’arma un lavoro tanto buono, che trapassa le cervella ad un nemico Scozzese, e lo fa quindi cadere morto da cavallo. // Tutti gli altri volgono lo sguardo da quella parte dalla quale era arrivato il dardo omicida. Il saraceno intanto ne lancia un altro, per uccidere un secondo nemico, quello a lato del primo caduto morto; e mentre costui in tutta fretta domanda in giro chi abbia tirato con l’arco, gridando forte, arriva la freccia e gli trapassa la gola, e la parola gli interrompe a metà. // Ora Zerbino, che era il loro capitano, non poté a quel punto avere più pazienza. Con ira e con furore si avvicinò a Medoro, dicendo: «Ne pagherai tu le conseguenze». Allungò la mano afferrando la sua bionda chioma e lo trascinò a sé con violenza: ma non appena pose i propri occhi su quel bel volto, non poté fare a meno di provare pietà per lui, e non lo uccise. // Il giovane ragazzo ricorse alle preghiere, e disse: «Cavaliere, in nome del tuo Dio, non essere tanto crudele da impedire che io possa dare degna sepoltura al corpo del mio re. Non voglio che nessun altra pietà nei miei confronti pieghi la tua volontà, né voglio che tu possa pensare che abbia solo il desiderio di poter vivere: ho tanta cura della mia vita, niente di più, quanta ne basta per poter dare sepoltura al mio signore. // E se vuoi invece nutrire fiere ed uccelli, lasciando il corpo insepolto, perché vi è in te la collera del tebano Creonte, che impedì la sepoltura dei nemici morti, fa banchettare loro con le mie membra, e quelle del figliolo di Almonte lascia invece che vengano seppellite». Così pronunciò Medoro con belle maniere, e con parole adatte a smuovere anche una montagna; ed aveva talmente commosso Zerbino, che costui ormai ardeva tutto d’amore e di pietà. // Ma nel frattempo, un cavaliere maleducato, dimostrando poco rispetto nei confronti del suo signore, con una lancia impugnata al di sopra della spalla, ferì il petto delicato del supplicante Medoro. L’atto crudele e barbaro non piacque a Zerbino; tanto più che, per il colpo ricevuto, vide cadere il giovane ragazzo tanto smorto e con espressione tanto impaurita, che credette fosse morto. // E si indignò per l’atto e se ne addolorò in tale misura, che disse: «Non rimarrà ora senza vendetta!» e pieno di sdegno si rivolse al cavaliere che aveva compiuto quell’atto malvagio: ma costui agì d’anticipo, gli si tolse da davanti in un attimo e fuggì via. Cloridano, che vede ora Medoro giacere in terra, salta fuori dal bosco per combattere allo scoperto. // Getta l’arco, e tutto pieno di rabbia agita la propria spada in mezzo ai nemici, più per trovare anch’esso la morte, che con l’intenzione di ottenere una qualche vendetta che possa compensare la sua ira. Vede la sabbia divenire rossa del proprio sangue, tra tante spade nemiche, e si vede ormai in fin di vita; vedendosi tolta ogni forza, si lascia quindi cadere accanto al suo Medoro. // Gli scozzesi proseguono dove il loro comandante Zerbino per la profonda selva, viene condotto dal suo nobile sdegno, dopo che ha lasciato sul campo l’uno e l’altro moro, uno completamente morto e l’altro con molta poca vita. Giaceva in terra già da molto tempo il giovane Medoro, perdendo sangue dalla tanto profonda ferita, che la sua vita, alla fine, avrebbe perduto, se non fosse sopraggiunto chi poi gli diede aiuto.

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I corpi distesi di Cloridano, Medoro e Dardanello mentre i soldati vanno via

E’ un passo fondamentale, quello di Cloridano e Medoro, perché troviamo in esso, per la prima volta nel poema, l’unitarietà “contenutistica” se non proprio tonale (infatti in esso troviamo più stili: tragico, ironico, idillico). Tale scelta sembra dipendere da una maggiore attenzione che il nostro sembra assumere nei confronti dei modelli: Eurialo e Niso dall’Eneide virgiliano e il meno famoso episodio di Opleo e Dimante dalla Tebaide di Stazio (anch’esso ispirato al noto passo dell’autore modenese): tuttavia vi sono alcune differenze: i primi appartenevano all’esercito di Enea, invece questi due sono saraceni, appartenenti all’esercito nemico; se nel poema virgiliano i giovani sono mossi da un medesimo intento (avvisare Enea che Turno ha cominciato ad assediare il loro campo), pur mostrando un’identico andamento, in Ariosto Medoro è spinto dall’amore verso il loro re, Cloridano dall’affetto che nutre verso il giovane ragazzo, ma  in ambedue i poemi i due compagni addurranno la stessa motivazione, non lasciare da soli i loro amici). Simile ancora al modello latino il desiderio per una morte gloriosa: pulchram properet per volnera mortem (affrettare la bella morte nel sangue).  Ariosto, quindi, proprio grazie al modello innalza il linguaggio e i riferimenti alle opere greche e latine (si veda il “matrimonio della luna con Endimione”, “Creonte che lascia insepolti i nemici”) ma non per questo abbandona completamente l’ironia  si veda nell’episodio omesso della strage l’immagine di un uomo ubriaco, ironico già dal nome Grillo, che ucciso emette sangue con il vino come fosse una botte oppure dalla sottile osservazione secondo cui è difficilmente credibile che Cloridano non si accorga della mancanza di Medoro, quando quest’ultimo, per il peso del corpo del re, rimane indietro; ma l’utilizzo anche di uno stile elegiaco quando, rivolto alla luna, essa risponde splendendo sul piano al illuminare il corpo dell’amato re ed il pianto silenzioso affinché possa compiere il suo “cortese” gesto.  Interessante è inoltre il mescolamento dei piani: l’attribuzione della cavalleria ai saraceni e della villania ai cristiani che si esemplifica nella sepoltura del re Dardinello e nella villania del cavaliere scozzese verso Medoro. Un’ultima cosa, infine: abbiamo sempre detto che dietro la fantasia ariostesca si nasconda sempre la verità: l’episodio di Cloridano e Medoro vuole “additare” il concetto di fedeltà ai cortigiani “apparentemente” legati al Signore, ma solo spinti dalla loro arroganza e vanità.

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Giovan Battista Tiepolo: Angelica, Medoro e il pastore

Riprendendo la narrazione vediamo che a salvare Medoro sarà Angelica, vestita di panni umili ma con il solito aspetto regale, che giunge per caso là dove si trova il corpo del saraceno ferito. L’orgoglio della ragazza che le fa ritenere che nessuno sia all’altezza della sua compagnia fa sì che Amore, non potendo più tollerare questo suo comportamento, aspetti Angelica vicino al giovane, colpendola con una freccia e facendola sua prigioniera. Angelica cura la ferita di Medoro e convince un pastore, in-contrato lì vicino, ad aiutarli, dando loro ospitalità, ma prima bisogna dar sepoltura a Dardinello ed a Cloridano. Quanto più il giovane guarisce, tanto più Angelica, ferita da Amore, s’innamora di lui. I due sfogano infine la loro passione e Medoro ottiene così da Angelica ciò che nessun altro cavaliere era mai riuscito ad ottenere. Nella casa del pastore, per rendere legittima la loro unione, i due amanti si sposano. Passano più di un mese ad amoreggiare in ogni luogo e in ogni luogo lasciano la loro traccia. Angelica decide infine di ripartire con Medoro per fare ritorno in India e paga l’ospitalità del pastore donandogli il bracciale prezioso che aveva ricevuto da Orlando come pegno del suo amore. Mentre sono in viaggio, per poco non subiranno danni da un uomo completamente folle (Orlando) incontrato su una spiaggia.

c19-065.jpgLe femmine omicide

Nel frattempo i compagni, allontanatisi da Damasco, giungono sulle coste della città di Alessandretta, dove vivono femmine crudeli ed omicide, che uccidono o fanno prigioniero ogni uomo che giunga presso la loro terra e non riesca a superare una prova di valore: sconfiggere in combattimento dieci uomini e soddisfare a letto altrettante donne. Se vi riesce, allora avrà salva la vita ma dovrà comunque sposare dieci donne. Mentre decidono cosa fare, vengono fatti prigionieri: ad attenderli c’è Orontea, che espone le loro condizioni. I cavalieri accettano la sfida e vengono quindi condotti a terra. I cinque cavalieri estraggono a sorte la persona che dovrà sostenere entrambe le prove. Viene estratta Marfisa che viene quindi condotta nell’arena dove troverà i dieci cavalieri suoi avversari. Nove cavalieri si avventano subito su Marfisa, il decimo invece rimane in disparte, per non mancare di rispetto alle regole cavalleresche.

Fabrizio Clerici, Giostra sull'isola delle femmine omicide, litografia, 1967 →.jpgFabrizio Clerici, Giostra sull’isola delle femmine omicide (1967)

Marfisa infila tre avversari in un solo colpo servendosi della sua grossa lancia e, utilizzando la spada, fa poi strage degli altri sei. L’ultimo cavaliere giunge nel momento in cui il combattimento si può svolgere alla pari. Giunge però infine la notte ed il confronto viene sospeso. Il cavaliere misterioso si rivelerà un ragazzo di appena diciotto anni, che a sua volta si stupirà nel sapere che Marfisa è una donna.

Nel XX canto veniamo a sapere che il ragazzo è Guidon Selvaggio, di cui si scopre essere fratello di Rinaldo e cugino del duca Astolfo. Egli racconta la storia di Alessandretta: quando dopo dieci anni di assedio ed altrettanti anni di mare, i Greci lasciarono Troia per tornare in patria, trovarono le loro case piene di figli avuti dalle loro donne con nuovi giovani amanti. Non volendo mantenere figli non loro, i mariti mandarono i giovani a cercarsi fortuna altrove. Uno di questi venne assoldato dai Cretesi, insieme agli altri giovani del suo seguito per stare a guardia di Dictea. Le donne della città subito si innamorarono dei giovani greci, che diventarono loro amanti. Quindi, terminato l’incarico, i giovani ripartirono e le donne decisero di seguirli. Giungono così sulla spiaggia dove sorge ora Alessandretta. Ma i giovani greci abbandonarono in seguito le donne e ripartono per la Puglia, dove fondarono Taranto. Le donne, per vendicarsi del torto subito, decidisero quindi di assaltare ogni nave costretta a raggiungere il loro porto e di uccidere tutto l’equipaggio. Ma ciò le avrebbe portate all’estinzione: selezionarono perciò un piccolo gruppo ristretto di uomini come loro sposi. In seguito le crudeli regole di quella società iniziarono man mano ad essere meno dure fino ad arrivare a quella legge che anche i cinque cavalieri sono ora costretti a rispettare. Il giovane e tutti i cavalieri vorrebbero por fine alla crudele legge di Alessandretta: Marfisa propone al giovane di combattere fianco a fianco per fare un strage e distruggere la città. Il giovane propone invece di inviare la sua più fedele moglie, Aleria, a fare allestire una nave per la loro fuga e di fuggire quindi tutti insieme di nascosto. Tale decisione viene accettata da tutti. La nave viene allestita, ma i sei cavalieri, per raggiungere il porto, devono passare dalla piazza principale dove le donne della città si erano già riunite intorno all’arena per vedere la fine del combattimento. Capita la loro l’intenzione si muovono tutte per fermare la fuga, ma Astolfo, con il suo corno magico, le mette in fuga.

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Immagine da un’edizione spagnola dell’Orlando Furioso in cui si illustra
Astolfo con il corno (1872)

Raggiungono fortunatamente il porto e salgono in fretta sulla nave, che subito prende il largo. Purtroppo Astolfo arriva sulla spiaggia quando la nave è già partita; non potrà pertanto fare altro che proseguire il viaggio per terra. Quattro cavalieri, tutti uniti, troveranno dimora nel castello di Pinabello di Maganza, che li farà suoi prigionieri approfittando del loro sonno. Marfisa, invece, proseguirà da sola il proprio viaggio ed incontrerà sul suo cammino una donna anziana, Gabrina, quella scappata dalla caverna dove Orlando aveva liberato Isabella. Marfisa prende la vecchia con sé ed incontra poi Pinabello insieme alla sua amata, crudele come il conte. Quest’ultima, vedendo Gabrina, la deride e Marfisa, per punirla, sfida Pinabello, lo sconfigge, e fa indossare alla vecchia tutti i vestiti e gli ornamenti della donna. Procedendo oltre, le due donne incontrano anche Zerbino. Anche il paladino non si può trattenere dal deridere Gabrina, la cui bruttezza veniva ulteriormente esaltata da tutti gli ornamenti che ora portava. I due cavalieri si sfidano: chi perde dovrà per sempre tenere la vecchia con sé. Zerbino viene disarcionato e quindi riparte in compagnia della vecchia. Gabrina, sebbene Zerbino non abbia detto nulla né di sé ne dell’amore per Isabella, capisce subito che il paladino è quel cavaliere del quale aveva tanto sentito parlare dalla ragazza. Zerbino dopo aver pregato ed anche minacciato invano la vecchia per sapere il luogo dove Isabella si trova, non può fare altro che ripartire in sua compagnia e condurla, come promesso a Marfisa, ovunque lei voglia. Incontreranno alla fine un cavaliere.

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Zerbino incontra Ermione

Nel XXI sapremo che il cavaliere è Ermonide d’Olanda, al quale la vecchia aveva ucciso il padre ed anche l’unico fratello. Subito sfida Zerbino per vendicarsi di Gabrina, ma nello scontro il cavaliere olandese viene trafitto ad una spalla e cade a terra. Ermonide racconta quindi la propria storia, spiegando perché avesse tanto in odio quella vecchia. Il fratello, di nome Filandro, era stato accolto nel palazzo di un barone di nome Argeo, la cui moglie era appunto Gabrina. La donna iniziò a desiderare il fratello di Ermonide, ottenendone in risposta solo rifiuti. Rimasti soli nel palazzo, i continui tentativi della donna spinsero il giovane ad abbandonarsi. Gabrina racconta al marito di essere stata posseduta con la forza da Filandro che è poi scappato per paura. Argeo le crede, corre a vendicarsi, lo ferisce e lo fa prigioniero. Nonostante sia in prigione la donna continua a provocarlo. Filandro le risponde sempre con un rifiuto, ma un giorno, dopo che per sette mesi Gabrina non gli aveva più fatto visita, Argeo, d’accordo con la moglie, fa finta di partire per Gerusalemme così da poter sorprendere intorno al proprio castello il barone Morando, tanto odiato da Argeo ed amante di Gabrina.

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Zerbino colpisce ad una spalla Ermonide d’Olanda

L’astuta donna corre da Filandro chiedendogli di intervenire per salvare il suo onore e quello del marito, proteggendola dal barone, così agendo potrà realmente dimostrare la propria fedeltà verso Argeo. Filandro quindi aspetta, nascosto nella camera di lei, che giunga Morando, ma la donna lo porta invece nella stanza del marito che trova così la morte. Gabrina, svelato l’inganno a Filandro, è alla fine costretto a sottomettersi al volere di lei, per fare poi ritorno in Olanda insieme alla donna. Tornato in patria, si ammala gravemente per tutta l’ira che aveva indosso. Gabrina, trasformato l’amore in odio, si mette d’accordo con un medico per avvelenare il giovane. Nel momento di somministrare il veleno, viene però meno all’accordo per non avere testimoni, e lo fa bere anche al medico. L’uomo prima di morire riesce però a raccontare ai presenti l’inganno organizzato da Garbina e la donna viene subito incarcerata. Ermonide d’Olanda non riesce purtroppo a proseguire il suo racconto; perché gli mancano le forze. Zerbino si scusa per il danno arrecato, ed infine i due, ripartono a cavallo e verso sera sentiranno i rumori di una battaglia.

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Dopo una breve carrellata sulla guerra, il canto XXII si apre con Astolfo, a cui gli viene rubato il cavallo Rabicano. Corre all’inseguimento del ladro, raggiunge infine il castello di Atlante e vi entra seguendo il furfante. Accortosi di essere prigioniero di un luogo incantato, Astolfo fa ricorso al libro contro gli incantesimi e viene a sapere che per rendere vana la magia è necessario liberare un spirito rinchiuso sotto la soglia del castello. Atlante, si accorge del tentativo del cavaliere di rimuovere la pietra e liberare lo spirito, e quindi, con un incantesimo, lo fa apparire agli occhi degli altri suoi prigionieri nella forma di un mostro. Tutti i cavalieri prigionieri del castello di Atlante si avvicinano minacciosi al duca, che però si difende prontamente soffiando nel corno magico. Tutti fuggono terrorizzati dalla prigione incantata, compresi i cavalli e compreso anche lo stesso mago. Astolfo riesce a fermare la fuga di Rabicano, rientrandone in possesso, ma ritrova anche l’ippogrifo e, intenzionato ad impossessarsi del cavallo alato, decide di trovare qualcuno che sia disposto a seguirlo portando con sé Rabicano, così da condurlo in una città e poterlo dare in dono ad un suo amico. Rimane sul posto aspettando che passi qualcuno e vede infine arrivare un cavaliere. Nel frattempo, finalmente liberi, Bradamante e Ruggiero possono ora abbracciarsi e baciarsi. Lei invita il cavaliere a battezzarsi e a chiederla in sposa al padre; Ruggiero risponde di essere disposto a qualunque cosa per lei, e così i due amanti si dirigono dove poter fare battezzare il pagano.

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Bradamante e Ruggiero incontrano una donna

Incontrano però sulla loro via una donna dal volto triste che dice loro che un ragazzo sarebbe stato ucciso quel giorno, perché, innamorato della figlia del re spagnolo Marsilio, incontrandola ogni notte, era stato scoperto. Bradamante, colpita da quella notizia, chiede di essere condotta all’interno delle mura, ma la donna dice loro su quella via si trova il castello di Pinabello che ha da poco istituito una legge, per vendicarsi dell’offesa recatagli quando la sua amante aveva deriso la vecchia Gabrina. Aquilante, Grifone, Sansonetto e Guidon Selvaggio, fatti prigionieri, riavranno la libertà facendo rispettare quella ingiusta legge per un anno ed un mese. Giunti alle porte del castello di Pinabello, avviene la sfida tra Ruggiero e Sansonetto, vinto dal primo grazie anche allo scudo magico; Pinabello si avvicina in quel momento a Bradamante per chiedere chi fosse il valoroso cavaliere suo compagno, ma la donna lo riconosce e sguaina così la spada. Lui fugge nella foresta ma è subito inseguito da lei. Intanto, sconfitto Sansonetto, dal castello escono gli altri tre cavalieri, che, secondo le regole e con vergogna, combatteranno ora tutti insieme contro Ruggiero. Durante uno scontro, il cristiano viene disarcionato e con la propria lancia strappa il velo che ricopre lo scudo magico; viene così liberato il grande splendore in grado di fare cadere tutti svenuti, e così succede anche in quel caso. Accortosi dell’accaduto, Ruggiero ricopre lo scudo con un altro velo, prende con sé la donna, ora tramortita, che li aveva guidati lì e riparte lungo la via. Bradamante nel frattempo ha raggiunto ed ucciso il conte Pinabello.

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La morte di Pinabello

La donna non è riuscita però a ritrovare la strada per ritornare là dove aveva lasciato l’amante; vagherà pertanto a lungo nel bosco.

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Con il canto XXIII ci troviamo nel centro del poema (e non casualmente). Bradamante, dopo aver ucciso Pinabello si accorge di non sapere più tornare dove ha lasciato Ruggiero. Alla sua ricerca, vaga in un bosco, fin quando il giorno dopo raggiunge il palazzo nel quale era stata tenuta prigioniera, per incantesimo, insieme ad altri cavalieri, ed incontra suo cugino Astolfo. Il paladino è ben contento di incontrare Bradamante, la miglior persona alla quale affidare Rabicano. Quindi le consegna il proprio destriero, l’armatura, e la lancia incantata, chiedendole il piacere di portarle a Montalbano affinché lui possa muoversi leggero nell’aria a cavallo dell’ippogrifo. Aiutata da un campagnolo, la donna riprende quindi il proprio viaggio con l’intenzione di ritrovare prima Ruggiero, e solo dopo fare ritorno a Montalbano, dove aveva la madre ed alcuni suoi fratelli ad aspettarla. Vagando per il bosco, si ritrova però subito nella sua città. Cerca di allontanarsi ma incontra suo fratello Alardo, che la conduce dalla madre e gli altri suoi fratelli. Bradamante allora invia Ippalca, alla ricerca di Ruggiero e per informarlo degli avvenimenti e chiedergli quindi di procedere nel battesimo per poi raggiungerla a Montalbano, affidandole anche Frontino, il cavallo di Ruggiero. Ma Ippalca incontra sulla propria via Rodomonte, il quale, non esita a rapire il destriero di Ruggero, vi sale in groppa e si rimette in viaggio.

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Ippalca si imbatte in Rodomonte

Rodomonte chiede ad Ippalca di fare il suo nome a Ruggiero e di dirgli che se lo rivuole indietro potrà trovarlo facilmente seguendo le chiare tracce del suo passaggio. Nel frattempo Zerbino, seguito da Gabrina, trova il cadavere di Pinabello e mentre il cavaliere cerca invano di trovare il colpevole dell’omicidio, la vecchia sottrae al morto tutto ciò che di valore riesce a nascondersi addosso, tra cui un cintura. I due, ripartiti, giungono presso al palazzo del padre di Pinabello che aveva promesso un ricco premio a chi riuscisse a indicargli l’assassino del figlio, e la vecchia Gabrina subito approfitta dell’occasione per indicare in Zerbino l’omicida e, per essere meglio creduta, mostra anche al conte la cintura sottratta al cadavere. Zerbino viene subito fatto prigioniero e condannato ad essere squartato là dove Pinabello era stato ucciso. Giunge per fortuna sul posto il paladino Orlando in compagnia della bella Isabella. Il cavaliere, lasciata la compagna su di un monte, si avvicina al condannato a morte chiedendo spiegazioni. Zerbino gli racconta la sua storia e convince così bene Orlando della propria innocenza che subito il paladino decide di aiutarlo. Orlando si lancia in combattimento e fa una strage uccidendo senza pietà tutti quelli che riesce a raggiungere. Zerbino, riavuta la libertà ed indossate nuovamente le proprie armi, si accorge della presenza dell’amata Isabella e arde pertanto d’amore, ma teme di non essere più ricambiato. Giunti presso una fonte, Zerbino si toglie infine l’elmo e viene riconosciuto da Isabella, che corre ad abbracciarlo. Un rumore giunto dal bosco pone fine ai ringraziamenti dei due amanti verso Orlando ed i tre vedono arrivare a cavallo Mandricardo e Doralice. Il crudele pagano era alla ricerca di quel cristiano che aveva fatto una strage di guerrieri saraceni presso Parigi, per potersi confrontare con lui; riconosciutolo quindi nel cavaliere che si trova in quel momento di fronte, Orlando appunto, lo sfida subito a duello. Le lance vengono subito ridotte in pezzi nei primi scontri e gli sfidanti, non avendo altre armi, non possono fare altro che cercare di avere la meglio con i pugni e nel combattimento corpo a corpo. Il cavallo di Mandricardo rimasto senza le briglie, tolte da Orlando, parte subito al galoppo, portandosi dietro il proprio padrone. Terminerà la propria corsa cadendo in un fosso. Doralice, corsa dietro alla propria guida, offre al guerriero le briglie del proprio cavallo. Mandricardo si impossessa invece di quelle del cavallo guidato da Gabrina, giunta lì per caso. Orlando, non vedendo ricomparire l’avversario, decide di andare alla ricerca di Mandricardo e si separa così dai due amanti, chiedendo però prima loro, dovessero mai incontrare il guerriero pagano, di dirgli che potrà trovare il paladino in quei boschi per altri tre giorni, prima che faccia poi ritorno a Parigi. Dopo aver girato invano per due giorni, il conte Orlando giunge infine nei luoghi dove Angelica e Medoro sfogarono la loro passione amorosa.

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Gustave Doré: La pazzia d’Orlando

LA PAZZIA D’ORLANDO
(XXIII, 100-136)

Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.

Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.

Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.

Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

Poi dice: «Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette».
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.

Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:

“Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:

e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia”.

Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.

Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.

In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.

Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.

Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.

Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:

come esso a prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:

e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.

Questa conclusion fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.

In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.

Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:

«Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ’l dolore e la vita all’ore estreme.Orlando-07.jpgCarlo Jacopo: Orlando pazzo

Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?

Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza».

Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.

Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.

Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.

Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.

In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:

e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.

I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.

Arnold Böcklin, Orlando furioso, 1885,.jpg

Arnold Böcklin, Orlando furioso (1885)

L’imprevedibile percorso che prese il cavallo di Mandricardo per il bosco privo di sentieri fa sì che Orlando vaghi per due giorni a vuoto, né lo trova, né ne ha traccia. Arriva a un ruscello che sembra cristallo, sulle cui sponde fiorisce un bel prato dipinto dei colori della natura, e variamente ornato da molti bei cespugli. // La calda ora del mezzogiorno rende gradita l’ombra agli animali e al pastore nudo; così che neppure Orlando ha alcuna esitazione, pur avendo la corazza, l’elmo e lo scudo. Qui Orlando entra per riposare in mezzo ai cespugli e vi trova una dimora angosciosa, funesta più di quanto si possa dire, in quell’infelice e sfortunato giorno. // Girando intorno vede incisi con scritte molti alberelli sulla riva dell’ombroso fiume. Non appena ha gli occhi fermi e fissi con maggior attenzione fu sicuro che sono stati scritti dalla dea del suo cuore. Questo era uno di quei luoghi già descritti, dove spesso Medoro veniva dalla vicina casa del pastore con la bella Angelica. // Vede Angelica e Medoro in diversi modi, intrecciarti insieme ed in diversi luoghi. Tante sono le lettere, tanti sono i chiodi con i quali Cupido gli ferisce e punge il cuore. Va a cercare in mille modi con il pensiero di non credere quello a cui, suo malgrado, crede: si sforza di credere che sia un’altra Angelica ad aver scritto il suo nome sul quella corteccia. // Poi dice: «Io conosco la grafia di queste lettere: ne ho viste e ne ho lette tante. Potrebbe essersi inventata questo Medoro: forse mi ha dato questo soprannome». Con tali vane opinioni, continuò ad assillare se stesso, ponendo il suo malcontento nella speranza che seppe procurare a se stesso. // Ma più si riaccende e si rinnova il crudele sospetto più cerca di dimenticarlo: come il disattento uccello che finisce in una ragnatela o sui rami invischiati, quanto più batte le ali e più prova a liberarsi, più si lega stretto. Orlando giunge dove si incurva la montagna come un arco (formando una grotta) sulla fonte cristallina. // Avevano ornato l’ingresso (di quella grotta) edere e viti rampicanti con i loro fusti contorti. Nei giorni più caldi, qui erano soliti stare abbracciati i due felici amanti. C’erano i loro nomi dentro ed intorno (alla grotta) più che nei luoghi circostanti, scritti alcuni con il carbone ed altri con gesso e altri erano impressi con punte di coltelli. // Qui scese il triste cavaliere; e vide sull’entrata della grotta tante parole, che erano state scritte dalla mano di Medoro, e sembravano esser state scritte proprio in quel momento. Per esprimere il grande piacere che provò (con Angelica) nella grotta, aveva composto questa iscrizione in versi. Io penso che fosse poeticamente elaborata in arabo (lingua di Medoro), ed era tale il senso nella nostra lingua: “Liete piante, verdi erbe, limpide acque, grotta gradevole per la fresca ombra, dove la bella Angelica nacque di Galafron, è stata amata vanamente da molti, spesso nelle mie braccia giacque nuda; dei piaceri che qui mi sono stati dati, io povero Medoro non posso ricompensarvi in altro modo, se non lodandovi in ogni momento: // e di pregare ogni signore che vi ha amato, e cavalieri e damigelle ed ogni persona, del posto o forestiere, che capiti qui intenzionalmente o per caso; che all’erba, all’ombra, all’ingresso (delle grotta), al fiume e alle piante dica: che sole e luna vi siano favorevoli, e vi protegga il coro delle ninfe dai danni che potrebbero recare le greggi condotte lì da qualche pastore”. // Era scritto in arabo, che il cavaliere capisce bene come il latino: tra molte lingue che sa, il paladino sapeva benissimo quella; e gli ha fatto evitare più volte danni e scontri, quando si è trovato tra il popolo saraceno: si rallegri, se altre volte tale conoscenza gli è stata propizia; perché ora gli arreca un danno tale da cancellare tutti i vantaggi ottenuti. // Legge tre, quattro, sei volte la triste poesia l’infelice, ed anche cercando invano (d’immaginare) che non ci sia ciò che vi è scritto; ma gli risulta sempre più chiaro e facile da comprendere: ed ogni volta (che legge) si sente in mezzo al petto afflitto stringere il cuore con mano gelida. Rimane lì con gli occhi e con il pensiero rivolti al sasso, impietrito. // E’ allora che inizia ad impazzire, così che in preda si abbandona completamente al dolore. Credete a chi lo ha provato su se stesso, che questa, d’amore, è la sofferenza che fa passare tutte le altre. Gli cade il mento sopra il petto, la fronte, priva di rughe, era bassa; non può avere (che il dolore l’occupa tanto) voce per lamentarsi o lacrime per piangere. // Rimane dentro l’impetuoso dolore, che voleva uscire con troppa fretta. Così vediamo restare l’acqua nel vaso, che abbia il ventre largo e la bocca stretta; cosicché, capovolgendo il vaso, il liquido che vorrebbe uscire, tanto velocemente si riversa, e si ingorga nella stretta apertura, uscendo così goccia a goccia, a fatica. // Poi ritorna abbastanza in sé, e pensa se la cosa potrebbe essere non vera: che qualcuno voglia così infamare il nome della sua donna, e crede e spera e brama, oppure (che qualcuno voglia) gravarlo di un così insopportabile peso di gelosia, da farlo morire; e abbia, chiunque sia stato, imitato molto bene la sua calligrafia (di Angelica). // Con una così debole speranza, gli si rianimarono gli spiriti vitali; quindi salì in groppa al suo Brigliadoro quando il sole stava già lasciando il posto a sua sorella luna (tramonto). Non va molto avanti, che dagli alti comignoli dei tetti vede uscire del fumo, sente cani abbaiare e una mandria muggire: va fino alla villa e prende posto. // Languido smonta (da cavallo), e lascia Brigliadoro a un abile garzone perché ne abbia cura: si fa disarmare da uno, gli speroni d’oro un altro gli leva, e si fa lucidare l’armatura da un altro ancora. E’ questa la casa dove Medoro visse quando è stato ferito, e dove ha avuto grande fortuna. Orlando chiede solo da dormire e niente per cena, è sazio di dolore e non di altro cibo. // Quanto più cerca di trovare tranquillità, tanto più prova travaglio e dolore; vede piena della odiata poesia (quella scritta da Medoro) ogni parete ogni finestra, ogni porta. Vorrebbe chiedere a riguardo ma poi tiene le labbra ferme, perché teme di rendere troppo evidente, troppo chiara la cosa che cerca di dimenticare, per provare meno dolore. // Ingannare se stesso non gli giova; perché senza domandare c’è chi ne parla. Il pastore, che lo vede così oppresso dalla sua tristezza, e vorrebbe alleviarla, inizia a raccontargli la storia che conosceva bene; raccontava spesso dei due amanti a chi voleva ascoltare una storia molto dilettevole, e così, senza rispetto, comincia a raccontare // come egli, pregato dalla bella Angelica, aveva portato in casa sua Medoro, ferito gravemente; e che lei curò la ferita ed in pochi giorni la guarì: ma lei, con una piaga ancora maggiore di quella, è stata colpita nel cuore da Amore; e da una piccola scintilla si è accesa tanto di un fuoco così cocente, che la faceva ardere tutta, e non trovava pace: // e senza aver riguardo che Angelica fosse figlia del più grande re che abbia mai avuto l’oriente, sospinta da un grandissimo amore fu portata a sposare Medoro, umile soldato. La conclusione della storia è che il pastore mostra ad Orlando il gioiello, che al momento della partenza, come ricompensa della buona ospitalità, gli ha dato Angelica. // Questa conclusione è stata la scure che gli ha tolto la testa dal collo in un colpo solo, una volta che delle innumerevoli bastonate si è saziato il carnefice Amore. Orlando si sforza di nascondere il dolore; e tuttavia quello è talmente violento che difficilmente lo può tenere nascosto: attraverso le lacrime degli occhi ed i sospiri della bocca è inevitabile che esploda. // Dopo che poté dar libero sfogo al dolore (perché resta solo senza doversi preoccupare di nessun altro), dagli occhi, rigando le guance sparge un fiume di lacrime sul petto: sospira e piange, e cammina, girandosi spesso, di qua e di là esplorando il letto: e più duro che un sasso, e più pungente dell’ortica se lo sente. Intanto gli viene in mente l’atroce dubbio che nello stesso letto in cui egli giace, doveva essersi più volte venuta a coricare insieme al suo amante l’ingrata donna. Inevitabilmente ha in odio quel letto, né si alza dal letto meno velocemente del contadino che si leva dall’erba su cui si era steso per riposarsi, per aver visto vicino a sé un serpente. // Quel letto, quella casa, quel pastore immediatamente gli viene in tanto odio, che senza aspettare che sorga la luna o che l’alba, che precede il nuovo giorno, nasca, prende le armi e il destriero, ed esce fuori in mezzo al bosco, dove è più fitto e scuro l’intrico di rami; e poi quando si accorge di essere solo (che nessuno lo segue), con grida e urla apre le porte al dolore. // Non smette mai di gridare e di urlare; non si dà mai pace né la notte né il giorno seguente. Fugge da città e da borghi, e nei luoghi inabitati sul terreno duro, all’aperto, giace. Si meraviglia che nella propria testa ci possa essere una sorgente così inesauribile di pianto, e come i sospiri possano essere mai così tanti; e spesso si dice nel pianto: // “Queste non sono più lacrime, che fuoriescono dagli occhi con flusso così abbondante. Non bastano le lacrime al dolore: finiscono quando il dolore si è manifestato solo per metà. Dal dolore della gelosia ora lo spirito fugge attraverso quella via a cui gli occhi conducono; ed e’ quello che ne esce ora, quello che porterà via con sé insieme il dolore e la vita sul punto di morte. // Questi, che manifestano il mio tormento, non sono sospiri, né i sospiri sono così. I sospiri ogni tanto si interrompono; io non sento mai il mio petto ridurre il sospirare per la pena. L’amore che mi arde il cuore crea questi sospiri mentre agita attorno al fuoco le proprie ali. Amore, con quale miracolo riesci a tenere il cuore nel fuoco senza mai consumarlo? // Non sono io, non sono io quello che sembro in volto: quello che era Orlando è morto e sotterrato; la sua ingrata donna l’ha ucciso: si, mancandogli di fedeltà gli ha fatto la guerra. Io sono il suo spirito dal suo corpo diviso, che vaga tormentandosi in questo inferno, in modo che con il proprio fantasma, che è tutto quello che gli resta, ammonisca con l’esempio colui che affida la sua speranza nell’Amore”. // Tutta la notte il conte vaga per il bosco; ed al sorgere del sole il suo destino lo riporta vicino al fiume dove Medoro ha inciso l’iscrizione. Vedere le parole che testimoniavano il suo disonore incise nel monte, che lo ha acceso, così che in lui non è restato nulla che non sia odio, rabbia, ira o furia; non resiste più e sguaina la spada. // Taglia l’incisione e il sasso, e fino al cielo fa volare le piccole schegge. Infelice sia ogni grotta e ogni tronco in cui si leggono i nomi di Medoro ed Angelica! Sono state così ridotte (le piante) quel giorno, che né ombra né refrigerio daranno più al pastore né al suo gregge: e il fiume, così chiaro e puro, non è stato al riparo da un ira così grande; // poiché Orlando non ha smesso di gettare nelle belle onde i rami, i tronchi, i sassi e le zolle di terra, fino a che dalla superficie fino al fondo, le ha rese torbide così tanto che non saranno mai più così limpide e pure. E alla fine, stanco e sudato, dal momento che la forza fisica, esaurita, non è più in grado di servire allo sdegno, al pesante odio e all’ardente ira, si abbandona sul prato e sospira al cielo. // Afflitto e stanco cade infine nell’erba e fissa gli occhi al cielo senza dire parola alcuna. Rimane così, senza mangiare e senza dormire per tre giorni. Il suo dolore non smette di crescere, finché non l’ha fatto impazzire. Il quarto giorno, sconvolto dalla pazzia violenta, si toglie di dosso tutta l’armatura. // Qui resta l’elmo e là resta lo scudo, lontano gli arnesi (corredo dell’armatura), e più lontano ancora la corazza: tutte le sue armi, concludendo, ognuna ha una diversa collocazione per il bosco. E poi si squarcia i vestiti, e rimangono nudi il peloso addome e la schiena; e inizia la grande pazzia, così orrenda, che nessuno sentirà mai parlare di una (follia) più orrenda di questa. // Gli scaturisce così tanta rabbia e così tanto furore che tutte le sue facoltà sensitive furono alterate. Non gli è passato per la testa di prendere la spada, che tante incredibili avventure aveva passato, credo. Ma tanto né quella, né una scure, né una scure sono necessarie alla sua immensa forza. Qui fa davvero alcune tra le sue imprese più straordinarie, sradica un grande pino con un solo scrollone: // e ne abbatte, dopo il primo, molti altri ancora come se siano state piante dal fusto tenero; e sia la stessa cosa con querce, vecchi olmi, faggi e abeti. Come un uccellatore che per ripulire il campo, dove mette le reti, estirpa le erbacce, i ramoscelli e le ortiche, Orlando fa con le querce e con le altre piante secolari del bosco. // I pastori che hanno sentito il gran chiasso, lasciando il gregge sparso per la foresta, da ogni luogo, di corsa vanno a vedere che cosa sia quel rumore. Ma sono giunto a quel punto che se lo oltrepasso, la mia storia vi potrebbe essere dannosa; e io la voglio rinviare ad un altro canto prima che vi possa infastidire per la sua lunghezza.

DVmmHJwWsAA42yf-1.jpgGiovanni Boulanger, Orlando impazzito per amore (1652)

E’ questo il passo più importante dell’intero poema se si pensa che esso è posto esattamente al centro, come punto focale, e dà il titolo all’intera opera. Il motivo per cui esso è fondamentale nella visione ariostesca del mondo è che Orlando trascende dall’essere personaggio e, attraverso l’estremo dolore, concepisce la realtà umana del limite raggiungibile per una modesta, ma veritiera felicità. Osservandolo più da vicino, infatti, possiamo dividerlo in più sequenze secondo un vero e proprio percorso che conduce Orlando e con lui l’uomo alla pazzia.

  • Il destino incontra Orlando: smarrimento del cavaliere e della scoperta delle scritte tra Angelica e Medoro;
  • Negazione dell’evidenza: (non è Angelica, Medoro è il soprannome con cui lei lo indica). Spiegamento dei meccanismi difensivi;
  • Dolore represso e ultima illusione: di fronte alla grotta il dolore è troppo vasto per essere contenuto; un’ultima illusione s’impone per salvarsi (qualcuno imita la grafia di Angelica);
  • Secondo incontro di Orlando col destino: casa del pastore, laddove cerca requie trova soltanto tormento. A concludere l’episodio chiave, lo svelamento della verità attraverso il bracciale;
  • Disperazione: piange come un fiume, non può dormire;
  • Furia distruttrice uno: vaga tutta la notte, finché incontrerà i luoghi rivelatori dell’amore di Angelica e Medoro, distruggendoli;
  • Furia distruttrice due: abdicherà al suo ruolo di cavaliere dismettendo l’armatura e vivendo come un animale (Angelica sulla spiaggia non lo riconoscerà).

Il percorso di Orlando racchiude, come già detto, l’intera ideologia del poema, trasformando l’eroe cavalleresco in uomo rinascimentale (da ciò l’incredibile successo dell’opera sin dal suo primo apparire). Infatti si racchiude in lui l’idea della vanità della ricerca, che, se posta al di là dei limiti umani, non potrà che essere vana, illusoria appunto, e condurre di conseguenza l’uomo alla follia. Riconoscere pertanto la peculiarità dell’uomo e dei possibili suoi raggiungimenti diventa un obbiettivo, proprio perché guidato da una ratio che sa riconoscersi e riconoscere, di conseguenza, la realtà che sta attorno. Il percorso è infatti strutturato secondo uno scivolamento verso l’abiezione in cui la “bugia”, qualunque sia il suo mascheramento, porta all’insania, all’animalità. Tuttavia soltanto attraverso essa si può raggiungere la piena consapevolezza di sé e quindi vivere in quell’aurea mediocritas, già da lui descritta nelle Satire.

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Riprendiamo la narrazione dal XXIV canto in cui il pazzo Orlando fa strage di uomini e di animali. Tutti fuggono, essendo lui invulnerabile per incantesimo e l’Orlando furioso vagherà per tutta la Francia, saccheggiando paesi e annientando ogni essere vivente, fino a giungere un giorno presso un ponte. Nel frattempo Zerbino e di Isabella, i due amanti, dopo essersi separati da Orlando, incontrano sulla loro via Odorico, che aveva tentato (come abbiamo letto nel canto XIII) di possedere con la forza Isabella. Egli è condotto a cavallo come prigioniero da Almonio, il cavaliere che gli si era opposto ed era stato da lui ferito, e Corebo, che era stato allontanato con una scusa. Almonio racconta al suo signore gli avvenimenti successivi al rapimento di Isabella. Tornato alla spiaggia con i cavalli richiesti, Almonio aveva ritrovato solo il compagno ferito ed era stato informato su quanto successo. Una volta guarito Corebo, i due si erano messi alla ricerca del cavaliere infedele e l’avevano trovato presso il re Alfonso d’Aragona. Almone sfida in duello Odorico, lo sconfigge e su concessione del re lo incatena con l’intenzione di consegnarlo appunto a Zerbino. Odorico conferma le parole di accusa, ma il suo avversario era stato tanto superiore che alla fine era stato costretto a cedere. Zerbino decide quindi di graziarlo, sapendo che è stato vittima d’amore. Giunge in quel momento tra loro anche il cavallo con in groppa Gabrina, che viene subito riconosciuta. Per punizione Zerbino fa promettere a Odorico di tenersi per compagna la donna per un anno intero, di condurla ovunque lei voglia andare; ma lui non manterrà la promessa, impiccherà la vecchia ad un albero quello stesso giorno, ma subirà lo stesso trattamento per mano di Almonio.

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Massimo d’Azeglio: La morte di Zerbino (1839)

Zerbino allontana infine Almonio e Corebo verso la schiera scozzese e prosegue insieme ad Isabella per conoscere la sorte del loro salvatore. Arrivano sul luogo dove Orlando è impazzito; ritrovano la sua armatura, il cavallo Brigliadoro e la sua spada Durindana. Raccolgono ogni pezzo e lasciano il tutto su di un pino. Giunge in quel posto anche Fiordiligi mentre è alla ricerca dell’amato Brandimarte, partito esso stesso alla ricerca di Orlando e poi ritornato a Parigi. La donna riconosce le armi del paladino e viene a conoscenza della sua sorte. Giunge poi anche Mandricardo e senza esitare si impossessa della spada d’Orlando. Zerbino non accetta quel comportamento e subito si lancia contro il guerriero pagano. Il duello è impari: Zerbino non può nulla contro l’armatura che in precedenza era appartenuta ad Ettore; i pochi colpi piazzati da Mandricardo vanno sempre a segno e Zerbino si ritrova in breve ferito, privo dello scudo e con l’armatura lacerata. Devono intervenire le donne, Isabella e Doralice, per calmare l’ira degli uomini e separarli. Fiordiligi si dispera vedendo allontanarsi in cattive mani la spada dell’amico Orlando. Vuole ora ancora di più ritrovare Brandimarte: per amore ma anche perché sa che lui sarebbe in grado di riprendere Durindana. Prosegue oltre il suo viaggio ed un giorno, mentre sta per oltrepassare un ponte, incontra il povero paladino. Invece Zerbino sente che la propria vita si spegne Isabella si dispera per non essere in grado di salvarlo e vuole morire con lui, ma lui stesso la convince a non compiere quel gesto e muore subito dopo tra le sue braccia.

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Jacopo Vignali: Zerbino, Isabella e l’eremita (1630)

Giunge sul luogo un eremita che condurrà la donna in un monastero di monache in Provenza. Incontreranno però sulla loro via un cavaliere che li offenderà ingiustamente. Nel frattempo Mandricardo, terminata la battaglia, raggiunge un fonte e subito vede arrivare, Rodomonte, pronto a sfidarlo per vendicarsi della perdita della sua promessa sposa. Inizia un feroce combattimento tra i due cavalieri pagani, ma il re Agramante fa richiamare nelle file dell’esercito tutti i comandanti ed i cavalieri lontani da Parigi, i due guerrieri, allora, sospendono il combattimento, rimandando in seguito la decisione di chi fra loro due potrà avere Doralice. Mandricardo è però rimasto senza cavallo, senonché alla stessa fonte arriva anche Brigliadoro.

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Siamo nel XXV in cui anche Ruggiero, poco dopo aver gettato nel pozzo lo scudo incantato, viene raggiunto dal messaggero inviato da re Agramante per ricevere la richiesta di soccorso. Decide però di proseguire oltre, per salvare il giovane innamorato della figlia del re Marsilio, e condannato ad essere arso vivo, ma soprattutto per poter ritrovare l’amata Bradamante. Giunto all’interno della piazza dove si sta svolgendo la condanna a morte e visto in faccia il giovane, Ruggiero crede si tratti di Bradamante, tanta è la somiglianza tra il condannato e la sua donna, caduta prigioniera nel tentativo di compiere l’impresa da sola. Il pagano sguaina la propria spada e libera il giovane ed escono al galoppo dal castello. Ruggiero è ancora dubbioso circa l’identità della persona che ha salvato, solo la voce grave del giovane ed il fatto che dice di non conoscerlo lo fanno dubitare che si tratti effettivamente della sua amata.

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Bradamante e Fiordispina

Alla fine il ragazzo si presenta: è Ricciardetto, fratello di Rinaldo e di Bradamante e totalmente identico alla sorella. Ricciardetto racconta che un giorno la sorella, ferita alla testa durante un combattimento contro soldati saraceni, si era dovuta tagliare i capelli per curarsi la ferita. Giunta ad una fonte si era poi sdraiata sull’erba ed era stata così vista da Fiordispina, figlia del re Marsilio, che subito, credendo fosse un cavaliere, si era innamorata di lei. Bradamante, imbarazzata, chiarì allora subito la propria identità; ma nonostante la confessione, Fiordispina continuò ad ardere d’amore per Bradamante. La mattina la sorella di Ricciardetto ricevette in dono dall’altra donna un cavallo ed una sopraveste e ritornò infine a Montalbano.

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Bradamante e Fiordispina

Bradamante aveva raccontato subito tutta la storia ai fratelli ed alla madre. In Ricciardetto, già in precedenza innamorato della ragazza, si riaccese subito il fuoco della passione ed il giovane decise così di vestirsi come la sorella per fare visita a Fiordispina. Nel castello di lei gli venne tolta l’armatura, venne vestito da donna, pettinato, invitato al banchetto ed infine a dormire nello stesso letto della giovane. Qui Ricciardetto per giustificare il proprio essere uomo, disse che durante il viaggio di ritorno aveva salvato dalle grinfie di un fauno una ninfa, che gli aveva detto di poter esaudire un suo qualunque desiderio. Il giovane aveva allora chiesto di poter sanare la ferita d’amore di Firodispina ed era stato infine trasformato da donna in un uomo. Quindi i due sfogarono la loro passione amorosa e continuarono a farlo, fino a quando il re non venne a sapere la verità e lo condannò così a morte. Ruggiero e Ricciardetto vengono a sapere che i fratelli del ragazzo, fatti prigionieri da Ferraù, stavano ora per essere venduti al nemico. Ruggiero si prende carico dell’impresa. Tuttavia il cavaliere pagano è tormentato da un dubbio: andare a soccorrere il proprio re o andare a Vallombrosa, dove crede di poter ritrovare Bradamente? Per non perdere il proprio onore decide infine di informare la donna degli avvenimenti e di ripartire per Parigi. Il giorno dopo comunque si reca al luogo dove avrebbe dovuto avvenire lo scambio ed incontra un cavaliere che ha come insegna una fenice.

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Sapremo nel canto XXVI che si tratta di Marfisa, che decide di unirsi per liberare i prigionieri. Arriva la schiera saracena con i due prigionieri al seguito e subito dopo la schiera dei Maganza carichi d’oro e di oggetti preziosi necessari al pagamento. Ma appena Ruggiero e Marfisa intervengono sia i Maganza che i saraceni gridano al tradimento ed iniziano a combattere tra loro. Alla fine riescono a rimanere in vita solo quelli che si sono allontanati velocemente a cavallo. Terminata la battaglia, i due prigionieri vengono liberati e Marfisa si toglie l’elmo così che tutti possono ora vedere che si tratta di una donna. Inizia quindi una parte chiaramente allegorica dove l’avari-zia, che dopo aver fatto strage in ogni luogo della terra, viene ferita da un cavaliere con la corona d’alloro (Francesco I di Francia), tre giovani (Massimiliano d’Austria, Carlo V ed Enrico VII d’Inghilterra) ed un leone (Leone X), ed infine uccisa con l’aiuto delle nobili genti, giunte per combatterla. I cavalieri vengono approfonditamente ragguagliati su tali episodi da Malagigi quando giunge presso loro Ippalca, che era stata incaricata da Bradamante di raggiungere Ruggiero, ma a cui Rodomonte aveva sottratto Frontino, il cavallo dello stesso cavaliere. La donna riconosce Ricciardetto e subito gli racconta gli avvenimenti, così Ruggiero salta in piedi e chiede di essere condotto presso il saraceno che le aveva rubato il cavallo.

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Ippalca

Una volta soli, Ippalca gli racconta di Bradamante e di Rodomonte. Quest’ultimo sta però andando a Parigi e Ruggiero non riesce ad incontrarlo. Presso Marfisa giungono infine anche Mandricardo, Rodomonte, Doralice ed il loro seguito. Mandricardo, vista la bellezza di Marfisa, decide di offrirla a Rodomonte in cambio di Doralice. Marfisa in risposta si mette l’armatura, monta a cavallo e lo sfida a duello. Le loro armature sono però invulnerabili per incantesimo e nessun colpo riesce a scalfirle. Rodomonte interviene infine per sospendere la contesa e per avviarsi verso re Agramante. Invece Ruggiero consegna ad Ippalca la lettera scritta per Bradamante, quindi ritrovato Rodomonte, in sella al suo cavallo, lo sfida subito a duello, ma il pagano si rifiuta di combattere sempre a causa dell’impegno preso verso re Agramante. Ruggiero si mostra disposto a rimandare il combattimento ma solo a patto di riavere subito il proprio destriero. Mentre i due cavalieri sono impegnati a litigare, arriva Mandricardo, subito si infuria vedendo che Ruggiero porta sullo scudo la stessa sua insegna, e sfida quindi a duello il cavaliere. Entrambi impugnano la spada e sono pronti a combattere, Rodomonte e Marfisa si intromettono però subito e cercano di calmare gli animi. Mandricardo è però ormai acceso d’ira e minaccia contemporaneamente Rodomonte e Ruggiero. Anche Rodomonte inizia a rispondere alle provocazioni ed alla fine rimane solo Marfisa a tentare di calmare la situazione, che tuttavia, alla fine dovrà giocoforza rispondere anche lei. Inizia un feroce combattimento tra Rodomonte e Ruggiero ed anche tra Marfisa e Mandricardo. A questo punto Superbia e Discordia tornano al monastero dal quale erano partite. Ma un demone prende possesso del cavallo di Doralice, facendolo scappare con in sella la donna urlante. Rodomonte corre subito in soccorso della donna amata; Mandricardo fa altrettanto e subito abbandona il combattimento. Marfisa e Ruggiero, non possono fare altro che recarsi all’accampamento pagano presso Parigi con l’intenzione di incontrare nuovamente là i loro avversari.

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Julius Schnorr von Caroesfeld: Marfisa (1822)

Il XXVII è un canto dove tutti i cavalieri valorosissimi vanno a dare forza all’esercito saraceno mentre re Carlo è privo dei suoi più valorosi paladini: Orlando e Rinaldo. Il primo è divenuto folle e vaga nudo per la Francia, l’altro, subito dopo aver liberato Parigi dall’assedio, ha ripreso la ricerca di Orlando ed Angelica, e continua a spostarsi dove pensa potessero trovarsi. Nel frattempo re Gradasso, Sacripante, Rodomonte e Mandricardo assaltano la retroguardia cristiana all’improvviso, mettendone in fuga una buona parte ma uccidendone e ferendone la maggioranza. Anche Marfisa e Ruggiero fanno uguale strage. Tutti i soldati saraceni trovano nuovo vigore alla vista dei loro più valorosi compagni ed inizia così una nuova sanguinosa battaglia. Re Carlo non può fare altro che rifugiarsi nuovamente tra le mura di Parigi. L’arcangelo Michele, allora ordina alla Discordia di riaccendere subito d’ira i cuori di Marfisa, Rodomonte, Mandricardo e Ruggiero. I quattro cavalieri abbandonano l’assedio e si recano da re Agramante che suggerisce infine di estrarre a sorte la priorità dei duelli e fa infine allestire un campo di battaglia. Il primo duello dovrebbe avvenire tra Rodomonte e Mandricardo, ma tra quest’ultimo e re Gradasso scoppia una lite furibonda, in quanto Gradasso, vedendo che Mandricardo porta con sé la spada di Orlando rinfaccia all’altro di avere usurpato Durindana ingiustamente, in quanto è lui il legittimo proprietario. Ruggiero si intromette per fare rispettare le priorità già assegnate ai duelli. La situazione viene ricondotta alla calma solo grazie all’intervento di re Agramante e re Marsilio.

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Jean Honore Fragonard: Rodomonte e Mandricardo di fronte al re Agramante (1780)

Scoppia però contemporaneamente una violenta lite anche tra Rodomonte e Sacripante. Questo ultimo riconosce in Frontino il proprio cavallo Frontalatte, sottrattogli da un furfante (per poi essere consegnato a Ruggiero, ma lui questo non lo sa). Il combattimento tra i due viene interrotto da Ferraù e poi anche da re Agramante, accorso dopo aver avuto notizia della nuova contesa ed aver quindi lasciato re Marsilio a tenere a bada Ruggiero, Mandricardo e re Gradasso. Giunge sul posto anche Marfisa e, sentita la storia di Sacripante su come gli era stato tolto il cavallo e che molti indicano in Brunello l’autore di quel furto, capisce che è stato lo stesso Brunello a rubarle la spada quello stesso giorno in cui era stato rubato Frontalatte. La donna decide così di vendicarsi all’istante; fa prigioniero il ladrone, lo conduce da re Agramante e chiede di poterlo impiccare con le proprie mani. Marfisa porta infine con sé il prigioniero presso un piccola torre, dove ha intenzione di trattenerlo per tre giorni prima di procedere all’impiccagione. Re Agramante si indigna per quel gesto di Marfisa, e vorrebbe sfidarla ma viene fermato e decide quindi infine di lasciar fare alla donna, per potersi dedicare alle altre più gravi liti. Per porre fine alla lite tra Rodomonte e Mandricardo, causata dalla bella Doralice, decide che sia infine la donna a scegliere il proprio amante, la quale decide per Mandricardo. Rodomonte si rifiuta di dover sottostare alla decisione di una donna, impugna nuovamente la spada e sfida Mandricardo. Viene però fatto tacere da re Agramante ed infine non gli resta altro da fare che abbandonare le schiere dell’esercito insieme ad un piccolo seguito. Quindi il cavaliere saraceno si allontana dall’accampamento maledicendo Doralice, tutte le donne in genere ed anche il re Agramante. Decide di alloggiare in un ostello e la sera l’oste, rispondendo ad una domanda del cavaliere riguardo alla fedeltà delle donne, si propone di raccontargli una storia, che gli era stata riferita da un viaggiatore per convincerlo di quanto siano rare le donne fedeli.

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Rodomonte con l’oste

La storia viene raccontata nel canto XXVIII: Astolfo, re dei Longobardi, era in gioventù molto bello, fino a credere di non poter avere eguali. Un giorno il cavaliere romano Fausto dice al re che l’unico che può competere con lui in bellezza, è suo fratello Giocondo. Astolfo, incredulo, convince il cavaliere a condurre Giocondo presso la sua corte, così da poterlo conoscere. La più grande difficoltà che Fausto dice al re di dover superare, era lo smisurato amore tra il fratello e la sua moglie, che li faceva stare sempre insieme.

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Giocondo con la moglie prima della partenza

Il cavaliere riesce a convincere la moglie di Giocondo, ma le notti ed i giorni prima della partenza la donna si mostra disperata, dicendo di non riuscire a vivere senza di lui. Il giorno prima di partire la donna gli regala anche una collanina, pregandolo di portarla sempre con sé come suo ricordo. Iniziato da poco il viaggio verso Pavia, Giocondo si rende conto di aver dimenticato il dono della moglie e decide di ritornare a Roma a riprenderlo. Trova così la moglie a letto addormentata tra le braccia di un loro garzone. Inizialmente il giovane pensa di ucciderli entrambi, ma poi, riprende la collanina in silenzio, senza svegliarli, e riparte. Da quel momento Giocondo non riesce più a dormire, né a mangiare ed inizia anche ad ammalarsi, tanto che la sua bellezza, quando giunge finalmente a Pavia, è ormai svanita. Il re Astolfo fa di tutto per fare riprendere il giovane, ma senza successo. Un giorno però, guardando attraverso un fessura nel muro della sua stanza, Giocondo vede la moglie del re sottomessa ai piaceri di un orribile nano, e assiste allo spettacolo per tutti i giorni successivi. Inizia a vedere sotto un altro punto di vista il proprio male (l’infedeltà è propria delle donne); ricomincia a mangiare, a dormire e si riprende indietro tutta la propria bellezza. Il re vuole sapere le ragioni della sua guarigione e Giocondo, dietro promessa che non si sarebbe vendicato, gliele mostra attraverso la fessura presente nella sua stanza.

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La moglie di Astolfo con il nano

Dopo un primo momento d’ira, Astolfo chiede consiglio al giovane su come comportarsi ora. Giocondo propone di andare in giro per il mondo a fare alle mogli di altri ciò che il nano ed il garzone avevano fatto alle loro. Si mettono in viaggio e dopo un po’ di tempo passato da una donna all’altra, decidono di trovarne una sola, fissa, che possa piacere ad entrambi, pensando di soddisfare così anche la natura infedele della donna. La ragazza scelta si chiama Fiammetta, figlia di un albergatore di Valenza, che nell’albergo in cui i due si sono fermati, incontra un ragazzo, Greco, da sempre innamorato di lei e che la prega di soddisfare la sua passione amorosa. Lei accetta e lo invita la notte nella sua camera, dove dormiva in un unico letto insieme ad Astolfo e Giocondo. Il giorno dopo, avendo capito che qualcuno si è divertito tutta la notte con Fiammetta, Astolfo e Giocondo, hanno pensato uno che fosse stato l’altro, e hanno iniziato a prendersi in giro, ma Fiammetta fa il nome di Greco. I due uomini, passato il primo momento di incredulità, cominciano poi a ridere fino a sentire male al petto e capiscono quindi di aver avuto l’ultima e la più convincente prova dell’infedeltà femminile. Terminata la storia, l’oste riceve l’approvazione di Rodomonte, che il giorno dopo parte fino a giungere presso un villaggio. Passano un giorno da quello stesso villaggio Isabella ed il monaco che l’aveva salvata dal suicidio, diretti al monastero di Provenza. Rodomonte vista l’avvenenza della donna, decide di concentrare tutto il suo amore su di lei. Saputa la sua storia e la decisione di chiudersi nel monastero Rodomonte cerca di persuaderla. Il monaco cerca di venire in aiuto alla donna, ma finisce con l’accendere d’ira il guerriero e viene subito aggredito.

Sarà nel XXIX canto che Rodomonte prima uccide violentemente il vecchio, poi si rivolge con voce languida alla donna. Isabella, capito che ogni tentativo di resistere alla violenza del saraceno sarebbe inutile, promette a Rodomonte di preparargli un liquore in grado di renderlo invulnerabile in cambio del rispetto del suo voto di castità. Terminata la preparazione, la donna propone al saraceno di essere lei in prima persona a provare al liquore. Isabella ci si bagna tutto il corpo ed espone il proprio collo alla spada di Rodomonte: muore decapitata, pronunciando in ultimo il nome di Zerbino. Rodomonte rimane sconvolto per aver ucciso la donna amata e decide di trasformare la chiesetta del villaggio in un monumento funebre in onore di Isabella e Zerbino. Fa costruire anche un ponte senza protezioni e promette di adornare il sepolcro con le armi di tutti i cavalieri che oseranno attraversarlo. Il sepolcro non era ancora stato terminato quando giunge sul posto l’Orlando furioso e, completamente nudo e disarmato, si mette a correre sul ponte. Rodomonte minaccia il paladino prima da lontano, poi parte all’attacco con l’intenzione di buttarlo giù. Il combattimento corpo a corpo tra i due valorosi cavalieri termina quando entrambi finiscono nel fiume. Orlando, completamente nudo, raggiunge subito la riva a nuoto e riprende la propria folle corsa; Rodomonte è invece rallentato nei movimenti dalle proprie armi e tocca quindi terra molto dopo il cristiano. Durante il suo vagare senza meta, saranno molte le pazzie compiute dal conte Orlando. Giunge infine in riva al mare di Spagna.

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Dosso Dossi: Angelica e Orlando furioso

L’ULTIMO INCONTRO TRA ANGELICA ED ORLANDO
(XXIX, 57-71)

E queste ed altre assai cose stupende
fece nel traversar de la montagna.
Dopo molto cercare, al fin discende
verso meriggie alla terra di Spagna;
e lungo la marina il camin prende,
ch’intorno a Taracona il lito bagna:
e come vuol la furia che lo mena,
pensa farsi uno albergo in quella arena,

dove dal sole alquanto si ricuopra;
e nel sabbion si caccia arrido e trito.
Stando così, gli venne a caso sopra
Angelica la bella e il suo marito,
ch’eran (sì come io vi narrai di sopra)
scesi dai monti in su l’ispano lito.
A men d’un braccio ella gli giunse appresso,
perché non s’era accorta ancora d’esso.

Che fosse Orlando, nulla le soviene:
troppo è diverso da quel ch’esser suole.
Da indi in qua che quel furor lo tiene,
è sempre andato nudo all’ombra e al sole:
se fosse nato all’aprica Siene,
o dove Ammone il Garamante cole,
o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia,
non dovrebbe la carne aver più arsiccia.

Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa,
la faccia macra, e come un osso asciutta,
la chioma rabuffata, orrida e mesta,
la barba folta, spaventosa e brutta.
Non più a vederlo Angelica fu presta,
che fosse a ritornar, tremando tutta:
tutta tremando, e empiendo il ciel di grida,

si volse per aiuto alla sua guida.

Come di lei s’accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:

così gli piacque il delicato volto,
così ne venne immantinente giotto.
D’averla amata e riverita molto
ogni ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli corre dietro, e tien quella maniera
che terria il cane a seguitar la fera.

Il giovine che ’l pazzo seguir vede
la donna sua, gli urta il cavallo adosso,
e tutto a un tempo lo percuote e fiede,
come lo trova che gli volta il dosso.
Spiccar dal busto il capo se gli crede:
ma la pelle trovò dura come osso,
anzi via più ch’acciar; ch’Orlando nato
impenetrabile era ed affatato.

Come Orlando sentì battersi dietro,

girossi, e nel girare il pugno strinse,
e con la forza che passa ogni metro,
ferì il destrier che ’l Saracino spinse.
Feril sul capo, e come fosse vetro,
lo spezzò sì, che quel cavallo estinse:
e rivoltosse in un medesmo istante
dietro a colei che gli fuggiva inante.

Caccia Angelica in fretta la giumenta,
e con sferza e con spron tocca e ritocca;
che le parrebbe a quel bisogno lenta,
se ben volasse più che stral da cocca.
De l’annel c’ha nel dito si ramenta,
che può salvarla, e se lo getta in bocca:
e l’annel, che non perde il suo costume,
la fa sparir come ad un soffio il lume.

O fosse la paura, o che pigliasse
tanto disconcio nel mutar l’annello,
o pur, che la giumenta traboccasse,
che non posso affermar questo né quello;
nel medesmo momento che si trasse
l’annello in bocca e celò il viso bello,
levò le gambe ed uscì de l’arcione,
e si trovò riversa in sul sabbione.

Più corto che quel salto era dua dita,
aviluppata rimanea col matto,
che con l’urto le avria tolta la vita;
ma gran ventura l’aiutò a quel tratto.
Cerchi pur, ch’altro furto le dia aita
d’un’altra bestia, come prima ha fatto;
che più non è per riaver mai questa
ch’inanzi al paladin l’arena pesta.

Non dubitate già ch’ella non s’abbia
a provedere; e seguitiamo Orlando,
in cui non cessa l’impeto e la rabbia
perché si vada Angelica celando.
Segue la bestia per la nuda sabbia,
e se le vien più sempre approssimando:
già già la tocca, ed ecco l’ha nel crine,
indi nel freno, e la ritiene al fine.

Con quella festa il paladin la piglia,
ch’un altro avrebbe fatto una donzella:
le rassetta le redine e la briglia,
e spicca un salto ed entra ne la sella;
e correndo la caccia molte miglia,
senza riposo, in questa parte e in quella:
mai non le leva né sella né freno,
né le lascia gustare erba né fieno.

Volendosi cacciare oltre una fossa,
sozzopra se ne va con la cavalla.
Non nocque a lui, né sentì la percossa;
ma nel fondo la misera si spalla.
Non vede Orlando come trar la possa;
e finalmente se l’arreca in spalla,
e su ritorna, e va con tutto il carco,
quanto in tre volte non trarrebbe un arco.

Sentendo poi che gli gravava troppo,
la pose in terra, e volea trarla a mano.
Ella il seguia con passo lento e zoppo;
dicea Orlando: «Camina!» e dicea invano
Se l’avesse seguito di galoppo,
assai non era al desiderio insano.
Al fin dal capo le levò il capestro,
e dietro la legò sopra il piè destro;

e così la strascina, e la conforta
che lo potrà seguir con maggior agio.
Qual leva il pelo, e quale il cuoio porta,
dei sassi ch’eran nel camin malvagio.
La mal condotta bestia restò morta
finalmente di strazio e di disagio.
Orlando non le pensa e non la guarda,
e via correndo il suo camin non tarda.
 

Queste cose, ed altre tanto incredibili, fece attraversando la montagna. Dopo molto girovagare, alla fine discende, verso mezzogiorno, nella terra di Spagna; ed intraprende il cammino lungo il mare che bagna la spiaggia intorno a Terragona: e come vuole la follia che lo governa, pensa di costruirsi un rifugio in quella sabbia, // nel quale potersi riparare un poco dal sole; quindi si caccia sotto il sabbione, misto a terra, fine ed arido. Stando così, sopraggiunse per caso lì dove lui si trovava, la bella Angelica insieme a suo marito Medoro, che erano (così come vi ho in precedenza raccontato) scesi dai monti Pirenei fino al litorale della Spagna. Ella si avvicinò a meno di un braccio di distanza, non essendosi ancora accorta di lui. // Che quella persona fosse Orlando, non le passa nemmeno per la testa: è troppo diverso da colui che era solito essere. Da quando la follia si è impadronita di lui, è sempre andato in giro nudo, sia all’ombra che al sole: se fosse nato nell’assolata Assuan, o là dove i Garamanti venerano il dio Ammone, o presso ai monti, della luna, dai quali il grande Nilo sgorga, la sua carne non sarebbe stata più bruciacchiata di quanto lo era adesso. // Aveva gli occhi quasi nascosti nella testa, tanto erano rientrati, la faccia smagrita ed asciutta quasi quanto un osso, la chioma arruffata, squallida ed irta, la barba folta, spaventosa e spiacevole. Angelica non fu più veloce a vederlo, di quanto lo fu a tornare indietro, tremando tutta: tremando tutta, e riempiendo il cielo di grida, si volse chiedendo aiuto verso la sua guida, Medoro. // Non appena lo stolto Orlando si accorse di lei, per trattenerla si alzò di botto: tanto gli piacque il volto delicato di Angelica, tanto ne divenne immediatamente ghiotto. Di averla lungamente amata e riverita, ogni ricordo era in lui guasto e ridotto in pezzi. Le corre dietro, e si comporta come si comporterebbe il cane per rincorrere la preda. // Il giovane Medoro, vedendo quel pazzo inseguire la sua donna, gli getta il proprio cavallo addosso, e contemporaneamente lo percuote e lo colpisce, non appena vede che costui gli volta le spalle. Crede di potergli staccare la testa dal busto: ma trova invece una pelle dura come osso, anzi, molto più dell’acciaio; poiché Orlando era nato invulnerabile per incantesimo. // Come Orlando si sentì colpire alle spalle, si girò, nel girarsi strinse il pugno e con una forza che supera ogni possibile misura, colpì il destriero che il saraceno aveva spinto innanzi. Lo colpì al capo, e come se fosse stato di vetro, lo spezzò, così che quel cavallo uccise: e si voltò nuovamente, nel medesimo istante, verso colei che gli fuggiva dinnanzi. // Angelica spinge in tutta fretta la propria cavalla, e con frusta e con speroni la colpisce ripetutamente; poiché le sembrerebbe lenta, per il proprio bisogno di fuggire, anche se volasse più veloce della freccia scagliata dall’arco. Si ricorda poi che l’anello che porta al dito può salvarla, e se lo getta quindi in bocca: e l’anello, che non perde i suoi poteri magici, la fa sparire così come con un soffio fa sparire il lume. // Fosse stata la paura, o l’aver assunto una posizione tanto scomposta nel maneggiare l’anello, oppure il fatto che la cavalla fosse caduta a terra, io non posso affermare né l’una né l’altra ipotesi; nello stesso momento in cui si gettò l’anello in bocca e nascose alla vista il proprio bel viso, sollevò le gambe in aria, cadde dall’arcione e si trovò riversa sulla sabbia. // Fosse stato quella caduta anche più corta di due dita, sarebbe rimasta avviluppata con il matto, che nell’urto le avrebbe tolto la vita; ma una grande fortuna l’aiutò in quella circostanza. Cerchi ora pure, Angelica, con un’altro furto di ottenere l’aiuto di una altra bestia, come già aveva prima fatto; perché non sarà per riavere questa cavalla che si metterà ancora a correre sulla sabbia dinanzi al paladino. // Non dubitate ora che lei riesca a provvedere a sé stessa; seguiamo quindi le vicende di Orlando, nel quale non cessa la rabbia e l’impeto per il fatto che Angelica si tenga a lui nascosta. Insegue la cavalla di lei lungo la nuda spiaggia, e le si avvicina sempre di più: riesce a toccarla, ed ecco che l’afferra per la criniera, quindi per il freno, ed alla fine riesce a trattenerla. // Il paladino la afferra esultando tanto quanto un’altro avrebbe fatto prendendo invece una ragazza: le sistema le redini e la briglia, spicca un salto e si va a mettere in sella; la spinge al galoppo per molte miglia, senza concederle riposo, ora da questa ed ora da un’altra parte: non le toglie mai né la sella né il freno, mai le lascia assaporare né l’erba e né il fieno. // Volendosi cacciare dall’altra parte di un fossato, finisce a gambe all’aria con la cavalla. L’incidente non nuoce a lui, né lui sente il colpo; ma la povera cavalla, urtando il fondo del fossato, si sloga una spalla. Orlando non riesce a trovare un modo per tirarla fuori dal fossato, alla fine se la mette in spalla e ritorna su, e procede con tutto quel carico sulle spalle per una distanza superiore a tre tiri d’arco. // Sentendo poi che quel peso gli grava troppo, pone in terra la cavalla con l’intenzione di condurla per la briglia. La bestia lo segue zoppicando e con passo lento; dice Orlando: «Cammina!» ma lo dice inutilmente. Fosse stata anche in grado di seguirlo al galoppo, non sarebbe stato comunque abbastanza per il destriero di un pazzo. Alla fine le leva dal capo la cavezza, e la lega, dietro di sé, sopra al piede destro; // e così prosegue il proprio cammino trascinandola, e per confortarla le dice che così potrà seguirlo con un maggiore agio. Le levano il pelo e le asportano la pelle i sassi che incontra lungo quel difficile cammino. La bestia, così malamente trascinata, muore finalmente per lo strazio ed il disagio. Orlando non pensa a lei e non la guarda nemmeno, procede di fretta senza rallentare il cammino.

Il passo ci descrive il massimo capovolgimento della struttura epico-cavalleresca in un paradossale, ma non per questo meno tragico episodio. Si ricreano le strutture iniziali, quelle dell’inseguimento, ma vediamo come:

1. Orlando, l’integerrimo cavaliere si è trasformato in una lurida bestia, irriconoscibile per gli altri, il cui valore non è altro che forza bruta;
2. Angelica, bellissima e valorosa ragazza, non sa muoversi senza una guida e chiama vanamente Medoro che la salvi; fortunatamente (e narrativamente) si ricorda dell’anello fatato, che tuttavia la farà cadere impudicamente a gambe levate in uno stagno;

3. La cavalla rappresenta l’oggetto sostitutivo di un impossibile amore; Orlando la tratta, appunto, come una ragazza: le carezza la criniera e la “monta” fino a sfinirla. Non si rende conto neppure della sua morte.

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Edizione del 1548 pubblicata a Venezia

Le avventure di Orlando continueranno anche all’inizio del canto XXX portando ovunque distruzione. Giunge infine nei pressi di un immenso accampamento di guerrieri saraceni. Nell’accampamento saraceno, invece, nei pressi di Parigi, nonostante l’intervento del re Agramante e del re Marsilio si dà vita al duello tra Ruggiero e Mandricardo per la sorte della spada Durindana, voluta da re Gradasso ma posseduta da Mandricardo, e per lo stemma con l’aquila bianca, posseduta e contesa da Ruggiero e Mandricardo. Lo scontro, durissimo, vede alla fine vincitore Ruggiero che tuttavia rimane ferito e quindi curato nella tenda del re. Bradamante, grazie a Ippalca, riceve notizie di Ruggiero, ma lei teme di non riuscire più ad incontrarlo e si dispiace che lui abbia preferito andare in aiuto di suoi nemici piuttosto che raggiungerla. Infatti il cavaliere non riuscirà a tornare da lei entro venti giorni. Bradamante, saputo da Ricciardetto, che Ruggiero si era diretto con Marfisa a Parigi, inizia a temere anche per l’amore di lui. Parte per Parigi anche Rinaldo insieme a Ricciardetto. Rimane sua sorella, Bradamante, ancora in attesa dell’amante e finge pertanto una malattia.

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Continua il racconto nel XXXI canto quando Rinaldo e Ricciardetto incontrano un cavaliere misterioso, accompagnato da una donna, che subito sfida e sconfigge il fratello di Bradamante. Quindi Rinaldo si candida subito come prossimo avversario del cavaliere, ma il duello non avrà subito esito. Giunge la notte e viene deciso di rimandare la contesa al giorno successivo. Rinaldo conduce con sé il rivale al suo padiglione, e scopre che il cavaliere misterioso è Guidon Selvaggio e che quindi sono fratelli, e finiscono per abbracciarsi amorevolmente. Il valoroso ragazzo si unisce agli altri e tutti insieme riprendono il giorno dopo il viaggio verso Parigi. Il gruppo di cavalieri incontra a poca distanza da Parigi anche altri paladini, impegnati in una discussione con una donna, Fiordiligi, triste e molto bella. Anche loro si uniscono al gruppo di cavalieri. La donna, riconosciuto Rinaldo, gli racconta della pazzia del cugino Orlando, del fatto che gli era stata rubata la spada Durindana ed il destriero Brigliadoro, e che correva nudo per il mondo, dello scontro che aveva avuto con Rodomonte ed infine che ora il re Gradasso è in possesso della sua terribile spada. Rinaldo rimane scosso dal racconto della donna e decide di fare tutto il possibile per fare rinsavire il cugino, non prima però di avere liberato re Carlo dall’assedio. Viene deciso di muovere battaglia nella notte ed il gruppo di cavalieri si ripara in un bosco. Giunto il momento dell’assalto, i cristiani fanno strage nell’accampamento dell’esercito pagano. Fra gli eroi cristiani troviamo anche Brandimarte, che veduta Fiordiligi, corre subito ad abbracciarla. La donna le racconta subito quanto aveva visto e saputo riguardo ad Orlando, e Brandimarte, che ama il conte come fosse suo fratello si mette in viaggio alla ricerca del cavaliere furioso. Giungono al ponte di Rodomonte ed il pagano chiede subito al cavaliere cristiano di togliersi le armi.

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Brandimarte cade sul fiume nel ponte di Rodomonte

Brandimarte non risponde alla provocazione e lancia subito il suo cavallo contro l’avversario. Lo scontro tra i due sfidanti avviene sul ponte ed è talmente duro che entrambi finiscono nel fiume sottostante. Rodomonte, abituato a quella situazione, sa che via prendere ed esce subito sulla riva, Brandimarte finisce invece sottosopra con il proprio cavallo ed è trasportato dalla corrente. Fiordiligi si allontana alla ricerca di un valoroso cavaliere al quale chiedere aiuto per liberare il suo amato. Incontrerà infine un cavaliere riccamente adornato. Nel frattempo, a Parigi, re Agramante scappa dall’accampamento insieme ai suoi soldati e a Ruggiero, trasportato ancora malfermo su di un cavallo e poi su una nave. Il numero di pagani uccisi da Rinaldo e dagli altri cristiani è immenso. Solo re Gradasso rimane sul campo di battaglia, tanto è il suo desiderio di conquistare anche Baiardo, il cavallo di Rinaldo, avendo già Durindana, la spada di Orlando. Il pagano ed il cristiano si erano già dati appuntamento in passato per sostenere quel duello, ma un incantesimo di Malagigi aveva però allontanato Rinaldo. Il saraceno raggiunge ora il paladino e subito gli rinfaccia la sua codardia. Rinaldo spiega la sua storia, poi entrambi i guerrieri fissano un nuovo appuntamento per il giorno successivo presso una fontana. La mattina dopo entrambi si presentano per sostenere il combattimento.

Re Agramante, nel canto XXXII, giunge nella città di Arles e subito riorganizza l’esercito. Ad esso si aggiunge Marfisa, che non aveva voluto sporcarsi le mani con il vile sangue di Brunello e lo porta con sé per venire impiccato da re Agramante stesso.

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Marfisa si reca da re Agramante

Nel frattempo Bradamante, aspetta invano l’arrivo di Ruggiero. I venti giorni passano lentissimi e la donna, per gelosia nei confronti di Marfisa, si tormenta al pensiero che Ruggiero non la ami più. Nonostante ciò, Bradamante ha ancora speranza che le promesse di Ruggiero siano vere. Giunge però presso il suo castello un cavaliere scappato dall’accampamento saraceno e le racconta le dicerie che avevano iniziato a circolare per l’esercito pagano: Marfisa e Ruggiero si amavano, erano ormai inseparabili e si sarebbero sposati. Bradamante, che ritiene ormai Ruggiero un infedele, decide però infine di partire e di unirsi nuovamente all’esercito cristiano, per vendicarsi di Marfisa e trovare la morte per mano dello stesso Ruggiero. Incontra durante il suo viaggio un donna con tre cavalieri al suo fianco ed al seguito una lunga schiera di persone. Bradamante viene a sapere che si tratta di una messaggera della bellissima regina d’Islanda, mandata da re Carlo per fargli dono di quello scudo, da destinare al più valoroso dei cavalieri cristiani. I tre cavalieri al suo fianco, tutti re, avevano già fatto prova del loro valore con il desiderio di avere in sposa la regina, ma lei, volendo come marito solo l’uomo più valoroso al mondo, aveva deciso di metterli un’ultima volta alla prova. Bradamante è presa dal suo tormento per Ruggiero, si lascia guidare dal cavallo finché giunge al castello di Tristano, dove chi viene ospitato deve necessariamente proteggere la propria stanza contro ogni altro cavaliere che si presenti dopo di lui; per le donne, è invece la loro bellezza a decidere a chi spetti la stanza. Bradamante giunge al castello, dice di voler una stanza e sfida i tre cavalieri che la occupano, che sono i tre re al seguito della messaggera della regina di Islanda. Bradamante si lancia al combattimento e li disarciona uno dopo l’altro, poi si toglie l’elmo è mostra a tutti la sua femminilità. L’oste quindi spiega quale sia l’origine di quella regola. Al tempo in cui il re di Francia era stato Fieramonte, quel castello era stato abitato dal figlio del re, Clodione, dalla sua bellissima amata e da dieci valorosi cavalieri. Giunse un giorno in quel posto Tristano, in compagnia di una donna, e chiese di poter essere ospitato. Clodione, geloso per la sua bellissima amante, rispose però con un rifiuto. Il valoroso cavaliere, indispettito, decise quindi di sfidare il figlio del re ed i suoi dieci cavalieri per ottenere con la forza ciò che non aveva potuto ottenere con le preghiere, e mise anche come condizione che in caso di vittoria avrebbe potuto lui solo stare in quella dimora. Tristano sconfisse tutti i rivali e prese possesso del castello. Clodione pregò il cavaliere di ridargli la sua bellissima compagna, ma Tristano rispose che una donna tanto bella meritava di stare con il cavaliere più valoroso e gli offrì invece in cambio la sua compagna di minore bellezza. Il giorno dopo Tristano, consapevole che era stato l’amore la causa di tutto, lasciò subito il castello e riconsegnò anche la bellissima donna al suo amato. Anche Clodiano lasciò quel castello e ci mise a guardia un cavaliere con il compito di fare rispettare quella regola a chiunque chiedesse ospitalità. Viene servita la cena, ma il padrone del castello comunica alla messaggera della regina d’Islanda che deve lasciare la dimora, in quanto meno bella di Bradamante, ma Bradamante stessa interviene dicendo di essersi meritata la stanza come cavaliere e non come donna.

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Nel XXXIII, terminata la cena, Bradamante rimane nel grande salone ad ammirare i dipinti che ne rivestono le mura. Le pitture era state fatte realizzare con un incantesimo da Merlino per rappresentare scene future, ed in particolare le guerre che in futuro verranno sostenute dai francesi. Va infine a coricarsi e, addormentata, riceve in sogno la visita di Ruggiero che le rinnova la propria promessa d’amore.

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Bradamante osserva le pitture

La donna si risveglia in lacrime, crede che sia vero solo ciò che la tormenta da sveglia. Riprende il proprio viaggio verso Parigi e, giunta alla città, ritrova Rinaldo e re Carlo, e viene a sapere da loro della sconfitta subita da re Agramante. Tornando a parlare della sfida tra re Gradasso e Rinaldo, per il possesso della spada Durindana e di Baiardo, i due cavalieri, giunti presso la fonte, impugnano subito la spada e danno inizio ad un feroce combattimento. Ma lo devono abbandonare quando vedono che il cavallo Baiardo è stato assalito da un mostro alato (probabilmente un incantesimo per cercare di interrompere il duello).

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Il cavallo rapito da un mostro alato

Il cavallo riesce a mettersi in salvo in un bosco. Gradasso sale in groppa al proprio destriero e lo insegue, Rinaldo prosegue invece a piedi e, non riuscendo a trovare la giusta via, torna poi presso la fonte ed infine, non vedendo tornare neanche il rivale, all’accampamento cristiano. Re Gradasso alla fine ritrova il cavallo ma non rispetta il patto con lo sfidante cristiano, raggiunge re Agramante ad Arles e s’ imbarca per l’India. Astolfo, il cavaliere, in sella all’ippogrifo, dopo aver esplorato in lungo ed in largo la Francia a la Spagna, ed essere poi passato in Africa, raggiunge l’Etiopia, dove fa visita al re Senapo e lo trova tormentato dalle arpie. Queste erano state mandate da Dio per punirlo per aver voluto, quando era giovane, muovere il proprio esercito verso la sorgente del Nilo e verso i monti della Luna, sede del paradiso terrestre, per assoggettare i suoi abitanti. Il termine della punizione venne predetta a Senapo con la venuta dal cielo di un cavaliere in sella ad una cavallo alato. Astolfo quindi riesce a liberarlo dalla Arpie che inseguite dallo stesso, raggiungono il monte della Luna e si infilano subito nella grotta che porta fino agli abissi dell’Inferno.

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Nel XXXIV Astolfo decide di avventurarsi per i gironi infernali. Il fumo nero e sgradevole che ne riempie l’aria, diviene però via via più denso man mano che si procede verso il basso, finché il cavaliere è costretto a fermarsi. Astolfo incontra l’anima di Lidia, che gli racconta la propria storia. In vita è stata tanto bella quanto altezzosa e ha fatto innamorare di sé il cavaliere Alceste. Il ragazzo si mette per amore al servizio del re di Lidia, padre della ragazza e con le proprie imprese gli consente innumerevoli conquiste. Alceste chiede un giorno la mano di Lidia, ma il re gli risponde con un rifiuto. Allora lascia la corte per offrire le proprie armi al re di Armenia, acerrimo nemico del padre della ragazza. Nel giro di un anno al re di Lidia rimane il possesso del suo solo castello e decise così di mandare la figlia a trattare la resa con Alceste. La ragazza, accortasi del potere che ha nei confronti del cavaliere lo fa subito sentire in colpa per i danni causati al padre e che, dopo quello che era successo, non vuole ora più amarlo, preferisce piuttosto la morte. Alceste si lancia ai piedi della ragazza chiedendo perdono, lei glielo promette a patto di fare riconquistare al padre tutto ciò che gli è stato sottratto in quella guerra. Il giovane quindi uccide il re di Armenia ed in meno di un mese ridà il regno al padre della amata. La ragazza ed il re decidono poi di fare morire Alceste e lo allontanano infine dalla corte. La sofferenza per quel trattamento fa ammalare e quindi morire Alceste. Gli occhi di Lidia vengono ora fatti lacrimare da quel fumo denso, per punirla dell’ingratitudine mostrata verso chi l’amava. Astolfo poi chiude con massi e tronchi l’apertura della caverna, così da impedire alle arpie di uscire nuovamente, e sale con l’ippogrifo verso il monte. Infine raggiunge la cima della montagna:

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Astolfo e l’evangelista Giovanni

ASTOLFO NELLA LUNA
(XXXIV, 60-67; 70,75; 81-86)

Con accoglienza grata il cavalliero
fu dai santi alloggiato in una stanza;
fu provisto in un’altra al suo destriero
di buona biada, che gli fu a bastanza.
De’ frutti a lui del paradiso diero,
di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
scusa non sono i duo primi parenti,
se per quei fur sì poco ubbidienti.

Poi ch’a natura il duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, così col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi ebbe;
lasciando già l’Aurora il vecchio sposo,
ch’ancor per lunga età mai non l’increbbe,
si vide incontra ne l’uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;

che lo prese per mano, e seco scorse
di molte cose di silenzio degne:
e poi disse: «Figliuol, tu non sai forse
che in Francia accada, ancor che tu ne vegne.
Sappi che ’l vostro Orlando, perché torse
dal camin dritto le commesse insegne,
è punito da Dio, che più s’accende
contra chi egli ama più, quando s’offende.

Il vostro Orlando, a cui nascendo diede
somma possanza Dio con sommo ardire,
e fuor de l’uman uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire;
perché a difesa di sua santa fede
così voluto l’ha costituire,
come Sansone incontra a’ Filistei
costituì a difesa degli Ebrei:

renduto ha il vostro Orlando al suo Signore
di tanti benefici iniquo merto;
che quanto aver più lo dovea in favore,
n’è stato il fedel popul più deserto.
Sì accecato l’avea l’incesto amore
d’una pagana, ch’avea già sofferto
due volte e più venire empio e crudele,
per dar la morte al suo cugin fedele.

E Dio per questo fa ch’egli va folle,
e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco;
e l’intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui conoscere, e sé manco.
A questa guisa si legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir anco,
che sette anni il mandò il furor pieno,
sì che, qual bue, pasceva l’erba e il fieno.

Ma perch’assai minor del paladino,
che di Nabucco, è stato pur l’eccesso,
sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo.
Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t’ha il Redentor concesso,
se non perché da noi modo tu apprenda,
come ad Orlando il suo senno si renda.

Gli è ver che ti bisogna altro viaggio
far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la luna a menar t’aggio,
che dei pianeti a noi più prossima erra,
perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, là dentro si serra.
Come la luna questa notte sia
sopra noi giunta, ci porremo in via.» 

Non appena la luna compare in cielo, il cavaliere e l’evangelista si sistemano su di un carro trainato da quattro cavalli rosso fuoco ed iniziano così il loro viaggio per la Luna

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Grazia Nidasio: Astolfo e San Giovanni sul carro verso la luna

Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.

Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Astolfo arriva in una valle dove viene raccolto tutto ciò che sulla terra è stato smarrito:

Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;

che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.

E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.

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Giovan Battista Galizzi: Astolfo e il senno di Orlando

Con gentile accoglienza, il cavaliere fu fatto alloggiare dai santi in una stanza; in una altra si provvide affinché al suo destriero fosse data a sufficienza della buona biada. Diedero a lui da mangiare alcuni frutti del paradiso, di tale sapore, che a suo giudizio, senza scuse non sono stati i due primissimi antenati, Adamo ed Eva, se a causa di quei frutti furono così poco obbedienti alle regole divine. // Dopo che l’avventuroso duca ebbe soddisfatto i bisogni della propria natura umana, tanto con il cibo, quanto con il riposo, avendo ricevuto proprio tutte le comodità; al sorgere del nuovo giorno, nell’ora in cui Aurora lascia il vecchio sposo Titone, che, nonostante l’età avanzata, non smise mai di piacerle, si vide venire incontro, mentre si alzava dal letto, il discepolo, Giovanni, tanto amato teneramente da Dio, // il quale lo prese per mano, e con lui discorse di molte cose meritevoli del silenzio, e poi disse: «Figliolo, tu forse non sai che cosa stia accadendo in Francia, sebbene tu venga proprio da lì. Sappi quindi che il vostro cavaliere Orlando, avendo deviato dal giusto cammino le insegne di difensore della Chiesa a lui affidate, è ora punito da Dio, che, quando viene offeso, si infiamma d’ira di più contro chi più ama. // Il vostro Orlando, al quale, alla nascita, diede Dio, con immenso rischio, un’immensa forza, e gli concesse, fuori dalle usanze umane, che nessun ferro avrebbe mai potuto ferirlo; poiché a difesa della sua santa fede l’ha voluto porre con questi poteri, così come Sansone contro i Filistei pose a difesa degli Ebrei; // al suo Signore il vostro Orlando ha dato in cambio un’ingiusta ricompensa per i tanti benefici ricevuti; poiché quanto lo doveva avere in suo aiuto il popolo fedele, il popolo cristiano, tanto ne è rimasto privo, è stato abbandonato a se stesso. Tanto l’aveva reso cieco l’amore peccaminoso nei confronti di una donna pagana, da avere ormai tollerato di divenire, in due e più occasioni, crudele e malvagio, e sul punto di dare la morte al suo fedele cugino Rinaldo. // E per questo Dio fa sì che egli vaghi preso dalla follia, e mostri nudi il ventre, il petto ed il proprio fianco; e gli offusca e toglie tanto l’intelletto, da non essere in grado di riconoscere gli altri, e nemmeno se stesso. Allo stesso modo si legge che Dio volle punire anche Nabuccodonosor, e che per sette anni lo mandò in giro completamente folle al punto che, come fosse stato un bue, si nutriva di erba e di fieno. // Ma poiché molto minore è tuttavia stato il peccato del paladino, rispetto a quello di Nabucco, dal volere divino soli tre mesi sono stati imposti come periodo per purificare questa colpa. Non per un altro scopo, dopo un così lungo viaggiare, ti ha concesso il Redentore di salire fino al Paradiso terrestre, se non perché tu possa da noi apprendere il modo per rendere ad Orlando il suo senno. // Dovrai in verità intraprendere un altro viaggio in mia compagnia, ed abbandonare quindi completamente la terra. Ti devo condurre sulla Luna, che, tra tutti i pianeti, si muove in cielo più vicina alla terra, perché la medicina che può rendere saggio Orlando viene tenuta lassù. Non appena la Luna questa notte sarà giunta sopra di noi, ci metteremo sulla via per raggiungerla».
(…)
Attraversano tutta la sfera di fuoco e quindi proseguono verso il regno della Luna. Vedono quel luogo essere per la maggior parte come un acciaio privo di qualunque macchia; e lo trovano uguale, o poco meno, per dimensioni, alla superficie complessiva del globo terrestre, della terra di questo ultimo globo, il globo terrestre, comprendendo anche il mare che la terra circonda e stringe. // Lì Astolfo rimase meravigliato due volte: che visto da vicino quel luogo era tanto grande, mentre assomiglia invece ad un piccolo tondo a noi che lo osserviamo da queste parti; e che gli conveniva aguzzare lo sguardo, se dalla Luna la terra ed il mare, che intorno ad essa si spande, vuole distinguere; poiché, non avendo luce propria, la loro immagine arriva poco lontana. // Ben altri fiumi, altri laghi, altre campagne ci sono là sulla Luna, rispetto a quelli che ci sono qui tra noi; ben altre pianure, altre valli, altre montagne hanno a disposizione le città ed i castelli della Luna, con case in confronto alle quali mai più grandi poté vederne il paladino né prima di allora né dopo: e ci sono anche vaste e solitarie selve, dove le ninfe cacciano ad ogni ora le belve che vi abitano. // Il duca Astolfo non rimase ad esplorare tutto quel luogo; poiché non era salito là per quello scopo. Dal santo apostolo Giovanni fu condotto in un valle stretta tra due montagne, dove veniva miracolosamente raccolto ciò che viene da noi perso, o per nostra colpa, o a causa del tempo o della Fortuna: ciò che si perde qua sulla terra, là sulla Luna si raduna. // Non parlo solo di regni o di ricchezze, su cui ha potere la mutevole ruota della Fortuna; ma voglio anche dire di ciò che la Fortuna non ha alcun potere di togliere o di dare. Là si trova molta di quella fama che, come fosse un tarlo, il tempo, con il suo lungo passare, qua sulla terra divora: là sulla Luna stanno le infinite preghiere e promesse, che vengono fatte a Dio da noi peccatori. // Le lacrime ed i sospiri degli amanti, l’inutile tempo che si perde giocando, ed il lungo ozio di uomini ignoranti, i vani propositi che non hanno mai attuazione, i desideri infruttuosi sono tanti da ingombrare la maggior parte di quel luogo: in conclusione, ciò che qua sulla terra tu potresti perdere, salendo là sù potrai ritrovarlo.
(…)
Vide una grande abbondanza di trappole appiccicose fatte con il vischio, che furono un tempo, oh donne, la vostra bellezza. Sarebbe lungo se raccontassi in versi tutte le cose che sulla Luna si mostrarono agli occhi di Astolfo; poiché anche dopo mille e mille versi non riuscirei a terminare, essendoci tutto ciò che ci può capitare in vita: soltanto la pazzia sulla Luna è presente nella giusta misura, né poca né troppa; in quanto sta qua giù sulla terra senza mai allontanarsi. // Lì, su alcuni suoi giorni e su alcuni fatti che riguardavano lui, e che egli aveva già dimenticato, rivolse la propria attenzione: che se non ci fosse stato Giovanni a spiegargli le cose, non avrebbe potuto Astolfo distinguerne le diverse forme. Poi giunse dove stava ciò che a noi sembra sempre di avere a sufficienza, tanto che mai si fecero voti a Dio per poterne avere di più; sto parlando del senno: ve n’era lì tanto da formare un monte, da solo in quantità molto superiore a tutte le altre cose finora raccontate. // Era come un liquido diluito e fluido, destinato ad  evaporare, se non tenuto opportunamente chiuso in un recipiente; e si poteva vedere in quella valle raccolto in varie ampolle, quale più, quale meno capiente, adatte a quell’impiego. La più grande di tutte era quella nella quale era stato versato dentro il senno del folle cavaliere Orlando; e venne riconosciuta in mezzo alle altre, in quanto riportava al suo esterno la scritta: Senno d’Orlando. // Ed allo stesso modo anche le altre riportavano scritto il nome di coloro ai quali il senno, in esse contenuto, era appartenuto. Il duca Astolfo vide un ampolla contenente gran parte del proprio senno; ma lo fecero meravigliare molto di più le ampolle di molti che credeva non dovessero essere privi nemmeno di un briciolo del proprio senno, dettero invece lì evidenza del fatto di averne in realtà ancora poco; essendone presente una grande quantità in quel luogo. // Alcuni lo perdono a causa dell’amore, altri a causa dell’onore, altri nella ricerca di ricchezze, muovendosi per mare; altri a causa delle speranze riposte nei propri signori, altri stando dietro alle vane arti della magia; altri per le gemme, altri per le opere di pittori, ed altri per qualcosa d’altro che apprezzano più di ogni altra cosa. Di filosofi e di astrologi ed anche di poeti era stato raccolto molto senno in quel luogo. // Astolfo prese il proprio senno; glielo concesse l’apostolo Giovanni, scrittore dell’ultimo libro del Nuovo Testamento relativo all’Apocalisse. Si portò semplicemente al naso l’ampolla nella quale era esso contenuto, e sembra quindi che il senno fece ritorno al proprio posto: e che Turpino ammetta, da quel momento in avanti, che Astolfo visse per un lungo periodo come un uomo saggio; ma fu un errore che fece successivamente quello che una altra volta gli tolse ancora il senno.

E’ questo un altro passo considerato tra i più importanti dell’intero poema: esso riprende alcuni passi della letteratura classica, soprattutto dell’autore satirico greco Luciano che aveva narrato un viaggio sulla Luna, ma il riferimento più diretto è con Dante, in quanto anche qui vi è un’ascesa verso il Paradiso. La differenza è che il Paradiso ariostesco è specchio, in positivo, del nostro Mondo: a livello speculare ciò che in questo mondo non vi è più è raccolto tutto in cielo. Ma, come dice Calvino, se la Luna è piena del senno degli uomini, tanto che anche il sano Astolfo trova una significativa quantità del suo, è naturale che la terra ne sia quasi priva. E’ la riprova di ciò che l’autore ferrarese ci ha sinora detto: i vani desideri scappano, fuggono via e ci portano alla follia, se non riusciamo a porre dei limiti ad essi e a vivere con giusta e “sana” moderazione.

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Le Parche

Dopo che il cavaliere ha prelevato l’ampolla del conte Orlando, l’evangelista Giovanni lo conduce in un palazzo pieno di batuffoli in cui una donna è intenta ad ottenere da ogni batuffolo un filo che poi avvolge su di un aspo per formare una matassa. Un’altra donna separa le matasse brutte da quelle belle. Sono le Parche (sembra qui strano che Ariosto ne citi soltanto due) ed hanno il compito di tessere la vita di ogni mortale. Un vecchio, il tempo, porta via senza riposo le piastrine che accompagnano le matasse con incisi i nomi delle persone loro proprietarie.

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Nel XXXV canto Astolfo, vede un batuffolo che luccica più dell’oro e spicca per bellezza tra tutti gli altri presenti, è quello del cardinale Ippolito d’Este. Nel frattempo il vecchio, il tempo, scarica le piastrine nel fiume Lete, il fiume dell’oblio, che scorre vicino al palazzo. Molte piastrine vanno a fondo: alcune vengono prese nel becco da degli uccellacci per poi finire inevitabilmente ancora nel fiume; pochissime vengono invece salvate da due bianchi cigni, (gli scrittori) che le portano a riva, dove una ninfa le preleva per poi affiggerle ad una colonna del tempio dell’Immortalità. L’evangelista Giovanni sottolinea quindi quanto sia importante sostenere i poeti e gli scrittori perché il loro nome e di chi li benefica rimarrà nella storia.

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Il Tempo

Nel frattempo Bradamante viene a sapere che re Agramante si trova ad Arles e si dirige in quella città, pensando di ritrovarvi anche Ruggiero. Incontra per strada Fiordiligi, afflitta per la sorte capitata all’amato Brandimarte, caduto prigioniero di Rodomonte. Fiordiligi chiede a Bradamante di liberare il suo fedele amante. Non appena la guerriera giunge al fiume, Rodomonte, si arma subito e si avvia per togliere le armi al nuovo venuto. Bradamante lo sfida a duello e chiede, come patto, che in caso di sua vittoria siano le armi del saraceno le uniche offerte al mausoleo, tutte le altre dovranno essere tolte e tutti i prigionieri dovranno essere liberati. Rodomonte accetta il patto, e chiede in cambio non le armi della donna, come era abitudine, ma il suo amore. La lancia d’oro di Bradamante (capace, per incantesimo, di disarcionare chiunque toccasse) manda a terra l’avversario pagano.

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Rodomonte, tanta era la sorpresa per essere stato sconfitto da una donna, si toglie armi ed armatura, e si allontana, trovando rifugio in una caverna. Fiordiligi dice a Bradamante di voler andare alla città di Arles, dove spera di ritrovare Brandimarte. Bradamante si offre di accompagnarla per parte del viaggio e le chiede in cambio di portare a Ruggiero il cavallo che ha sottratto a Rodomonte (Frontino), e di dire al cavaliere pagano di armarsi e prepararsi a sfidare il cavaliere che glielo ha mandato, e che ha intenzione di dimostrare con le armi la sua infedeltà. Giunte ad Arles, Fiordiligi riporta il discorso della compagna e poi se ne va. Ruggiero è confuso da quel gesto di cortesia ma anche di sfida; non riesce a capire chi possa ritenerlo un infedele, crede si tratti di Rodomonte, non certo di Bradamante. Escono tre cavalieri, fra cui Ferraù, tutti disarcionati dal cavaliere misterioso. Ruggiero, saputo da Ferraù che il cavaliere chiede di lui, subito si prepara al combattimento.

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Nel XXXVI Ruggiero si prepara al combattimento, ma Ferraù gli svela che probabilmente si tratta di Bradamante. Ruggiero non sa cosa fare e ritarda la propria uscita.

 

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Marfisa, dipinto su maiolica

Marfisa approfitta dell’incertezza dell’uomo per uscire dalle mure e sfidare a duello il cavaliere. Bradamante capisce che non si tratta di Ruggiero, chiede il nome all’avversario, e saputo che si tratta di Marfisa, che le ha rubato l’amante, si accende subito d’ira ed è intenzionata ad ucciderla. Marfisa viene subito buttata a terra, appena Bradamante la tocca con la propria lancia incantata. Subito dopo esce Ruggiero, Bradamante lo riconosce e gli dice di volerlo uccidere. Ruggiero capisce che la causa di tutto è il suo non avere mantenuto i patti. Vorrebbe parlarle per spiegare le proprie ragioni ma Bradamante ha ormai già lanciato al galoppo il suo destriero contro di lui. Il pagano si stringe nell’armatura e tiene la lancia di lato per non ferirla. Lei all’ultimo non riesce a colpirlo e decide quindi di sfogare la propria ira contro gli altri avversari saraceni. Ruggiero riesce infine ad avvicinarsi all’amata ed a convincerla a lasciarlo parlare. Si allontanano quindi entrambi dal campo di battaglia. Marfisa, riuscita nel frattempo a risalire a cavallo e visto Ruggiero partire al galoppo all’inseguimento di Bradamante, li raggiunge.

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Bradamante e Marfisa si sfidano

Bradamante si lancia contro la donna, e danno vita a una cruenta sfida. Ruggiero tenta con le preghiere di separare le due guerriere senza ottenere ascolto, passa infine alle maniere forti e fa così indirizzare contro di sé l’ira di Marfisa. Bradamante rimane da parte a godersi la scena, tale da rimuovere ogni suo precedente dubbio riguardo alla loro relazione. Il duello tra i due è interrotto dalla voce del mago Atlante. Il mago comunica a Ruggiero e Marfisa che sono fratelli gemelli. Almonte e Troiano, padre di re Agramante, avevano ucciso il loro padre Ruggiero II ed abbandonato in mare la loro madre Galaciella. La fortuna aveva però messo in salvo la donna, che li aveva così dati alla luce ed era morta subito dopo.

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Ruggiero vs Marfisa, Bradamante e il mago Atlante

Atlante aveva dato sepoltura a Galaciella ed aveva allevato i due bambini, facendoli allattare da una leonessa. Un giorno un gruppo di arabi aveva rapido la bambina, ed a lui era rimasto solo Ruggiero. Detto questo, lo spirito del mago svanisce per raggiungere il regno degli inferi. Ruggiero e Marfisa si scoprono fratelli, abbandonano il combattimento e si abbracciano fraternamente. Ruggiero confessa quindi alla sorella l’amore che prova per Bradamante, le due donne si abbracciano affettuosamente ed abbandonano così anche loro ogni ostilità. Marfisa vuole sapere qualcosa di più riguardo alla loro madre ed al loro padre, Ruggiero le racconta la loro storia, di come Ruggiero II dovette combattere contro il re Agolante giunto in Italia con tre figli, tra cui Galaciella. Costei si convertì e appunto divenne la loro madre, mentre il padre trovò la morte dal re saraceno. Marfisa dichiara quindi la sua cristianità e dice infine di non voler più vedere il fratello in mezzo a cavalieri saraceni se non con l’intenzione di ucciderli. Il cavaliere non può però fare altro che promettere che aspetterà la prima buona occasione per lasciare l’esercito saraceno, senza compromettere il proprio onore.

Il canto XXXVII inizia con i tre (Bradamante, Marfisa e Ruggiero) che sentono un lamento e si dirigono nel luogo da dove proviene ed incontrano così tre donne, alle quali era stata tagliata la gonna fino all’ombelico. Sono le ambasciatrici mandate a portare lo scudo d’oro a Carlo.

i294.jpgBradamante, Marfisa e Ruggiero incontrano le donne con gli abiti tagliati

La donna le racconta che era stata così umiliata dagli abitanti di un castello vicino. La sera, i tre, con le donne al seguito alloggiano in un villaggio posto presso una collina e completamante abitato da donne. Ruggiero domanda ad una di loro il perché di quella situazione e gli viene quindi data la spiegazione. Il loro signore, Marganorre, aveva in odio il sesso femminile e le aveva perciò esiliate da ormai due anni al confine dei suoi possedimenti. Viene anche raccontato cos’è che ha portato all’istituzione di quella crudele usanza. Marganorre aveva due figli, Cilandro e Tanacro, molto cortesi ed ospitali verso chiunque passasse per quella terra. Un giorno capitò nel loro castello un cavaliere accompagnato da una bellissima dama. Cilandro si innamorò a tal punto della donna da scordare ogni regola di cortesia, che il cavaliere lo uccise. Anche Tanarco cadde nello stesso amore verso Drusilla, moglie del barone Olindro: se ne innamorò e cercò di impossessarsene con la forza. Ma per non cadere come suo fratello le uccide il marito. Drusilla capì di poter riuscire a vendicare la morte del marito solo con l’inganno: il giorno del matrimonio l’avvelena, fingendo di rispettare l’usanza di bere del liquore da uno stesso calice. Marganorre, rimasto privo di figli maturò odio contro le donne presenti e con la propria spada ne fece una strage. Quindi fece approvare una legge crudele, per cui le donne che capitavano in quella valle, dovevano essere fustigate e quindi umiliate con il taglio della gonna. Il mattino seguente Bradamante, Marfisa e Ruggiero si preparano per raggiungere il castello e mettere fine a quella legge crudele. Giunti nel borgo dove regna il crudele Marganorre, i tre cavalieri vengono subito circondati.

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Drusilla, Ullania e le altre donne si vendicano di Marganorre 

Marfisa si lancia contro il tiranno, lo lascia tramortito dopo averlo colpito alla testa con un pugno, lo lega e lo lascia quindi in custodia di una vecchia serva. Il tiranno viene quasi linciato dalla folla, il suo castello saccheggiato di ogni avere. Alle ambasciatrici viene restituito lo scudo d’oro e Marganorre viene buttato da una torre. Nel borgo sarà ora rispettata la legge dettata da Marfisa: saranno le donne a comandare nel villaggio, ogni terra e lo stesso castello sarà di loro proprietà. Inoltre, a nessuno straniero dovrà essere data ospitalità se non giura prima di essere per sempre amico delle donne e nemico dei loro nemici.

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Quindi, siamo nel canto XXXVIII, Ruggiero prende la via per la città di Arles, mentre Bradamante e Marfisa raggiungono insieme l’accampamento cristiano e ricevono un’accoglienza festosa. Re Carlo le accoglie personalmente e, per la prima volta in tutta la sua vita, Marfisa si inginocchia, e gli dice che l’aver conosciuto le proprie origini le aveva ora spento il furore verso i cristiani, ed acceso un profondo odio verso re Agramante.

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Re Carlo accoglie Marfisa tra i cavalieri

Marfisa dice anche di voler essere parente e serva di re Carlo, così come in passato lo era stato suo padre. Dice infine di volersi convertire al cristianesimo e di voler combattere contro i pagani. Re Carlo accetta di avere Marfisa non solo come parente ma anche come figlia. Il giorno dopo viene allestita una ricca cerimonia e la donna viene battezzata, con il re che le fa da padrino. Astolfo, intanto, presa con sé l’ampolla contenente il senno di Orlando, riceve dall’evangelista Giovanni le indicazioni per riuscire ad attraversare senza danni il deserto ed assalire Biserta, capitale del regno di Agramante. Il paladino raggiunge quindi in sella all’ippogrifo l’Etiopia, e fa organizzare l’esercito per muovere guerra contro i pagani. Giunto presso un colle, Astolfo mette i guerrieri più fidati alla sua base e ne raggiunge in volo la cima. Seguendo le indicazioni ricevute in paradiso, invoca l’evangelista Giovanni ed inizia a buttare dalla cima del colle dei sassi che, per miracolo, si trasformano in cavalli durante la caduta. Ogni fante diviene un cavaliere e l’esercito inizia a fare scorrerie per tutta l’Africa. I re messi da Agramante a guardia del suo regno, si muovono contro i cristiani, e mandano una nave in Francia per informare il loro signore degli avvenimenti. In Francia, ricevuto il messaggio dall’Africa, Agramante chiama a consiglio i re ed i principi pagani. Chiede consiglio a re Marsilio su come comportarsi ed il re di Spagna gli suggerisce di mandare in Africa solo poche sue navi, basterà la vista della sua bandiera per mettere in fuga gli oppressori e di non abbandonare quindi l’impresa in Francia. Il re Sobrino invece esorta Agramante a tornare in Africa. Non basta l’assenza di Orlando a fare sperare in una loro vittoria, dal momento che molti di loro sono comunque stati uccisi anche in assenza del paladino, ed ora quella guerra rischia di portarli all’estinzione. Per non perdere l’onore proponga a re Carlo di decidere la sorte di tutta la guerra con il combattimento di soli due cavalieri. Consiglia quindi di mettere il destino di tutti i pagani nelle mani di Ruggiero. Vengono mandati dei messaggeri da re Carlo, che subito accetta il patto sapendo di poter confidare nel valore di Rinaldo. Il paladino è onorato di essere stato scelto per l’impresa. Anche Ruggiero è onorato ma allo stesso tempo si duole profondamente sapendo che lo sfidante è il fratello della sua amata. Bradamante è disperata, capisce che qualunque possa essere l’esito di quel duello, lei non potrà che averne un danno. La maga Melissa ascolta le sue lacrime e le promette di darle tutto il suo aiuto per fare interrompere quel duello. Il giorno fissato per il combattimento entrambi gli eserciti escono dai loro accampamenti e si schierano l’uno di fronte all’altro.

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Re Carlo e re Agramante

Vengono eretti due altari e su di essi prima re Carlo e poi Agramante promettono sulle proprie scritture sacre di rispettare il patto: chi perde dovrà pagare un tributo in oro ogni anno al vincitore e non dovrà mai più muovergli guerra. Entrambi i cavalieri giurano quindi di abbandonare la loro schiera e di servire l’esercito avversario, se qualcuno dei loro dovesse intervenire nel combattimento. Inizia quindi il combattimento. Ruggiero, indeciso sul da farsi, è più impegnato a difendersi che ad attaccare.

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Ci troviamo ora nel canto XXXIX dove Ruggiero sa che se uccide Rinaldo perderà per sempre la sua amata Bradamante; ha l’animo tormentato e combatte più in difesa che in attacco. L’incontro inizia a sembrare impari ai pagani, anche perché Rinaldo combatte coraggiosamente, e temono il peggio.

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Rinaldo contro Ruggiero

Interviene dunque la maga Melissa che assunte le sembianze di Rodomonte, si avvicina ad Agramante e chiede al re rompere il patto e passare quindi all’azione con tutto l’esercito. Agramante, credendo di avere al fianco il feroce guerriero, presa fiducia, si spinge subito in avanti. Entrambi gli eserciti si lanciano subito al combattimento ed i due sfidanti abbandonano il duello, si mettono da parte in attesa di sapere chi abbia violato il patto, e giurano infine di essere nemici di quella fazione. Bradamante e Marfisa non resistono oltre e si lanciano in mezzo ai nemici facendo una strage. L’esercito pagano viene messo subito in fuga. Agramante cerca invano Rodomonte, re Marsilio e re Sobrino, ma il primo non era reale e gli altri due si sono prontamente ritirati nella città di Arles, timorosi per l’imminente castigo divino (Agramante era venuto meno ad un giuramento sul testo sacro). Tornando in Africa da Astolfo, contro il paladino e l’esercito di Etiopia si muove un esercito di africani guidato da re Branzardo, messo da Agramante a guardia del suo regno. Ma tutti i migliori cavalieri erano stati infatti inviati precedentemente in Francia e quindi lo scontro è impari. Re Branzardo, rifiugiatosi nella città di Biserta, capisce di non poter organizzare da solo le difese della città. Allora Astolfo getta in mare dei rami e, grazie ad un altro miracolo, vengono generate delle navi. L’esercito cristiano libera tutti i prigionieri senza alcuna difficoltà e viene poi allestito un sontuoso banchetto. I festeggiamenti vengono interrotti da un gran frastuono. Tutti i paladini si armano, corrono sul posto e vedono che i loro soldati sono stati aggrediti e uccisi da un uomo feroce, completamente nudo ed armato di un semplice bastone. Giunge in quel momento anche Fiordiligi, che subito getta le braccia al collo del suo amato Brandimarte, per ritrovare il quale era giunta fino in Africa. Fiordiligi riconosce il furioso guerriero nudo, è il conte Orlando:

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L’esercito di Agramante attacca

ORLANDO RINSAVITO
(XXXIX, 43-61)

Il gentil cavallier, non men giocondo
di veder la diletta e fida moglie
ch’amava più che cosa altra del mondo,
l’abraccia e stringe e dolcemente accoglie:
né per saziare al primo né al secondo
né al terzo bacio era l’accese voglie;
se non ch’alzando gli occhi ebbe veduto
Bardin che con la donna era venuto.

Stese le mani, ed abbracciar lo volle,
e insieme domandar perché venìa;
ma di poterlo far tempo gli tolle
il campo ch’in disordine fuggia
dinanzi a quel baston che ’l nudo folle
menava intorno, e gli facea dar via.
Fiordiligi mirò quel nudo in fronte,
e gridò a Brandimarte: «Eccovi il conte!»

Astolfo tutto a un tempo, ch’era quivi,
che questo Orlando fosse, ebbe palese
per alcun segno che dai vecchi divi
su nel terrestre paradiso intese.
Altrimente restavan tutti privi
di cognizion di quel signor cortese;
che per lungo sprezzarsi, come stolto,
avea di fera, più che d’uomo, il volto.

Astolfo per pietà che gli traffisse
il petto e il cor, si volse lacrimando;
ed a Dudon (che gli era appresso) disse,
ed indi ad Oliviero: «Eccovi Orlando!»
Quei gli occhi alquanto e le palpèbre fisse
tenendo in lui, l’andar raffigurando;
e ’l ritrovarlo in tal calamitade,
gli empì di meraviglie e di pietade.

Piangeano quei signor per la più parte:
sì lor ne dolse, e lor ne ’ncrebbe tanto.
«Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte
di risanarlo, e non di fargli il pianto.»
E saltò a piedi, e così Brandimarte,
Sansonetto, Oliviero e Dudon santo;
e s’aventaro al nipote di Carlo
tutti in un tempo; che volean pigliarlo.

Orlando che si vide fare il cerchio,
menò il baston da disperato e folle;
ed a Dudon che si facea coperchio
al capo de lo scudo ed entrar volle,
fe’ sentir ch’era grave di soperchio:
e se non che Olivier col brando tolle
parte del colpo, avria il bastone ingiusto
rotto lo scudo, l’elmo, il capo e il busto.

Lo scudo roppe solo, e su l’elmetto
tempestò sì, che Dudon cadde in terra.
Menò la spada a un tempo Sansonetto;
e del baston più di duo braccia afferra
con valor tal, che tutto il taglia netto.
Brandimarte ch’addosso se gli serra,
gli cinge i fianchi, quanto può, con ambe
le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe.

Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi
da sé l’Inglese fe’ cader riverso:
non fa però che Brandimarte il lassi,
che con più forza l’ha preso a traverso.
Ad Olivier che troppo inanzi fassi,
menò un pugno sì duro e sì perverso,
che lo fe’ cader pallido ed esangue,
e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue.

E se non era l’elmo più che buono,
ch’avea Olivier, l’avria quel pugno ucciso:
cadde però, come se fatto dono
avesse de lo spirto al paradiso.
Dudone e Astolfo che levati sono,
ben che Dudone abbia gonfiato il viso,
e Sansonetto che ’l bel colpo ha fatto,
adosso a Orlando son tutti in un tratto.

Dudon con gran vigor dietro l’abbraccia,
pur tentando col piè farlo cadere:
Astolfo e gli altri gli han prese le braccia,
né lo puon tutti insieme anco tenere.
C’ha visto toro a cui si dia la caccia,
e ch’alle orecchie abbia le zanne fiere,
correr mugliando, e trarre ovunque corre
i cani seco, e non potersi sciorre;

imagini ch’Orlando fosse tale,
che tutti quei guerrier seco traea.
In quel tempo Olivier di terra sale,
là dove steso il gran pugno l’avea;
e visto che così si potea male
far di lui quel ch’Astolfo far volea,
si pensò un modo, ed ad effetto il messe,
di far cader Orlando, e gli successe.

Si fe’ quivi arrecar più d’una fune,
e con nodi correnti adattò presto;
ed alle gambe ed alle braccia alcune
fe’ porre al conte, ed a traverso il resto.
Di quelle i capi poi partì in commune,
e li diede a tenere a quello e a questo.
Per quella via che maniscalco atterra
cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra.

Come egli è in terra, gli son tutti adosso,
e gli legan più forte e piedi e mani.
Assai di qua di là s’è Orlando scosso,
ma sono i suoi risforzi tutti vani.
Commanda Astolfo che sia quindi mosso,
che dice voler far che si risani.
Dudon ch’è grande, il leva in su le schene,
e porta al mar sopra l’estreme arene.

Lo fa lavar Astolfo sette volte;
e sette volte sotto acqua l’attuffa;
sì che dal viso e da le membra stolte
leva la brutta rugine e la muffa:
poi con certe erbe, a questo effetto colte,
la bocca chiuder fa, che soffia e buffa;
che non volea ch’avesse altro meato
onde spirar, che per lo naso, il fiato.

Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso
in che il senno d’Orlando era rinchiuso;
e quello in modo appropinquogli al naso,
che nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto il votò: maraviglioso caso!
che ritornò la mente al primier uso;
e ne’ suoi bei discorsi l’intelletto
rivenne, più che mai lucido e netto.

Come chi da noioso e grave sonno,
ove o vedere abominevol forme
di mostri che non son, né ch’esser ponno,
o gli par cosa far strana ed enorme,
ancor si maraviglia, poi che donno
è fatto de’ suoi sensi, e che non dorme;
così, poi che fu Orlando d’error tratto,
restò maraviglioso e stupefatto.

E Brandimarte, e il fratel d’Aldabella,
e quel che ’l senno in capo gli ridusse,
pur pensando riguarda, e non favella,
come egli quivi e quando si condusse.
Girava gli occhi in questa parte e in quella,
né sapea imaginar dove si fusse.
Si maraviglia che nudo si vede,
e tante funi ha da le spalle al piede.

Poi disse, come già disse Sileno
a quei che lo legar nel cavo speco:
«Solvite me», con viso sì sereno,
con guardo sì men de l’usato bieco,
che fu slegato; e de’ panni ch’avieno
fatti arrecar participaron seco,
consolandolo tutti del dolore,
che lo premea, di quel passato errore.

Poi che fu all’esser primo ritornato
Orlando più che mai saggio e virile,
d’amor si trovò insieme liberato;
sì che colei, che sì bella e gentile
gli parve dianzi, e ch’avea tanto amato,
non stima più se non per cosa vile.
Ogni suo studio, ogni disio rivolse
a racquistar quanto già amor gli tolse.

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Orlando legato

Il gentile cavaliere, non meno felice nel vedere la sua cara e fedele moglie, che amava più di qualunque altra cosa al mondo, l’abbraccia, la stringe a sé e la accoglie teneramente: non si lasciava saziare né con il primo, né con il secondo e neanche con il terzo bacio il suo acceso desiderio; se non che, alzando gli occhi, vide Bardino, che era arrivato insieme alla donna. // Stese le mani, e volle abbracciarlo ed allo stesso tempo domandare il perché della sua venuta; ma gli impedì di riuscire nel suo intento l’accampamento che fuggiva in modo disordinato di fronte a que bastone che l’uomo folle e completamente nudo agitava tutt’intorno, e gli faceva lasciare via libera. Fiordiligi guardò in viso quell’uomo nudo, e gridò a Brandimarte: «Ecco a voi il conte Orlando!» // Nello stesso istante anche Astolfo, che si trovava lì, vide chiaramente che si trattava di Orlando grazie ad alcuni segni che dai vecchi Santi aveva appreso quando si trovava lassù in Paradiso. Non fosse stato grazie a loro due, tutti gli altri sarebbero rimasti all’oscuro dell’identità di quel gentile signore; che per il lungo trascurarsi, per la sua follia, aveva il volto più simile a quello di un animale che di un uomo. // Astolfo a causa della commozione che gli trafisse il petto ed anche il cuore, si volse piangendo; e disse a Dudone (che era vicino a lui), ed anche ad Oliviero: «Ecco a voi Orlando!» Quei due, gli occhi e le palpebre tenendo a lungo fisse su di lui, iniziarono a riconoscerlo; ed il ritrovarlo in una tale disgraziata condizione, li riempì di meraviglie a di pietà. // Piangeva la maggior parte di quei signori: tanto a loro faceva provare dolore, tanto si dispiacevano per ciò che vedevano. «E’ il momento (disse loro Astolfo) di trovare il modo per farlo rinsavire, e non di dovergli fare un lamento funebre.» E saltò da cavallo, si mise in piedi, lo stesso fecero Brandimarte, Sansonetto, Oliviero ed il santo Dudone; e si avventarono, si lanciarono sul nipote di Carlo, Orlando, tutti nello stesso istante; con l’intenzione di immobilizzarlo. // Orlando che si vide circondato, agitò il suo bastone da disperato e da pazzo; e a Dudone, che si faceva protezione alla testa con lo scudo e voleva farsi avanti, fece sentire che era anche molto pesante: e non fosse stato grazie ad Oliviero che con la spada tolse parte della potenza al colpo, quel bastone ingiusto avrebbe rotto non solo lo scudo, ma anche l’elmo, la testa ed il busto. // Ruppe solamente lo scudo, e su l’elmo si abbatté con tale forza che Dudone cadde a terra. Sansonetto menò la sua spada nello stesso istante; e colpì il bastone a più di due braccia dall’estremità con una tale forza, da tagliarlo completamente di netto. Brandimarte che gli si gettò addosso, gli strinse i fianchi, tanto forte quanto poté, con entrambe le braccia, mentre Asfolfo gli afferrò le gambe. // Si scosse Orlando, e dieci passi lontano da sé lanciò e fece cadere riverso sulla schiena l’inglese: ciò non fece però lasciare la presa a Brandimarte, che con più forza l’aveva afferrato di traverso. Ad Oliviero che si era fatto troppo avanti, tirò un pugno tanto forte e violento, che lo fece cadere pallido ed esangue, con il sangue che gli usciva dal naso e dagli occhi. // E non fosse stato per l’elmo, più che di buona fattura, che indossa Oliviero, quel pugno l’avrebbe anche ucciso: cadde però come morto, come se avesse fatto dono della sua anima al Paradiso. Dudone ed Astolfo che si sono rialzati, sebbene Dudone abbia il viso tutto gonfio, e Sansonetto che ha inferto il bel colpo di spada, sono improvvisamente ancora tutti addosso ad Orlando. // Dudone lo abbracciò da dietro con grande forza, tentando più volte di fargli lo sgambetto: Astolfo e gli altri gli presero le braccia, ma tutti insieme non riiuscirono a tenerlo fermo. Chi ha visto un toro a cui viene data la caccia, e che sia stato azzannato alle orecchie dai cani, correre muggendo, e portare con sé ovunque correi cani, e non potersi liberare da loro; // immagini ora come Orlando si trovasse in una identica situazione, portandosi dietro attaccati tutti quei guerrieri. In quel momento Oliviero si rialzò da terra, da dove era stato steso da quel gran pugno ricevuto; e visto che in quel modo si poteva soltanto fare male ciò che Astolfo aveva intenzione di fare con lui, pensò ad un modo per agire, e lo mise anche in pratica, di fare cadere Orlando, e riuscì nel suo intento. // Si fece portare sul posto più di una fune, e subito le preparò con nodi scorsoi; ed alcune le fece porre intorno alle gambe ed alle braccia del conte, il resto invece di traverso al suo corpo. Ripartì poi i capi di tutte le funi fra tutti i presenti, ed li diede da tenere a questo ed a quel soldato. Allo stesso modo in cui il maniscalco atterra un cavallo o un bue, Orlando fu fatto cadere, fu messo a terra. // Non appena il conte è a terra, gli saltano tutti addosso, e gli legano più forte sia le mani che i piedi. Orlando si agita molto da una parte e dall’altra, ma i suoi sforzi furono tutti inutili. Astolfo comandò quindi che fosse spostato da lì, perché disse che voleva fare in modo che riavesse il senno. Dudone che era grande e grosso, se lo mise sulla schiena, e lo portò al mare fino all’estremità della spiaggia. // Astolfo lo fece lavare sette volte, e sette volte lo immerse nell’acqua; così che dal viso e dal suo corpo folle venga tolta tutta la sporcizia incrostata: poi con certe erbe, raccolte a questo scopo, gli fece tenere chiusa la bocca, che soffia e sbuffa; non volendo che avesse nessuna altra apertura da cui rilasciare il proprio fiato, se non il naso. // Astolfo si era preparato il vaso nel quale si trovava rinchiuso il senno di Orlando; e glielo avvicinò al naso in modo tale che quando il conte fece per tirare dentro il fiato, lo vuotò completamente: fatto meraviglioso! che la mente di Orlando ritornò alle sue vecchie abitudini; e nei suoi bei discorsi ricomparì l’intelletto, più che mai lucido e chiaro. // Come chi si riprende da un sonno pesante e tormentoso, nel quale o ha visto forme abominevoli di mostri che non esistono, e che non possono neanche esistere, o gli è sembrato di compiere un gesto strano o fuori dall’ordinario, ancora si meraviglia, dopo che è tornato padrone dei suoi sensi e non dorme più; allo stesso modo, Orlando, dopo che fu tolto dalla sua condizione di errore, restò meravigliato e stupefatto. // E Brandimarte, ed Oliviero, fratello di Aldabella, ed Astolfo, colui che nella testa gli aveva fatto tornare la ragione, guarda, ripensando, senza dire nulla, come e quando aveva potuto raggiungere quel posto. Girava gli occhi da questa e da quella parte, e non sapeva neanche immaginare dove si trovava. Si meravigliò di vedersi nudo, e con tante funi addosso, dalle spalle ai piedi. // Poi improvvisamente disse, come aveva già detto Sileno a quelli che lo avevano legato nella caverna: «Slegatemi», con una espressione tanto serena, con uno sguardo ancora meno malvagio di quello che era solito avere, che che ottenne di essere slegato; ed alcuni dei vestiti cha avevano fatto portare li condivisero con lui, dandogli tutti conforto dal dolore che lo opprimeva, causato dallo sbaglio fatto in passato. // Dopo che Orlando fu tornato come era prima, saggio e forte più che mai, si trovò anche liberato dalle catene d’amore; così che lei, Angelica, che tanto bella e gentile gli era sembrata in passato, e che aveva tanto amato, non considera più di quanto consideri una cosa di poco conto. Ogni sua attenzione, ogni suo desiderio rivolse alla volontà di riacquistare quanto aveva perduto a causa dell’amore (onore e gloria).

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Orlando viene immerso nell’acqua

E’ in questo passo che si può notare il passaggio dalla bestialità d’Orlando alla sua rinascita: tale passaggio avviene attraverso una reminiscenza di tipo teologico, quell’“Ecce homo” che nel poema diventa “Ecco Orlando”, “ecco il conte” pronunciato dai paladini Fiordiligi e Orlando. Ma la rinascita dell’uomo rinascimentale non può che avvenire soltanto grazie all’intelligenza che solo può riportate “onore e gloria”.

Orlando rimane al fianco di Astolfo per dare il suo aiuto nell’assedio di Biserta. La città verrà presa dai cristiani al primo scontro ed i pagani verranno messi in fuga. Tornando in Francia, molti soldati saraceni abbandonano il campo di battaglia e si rifugiano subito sulle navi, tanto temono per la loro vita stando sulla terra ferma. Agramante è abbandonato al pericolo, continua a combattere finché riesce, poi volta le spalle e corre al galoppo verso Arles. Bradamante e Marfisa lo inseguono a tutta velocità ma non riescono a raggiungerlo, il re si rifugia nella città e si imbarca infine con gli altri. Agramante chiude le porte di Arles dietrò di sé e fa tagliare i ponti sul Rodano. Il suo alleato, il re Marsilio si fa condurre in Spagna ed inizia i preparativi per sostenere la successiva guerra che sarà la sua rovina. Agramante fa ritorno in Africa con la sua flotta. Il destino vuole però che la sua flotta incontri quella comandata dal paladino Dudone. Agramante non avrebbe mai creduto di poter essere assalito per mare, non mette pertanto nessuna vedetta a controllare l’orizzonte. L’assalto avviene così di notte ed è una strage di pagani.

Sarà nel canto XL che Agramante fugge portandosi dietro il cavallo Brigliadoro (ricevuto da Ruggiero dopo che Mandricaro era stato ucciso). Tornando a Biserta, l’esercito cristiano è in assetto da guerra ed è pronto a dare inizio alla battaglia. A Sansonetto viene dato il comando di una flotta di navi, a Senapo quello di tenere le mura sotto una pioggia di dardi.

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Le mura colpite dalle frecce

Brandimarte conduce la sua parte di esercito sotto le mura. Viene accostata una scala, il paladino sale per primo ed incita gli altri a seguirlo. Non appena raggiunge la passatoia la scala va però in mille pezzi e Brandimarte si trova così solo all’interno delle mura nemiche. Il cavaliere, nonostante le preghiere dei compagni, non torna indietro, si lancia nella città e fa strage di tutti quelli che incontra. Altri paladini si affrettano a porre le scale per entrare oltre le mura ed andare in aiuto del cavaliere. Vengono anche aperte delle brecce utilizzando arieti ed in un solo istante tutto l’esercito cristiano si riversa nella città pagana, che viene così saccheggiata e data in pasto alle fiamme.

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La breccia con l’ariete

Il re Agramante, dalla barca con la quale è scampato all’assalto di Dudone, riesce a vedere la città di Biserta avvolta dalle fiamme e vorrebbe uccidersi, ma gli viene consigliato di trovare rifugio in Egitto e lo consola dicendogli infine che non faticherà a trovare nuovi alleati per riconquistare l’Africa. La nave con a bordo il re pagano viene colta da una violenta tempesta mentre si sta dirigendo ad oriente ed è quindi costretta ad approdare su di un’isola posta tra l’Africa e la Sicilia. Trovano sull’isola re Gradasso, che cerca di convincere Agramante a non andare in Egitto, suggerisce quindi un altro piano d’azione: mentre lui sfiderà e sconfiggerà in duello Orlando, le sue genti ed il popolo Etiope di fede non cristiana muoveranno guerra alla parte cristiana dell’Etiopia. Anche gli altri due re scenderanno a “singolar tenzone” con altrettanti paladini. La sede del combattimento sarà l’isola di Lampedusa. Un messaggero viene mandato subito a Biserta per lanciare la sfida al conte Orlando. Il paladino è più che contento di accettare, avendo saputo che re Gradasso è in possesso della sua spada Durindana e che Agramante ha invece il suo cavallo Brigliadoro ed il suo famoso corno. Oliviero e Brandimarte sono i due cavalieri scelti per combattere al suo fianco. Tornando a Parigi, Rinaldo e Ruggiero erano rimasti fuori dal combattimento in attesa di conoscere chi fosse stato per primo a rompere il giuramento ed infine vengono a sapere che è stato re Agramante a muoversi per primo. Nonostante tutte le evidenze, a Ruggiero sembra comunque ingiusto abbandonare il re in quel momento di difficoltà ed è quindi indeciso su cosa fare. Dopo un giorno ed una notte di tormenti, decide infine di seguire in Africa il suo re e torna pertanto ad Arles dove incontra Dudone, i guerrieri etiopi al suo seguito ed i pagani loro prigionieri. Ruggiero non riesce a sopportare la vista dei re pagani in lacrime, si lancia quindi subito contro quelli che li custodiscono. Dudone accorre per sfidare Ruggiero. I due prima si presentano e poi iniziano il duello. Ruggiero viene così a sapere che il suo sfidante, paladino di Francia, è cugino della sua Bradamante e cerca di non ferire l’avversario.

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Nel XLI, Dudone è ormai sfinito, riesce a stento a difendersi ma non riceve alcun colpo mortale. Chiede a Ruggiero di fare pace. Quest’ultimo accetta ma a condizione che vengano liberati i re prigionieri e gli sia concesso di raggiungere l’Africa. Dudone non si oppone e lascia fare.

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Ruggiero in mare

Ruggiero parte per mare ma, non appena la terra ferma scompare alla vista dei naviganti, ha inizio una terribile tempesta e l’imbarcazione viene battuta da enormi onde. Sembra ormai inevitabile che la nave vada a schiantarsi contro la roccia e Ruggiero si mette a nuotare per raggiungere uno scoglio e salvarsi. La nave nel frattempo, senza nessuno a bordo, cambia improvvisamente rotta ed in tutta tranquillità riprende il proprio viaggio per mare. Alla fine giunge a Biserta, dove viene ritrovata da Orlando. Il conte, Oliviero e Brandimarte salgono sull’imbarcazione e trovano così la spada, il cavallo e l’armatura lasciate da Ruggiero per riuscire a salvarsi a nuoto. I tre cavalieri prendono pertanto le armi di Rinaldo e raggiungono l’isola di Lampedusa, sede stabilita per il duello. Brandimarte, che in precedenza era stato amico di Agramante, cerca di convincere il re pagano ad abbandonare l’impresa, ma Agramante a quella proposta risponde irato dicendo che il suo destino e quello del suo regno è solamente nelle mani di Dio.

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Combattimento a Lampedusa

All’alba del giorno dopo sono già tutti pronti per combattere. Tornando ad occuparci di Ruggiero, il cavaliere si affatica a nuoto per cercare di raggiungere lo scoglio e mettersi così in salvo. Il giovane teme di essere vittima della punizione divina per non essersi battezzato quando avrebbe dovuto. Gli ritornano in mente anche tutte le altre promesse mancate, si dice pentito e giura la sua fede cristiana. Promette di non combattere mai più a favore del popolo pagano, di fare gli onori di re Carlo e di sposare infine la sua amata Bradamante. Il cavaliere sente crescere per miracolo le proprie forze, raggiunge a nuoto lo scoglio ed è così l’unico a salvarsi dalle acque. Teme però ora di morire di stenti in quel luogo. Si incammina per esplorare l’isoletta ed incontra così un eremita, che pur avendolo rimproverandolo per aver giurato la propria fedeltà a Dio solo quando si era sentito vittima della sua punizione, lo conforta dicendogli che comunque a nessuno viene mai negato il cielo quando lo chiede. L’eremita conduce Ruggiero alla sua cella, gli insegna quindi le basi della religione cristiana ed il giorno dopo lo battezza. Dio aveva mostrato al religioso ogni aspetto della vita futura di Ruggiero e della sua nobile discendenza. Sull’isola di Lampedusa intanto è iniziato il duello tra i tre pagani ed i tre cristiani. Lo scontro è durissimo: i paladini e i saraceni spesso cambiano di volta in volta gli avversari, le armature, pur incantate, non riescono a difendere totalmente chi le possiede; proprio mentre Brandimarte è chino per inferire su Agramante, Gradasso l’uccide alle spalle.

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Il duello prosegue nel XLII canto: Orlando arde d’ira nel vedere che il caro amico Brandimarte giace a terra ucciso da re Gradasso, e si lancia quindi subito contro gli avversari. Il conte taglia di netto la testa ad Agramante. Re Gradasso assiste alla scena e per la prima volta in vita sua trema di paura. Il pagano è ormai rassegnato a morire e non cerca neanche di difendersi dal colpo mortale che gli viene sferrato dal conte cristiano. Orlando non gioisce per la vittoria ottenuta, scende subito da cavallo e corre dall’amico Brandimarte. Il cavaliere muore subito dopo, chiede perdono a Dio per i propri peccati e raccomanda al conte la sua Fiordiligi.

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Orlando piange Brandimarte

Il saraceno re Sobrino è disteso al suolo senza forze ed ormai quasi dissanguato. Il conte aiuta Oliviero a liberarsi dal peso del cavallo ed a rialzarsi, poi preleva anche Sobrino e lo fa curare. Orlando vede infine arrivare dal mare un’imbarcazione leggera. Tornando in Francia, Bradamante vede il suo Ruggiero allontanarsi da lei ancora una volta e riprende così a disperarsi e a maledirlo. La donna si sfoga con Marfisa, sorella del cavaliere, che la consola dicendogli che non crede che Ruggiero possa commettere un simile errore, e se anche lo dovesse fare, ci penserà lei a vendicarla. Tutti i paladini si godono la meritata pace, ora che i saraceni sono stati fatti scappare, tranne Rinaldo, che è ancora tormentato dall’amore per la bella Angelica. Il cavaliere la cerca ovunque ed infine decide di affidarsi ai poteri magici di Malagigi per sapere dove essa si trovi. Malagigi informa Rinaldo dei fatti e cerca di convincerlo a non amare più la donna, ormai quasi di sicuro giunta in patria insieme al suo Medoro. Il paladino soffre e si tormenta al pensiero che un altro uomo abbia colto la verginità della sua amata. Spinto dal furore della gelosia, lascia la Francia senza nessuno al seguito. Rinaldo si tormenta perché la donna non gli abbia offerto la verginità. Mentre procede all’interno della Selva Nera, il cielo diviene improvvisamente nuvoloso e da una caverna esce un mostro dalle sembianze femminili (la Gelosia), Il cavaliere ha paura, ma cerca comunque di simulare il solito coraggio, stringe la spada e cerca di difendersi dai colpi del mostro, senza però riuscirci. Il paladino cristiano si mette infine in fuga ma il mostro è veloce a muoversi e sale anch’egli in groppa al suo cavallo. Giunge in suo aiuto un cavaliere (lo Sdegno), che colpisce di lato il mostro, lo fa cadere a terra e lo ricaccia infine nella sua caverna. Rinaldo ringrazia il suo salvatore, ne chiede il nome ma il cavaliere rimanda la risposta. I due giungono presso una gelida fonte, quella che spegne la passione amorosa ed il cavaliere misterioso propone a Rinaldo di rimanere lì a riposare. Il paladino accetta, subito si disseta bevendo alla fonte ed in uno stesso momento si libera della sete e del folle amore per Angelica. Il cavaliere confessa ora al paladino di essere lo Sdegno e subito scompare. Rinaldo prosegue comunque il suo viaggio verso l’India, questa volta veramente con l’intenzione di recuperare Baiardo. Giunto a Basilea viene a sapere che Orlando si sta preparando per sfidare a duello Gradasso e Agramante. Rinaldo vuole combattere al fianco del cugino, cambia meta e si dirige verso l’Italia. Nel cammino incontra un cavaliere che gli chiede se è sposato e, ricevuta una risposta positiva, lo invita quindi nel suo palazzo. Qui vede un’immensa fontana protetta da una volta sostenuta da otto statue di donna, tutte ugualmente belle. Fra di esse una raffigura sicuramente Alessandra Benucci, e chi la sostiene, è certamente Ariosto. Rinaldo ed il cavaliere banchettano in cortile. Terminata la cena, il padrone invita il paladino a bere per vedere se la sua donna gli è fedele o meno: Rinaldo è sul punto di tentare la prova, ma poi riflette su quanto sia pericolosa la verità.

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Rinaldo e l’oste

Nel canto XLIII Rinaldo decide di non bere e vede il padrone del castello piangere ed inizia a raccontare la sua storia. Se la fortuna non l’aveva fatto nascere ricco, la natura l’aveva reso bello. Nella sua stessa città aveva vissuto un uomo molto saggio che durante gli ultimi anni, convinse con del denaro una donna a concedersi a lui, rinunciando alla propria verginità. Da lei ebbe quindi una figlia. Non volendo che la figlia fosse simile alla madre, fece costruire quel ricco palazzo in un luogo solitario e lì si trasferì con la bambina. Fece quindi anche ritrarre in tutto il palazzo donne, che fossero da esempio alla ragazza per essersi opposte ad un amore peccaminoso. Quando la figlia raggiunse l’età per sposarsi, il signore del castello, allora ragazzo, venne ritenuto essere l’unico degno di diventarne lo sposo. Erano al quinto anno di matrimonio quando una nobile donna della vicina città, che conosceva la magia, s’innamorò del cavaliere. Il signore amava però a tal punto la sua donna, tanto si fidava della sua fedeltà, che non cedette mai alle richieste della maga, di nome Melissa. La maga tuttavia gli disse che la sua fedeltà era determinata dal non poter incontrare nessun altro uomo. Gli propose quindi di lasciarla sola nel castello, così da poter conoscere la sua vera natura. Melissa consegnò quindi al cavaliere quella brocca, dicendogli che sarebbe servita a mostrargli l’esito della prova. L’uomo assunse le sembianze di un bel cavaliere, governante di Ferrara, che, innamorato di sua moglie, più volte si era fatto avanti con proposte amorose ed altrettante volte era stato cacciato indietro. Il cavaliere, in quelle forme, poté vedere la moglie cedere alle lusinghe di un altro uomo. Riprese le sembianze originali, accusò la donna di essere disposta a tradirlo. Lei si arrabbiò per il gesto del marito ed infine si accese di odio per lui, raggiungendo il cavaliere di Ferrara e vivendo con lui. L’uomo soffre per il suo gesto e trova come unica consolazione il fatto che tutti i cavalieri ai quali aveva offerto la brocca non erano riusciti a bere una sola goccia di quel vino. Dopo aver dormito presso una barca, il mattino dopo il paladino passa presso la città di Ferrara, ripensa alle vicende del signore del palazzo in cui era stato ospite la sera prima. Uno degli uomini dell’imbarcazione dice che quel signore avrebbe dovuto fare tesoro di quanto era già accaduto in precedenza nella vicina Mantova. Viene infatti raccontata la storia di Anselmo e Adonio. Erano ambedue innamorati di una stessa donna, ma lei era moglie del primo, mentre il secondo per lei si era ridotto in miseria. Il povero Adonio, un giorno, vede un contadino cacciare una serpe, la salva e si scopre che essa nasconde la maga Manto. Ricostruito il suo patrimonio ed ottenuto un cane dai poteri magici, in cambio di quest’ultimo l’uomo riesce a vincere la resistenza della donna. Anselmo, deciso ad ucciderla, la cerca in tutta la Lombardia fino a giungere in uno straordinario palazzo il cui padrone è un orrendo etiope. Quest’ultimo chiede ad Anselmo di passare una notte con lui in cambio del palazzo e all’accettazione dell’uomo cade la magia di cui il palazzo faceva parte e appare la moglie che rinfaccia all’uomo che il peccato a lui proposto era molto più grave del suo. Infine decisero di considerare pari le loro colpe e tornarono entrambi a vivere d’amore e d’accordo.

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Anselmo, la moglie e l’etiope

Così finisce la storia del marinaio. Rinaldo nel frattempo giunge a Roma e poi a Lampedusa, ma vi giunge quando Orlando ha già ucciso Gradasso ed Agramante. Fiordiligi, intanto, viene a sapere la notizia della morte di Brandimarte e si unisce a Orlando che nel frattempo raggiunge la Sicilia, insieme ad Oliviero, per dare degna sepoltura al cavaliere. Il pomposo funerale si svolge la sera dopo. Fiordiligi deciderà di fare costruire un cella nella tomba dell’amato, e morirà non molto tempo dopo. Orlando, Oliviero, peggiorato in salute, e Rinaldo lasciano la Sicilia e, prima di tornare in Francia, su consiglio del comandante della nave, si fermano presso uno scoglio abitato da un eremita capace di compiere azioni miracolose. Il religioso dà la sua benedizione ad Oliviero e lo fa così guarire all’istante. Re Sobrino, visto il miracolo, subito si dichiara pronto a convertirsi al cristianesimo. Durante il sontuoso banchetto allestito per festeggiare le due guarigioni e la conversione di Sobrino, Ruggiero viene riconosciuto da tutti i cavalieri presenti e quindi festeggiato per la sua fresca conversione religiosa. Tra tutti, è Rinaldo il cavaliere che lo festeggia ed onora con maggiore affetto.

Ci troviamo nel XLIV canto, dove Astolfo, in Africa, sapute le vicende di Lampedusa e vedendo che ormai l’Africa non può più nuocere alla Francia, fa ritornare il popolo etiope alla sua terra di origine. Quindi parte per la Provenza e, su richiesta dell’evangelista Giovanni, lascia libero l’ippogrifo. Anche il suo corno magico non ha ormai più alcun potere, essendo rimasto il suo terribile suono sulla luna tra le cose perse. Astolfo giunge infine a Marsiglia il giorno stesso in cui ci giungono via mare anche gli altri. Tutti i cavalieri proseguono insieme il viaggio verso Parigi e vengono quindi accolti festosamente da Carlo Magno e da tutta la sua corte. Parigi è in festa ed i paladini vengono salutati come liberatori dell’impero. Rinaldo informa il padre Amonio di aver promesso Bradamante in sposa a Ruggiero. Il padre e la madre del cavaliere lo rimproverano però d’aver agito in autonomia e si oppongono alla sua volontà, avendo ormai deciso che la donna diverrà sposa di Leone, sicuramente più ricco e potente di Ruggiero. Viene chiesto a Bradamante di esporre la sua volontà, lei non osa però proferire parola e rimane in silenzio.

 

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Bradamante sola e disperata

Quando si trova finalmente da sola, la donna si dispera, non sapendo come comportarsi: ma, alla fine, si convince ad opporsi alla volontà dei genitori. Anche Ruggiero è tormentato dai suoi pensieri, avendo saputo che Amone e la moglie, Beatrice, volevano fare sposare la sua amata con il figlio dell’imperatore Costantino. Bradamante viene a sapere delle preoccupazioni che affliggono il cavaliere e manda una sua fedele cameriera a dirgli che il suo amore per lui è e rimarrà per sempre forte. Gli dice quindi che nessuna corona né ricchezza potrà mai modellare il suo cuore sull’immagine di un altro uomo. Ripreso il proprio originale coraggio, Bradamante si presenta da re Carlo e gli chiede, come riconoscimento per i servizi svolti, che le prometta di non lasciarla sposare a nessun uomo che non mostri di esserle superiore in armi. Il patto non viene fatto in segreto e la notizia non tarda a giungere alle orecchie dei genitori di Bradamante. Avendo capito che la figlia punta a sposare Ruggiero, Amone e Beatrice allontanano la donna da Parigi e la portano quindi nella loro fortezza di Roccaforte, con l’intenzione di mandarla poi in Oriente. Ruggiero, vedendo che la sua amata gli è stata sottratta e temendo che possa infine andare in sposa a Leone, indossa le armi per muovere guerra all’imperatore Costantino, ucciderlo ed impossessarsi del suo regno. Si mette in viaggio e giunge infine in Bulgaria. Vicino a Belgrado trova l’esercito dell’imperatore intento a combattere contro quello bulgaro, con l’obiettivo di riconquistare la capitale. L’esercito imperiale è nettamente superiore a quello avversario per numero e mezzi, ed in poco tempo i soldati bulgari vengono messi in fuga. Ruggiero interviene allora in difesa degli sconfitti, ferma la loro fuga e si lancia subito all’attacco. Il cavaliere fa una strage e l’esito della battaglia viene totalmente capovolto, sono ora i bulgari ad inseguire gli avversari in fuga. Leone vede gli avvenimenti da un colle e non può fare a meno di apprezzare il valore di quel cavaliere misterioso. Non si cura dei suoi che vengono uccisi ed anzi si preoccupa che l’uomo possa essere ferito. Il figlio dell’imperatore chiama infine la ritirata.

Nel XLV vediamo che un cavaliere rumeno riconosce nelle insegne di Ruggiero quelle del cavaliere misterioso che aveva messo in fuga l’esercito imperiale il giorno prima, ed avvisa quindi subito della sua presenza Costantino. Il cavaliere viene così fatto prigioniero durante la notte. L’imperatore già assapora la vittoria contro i bulgari, sapendo che senza l’aiuto del cavaliere nulla potranno ora contro il suo esercito. Anche il figlio Leone si rallegra per l’avvenimento, non tanto perché Belgrado può ora essere riconquistata, quanto perché spera di farsi amico il valoroso guerriero. La crudele Teodora invece, sorella dell’imperatore, esulta per l’avvenimento in quanto vede la possibilità di vendicare la morte del figlio, ucciso dal guerriero il giorno prima. Ruggiero viene così incantenato in una torre in attesa che Teodora, a cui è stato affidato, decida come farlo morire. Nel frattempo in Francia re Carlo annuncia a tutti la decisione, come richiesto da Bradamante, di non lasciare maritare la donna a nessun cavaliere che non sia in grado di mostrarsi superiore a lei in duello. Amone e Beatrice, per rispettare la volontà del loro re e fanno così nuovamente ritorno a Parigi. Bradamante scopre che il suo amato ha abbandonato la corte di Carlo e teme che voglia dimenticarla. Il più delle volte la donna però si rimprovera per non aver avuto fiducia in Ruggiero e si pente di essere stata gelosa, ed anche di aver sospettato di lui. Bradamante invoca il ritorno dell’amato cavaliere, sapendo che basterà la sua solo vista per spegnere in lei ogni timore e dare nuova forza alla sua speranza. Intanto Leone viene a sapere che il cavaliere misterioso è tenuto prigioniero dalla crudele zia Teodora e, mosso dal profondo amore che nutre per il suo sovraumano valore, decide di salvargli la vita. Quindi con un inganno si fa aprire la cella in cui è tenuto il prigioniero e lo libera. Ruggiero da parte sua ringrazia Leone e si dice disposto a restituirgli il favore in qualunque condizione. Giunge intanto anche in Bulgaria la notizia del bando emesso da re Carlo. Leone, conoscendo i propri limiti, decide così di chiedere al cavaliere misterioso di partecipare al torneo al suo posto, sotto mentite spoglie. Il cavaliere non può che accettare l’incarico, tanto si sente in debito con il giovane. Ruggiero è disperato, sa che andrà incontro alla sua morte: per l’angoscia di vedere la sua amata tra le braccia di un altro uomo o altrimenti per propria mano, ma non può però rifiutare l’incarico e nemmeno pensare di non vincerlo. Il duello viene fissato per il giorno seguente. Ruggiero, per non essere riconosciuto, si presenta al combattimento completamente nascosto dall’armatura, senza il proprio cavallo e con una spada al fianco che non è la sua. Il cavaliere toglie perfino tutto il filo alla spada così da renderla completamente inoffensiva. Dall’altro lato Bradamante si presente con tutt’altri intenti, affila la propria spada e vuole solo poterla affondare nella carne del suo avversario. Si dà il via al combattimento e Bradamante subito assale l’avversario, ma pur colpendolo con tutta la forza non può nulla contro la sua armatura invulnerabile. Ruggiero pensa invece solo a difendersi, cercando di ferirla il meno possibile. Giunge infine la sera ed il combattimento viene interrotto. Leone ha ottenuto Bradamante in sposa. Ruggiero non si toglie l’elmo e torna subito all’accampamento del figlio di Costantino. Leone gli promette eterna riconoscenza. Il cavaliere soffre però d’amore e non riesce a trattenersi troppo; sale in sella al suo Frontino e si lascia da lui condurre ovunque voglia. Ruggiero passa tutta la notte piangendo e sa che per vendicarsi deve prendersela solo contro sé stesso. Ma soprattutto non vuole lasciare senza vendetta la amata Bradamante, alla quale ha arrecato un eguale danno. La mattina seguente Ruggiero giunge in un luogo selvaggio ed isolato, e lo reputa adatto come luogo per la sua morte segreta. Il cavaliere ringrazia Frontino, lo lascia libero e si inoltra poi a piedi nel fitto bosco con l’intenzione di lasciarsi morire. Tornando a Parigi, Bradamante sa di non potersi opporre al matrimonio con Leone, si dispera ed è decisa anche lei a togliersi la vita.

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Giosetta Fioroni: Marfisa

Il mattino dopo Marfisa si presenta di fronte a Carlo dicendo di non poter tollerare che a suo fratello Ruggiero venga tolta la sposa, e dichiara quindi di essere pronta a sostenere con la spada la sua causa. La donna dice anche che Bradamante si era già promessa al cavaliere. Il re fa subito chiamare Bradamante e lei, col suo silenzio, fa capire che la promessa è vera. Marfisa propone infine di lasciare che la questione venga decisa dal duello tra Leone e Ruggiero. Il figlio dell’imperatore accetta subito la proposta, credendo che il suo valoroso cavaliere non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sconfiggere anche quel Ruggiero. Ma il giovane è ed infine parte Leone stesso con l’intenzione di ritrovarlo.

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Melissa e Leone

Nell’ultimo canto, il XLVI, incontriamo la maga Melissa, che vede il cavaliere all’interno di un fitto bosco, deciso a morire di fame. Quindi interviene in suo aiuto. La donna va incontro a Leone, e lo porta da Ruggiero che, stremato dal digiuno, continua a piangere e a dolersi per la sua sorte. Leone convince il cavaliere a esporgli la ragione del suo dolore, e così il cavaliere gli rivela di essere Ruggiero, gli racconta quindi la sua storia. Ascoltata la confessione dell’amico, Leone rimane come impietrito, ma non vuole essere da meno di Ruggiero per cortesia, e gli comunica la propria intenzione a rinunciare a Bradamante in suo favore. Si mettono infine tutti insieme in viaggio per tornare a Parigi. A Parigi Ruggiero troverà ad aspettarlo una ambasciata bulgara, giunta in Francia per incoronarlo re e consegnargli il dominio dei loro territori. Ruggiero, nascondendo la propria identità, si presenta al cospetto di Carlo Magno con le stesse insegne e la stessa sopraveste che aveva tenuto durante il combattimento contro Bradamante. Leone lo presenta quindi al re come colui che ha pieno diritto, stando a quanto dichiarava il bando, di ricevere per moglie la donna. Il giovane dichiara infine che quel cavaliere misterioso è disposto a sostenere con la spada ogni suo diritto acquisito. Marfisa, in assenza del fratello, si prende carico dell’impresa e, mossa dall’ira, è anche pronta a passare subito dalle parole ai fatti. Leone non esita però oltre e toglie l’elmo al cavaliere misterioso, rivelandone così l’identità. Riconosciuto Ruggiero, tutti corrono subito ad abbracciarlo. Leone racconta le vicende del cavaliere, infine si rivolge ad Amone e non solo riesce a fargli cambiare opinione, ma anche a fargli chiedere perdono a Ruggiero, pregandolo di accettarlo come padre e suocero. Saputa la notizia, Bradamante rishia quasi di morire per l’improvvisa gioia. Gli ambasciatori bulgari ricevono da Leone, l’assicurazione che nessuna guerra verrà più mossa contro loro dal suo esercito. Le nozze vengono organizzate dallo stesso re Carlo e sono maestose.

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Giungono signori ed ambasciate da ogni parte del mondo per festeggiare gli sposi. L’ultimo giorno dei festeggiamenti, nel momento del banchetto, dalla campagna si vede arrivare a cavallo un cavaliere vestito completamente di nero. Si tratta di Rodomonte. Il feroce guerriero, dopo che Bradamante gli aveva tolto le armi, aveva vissuto come un eremita per un anno, un mese ed un giorno, e terminata la sua punizione, subito si era poi riarmato ed avviato verso Parigi.

IL DUELLO TRA RUGGIERO E RODOMONTE
(XLVI, 105-115; 122-140)

 Poi che fu a Carlo et a Ruggiero a fronte,
con alta voce et orgoglioso grido:
«Son» disse «il re di Sarza, Rodomonte,
che te, Ruggiero, alla battaglia sfido;
e qui ti vo’, prima che ’l sol tramonte,
provar ch’al tuo signor sei stato infido;
e che non merti, che sei traditore,
fra questi cavallieri alcun onore.

Ben che tua fellonia si vegga aperta,
perché essendo cristian non pòi negarla;
pur per farla apparere anco più certa,
in questo campo vengoti a provarla:
e se persona hai qui che faccia offerta
di combatter per te, voglio accettarla.
Se non basta una, e quattro e sei n’accetto;
e a tutte manterrò quel ch’io t’ho detto.»

Ruggiero a quel parlar ritto levosse,
e con licenza rispose di Carlo,
che mentiva egli, e qualunqu’altro fosse,
che traditor volesse nominarlo;
che sempre col suo re così portosse,
che giustamente alcun non può biasmarlo;
e ch’era apparecchiato sostenere
che verso lui fe’ sempre il suo dovere:

e ch’a difender la sua causa era atto,
senza tòrre in aiuto suo veruno;
e che sperava di mostrargli in fatto,
ch’assai n’avrebbe e forse troppo d’uno.
Quivi Rinaldo, quivi Orlando tratto,
quivi il marchese, e ’l figlio bianco e ’l bruno,
Dudon, Marfisa, contra il pagan fiero
s’eran per la difesa di Ruggiero;

mostrando ch’essendo egli nuovo sposo,
non dovea conturbar le proprie nozze.
Ruggier rispose lor: «State in riposo;
che per me fôran queste scuse sozze.»
L’arme che tolse al Tartaro famoso,
vennero, e fur tutte le lunghe mozze.
Gli sproni il conte Orlando a Ruggier strinse,
e Carlo al fianco la spada gli cinse.

Bradamante e Marfisa la corazza
posta gli aveano, e tutto l’altro arnese.
Tenne Astolfo il destrier di buona razza,
tenne la staffa il figlio del Danese.
Feron d’intorno far subito piazza
Rinaldo, Namo et Olivier marchese:
cacciaro in fretta ognun de lo steccato
a tal bisogni sempre apparecchiato.

Donne e donzelle con pallida faccia
timide a guisa di columbe stanno,
che da’ granosi paschi ai nidi caccia
rabbia de’ venti che fremendo vanno
con tuoni e lampi, e’l nero aer minaccia
grandine e pioggia, e a’ campi strage e danno:
timide stanno per Ruggier; che male
a quel fiero pagan lor parea uguale.

Così a tutta la plebe e alla più parte
dei cavallieri e dei baron parea;
che di memoria ancor lor non si parte
quel ch’in Parigi il pagan fatto avea;
che, solo, a ferro e a fuoco una gran parte
n’avea distrutta, e ancor vi rimanea,
e rimarrà per molti giorni il segno:
né maggior danno altronde ebbe quel regno.

Tremava, più ch’a tutti gli altri, il core

a Bradamante; non ch’ella credesse
che ’l Saracin di forza, e del valore
che vien dal cor, più di Ruggier potesse;
né che ragion, che spesso dà l’onore
a chi l’ha seco, Rodomonte avesse:
pur stare ella non può senza sospetto;
che di temere, amando, ha degno effetto.

Oh quanto volentier sopra sé tolta
l’impresa avria di quella pugna incerta,
ancor che rimaner di vita sciolta
per quella fosse stata più che certa!
Avria eletto a morir più d’una volta,
se può più d’una morte esser sofferta,
più tosto che patir che ’l suo consorte
si ponesse a pericol de la morte.

Ma non sa ritrovar priego che vaglia,

perché Ruggiero a lei l’impresa lassi.
A riguardare adunque la battaglia
con mesto viso e cor trepido stassi.
Quinci Ruggier, quindi il pagan si scaglia,
e vengonsi a trovar coi ferri bassi.
Le lance all’incontrar parver di gielo;
i tronchi, augelli a salir verso il cielo.

Ha inizio il crudele duello, dapprima con le lance, quindi, spezzate quelle, con le spade. L’armatura del saraceno, al contrario di Ruggiero, non è così impenetrabile, tanto che in più punti essa si è rotta e mostra la carne ferita di Sacripante. Allora quest’ultimo:

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Con quella estrema forza che percuote
la machina ch’in Po sta su due navi,
e levata con uomini e con ruote
cader si lascia su le aguzze travi;
fere il pagan Ruggier, quanto più puote,
con ambe man sopra ogni peso gravi:
giova l’elmo incantato; che senza esso,
lui col cavallo avria in un colpo fesso.

Ruggiero andò due volte a capo chino,
e per cadere e braccia e gambe aperse.
Raddoppia il fiero colpo il Saracino,
che quel non abbia tempo a riaverse:

poi vien col terzo ancor; ma il brando fino
sì lungo martellar più non sofferse;
che volò in pezzi, et al crudel pagano
disarmata lasciò di sé la mano.

Rodomonte per questo non s’arresta,

ma s’aventa a Ruggier che nulla sente;
in tal modo intronata avea la testa,
in tal modo offuscata avea la mente.
Ma ben dal sonno il Saracin lo desta:
gli cinge il collo col braccio possente;
e con tal nodo e tanta forza afferra,
che de l’arcion lo svelle, e caccia in terra.

Non fu in terra sì tosto, che risorse,

via più che d’ira, di vergogna pieno;
però che a Bradamante gli occhi torse,
e turbar vide il bel viso sereno.
Ella al cader di lui rimase in forse,
e fu la vita sua per venir meno.
Ruggiero ad emendar presto quell’onta,
stringe la spada, e col pagan s’affronta.

Quel gli urta il destrier contra, ma Ruggiero

lo cansa accortamente, e si ritira,
e nel passare, al fren piglia il destriero
con la man manca, e intorno lo raggira;
e con la destra intanto al cavalliero
ferire il fianco o il ventre o il petto mira;
e di due punte fe’ sentirgli angoscia,
l’una nel fianco, e l’altra ne la coscia.

Rodomonte, ch’in mano ancor tenea
il pome e l’elsa de la spada rotta,
Ruggier su l’elmo in guisa percotea,
che lo potea stordire all’altra botta.
Ma Ruggier ch’a ragion vincer dovea,
gli prese il braccio, e tirò tanto allotta,
aggiungendo alla destra l’altra mano,
che fuor di sella al fin trasse il pagano.

Sua forza o sua destrezza vuol che cada
il pagan sì, ch’a Ruggier resti al paro:
vo’ dir che cadde in piè; che per la spada
Ruggiero averne il meglio giudicaro.
Ruggier cerca il pagan tenere a bada
lungi da sé, né di accostarsi ha caro:
per lui non fa lasciar venirsi adosso
un corpo così grande e così grosso.

E insanguinargli pur tuttavia il fianco
vede e la coscia e l’altre sue ferite.
Spera che venga a poco a poco manco,
sì che al fin gli abbia a dar vinta la lite.
L’elsa e ’l pome avea in mano il pagan anco,
e con tutte le forze insieme unite
da sé scagliolli, e sì Ruggier percosse,
che stordito ne fu più che mai fosse.

Ne la guancia de l’elmo, e ne la spalla

fu Ruggier colto, e sì quel colpo sente,
che tutto ne vacilla e ne traballa,
e ritto se sostien difficilmente.
Il pagan vuole entrar, ma il piè gli falla,
che per la coscia offesa era impotente:
e ’l volersi affrettar più del potere,
con un ginocchio in terra il fa cadere.

Ruggier non perde il tempo, e di grande urto
lo percuote nel petto e ne la faccia;
e sopra gli martella, e tien sì curto,
che con la mano in terra anco lo caccia.
Ma tanto fa il pagan che gli è risurto;

si stringe con Ruggier sì, che l’abbraccia:
l’uno e l’altro s’aggira, e scuote e preme,
arte aggiungendo alle sue forze estreme.

Di forza a Rodomonte una gran parte
la coscia e ’l fianco aperto aveano tolto.
Ruggiero avea destrezza, avea grande arte,
era alla lotta esercitato molto:
sente il vantaggio suo, né se ne parte;
e donde il sangue uscir vede più sciolto,
e dove più ferito il pagan vede,
puon braccia e petto, e l’uno e l’altro piede.

Rodomonte pien d’ira e di dispetto
Ruggier nel collo e ne le spalle prende:
or lo tira, or lo spinge, or sopra il petto
sollevato da terra lo sospende,
quinci e quindi lo ruota, e lo tien stretto,

e per farlo cader molto contende.
Ruggier sta in sé raccolto, e mette in opra
senno e valor, per rimaner di sopra.

Tanto le prese andò mutando il franco
e buon Ruggier, che Rodomonte cinse:
calcògli il petto sul sinistro fianco,
e con tutta sua forza ivi lo strinse.
La gamba destra a un tempo inanzi al manco
ginocchio e all’altro attraversogli e spinse;
e da la terra in alto sollevollo,
e con la testa in giù steso tornollo.

Del capo e de le schene Rodomonte

la terra impresse; e tal fu la percossa,
che da le piaghe sue, come da fonte,
lungi andò il sangue a far la terra rossa.
Ruggier, c’ha la Fortuna per la fronte,
perché levarsi il Saracin non possa,
l’una man col pugnal gli ha sopra gli occhi,
l’altra alla gola, al ventre gli ha i ginocchi.

Come talvolta, ove si cava l’oro
là tra’ Pannoni o ne le mine ibere,

se improvisa ruina su coloro
che vi condusse empia avarizia, fere,
ne restano sì oppressi, che può il loro
spirto a pena, onde uscire, adito avere:
così fu il Saracin non meno oppresso
dal vincitor, tosto ch’in terra messo.

Alla vista de l’elmo gli rappresenta
la punta del pugnal ch’avea già tratto;
e che si renda, minacciando, tenta,
e di lasciarlo vivo gli fa patto.
Ma quel, che di morir manco paventa,
che di mostrar viltade a un minimo atto,
si torce e scuote, e per por lui di sotto
mette ogni suo vigor, né gli fa motto.

Come mastin sotto il feroce alano
che fissi i denti ne la gola gli abbia,
molto s’affanna e si dibatte invano
con occhi ardenti e con spumose labbia,
e non può uscire al pretator di mano,
che vince di vigor, non già di rabbia:
così falla al pagano ogni pensiero
d’uscir di sotto al vincitor Ruggiero.

Pur si torce e dibatte sì, che viene
ad espetirsi col braccio migliore;
e con la destra man che ’l pugnal tiene,
che trasse anch’egli in quel contrasto fuore,
tenta ferir Ruggier sotto le rene:
ma il giovene s’accorse de l’errore
in che potea cader, per differire
di far quel empio Saracin morire.

E due e tre volte ne l’orribil fronte,
alzando, più ch’alzar si possa, il braccio,
il ferro del pugnale a Rodomonte

tutto nascose, e si levò d’impaccio.
Alle squalide ripe d’Acheronte,
sciolta dal corpo più freddo che giaccio,
bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.

Dopo che fu di fronte a Carlo e a Ruggiero, con voce alta e pieno di superbia disse: «Sono Rodomonte, re di Sargel (città d’Algeria), che sfido te Ruggiero a duello, e prima che il sole tramonti ti voglio qui dimostrare che sei stato infedele al tuo signore e che, poiché sei un traditore, non meriti alcun onore tra questi cavalieri. // Sebbene la tua viltà si manifesti apertamente, perché essendo diventato cristiano non puoi negarla, tuttavia vengo in questo campo a dimostrarla, per farla apparire ancora più certa: e se hai qualcuno che si offre di combattere al tuo posto, voglio accettarlo. Se non ne basta uno ne accetto anche quattro e sei, e con tutti manterrò fede a quanto detto». // A quelle parole Ruggiero si alzò in piedi e, con il permesso di Carlo, rispose che lui mentiva e chiunque lo avesse chiamato traditore, perché con il suo re si era sempre comportato in modo che nessuno avrebbe potuto a ragione biasimarlo, e che era pronto a sostenere di aver compiuto sempre il proprio dovere verso di lui; // che era capace di difendere la sua causa, senza chiamare nessuno in suo aiuto, e che sperava di dimostrargli nei fatti che ne avrebbe avuto abbastanza e forse troppo di uno solo. In quel momento si erano alzati in difesa di Ruggiero Rinaldo, Orlando, i marchese Oliviero e i suoi figli, uno biondo e uno moro, Dudone, Marfisa; // affermando che, essendo egli appena sposato, non doveva mettere in pericolo le proprie nozze. Ruggiero rispose loro: «Non vi preoccupate, per me queste sarebbero scuse infamanti». Giunsero le armi che egli strappò al famoso Tartaro (Mandricardo) e fu troncata ogni esitazione. A Ruggiero il conte Orlando strinse gli sproni e lo stesso Carlo gli cinse la spada al fianco. // Bradamante e Marfisa gli avevano messo la corazza e le altre parti dell’armatura. Astolfo teneva la briglia di un cavallo di razza, mentre il figlio del Danese (Dudone) reggeva la sella. Rinaldo, Namo e il marchese Oliviero sgomberarono la piazza e cacciarono tutti dallo steccato, sempre preparato a tale scopo. // Donne e giovinette con viso pallido sono timorose come colombe che la furia dei venti, accompagnati da tuoni e lampi, spinge dai campi di grano verso i nidi, e il cielo nero minaccia grandine e pioggia e devastazione e danni per i campi: stanno lì timorose per Ruggiero, che a loro sembrava inferiore a quel feroce saraceno. // Allo stesso modo sembrava a tutta la gente e alla maggior parte dei cavalieri e dei baroni, che conservano ancora la memoria di quello che il Pagano aveva fatto a Parigi, che solo ne aveva messo gran parte a ferro e a fuoco, la cui distruzione ancora rimaneva e lascerà il segno per molti anni ancora: quel regno d’altra parte non ebbe mai maggior danno. // Il cuore di Bradamante tremava più di tutti gli altri, non perché credeva che la forza e il coraggio del saraceno valessero più di quelle di Ruggiero, né che Rodomonte avesse ragione, cosa che spesso conduce alla vittoria: tuttavia ella non può non trovare timore, perché amando, ha un buon motivo per temere. // Oh quanto volentieri avrebbe compiuto l’impresa di quel duello incerto, anche se fosse stata sicura di perdere la vita a causa di quella! Avrebbe scelto di morire più di una volta se si potrebbe morire più di una volta, piuttosto che sopportare che il suo consorte si mettesse in pericolo di vita. // Ma non riesce a trovare preghiera che valga, perché Ruggiero lasci a lei il duello. A guardare dunque lo scontro, con viso triste e cuore trepidante, sta. Da una parte Ruggiero, da una parte il pagano si scagliano l’un contro l’altro con le lance abbassate. Le lance nello scontrarsi sembravano di ghiaccio, i brandelli, uccelli che salivano al cielo.
(…)
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Rodomonte interrompe il banchetto di nozze

Con quella estrema forza con cui colpisce la macchina che sta sul Po sopra due navi e che, sollevata da uomini e carrucole, si lascia cadere su pali appuntiti (battipalo usato per conficcare pali atti alle fondazioni), allo stesso modo il pagano ferisce Ruggiero, quanto più può, con tutt’e due le mani, pesanti più di ogni altro peso: giova a Ruggiero l’elmo incantato, che senza di esso, avrebbe spezzato in un solo colpo lui con il cavallo. // Ruggiero abbassa due volte la testa, e nel cadere aprì gambe e braccia. Il feroce Saracino raddoppia i colpi, affinché l’avversario non abbia tempo di riprendersi; poi aggiunge anche il terzo colpo, ma la spada non resistette a un così lungo martellare, che andò a pezzi, lasciando nuda la mano del crudele pagano. // Rodomonte non si ferma per questo, ma s’avventa su Ruggiero che non sente più nulla, tanto aveva intronata la testa e offuscata la mente. Ma il Saraceno lo costringe a riaversi, cingendogli con il braccio possente il collo e lo afferra con una tale stretta e tale forza che lo disarciona e getta in terra. // Non appena a terra si rialzò, più per vergogna che per ira, perché aveva volto il viso verso Bradamante e vide il suo viso turbarsi. Lei alla sua caduta restò così in dubbio che sembrò che la stessa sua vita venisse meno. Ruggiero per rimediare a quella vergogna, stringe la spada e s’avventa sul pagano. // Quello gli scaglia contro il destriero, ma Ruggiero lo scansa con prontezza, indietreggiando e nel passare afferra le redini con la mano sinistra e gli gira intorno: con la destra, intanto cerca di ferirlo sul ventre e sul petto; gli fece sentire dolore con due colpi, una al fianco, l’altra nella coscia. // Rodomonte che ancora aveva in mano l’impugnatura e la lama spezzata, picchiava Ruggiero sull’elmo, tanto che un’ulteriore botta l’avrebbe stordito. Ma Ruggiero che doveva necessariamente vincere, gli prese il braccio e aggiungendo l’altra mano lo tirò giù, finché lo fece cadere dalla sella. // Ma la sua forza o la sua destrezza fa sì che resti al pari di Ruggiero, voglio dire che cadde in piedi; e tutti giudicarono Ruggiero essere in vantaggio, avendo la spada intatta: Ruggiero cerca di tener lontano da sé il pagano né di avvicinarsi troppo; non sopporterebbe lasciarsi venire addosso un corpo così grande e grosso. // Ma vede insanguinargli il fianco, la coscia e altri parti del corpo. Spera che le forze gli vengano meno, sì che alla fine gli dia vinta la sfida. Il pagano aveva ancora l’elsa e l’impugnatura della spada, e con tutte le forze la scagliò e colpì Ruggiero, in modo da stordirlo più che mai. // Ruggiero fu colpito sul lato dell’elmo e nella spalla, e sente quel colpo così forte che vacilla e barcolla e si mantiene in piedi con difficoltà. Il pagano vuol farsi avanti, ma il piede non lo sorregge, impotente a causa della ferita sulla coscia, e il voler affrettarsi più di quanto possa, lo fa cadere in terra su un ginocchio. // Ruggiero non perde tempo e con un gran colpo lo percuote sul petto e sulla faccia; e lo colpisce sopra la testa e lo tiene alle strette che alla fine lo caccia in terra. Ma il pagano fa tanto che si rialza e si stringe così forte a Ruggiero tanto da abbracciarlo; entrambi si rigirano, si scuotono, si schiacciano, aggiungendo abilità alle loro ultime forze. // A Rodomonte avevano tolto gran parte della forza le ferite al fianco e sulla coscia. Ruggiero aveva abilità, grande capacità, si era esercitato molto nella lotta: sente di essere in vantaggio e non si allontana; e dove vede scorrere più copiosamente il sangue, e dove il pagano ha maggiormente ferite, pone il braccio, il petto ed entrambi i piedi. // Rodomonte, pieno di rabbia e di rancore, prende Ruggiero nel collo e nelle spalle: ora lo tira a sé, ora lo allontana, ora lo solleva e da una parte all’altra lo fa girare, lo tiene stretto e molto lotta per farlo cadere. Ruggiero sta molto attento, e mette in opera intelligenza e capacità, per conservare il vantaggio. // Il franco e buon Ruggiero riuscì a cambiare le prese e a cingere Rodomonte : gli strinse il petto sul fianco sinistro e con tutta la forza lo bloccò. Mise poi la gamba destra sopra il ginocchio sinistro e destro e lo spinse, lo sollevò da terra e lo fece tornare a terra a testa in giù. // Rodomonte impresse la terra con il capo e con la schiena, e tanto grande fu la botta che dalle sue ferite, come fossero fonti, uscì sangue che rosseggiò tutta la terra intorno. Ruggiero, che ha la Fortuna dalla sua parte, affinché il Saracino non possa alzarsi, ha una mano col pugnale sopra gli occhi, un’altra alla gola e le ginocchia sul ventre. // Come talvolta, dove si estrae l’oro, là tra gli Ungheresi o le miniere spagnole, se una frana improvvisa si abbatte su coloro che un’avidità perversa ha condotto fino là e ne restano schiacciati a tal punto che il loro respiro può a malapena avere una fessura da cui uscire, così il Saraceno fu allo stesso modo oppresso dal vincitore, non appena fu gettato a terra. // Ruggiero gli mostra davanti al viso la punta del pugnale che aveva già sguainato; e minacciandolo, tenta di farlo arrendere e gli promette che avrà salva la vita. Ma quello che ha meno paura di morire che di mostrare anche un piccolo atto di viltà, si contorce e si scuote e per porre lui sotto mette ogni forza, né gli risponde. // Come un mastino sotto un feroce alano, che abbia conficcato i denti nella sua gola, si affanna molto e si dibatte inutilmente con occhi ardenti e con labbra che schiumano, e non può sfuggire al suo predatore, che vince per la forza e non per rabbia, allo stesso modo fallisce al Saraceno ogni pensiero, di riuscire a sfuggire a Ruggiero. // Tuttavia si contorce e si dibatte talmente che riesce a liberare il braccio destro e con la mano, che afferra un pugnale, che anche lui tirò fuori, durante quel duello, con cui vuole ferire Ruggiero sotto le reni; ma il giovane s’accorse dell’errore in cui poteva cadere, per indugiare nell’uccidere l’empio Saraceno. // E due e tre volte nella spaventosa fronte di Rodomonte, alzando il più possibile il braccio, conficcò il pugnale e si tolse dall’impaccio. L’empia anima, che fu in vita così altezzosa e orgogliosa, bestemmiando fuggì dal corpo freddo più del ghiaccio verso le squallide rive dell’Acheronte.

E’ questo l’ultimo passo del poema, cui fa seguito solo il motto Pro bono malum (il male per il bene) a suggellare l’intero poema. Come si vede, il racconto ariostesco si chiude con Ruggiero protagonista sia per il suo matrimonio con Bradamante che per lo scontro finale con Sacripante. L’eroe eponimo diventa secondario, dopo la guarigione Orlando compare più come gregario che come un vero e proprio protagonista. Tutto ciò vuole ancora dimostrare la polidietricità del mondo ariostesco: non esiste un personaggio, ma un uomo poliedrico (folle o saggio, fedele o intemperante, avaro o prodigo e via discorrendo) che i vari protagonisti incarnano, ma che l’uomo rinascimentale sente come contemporanei, cui rivolgersi per sapere i suoi limiti e le sue debolezze. Ma per chiudere il poema, Ariosto ha bisogno di un supporto maggiormente letterario, più alto di quanto le chanson finora gli avevano offerto: ed ecco che già da Cloridano e Medoro Virgilio si era mostrato come nume tutelare per l’autore; così sarà per quest’ultimo episodio, modellato sullo scontro tra Enea (Ruggiero) e Turno (Sacripante), con la stesso indugio, che fa perdonare al lettore, la cruenta morte inflitta al nemico. A concorrere all’impressione di una maggiore “epicità” in questo episodio, rispetto ai mille altri letti sinora è l’estremo realismo con cui descrive il duello: non ci troviamo più in un iperrealismo ironico, dove a farla da padrone sono le amplificazioni sì retoriche, ma estremamente ironiche, si pensi al duello tra Bradamante e Sacripante nel primo canto i cui contendenti sono paragonati a leoni o tori (Non si vanno i leoni o i tori in salto a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto), e il cui duello risuona per tutta la compagna fino alle colline (Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi). Nell’ultimo scontro, invece è il realismo a prevalere: si sente l’odore di terra mista a sudore, sangue copioso; si segue la lotta sin nei minimi particolari di presa, si vede il feroce coltello di Ruggiero entrare nella fronte di Rodomonte, quasi a sentire lo squarcio del colpo. Nessuna parola a chiudere felicemente il racconto, un sorriso per la vittoria di Ruggiero stesso o di Bradamante, solo l’anima “empia” di Rodomonte verso i lidi dell’Inferno. Che si voglia, con questo, anche qui disegnare il fatto che, nonostante i suoi saggi consigli, l’uomo non possa fare a meno di violenza e di sangue (ricordiamoci il periodo storico in cui l’opera venne scritta)?

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Il matrimonio di Ruggiero e Bradamante nel disegno di bambini

Ma al di là di questo potremo definire la storia del poema chiusa? Abbiamo già visto come l’Orlando non inizia; parte in medias res, esattamente dove lo termina Boiardo e finisce con un duello; ma percepiamo che nulla sappiamo di che fine facciano gli altri eroi, se Orlando troverà pace con un’altra donna, se Rinaldo, dopo aver bevuto nella fontana dell’odio potrà ancora innamorarsi, se Angelica e Medoro avranno figli e via discorrendo. Cioè l’opera non chiude. Ma perché non chiude? Perché Ariosto non vuole mostrarci una parte del mondo, ma un frammento stesso del mondo, mentre quest’ultimo è gia vissuto, vive e vivrà in segui-to, soprattutto nei continuatori, che a quanto pare saranno numerosi e che poeteranno sulle avventure dei cavalieri cantati già da Boiardo e da Ariosto. Ciò ci testimonia il successo dell’opera del ferrarese, successo testimoniato da un grande autore spagnolo del ’600, Cervantes che afferma, attraverso la voce di un personaggio:

Ah! lo conosco molto bene, rispose il curato; ecco qua il signor Rinaldo di Montalbano cogli amici e compagni suoi più ladri di Caco, e i dodici paladini col loro storico veritiero Turpino la verità che sarei per condannarli soltanto ad eterno bando, non per altro se non perché hanno avuto gran parte nella invenzione del celebre Matteo Bojardo, d’onde ha poi ordila la sua tela il cristiano poeta Lodovico Ariosto; al quale, se qui si trovasse, e parlasse un idioma diverso dal suo proprio, non porterei rispetto, ma se fosse nel suo linguaggio originale, me lo riporrei sopra la testa. – Io lo tengo in italiano, disse il barbiere, ma non l’intendo. – Non è neppur bene che da voi sia inteso, rispose il curato; e perdoniamo per ora a quel signor capitano che lo ha tradotto in lingua castigliana, togliendogli gran parte del nativo suo pregio: ma così averrà a tutti coloro che s’impegnano a tradurre libri poetici, mentre, per quanto studio vi pongano, per quanta attitudine vi abbiano, non potranno mai darceli tali quali essi nacquero.

 

 

 

 

 

FRANCESCO GUICCIARDINI

Giuliano Bugiardini: Ritratto di Francesco Guicciardini (XVI secolo)

Francesco Guicciardini nasce a Firenze nel 1483, da una famiglia aristocratica che si era guadagnata, nel turbinoso periodo fiorentino, l’amicizia dei Medici. Vive i primi anni sotto il dominio del Savonarola, e dopo la morte del frate, trascorrerà la giovinezza nella repubblica di Pier Soderini. Avviato per volontà paterna agli studi giuridici li approfondirà nella prestigiosa università di Padova (dove si era rifugiato durante la tempesta politica nella sua città). Rientrato a Firenze nel 1505 ottiene l’incarico, non ancora laureato, per l’insegnamento di diritto civile. Si laurea brillantemente e inizia la sua carriera nell’avvocatura; dopo poco si fidanza, contro il volere paterno, con Maria Salviati, proveniente da una potentissima famiglia avversaria di Pier Soderini. E’ grazie al suocero che inizia una brillantissima carriera politica che culminerà, nel 1509, quando s’insedierà nel governo cittadino. Infatti è proprio all’inizio dello stesso anno che riceve ambasciatori dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo a Lucca; l’anno successivo, nel 1510, ottiene l’incarico di ambasciatore presso la corte di Spagna, attività che gli consentirà di scrivere, nel 1514, la Relazione di Spagna. La lontananza dalla Toscana non gli faranno vivere le conseguenze per le sue scelte politiche che furono, invece, fatali per Machiavelli. Al rientro dei Medici (1513), dopo un primo tempo in cui si dedica ad attività private, ottiene l’incarico di governatore di Modena (1516); l’anno successivo, grazie all’elezione di Leone X, riceve da quest’ultimo l’incarico di governatore di Reggio e Parma; ancora nel 1521 viene nominato comandante delle truppe pontificie alleate con Carlo V contro i Francesi. Dopo la parentesi di Adriano VI, che lo porta ad allontanarsi dagli impegni con la curia papale, parentesi di un solo anno,  riprende la sua attività con il nuovo papa Clemente VII, che lo manda a governare la regione piuttosto turbolenta di Romagna, dove spadroneggiano potentati locali e dove Guicciardini mostra ottime capacità nel saper gestire la difficile situazione.

La sua fortuna comincia a declinare quando si fa promotore, presso il papa, di una nuova alleanza tra papato, stati italiani e Francia per arginare lo strapotere dell’esercito imperiale di Carlo V; prende dunque vita la lega di Cognac (1526). Ma questa viene sconfitta, determinando, a Firenze, il ritorno della Repubblica. Viene allontanato dalla politica per i suoi trascorsi, si rifugia in una sua villa nei pressi di Firenze e gli vengono confiscati i beni.

Sebastiano del Piombo: Clemente VII

Torna a Roma per mettersi di nuovo al servizio di Clemente VII. Al ritorno dei Medici (1531) diventa consigliere del granduca Alessandro; ma, il suo successore, Cosimo I (1537) non gli conferma la fiducia; si ritira dunque a vita privata: riordina I ricordi e scrive La Storia d’Italia.

Muore ad Arcetri nel 1540.

L’uomo

Non si può scindere la personalità di Guicciardini senza metterla in relazione con quella di Machiavelli, molti sono i punti di contatto:

  1. ambedue vivono un momento di profonda trasformazione e difficoltà della Repubblica fiorentina (li dividono soltanto 14 anni);
  2. si interessarono soprattutto di politica e di storia, entrambi con libertà di giudizio e con grande capacità critica;
  3. ottemperano ai bisogni dello Stato, sebbene il lavoro machiavelliano fosse quasi tutto inserito nel periodo di Pier Soderini e quello di Guicciardini maggiormente mediceo;
  4. ambedue vivono la sconfitta e la cocente delusione per la loro attività politica (anche se quella di Guicciardini ha inciso maggiormente)
  5. Le loro opere nascono soprattutto in un periodo di inattività: Il Principe, I Discorsi e La Mandragola per Machiavelli, i Ricordi e La Storia d’Italia per Guicciardini.

Opere

Come per Machiavelli anche per Guicciardini l’opera letteraria nasce dall’esperienza politica diretta, che egli fece da protagonista sia nella sua città che in altre parti dell’Italia e all’estero. Tuttavia è necessario qui sottolineare la differenza dell’atteggiamento politico per i due fiorentini: per Machiavelli la politica è una necessità vitale, una tensione di chi vota per essa la propria esistenza; Guicciardini non la sceglie, la vive per tradizione familiare; per meglio dire la sua strada era stata già tratteggiata nel momento in cui venne al mondo, influenzandone anche la scelta matrimoniale.

L’esperienza come ambasciatore in Spagna, diede vita ad una serie di opere, fra le quali la più importante è la Relazione di Spagna.  Il nostro, osservando la realtà politica del grande paese iberico, continuamente riscontra il ritardo strutturale in cui l’Italia si dibatte. Come collaboratore dei Medici invece scrive il Discorso di Logrogno e Del modo di ordinare il governo di Firenze opere nelle quali l’autore, come uno degli esponenti più in vista della città di Firenze, disegna il suo ideale politico che si può così riassumere: una repubblica oligarchica capace di governare con saggezza, contro la tirannia di un solo e la demagogia dei molti. Ben consapevole che la dinastia medicea mal avrebbe tollerato l’idea di un potere condiviso, egli precisa che a capo del governo ci sarebbe stato sì un Medici, ma coadiuvato dai savi delle grandi famiglie fiorentine.

Vogliamo ricordare come tali scritti non furono mai pubblicati in vita da Guicciardini; furono riscoperti molto più tardi: essi infatti assumevano il ruolo di riflessione per chi, come lui, svolgeva l’attività politica.

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Incisione con il ritratto di Francesco Guicciardini

Opere minori

 RICORDI

Anche i Ricordi sono, per così dire, un’opera privata, anzi il capolavoro dell’opere private di Guicciardini. E’ nata piano piano, scrivendo su quaderni riflessioni e pensieri che nel corso dell’attività rivedeva per correggerli o cambiarli. L’edizione definitiva, del 1530, si struttura, quindi come una serie di appunti ed aforismi (221) dettati dalla lunga esperienza politica.

Da ciò se ne deduce che, al contrario di Machiavelli, quest’opera non presenti una teoria sulla quale dar vita a dei comportamenti, ma come quest’ultimi siano determinati, in fondo, dalle circostanze sempre variabili che la realtà offre. Infatti non nasce con un disegno da presentare, né tantomeno come un piano di lavoro organico per la struttura di uno stato. Si tratta proprio della capacità di cogliere, sul piano umano, religioso, politico e culturale alcuni aspetti e di offrirli a se stesso, come vademecum, per affrontare la vita. Per questo l’opera si presenta frammentaria (ciò non vuol dire non unitaria) e si può veramente definire un anti-trattato.

Vediamo ora alcuni “pensieri” guicciardinaniani dividendoli per temi:

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LA STORIA

6: E’ grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.

E’ un grande errore giudicare i fatti in modo indistinto e assoluto, cioè attraverso regole generali, perché quasi tutti i fatti si distinguono tra loro e rappresentano delle eccezioni per la grande varietà delle circostanze in cui sono accaduti, le quali circostanze non possono essere ricondotte ad un unico giudizio: e questi fatti che si distinguono tra loro e rappresentano delle eccezioni, non si trovano nei libri, ma ci aiuta a capirli la discrezione (la capacità di discernimento)

110: Quanto s’ingannano coloro che a ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo.

Quanto sbagliano coloro che ad ogni parola citano i Romani! Bisognerebbe avere una città strutturata cole la loro e quindi governare secondo il loro modello: il quale ha chi ha qualità così differenti è tanto differente, quanto sarebbe voler far correre un asino come un cavallo.

In queste due riflessioni si misura la distanza che separa i due pensatori fiorentini: se per Machiavelli “i fatti” possono essere giudicati a partire dall’assioma – unico ed universale – della malvagità “naturale” dell’uomo, da cui ogni altro discorso ne deriva, per Guicciardini ciò non è più possibile; la realtà è in continua trasformazione e solo la capacità di saper cogliere l’azione opportuna in un determinato momento può diventare criterio valido. Per questo è impossibile rifarsi a modelli “classici”, prendere la storia di Roma come riferimento per qualsiasi azione politica (si pensi ai Discorsi machiavelliani).

LA FORTUNA

30. Chi considera bene non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti e che non è in potestà degli uomini né a prevederli né a schifargli: e benché lo accorgimento e sollecitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna.

Chi ragiona bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha un grandissimo potere, perché in ogni momento si vede una gran quantità di fatti determinati da accidenti fortuiti, e che non è in potere degli uomini né prenderli né allontanarli e, sebbene gli accorgimenti e le sollecitudini umane possano alleviare molte cose, da soli non bastano, ma occorre anche una buona dose di fortuna.

Elihu Vedder: Dea Fortuna resti con noi (1893)

LA METAFISICA E LA RELIGIONE

125: E’ filosofi e e’ teologi e tutti gli altri che scrutano le cose sopra natura o che non si veggono, dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito a serve più a essercitare gli ingegni che a trovare la verità.

I filosofi e i teologi e tutti gli altri che si propongono d’indagare le cose sovrannaturali o che in natura non si vedono, dicono mille sciocchezze perché in realtà gli uomini sono all’oscuro delle cose e questa indagine è servita e serve più per esercitare l’intelligenza che per scoprire la verità.

La stessa idiosincrasia che Guicciardini mostra verso colui che guarda alla storia come modello per l’oggi, il nostro mostra verso coloro che invece pongono nell’aldilà il destino degli uomini e delle nazioni. Non c’è alcun disegno provvidenziale o ordine “regolato” secondo leggi fisse, che permetta una qualsiasi indagine o disegno. Ma se questo era già chiaro nelle precedenti riflessioni, quello che qui colpisce è l’assoluta immanenza del pensiero guicciardiniano che, uomo del Rinascimento, nega qualsiasi possibile ricerca che non sia basata sui fatti contingenti.

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Immagine per la metafisica e la religione

L’UOMO

134. Gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male, né è alcuno il quale, dove altro motivo non lo tiri in contrario, non facesse più volentieri bene che male; ma è tanto fragile la natura degli uomini e sì spesse nel mondo le occasioni che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. E però i savi legislatori trovarono i premi e le pene: che non fu altro che con la speranza e col timore volere tenere fermi gli uomini nella inclinazione loro naturale.

Gli uomini, per natura, sono più rivolti verso il bene che verso il male, e non c’è nessuno il quale, qualora un altro motivo lo spinga, non operasse più volentieri verso il bene che verso il male, ma la natura dell’uomo è cosi fragile e così frequenti le occasioni che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. Per questo motivo i saggi legislatori stabilirono premi e pene; e ciò nel voler mantenere gli uomini nella loro inclinazione naturale con la speranza (dei premi) ed il timore (delle pene).

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Laura Facey: Redemption song (1967)

Anche qui viene segnata una fondamentale differenza col pensiero machiavelliano: laddove l’autore de Il Principe costruiva tutta la sua teoria politica sull’assioma della “naturale” malvagità umana, Guicciardini rivendica la teoria dell’uomo “naturalmente” buono, che solo le circostanze rendono malvagio. Tuttavia ad un’osservazione più attenta, non si può fare a meno di riflettere come, partendo da presupposti così diversi, i due giungano a conclusioni similari: se l’uomo è “naturalmente cattivo”, serve un uomo forte e altrettanto cattivo per imporre il “non egoismo” che metterebbe a rischio lo stato e quindi la libertà di ognuno; se l’uomo invece è “naturalmente” buono, ma le circostanze lo inducono al compimento di azioni “non buone” ci penserà la legge a porlo nella retta via. Quando l’uomo sarà libero di essere cattivo o buono? I due pensatori fiorentini, pur così distanti, non gli danno alcuna fiducia.

File:Maarten van Heemskerck 011.jpgMaerten van Heemskerk: I pericoli dell’ambizione umana (1549)

LE AMBIZIONI UMANE

15. Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n’ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho mai trovato drento quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini.

Io ho desiderato, come la maggior parte degli uomini, onori e vantaggi materiali, e molte volte li ho raggiunti al di là delle mie speranze o desideri; e ciononostante non ho mai trovato in esse quella soddisfazione che mi ero immaginato; ragione, a chi bene la considera, potentissima a ridimensionare di molto le inutili cupidigie degli uomini.

Questo pensiero disegna un certo pessimismo di Guicciardini. Egli infatti, richiamandosi a Petrarca non fa che sottolineare le “vane cupidità dell’uomo”, ma con più distacco. Infatti passa dall’“io” dell’esperienza personale ad una meditazione universale. D’altra parte comincia ad affacciarsi qui il concetto che laddove non si può governare il mondo prevedendo gli eventi, lo si può fare con dedizione. Il fatto è che tale dedizione alla fine non è ripagata.

32: La ambizione non è dannabile, né da vituperare quello ambizioso che ha appetito d’avere gloria co’ mezzi onesti e onorevoli; anzi sono questi tali che operano cose grande e eccelse. E chi manca di questo desiderio, è spirito freddo e inclinato piú allo ozio che alle faccende. Quella è ambizione perniziosa e detestabile che ha per unico fine la grandezza, come hanno communemente e principi; e quali quando la propongono per idolo, per conseguire ciò che gli conduce quella fanno uno piano della coscienzia, dell’onore, della umanità e di ogni altra cosa.

Non bisogna condannare né biasimare l’ambizione; né bisogna disprezzare la persona ambiziosa che desidera avere gloria con mezzi onesti ed onorevoli: anzi sono loro che realizzano cose grandi ed eccelse, e chi non possiede questo desiderio, è apatico e inclinato più all’ozio che all’attività. E’ pericolosa e detestabile quell’ambizione che ha per unico fine la grandezza, come è comune tra i principi, i quali quando se la propongono come fine ultimo, per raggiungerla fanno tacere la coscienza, l’onore, l’umanità ed ogni altra virtù.

Anche Guicciardini, come Machiavelli, ha una concezione “vitalistica” dell’agire politico, non ammettendo, pur in una visione così poco governabile come egli la disegna, l’improduttività e l’ozio. A guidare questa azione è l’ambizione; egli tuttavia sottolinea che tale ambizione non può far “venire” meno i concetti classici della virtù, ribaltando il concetto machiavellico di virtù (che si fonda solo ed unicamente come valore politico).

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Paolo Veronese: Le nozze di Cana (1564)

I RAPPORTI SOCIALI

44. Fate ogni cosa per parere buoni, ché serve a infinite cose; ma perché le opinione false non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni, se in verità non sarete: così mi ricordò già mio padre.

Fate ogni cosa per apparire buoni, perché serve per infinite cose; ma poiché le opinioni false non durano, difficilmente potreste apparire buoni a lungo se non lo siete in realtà. Così mi disse già mio padre.

Questa riflessione ricalca in parte già la prospettiva machiavelliana. Ma lo scarto qui è l’intenzione “privatistica” di tale pensiero, con il ricordo di una massima paterna.

Storia d'Italia di Francesco Guicciardini - Borroni e Scotti 1843/1844

La Storia d’Italia in un’edizione del 1843

LA STORIA D’ITALIA

Chi non crede in una teoria politica, non può affrontare una speculazione generale; suo compito sarà quello di prendere atto della realtà; per meglio dire descriverla nella sua mutevolezza e questo è compito dello storico.

Come Machiavelli fonda la politica come scienza, Guicciardini dà vita alla moderna storiografia: a lui non interessa la storia sociale, ma quella politica e psicologica; grazie alla sua professione e alla sua biografia egli può attingere a fonti di prima piano, che vaglia ed analizza attentamente. E’ qui la sua novità. La storia non ha schemi precostituiti: ma va analizzata nelle sue cause e negli effetti. Ciò gli permetterà di affrontare gli avvenimenti da lui affrontati in vero e proprio afflato europeo: non per niente dall’Italia felix al sacco di Roma l’intervento delle potenze straniere nella nostra penisola era stato continuo e devastante. Egli, così, come spiega la crisi fiorentina all’interno del sistema italiano, non può non spiegare la crisi d’Italia all’interno della più vasta storia europea. Molti i ritratti dei principali protagonisti storici, così come numerosi sono i “discorsi”: con essi l’autore vuole spiegarci l’indole ed il motivo delle loro azioni. La storia da lui raccontata in quest’ampia opera, divisa in 20 libri, va dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) fino 1534 (sacco di Roma e morte di Clemente VII). 

Se la concezione storica è moderna, lo stile ricalca il periodare classico, riprendendo il gusto classicista tipico dell’età rinascimentale.

INTRODUZIONE

Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri príncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.

Io ho scelto di scrivere gli eventi successi ai nostri tempi in Italia, dopo che gli eserciti francesi, chiamati dagli stessi principi italiani, cominciarono con un grande movimento (di truppe) a sconvolgerla: argomento, per la complessità ed importanza loro, degno di memoria e pieno di crudelissimi eventi, avendo l’Italia subito tutte quelle disgrazie con le quali, ora per la giusta rabbia di Dio (nei nostri confronti) ora per l’empietà e per le scelleratezze degli altri uomini, i poveri mortali sono soliti essere perseguitati. Dalla conoscenza di questi avvenimenti, così diversi e così pericolosi, potrà ognuno, per un bene privato o pubblico, imparare molti salutari insegnamenti: da cui, attraverso innumerevoli esempi, capirà chiaramente a quanta instabilità siano sottoposte le vicende umane, come un mare agitato da forti venti; (capirà) quanto siano pericolosi, quasi sempre a se stessi, ma in special modo ai popoli, i consigli non ben ponderati dei governanti, quando o per errori inutili o per i desideri del momento, non ricordano i frequenti rivolgimenti della sorte e volgendo a danno altrui il potere che è stato concesso loro per il bene pubblico, si rendono, o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuovi turbamenti.

A leggere queste poche righe guicciardiniane ci si rende subito conto che:

  • A livello stilistico vi è una perfetta ripresa di uno stile altissimo, ricco di subordinate e incisi, che rendono “classico” il suo modo di presentare il suo ragionamento;
  • La immediata sottolineatura riguardo l’“io” testimone che narra, alla ricerca di una spiegazione, la catastrofe accaduta dopo il 1494, quando Carlo VIII, chiamato da Ludovico il Moro, scende in Italia;
  • Nonostante il richiamo a Dio, come tutto venga ridimensionato in una prospettiva imminente, dove la vera responsabilità è negli errori degli uomini;
  • La sottolineatura dell’incapacità delle classi al potere di pensare al bene comune, legate sole all’ambizione personale (interessante notare che quando ne I Ricordi Guicciardini parla di ambizione, lo fa come fine per il ben operare per il bene comune, non come fine personale);
  • La historia magistra vitae, ma capace d’additare, come valido e imprescindibile insegnamento le spesse variazioni della fortuna.

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Sebastiano Del Piombo: Ritratto postumo di Cristoforo Colombo (1519)

LA SCOPERTA DELL’AMERICA
(IV,9)

Ma più maravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnuoli, cominciata l’anno mille quattrocento novanta…, per invenzione di Cristoforo Colombo genovese. Il quale, avendo molte volte navigato per il mare Oceano, e congetturando per l’osservazione di certi venti quel che poi veramente gli succedette, impetrati dai re di Spagna certi legni e navigando verso l’occidente, scoperse, in capo di [trentatré] dì, nell’ultime estremità del nostro emisperio, alcune isole, delle quali prima niuna notizia s’aveva; felici per il sito del cielo per la fertilità della terra e perché, da certe popolazioni fierissime infuora che si cibano de’ corpi umani, quasi tutti gli abitatori, semplicissimi di costumi e contenti di quel che produce la benignità della natura, non sono tormentati né da avarizia né da ambizione; ma infelicissime perché, non avendo gli uomini né certa religione né notizia di lettere, non perizia di artifici non armi non arte di guerra non scienza non esperienza alcuna delle cose, sono, quasi non altrimenti che animali mansueti, facilissima preda di chiunque gli assalta. Onde allettati gli spagnuoli dalla facilità dell’occuparle e dalla ricchezza della preda, perché in esse sono state trovate vene abbondantissime d’oro, cominciorno molti di loro come in domicilio proprio ad abitarvi. E penetrato Cristoforo Colombo più oltre, e dopo lui Amerigo Vespucci fiorentino e successivamente molti altri, hanno scoperte altre isole e grandissimi paesi di terra ferma; e in alcuni di essi, benché in quasi tutti il contrario e nell’edificazione pubblicamente e privatamente, e nel vestire e nel conversare, costumi e pulitezza civile, ma tutte genti imbelli e facili a essere predate: ma tanto spazio di paesi nuovi che sono – senza comparazione maggiore spazio che l’abitato che prima era a notizia nostra. Ne’ quali distendendosi con nuove genti e con nuove navigazioni gli spagnuoli, e ora cavando oro e argento delle vene che sono in molti luoghi e dell’arene de’ fiumi, ora comperandone per prezzo di cose vilissime dagli abitatori, ora rubando il già accumulato, n’hanno condotto nella Spagna infinita quantità; navigandovi privatamente, benché con licenza del re e a spese proprie, molti, ma dandone ciascuno al re la quinta parte di tutto quello che o cavava o altrimenti gli perveniva nelle mani. Anzi è proceduto tanto oltre l’ardire degli spagnuoli che alcune navi, essendosi distese verso il mezzodì (cinquantatré) gradi sempre lungo la costa di terra ferma, e dipoi entrati in uno stretto mare e da quello per amplissimo pelago navigando nello oriente, e dipoi ritornando per la navigazione che fanno i portogallesi, hanno, come apparisce manifestamente, circuito tutta la terra. Degni, e i portogallesi e gli spagnuoli e precipuamente Colombo, inventore di questa più maravigliosa e più pericolosa navigazione, che con eterne laudi sia celebrata la perizia la industria l’ardire la vigilanza e le fatiche loro, per le quali è venuta al secolo nostro notizia di cose tanto grandi e tanto inopinate. Ma più degno di essere celebrato il proposito loro se a tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata dell’oro se a tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata dell’oro e delle ricchezze ma la cupidità o di dare a se stessi e agli altri questa notizia di propagare la fede cristiana: benché questo sia in qualche parte proceduto per conseguenza, perché in molti luoghi sono stati convertiti alla nostra religione gli abitatori. 
Per queste navigazioni si è manifestato essersi nella cognizione della terra ingannati in molte cose gli antichi. Passarsi oltre alla linea equinoziale, abitarsi sotto la torrida zona; come medesimamente, contro all’opinione loro, si è per navigazione di altri compreso, abitarsi sotto le zone propinque a’ poli, sotto le quali affermavano non potersi abitare per i freddi immoderati, rispetto al sito del cielo tanto remoto dal corso del sole. Èssi manifestato quel che alcuni degli antichi credevano, altri riprendevano, che sotto i nostri piedi sono altri abitatori, detti da loro gli antipodi. Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche anzietà agli interpreti della scrittura sacra, soliti a interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta la terra uscì il suono loro e ne’ confini del mondo le parole loro, significasse che la fede di Cristo fusse, per la bocca degli apostoli, penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi o che questa parte sì vasta del mondo sia mai più stata scoperta o trovata da uomini del nostro emisperio.

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Dióscoro Puebla: Colombo Sbarcato nel Nuovo Mondo (1862)

Più meravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnoli, incominciata nel 1492, grazie a Cristoforo Colombo, genovese. Il quale, avendo navigato per il mar Oceano, e pensando di realizzare, avendo osservato certi venti, ciò che poi fu realmente, chiese ai Re di Spagna alcune navi, e navigando verso occidente, scoprì, dopo 33 giorni, gli ultimi estremi del nostro emisfero, alcune isole, delle quali non si aveva notizia della loro esistenza; (isole) felici per la loro posizione, per la fertilità della terra, e perché, salvo alcune popolazioni molto bellicose, che mangiano corpi umani, quasi tutti gli abitanti, di costumi molto semplici e soddisfatti di ciò che produce la natura benigna, non sono preda né dall’avarizia né dall’ambizione; ma molto felici, perché non possedendo gli uomini né una certa religione, né notizie di lettere, né abilità di artigiani, né armi, né arte della guerra, né scienza, né esperienza alcuna delle cose, sono quasi animali domestici e bottino molto facile per qualcuno che li attacchi. Per conseguenza gli spagnoli, sedotti dalla facilità di occuparle e per la ricchezza del bottino, poiché in quelle (isole) erano state trovate vene d’oro molto abbondanti, incominciarono molti di quelli a vivere lì come se fosse stato il loro domicilio; e penetrando più all’interno Cristoforo Colombo, dopo di lui Amerigo Vespucci, fiorentino, e successivamente molti altri, hanno scoperto molte isole e paesi grandissimi di terra ferma; e in alcuni trovarono buone usanze e buona civiltà (sebbene nella maggior parte non trovarono queste cose, né costruzioni pubbliche o private, né nel vestire, né nel conversare); tutte genti piuttosto codardi e facili ad essere depredate, ma hanno tanta estensione questi nuovi paesi che sono, senza paragone, più grandi delle terre che noi conosciamo. Nelle quali terre gli spagnoli si estesero con nuove genti e nuove navigazioni, e prendendo oro e argento dalle vene che si trovano in molti posti e nelle sabbie dei fiumi, oppure comprandolo dagli indigeni in cambio di oggetti insignificanti, oppure rubando quello che quelli avevano accumulato, hanno portato in Spagna quantità infinite; molti navigando fin là privatamente, anche col permesso dei Re di Spagna e a proprie spese, ma ognuno dando al Re la quinta parte di tutto quello che cavavano o che in qualche modo arrivava nelle loro mani. L’ardimento degli spagnoli è arrivato a tal punto che alcune navi avendo raggiunto il mezzogiorno dei 53 gradi, sempre lungo la costa della terraferma, e poi entrando in un mare stretto, e di qui ad un oceano più grande navigando verso oriente, e poi proseguendo la navigazione che usavano i portoghesi hanno, come s’è dimostrato, circumnavigato tutta la terra. Degni i portoghesi come gli spagnoli, e particolarmente Colombo scopritori di questa meravigliosa e più pericolosa navigazione, di chiunque si celebri, con lodi eterne, la perizia, l’abilità, il coraggio, l’osservazione accurata e i suoi sforzi per mezzo dei quali è arrivata al nostro secolo la notizia di fatti tanto grandi e tanto insperati. Però sarebbe più degno d’essere celebrata la sua prodezza se a tanti pericoli e sforzi non fossero stati indotti da una esagerata sete d’oro e di ricchezze, ma per la gloria di dare a quelli stessi e ai posteri la notizia della scoperta e di diffondere la fede cristiana, anche se quest’ultimo fatto si derivò, in alcun caso, dall’altro come conseguenza naturale, infatti in vari luoghi sono stati convertiti gl’indigeni alla nostra religione.
Come conseguenza di questa navigazione s’è dimostrato che gli antichi avevano sbagliato in molte cose con relazione alla terra. Come il poter navigare più in là, oltre la linea equatoriale; il poter vivere più in là della linea torrida; e anche contro la loro opinione, sappiamo dalla navigazione di altri; che si può vivere nelle zone vicine ai Poli, nelle quali affermano gli antichi che non poteva esserci vita per il troppo freddo, essendo lontane dal sole. E’ risultato certo, contrariamente a ciò che alcuni antichi affermavano, ed altri tramandavano, che sotto i nostri piedi esistono altri abitanti chiamati antipodi. Non solo tale navigazione ha smentito molte cose affermate dagli scrittori di cose terrene, bensì apportando, oltre ciò, alcune difficoltà per gli interpreti delle Sacre Scritture, i quali erano soliti interpretarle che quel verso del salmo che dice: ‘Che in tutta la terra si levò il suono di quelli e ai confini del mondo le loro parole’, significa che la fede di Cristo fosse per bocca degli apostoli penetrata in tutte le parti del mondo. Interpretazione lontana dalla verità, dato che, non avendo alcuna notizia di queste terre né trovando alcun segnale o reliquia della nostra fede, dobbiamo concludere che la fede di Cristo si diffuse lì prima, e poi si perse, o che questa parte tanto ampia del mondo non era stata mai, fino ad ora, scoperta o trovata da uomini del nostro emisfero.

Il passo è interessantissimo perché il Guicciardini, oserei dire tra le righe, ci parla di sopraffazione europea verso le appena conquistate “isole felicissime”. Infatti ci fa subito capire che la “felicità” per la ricchezza della natura comporta di conseguenza l'”infelicità” per essere appunto “naturali”, cioè privi di qualsiasi tecnologia e tantomeno di qualsiasi fede sino ad allora conosciuta. Proprio questa infelicità fa loro essere “prede” di conquistatori, dove lo stesso termine induce a pensare ad una diseguaglianza tra chi uccide e chi resta ucciso, dove “preda” non riguarda soltanto gli uomini (a cui alcuni ecclesiastici negavano il possesso dell’anima), ma anche il territorio, ricco d’oro per i paesi del vecchio continente. (E’ proprio di Guicciardini il sottolineare l’aspetto economico della conquista).

Abbiamo accennato all’aspetto religioso: esso viene messo in evidenza nell’ultimo paragrafo del passo in cui si cita un passo biblico in cui si si afferma l’affermazione di Dio in ogni uomo abitante il pianeta, il fatto che questi uomini non lo conoscessero metteva in seria difficoltà la Chiesa. Non soltanto la religione riceveva un violento scossone circa la sua “verità”, ma era tutto un sapere classico che veniva rimesso in discussione, dalle teorie scientifico/astronomiche a quelle morali. 

Potremo concludere che se è vero che la civiltà europea si è introdotta con violenza e sopraffazione nel mondo “vergine” delle nuove terre, quest’ultime siano penetrate con il loro portato rivoluzionario in un sistema di credenze sino allora ritenuto immutabile e che avrà enormi conseguenze per il futuro della storia e della cultura europea. 

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Alessandro VI e il figlio

LA MORTE DI ALESSANDRO VI
(VI,4)

Ma ecco che nel colmo più alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da’ caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dì seguente, che fu il decimo ottavo dì d’agosto, è portato morto secondo l’uso de’ pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell’età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama più comune, l’ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl’inimici o per assicurarsi de’ sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuta offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il pontefice innanzi a l’ora della cena, e, vinto dalla sete e da’ caldi smisurati ch’erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni per la cena, gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino più prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino; il quale, sopragiugnendo mentre il padre beeva, si messe similmente a bere del medesimo vino. Concorse al corpo morto d’Alessandro in San Piero con incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d’alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventù insino all’ultimo dì della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo più di quello desiderava. Esempio potente a confondere l’arroganza di coloro i quali, presumendosi di scorgere con la debolezza degli occhi umani la profondità de’ giudìci divini, affermano ciò che di prospero o di avverso avviene agli uomini procedere o da’ meriti o da’ demeriti loro: come se tutto dì non apparisse molti buoni essere vessati ingiustamente e molti di pravo animo essere esaltati indebitamente; o come se, altrimenti interpretando, si derogasse alla giustizia e alla potenza di Dio; la amplitudine della quale, non ristretta a’ termini brevi e presenti, in altro tempo e in altro luogo, con larga mano, con premi e con supplìci sempiterni, riconosce i giusti dagli ingiusti.

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Giuseppe Lorenzo Gatteri: Cesare Borgia lascia il Vaticano dopo la morte del padre (1877)

Ma ecco che nelle prospettive politiche che sembravano essere più favorevoli (come sono inutili e sbagliate le aspettative degli uomini), il papa Alessandro VI è immediatamente riportato come morto e dietro a lui il figlio, il duca di Valentino, allo stesso modo è portato da una vicina, vicino al palazzo pontificale, per ricrearsi del gran caldo. Il giorno successivo, il 18 agosto, è portato, ormai deceduto, com’è usanza per i pontefici nella chiesa di San Pietro, con la pelle nera, gonfio e trasformato in modo orrendo, segni inequivocabili di avvelenamento mentre il Valentino, sia per la giovane età e per aver preso immediatamente degli antidoti contro il veleno, riuscì a scampare, pur riportando per sempre una grave ed inguaribile infermità. Da subito si credette che tale infermità fosse stata determinata dal veleno e si racconta, secondo la fama che si diffondeva, il succedersi dei fatti in questo modo: il Valentino, invitato nella stessa cena alla quale era stato invitato il padre, avendo deciso di avvelenare nella propria vigna, Adriano Cardinale del Carneto, (perché si sa che era abitudine sua e del padre non solo di usare il veleno per uccidere nemici e per mettersi al sicuro da persone sospette, ma anche per delittuosa volontà di togliere beni alle persone ricche, specialmente verso cardinali e cortigiani, senza tener conto che coloro contro cui operavano non avevano ricevuto alcuna offesa, come accadde al ricchissimo cardinale veneto di Sant’Angelo, ma neanche che fossero molto amici ed intimi, come furono i cardinali di Capua e di Modena, molto utili e fidatissimi loro ministri). Si dice appunto che il duca di Valentino fece portare prima del suo arrivo fiaschi di vino infettati con il veleno, e li fece consegnare ad un ministro ignaro del fatto, con raccomandazione di non darlo da bere ad alcuno. Per caso il pontefice arrivò prima del figlio e, vinto dalla sete e dall’eccessivo caldo, domandò che gli fosse dato da bere, ma non essendo arrivati ancora le provviste per la cena, gli diede da bere il vino affidatogli dal Valentino, reputandolo vino di gran pregio. Valentino, giungendo mentre il padre beveva, cominciò, non sospettando fosse il “suo” vino, a berlo anche lui.  Accorse per vedere il cadavere del pontefice Alessandro nella chiesa di San Pietro tutta Roma, manifestando grande allegrezza, non potendo saziarsi dal vedere un serpente morto, che con la sua smisurata ambizione e micidiale perfidia e dagli atti di orribile crudeltà, infausta libidine e inaudita avidità, vendendo le cose sacre e profane, aveva avvelenato tutto il mondo; e nonostante ciò era stato esaltato con rara e quasi continua fortuna, dalla prima giovinezza sino all’ultimo delle sua vita, desiderando sempre il massimo ed ottenendo sempre di più. Esempio efficace a smentire l’arroganza di coloro che, avendo la presunzione di vedere con gli occhi degli uomini l’inafferrabilità dei giudizi divini, affermano che ciò che di fortuna o di sfortuna accade agli uomini derivi o dai loro meriti o dai loro demeriti, come se non si cogliesse continuamente che molti uomini giusti sia vessati dalla fortuna, mentre altri, di cattivo animo siano dalla stessa esaltati oppure come se, interpretando in modo diverso, disprezzassero la potenza e la giustizia di Dio, la grandezza delle quali, non si misura nel tempo breve dell’esistere, ma in altro luogo, con generosità, con premi e con eterne preghiere, riconosce i giusti dagli ingiusti.

Il passo qui offerto ci permette di confrontare la pagina machiavelliana da quella guicciardiniana su due aspetti fondamentali, avendo ambedue trattato il medesimo argomento:

  1. Machiavelli vede nella morte del pontefice e nella malattia del figlio, un fatto “politico”, in quanto non ha permesso al duca di Valentino di portare a compimento il suo progetto; Guicciardini vede nello stesso episodio un fatto storico, non esente da riflessione morale, sottolineando la contentezza del popolo romano per la morte di Alessandro VI;
  2. A dominare qui non è la storiografia di Tito Livio, che tante suggestioni hanno offerto per l’opera di Machiavelli, quanto quella tragica di Cornelio Tacito, che non sarà casualmente divenne lo storico di riferimento dalla metà del ‘500 sino a tutto il ‘600.

IL SACCO DI ROMA

Alloggiò Borbone con l’esercito, il quinto dí di maggio, ne’ Prati presso a Roma, con insolenza militare mandò uno trombetto a dimandare il passo al pontefice (ma per la città di Roma) per andare con l’esercito nel reame di Napoli, e la mattina seguente in su il fare del dí, deliberato o di morire o di vincere (perché certamente poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al Borgo della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra battaglia; avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare piú sicuramente, per beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi al giorno, gli coperse insino a tanto si accostorno al luogo dove fu cominciata la battaglia. Nel principio della quale Borbone, spintosi innanzi a tutta la gente per ultima disperazione, non solo perché non ottenendo la vittoria non gli restava piú refugio alcuno ma perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande a dare l’assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso, cadde in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò l’ardore de’ soldati, anzi combattendo con grandissimo vigore, per spazio di due ore, entrorno finalmente nel Borgo; giovando loro non solamente la debolezza grandissima de’ ripari ma eziandio la mala resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale, come molte altre volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non hanno ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtú degli uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati di turba collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla difesa una parte della gioventú romana sotto i loro caporioni e bandiere del popolo; benché molti ghibellini e della fazione colonnese deliberassino o almanco non temessino la vittoria degli imperiali, sperando per il rispetto della fazione di non avere a essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa piú freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre senza artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di fuora. I quali come si ebbeno aperta la via di entrare dentro, mettendosi ciascuno in manifestissima fuga, e molti concorrendo al Castello, restorono i borghi totalmente abbandonati in preda de’ vincitori; e il pontefice, che aspettava il successo nel palazzo di Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggí subito con molti cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi quivi, o pure, per la via di Roma, accompagnati da’ cavalli leggieri della sua guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio delle calamità che possono sopravenire a’ pontefici e anco quanto sia difficile a estinguere l’autorità e maestà loro, avuto nuove per Berardo da Padova, che fuggí dello esercito imperiale, della morte di Borbone e che tutta la gente, costernata per la morte del capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare co’ capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di partirsi; non stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle provisioni del difendersi che fussino nelle espedizioni. Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v’entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma: dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della fazione, e da alcuni cardinali che per avere nome di avere seguitato le parti di Cesare credevano essere piú sicuri che gli altri, tutto il resto della corte e della città, come si fa ne’ casi tanto spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all’autorità e degnità de’ prelati, ma eziandio a’ templi a’ monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella città, destinata per ordine de’ cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni; perché era l’anno…… che era stata saccheggiata da’ goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero grande de’ prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da’ soldati, massime da’ fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne’ tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non era con l’esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose la marchesana di Mantova il suo palazzo in cinquantaduemila ducati, che furono pagati da’ mercatanti e da altri che vi erano rifuggiti: de’ quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo ne partecipasse di diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica eredità de’ suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da’ tedeschi; e si ebbe, poi che gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in Borgo col capo nudo con molte pugna, a riscuotere da loro con cinquemila ducati. Quasi simile calamità patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da’ tedeschi pagorono la taglia, menati prima l’uno e l’altro di loro a processione per tutta Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati non manco acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a’ mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de’ soldati (che furno le cose piú vili) tolseno poi i villani de’ Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a piú di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore.

Sacco di Roma (1527) - WikipediaJohannes Lingelbach: Il sacco di Roma

Il 5 maggio il Borbone prese alloggio in Prati, presso Roma, e con prepotenza militare inviò un araldo per chiedere al papa il permesso di attraversare il suo territorio (ma solo la città di Roma) per raggiungere con l’esercito il regno di Napoli, ed il giorno seguente all’alba, deciso o a morire o a vincere (perché non aveva altra speranza per portare a termine le sue operazioni), avvicinatosi alla città dalla parte del Monte Santo Spirito, cominciò una aspra lotta; avendo la fortuna dalla sua parte nel favorirli per avvicinarsi alle mura, scese una spessa nebbia che li nascose fino a che giunsero alle prime difese ormai colte di sorpresa. Al principio della battaglia  Borbone, fattosi avanti con tutti i suoi uomini come atto disperato, non solo perché non ottenendo la vittoria, non aveva alcun posto dove rifugiarsi, ma perchè la fanteria tedesca procedere con grande freddezza nel dare l’assalto, e lui stesso ferito, all’inizio dell’assalto, colpito da un archibugio, morì. Ma la sua morte non raffreddò l’impeto dei suoi uomini, anzi con grandissima vigorìa, dopo due ore di assalto, penetrarono in città, giovando loro non solo le deboli difesa, ma la scarsa resistenza fatta dalla popolazione. Questo fatto dimostra, come già è avvenuto moltissime altre volte, che attraverso gli esempi antichi non hanno imparato le cose presenti, e cioè quanto sia più efficace la forza esercitata da uomini usi alla guerra che nuovi eserciti composti da una folla raccogliticcia e dalla massa del popolo, perché c’erano alla difesa giovani romani sotto i loro comandanti e bandiere del popolo; inoltre c’erano anche i ghibellini e gente della fazione dei Colonna che desideravano o perlomeno non temevano la vittoria degli imperiali, sperando di non venir colpiti da loro, forse anche per questo la difesa combatteva più freddamente. E nonostante questo, perché è anche difficile espugnare le città senza artiglieria, ci furono circa mille fanti morti di assedianti. Quest’ultimi appena videro aperta una traccia per entrare dentro le mura, fecero sì che le persone assediate si mettessero immediatamente in fuga e molti di essi si diressero verso Castel Sant’Angelo, lasaciando così la città abbandonata completamente alla preda dei vincitori. Il pontefice, che aveva aspettato l’esito di vittoria dentro il palazzo vaticano, saputo che i nemici erano entrati in città, si rifigiò con molti cardinali all’interno di Castel Sant’Angelo. Qui, discutendo con i suoi se fosse necessario fermarsi lì o viceversa mettersi al sicuro attraversando la città con la sua guardia di cavalleria leggera, destinato così a diventare l’esempio delle disgrazie che possono capitare ai pontefici ed anche quanto sia difficile stinguere la loro autorità e potere, avute notizie da Bernardo da Padova, scappato dall’esercito imperiale, che il Borbone era morto e che l’intero esercito, costernato, desiderava fare un accordo con lui, uscito fuori per parlare con loro, lasciò perdere l’intenzione di partire, dato che egli e i suoi capitani non erano meno indecisi nei provvedimenti di difesa di quanto fossero nelle loro azioni. Perciò lo stesso giorno gli spagnoli, non trovando alcuno con l’ordine o la decisione di difendere Trastevere, non avendo avuta alcuna resistenza, entrarono; quindi non essendoci alcuna difficoltà, la sera stessa alle 23 entrarono attraverso ponte Sisto a Roma, dove, ad eccezione di coloro che confidavano nell’essere ghibellini e di quei cardinali che rivendicavano d’esser dalla parte dell’imperatore, tutto il resto della corete pentificia e della città, come succede nelle grandi calamità, era in fuga e in confusione. Una volta dentro, cominciarono tutti a correre alla ricerca di preda, non avendo rispetto alcuno non solo di coloro che si dichiaravano amici né dell’autorità né della dignità dei prelati, ma anche delle chiese, dei monasteri, delle reliquie a cui erano accorsi i fedeli di tutto il mondo e di tutte le cose sacre. Perciò sarebbe impossibile non solo raccontare, ma anche immaginare lo sfacelo di quella città, destinata per volere di Dio a somma grandezza ma anche a frequenti devastazioni, perché correva l’anno … che era stata saccheggiata dai goti. Impossibile narrare la magnificenza della preda, essendo state acculumate tantissime ricchezze e molissimi oggetti preziosi e rari, di uomini di corte e di mercanti; ma la preda divenne ancora maggiore  grazie alla qualità e al numero delle persone catturate che di dovette riscattare con onerosissime taglie, aggiungendo così alla loro condizione miseria ed infamia, tanto che molti prelati catturati dai soldati, soprattutto dalla fanteria tedesca, che, per odio della Chiesa romana, era insolente e crudele, li aveva messi su vili animali, con abiti ed insegne del loro grado e condotti in giro per la città con grandissima derisione. Molto di essi, dopo aver subito tormenti crudelissimi, o nel subirli morirono o, dopo aver pagato il loro riscatto, una volta liberati morirono dopo pochi giorni. Morirono, tra la battaglia e il sacco della città, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati tutti i palazzi dei cardinali (anche del cardinale Colonna che non stava nell’esercito della lega), eccetto quei palazzi occupati da mercanti che, per salvare la loro roba insieme ad altre persone e alle loro cose, concordarono un’enorme taglia in denaro; ed alcuni di loro che si erano concordati con gli spagnoli furono poi saccheggiati dai tedeschi o dovettero concordare una nuova taglia con quest’ultimi. La marchesa di Mantova (Isabella d’Este) patteggiò il suo palazzo per cinquantaduemila ducati, che furono pagati dai mercanti e da altri che vi si erano rifugiati, fra i quali si dice che don Ferrando, suo figlio, vi partecipasse con diecimila. Il cardinale di Siena (Giovanni Piccolomini) devoto per antica tradizione dei suoi predecessori alla parte imperiale, poiché si fu accordato per sé e per il suo palazzo con gli spagnoli, fu fatto prigioniero dai tedeschi e quindi, dopo avergli saccheggiato il palazzo, fu condotto in città con molte percosse e capo nudo e costretto a riscattarsi da loro con cinquemila ducati. Simili disgrazie patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta che, catturati dai tedeschi, pagarono la taglia dopo esser stati condotti prima in giro per tutta Roma. I preti e i cortigiani spagnoli e tedeschi, sicuri per la loro nazionalità, furono catturati e trattati con non meno crudeltà. Si sentivano le grida e le urla delle donne romane e delle monache condotte a gruppi dai soldati sulle quali sfogavano la loro libidine: non potendo se non dirsi misteriosi agli occhi degli uomini il giudizio di Dio, che abbia permesso che la famosa pudicizia delle donne romane cadesse in così orrenda abiezione e miseria. Si udivano dappertutto gli infiniti lamenti di coloro che venivano torturati, parte per estorcergli una taglia, parte per farsi dire dove nascondevano i tesori. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le relique dei santi che erano nelle chiese, private dei loro decori, erano sparse in terra; si aggiunga l’irreligiosità dei tedeschi e le infinite bestemmie. E quello che restò della preda dei soldati (che erano le cose di minor valore) rubarono poi i contadini dei Colonna che in seguito entrarono in città. Lo stesso cardinale Colonna, che arrivò il giorno dopo, salvò molte donne fuggite in casa sua. Era fama che tra oro argenti e gioielli il sacco fosse ammontato a più di un milione di ducati, ma che con le taglie fosse stata ricavata una cifra molto maggiore.

Guicciardini partecipò, come consigliere di Clemente VII, alla difesa della città di Roma e quindi venne ritenuto in parte responsabile del sacco della città da partte delle truppe imperiali di Carlo V. Il brano, condotto con estrema “impersonalità” vuole tuttavia mostrare che il fallimento era dovuto a più ragioni, alcune delle quali del tutto casuali – contrariamente alle teorie machiavelliane:

  • il comportamento del Borbone, spostatosi troppo lontano dai rifornimenti;
  • l’improvviso infittirsi della nebbia che non aveva reso possibile un efficace avvistamento dell’arrivo del nemico;
  • il rifiuto del papa di salvarsi.
  • l’impreparazione della difesa – ancora contro le teorie dell’autore del Principe rispetto alle armi proprie – dovuto all’approssimazione e al male armamento degli eserciti cittadini.

Tuttavia possiamo notare come egli descriva da una parte l’etrema indecisione papale, come a rafforzare la teoria secondo la quale egli cerchi di capire psicologicamente gli atteggiamenti dei protagonisti, dall’altra la precisione quasi “ragioneristica” attraverso la quale descrive le perdite in denaro dovute al sacco subito. Certo quest’evento produsse un vero e proprio shock nell’opinione pubblica contemporanea, ma lui riesce a “impressionarci” nascondendo la propria emotività.

 

NICCOLO’ MACHIAVELLI

File:Portrait of Niccolò Machiavelli by Santi di Tito.jpg - Wikipedia

Santi di Tito: Ritratto di Machiavelli (seconda metà XVI sec.)

Prima di affrontare il discorso sul grande intellettuale fiorentino, è necessario, proprio per il suo pensiero politico volto alla sua città e all’Italia intera, porre un accento particolare sulle vicende storico-politiche della capitale toscana:

Firenze tra la Repubblica e il Principato

Se storicamente ci occupiamo in modo particolare della città di Firenze è per due motivi:

  • E’ proprio il principe della città italiana ad aver costituito il perno sul quale poggiava tutta la politica italiana per un cinquantennio circa: è logico che quindi fu essa a subire le maggiori conseguenze ed influenze della storia cinquecentesca e a sperimentare varie forme di governo;
  • In questa città, proprio per ciò che si è detto, hanno operato i più grandi pensatori politici italiani che tanta influenza avranno per la filosofia e la letteratura europea.

File:Moretto da Brescia - Portrait of a Dominican, Presumed to be Girolamo Savonarola - WGA16226.jpg - Wikimedia Commons

Moretto da Brescia: Giacomo Savonarola

Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492), resse il governo di Firenze suo figlio Pietro che certo non aveva il carisma né le capacità politiche del padre. Quando Carlo VIII scese in Italia, l’accondiscendenza mostrata dal giovane duca, che ne accettò le esose condizioni, fece infuriare la popolazione che lo mandò via, ed è così che si instaurò a Firenze il governo repubblicano, ispirato dal frate Girolamo Savonarola, che, animato ad un’idea di libertà democratica concepita come libertà cristiana dal peccato, cercò di far convivere l’elemento religioso con l’elemento politico. I seguaci del frate (“Piagnoni”), con la loro esasperata censura verso tutto ciò che appariva “mondano”, si attirano le antipatie degli aristocratici e dei banchieri che, alleatisi con Alessandro VI, papa Borgia, stanco degli attacchi del domenicano e dopo averlo scomunicato, riuscirono a mandarlo al rogo nel 1498. Dopo lunghi quattro anni di conflitti tra le diverse forze sociali della città, il potere venne affidato a un gonfaloniere di giustizia Pier Soderini (1502) che rimarrà in carica fino al 1512, quando le truppe spagnole, dopo aver sconfitto Luigi XII, cui Soderini si era alleato, rimetteranno al potere la famiglia dei Medici. La situazione nei primi anni del ’500 per Firenze è assai turbolenta: la città vive il contrasto fra le grandi potenze (Francia e Spagna) interessate a contendersi il potere in un’Italia divisa e debole e con un papato, guidato da Alessandro VI e poi da Giulio II che intromettendosi tra i due contendenti, da una parte tenta di allargare il suo stato e d’imporre la sua voce, dall’altra esaspera una situazione già di per se stessa difficile. A tale scopo non è senza importanza, per la lettura che sulla sua figura farà Machiavelli, l’avventura del duca di Valentino, figlio di Alessandro VI, con il cui aiuto cercherà di creare un forte stato nell’Italia centrale. Le sorti della città di Firenze, che dopo 15 anni di guerra era riuscita a conquistare Pisa (1509), sono legate a Luigi XII, re di Francia, con cui è alleata e contro cui si contrappone la lega santa promossa da Giulio II con Venezia, Spagna, Inghilterra; battuto dalle soverchianti forze nemiche, difese dalle truppe “cittadine” organizzate da Machiavelli, Pier Soderini deve lasciare il posto al ritorno mediceo (1512).

Ridolfo Ghirlandaio | PORTRAIT OF PIERO SODERINI (1450-1522) | MutualArt

Rodolfo Ghirlandaio: Pier Soderini

Sul soglio pontificio viene posto un Medici (Leone X), quando Carlo V, re di Spagna, viene eletto imperatore (1519); la lotta tra Francia e Spagna riprende vigore: il nuovo re francese, Francesco I, coalizza intorno a sé Venezia, Genova, Firenze, ed il nuovo papa Clemente VII (sempre della famiglia dei Medici), che rovescia la precedente alleanza; la “calata dei lanzichenecchi”, le truppe imperiali di Carlo V, provoca il “sacco di Roma” (1527): l’umiliazione papale, fa rinascere la “repubblica” fiorentina dalla vita assai effimera (tre anni). La pace di Cateau-Cambresis (1530) sancisce la vittoria imperiale; Firenze viene cinta d’assedio e quindi viene ripristinato il potere mediceo con il duca Alessandro De’ Medici, la cui politica, come quella dell’intera Italia, orbiterà ormai sotto l’influenza di quella spagnola.

Biografia

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469, da una famiglia borghese: il padre, pur essendo notaio, era di modeste origini, mentre la madre Barolomea de Nelli, era di profonda religiosità. Non sappiamo molto della sua giovinezza, se non che ricevette un’educazione umanistica, ma fortemente antispiritualistica: non per niente tra gli autori latini preferiti vi è Lucrezio, autore del De Rerum Natura, con cui porta l’epicureismo a Roma. Ha 25 anni quando assiste alla discesa di Carlo VIII e alla conseguente cacciata dei Medici dalla città. Dopo un po’ appare la sua prima testimonianza di una visione politica, che risale al 1498, quando in una lettera critica aspramente il frate Savonarola. Alla morte del frate, nel 1498, inizia la sua attività politica, sotto il governatorato di Pier Soderini; egli fu nominato segretario della seconda cancelleria (politica interna della città). Inizia un’intensa attività diplomatica che lo porterà a visitare la Francia (1500, 1504, 1510), con la quale Firenze ha stretto alleanza, i territori di Massimiliano d’Asburgo (1508) ed il duca di Valentino (1502). Di questi viaggi sono testimonianza i Ritratti di cose di Francia, Ritratti di cose di Magna nonché di un volumetto Del modo tenuto dal duca di Valentino nell’uccidere Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini in Senigallia. Al rientro dei Medici (1513), accusato per la sua attività filofrancese con Pier Soderini, sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, imprigionato per quindici giorni, (liberato per l’elezione di Leone X) viene esonerato da tutte le cariche e si rifugia all’Albergaccio, sua residenza in campagna, dove redige i suoi capolavori Il principe, Dialogo sopra la prima deca di Tito Livio e la commedia La Mandragola. Dal 1516 frequenta gli Orti Oricellari, i cui partecipanti sono d’orientamento repubblicano e nel 1519 ricomincia a interessarsi della politica fiorentina per incarico di Giuliano De’ Medici (futuro Clemente VII), per invito del quale scriverà le Istorie fiorentine.

File:Angelo Bronzino - Portrait of Pope Clement VII - WGA3272.jpg - Wikipedia

Sebastiano del Piombo: Clemente VII

Una volta divenuto papa, quest’ultimo gli revocherà l’interdizione a ricoprire pubblici uffici e ne 1527, per l’appressarsi di Carlo V, gli viene affidato l’incarico di rinforzare le difese della città. Dopo il sacco di Roma, a Firenze viene ripristinata la repubblica, ma Machiavelli viene osservato con sospetto per l’aiuto dato al papa mediceo, così deluso, muore nel 1527.

Epistolario

L’importanza dell’esperienza culturale di Machiavelli è talmente vasta da influenzare l’intero pensiero filosofico e letterario. I critici per definire il suo modo di concepire la realtà politica e per stigmatizzarlo, utilizzarono addirittura dal suo nome un aggettivo, “machiavellismo”, ad indicare un atteggiamento incline ad ottenere un fine con qualsiasi mezzo. E’ evidente che tale visione, riferita all’intellettuale fiorentino è riduttiva, ma oggi ci si riferisce per indicare un atteggiamento politicamente spavaldo, certo oggi un po’ attenuato, ma non così tanto da non percepirne la sua resistenza ed importanza. Ma per capire il letterato, bisogna capire l’uomo. L’opera che si avvicina a tale compito è certamente l’Epistolario. Tale opera in realtà non esiste: nessun progetto da parte dell’autore di pubblicare lettere. Tuttavia la loro raccolta ci permette di cogliere l’aspetto più autentico di Machiavelli. Il gruppo di lettere più numeroso riguarda quelle indirizzate a Francesco Vettori, dopo la sua esclusione dall’azione politica. La più importante è quella del 10 dicembre 1513; a Francesco che chiedeva ragguagli circa il suo modo di vivere, così risponde Machiavelli:

LETTERA AL VETTORI

Magnifico oratori Florentino Francisco Vectori apud Summum Pontificem et benefactori suo. Romae

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine*. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra de’ 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste legne. E Frosino in spezie mandò per certe cataste senza dirmi nulla; e al pagamento, mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca in casa Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro. Tandem Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli, che pareva el Gaburra quando el giovedí con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato.
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de’ mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini. Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso – io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta volta io l’ingrasso e ripulisco. Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costí, visitarli e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare cosí che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.

Die 10 Decembris 1513.

 * Verso di Petrarca dai “Trionfi”

Lettere di Niccolò Machiavelli che si pubblicano per la prima volta. by MACHIAVELLI, Niccolò | LIBRERIA PAOLO BONGIORNO

Edizione di alcune lettere di Machiavelli pubblicate in Firenze nel 1767

A Francesco Vettori, magnifico ambasciatore fiorentino presso il Sommo Pontefice, proprio benefattore. Roma
Le grazie ricevute da Dio, anche se arrivano tardi, sono sempre gradite. Dico questo perché mi sembrava di aver non perduto, ma smarrito la vostra benevolenza perché siete stato tanto tempo senza scrivermi e mi chiedevo quale potesse essere il motivo. E tra tutti quelli che mi venivano in mente, tenevo per buono solo quello che mi convinceva di più, e cioè che vi fosse stato scritto che io non ero stato un buon custode delle vostre lettere, ma in realtà io non le ho mostrate a nessuno, tranne che a Filippo e Pagolo.
Ho riavuto il piacere della vostra benevolenza con la lettera del giorno 23 (di Novembre) in cui ho letto che svolgete il vostro incarico (di ambasciatore) in modo tranquillo e pacifico e io vi invito a continuare in questo modo perché chi dimentica il proprio comodo per fare il comodo degli altri perde il proprio e non gli viene nemmeno detto grazie.
E siccome la Fortuna vuole fare i suoi comodi, è meglio lasciarla stare e non contrastarla, aspettando che essa permetta agli uomini di agire in qualche modo e allora voi dovrete lavorare di più, stare più attento e io sarò pronto a dirvi “Eccomi”.
Stando così le cose, non posso far altro, per rendervi il favore che mi avete fatto (raccontandomi della vostra vita attuale), che raccontarvi come trascorro le mie giornate e se voi pensate che la mia vita possa essere scambiata con la vostra, io sarò contento di farlo.
Io sto in paese, e, dopo esser stato accusato di aver partecipato ad una congiura contro i Medici, non sono stato a Firenze, se li dovessi contare tutti, più di venti giorni. Fino ad oggi sono andato a caccia di tordi, mi sono alzato all’alba, ho preparato le panie, e sono andato con un fascio di gabbie addosso, che sembravo il Geta quando porta i libri del suo padrone Anfitrione; prendevo almeno due o al massimo sei tordi. Così trascorsi il tempo per tutto Settembre; poi questo passatempo, sebbene dispettoso e strano alle mie inclinazioni, è terminato con grande dispiacere, e quale sia la mia vita ora vi dirò. Mi alzo con il sole e vado in un mio bosco che faccio tagliare, quindi sto due ore a rivedere i lavori del giorno precedente, e a parlare con i tagliatori che hanno sempre qualche problema tra loro o con i loro vicini. E riguardo questo bosco io avrei mille cose che mi sono accadute da dirvi e con Frosino da Panzano e con altri che volevano acquistare questa legna, e soprattutto Frosino che è venuto a prenderne quattro cataste senza chiedermi nulla, e quando doveva pagarmi, voleva trattenermi dieci lire, in quanto afferma che dovevo restituirgliele dato che le aveva vinte a carte a casa di Antonio Guicciardini. Cominciai a fare il diavolo a quattro, volevo accusare il vetturale che era venuto a prenderle per ladro, infine intervenne Giovanni Machiavelli e ci mise d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso Del Bene, quando cominciò il freddo ognuno se ne prese una catasta, e ne mandai una anche a Tommaso, la quale arrivò a Firenze che sembrava la metà, perché a stringerla c’era lui, la moglie, il servo, che sembrava il Guburra quando il giovedì con tutti i suoi operai bastona un bue. Quindi, visto che il guadagno era poco, ho mandato a dire che non avevo più legna da vendere, e tutti se ne sono lamentati e soprattutto Battista che annovera questa tra le altre sciagure di Prato.
Quando mi allontano dal bosco, me ne vado ad una fonte e qui in un luogo riservato alla caccia d’uccelli, mi porto un libro, o Dante, o Petrarca, o uno di quei poeti elegiaci latini, Tibullo o Ovidio e simili: leggo le loro passioni e le loro storie d’amore, mi ricordo delle mie e godo per un attimo in questo pensiero. Mi trasferisco poi nella strada verso l’osteria, parlo con quelli che passano, domando notizie dei loro paesi, ascolto varie cose e annoto le diverse e straordinarie fantasie degli uomini. Nel mentre giunge l’ora di cena, dove con la mia famiglia mangio ciò che la mia povera fattoria e la piccola rendita permette. Dopo mangiato torno all’osteria. Qui, come al solito, c’è l’oste, il macellaio, un mugnaio e due fornai. Con loro io m’incanaglisco per tutto il tempo giocando a tric e trac, e nascono mille contese e per lo più si litiga per un soldo e le nostre urla si sentono fino a San Casciano. E così, rivoltandomi in mezzo a questi pidocchi tengo il cervello in esercizio e sfogo la malignità della mia sorte, contento che mi calpesti in questo modo, per vedere infine se riesco a vergognarmi.
Venuta la sera, mi ritiro in casa, ed entro nel mio studio, e sulla porta mi spoglio di quella veste quotidiana piena di fango e mi vesto con panni reali e adatti alle corti e rivestito con dignità entro nelle corti degli uomini antichi dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi nutro di quel cibo che solo è mio ed io sono nato per lui, dove non mi vergogno di parlare con loro, e quelli, per il loro alto concetto di humanitas mi rispondono e per quattro ore non provo noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non ho paura della morte. Mi immergo tutto in loro. E siccome Dante ha scritto che non vi è conoscenza senza annotare ciò che si è capito – ho fatto capitale delle loro conversazioni e ho scritto un piccolo libro De principatibus dove io mi profondo completamente in questo argomento, trattando di cosa è un principato, di quali specie essi siano, come si conquistano, come si mantengono, perché si perdono; e se avete trovato piacere per qualche mio scritto, questo dovrebbe risultarvi gradito, perciò lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano de’ Medici. Filippo Casavecchia l’ha letto; vi potrà pertanto ragguagliare in parte sul contenuto e sul soggetto stesso e dei ragionamenti intorno ad esso che ho avuto con lui, sebbene ancora lo continui a rivedere e a limare. Tu vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita e venissi a stare bene da voi. Tenterò di farlo, ma quello che mi trattiene ora sono alcuni impegni che sbrigherò entro sei settimane. Quello che mi lascia dubbioso è che lì, dove siete voi, vi sono i Soderini e mi sentirei in obbligo di andare a trovarli e dialogare con loro. Temo che, quando tornerò a Firenze, non attraverserò il cancello di casa mia, ma del carcere del Bargello, perché, sebbene questo Stato poggi su buone fondamenta e gran sicurezza, tuttavia è nuovo e per questo sospettoso, né vi mancano dei saccenti che per apparire, come Pagolo Bertini, metterebbero qualcuno in carcere, facendomi pagare il conto. Se voi mi scioglierete da questo timore, verrò certamente, come ho detto, a trovarvi.
Ho ragionato con Filippo di questo mio libretto, se era opportuno consegnarlo o meno e se dovesse essere dato, se era giusto che io lo consegnassi direttamente o lo facessi consegnare. Il non darlo personalmente mi fa dubitare sul fatto che Giuliano lo leggesse e che Ardinghelli (colui che lo dovrebbe consegnare) si facesse bello di questa mia fatica. Il darlo di persona mi spinge la necessità, perché io mi logoro, e che non diventi per povertà spregevole. Avrei inoltre il desiderio che questi signori Medici cominciassero ad adoperarmi, foss’anche dovessi rotolare un sasso, perché se non dovessi guadagnare quello per cui mi adopero, mi dorrei con me stesso, e per questo libretto, quando fosse letto, si vedrebbe che quindici anni in cui sono stato in politica non ho né dormito né giocato e dovrebbe ciascuno gradire di servirsi di uno che ha accumulato tanta esperienza nel regime precedente. E della mia fedeltà non si dovrebbe dubitare, perché l’ho sempre osservata e non devo imparare ora a romperla; chi è stato buono e fedele per quarantatré anni, non può mutare la sua natura, e della mia fedeltà e bontà ne è testimonianza la mia povertà. Desidererei dunque che voi mi scriveste le vostre impressioni su quanto vi ho detto. Mi raccomando a voi. Siate felice.
10 Dicembre1513

San Casciano Val di Pesa: arte e storia nel Chianti Classico

Particolare della casa di Machiavelli in San Casciano, oggi albergo e ristorante 

Sin dalla prima lettura notiamo alcuni elementi d’estrema importanza per la comprensione del pensiero machiavelliano, partendo proprio dal primo paragrafo. In esso si colgono due aspetti, il primo riferito alla concezione pessimistica dell’uomo, il secondo alla fortuna: dice infatti Machiavelli chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado, lasciando intendere l’ingratitudine verso colui che dedica ogni suo sforzo per aiutare altri e non riceverne nemmeno gratitudine dove sembra riecheggiare il detto latino di Plauto (nell’Asinaria) ripreso dal filosofo Hobbes homo hominis lupus. O ancora il concetto di fortuna, centrale per la sua speculazione, in cui rivendica la sua imperscrutabilità ma allo stesso la capacità dell’uomo, laddove gli venga offerta l’occasione, per agire.

Nella descrizione della giornata invece, che occupa la seconda sequenza, il Machiavelli descrive le sue attività sia quotidiane che culturali: la mattina nel bosco a cacciare e poi perdersi tra le sue “questioni” economiche come venditore di legna. Sembrerebbe quasi sminuirsi, ma seppure lui, uomo che è stato a contatto con i più grandi protagonisti della storia europea, si perde in discussioni di poco conto, non può fare a meno di notare gli atteggiamenti umani, la cui conoscenza è fondamentale per la sua speculazione politica. Quindi pausa con la lettura di autori elegiaci e d’amore: ecco che la letteratura classica, sebbene per lui “minore”, serva a lui per capire e riflettere su se stesso, non diversamente da come farà con quella che Machiavelli considererà “maggiore”. Quindi il ritorno ad una quotidianità che comincia “nel cercare le fonti per elaborare il suo pensiero politico”, poi più degradata, dove all’homo economicus si sostuisce, oserei dire, l’istinto quasi animale, che non tollera la sopraffazione nemmeno se essa deriva da un gioco. Ma tale degradazione serve quasi a fare da contrasto col climax “narrativo dell’epistola”.

File:Niccolo Machiavelli uffizi.jpg - Wikipedia

Statua di Machiavelli a Firenze

Tale è la terza sequenza in cui egli ci narra il suo rapporto con i grandi classici, gli storici soprattutto. E’ quasi un passo teatrale: l’uomo che si mette in abiti “rigorosi” e alti, come alti sono i personaggi con cui entra a colloquio, perché andando alla ricerca del comportamento umano, egli trova le risposte nelle grandi azioni che gli uomini del passato hanno compiuto, ma che lui vorrebbe fossero ancora “modelli” per gli uomini di oggi ed è per questo che, come diligente scolaro, ha potuto scrivere Il principe che dovrà dare a Giuliano de’ Medici.

Nell’ultima parte della lettera, quella di doverla consegnare personalmente o tramite emissario si misura tutta la capacità machiavellica di andare dietro la realtà effettuale delle cose e quindi, una volta presone atto, decidere sul da fare (così come dovrebbe fare un principe).

Ma ci accora l’ultima richiesta che esula dall’opportunità “politica” e che individua in Machiavelli una vera e propria passione per l’arte politica che egli ha individuato, non ne può fare a meno: la vera prigione o il vero esilio, per lui, è l’inattività.

Opere minori

Le opere minori possono individuarsi in ufficiali, quali legazioni e dispacci per il governo oppure in brevi scritti politici in cui il nostro individua per la Repubblica alcuni aspetti utili per la sue scelte governative. A tale produzione ci piace ricordare quelle prettamente operative come Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) o, più tarde le riflessioni sulle grandi potenze europee: Rapporto delle cose della Magna (1508) e Ritratto delle cose di Francia (1510), il cui studio permette a Machiavelli d’individuare nel paese transalpino, unito e forte, un modello positivo, nell’Alemagna, per il frazionamenti politico, uno negativo.

Cesare Borgia - Wikipedia

Altobello Melone: Presunto ritratto di Cesare Borgia

Tra queste ci piace ricordarne una: nell’opera principale, pubblicata nel 1513, il Machiavelli individua nel duca di Valentino un modello di un moderno principe, capace di andare oltre la morale al fine di costruirsi uno stato. Tale idea al pensatore fiorentino venne quando fu mandato dal governo a Senigallia per seguire gli accadimenti che dovevano portare alla riappacificazione tra coloro che si erano ribellati al suo dominio. Tale esperienza Machiavelli la traduce in un piccolo testo Del modo tenuto dal duca di Valentino nell’uccidere Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini in Senigallia, in cui descrive che, nel 1502, il duca Valentino Borgia, che ha costruito dal nulla uno stato molto potente, minaccia Bologna, governata da Giovanni Bentivoglio, con lo scopo di portarla sotto il suo dominio e renderla capitale del ducato di Romagna. Questa espansione, rapidissima e inarrestabile, preoccupa non solo gli avversari ma anche gli alleati. Così le potenti famiglie degli Orsini e dei Vitelli, che fino a quel momento avevano appoggiato il Valentino, organizzano un incontro nel castello della Magione, sul lago Trasimeno a cui partecipano il cardinale Giambattista Orsini, il capitano di ventura Vitellozzo Vitelli e i condottieri Olivierotto da Fermo, Paolo e Francesco, duca di Gavinana – tutti al soldo del Valentino – Giampaolo Baglioni tiranno di Perugia e Antonio da Venafro per conto della città di Siena. I congiurati stabiliscono di proteggere Bologna e di allearsi con i fiorentini, mandando in un luogo e nell’altro loro ambasciatori promettendo aiuto ai bolognesi spingendo i fiorentini ad unirsi per combattere il nemico comune. Alla congiura del Magione seguono numerose ribellioni: il Valentino sembra in pericolo, ma poi, con la rapidità che lo caratterizza, riesce ad avere la meglio sui rivoltosi. Riportato l’ordine, annuncia che si recherà a Senigallia per incontrare i congiurati e giungere a una pacificazione. Vitellozzo e i suoi compagni, protagonisti di un dramma ineluttabile di cui hanno il presentimento, vanno incontro al loro destino senza alcuna possibilità di difesa; il senso d’impotenza e d’isolamento che li circonda prepara l’esplodere della crudeltà e della violenza che culmina nella scena della loro uccisione:

IL DUCA DI VALENTINO: L’OMICIDIO COME LEGGE POLITICA

Vitellozzo, Pagolo e duca di Gravina in su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli; e Vitellozzo, disarmato, con una cappa foderata di verde, tutto afflitto come se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé (conosciuta la virtù dello uomo e la passata sua fortuna) qualche ammirazione. E si dice che quando e’ si partì da le sua genti per venire a Sinigaglia e andare contro al duca, a li suoi capi raccomandò la sua casa e le fortune di quella, ed e nipoti ammunì che non della fortuna di casa loro, ma della virtù de’ loro padri e de’ loro zii si ricordassino. Arrivati adunque questi tre davanti al duca, e salutatolo umanamente, furono da quelli ricevuti con buono volto, e subito da quelli a chi era commesso fussino osservati, furno messi in mezzo. Ma veduto il Duca come Oliverotto vi mancava, il quale era rimaso con le sue genti a Sinigaglia, e attendeva innanzi alla piazza del suo alloggiamento sopra il fiume a tenerle nell’ordine, ed esercitarle in quello), accennò coll’occhio a Don Michele, al quale la cura di Oliverotto era data, che provvedesse in modo che Oliverotto non scampasse. Donde Don Michele cavalcò avanti, e giunto da Oliverotto li disse come e’ non era tempo da tenere le genti insieme fuora dello alloggia­mento, perchè sarebbe tolto loro da quelli del Duca; e però lo confortava ad alloggiarle, e venisse seco ad incontrare il Duca. Ed avendo Oliverotto eseguito tale ordine, sopraggiunse il Duca, e veduto quello lo chiamò; al qual Oliverotto avendo fatto riverenza, si accompagnò con gli altri.  Ed entrati in Sinigaglia, e scavalcati tutti a lo alloggiamento del duca ed entrati seco in una stanza secreta, furno dal duca fatti prigioni. El quale subito montò a cavallo, e comandò che fussino svaligiate le genti di Liverotto e degli Orsini. Quelle di Oliverotto furno messe a sacco, per essere propinque. Quelle degli Orsini e dei Vitegli sendo discosto e avendo presentito la ruina de’ loro padroni, ebbono tempo di mettersi insieme; e ricordatosi la virtù e disciplina di casa Vitellesca, strette insieme, contro alla voglia del paese e degli uomini inimici si salvorno. Ma e’ soldati del duca non sendo contenti del sacco della  gente di Liverotto, cominciorno a saccheggiare Sinigaglia; e se non fussi che il duca con la morte di molti represse la insolenzia loro, l’arebbono saccheggiata tutta.
Ma venuta la notte, e fermi e tumulti, al duca parve di fare ammazzare Vitellozzo e Liverotto; e conduttogli in uno luogo insieme, gli fe’ strangolare. Dove non fu usato da alcuno di loro parole degne della loro passata vita: perché Vitellozzo pregò che si supplicassi al papa che gli dessi de’ suoi peccati indulgenzia plenaria; e Liverotto tutta la colpa delle iniurie fatte al duca, piangendo rivolgeva addosso a Vitellozzo. Pagolo e el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino che il duca intese che a Roma el papa aveva preso el cardinale Orsino, l’arcivescovo di Firenze e messer Iacopo da santa Croce; dopo la quale nuova, a’ dì diciotto di gennaio, a Castel della Pieve furno ancora loro nel medesimo modo strangolati.

ritratto di Vitellozzo Vitelli (dipinto) di Dell'Altissimo Cristofano (sec. XVI) — LodView

Vitellozzo Vitelli

Vitellozzo Vitelli, Paolo e Francesco Orsini, duca di Gravina su piccoli mezzi di trasporto andarono incontro al duca, accompagnati da cavalli; Vitellozzo disarmato, con un mantello foderato di verde, completamente assorto nella sua afflizione, consapevole che stava andando a morire, offriva di sé (saputo da tutti il suo valore e la sua trascorsa fortuna) qualche meraviglia (per lo stato in cui si era ridotto). Si dice che quando si allontanò dalla sua famiglia per andare dal duca, si accomiatò come fosse per l’ultima volta, raccomandando ai suoi uomini principali la casa ed il patrimonio e ammonì i suoi nipoti affinché ricordassero non la fortuna di quella casata, ma la virtù di essa per mezzo dei loro padri e zii. Arrivati davanti al duca, lo salutarono cortesemente e furono accolti da lui con un altrettanto volto cortese ed immediatamente furono consegnati a coloro ai quali era stato assegnato il compito di prenderli in custodia. Il duca notò che mancava Oliverotto da Fermo (che era rimasto con i suoi fanti a Senigallia ed era impegnato, davanti al suo alloggio sulla piazza sopra il fiume, a tenerli in ordine e a esercitarsi) diede un cenno con l’occhio a don Michele, che lo doveva prendere in consegna, affinché non scappasse. Don Michele a cavallo lo raggiunse e gli disse che non era il momento di tenere le truppe fuori dall’alloggiamento, perché lo stesso sarebbe stato occupato dalle truppe del duca, ma ne frattempo potevano rientrare, in quanto lui lo doveva seguire per incontrare il duca. Eseguito quanto gli veniva detto, sopraggiunse davanti al duca che lo chiamò e al quale rivolse una riverenza, quindi si unì agli altri. Entrati a Senigallia scesero dai cavalli ed entrarono nell’alloggiamento del duca ed entrati in una stanza segreta li fece prigionieri. Quindi il duca montò a cavallo ed ordinò affinché gli uomini di Oliverotto e degli Orsini fossero catturate. Quelli di Oliverotto furono presi e portati vicini; quelli di Vitellio e degli Orsini, essendo più lontani e sapendo che fine toccasse a loro padroni, si misero insieme e ricordandosi della virtù della casa di Vitellio, contro la volontà degli uomini del paese e dei loro nemici, riuscirono a salvarsi. Ma i soldati del duca, non contenti della cattura degli uomini di Oliverotto, cominciarono a saccheggiare Senigallia e se non fosse intervenuto il duca, che uccise i più insolenti tra gli abitanti della città, l’avrebbero saccheggiata tutta.
Arrivata la notte, cessati i tumulti, il duca risolse di uccidere Vitellozzo e Oliverotto e, portatili in un luogo, li fece strozzare. Egli non si curò di ascoltare parole da loro volte, degne della loro vita passata: Vitellozzo lo supplicò affinché ricevesse dal papa la remissione di tutti i suoi peccati, Oliverotto, invece, piangendo, dava la colpa a Vittellozzo per tutte le ingiurie che gli avevano rivolto. Paolo ne Francesco Orsini, duca di Gravina, furono lasciati vivi fino a quando Cesare Borgia venne a sapere che il papa aveva arrestato il cardinale Giambattista Orsini, Rinaldo Orsini, arcivescovo di Firenze e Iacopo di Santa Croce (partigiano degli Orsini): dopo questa notizia, il 18 gennaio, a Castel di Pieve furono anche loro strangolati.  

Machiavelli racconta un qualcosa a cui aveva assistito personalmente: la distanza tra l’episodio e il momento di raccontarla permette al nostro di mantenere un atteggiamento quasi distaccato, da storico. Attraverso esso egli ci vuole mostrare  l’agire profondamente politico del duca di Valentino, che esula da qualsiasi aspetto che non sia legato ad esso: mantenere, anche a costo dell’omicidio politico, lo stato contro le forze disgregatrici. Ma nonostante questo Machiavelli,  pur con lo sguardo distaccato e impersonale dello storico mette in luce la sua grande capacità di drammaturgo che mette in scena una tragedia destinata a coinvolgere e scuotere il pubblico. Nel passo letto, Machiavelli esprime a pieno il suo gusto per la narrazione e la rappresentazione teatrale.

IL PRINCIPE

Il Principe viene composto nel 1513, quando Machiavelli sta all’Albergaccio, in una pausa della stesura dei Discorsi, opera di commento storico-politico su Livio. Tale opera, per stile e tempo di composizione (pochi mesi), sembra quasi indicarci l’impellenza con cui la scrisse, l’urgenza di sviluppare un discorso che, come dice nella lettera al Vettori, aveva maturato nel dialogo con i grandi del passato e non solo, la volontà, non certo venata da orgoglio, di collaborare per liberare l’Italia, come dirà nell’accorata preghiera dell’ultimo capitolo.

Quest’opera, infatti, segna un punto fondamentale nella storia del pensiero europeo: di contro agli specula principis in cui si trattava del dover esser di un regnante, egli disegna un ritratto, pur a tinte fosche, di come egli è e si deve comportare per l’alto compito che gli è affidato. Affinché ciò avvenga la politica dev’essere liberata dalla morale; pertanto essa “è”, in quanto autonoma e obbediente a leggi proprie, e non più un “dovrebbe essere”, in quanto vincolata alla religione e all’etica, ed è naturale, per questo, che acquisti lo statuto di scienza.

La scienza è tale se si basa su principi immutabili: si tratta di costruire l’assioma entro cui inserire le derivazioni razionali di un pensiero politico; tale assioma è nell’eternità ed immutabilità dell’uomo che governa e degli uomini che sono da lui governati. Tutti, in quanto uomini, sono naturalmente portati al loro male. Se si parte da ciò il resto viene da sé. Vediamone ora gli aspetti fondamentali.

Ritratto di Lorenzo de' Medici duca di Urbino (Raffaello) - Wikipedia

Raffaello: Ritratto di Lorenzo de Medici

DEDICA A LORENZO DE’ MEDICI

Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistar grazia appresso uno Principe, farsegli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care, o delle quali veghino lui più delettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavagli, arme, drappi d’oro, pietre preziose e simili ornamenti degni della grandeza di quelli. Desiderando io adunque, offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato (intra la mia supellettile) cosa quale io abbia più cara o tanto existimi quanto la cognizione delle actioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga experienza delle cose moderne et una continua lectione delle antiche: le quali avendo io con gran diligenzia lungamente excogitate et examinate, et ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra.
E benché io iudichi questa opera indegna della presenzia di quella, tamen confido assai che per sua umanità gli debba essere accepta, considerato come da me non gli possa esser fatto magiore dono, che darle facultà ad potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io (in tanti anni e con tanti mia disagi e pericoli) ho cogniosciuto et inteso. La qual opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento extrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio sia imputata prosumptione se uno uomo di basso et infimo stato ardiscie discorrere e regolare e’ governi de’ principi. Perché, cosí come coloro che disegniano e paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongano alto sopra monti, similmente, ad cognoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare.

Coloro che desiderano ingraziarsi un Principe sono soliti andare loro incontro con quelle cose che fra le loro ritengono più care e quelle di cui vedono il Principe dilettarsi; per cui si vede che molte volte gli sono presentati cavalli, armi, tessuti dorati, pietre preziose e quelle cose che fungono da ornamento alla grandezza di quello. Desiderando dunque presentarmi alla Vostra Magnificenza con qualche testimonianza della mia devozione verso di essa, non ho trovato tra le mie cose qualcosa che io ritenga tanto cara o stimi talmente quanto la conoscenza delle azioni dei grandi uomini imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e da uno studio assiduo delle antiche, le quali, avendo io per lungo tempo meditate ed esaminate, riportate in un piccolo libello, ora mando alla Vostra Magnificenza.
E benché io giudichi questa mia opera indegna al cospetto di quella, tuttavia confido molto che per la sua umanità gli risulti gradita, considerando come da me non possa essere fatto maggiore dono che offrirle la possibilità di potere in brevissimo tempo capire tutto ciò che io ho conosciuto e capito in tanti anni e con molti disagi e pericoli. La quale opera scrivendola io non ho ornato né riempito di periodi complessi o di parole ridondanti e magnifiche, o di qualche altra graziosità od ornamento estraneo all’argomento, con i quali molti sono soliti descrivere ed ornare; perché ho voluto o che nessuna cosa la onori o che solamente la varietà dell’argomento e l’importanza del soggetto gliela rendano gradita. Non voglio sia reputate presunzione che un uomo di basso ed umile stato abbia l’ardire di parlare e dettare le regole dei governi dei principi; perché così come coloro che debbono disegnare i paesi si pongono in pianura per esaminare l’altezza dei monti, e per esaminare la pianura si pongono in altitudine, allo stesso modo per conoscere bene la natura dei popoli bisogna essere un principe, e viceversa per conoscere quella dei principi bisogna essere uno del popolo.

Questo brano è importantissimo perché ci permette di cogliere alcuni aspetti essenziali che attengono al significato dell’opera:

  • In primo luogo dobbiamo notare che essa non è più dedicata a Giuliano, fratello del papa, ma a Lorenzo, in quanto il primo era morto nel 1516 e il giovane Lorenzo faceva le veci di suo zio Giovanni, che era diventato papa col nome di Leone X;
  • La rivendicazione dell’esperienza che, come abbiamo già visto nella lettera al Vettori, non si basa soltanto sull’osservazione dell’uomo, ma anche sull’imitazione dell’antico (concetto umanistico);
  • La ricerca di una prosa aderente alle cose;
  • La necessità della distanza per osservare ciò che si deve descrivere o commentare.

Ciò ci dice che Il Principe è un’opera assolutamente innovativa rispetto ad opere simili, il cui scopo era quella di cercare nel Medioevo un principe sottomesso ai valori religiosi, in età umanistica ai grandi classici. Machiavelli invece parte dalla realtà che, pur comparandola con le opere del passato, cerca attraverso il presente e la storia, leggi politiche. Ciò che lo distanzia è inoltre l’uso di una lingua priva di abbellimenti retorici, che per Machiavelli allontanano il lettore dall’importanza del dettato, per arrivare direttamente al concetto, in quanto il suo trattato non deve “relegarsi” a fatto letterario ma ad vero e proprio modus operandi.

Italia rinascimentale mappa concettuale | Algor Education

L’Italia nel 1500

QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR
Di quante ragioni siano e' principati e in che modo si acquistino
(cap. I)

Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E’ principati sono o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii cosí acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; et acquistonsi, o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

Tutti gli stati, tutti i domini che hanno avuto sovranità sugli uomini sono stati o sono o repubbliche o principati. E i principati sono o ereditari, dei quali il sangue del loro signore sia stato da lungo tempo principe, o sono nuovi. I nuovi o sono nuovi del tutto, come è stata Milano di Francesco Sforza, o come membri aggiunti del principe che li conquista, come il regno di Napoli per il re di Spagna. Sono questi stati così conquistati o abituati a vivere sotto un principe o abituati ad essere liberi e si acquistano o con soldati mercenari o con propri soldati, o per mezzo di fortuna o per mezzo di virtù.

In questo testo Machiavelli procede in modo dilemmatico propagginato, cioè egli cita sempre due membri, poi partendo dal secondo di essi ne sviluppa altri due e così via. E’ un metodo “scientifico” in quanto si basa sulla propagginazione logica di dati realmente esistenti, infatti non è dato che gli stati siano repubbliche o principati in quanto “esistenti”, ma in quanto “sperimentati” e “verificati”. E’ questo, infatti, un dato “reale” e quindi inoppugnabile che gli stati si strutturano o in repubbliche o retti da un sovrano. Una volta stabilito questo è naturale che tutto il resto ne derivi.

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Anonimo: Cesare Borgia detto Duca di Valentino

DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR
I principati nuovi che si acquistano con le armi e la fortuna altrui
(cap. VII)

Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono: e non hanno alcuna difficultà tra via, perchè vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti. E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria; come erano ancora fatti ancora quelli imperatori che di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio.
Questi stanno semplicemente in sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili. E non sanno e non possano tenere quello grado: non sanno, perché, se non è omo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vixuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele. Dipoi gli stati che vengono subito, come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro in modo che il primo tempo adverso non le spenga; se già quelli tali (come è detto) che sì de repente sono diventati principi non sono di tanta virtù, che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli faccino poi.
Io voglio a l’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua exempli stati né dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco per li debiti mezi, e con una grande sua virtù, di privato diventò Duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, com poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, aquistò lo Stato con la fortuna del Padre e con quella lo perdé, non obstante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare, per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi. Perché (come di sopra si disse) chi non fa e fondamenti prima, gli potrebbe con una grande virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e pericolo dello edificio. Se adunque si considerrà tutti e progressi del duca, si vedrà quanto lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo exemplo delle actioni sue. E se gli ordini suoi non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una extraordinaria ed extrema malignità di fortuna. Aveva Alexandro VI, nel volere fare grande il Duca suo figliuolo, assai difficultà presente e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di chiesa; e vogendosi a tôrre quello della chiesa, sapeva che il Duca di Milano et ‘Viniziani non gliene consentirebbono, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protectione de’ Viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la grandeza del papa; e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli Orsini e colomnesi e loro complici. Era adunque necessario si turbassero quelli ordini e disordinare gli Stati de Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli; il che gli fu facile perché trovò e Veniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti ad fare ripassare i Franzesi in Italia; il che non solamente non contradisse, ma fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antico del Re Luigi.
Passò adunque il Re in Italia con lo aiuto de’ Veniziani e consenso di Alexandro; né prima fu in Milano, che il Papa ebbe da llui gente per la impresa di Romagna, la quale gli fu aconsentita per la reputazione del Re. Acquistata adunque il Duca la Romagna e sbattuti i colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una le armi sua che non gli parevano fedele, l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto e non solamente gl’impedissino lo acquistare, ma gli togliessino lo acquistato; e che il re ancora non li facessi il simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando, doppo la expugnazione di Faenza, asaltò Bologna: ché gli vidde andare freddi in quello assalto. E circa il re, conobbe lo animo suo quando, preso el Ducato di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa il re lo fece desistere.
Onde che il duca deliberò di non dependere più dalle arme e fortuna d’altri. E la prima cosa, indebolì le parti orsine e colomnese in Roma: perché tutti gli aderenti loro che fussino gentili omini se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili omini e dando loro grande provisioni; et onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi; in modo che im pochi mesi negli animi loro l’affectione delle parte si spense e tutta si volse nel duca. Doppo questo, aspettò la occasione di spegniere e capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene e lui la usò meglio. Perché, advedutosi gli Orsini tardi che la grandeza del duca e della chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione nel perugino; da quella nacque la ribellione di Urbino, gli tumulti di Romagna ed infiniti pericoli del duca, e quali tutti superò con l’aiuto delli Franzesi. E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia, né de altre forze externe, per non le avere a cimentare si volse agl’inganni. E seppe tanto dissimulare l’animo suo, che gli Orsini, mediante il Signor Paulo si riconciliarono seco; con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli dinari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro gli condusse a Sinigaglia nella sua mane.
Spenti adunque questi capi e ridotti li partigiani loro sua amici, aveva il Duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna col Ducato di Urbino; parendoli maxime aversi acquista amica la Romagnia e guadagnatosi quelli popoli, per avere cominciato a gustare il bene essere loro. E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lassare indietro. Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da Signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e loro subditi, che corretti e dato loro materia di disunione non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia; iudicò fussi necessario, ad volerla ridurre pacifica ed ubidiente al braccio regio, dargli buono governo. E però vi prepose messer Ramirro de Orco, uomo crudele ed expedito, al quale dette plenissima potestà: costui im poco tempo la ridusse pacifica et unita, con grandissima reputazione.
Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì excessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudizio civile nel mezo della provincia, con uno presidente excellentissimo, dove ogni città vi aveva lo advocato suo. E perché cognosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quegli populi e guadagniarseli in tutto volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da llui ma dall’acerba natura del ministro. E preso sopra questo occasione, lo fece a Cesena una mattina mettere in dua pezi in sulla piaza, con un pezo di legne et uno coltello sanguinoso accanto; la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.
Ma torniamo donde noi partimmo. Dico, che trovandosi il duca assai potente et in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a ssuo modo et avere in buona parte spente quelle arme che (vicine) lo potevano offendere, gli restava (volendo procedere collo acquisto) el respecto del Re di Francia; perché conosceva come dal Re, il quale tardi s’era acorto dello errore suo, non gli sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare amicizie nuove e vacillare con Francia, nella venuta che li Franzesi facevano verso el Regno di Napoli contro alli Spagniuoli che assediavano Gaeta. E lo animo suo era assicurarsi di loro; il che già sare’ presto riuscito, se Alexandro viveva. E questi furno e governi sua, quanto  alle cose presente.
Ma quanto alle future, lui aveva ad dubitare im prima che un nuovo successore alla chiesa non gli fussi amico e cercassi torgli quello che Alexandro li aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quatro modi: prima, di spegniere tutti e sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tôrre al Papa quella occasione; secondo, di guadagniarsi tutti e gentili omini di Roma (come è detto) per potere con quelli tenere il papa in freno; terzio,  ridurre il Collegio più suo che poteva; quarto, aquistare tanto imperio avanti che il papa morissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto.
Di queste quatro cose alla morte di Alexandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta: perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne poté aggiugniere e pochissimi si salvarono; i gentili omini romani si aveva guadagnati e nel Collegio aveva grandissima parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva disegniato diventare Signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protectione. E come non avessi avuto ad avere rispetto a Francia (che non gliene aveva ad avere più, per essere di già e Franzesi spogliati del Regno di Napoli dalli Spagniuoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua), egli saltava in Pisa. Doppo questo Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura: e Fiorentini non avevano rimedio. Il che se gli fussi riuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alexandro morì), si acquistava tante forze e tanta reputazione che per se stesso si sarebbe retto, e non sare’ più dependuto dalla fortuna o forze di altri ma solo dalla potenzia e virtù sua.
Ma Alexandro morì doppo cinque anni che egli aveva incominciato a trarre fuora la spada: lasciollo con lo Stato di Romagnia solamente assolidato, con tutti li altri in aria, infra dua potentissimi exerciti inimici e malato ad morte. Et era nel duca tanta ferocità e tanta virtù e si bene conosceva come li omini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti che, se non avessi avuto quelli exerciti addosso o lui fussi stato sano, arebbe retto ad ogni difficultà. E che e fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagnia lo aspettò più di uno mese; in Roma ancora che mezo vivo stette sicuro; e benché Baglioni, Vitelli et Orsini venissino in Roma, non ebbono seguito contro di lui; potè fare se non chi e’ volle papa, almeno che non fussi chi egli non voleva. Ma se nella morte di Alexandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile: e lui mi disse, negli dì che fu creato Julio II, che avea pensato a cciò che potessi nasciere morendo el padre et ad tutto aveva trovato rimedio; excepto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.
Racolte io adunque tutte le actioni del duca, non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con le arme di altri sono ascesi allo imperio. Perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alexandro, e la sua malattia. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagniarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegniere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegniere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie degli re e de’ principi in modo che ti abbino a beneficare con grazia o offendere con respecto: non può trovare più freschi exempi, che le actioni di costui.
Solamente si può acusarlo nella creazione di Julio pontefice, nella quale il duca ebbe mala electione. Perché (come è detto) non potendo fare uno papa a suo modo, poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali, che lui avessi offesi o che, divenuti papa, avessino ad avere paura di lui: perché gli uomini offendono o per paura, o per odio. Quelli che lui aveva offeso erano infra gli altri Sancto Pietro ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri avevano (divenuti papi) ad temerlo, eccepto Roano e gli Spagniuoli: questi per cogniunzione et obligo, quello per potenzia, avendo coniunto seco el Regno di Francia. Pertanto el duca innanzi ad ogni cosa doveva creare papa uno spagniuolo; e non potendo, dovea consentire a Roano non a San Pietro ad Vincula. E chi crede che nelli personaggi grandi benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vechie, s’inganna. Errò adunque el duca in questa electione e fu cagione dell’ultima ruina sua.

Anonimo: Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI

Coloro che, affidandosi solamente alla fortuna, diventano da privati cittadini principi, lo diventano facilmente ma con molta difficoltà mantengono il loro stato; e non hanno alcuna opposizione nell’acquisizione del principato, ma molte una volta insediati. E questi principi lo diventano quando è concesso loro da qualcuno uno stato o dietro pagamento o perché lo riceve in dono da chi lo concede: come capitò a molti nelle città greche della Ionia e dell’Ellesponto, dove divennereo principi grazie a Dario affinché le governassero per garantirgli sicurezza e gloria; allo stesso modo erano eletti imperatori da cittadini privati dopo aver corrotto i soldati ottenendo così l’Impero.
Coloro che sono diventati principi in questo modo si appoggiano soltanto sulla volontà o la fortuna di chi ha concesso loro lo stato, che sono assolutamente volubili ed instabili. E non sanno ne possono  mantenere quella posizione: non sanno, perché, se non vi è un uomo di grandissima capacità e virtù, non è pensabile che, avendo vissuto sempre da cittadino privato, sappia comandare; non possono, perché non possiedono armi proprie che siano loro obbedienti e fedeli. Inoltre gli stati che si sviluppano all’improvviso, come tutte le cose che crescono velocemente in natura, non possono avere radici e ramificazioni in modo che alla prima intemperie non appassiscano; a meno che gli stessi (come già detto) che improvvisamente sono diventati principi non possiedono tanta virtù che ciò che la fortuna ha procurato loro si apprestino da subito a mantenerlo, e le basi (degli stati) che gli altri hanno fatto prima di essere principi, facciano in seguito.
Voglio, riguardo ai due modi citati, cioè diventare principe per virtù o per fortuna, riportare due esempi tratti dalla contemporaneità e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, con azioni opportune e con grande capacità politica, da cittadino privato divenne Duca di Milano e ciò che aveva acquistato con mille difficoltà, mantenne con poca fatica. L’altro, Cesare Borgia, chiamato Duca di Valentino, acquistò lo stato grazie alla potenza del padre e con la stessa lo perse; nonostante che, da parte sua, si facesse di tutto e si mettessero in opera tutte quelle azioni che un uomo saggio e virtuoso doveva fare, affinché si mettessero quelle radici in quegli stati che la forza e la fortuna di altri gli avevano concesso. Perché (come già detto) chi non pone fondamenta prima, potrebbe con grande capacità, farle in seguito, sebbene si facciano con difficoltà dell’architetto e pericolo di crollo dell’edificio. Se dunque si esamineranno tutti i comportamenti del duca, si vedrà che lui aveva messo solide fondamenta per la  sua futura potenza, che giudico necessario analizzare, perché non saprei quali consigli più validi offrire ad un principe nuovo che l’esempio delle sue azioni. E se le azioni fatte non gli giovarono, non fu per colpa sua, perché derivarono da una eccezionale e grandissima avversità della sorte.  
Alessandro VI aveva, nel voler rendere potente suo figlio molte difficoltà sia nell’immediato che nel futuro. per prima cosa non vedeva il modo di poterlo fare signore di alcuno stato che non fosse lo Stato della Chiesa e decidendosi a prendere (parte di) quello stesso, sapeva che il Duca di Milano e i Veneziani non glielo avrebbero consentito, perché Faenza e Rimini erano già sotto protezione veneziana. Vedeva inoltre le forze militari in Italia, soprattutto quelle di cui si sarebbe dovuto servire, essere nella mani di coloro che non desideravano che la potenza della chiesa si ingrandisse; e perciò non se ne poteva fidare, stando tutte nelle mani degli Orsini e dei Colonna e dei loro alleati. Era dunque necessario si mettesse in discussione quell’equilibrio politico e si mettessero in crisi gli stati italiani, per potersi impossessare di parte di quelli senza correre troppi rischi, cosa che gli fu piuttosto facile perché trovò i veneziani che, mossi da loro motivazioni (diverse da quelle di Alessandro)  si erano decisi a richiamare i Francesi, il che non contraddisse i suoi piani, ma li rese più facili con lo scioglimento del matrimonio di re Luigi XII con l’antica sposa (Giovanna di Francia per prendere, in seconde nozze, Anna di Bretagna, vedova di Carlo VIII e discendente dei Visconti).
Venne dunque il re di Francia in Italia, con l’aiuto di Venezia e il consenso di Alessandro VI e non aveva ancora raggiunto Milano  che il papa ricevette da lui soldati per la conquista della Romagna, che fu resa possibile grazie al prestigio del re. Il duca, presa dunque la Romagna e sconfitti i Colonna, volendola mantenere e continuare nella sua politica espansionista, era ostacolato da due cose, la prima che le sue forze militari non gli fossero fedeli, l’altra la proibizione della Francia; cioè che le armi degli Orsini, delle quali si era servito, gli venissero a mancare e non solamente gli impedissero d’allargare le sue conquiste, ma che gli togliessero anche quelle già fatte e che il re di Francia non facesse le stesse cose. Degli Orsini ebbe  la prova quando, dopo Faenza, assaltò Bologna, che li vide non impegnarsi troppo in quell’attacco; riguardo il re di Francia capì le sue intenzioni quando, conquistato il ducato di Urbino, assaltò la Toscana, ma fu fermato per ordine del re.
E perciò il duca decise  di non dipendere più dalle armi e dalla fortuna offerte da altri. Innanzi tutto indebolì i Colonna e gli Orsini a Roma facendo in modo di allontanare da loro e guadagnarli per sé tutti i loro partigiani in città, offrendo lauti stipendi e onorandoli affidando incarichi militari e politici, secondo le loro competenze di modo che, in pochi mesi, la partigianeria si spense e si rivolse verso il duca. In seguito aspettò l’occasione per uccidere i comandanti degli Orsini, dopo aver costretto alla fuga quelli dei Colonna, la quale occasione seppe sfruttare bene e utilizzare ancor meglio. Infatti, gli Orsini resisi conto tardi dell’accresciuta potenza del duca e della chiesa rappresentava la rovina per loro, indissero un’adunanza in Megione presso Perugia: da essa derivarono la ribellione di Urbino, la ribellione della Romagna ed altri innumerevoli pericoli per il duca, che superò grazie all’aiuto dei Francesi. Il duca, riacquistata la forza (che era stata in pericolo) non fidandosi completamente dei francesi né di altre forze esterne, per non metterle alla prova, decise di operare attraverso gli inganni. Seppe nascondere così bene le sue intenzioni che gli Orsini, grazie alla mediazione del signor Paolo Orsini, si riconciliarono con lui, e con Paolo il duca non mancò mai di ogni atto di cortesia per rassicurarlo, donandogli soldi, vesti e cavalli, tanto che la loro semplicità li portò a Senigallia a cadere nelle sue mani. 
Uccisi dunque questi capi militari e fatti passare dalla sua parte i loro fautori, il duca aveva posto le basi per il suo potere, avendo sotto di sé tutta la Romagna ed il ducato di Urbino; sembrandogli soprattutto avere ottenuto il favore di tutta quanta la Romagna e di essersi guadagnato la fedeltà della popolazione per aver iniziato a sperimentare i vantaggi del suo governo. E perché questo fatto è degno di commento e di essere imitata, non la voglio trascurare. Il duca, presa la Romagna e trovandola governata da signori incapaci che avevano piuttosto spogliato che guidato i loro cittadini e dato loro motivo di disunione più che di unione, per il fatto che quella provincia era completamente piena di ruberie, rivalità e d’ogni altra prepotenza; il duca giudicò fosse necessario  ridurla pacifica ed obbediente al suo sovrano e darle un buon governo. Perciò vi mise a capo Ramiro de Lorqua, uomo crudele e sbrigativo, a cui dette pienissima libertà d’azione; costui, in poco tempo, la riportò pacifica e obbediente.
In un secondo tempo il duca credette che non fosse più necessaria una così estrema autorità, perché pensava potesse diventare odiosa e pose a capo della Romagna una magistratura civile con sede nella regione con un presidente eccellentissimo, presso la quale magistratura ogni città della regione aveva il suo rappresentante. Poiché sapeva che la severità passata gli aveva procurato qualche risentimento, per liberare gli animi di quei popoli e guadagnare la loro fedeltà volle dare la dimostrazione che, se vi era stata qualche crudeltà, non dipendeva da lui, dal ministro preposto al governo, e preso a motivo l’odio dei suoi sudditi verso di lui, una mattina gli fece tagliare la testa su di un ceppo con una mannaia e un coltellaccio insanguinato, la ferocia di quello spettacolo fece in un attimo rimanere tutti quei popoli allo stesso tempo contenti e stupefatti. 
Ma torniamo da dove siamo partiti: dico che il duca, trovandosi il duca in una posizione di forza ed essendosi assicurato dai pericoli immediati, per essersi procurato milizie proprie e per aver battuto quelle più prossime che potevano colpirlo, gli rimaneva, per allargare i suoi confini, il timore del re di Francia, perché sapeva come lo stesso re, il quale si era accorto troppo tardi del suo errore (nell’aver favorito il duca), non avrebbe mai concesso un allargamento della sua potenza. Per questo cominciò a cercare nuove alleanze e a tentennare nell’amicizia con i Francesi, in occasione della discesa di quest’ultimi verso il regno di Napoli contro gli Spagnoli che assediavano Gaeta. E il suo tentativo era quello di rendere innocui i Francesi, il che gli sarebbe riuscito se Alessandro VI non fosse morto. E queste furono le sue scelte politiche riguardo le cose presenti.
Ma quanto alle cose future, lui doveva temere per prima cosa che il nuovo pontefice non gli fosse amico e cercasse di togliergli quello che Alessandro VI gli aveva dato. Per cui pensò di neutralizzare questo rischio in quattro modi: primo, eliminare tutti i discendenti di quelli a cui aveva tolto lo stato, al fine di togliere al nuovo papa l’occasione di sfruttare le rivendicazioni dei signori e degli eredi spodestati; secondo, guadagnare a sé tutti i nobili di Roma (come è stato già detto) per potere, per mezzo loro, tenere a freno il papa; terzo, avere il maggior numero possibile di cardinali a lui favorevoli (per impedire l’elezione di un papa ostile); quarto, acquistare tanto potere prima che il papa suo padre morisse, da poter resistere con le proprie forze a un primo assalto. Di queste quattro cose alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre, la quarta quasi realizzata: perché dei signori spodestati ammazzò tutti quelli che aveva potuto raggiungere e pochissimi tra loro scamparono; i nobili romani se li era fatti amici e nel collegio cardinalizio aveva un numero alto di prelati a lui favorevoli. Riguardo al nuovo territorio da conquistare, aveva progettato di diventare signore della Toscana e possedeva già Perugia e Piombino e aveva messo dsotto sua protezione Pisa. E non appena non avesse dovuto più temere i Francesi (e non doveva quasi averne più, avendo essi perso il regno di Napoli a favore degli Spagnoli in modo che sia la Francia sia la Spagna si trovavano nella necessità di comprare la sua amicizia), egli si sarebbe gettato su Pisa. Dopo questo Lucca e Siena si sarebbero immediatamente arrese, parte per rivalità dei Fiorentini, parte per paura; e i Fiorentini non avrebbero più avuto scampo. Il diventare duca di Toscana se gli fosse riuscito (che gli sarebbe riuscito l’anno stesso della morte di Alessandro) avrebbe acquisito tanta forza e tanto rispetto che si sarebbe sostenuto con le proprie forze e non sarebbe più dipeso dalla sorte e forze di altri, ma soltanto dalla sua potenza e capacità politica.  
Ma Alessandro morì dopo cinque anni che il Valentino aveva iniziato le sue attività militari e lo lasciò con il solo stato di Romagna assicurato e con tutti gli altri non ancora assestati  tra i due potentissimi nemici tra i Francesi e gli Spagnoli e gravemente ammalato. Eppure vi era nel duca tanta ferocia e tanta capacità  e conosceva perfettamente come portare gli uomini dalla propria parte o annientarli, e tanto erano valide le basi che si era costruite che, se non avesse avuto eserciti minacciosi intorno o se non si fosse ammalato, avrebbe resistito a tutte le difficoltà. E che le fondamenta sua fossero valide, si vide con chiarezza, perché la Romagna lo aspettò per più di un mese; a Roma, benché gravemente malato, rimase in sicurezza e benché il governatore di Bologna, Baglioni, i Vitelli e gli Orsini fossero venuti a Roma, non trovarono aiuti contro di lui; se non riuscì a fare eleggere papa chi voleva lui, riuscì a impedire che fosse eletto chi non voleva. Ma se durante la morte di Alessandro fosse rimasto sano, ogni cosa gli sarebbe stata facile: lui mi disse, nei giorni in cui venne creato pontefice Giulio II, che aveva pensato a quello che sarebbe successo dopo la morte del padre e a tutto ciò che dopo la morte del padre potesse succedere aveva trovato rimedio; eccetto che non pensò mai, di fronte alla morte del padre, di stare anche lui per morire.
Ho riunite tutte le azioni del duca e non saprei criticarlo, anzi mi sembra (come ho fatto) di proporlo come modello per tutti coloro che per fortuna o per forza di altri sono arrivati al potere; perché lui avendo un animo magnanimo e un grande obiettivo, non poteva comportarsi diversamente e solamente si oppose ai suoi propositi la brevità della vita di Alessandro VI e la propria malattia. Chi dunque giudica necessario per il suo principato nuovo mettersi al sicuro dai nemici, guadagnarsi dagli amici; vincere per forza o per inganno; farsi amare o temere dai popoli; seguire e farsi rispettare dai soldati; uccidere quelli che ti possono o devono offendere; rinnovare le istituzioni vigenti prima dell’ascesa del principe; essere severo e ben accetto; di grande animo e generoso; eliminare la forza militare infedele, crearne una nuova; mantenere l’amicizia dei re e dei principi in modo che rechino benefici con riconoscenza o recare qualche danno con esitazione; non può trovare i più recenti esempi che le azioni di costui.
Solamente si può accusarlo della nomina di Giulio II come papa, nella quale il duca fece una cattiva scelta. Perché (come già detto) non potendo fare un papa a suo gradimento, poteva ottenere che non ne venisse eletto un altro; e non doveva permettere che venisse eletto papa uno di quei cardinali che lui avesse offeso o che, diventati papa, avesse motivo di aver paura di lui: perché gli uomini offendono per paura o per odio. Quelli che lui aveva offeso vi erano, fra gli altri, Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, i cardinali Giovanni Colonna, Raffaello Riario, Ascanio Sforza; tutti gli altri, diventati papi, lo avrebbero dovuto temere, ad eccezione dei Roano e dei cardinali spagnoli, quest’ultimi per i legami di nazionalità e per obbligazione e quello di Roano per il suo potere, avendo l’appoggio di tutti i Francesi. Per cui il duca prima di tutto doveva creare papa uno spagnolo e, non potendo, doveva consentire a Roano, ma non a un Della Rovere. E chi crede che nei personaggi magnanimi i nuovi benefici facciano dimenticare le antiche ingiurie, si sbaglia. Sbagliò dunque il duca in questa scelta e ciò fu motivo della propria definitiva caduta.    

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John Collier: Un bicchiere di vino con Cesare Borgia (1914)

Questo lungo passo è da mettere in relazione con l’operetta Del modo che tenne el duca di Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il signor Paolo e il Duca di Gravina Orsini in Senigaglia in cui si descrive in modo dettagliato il modo di operare di Cesare Borgia. E’ proprio in quella occasione, a cui per ordine del governo fiorentino assistette personalmente, che poté misurare l’abilità del duca di Valentino, abilità ancora più apprezzabile in quanto costretta alla crudeltà. Nel passo precedente, tuttavia, quello che emerge è lo sguardo storico che, pur ammirato, osserva il momento e lo registra.

Ne Il Principe Machiavelli, dopo aver appena accennato alla “fortuna” di Francesco Sforza che, dopo esser stato a capo delle milizie di Milano impegnate nella guerra contro Venezia, rivolge le armi contro la propria città, ne abbatte il governo, e sposa la figlia del defunto Francesco Maria Visconti, diventando così “nuovo” signore della città Ambrosiana, incentra tutto il discorso su Cesare Borgia, la cui figura è inquadrata nella sua totalità. Infatti muore nel 1507 e lo scrittore fiorentino, nei cinque anni di distanza che lo separano dall’opera, può misurare l’intera sua grandezza politica, strutturando l’argomento in sei parti fondamentali:

  1. Parte dall’assioma scientifico: chi guadagna lo stato con le armi altrui o con la fortuna, lo raggiunge facilmente, ma difficilmente lo mantiene. 
  2. conforta, con personalità contemporanee, l’assioma precedente nella figura di Francesco Sforza, che, ottenuto lo stato con difficoltà lo mantiene semplicemente e quello di Cesare Borgia che ottenuto facilmente dal padre, pur operando “politicamente” in modo virtuoso, per malignità della “fortuna” lo perde.
  3.  Ripercorre la storia politica del duca a partire dalla politica nepotista di Adriano VI che lo condurrà in seguito alla piena conquista della Romagna e del ducato di Urbino.
  4. Mostra come un principe debba mantenere e rafforzare la sua posizione appena ottenuta anche con l’inganno: è l’episodio di Remirro de Orco (Ramiro de Lorqua) suo scudiero a cui viene ordinato per sedare gli scontenti e i facinorosi di usare la forza, quindi addossandogli tutta la responsabilità della violenza messa in atto, lo uccide, guadagnandosi la fama di pacificatore.
  5. Raggiunto l’apice del successo il Valentino comincia il suo declino per “malignità” della fortuna: gli muore il padre e lui si ammala: egli non riuscirà a gestire, nel pieno delle sue forze, le trame che porteranno all’elezione di un nuovo pontefice che non sia, nei suoi confronti, nemico. 
  6. Valutazione finale sull’operato del figlio di Alessandro: egli mise in atto tutte le azioni gloriose ma, per una straordinaria cattiva sorte, non poté portarla a termine. 

Se si considera il modello logico seguito dal Machiavelli nel disegnare la figura del Valentino due sono gli elementi che emergono:

  1. Lo sguardo di Machiavelli non è più storico ma politico: le azioni di Cesare Borgia vengono valutate alla luce del loro effetto politico e, a partire da esso, proposte come modello per il nuovo principe;
  2. La contraddizione tragica, e perciò poetica, di Cesare che si muove tra virtù e fortuna. Se nell’assioma iniziale, infatti, si afferma che chi raggiunge l’obiettivo politico grazie ad una concessione lo deve mantenere con estrema fatica e virtù, il duca di Valentino si mostra non solo capace, ma addirittura esemplare nel metterla in opera, ma tragicamente, la dea bendata gli volge le spalle.     

Per Machiavelli dunque qual è il modo per non ruinare del tutto?

File:Ritratto di Cesare Borgia, Sebastiano del Piombo.jpg - Wikipedia

Sebastiano del Piombo: ritratto di Cesare Borgia

DE HIS REBUS QUIBUS HOMINES ET PRAESERTIM PRINCIPES LAUDANTUR AUT VITUPERANTUR
Di quelle cose per le quali gli uomini e specialmente i principi sono lodati o vituperati
(cap. XV)

Resta ora a vedere quali debbino essere e modi e governi di uno principe o con subditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scripto, dubito (scrivendone ancora io) non essere tenuto prosumptuoso, partendomi maxime nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri. Ma, sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa; e molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti invero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive ad come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua. Perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usarlo secondo la necessità.
Lasciando adunque adietro le cose circa un Principe immaginate, e discorrendo quelle che son vere, dico, che tutti li uomini, quando se ne parla (e maxime e principi, per esser posti più alti) sono notati di alcuna di queste qualità che arrecano loro o biasimo, o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera d’avere, misero chiamiamo noi quello si astiene troppo dall’usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce ed animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave, l’altro legieri; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. Et io so che ciascuno confesserà, che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi di tutte le sopraddette qualità, quelle che sono tenute buone. Ma perché non si possono avere tutte, né interamente observare, per le condizioni umane che non lo consentono; è necessario essere tanto prudente che sappi fugire la infamia di quelli vizii che gli torrebbano lo Stato; e da quegli che non gliene tolgano guardarsi, se gli è possibile, ma non possendo, vi si può con minor respecto lasciare andare. Et etiam non si curi d’incorrere nell’infamia di quelli vizii, sanza i quali possa difficilmente salvare lo stato. Perchè se si considera bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sare’ la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nascie la sicurtà et il bene essere suo.

Dobbiamo ora considerare quale debba essere il modo di comportarsi di un principe verso i propri sudditi o gli amici. E siccome so che già molti hanno trattato questo argomento, dubito, scrivendone anche io, di sembrare presuntuoso, allontanandomi, soprattutto nel trattare questa materia, dal modo in cui l’hanno trattata gli altri. Ma avendo l’intenzione di scrivere una cosa utile a chi è in grado di capirla, mi è parso più giusto andare dietro la verità effettuale della realtà piuttosto che immaginarmela. Infatti molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti o non esistono affatto. Perché è tanto distante da come si dovrebbe vivere che colui il quale trascura ciò che si deve fare per ciò che si dovrebbe fare, impara piuttosto la sua rovina che la sua salvezza, perché un uomo che voglia apparire in tutte le cose buono, accade che rovini in mezzo a tanti altri che buoni non sono. Pertanto è necessario per un principe, volendo mantenere il proprio stato, imparare a poter essere non buono, e usare o non usare questa capacità, secondo la necessità.
Non prendendo dunque in considerazione  le fantasticherie dette sui principi ed esaminando attentamente le verità di fatto, dico che tutti gli uomini (soprattutto i principi, perché posti più in vista degli altri) si distinguono per alcune qualità che arrecano loro il biasimo o la lode. Ciò significa che qualcuno è ritenuto generoso, qualcuno avaro (usando un termine toscano, perché in italiano avaro è colui che per avidità desidera la roba altrui, mentre misero definiamo noi colui che esagera nel non voler utilizzare i suoi beni); qualcuno generoso nel donare, qualcun’altro abile ad accaparrarsi le altrui cose; uno spietato, uno misericordioso; sleale, leale; debole e vile, bellicoso e coraggioso; benigno, presuntuoso; preda dei piaceri oppure casto; onesto e dissimulatore; severo, accondiscendente; serio o superficiale; religioso o scettico e altre caratteristiche simili. E so che tutti penseranno che sarebbe una cosa estremamente lodevole che si trovino, in uno stesso principe, tutte le qualità sopra elencate, ritenute buone. Ma poiché non è possibile possederle tutte, né metterle in pratica in ogni circostanza, perché i limiti umani non lo consentono, è necessario, per un principe essere tanto saggio da evitare quei difetti che potrebbero fargli perdere il potere e deve guardarsi anche da quelli che non glielo toglierebbero, se possibile, ma laddove non fosse possibile, può indulgervi con minor paura. Ma anche non si faccia scrupolo di guadagnarsi il biasimo per quei vizi senza i quali, difficilmente, potrebbe mantenere il potere. Perché se si prende in considerazione tutto (cioè la morale e l’azione politica), si troveranno qualità che sembrano virtù ma portano alla rovina del principe che le segue, e qualche altra virtù che sembra vizio che genererà il sicurezza per lo stato e benessere per il principe che l’ha seguita.

Questo capitolo rappresenta l’esplicitazione del pensiero di Machiavelli riguardo la politica. Ed è per questo che egli la indirizza a chi è in grado d’intenderla, cioè a chi è in grado di mettere in pratica la scienza della politica, di cui lui è il fondatore. Infatti egli mette in evidenza sin da subito la differenza tra quelli che un tempo erano gli specula principis  dove regnava l’idea di un regno e di un principe reggente immaginato. Ora lui si basa sulla realtà e questa è effettuale, cioè “effettiva, positiva, basata su fatti (effetto per fatto è comune nel ‘500) è creazione del Machiavelli” (Luigi Russo). Allora ne consegue logicamente che egli non deve insegnare come si doverrebbe vivere ma come si deve vivere, più precisamente non come un principe dovrebbe governare, ma come deve governare. 

Detto questo può quindi illustrare, in binomi oppositivi le qualità che ogni principe, in quanto uomo, possiede, ma deve altresì insegnare come tra questi, anche quelli più palesemente annoverabili tra i vizi, possano, laddove siano i soli a permettere la propria esistenza e quello dello stato, diventare virtù. 

Achille e Chirone, | Artsupp

Chirone ed Achille: affresco del I sec. d. C.

QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA
In che modo i principi debbano mantenere la parola data

(cap. XVIII)

Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimanco si vede per experienza, nelli nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli delli uomini et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggie; l’altro, con la forza. Quel primo è propio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegniata alli principi copertamente dalli antichi scriptori: li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire ad Chirone centauro che sotto la sua disciplina li costudissi. Il che non vuol dire altro, avere per preceptore uno mezo bestia et mezo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo adunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano.
Non può per tanto uno signore prudente, né debbe observare la fede, quando tale observanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precepto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la observarebbono a te, tu etiam non l’hai ad observare a loro: né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inobservanzia. Di questo se ne potre’ dare infiniti exempli moderni e monstrare quanta pace quante promisse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro sexto non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi magiore efficacia in asseverare e con magiori iuramenti affermassi una cosa, che l’observassi meno: nondimeno, sempre gli succederono gl’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che avendole et observandole sempre, sono damnose, e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con lo l’animo che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo: che uno principe (e maxime uno principe nuovo) non può observare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato (per mantenere lo stato) operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e venti della fortuna e le variazioni delle cose gli comandano; e (come di sopra dixi), non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debba adunque uno principe  avere gran cura che non li esca mai di boca una cosa che non sia piena delle soprascripte cinque qualità: e paia, ad udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria ad parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano piú alli ochi che alle mani: perché tocca a vedere a ogniuno, a sentire a pochi; ogniuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla oppinione di molti, che abbino la maestà dello stato che gli difenda. E nelle azioni di tutti li uomini e maxime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno laudati. Perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo; e pochi ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede; e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando egli l’avessi observata, gli arebbe piú volte tolto o la reputazione e lo stato.

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Un’immagine in cui l’autrice vuole rappresentare la forza e l’astuzia 

Ognuno può capire quanto sia degno di lode, per un principe, mantenere la parola data e vivere con onestà e non con dissimulazione. Ciononostante  si vede per esperienza diretta che nei nostri tempi i principi che hanno compiuto grandi imprese non si sono preoccupati di mantenere la parola data e che hanno saputo con furbizia confondere le idee della gente ed alla fine hanno avuto più potere di quelli che hanno basato il loro comportamento sulla sincerità.
Dunque, dovete sapere che esistono due modi di combattere (i propri nemici): : uno per mezzo delle leggi, l’altro per mezzo della forza: il primo è proprio dell’uomo, il secondo della bestia. Ma poiché il primo a volte non è sufficiente, è necessario ricorrere al secondo; pertanto un principe deve essere capace di servirsi (in modo politicamente efficace) sia delle qualità animali sia delle umane. Questo aspetto è stato insegnato ai principi dagli autori antichi sotto una veste mitologica: infatti essi scrivono come Achille ed altri principi antichi furono lasciati in custodia al centauro Chirone affinché li allevasse secondo le regole. L’avere come precettore un essere mezzo bestia e mezzo uomo non significa altro  se non che un principe debba imparare ad usare entrambe le nature perché l’una senza l’altra non può durare. Poiché dunque necessario che il principe sappia usare bene l’indole della bestia, deve prendere ad esempio quella della volpe e del leone in quanto quest’ultimo non sa difendersi dagli lacci (inganni) mentre la volpe non sa difendersi dai lupi. Bisogna dunque essere astuto come una volpe per evitare gli inganni e forte come un leone per scacciare i lupi. Coloro che fondano il potere soltanto sulla forza non comprendono la natura della politica.
Pertanto un principe saggio non può e non deve mantenere la parola data quando tale osservanza gli risulti dannosa e quando sono venuti a mancare i motivi che lo indussero a promettere. Se gli uomini fossero tutti leali, questo consiglio non sarebbe valido; ma poiché sono cattivi e non manterrebbero la parola data a te, neppure tu devi mantenerla a loro, né mai ad un principe sono venute meno le ragioni per giustificare l’inosservanza della parola data. Di questo atteggiamento si possono trovare infiniti esempi nei nostri tempi e (si può) dimostrare quanti trattati di pace e quante promesse siano state rese inefficaci e vane per l’infedeltà dei principi e quel principe che ha saputo meglio agire alla maniera della volpe ha avuto maggior successo. Ma è necessario saper ben mascherare la qualità dell’astuzia ed essere un gran simulatore e dissimulatore e gli uomini sono tanto ingenui e costretti a piegarsi alle necessità contingenti, che colui che ordisce inganni troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Voglio farvi un esempio contemporaneo. Alessandro VI non ha fatto mai altro e non ha pensato mai ad altro se non ad ingannare gli uomini e ha sempre trovato qualcuno che gli ha permesso di farlo. Non vi fu mai un altro uomo che avesse capacità di persuadere e che garantisse con maggiore fermezza una cosa alla quale non teneva fede: ciononostante gli inganni riuscirono sempre secondo il suo desiderio, perché conosceva bene questa parte della politica. 
Non è dunque necessario che in realtà un principe possieda tutte le qualità che ho già detto* ma è assolutamente necessario che simuli di averle. Anzi, oserò dire questo: che il possederle e l’osservarle sempre è dannoso, mentre torna utile simulare di avere: come sembrare clemente, leale, umano, onesto e religioso, ma occorre stare con l’animo pronto, qualora sia necessario non esserlo e mutarti nel contrario. E devi capire questo: che un principe (e soprattutto un principe nuovo) non può avere tutte quelle qualità per le quali gli uomini sono ritenuti buoni, perché è spesso costretto, per mantenere il potere, ad agire in modo contrario alla lealtà, alla carità, all’umanità e alla religione. Perciò bisogna che il principe abbia un animo disposto a cambiare atteggiamento in base ai venti della fortuna e ai mutamenti delle circostanze; e (come ho detto prima*) non allontanarsi dal bene, potendo, ma anche sapere agire con malvagità quando è costretto. Quindi un principe deve stare attento a non farsi mai sfuggire dalla bocca un discorso che non sia improntato alle cinque qualità di cui ho parlato e deve parere, a vederlo e udirlo, tutto clemenza, lealtà, integrità, umanità e religione. E non c’è qualità che sia più necessario sembrare di avere che quest’ultima. Infatti gli uomini generalmente giudicano secondo l’apparenza più che secondo la concretezza, perché a tutti è concesso vedere, a pochi comprendere; ognuno vede ciò che appari, pochi percepiscono quello che sei e quei pochi non osano opporsi alla opinione dei molti che hanno dalla loro la grandezza e il prestigio del potere. Per giudicare le azioni di tutti gli uomini e soprattutto dei principi, per i quali non c’è tribunale a cui fare appello, si guarda al risultato finale. Agisca dunque un principe in modo tale da conquistare e mantenere il potere e i mezzi saranno giudicati leali e lodati da tutti. Perché la massa deve essere sempre attirata con le apparenze e con il successo finale: nel mondo non vi è che un’umanità passiva priva di giudizio critico e le poche o persone avvedute non hanno possibilità di farsi notare se la massa è appoggiata dall’autorità del potere. Un principe dei nostri tempi, che è bene non nominare**, non predica altro che pace e bene sebbene sia nemico di entrambe e l’una e l’altra (la pace e il bene) se l’avesse osservate gli avrebbero fatto togliere il prestigio ed il potere.   
* cap. XV
** Ferdinando il Cattolico 
Ferdinando II d'Aragona - Wikipedia

Michel Sittow: Ritratto di Ferdinando il Cattolico

E’ un capitolo piuttosto controverso perché se è  pur vero che nel precedente veniva conservata la possibilità da parte del principe di usare, secondo le circostanze, qualità positive o negative ma che, se lette in modo politico, perdevano il loro valore morale per acquisire quello dell’azione necessaria per la conservazione del potere e dello stato, qui Machiavelli va oltre, abbandona infatti il suo sistema dilemmatico e lascia soltanto un ramo sui cui lavorare che è quello della dissimulazione, da cui deriva a sua volta non lo scegliere quale delle due forme bestiali sia da preferire, ma come utilizzarle entrambi. 

L’assioma da cui si parte è il seguente: è meglio usare l’astuzia che garantisce la salvezza dello stato piuttosto che la lealtà che significa il suo decadimento; da qui passa all’utilizzo del mito, quello di Chirone, il quale, come sottolinea il critico Ezio Raimondi, dà l’immagine di un sovrano giovane e forte di contro a quella “anziano” circondato da un alone religioso; dopo questo spiega qual è il modo in cui un principe debba utilizzare la forza del leone e l’astuzia della volpe, mostrando capacità di capire il momento opportuno che in politica si chiama duttilità.

Ma ciò che colpisce è il profondo pessimismo di Machiavelli, quale si evince nel momento in cui parla della massa: E li uomini in universali iudicano piú alli ochi che alle mani: perché tocca a vedere a ogniuno, a sentire a pochi; ogniuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla oppinione di molti, che abbino la maestà dello stato che gli difenda in cui riesce a sottolineare il conformismo nonché il rifugiarsi sotto l’ala protettrice del potente. 

Papa Giulio II - Wikipedia

Raffaello Sanzio: Giulio II

QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT ET QUOMODO ILLI SIT OCCURRENDUM
Quanto potere ha la fortuna nelle cose umane e in che modo ci si può opporre ad essa. 
(XXV)

E’ non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno oppinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo, potrebbano iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa oppinione è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d’ogni umana coniettura. Ad che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella oppenione loro. Nondimanco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle actioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà (o presso) a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e piani, rovinano li albori e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e con argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta ’i sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari ad tenerla. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo; ché, s’ella fussi riparata da conveniente virtù come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grande che la ha, o ella non ci sare’ venuta.
E questo voglio basti avere detto quanto allo avere detto allo opporsi alla fortuna, in universali.
Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi; e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducano al fine quale ciascuno ha innanzi (cioè glorie e ricchezze) procedervi variamente: l’uno con respetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno per pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua egualmente felicitare con dua diversi studii, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto: che dua, diversamente operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene: perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma, se è tempi e le cose si mutano, rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accomodare a questo; sí perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina; sí etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però lo uomo respettivo, quando elli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde rovina: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.
Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente, e trovò tanto e tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di Bologna, vivendo ancora Messer Giovanni Bentivogli. Viniziani non se ne contentavano, el Re di Spagna quel medesimo con Francia aveva ragionamenti di tale impresa: e lui nondimanco, con la sua ferocità ed impeto, si mosse personalmente ad quella expedizione; la qual mossa fece star sospesi e fermi Spagna e Viniziani; quegli per paura e quell’altro per il desiderio di ricuperare tutto il Regno di Napoli. E dall’altro canto si tirò dietro il Re di Francia: perché vedutolo quel re mosso e desiderando farselo amico per abbassare ‘Viniziani, iudicò non poterli negare gli exerciti sua senza iniuriarlo manifestamente.
Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro Pontefice con tutta l’umana prudenza non avria condutto; perchè se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme, e tutte le cose ordinate, come qualunque altro Pontefice arebbe fatto, mai non gli riusciva. Perchè il Re di Francia arebbe avuto mille scuse, e gli altri gli arebbero messo mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue actioni, che tutte sono state simili, e tutte gli sono successe bene. E la brevità della vita non li ha lasciato sentire il contrario; perché se fussero sopravvenuti tempi che fosse bisogniato procedere con rispetti, ne seguiva la sua rovina; perché mai non arebbe deviato da quelli modi, a’ quali la natura lo inchinava. 
Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.

ritratto di Giovanni Bentivoglio dipinto, 1552 - 1568

Giovanni Bentivoglio, primo cittadino di Bologna

Non mi è sconosciuto come molti hanno creduto e credono tuttora che i fatti del mondo siano così governati o dalla fortuna (dal caso) o da Dio e che gli uomini con la loro capacità non possono interferire, anzi non possono cambiarli affatto, e per questo che sarebbe inopportuno dedicare tanta fatica nel cambiare i fatti del mondo, ma piuttosto lasciarsi trascinare dalla sorte. Questa opinione è stata maggiormente in auge in questi tempi, per i mutamenti continui che si vedono ogni giorno, fuori da ogni umana considerazione. Pensando a ciò, anch’io talvolta mi sono lasciato trascinare da questa opinione. Tuttavia affinché il nostro libero arbitrio non sia del tutto spento, ritengo sia vero che la fortuna governi la metà delle azioni umane, ma che anche lei ci lasci governare all’incirca l’altra metà. Io infatti la fortuna la raffiguro così: fiumi rovinosi che quando si gonfiano allagano i campi, distruggono gli alberi e le case, levano la terra da una parte per depositarla in un’altra; tutti fuggono davanti ad essi, tutti cedono al loro impeto senza potervi contrapporre. E sebbene avvenga ciò, nulla impedisce, però, che durante il bel tempo, non si possano mettere ripari ed argini, di modo che i fiumi impetuosi, potrebbero poi trovare dei canali dove scaricare la loro forza, senza essere così dannosi. Allo stesso modo accade per la fortuna, che mostra tutta la sua potenza laddove non esiste la virtù umana per contrastarla. E se questo pensiero lo applicate all’Italia, che è la sede di tutte le variazioni e da cui è partito il moto dei cambiamenti, la potete vedere come una campagna senza argini e senza riparo: perché se essa fosse stata riparata con sufficiente virtù, come in Germania, Spagna e Francia, avreste potuto vedere come questa piena non avrebbe avuto così grandi conseguenze o non avrebbe avuto luogo.
E questo sia sufficiente per quanto riguarda la fortuna in generale.
Ed ora, entrando ancor di più nel particolare, affermo che oggi si può vedere un principe ottenere buoni risultati e domani vederlo andare in rovina, senza che egli abbia mutato affatto la sua natura e le sue qualità; credo che ciò avvenga, in primo luogo, per le ragioni che si sono precedentemente affrontate, cioè che quel principe che basa la sua azione sulla sola fortuna, quando questa cambia, vada in rovina. Credo anche che sia felice quel principe le cui qualità si accordano con i tempi e vada incontro all’insuccesso quello le cui qualità non si accordano con i tempi. In quanto si vedono gli uomini andare verso i loro obiettivi, cioè la gloria e la ricchezza, in modo vario: chi con prudenza, chi con impeto, chi con violenza, chi con astuzia, chi con pazienza, chi con impazienza e tutti, con i diversi modi sovra citati può giungervi. E si vedano ancora due prudenti, uno giungere al suo obiettivo e l’altro no e ugualmente due ottenere lo stesso buon esito con diversi modi, uno con prudenza e l’altro con impeto, e tutto questo non nasce da altro se non dalla situazione del tempo che si accorda o no all’agire. Da qui nasce ciò che ho detto: che due agendo in modo completamente diverso ottengano il medesimo risultato; due agendo in maniera uguale giungono ad esiti differenti. Da ciò dipende la giusta azione del politico: se uno governa con prudenza e pazienza ed i tempi e le cose del mondo girano in modo che il suo modo di governare sia adatto, egli ottiene buoni esiti; ma se i tempi e le cose del mondo mutano egli andrà incontro a rovina se non muta il suo modo di governare. E non si trova un principe prudente che si sappia adattare a questo, perché difficilmente si può deviare da come la natura ci ha predisposto ed anche perché se uno ha ottenuto buoni risultati comportandosi in un certo modo, difficilmente potrà cambiare il suo modo di agire. E perciò l’uomo prudente quando è il momento di diventare impetuoso non lo sa essere e quindi va verso la sua rovina; perché se si fosse capaci di mutare la propria natura secondo le circostanze, la fortuna non l’avrebbe mai vinta.
Papa Giulio II procedette in ogni sua azione impetuosamente e trovò sempre le circostanze conformi al suo modo di agire, tanto che ebbe sempre successo. Considerate la prima conquista che fece di Bologna, mentre era ancora in vita Giovanni Bentivoglio. I Veneziani non la vedevano di buon occhio e anche il re di Spagna era contrario; Giulio II era in trattative con la Francia riguardo a tale impresa: e, nonostante ciò, con la sua audacia e il suo impeto, prese iniziativa di quella spedizione, partecipandovi personalmente. Tale iniziativa costrinse i Veneziani e la Spagna a rimanere neutrali. quelli (i Veneziani) per paura (di perdere i loro possedimenti nel regno di Napoli, se il papa si fosse alleato con la Spagna), l’altro (Ferdinando il Cattolico, re di Spagna) perché aspirava a ricostruire l’intero regno di Napoli. Dall’altra Giulio II indusse il re di Francia ad appoggiarlo militarmente; e questo re, vedendo che il papa aveva già avviato quella spedizione, ritenne di non potergli negare l’aiuto dei propri soldati senza recargli una chiara offesa.
Giulio II realizzò, con la sua veemente iniziativa, quello che nessun altro pontefice con tutta la cautela umana, avrebbe mai potuto fare: perché se avesse atteso per allontanarsi da Roma, il re di Francia avrebbe avuto mille scuse (per non aiutarlo) e gli altri avrebbero opposto mille paure. Non voglio parlare delle altre sue azioni, contotte tutte in modo simili e tutte concluse felicemente. E la brevità della vita non gli ha permesso di provare il contrario: perché se fosse giunto il momento in cui avrebbe dovuto adoperare la prudenza, avrebbe sicuramente fallito, né si sarebbe mai allontanatoda quel modo di agire al quale era incline per natura. 
Concludo dunque che mutando la fortuna e rimanendo gli uomini fermi nel loro modo d’agire politico sono felici se il loro modo s’accorda e, non appena discorda, infelici. Io ritengo tuttavia che è meglio essere impetuosi che prudenti, perché la fortuna è femmina ed è necessario, volendola sottomettere, aggredirla e batterla e si capirà che lei si lascia vincere piuttosto dagli impetuosi che dai prudenti. E perciò sempre, come femmina, è amica dei giovani, perché sono meno prudenti, più arditi e la comandano con più audacia.

E’ questo un altro dei capitoli fondamentali de Il Principe. Infatti dopo aver affrontato la questione morale, scindendola definitivamente da quella politica, ora affronta uno dei temi centrali per la cultura cinquecentesca, quello della fortuna. Analizziamo il passo sopra riportato:

  • Machiavelli fa riferimento all’opinione comune secondo cui, di fronte alla catastrofe italiana, bisogna far riferimento all’operato della “fortuna” o di Dio. Egli invece ribadisce il concetto che, se da una parte vi sono delle circostanze imprevedibili, dall’altra c’è sempre l’azione dell’uomo;
  • Il paragone con il fiume in piena: proprio qui Machiavelli sottolinea l’importanza della “previsione” dell’azione politica. Bisogna cioè prevenire la fortuna, costruendo gli argini a tempo opportuno, cioè prendere le dovute misure prima che sia troppo tardi.
  • L’uomo deve agire sempre contro o accompagnando la fortuna e l’uomo: i mezzi per farlo li possiede (ancora la concezione antropocentrica rinascimentale); può agire appunto con rispetto o con impeto a seconda della circostanza.
  • Appare tuttavia un certo “pessimismo”: l’uomo difficilmente è in grado di cambiare la propria natura; gli stessi impetuosi possono andare in rovina se il loro modo d’agire non corrisponde alle necessità del momento;
  • L’ultima metafora riguarda la donna: per Machiavelli la fortuna è femmina e bisogna sottometterla e per far questo bisogna essere giovani e forti: Machiavelli ha una concezione “vitalistica” dell’agire politico.

Il Principe si conclude con un’esortazione rivolta ai principi per liberare l’Italia. E’ il capitolo conclusivo dell’opera, nel quale Machiavelli, abbandonando la prosa scientifica, assume uno stile fortemente oratorio, giocato su figure retoriche che riprendono il periodare classico.

EXHORTATIO AD CAPESSENDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE A BARBARIS VINDICANDAM
Esortazione a prendere l'Italia e a liberarla dai barbari
(XXVI)

Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un principe nuovo, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma, che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella: mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se (come io dixi) era necessario, volendo vedere la virtù di Moysè, che il popul d’Istrael fussi schiavo in Egipto; et a conoscere la grandeza dello animo di Cyro, che ‘ Persi fussino oppressati da’ Medi, e la excellenzia di Theseo, che li Atheniesi fussino dispersi: così al presente, volendo conosciere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che l’Italia si riducessi ne’ termini presenti e che la fussi più stiava che li Hebrei, più serva che ‘ Persi, più dispersa che gli Ateniesi; sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa; et avessi sopportato d’ogni sorta rovine.
E benché infino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redemptione; tamen si è visto come di poi, nel più alto corso delle actioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le sua ferite e ponga fine a’ sachi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, purché ci sia alcuno che la pigli. Né ci si vede, al presente, in quale lei possa più sperare che nella illustre casa vostra; la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla chiesa (della quale è ora principe), possa farsi capo di questa redemptione: il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le actioni e vite de’ soprannominati. E benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furono uomini et ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente: perché la impresa loro non fu più iusta di questa, né più facile; né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è iustizia grande: «iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi spes est». Qui è disposizione grandissima: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà; pure che quella pigli delli ordini di coloro che io vi ho proposto per mira. Oltre a di questo, qui si veggono extraordinarii senza exemplo, condutti da Dio: el mare si è aperto, una nube vi ha scorto il camino, la pietra ha versato acque, qui è piovuto la manna, ogni cosa è concorsa nella vostra grandeza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tôrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre casa vostra; e se, in tante revoluzioni di Italia et in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in Italia la virtù militare sia spenta: perché questo nascie che gli ordini antichi di quella non erono buoni e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. E veruna cosa fa tanto onore ad uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove leggie e li nuovi ordini trovati da lui: queste cose, quando sono ben fondate et abbino in loro grandeza, lo fanno reverendo e mirabile. Et in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma: qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne’ capi. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi, quanto gli Italiani sieno superiori con le forze, con la destreza, con lo ingegno; ma come si viene alli exerciti, non compariscano. E tutto procede dalla deboleza de’ capi: perché quegli che sanno non sono ubiditi et ad ciascuno pare sapere, non ci essendo insino a qui suto alcuno che si sia rilevato tanto (e per virtù e per fortuna) che li altri cedino. Di qui nascie che in tanto tempo, in tante guerre fatte nelli passati XX anni, quando gli è stato un esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova: di che è testimone prima el Taro, di poi Alexandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri.
Volendo adunque la illustre casa vostra seguitare quelli excellenti uomini che redimerno le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose (come vero fondamento d’ogni impresa) provedersi d’arme proprie; perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati; e benché ciascuno di epsi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedessino comandare dal loro principe, e da quello onorare ed intrattenere. E’ necessario pertanto prepararsi ad queste arme per potersi con virtù italiana defendere dagli externi. E benché la fanteria svizera e spagniuola sia existimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto, per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli. Perché gli Spagniuoli non possono sostenere e cavagli e li Svizeri hanno ad avere paura de’ fanti, quando gli riscontrino nel combattere obstinati come loro: donde si è veduto e vedrassi per experienzia li Spagniuoli non potere sostenere una cavalleria franzese e li Svizeri essere rovinati da una fanteria spagniuola. E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera experienza; tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagniuole si affrontorno con le battaglie tedesche (le quali servano el medesimo ordine che ‘ Svizeri): dove gli Spagniuoli, con l’agilità del corpo et aiuto delli loro brocchieri, erano entrati tra lle picche loro sotto e stavano sicuri ad offendergli, sanza che ‘ Tedeschi vi avessino remedio; e se non fussi la cavalleria che gli urtò, gli arebono consumati tutti. Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti: il che lo farà la generazione delle arme e la variazione delli ordini. E queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e grandeza a uno principe nuovo.
Non si deve adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redemptore. Né posso exprimere con quale amore egli fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni externe, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbono? Quali popoli gli negherebbano la obedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo obsequio? Ad ogniuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre casa vostra questo absunto con quello animo, e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste, acciò che sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspizii si verifichi quel detto del Petrarca:

Virtù contro a furore
prenderà l’arme, e fia el combatter corto;
ché l’antico valore
nell’italici cor non è ancor morto.

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William Dermoyen: Battaglia di Pavia tra Francesco I e Carlo V

Dopo aver considerato tutte le cose che ho trattato prima, e meditando tra me e me se oggi in Italia siano maturi i tempi per onorare un nuovo principe e se ci sono le condizioni necessarie per dare ad un uomo prudente e saggio l’occasione d’introdurre un ordinamento nuovo, tale che desse onore a lui e benefici alla maggioranza dei suoi abitanti, mi pare che tanti elementi concorrano a favore di un principe nuovo e non so quale altro periodo di tempo potrebbe essere più favorevole di questo. E se, come dissi, era necessario per vedere le grandi virtù di Mosè che il popolo fosse schiavo in Egitto, per conoscere la grandezza d’animo di Ciro, che i Persiani fossero oppressi dai Medi e l’eccellenza di Teseo che gli Ateniesi fossero dispersi; allo stesso modo ora, per riconoscere la virtù di un principe era necessario che l’Italia si riducesse nelle condizioni in cui si trova e che essa fosse più schiava degli Ebrei, più serva dei Persiani, più dispersa degli Ateniesi, senza principe, senza ordinamenti propri, sottomessa da armi straniere, depredata, impoverita, devastata da scorrerie di eserciti invasori e avesse sopportato ogni genere di sventure.
E benché in qualcuno si sia mostrato qualche barlume di virtù da pensare che fosse mandato Dio per il riscatto dell’Italia, tuttavia si è poi visto come, nel momento decisivo delle azioni, non sia stato favorito dalla fortuna. E così, quasi rimasta senza vita, l’Italia aspetta chi possa essere colui che sia in grado di sanare le sue ferite, ponga fine ai saccheggi della Lombardia, ai pesanti tributi del Regno di Napoli e della Toscana e guarisca in lei quelle piaghe ormai divenute croniche. Si vede bene come essa preghi Dio che le mandi qualcuno che la liberi da queste crudeltà e barbare insolenze. Si vede bene anche come essa sia tutta pronta a seguire una bandiera, purché ci sia uno che la stringa in pugno.
Nè si vede al presente in quale casata l’Italia possa sperare se non della Vostra Illustre Famiglia, che con la sua fortuna e la sua virtù, favorita da Dio e dalla Chiesa, di cui ora è a capo (Leone X, Giovanni di Lorenzo de’ Medici) possa mettersi a guidare questo riscatto. Il che non sarà molto difficile se terrete a mente le imprese e la vita dei personaggi sopra nominati: e benché quegli uomini siano stati eccezionali e meravigliosi, tuttavia furono uomini e ciascuno di loro ebbe un’occasione meno importante della presente, perché la loro impresa non fu più giusta e più facile della presente, né Dio fu con loro più amico che con voi. In questa impresa la giustizia è grande iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est*. In questa impresa ogni evento è favorevole, né ci possono essere grandi difficoltà dove tutto è favorevole, purché la Vostra Casata imiti le azioni di coloro che ho indicato come modelli. Oltre a ciò, in questa impresa si vedono prodigi straordinari voluti da Dio: il mare si è aperto, una nube vi ha indicato il cammino, da una pietra è scaturita l’acqua, qui la manna è caduta dal cielo: ogni evento ha contribuito alla vostra grandezza. Il resto dovete farlo voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non toglierci il libero arbitrio e quella parte di gloria che tocca a noi.  Non c’è da meravigliarsi se nessuno dei già nominati italiani ha potuto fare quello che si può sperare che faccia la Vostra illustre Casa, e se in Italia in tanti rivolgimenti e in tante vicende belliche pare che per sempre sia spento il valore militare. Questo dipende dal fatto che i vecchi ordinamenti dell’Italia non erano più buoni, e non c’è stato nessuno che sia stato capace di trovarne di nuovi: niente dà tanta reputazione a un principe nuovo quanto possono darla le nuove leggi e i nuovi ordinamenti militari creati da lui. Queste cose, quando hanno solide basi e una loro grandiosità, lo rendono ammirevole e degno di rispetto: e in Italia non manca la materia per introdurvi i nuovi ordinamenti militari. Qui c’è il grande valore del popolo, qualora non mancasse nei capi. Esaminate quanto gli Italiani siano superiori per forza, per destrezza e per ingegno nei duelli e nei combattimenti fra pochi. Ma quando fanno parte degli eserciti, non fanno una buona figura. Tutto dipende dalla debolezza dei capi; perché quelli che sono bravi non sono obbediti e ognuno crede di saper comandare, non essendoci stato finora nessuno capace di distinguersi, sia per virtù che per fortuna tanto che gli altri si facciano da parte. Da ciò possiamo capire perché in tanto tempo, in tante guerre avutesi negli ultimi vent’anni, un esercito tutto italiano, quando c’è stato, ha sempre dato cattiva prova di sé. Ne sono testimoni prima la battaglia del Taro, poi quelle di Alessandria, Capua, Genova, Vailate-Agnadello, Bologna, Mestre.
Volendo dunque la illustre Casa Vostra imitare gli eccellenti uomini che liberarono le loro terre, è necessario innanzi tutto, come vero fondamento di ogni impresa, provvedersi di un proprio esercito; perché non si possono avere soldati né più fedeli, né più leali, né migliori. E quantunque ciascuno di essi sia valente, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare dal loro principe e da lui essere onorati ed intrattenuti. È necessario, pertanto, preparare questo esercito per potere, col valore degli italiani, difendersi dai nemici esterni.
E benché le fanterie svizzera e spagnola siano considerate terribili, tuttavia in entrambe ci sono difetti, per cui un terzo tipo di esercito potrebbe non solamente opporsi ad esse, ma aver la fiducia di batterle. Gli Spagnoli, infatti, non sanno resistere all’assalto della cavalleria e gli Svizzeri debbono temere i fanti, quando ritrovano questi determinati a combattere come loro. Perciò si è visto, e si vedrà, che gli Spagnoli non hanno la forza di sostenere l’urto della cavalleria francese, e gli Svizzeri essere sconfitti dalla fanteria spagnola. E benché quest’ultimo caso non si sia visto del tutto nella realtà, tuttavia se ne è veduto un saggio nella battaglia di Ravenna, quando le fanterie spagnole affrontarono i battaglioni tedeschi che adottano lo stesso schieramento degli Svizzeri: gli Spagnoli, con l’agilità del corpo e l’uso dei loro brocchieri, erano penetrati sotto le picche nemiche e li colpivano stando al sicuro, senza che i Tedeschi vi avessero scampo; e se non fosse arrivata la cavalleria che li assaltò, li avrebbero uccisi tutti. Si può, dunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, istituirne una di tipo nuovo, che resista ai cavalli e non abbia paura dei fanti, e questo risultato può essere raggiunto dal tipo di armi e dal nuovo tipo di schieramento sul campo di battaglia. E l’esercito è una di quelle cose che, con un nuovo modello di schieramento, dà prestigio e grandezza a un principe nuovo.
Non si deve dunque lasciar passare questa occasione affinché l’Italia, dopo tanto tempo, veda un suo redentore. Né posso esprimere con quale amore sarebbe accolto in tutte quelle regioni che hanno patito per queste invasioni straniere; con quale sete di vendetta, con quale fede ostinata, con quale devozione, con quali lacrime. Quali porte verrebbero chiuse davanti a lui? Quali popoli gli negherebbero la loro obbedienza? Quale rivalità gli si opporrebbe? Quale Italiano gli negherebbe il rispetto? A ognuno puzza questo barbaro dominio! Prenda dunque, l’illustre Casa Vostra, questo impegno, con quel coraggio e quella speranza con cui si prendono le imprese giuste, affinché sotto la sua insegna la patria sia nobilitata e sotto i suoi auspici si avveri quel detto del Petrarca: Il valore italiano combatterà contro la selvaggia furia // e la battaglia sarà breve, // perché l’antico valore // non si è ancora spento negli italiani.
*giusta infatti è la guerra per coloro i quali è necessaria, e pie le armi, quando non vi è speranza se non nelle armi (Tito Livio, Ab urbe condita, IX, 1)

L’ultimo capitolo de Il Principe è decisamente diverso dai precedenti: una teoria critica situa la Dedica e questa Exhortatio posteriori rispetto al resto dell’opera: a dirlo del primo è lo scambio di persona cui viene offerta l’opera (da Giuliano a Lorenzo) qui è lo stile e l’abbandono della prosa scientifica. Tale abbandono è presente a partire dal ritmo sostenuto, con riferimenti biblici e storici e frasi latine citate a memoria; dallo stile con metafore e accostamento di parole per asindeto che servono ad incalzare di più il discorso e ancora domande retoriche. Come diverso ed innalzato il discorso si fa nel momento in cui lo si conclude con le parole di Petrarca, poeta, retoricamente alto nella sua canzone politica All’Italia.

Nell’ultimo testo troviamo, tuttavia, alcuni concetti fondamentali che lo legano a quanto scritto precedentemente: 

  • l’azione nasce dalla realtà effettuale: oggi la realtà effettuale vede l’Italia sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa; et avessi (aver) sopportato d’ogni sorta rovine; tale realtà non può che spingere ad un risveglio (redemptione) che la ponga fuori dalla sottomissione politica e militare cui è costretta e questo lo può fare soltanto con la guida di un principe nuovo;
  • la situazione (quindi la stessa realtà) aveva spinto qualcuno a cercare di prendere l’iniziativa e qui il riferimento è Cesare Borgia, abbandonato, poi, dalla fortuna per la morte del padre (Adriano VI); ora Lorenzo si trova nella condizione di avere un papa che lo può sostenere (Alessandro X) nel portare a compimento l’azione fallita per colpa della malignità della sorte.
  • il discorso sull’esercito, che riprenderà in forma più organica ne l’Arte della guerra: per poter portare avanti un’azione politica con il supporto di quella militare è necessario avere delle “armi proprie”.
5. Title page from Il Principe” by Niccolò' Machiavelli | Flickr

Il Principe edizione del 1769, commentato dallo storico francese Abraham Nicolas Amelot de la Houssaye

DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO

Se Il Principe è stato scritto di getto, mosso dall’urgenza della situazione politica italiana, ben diversa è la gestazione dei Discorsi, iniziati poco prima, ma nello stesso anno, interrotti e quindi ripresi nel biennio tra il ’15 e il ’17 nel clima degli Orti Oricellari (palazzo costruito dalla famiglia nobile dei Rucellai, nel quale sin dal ‘400 si riunivano intellettuali per discutere di arte e filosofia), i cui appartenenti guardavano a Machiavelli come un maestro, tra i quali appunto Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, cui il pensatore fiorentino dedica l’opera.  I Discorsi si presentano non unitari: si tratta infatti di un commento, pieno di divagazioni, sulla prima deca (i primi dieci libri) dell’opera dello storico romano Tito Livio. Vediamone un po’ la struttura:

  • nel primo libro Machiavelli affronta il problema delle prime istituzioni della Roma repubblicana e della sua organizzazione e della religione. Egli rimpiange la religione pagana in quando essa permetteva al cittadino romano d’identificarsi nello stato romano; la religione romana era pertanto un instrumentum regni che faceva da collante all’intera comunità;
  • il secondo libro è dedicato alla politica estera, alla guerra e alla milizia. E’ chiara qui la polemica machiavelliana verso le milizie mercenarie degli Stati italiani. Il cives romano difendeva la patria in quanto quest’ultima conteneva e prometteva appezzamenti di terreno da coltivare. Per il soldato, pagato al soldo, la guerra è solo un mezzo per guadagnare; perciò non difende strenuamente ciò che non gli appartiene; anzi l’unica cosa veramente sua, cioè la vita, cerca di salvarla con ogni mezzo, al di là del motivo per cui combatte;
  • il terzo libro è più vario e si parla delle azioni di uomini eccezionali, che hanno reso grande Roma, sia delle trasformazioni degli Stati, come si evolvano e decadano. Qui si fanno chiari riferimenti alla “corruzione” di Firenze.

PROEMIO

Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggiendo, da l’altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.

Lot 326 - Machiavelli (Niccolo). Discorsi, Venice 1543

Edizione del 1543

Considerando quanta importanza venga attribuita all’antichità e come molte volte (tralasciando altri esempi) un frammento di un’antica statua sia stato acquistato ad un prezzo elevato per possederlo e per accrescere, con esso, l’onorabilità della propria casa, per farlo riprodurre dagli scultori, come coloro che si sforzano di rappresentarlo di nuovo con grande impegno e vedendo, con stupore, allo stesso modo le azioni virtuose che sono state compiute dai regni e dalle repubbliche antiche, dai re, dai capitani di eserciti, da legislatori e altre personalità che si sono impegnati per la loro patria con grande virtù che la storia ci mostra, essere più lodate che imitate; anzi evitate da ciascuno  che non è rimasta traccia di quella antica virtù, non posso fare a meno di meravigliarmi e dolermi allo stesso tempo. E questo soprattutto (quando vedo) nelle controversie tra privati cittadini  e nelle malattie degli uomini essersi rivolti sempre alle leggi e ai rimedi trovati dagli antichi. Perché  le leggi civili non sono altro che quelle date dagli antichi legislatori che, messe in ordine, insegnano ancora a giudicare ai nostri avvocati e neppure la medicina non è altro se non quella proposta dai medici antichi sulla quale quelli moderno fondano le le loro diagnosi. Tuttavia nel dare un ordinamento ad uno stato repubblicano, nel conservare le istituzioni, nell’organizzare l’esercito e nel condurre guerre, nel giudicare i sudditi, nell’accrescere il potere non si trova né un principe, né una repubblica, né un capitano dell’esercito, né un privato cittadino che ricorra agli esempi degli antichi. Sono convinto che ciò derivi non dalla debolezza con cui la poca educazione ha condotto il mondo o da un costume ozioso che ha ridotto in questo stato molte provincie e città cristiane, quanto da non conoscere la storia, per non tirare fuori da essa, dopo averla letta, quel significato degli avvenimenti presenti in essa, né trovare quel piacere della verità che esse hanno in sé. Per cui i numerosissimi lettori delle storie provano gusto nel sentire la varietà degli episodi che esse contengono, senza pensare per niente ad imitarle, giudicando non solo difficile imitarle, ma addirittura impossibile: come se il cielo, il sole, gli altri elementi astrologici avessero cambiato il movimento, la forma e la loro potenza dalla loro antichità. Volendo dunque allontanare gli uomini da questo loro errore ho giudicato scrivere, considerati tutti quei libri che per sfortuna non ci sono stati tramandati, soprattutto quello che comparando i tempi antichi con i moderni risultino necessari per una maggiore comprensione per loro, affinché gli stessi possano trarne utilità per la quale è necessaria la conoscenza della storia. E benché sia un compito arduo, aiutato da coloro che in questo mi hanno aiutato e confortato, credo poterlo portare avanti in che qualcuno potrà percorrere il breve tratto che lo condurrà al fine a lui destinato.  

Il Proemio ci illustra come il classicismo machiavelliano, ed in parte dell’intero Rinascimento, non si basi soltanto sull’imitazione estetica, ma, come nel pensiero dell’intellettuale fiorentino, diventi “militante”, capace cioè di dare linfa vitale all’asfittica e debole politica italiana.

Partendo dall’assunto che l’uomo, fisicamente, è ancora governato dai rimedi della medicina antica, giurisdizionalmente a quelli degli iura classici, non si capisce perché non debba esserlo riguardo il suo impegno politico che dovrebbe, necessariamente, osservare le grandi azioni dei grandi uomini del passato. Per questo l’opera non è soltanto un esercizio storiografico sull’opera liviana, ma un attento esame che deve insegnare l’agire politico contemporaneo.

Ci si potrebbe chiedere quale sia stata la spinta a continuare l’opera dopo il lavoro De principatibus: possiamo azzardare l’ipotesi secondo cui l’azione propugnata ne Il Principe, spieghi l’urgenza politica con cui un uomo (e quindi un personaggio autorevole) avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di liberare l’Italia dagli eserciti stranieri (spagnoli e francesi). I primi dieci libri di Livio, invece, gli offrono la possibilità di soffermarsi sull’insegnamento dell’autore latino della storia come “magistra vitae“, e quindi superare e in un certo modo di “cancellare” l’opera precedente ispirata a Cesare Borgia, personaggio, in seguito, caduto in disgrazia.

E se la storia si propugna come magistra vitae, alla sua stregua dovremo utilizzare la religio come importantissimo instrumentum regni:

I DANNI DELLA CHIESA IN ITALIA

Quelli príncipi o quelle repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove l’uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la sètta degli indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifici e riti, dependevano da queste; perché loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni ed ogni altra cerimonia in venerarli: per che l’oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone ed altri celebri oracoli i quali riempivano il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de’ potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne’ popoli, diventarono gli uomini increduli ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono adunque i príncipi d’una republica o d’uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro repubblica religiosa, e per conseguente buona e unita. E debbono tutte le cose che nascono in favore di quella, come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l’opinione dei miracoli che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio e’ si nascano, e l’autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai, intra i quali fu che saccheggiando i soldati romani la città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla immagine di quella e dicendole Vis venire Romam?, parve a alcuno vedere che la accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio, perché nello entrare nel tempio vi entrarono sanza tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta; la quale opinione e credulità da Cammillo e dagli altri prìncipi della città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne’ prìncipi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane più unite, piú felici assai che le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere propinquo sanza dubbio o la rovina o il fragello.

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Suovetaurilia: rito che prevedeva l’uccisione di un maiale, di un montone e di un toro (Museo del Louvre)

Quei principati e quelle repubbliche che vogliono rimanere immuni dalla corruzione, devono sopra ogni cosa mantenere inalterati i riti della loro religione, e tenerli sempre in massima considerazione, perché non si può avere maggior segno dell’instabilità di una nazione che vedere disprezzato il culto divino. Questo è facile a capirsi nel momento in cui si conosce il fondamento della propria religione, proprio perché le religioni si muovono su fondamenti propri. La struttura della religione pagana si basava sui responsi degli oracoli e sulla casta degli indovini e degli auruspici: tutti i loro riti erano programmati da questi due, perché loro semplicemente credevano che quel dio che poteva predire un futuro, sia esso favorevole o sfavorevole te lo potesse anche concedere. Da questa credenza nacquero i templi, i sacrifici, le preghiere e tutte le altre cerimonie con cui venerarli: da qui l’oracolo di Apollo (Delo), il tempio di Giove Ammone (divinità egizia), ed altri celebri oracoli che riempivano il mondo di ammirazione e devozione. Appena loro iniziarono in seguito a parlare secondo gli interessi dei potenti, e questa falsità fu scoperta dalla gente, gli uomini diventarono non credenti e pronti a scardinare ogni ordine religioso e civile. Devono dunque i reggitori di una repubblica o di una monarchia mantenere saldi i principi della loro religione, e, fatto questo, sarà semplice per loro mantenere il loro stato religioso, e conseguentemente rispettoso e coeso. E devono altresì favorire ed accrescere tutte le cose che la riguardano, sebbene essi possano ritenerle false, e lo devono fare quanto più sono prudenti ed esperti della realtà naturale. E perché questo è stato osservato in tutti gli uomini saggi, ne è nata l’opinione che i miracoli siano veri anche nelle religioni “false”, perché i governanti accorti li incrementano da qualunque principio essi nascano, e la loro autorità fornisce a quelli credito ovunque. Di questi miracoli ce ne furono molti a Roma, tra i quali questo, che alcuni Romani, saccheggiando Veio, entrarono nel tempio di Giunone e avvicinandosi alla sua statua e dicendole Vuoi venire a Roma? sembrò che acconsentisse. Poiché quegli uomini erano fortemente religiosi (perché, come afferma Tito Livio, entrarono nel tempio silenziosi e con rispetto e pieni di devozione), sembrò loro ascoltare quella risposta che volevano essa dicesse, opinione e credulità che fu assolutamente accresciuta e aumentata da Furio Camillo e dagli altri generali. Se la religione cristiana si fosse mantenuta secondo le regole che lo stesso Cristo le aveva assegnato, sarebbero gli stati cristiani più uniti e molto più saldi di quanto siano adesso. Né si può fare maggiore deduzione di questa affermazione quanto vedere come quei popoli che sono vicini alla Chiesa Romana, la base della nostra religione, siano meno religiosi, e coloro che considerassero quanto i riti e gli atteggiamenti di questa religione siano molto diversi dai comportamenti di costoro, capirebbe subito esser vicino il tempo della loro rovina.

Sembra, leggendo questa pagina, che l’autore de Il principe non distingua poi tanto la riflessione sulla storia e la costruzione scientifica della politica. Ma per Machiavelli ciò non può essere, perché analizzando con attenzione i fatti di ieri e paragonandoli all’oggi, non si può non rendersi conto che la storia è la politica degli anni passati e la politica di oggi sarà, a sua volta, la storia di domani. Così si potrà ben comprendere quale insegnamento i “reggitori” di uno Stato devono apprendere dall’atteggiamento di Camillo, nell’usare un episodio religioso a fine politico: ma non dobbiamo dimenticare che la presa di Veio è un fatto storico anche per Tito Livio. E’ poi evidente, qui, il discorso di Machiavelli riguardo l’incidenza della Chiesa sulla disunione della penisola italiana, la sua feroce critica verso atteggiamenti amorali e non in linea con la profonda religiosità della gente, della sua vera e propria “indifferenza religiosa”: questi atteggiamenti non aiutano un popolo a trovare unità, anzi, creano fazioni, come è successo a Firenze con il Savonarola.

Si è discusso molto, a livello critico, sulla visione “repubblicana” di Machiavelli, soprattutto alla luce del pensiero politico emerso nelle pagine de Il Principe e nella valorizzazione della figura impetuosa e autoritaria di Cesare Borgia, che, nella sua mente, incarnava il perfetto principe. Eppure a ben guardare, il suo pensiero politico è più complesso, come ci mostra la riflessione sul popolo, in un capitolo, il 58°, che, al sui inizio, afferma che non vi è differenza “qualitativa” tra moltitudine e principe se ambedue non sono guidati, e nel contempo frenati, dalle leggi, quindi prosegue:

LA MOLTITUDINE

Conchiudo adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne’ principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s’inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio stimato savio: e dall’altra parte, un principe, sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E che la variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è a un modo, e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l’una cosa e l’altra. E se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch’egli usò contra a Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati de’ principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si assomiglia la voce d’un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione universale fare effetti maravigliosi ne’ pronostichi suoi; talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli ode duo concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molte volte erra ancora un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono molte più che quelle de’ popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di lunga, migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo, che sia bene tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi uno popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell’una e dell’altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il popolo romano: il quale in tante centinaia d’anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome, poté fargli fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de’ re, ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de’ popoli che quegli de’ principi. Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i disordini de’ popoli, tutti i disordini de’ principi, tutte le glorie de’ popoli e tutte quelle de’ principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, ch’egli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che l’ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa materia, dico come hanno durato assai gli stati de’ principi, hanno durato assai gli stati delle republiche, e l’uno e l’altro ha avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi: perché un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare cio che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d’un principe obligato alle leggi, e d’un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della malattia dell’uno e dell’altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che ne può nascere, potendo nascere, infra tanta confusione, uno tiranno. Ma ne’ principi cattivi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì che vedete la differenza dell’uno e dell’altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene commune: quelle d’un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de’ popoli ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de’ principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe.

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Cesare Maccari: Il cieco al Senato Romano (1880)

Dunque concludo contro l’opinione generale che dice che i popoli, quando sono alla guida di uno stato, sono volubili, incostanti ed ingrati, affermando che in loro vi sono gli stessi vizi di un reggitore singolare. Ora accusando un principe ed il popolo nello stesso tempo si potrebbe raggiungere la verità, ma sottraendo all’analisi un principe si incorre nell’errore, perché un popolo al potere e guidato da buone leggi, sarà stabile, prudente, gradito non diversamente di un principe o addirittura  meglio di un principe, quand’anche fosse estremamente saggio. D’altra parte un principe non frenato da alcuna legge sarà incostante ed imprudente più di un popolo. Si è che la diversità tra loro non è nella diversità della loro natura, perché in tutti gli uomini è uguale e se vi è una superiorità di bene non è insito nel popolo, ma dall’avere, sia per esso che per il principe preso singolarmente, più o meno rispetto verso le leggi in cui l’uno e l’altro si trovano ad operare. E se si guarda con attenzione il popolo popolo romano, lo si vedrà essere stato per quattrocento anni nemico del nome di re ed amante della gloria e del bene comune per la sa patria e si accorgerà per i tanti esempi di ambedue i suoi atteggiamenti; e se qualcuno mi portasse ad esempio l’episodio di Scipione rispondo allo stesso modo in cui ho già parlato di tale argomento, dove ho mostrato che il popolo fu, nei suoi confronti, meno ingrato dei senatori. Ma quando parlo di prudenza e di stabilità affermo che il popolo è più prudente, più fermo e di maggiore lungimiranza rispetto ad un principe. Per questo si dice che la voce del popolo somiglia a quella di Dio, perché si vede un’opinione presa dalla moltitudine sortire meravigliosi effetti, tanto che sembra che, per un’arcana virtù, riesca ad intuire il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare qualsiasi opinione, si vede rarissimamente, quando si trova di fronte a due oratori, ambedue di eguale virtù, che il popolo non scelga quello migliore e che non sia in grado di capire la verità di ciò che ha ascoltato. E se nelle decisioni prese appassionatamente e che all’apparenza sono utili il popolo s’inganna, spesso s’inganna anche un principe nelle sue passioni, che sono  molte di più di quelle del popolo. Si veda come nelle elezioni dei suoi magistrati il popolo farà di gran lunga una scelta migliore di un principe, né mai sarà possibile convincere un popolo che sia buona cosa eleggere a una carica pubblica un uomo infame e corrotto, cosa di cui più facilmente e per vie tortuose può essere convinto un principe. Si veda ancora una cosa essere in orrore al popolo e per molti secoli conservare tale opinione, cosa che non accade ad un principe. Di queste due ultime cose voglio che mi sia testimone il popolo romano, che in tante centinaia di anni, in tante elezioni di consoli e tribuni, non fece quattro elezioni di cui pentirsi, ed ebbe, come già detto, tanto in odio il nome di re che nessun cittadino romano che avesse tentato di conquistare il potere assoluto sfuggì alla debita punizione, per quanti meriti egli avesse. Si veda, oltre a questo, le città dove i popoli sono al governo fare in poco tempo allargamenti territoriali estremamente maggiori di quanti ne possa fare un principe, come fece Roma, dopo la cacciata dei re e Atene dopo che si liberò dal tiranno Pisistrato e questo deriva dal fatto che i governi retti dai popoli sono migliori di quelli retti da un principe. Nè voglio che si opponga a ciò tutto quello che Livio afferma nel brano di cui stiamo parlando o in ogni altra parte dell’opera, perché se si analizzeranno tutti i disordini e tutte le glorie dei popoli e dei principi , si vedrà il popolo di gran lunga essere migliore per bontà e gloria, e se i principi sono superiori ai popoli nel legiferare, organizzare la società civile, creare istituzioni ed emanare provvedimenti, i popoli sono tanto più in grado di conservare in vita per lungo tempo quello stato così ordinato da eguagliare senza dubbio la gloria dei primi ordinatori.
Insomma, in conclusione, affermo che come sono durati gli stati guidati da un principe allo stesso modo sono durati gli stati retti dal popolo ed ambedue hanno bisogno di essere guidati dalla legge, perché un principe che può fare ciò che vuole è pazzo, un popolo che non ha nessun freno non è saggio. Se si ragionerà di un principe obbligato ad esser sottomesso alla legge e di un popolo regolato secondo le leggi, si vedrà più virtù nel popolo che nel singolo reggitore; se si vedrà sia l’uno che l’altro sciolto dall’obbedienza della legge, si vedranno meno errori nel popolo che nel principe e di minore entità ed avranno più facile soluzione, perché un popolo senza licenza e ribelle può essere attraverso le parole di un uomo saggio essere riportato nella retta via; un principe malvagio non può essere corretto da nessuno e non c’è altra soluzione che il tirannicidio. Da ciò si può fare un esempio sui difetti dell’uno e dell’altro, perché se a porre rimedio a quello del popolo bastano le parole e a quella del principe occorre l’omicidio è naturale che dove occorre un rimedio più radicale i “mali” siano maggiori. Quando un popolo non è frenato, non si temono le pazzie che potrebbe fare, né si teme di quello che può al momento succedere, ma si teme quello che può nascere, potendo emergere, in tale confusione, la figura di un tiranno. Ma nei principi malvagi accade il contrario, perché si ha paura del presente e si spera nel futuro, convincendosi gli uomini che dalla sua cattiva vita possa nascere la libertà. Ora vedete la differenza tra l’uno e l’altro, la quale dimostra come le cose sono e come dovrebbero essere. Le violenze della moltitudine sono rivolte contro chi essa teme che voglia impossersi del bene comune, quelle di un principe sono rivolte contro chi teme voglia usurpargli il potere personale. Ma i giudizi negativi contro il popolo nasce perché nei governi repubblicani chiunque può parlare male senza paura e liberamente anche quando è a guida popolare; dei principi si parla sempre con mille paure e mille attenzioni. Nè mi sembra fuori argomento, poiché il discorso fatto fin qui me ne dà l’occasione, parlare nel prossimo capitolo di quali alleanze ci si possa più fidare, se quelle fatte con una repubblica o quelle fatte con un principe. 

Sembra che questo passo neghi quanto dallo stesso è stato detto riguardo il principe: Machiavelli, infatti, nel brano proposto sottolinea che il popolo retto da giuste leggi sia da preferire al tiranno. Si ripete qui il profondo pessimismo machiavelliano: perché l’uomo ha bisogno di essere frenato, sia esso espressione di un gruppo o di se stesso, delle leggi? Perché l’uomo “naturalmente” non è in grado di uscire da quello stato di ferinità nel quale si trova da quando è nato: ecco l’importanza delle leggi.

Ma perché il passo è importante? Perché ci pone di fronte alla contraddizione machiavelliana di esaltazione del principe nel De principatibus e della moltitudine e quindi repubblica nei Dialoghi: illuminanti a tal proposito le parole di Luperini: “Si è a lungo discusso sulla relazione fra Il Principe e i Discorsi. Le base teoriche delle due opere sono le stesse; ma la prima pone il problema di fondare uno Stato nuovo (e ciò può avvenire solo a partire dalla “virtù” di un individuo, il principe), la seconda quello della durata e della continuazione dello Stato. Quando è un unico individuo a creare uno Stato nuovo, questo può assumere solo la forma del principato; ma perché poi lo Stato possa durare gli occorre l’appoggio del “popolo” e un equilibrio fra i poteri che solo la repubblica può garantire.” Ribadite con la stessa chiarezza da Grosser: “Machiavelli mostra di credere che un governo monarchico sia più efficace al momento della formazione o del riordinamento di uno stato, ma che poi sul lungo periodo, a garantirne cioè la durata, sia assai più efficace un governo popolare, purché limitato da buoni leggi”. 

L’ARTE DELLA GUERRA

Composto tra il 1519 ed il 1521 è un trattato in forma dialogica in cui Machiavelli riprende alcuni concetti già espressi sia ne Il Principe che nei Discorsi: egli infatti sostiene la necessità di formare un esercito di cittadini, mostrando la sua contrarietà alle truppe mercenarie. Si sofferma, quindi, dopo aver sostenuto la superiorità della fanteria rispetto alla cavalleria, anche su aspetti maggiormente tecnici, come l’arruolamento dei soldati, quale fosse lo schieramento migliore e l’allineamento degli accampamenti.

E’ Fabrizio Colonna, che nel dialogo fa da portavoce alle idee di Machiavelli ad individuare nella viltà dei principi l’esito disastroso delle guerre in Italia:

L’INETTITUDINE DEI PRINCIPI ITALIANI

Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi non hanno preso alcuno ordine buono, e per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene, perdendo ignominiosamente lo stato e sanza alcuno essemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra et a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane se non per quella via che io ho dimostra, e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia. Perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozi e proprii, non ne’ maligni, male custoditi e forestieri; né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d’uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ subditi avaramente e superbamente marcirsi nello ocio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi ; né si accorgievano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel MCCCCLXXXXIIII i grandi spaventi, le sùbite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine. E non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomeni e principi eccellenti, erano i primi tra ’ combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro o in parte di loro si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizia o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati et imbelli. Le quali cose se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è bad-war.jpgLanzichenecchi

Ma torniamo a parlare degli Italiani i quali, non avendo avuto governanti saggi, non hanno adottato nessuno degli antichi ordini militari, e per non aver avuto la necessità degli Spagnoli, non lo hanno adottato per loro volontà, tanto da essere ormai vergogna del mondo. Ma la colpa non è dei popoli, ma dei loro principi, che ne sono stati castigati e hanno pagato giustamente, per la loro ignoranza, la pena, perdendo lo stato senza aver dato alcun esempio di valore. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre ci sono stare in Italia dalla discesa di Carlo VIII ad oggi, ed essendo le guerre atte a rendere gli uomini pronti a combattere e degni di reputazione, queste svolte in Italia, quanto più grandi e feroci tanto più hanno fatto perdere la reputazione ai popoli e ai loro governanti. Ciò dipende dal fatto che gli ordini militari tradizionali non erano né sono efficaci, e quelli nuovi non vi è stato alcun principe in grado di adottarli. Non crediate che gli eserciti italiani possano raggiungere una buona reputazione se non nel modo in cui vi ho esposto e per iniziativa di coloro che governano gli Stati più grandi. Perché questa capacità si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e sudditi del proprio stato, non nei disonesti, difficili da gestire e forestieri; né mai si troverà un buono scultore che creda di fare una bella statua da un pezzo di marmo a cui si è già impressa una forma sbagliata, ma la farà bene su un pezzo di marmo grezzo. I nostri principi italiani credevano, prima che assaggiassero i colpi delle guerre degli eserciti transalpini, che ad un principe bastasse mostrare cultura nei gabinetti, pensare un’arguta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare con le parole l’argomento e il modo di esprimerlo, saper ordire un inganno, riempirsi d’oro e di pietre preziose, dormire e mangiare con ricercatezza superiore agli altri, circondarsi di dissolutezze, rapportarsi ai sudditi con avidità e superbia, abbandonarsi all’ozio, concedere gradi militari come favori, mostrarsi sprezzanti se qualcuno dimostrasse loro miglioramenti nell’esercito, volere che gli altri ritenessero le loro parole come dette da oracoli, né di accorgevano i vigliacchi che si preparavano ad essere preda di chiunque li avesse assaliti. da qui nacquero nel 1494 le grandi paure, le immediate fughe, le inaspettate perdite, e così tre potentissimi stati italiani (Napoli, Milano e Venezia), sono stati più volte saccheggiati e rovinati. Ma ciò che è peggio, che i principi che sono ancora in Italia, continuano a commettere gli stessi sbagli e vivono nello stesso disordine. Non considerano che i governanti antichi che volevano mantenere lo stato, facevano tutte le cose sulle quali ho ragionato, e che la loro preoccupazione era quella di preparare il corpo alle privazioni e all’animo a non perdere il coraggio. Da ciò deriva che Cesare, Alessandro e tutti gli uomini e principi eccellenti, erano i migliori dei loro soldati, combattevano a piedi come i fanti, e se pure perdevano lo stato, sacrificavano per lui anche la loro vita tanto che vivevano e morivano in modo virtuoso. E se in loro o in alcuni di loro si poteva condannare l’eccessivo desiderio di potere, mai si troverà che in loro si condanni alcuna mollezza o altre cose che li rendano delicati e non adatti alla guerra. Le quali cose se da questi principi fossero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non volessero mutare modo di vitae gli Starti non mutassero la loro situazione.

All’interno dell’opera ritroviamo lo stesso principio secondo cui bisogna avere delle truppe proprie, ovvero sia un esercito formato dai sudditi e cittadini, se si vuole conservare lo stato. Ma quello che colpisce lo scrittore fiorentino è l’inettitudine dei principi che dà vita ad una “sferzante quanto desolata ironia. In particolare colpisce l’accusa senza riserve nei confronti delle illusioni umanistiche, nelle quali si sono persi i prìncipi abili soltanto nella diplomazia e nella retorica, ma del tutto incapaci di assolvere i propri compiti politici e militari come pure di accorgersi che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava” (Barberi-Squarotti)

mandragola_rosanna_schiaffino_alberto_lattuada_006_jpg_xwmd.jpegLocandina del film tratto dalla Mandragola (1955)

LA MANDRAGOLA

La Mandragola è una commedia in cinque atti, scritta forse nel 1518, ed è considerata un vero e proprio capolavoro della commedia rinascimentale.

L’anziano Messer Nicia e la sua bella moglie Lucrezia sono delusi di non aver figli. Di ciò e della balordaggine di Nicia approfitta Callimaco, innamorato di Lucrezia. Con l’aiuto del mezzano Ligurio si fa passare per un famoso dottore e assicura a Nicia che Lucrezia avrà un bambino se berrà una pozione di mandragola, ma che è morte certa giacere con lei subito dopo; lo persuade poi che bisogna trovare un poveraccio che si presti all’opera quella notte. A convincere Lucrezia provvedono la sua sciocca madre Sostrata e il cinico fra Timoteo. Naturalmente è Callimaco travestito che quella notte sarà nel letto di Lucrezia la quale, conosciuta la leggerezza del marito, non esiterà a eleggere Callimaco suo signore.

La Mandragola s’inserisce in quella ripresa umanistico-rinascimentale del teatro comico latino, soprattutto di quella plautina. Infatti qui si riconosce l’adulescens (Callimaco), la donna di cui è innamorato (Lucrezia), il senex che è il proprietario – in questo caso il marito – (Nicia) ed il servus callidus (Ligurio). Eppure in Machiavelli la commedia è assolutamente “nuova” e non sembra così lontana dal suo trattato politico. Vediamo il perché, attraverso l’analisi dei personaggi:

Nicia rappresenta il vecchio sciocco, quello da “beffare”. Tuttavia in lui non vi è solamente l’aspetto dell’incapace, dello sprovveduto facile da circuire. Egli è “cattivo”, malvagio, avaro, sprezzante ogni morale (non gli importa nulla se quello che giacerà con Lucrezia dopo dovrà morire), probabilmente impotente. Incapace d’agire sembra rappresentare i fiorentini del tempo di Machiavelli che potevano vedere in lui, inconsciamente, se stessi, come nel brano seguente:

NICIA
(Atto II, scena III)

NICIAQuesto tuo è un gran valente uomo.
SIROPiù che voi non dite.
NICIAIl re di Francia ne de’ fare conto.
SIROAssai.
NICIAE’ per questa cagione e’ debbe stare volentieri in Francia.
SIROCosì credo.
NICIAE fa molto bene. In questa terra non ci è se non cacastecchi, non ci s’apprezza virtù alcuna. S’egli stessi qua, non ci sarebbe uomo che lo guardassi in viso. Io ne so ragionare, che ho cacato le curatelle per imparare due hac: e se io avessi a vivere, io starei fresco, ti so dire!
SIROGuadagnate voi cento ducati?
NICIANon cento lire, non cento grossi, oh va’! E questo è, che chi non ha lo stato in questa terra, de’ nostri pari, non truova cane che gli abbai, e non siamo buoni ad altro che andare a’ mortori o alle ragunate d’un mogliazzo o a starci tutto dì in sulla panca del Proconsolo a donzellarci. Ma io ne li disgrazio, io non ho bisogno di persona; così stessi chi sta peggio di me. Non vorrei però che le fussino mia parole, che io arei di fatto qualche balzello o qualche porro di drieto che mi fare’ sudare.

NICIA: Il tuo padrone è proprio un gran uomo. SIRO: Più di quanto dite. NICIA: Il re di Francia lo deve tenere molto in considerazione. SIRO: Molto. NICIA: E’ per questo che egli deve stare molto in Francia. SIRO: Credo che sia così. NICIA: E fa bene. In questa terra non ci sono che spilorci e chi ha qualche virtù non ha possibilità di crescere. Se egli abitasse qui, nessuno lo guarderebbe in faccia. Ne so qualcosa io, che ho fatto una fatica cane ad imparare un po’ di latino; e se io dovessi qui guadagnare, starei fresco. Questi ti dico. SIRO: Voi guadagnate cento ducati l’anno? NICIA: Nemmeno cento lire e cento grossi (monete di minor valore del ducato), va là! Questo è: chi in questa terra non ha lo status dei suoi pari, non trova nessuno che gli dia considerazione. Non siamo capaci che andare ai funerali, alle feste dei matrimoni e tutto il giorno sulla panchina della via principale a non fare niente. Ma io non mi curo di loro, non ho bisogno di nessuno. Magari stesse così chi sta peggio di me. Non vorrei però che queste parole fossero riferite come mie, che io subirei qualche pagamento o grossa fregatura che mi farebbe penare.

Ligurio è il vero “princeps”: lui, una volta osservata la realtà effettuale (stupidità di Nicia, corruttibilità di fra Timoteo, scarsa virtù di Sostrata) decide l’inganno valutandone i pro e i contro; così se dapprima convince Nicia a portare Lucrezia ai bagni per far incontrare la stessa con Callimaco, dopo attenta valutazione ritiene tale piano poco fattibile riguardo l’obiettivo (Lucrezia potrebbe incontrare ai bagni qualcuno più ricco e più bello di Callimaco) e pertanto ordisce un secondo e più sicuro inganno. Rappresenta, nell’economia della commedia, la figura del servus callidus. Inoltre è l’unico il cui impegno avrà come ricompensa una sola e semplice cena e la compagnia amicale, che sembra organizzata più per soddisfazione che come vero e proprio guadagno.

Callimaco è l’adulescens del teatro comico classico. Tuttavia rispetto ai modelli plautini e terenziani Callimaco mostra un vitalismo che essi non possedevano. Egli è disposto a tutto pur di ottenere ciò che desidera, sapendo che il suo fine rappresenta la sua salvezza. La donna che vuole possedere non è né una liberta né una schiava da riscattare con denaro, ma una donna borghese, sposata, probabilmente insoddisfatta sessualmente, fatto cui Callimaco dove porre rimedio.

LIGURIO E CALLIMACO
(Atto I, scena III)

LIGURIOEgli (Nicia) è uno uomo della qualità che tu sai, di poca prudenzia, di meno animo, e partesi mal volentieri da Firenze; pure, io ce l’ho riscaldato: e mi ha detto infine che farà ogni cosa; e credo che, quando e’ ti piaccia questo partito, che noi ve lo condurreno, ma io non so se noi ci fareno el bisogno nostro.
CALLIMACOPerché?
LIGURIOChe so io? Tu sai che a questi bagni va d’ogni qualità gente, e potrebbe venirvi uomo a chi madonna Lucrezia piacessi come a te, che fussi ricco più di te, che avessi più grazia di te: in modo che si porta pericolo di non durare questa fatica per altri, e che c’intervenga che la copia de’ concorrenti la faccino più dura, o che, dimesticandosi, la si volga ad un altro e non a te.
CALLIMACOIo conosco che tu di’ el vero. Ma come ho a fare? Che partito ho a pigliare? Dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande, sia periculosa, sia dannosa, sia infame. Meglio è morire che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare el tempo; ma qui non c’è rimedio; e, se io non sono tenuto in speranza da qualche partito, i’ mi morrò in ogni modo; e, veggendo d’avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele, nefando.
LIGURIONon dire così, raffrena cotesto impeto dello animo.
CALLIMACOTu vedi bene che, per raffrenarlo, io mi pasco di simili pensieri. E però è necessario o che noi seguitiamo di mandare costui al bagno, o che noi entriano per qualche altra via, che mi pasca d’una speranza, se non vera, falsa almeno, per la quale io nutrisca un pensiero, che mitighi in parte tanti mia affanni.
LIGURIOTu hai ragione, ed io sono per farlo.
CALLIMACOIo lo credo ancora che io sappia che e pari tuoi vivino di uccellare li uomini. Nondimanco, io non credo essere in quel numero, perché, quando tu el facessi ed io me ne avvedessi, cercherei valermene, e perderesti per ora l’uso della casa mia, e la speranza di avere quello che per lo avvenire t’ho promesso.
LIGURIONon dubitare della fede mia, ché, quando e’ non ci fussi l’utile che io sento e che io spero, e’ c’è che ’l tuo sangue si confà col mio, e desidero che tu adempia questo tuo desiderio presso a quanto tu. Ma lasciamo ir questo. El dottore mi ha commesso che io truovi un medico, e intenda a quale bagno sia bene andare. Io voglio che tu faccia a mio modo, e questo è che tu dica di avere studiato in medicina, e che abbi fatto a Parigi qualche sperienzia: lui è per crederlo facilmente per la semplicità sua, e per essere tu litterato e poterli dire qualche cosa in gramatica.
CALLIMACOA che ci ha a servire cotesto?
LIGURIOServiracci a mandarlo a qual bagno noi vorreno, ed a pigliare qualche altro partito che io ho pensato, che sarà più corto, più certo, più riuscibile che ’l bagno.
CALLIMACOChe di’ tu?
LIGURIODico che, se tu arai animo e se tu confiderai in me, io ti do questa cosa fatta, innanzi che sia domani questa otta. E, quando e’ fussi uomo che non è, da ricercare se tu se’ o non se’ medico, la brevità del tempo, la cosa in sé farà o che non ne ragionerà o che non sarà a tempo a guastarci el disegno, quando bene e’ ne ragionassi.
CALLIMACOTu mi risusciti. Questa è troppa gran promessa, e pascimi di troppa gran speranza. Come farai?
LIGURIOTu el saprai, quando e’ fia tempo; per ora non occorre che io te lo dica, perché el tempo ci mancherà a fare, nonché dire. Tu, vanne in casa, e quivi m’aspetta, ed io andrò a trovare el dottore, e, se io lo conduco a te, andrai seguitando el mio parlare ed accomodandoti a quello.
CALLIMACOCosì farò, ancora che tu mi riempia d’una speranza, che io temo non se ne vadia in fumo.

LICURGO: Nicia è un uomo di cui sai la qualità, non avveduto, pauroso, e parte molto mal volentieri da Firenze. Eppure io l’ho convinto, e infine mi ha detto che farà di tutto per andarsene. Credo che quando noi decidessimo che lui vada, noi lo porteremo via. Ma non so se tutto questo sarà per noi conveniente. CALLIMACO: Perché? LIGURIO: Che ti posso dire? Sai che a questi bagni va una gran quantità di gente e che quindi potrebbe venirci un uomo che a madonna Lucrezia piaccia più di te, che fosse più ricco di te, che avesse più eleganza di te; tanto che noi portiamo avanti questo “pericoloso” progetto per favorire un altro, che intervenga l’abbondanza dei concorrenti che renda il nostro piano più difficile a realizzarsi, e che prendendo amicizia con altra gente lei si rivolga ad un altro e non a te. CALLIMACO: Riconosco che dici la verità. Ma che devo fare? Quale decisione prendere? Dove mi devo rivolgere? Per me è necessario provare qualche cosa, sia pure grande, pericolosa, dannosa o infame. Se io riuscissi a dormire, a mangiare, a parlare con gli amici, se potesse piacermi qualsiasi altra cosa, io sarei disposto ad aspettare con pazienza; ma qui non c’è possibilità di riuscita, e se io non avrò la possibilità di sperare con qualche azione, io morirò, e sapendo che devo morire, non devo avere paura di prendere qualsiasi decisione sia essa violenta, crudele, nefanda. LICURGO: Non dire così, calma questo tuo animo infuocato. CALLIMACO: Vedi bene che per calmarmi io mi nutro di questi pensieri. Dunque è necessario o che noi continuiamo affinché costui va-da ai bagni, o che noi prendiamo qualche altra azione con la quale io possa nutrirmi di una speranza che, se non vera, possa essere anche falsa, che alimenti un pensiero che plachi per un momento questa mia angoscia. LICURGO: Hai ragione e sto per farlo. CALLIMACO: Lo credo, sebbene sappia che la gente come te è nata per prendere in giro gli altri uomini. Tuttavia io credo di non essere tra costoro, perché se lo faresti e me ne accorgessi, mi vendicherei e non potresti più frequentare casa mia né avere quello che ti ho già promesso. LICURGO: Non mettere in dubbio la mia fedeltà e se non ci fosse l’utile che io invece sento e spero, è che il tuo sangue è simile al mio e voglio che il tuo desiderio vada a buon fine quanto te. Ma lasciamo andare queste chiacchiere. Il dottore mi ha affidato il compito di trovargli un medico affinché possa intendere a quale bagno gli convenga andare. Voglio che tu faccia a modo mio e cioè che tu dica di aver studiato medicina e di aver fatto qualche esperienza a Parigi. Lui ci crederà con facilità per il fatto che è stupido e per esser tu letterato e potergli dire qualcosa in latino. CALLIMACO: E questo a cosa ci servirà? LICURGO: Potrà servirci per mandarlo a quel bagno che noi vorremo oppure a pensare a qualche altro piano che ho in mente che sarà più breve, più sicuro, con migliore possibilità di successo dei bagni. CALLIMACO: Che dici? LICURGO: Dico che se tu sarai coraggioso e ti fiderai di me ti offro questo cosa come fatta prima della stessa ora di domani. E quando tu diventassi un uomo che non sei, tale da indagare se tu sei medico o no, la brevità del tempo, il fatto in sé, farà sì che egli non ci penserà o che non avrà il tempo per ripensarci, quando egli ci ragionerà un po’. CALLIMACO: Mi risusciti. Questa è una grande promessa e mi nutre di una grande speranza. Ma come farai? LICURGO: Lo saprai quando sarà il momento; per ora non è necessario che io ti sveli tutto, perché ci mancherà il tempo per fare se lo dedichiamo a dire. Tu vai a casa e aspettami, io andrò a trovare il dottore e se te lo porterò, seguirai il mio ragionamento e ti collegherai ad esso. CALLIMACO: Così farò, sebbene tu mi riempia di una speranza che temo possa andare in fumo.

Sostrata è la madre di Lucrezia. E’ presentata da Machiavelli come una donna dai costumi non irreprensibili. Anche lei avrà parte nell’inganno, con l’intento d’acquisire un nipote.

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Locandina teatrale della Compagnia teatrale Il Castello per la rappresentazione a Perugia dell’opera di Machiavelli

SOSTRATA
(Atto III, scena I e scena X)

SOSTRATAIo ho sempremai sentito dire che gli è ufizio d’un prudente pigliare de’ cattivi partiti el migliore: se, ad avere figliuoli, voi non avete altro rimedio che questo, si vuole pigliarlo, quando e’ non si gravi la coscienzia.
NICIAEgli è così.
LIGURIOVoi ve ne andrete a trovare la vostra figliuola, e messere ed io andreno a trovare fra’ Timoteo, suo confessoro, e narreregli el caso, acciò che non abbiate a dirlo voi: vedrete quello che vi dirà.
SOSTRATACosì sarà fatto. La via vostra è di costà; ed io vo a trovare la Lucrezia, e la merrò a parlare al frate, in ogni modo.
(…)
SOSTRATAIo credo che tu creda, figliuola mia, che io stimi l’onore ed el bene tuo quanto persona del mondo, e che io non ti consiglierei di cosa che non stessi bene. Io ti ho detto e ridicoti, che se fra’ Timoteo ti dice che non ti sia carico di conscienzia, che tu lo faccia sanza pensarvi.
LUCREZIAIo ho sempremai dubitato che la voglia, che messer Nicia ha d’avere figliuoli, non ci facci fare qualche errore; e per questo, sempre che lui mi ha parlato di alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia e sospesa, massime poi che m’intervenne quello che vi sapete, per andare a’ Servi. Ma di tutte le cose, che si son tentate, questa mi pare la più strana, di avere a sottomettere el corpo mio a questo vituperio, ad esser cagione che uno uomo muoia per vituperarmi: perché io non crederrei, se io fussi sola rimasa nel mondo e da me avessi a risurgere l’umana natura, che mi fussi simile partito concesso.
SOSTRATAIo non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi, da chi ti vuole bene.
LUCREZIAIo sudo per la passione.

SOSTRATA: Io ho sempre sentito che un uomo giudizioso prenda tra tutti i cattivi partiti il meno cattivo: se, per avere figli, voi non avete che questo e si deve prendere, quando non vi pesi sulla coscienza. NICIA: E’ così. LIGURIO: Voi andate a trovare vostra figlia, che io e messer Nicia andiamo a trovare fra’ Timoteo, il suo confessore, che gli esporrà il fatto, senza che glielo diciate voi. Sentite cosa vi dirà. SOSTRATA: E così sarà fatto; la vostra via è di là. Io vado a trovare Lucrezia, e la condurrò a parlare col frate, ad ogni modo.
(…)
SOSTRATA: Io credo che tu sappia, figliola, che io stimi il tuo onore più di ogni altra persona al mondo e non ti consiglierei di compiere un’azione peccaminosa. Io ti dico e ti ripeto che se frate Timoteo dice che non c’è peccato, tu debba fare ciò che ti viene richiesto senza pensarci. LUCREZIA: Io ho sempre temuto che la voglia di messer Nicia di avere figli ci faccia compiere qualche sbaglio. E per questo, quando lui mi ha parlato di qualche cosa, io ne sono rimasta sempre sospettosa e preoccupata, soprattutto dopo essere andata al convento de’ Servi, (probabilmente quella di fra’ Timoteo, dove ho subito le inopportune attenzioni di un frate) come sapete. Ma di tutte le cose che si sono tentate (per farmi rimanere incinta) questa mi sembra la più strana, di sottomettere il mio corpo a questa vergogna, ed essere motivo per cui l’uomo dovrà morire dopo avermi svergognato, che io non crederei, fossi pure rimasta l’unica donna sulla terra dalla quale dover far nascere tutto il genere umano, mi sarebbe stato proposto. SOSTRATA: Io non so dire tante cose, figliola. Parlane al frate, vedi quello che ti consiglierà e poi ti comporterai secondo il suo consiglio, il nostro e di tutti quelli che ti vogliono bene. LUCREZIA: Tremo per paura.

Fra Timoteo: personaggio della Chiesa, ma la chiesa così come Machiavelli pensa sia al suo tempo. Egli è cinico, corrotto, dedito ai piaceri e ben si presta, in cambio di denaro, ad ordire l’inganno “immorale” contro l’immorale Nicia, come si vede in questo passo dove piega la logica cattolica ad azioni assolutamente antireligiose.

FRA TIMOTEO
(Atto III, scena XI)

TIMOTEOVoi siate le ben venute! Io so quello che voi volete intendere da me, perché messer Nicia mi ha parlato. Veramente io son stato in su’ libri più di dua ore a studiare questo caso, e dopo molte esamine, io truovo di molte cose che e in particulare e in generale fanno per noi.
LUCREZIAParlate voi da vero o motteggiate?
TIMOTEOAh, madonna Lucrezia! son queste cose da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora?
LUCREZIAPadre, no; ma questa mi pare la più strana cosa che mai si udissi.
TIMOTEOMadonna, io ve lo credo, ma io non voglio che voi diciate più così. E’ sono molte cose che discosto paiano terribile, insopportabile, strane, e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabili, dimestiche; e però si dice che sono maggiori li spaventi ch’e mali: e questa è una di quelle.
LUCREZIADio el voglia!
TIMOTEOIo voglio tornare a quello che io dicevo prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che dove è un bene certo e un male incerto non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio: el male incerto è che colui che iacerà doppo la pozione con voi, si muoia: ma e’ si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibbia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorno con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorno.
LUCREZIAChe cosa mi persuadete voi?
SOSTRATALasciati persuadere, figliuola mia. Non vedi tu che una donna che non ha figliuoli non ha casa? Muorsi el marito, resta com’una bestia, abandonata da ognuno.
TIMOTEOIo vi giuro, madonna, per questo petto sacrato, che tanta conscienzia vi è ottemperare in questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare carne el mercoledì, che è un peccato che se ne va con l’acqua benedetta.
LUCREZIAA che mi conducete voi, padre?
TIMOTEOConducovi a cose che voi sempre arete cagione di pregare Dio per me, e più vi satisfarà questo altro anno che ora.
SOSTRATAElla farà ciò che voi vorrete. Io la voglio mettere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moccicona? E’ c’è cinquanta donne in questa terra che ne alzerebbono le mani al cielo.
LUCREZIAIo sono contenta, ma non credo mai essere viva domattina.
TIMOTEONon dubitare, figliuola mia: io pregherrò Dio per te, io dirò l’orazione dell’agnol Raffaello che t’accompagni. Andate in buona ora, e preparatevi a questo misterio, ché si fa sera.
SOSTRATARimanete in pace, padre.
LUCREZIADio m’aiuti e la Nostra Donna, che io non capiti male!

TIMOTEO: Siate le benvenute! So cosa volete da me, perché ho già parlato con messer Nicia. A dire il vero io sono stato due giorni interi a studiare questo caso, e dopo molte verifiche ho trovato molti argomenti sia in particolare che in generale che ben si adattano al vostro caso. LUCREZIA: Dite veramente o scherzate? TIMOTEO: Ah, madonna Lucrezia! Sono queste cosa su cui scherzare? Mi conoscete solo da ora? LUCREZIA: No, padre. Ma questa è la cosa più strana che mai si è udita sinora. TIMOTEO: Madonna ve lo concedo. Ma io non voglio che voi diciate più così. Ci sono molte cose che, viste da lontano ci sembrano terribili, insopportabili, strane, e quando ci si avvicina risultano normali, sopportabili, quotidiane; per questo si dice che sono maggiori gli spaventi delle cose malvagie che li procurano: il vostro caso è uno di quelli. LUCREZIA: Dio lo voglia! TIMOTEO: Voglio riprendere da dove mi son fermato. Voi dovete, riguardo alla coscienza, prendere questa regola generale, che dove c’è un bene sicuro ed un male insicuro, non bisogna lasciare il primo per paura del secondo. Qui c’è un bene certo, ed è che voi rimarrete incinta e acquisterete un’anima a Dio; il male incerto è che colui che giacerà con voi, dopo debba morire; ma ci sono anche coloro che non muoiono. Tuttavia la cosa è incerta: per questo non è bene che messer Nicia corra il pericolo. Quanto all’atto, che questo costituisca peccato, è una bugia. E’ la volontà che pecca, non il corpo; e il motivo del peccato sta nel dispiacere al marito mentre voi lo compiacete; nel provare piacere, mentre voi ne provate dispiacere: Oltre a tutto questo bisogna osservare il fine di tutto questo: il vostro fine è quello di riempire una sedia in Paradiso e far contento vostro marito. Dice la Bibbia che le figlie di Lot, pensando d’essere sole al mondo, giacquero con padre e poiché la loro intenzione fu buona, non peccarono. LUCREZIA: Di che cosa mi state convincendo? SOSTRATA: Convinciti, figlia mia. Non vedi che una donna senza figli non ha una casa? Muore il marito e resta come un animale, abbandonata da tutti. TIMOTEO: Io vi giuro, per questo petto consacrato, che tanto peccato vi è nell’obbedire in questo caso a vostro marito, quanto mangiare la carne il mercoledì, peccato che se ne va bagnandosi con l’acqua benedetta. LUCREZIA: Dove mi portate, padre? TIMOTEO: Vi porto a cose che una volta fatte avrete sempre ragione di pregare Dio per me, e questo accadrà l’anno venturo più che questo. SOSTRATA: Lei farà ciò che vorrete. La metterò io a letto stanotte. Di cosa hai paura, bambinona? Ci sono perlomeno cinquanta donne qui in giro che al posto tuo alzerebbero le mani al cielo per ringraziare il Signore! LUCREZIA: Lo farò, ma non so se arriverò a domani viva nell’anima. TIMOTEO: Non dubitare, figlia mia. Pregherò Dio per te, farò un’invocazione all’angelo Raffaele, perché ti guidi. Andate ora e preparatevi a questo mistero, che si fa tardi.

Lucrezia giovane donna virtuosa, che non ama il marito, ma gli è fedele. Donna che non conosce le gioie dell’amore, vittima delle trame della madre e del frate, alla fine cede. E scoperta la felicità dell’amore, contro la dabbenaggine del marito, sceglie Callimaco come amante.

L’ULTIMA SCENA
(ATTO IV, scena VI) 

TIMOTEOIo vengo fuora perché Callimaco e Ligurio m’hanno detto che el dottore e le donne vengono alla chiesa.
NICIABona dies, padre!
TIMOTEOVoi siate le benvenute, e buon pro vi faccia, madonna, che Dio vi dia a fare un bello figliuolo maschio!
LUCREZIADio el voglia!
TIMOTEOE’ lo vorrà in ogni modo.
NICIAVeggh’io in chiesa Ligurio e maestro Callimaco?
TIMOTEOMesser sì.
NICIAAccennateli.
TIMOTEOVenite!
CALLIMACODio vi salvi!
NICIAMaestro, toccate la mano qui alla donna mia.
CALLIMACOVolentieri.
NICIALucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi areno un bastone che sostenga la nostra vecchiezza.
LUCREZIAIo l’ho molto caro, e vuolsi che sia nostro compare.
NICIAOr benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio venghino stamani a desinare con esso noi.
LUCREZIAIn ogni modo.
NICIAE vo’ dare loro la chiave della camera terrena d’in sulla loggia, perché possino tornarsi quivi a lor commodità, ché non hanno donne in casa e stanno come bestie.
CALLIMACOIo l’accetto, per usarla quando mi acaggia.
TIMOTEOIo ho avere e danari per la limosina?
NICIABen sapete come, domine, oggi vi si manderanno.
LIGURIODi Siro non è uomo che si ricordi?
NICIAChiegga, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossi hai a dare al frate per entrare in santo?
LUCREZIADategliene dieci.
NICIAAffogaggine!
TIMOTEOVoi, madonna Sostrata, avete, secondo mi pare, messo un tallo in sul vecchio.
SOSTRATAChi non sarebbe allegra?
TIMOTEOAndianne tutti in chiesa, e quivi direno l’orazione ordinaria; dipoi doppo l’uficio ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciàno più fuora: l’uficio è lungo, e io mi rimarrò in chiesa, e loro per l’uscio del fianco se ne andranno a casa. Valète!

TIMOTEO: Esco fuori perché Callimaco e Ligurio mi hanno detto che il dottore e le donne stanno venendo in chiesa. NICIA: Buon giorno, padre. TIMOTEO: Voi siate le benvenute, buon pro vi faccia!, signora, e che Dio vi doni un bel figlio maschio! LUCREZIA: Dio lo voglia. TIMOTEO: Certamente lo vorrà. NICIA: Vedo in chiesa Ligurio e il maestro Callimaco? TIMOTEO: Si signore. NICIA: Chiamateli. TIMOTEO: Venite. CALLIMACO: Dio vi salvi. NICIA: Maestro, prendete la mano di mia moglie. CALLIMACO: Volentieri. NICIA: Lucrezia, questo è colui che ci darà un bastone per la nostra vecchiaia. LUCREZIA: L’ho molto caro, e vorrei fosse nostro compare. NICIA: Benedetta sia tu. Voglio che lui e Ligurio vengano a mangiare da noi oggi. LUCREZIA: Certamente. NICIA: E voglio dar loro le chiavi di una camera al pianterreno sulla loggia, affinché possano tornare qui, a loro comodo, perché non hanno donne in casa e stanno come animali. L’accetto, per usarla quando mi capita. TIMOTEO: Devo avere denari per l’elemosina? NICIA: Già sapete, signore, che oggi li riceverete. LIGURIO: Di Siro non c’è nessuno che si ricordi? NICIA: Chieda, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti denari hai da dare al frate per andare in Santo (espressione con la quale si indicava alle puerpere l’entrare in chiesa per il futuro battesimo del nascituro)? LUCREZIA: Dagliene dieci. NICIA: Accidenti! TIMOTEO: Voi, madonna Sostrata, sembrate ringiovanita! SOSTRATA: Chi non sarebbe felice oggi? TIMOTEO: Andiamo tutti in chiesa, e qui diremo la preghiera quotidiana. Poi dopo l’ufficio, andrete a casa vostra. Voi spettatori non aspettateci più fuori. L’ufficio è lungo ed io rimarrò dentro, mentre loro usciranno di lato e andranno a casa. State bene!

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Costumi per la Mandragola

Da quanto abbiamo detto è chiaro che la Mandragola non è solo una parentesi piacevole di Machiavelli tra le opere politiche e storiche. Essa ci mostra il profondo pessimismo dello scrittore fiorentino sull’uomo. Quest’ultimo è mosso da un estirpabile egoismo (egoisti sono tutti i personaggi della commedia), ma al contempo Machiavelli riesce anche a disegnare l’ottimismo della volontà ed un vitalismo (elementi che deve possedere un principe) per ottenere un obiettivo. Per questo la commedia dello scrittore fiorentino è stata letta come la trasposizione letteraria del suo trattato politico.

RINASCIMENTO

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Heinrich Petri, Sebastian Münster, “Italia”, 1538

I termini Umanesimo e Rinascimento trovano a livello critico letterario una difficile determinazione in quanto gli elementi emersi durante il secolo XV trovano la piena affermazione nella prima metà del Cinquecento.
Più semplice, a veder bene, è tale demarcazione se dovessimo soffermarci solamente sugli avvenimenti storici, infatti la scoperta dell’America del 1492, la fine della libertà italiana e la lotta per il predominio in Europa tra Francia e Spagna (con la conseguente cancellazione di ogni idea imperiale), la riforma protestante (la perdita della centralità politico e culturale della chiesa) segnano quella che gli storici indicano come “età moderna”.

Per limitarci al nostro paese, che, è bene ricordarlo, continua ad essere egemone e punto di riferimento per gli intellettuali europei,  con il termine Rinascimento s’intende quel periodo storico-culturale compreso tra il 1494 ed il 1559, caratterizzato a livello politico dalla perdita dell’indipendenza degli Stati della nostra penisola e a livello artistico con il fiorire di tutte le arti verso vette che saranno in seguito difficilmente raggiungibili. Storicamente la politica dell’equilibrio fra i vari Stati italiani, perseguita da Lorenzo il Magnifico, se da una parte garantì una cinquantina di anni di pace nella nostra penisola, dall’altra la cristallizzò su formule che ormai apparivano superate nel resto d’Europa. Infatti la Francia, la Spagna e l’Inghilterra si evolvevano verso forme di vere e proprie entità nazionali, mentre, come già detto, la politica d’equilibrio negava a qualsiasi stato italiano un allargamento tale da potersi contrapporre alle conquiste “nazionali” del resto d’Europa. Ciò determinò, sin dal 1494, un’invasione nei nostri territori da parte dapprima di Carlo VIII; in seguito, nel 1499, da Luigi XII, ambedue re francesi. La facilità con la quale i due sovrani percorsero l’Italia, convinse la Spagna ad intervenire anch’essa, determinando un cinquantennio di guerre fra il paese transalpino e quello iberico che devastarono e procurarono una profonda ferita nei territori italiani.File:Francesco granacci, entrata di Carlo VIII a Firenze.jpg - Wikipedia

Francesco Granacci, Entrata di Carlo VIII a Firenze (1494)

Veri e propri protagonisti della storia cinquecentesca furono soprattutto i paesi della penisola iberica, Spagna e Portogallo, che ormai strutturatisi come veri e propri stati sovrani, poterono raccogliere ingenti capitali per finanziare le imprese coloniali che lasciarono l’America del centro-sud in mano agli spagnoli (ad eccezione del Brasile, portoghese). Ma il vero sovrano che sotto il suo scettro guidò quasi l’intera Europa fu Carlo V. Erede per parte di madre della Spagna e dei suoi relativi possessi (Sardegna, Sicilia, regno di Napoli e i territori americani), per linea paterna ereditò tutti i possedimenti asburgici. Nemico di Carlo V, perché accerchiato da tanta potenza, fu il francese Francesco I, che tuttavia non riuscì a scardinare la forza dell’imperatore ispano-asburgico. Vinse l’imperatore e la guerra si concluse soltanto nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che sancì, infine, il predominio spagnolo nella penisola. Persero così l’indipendenza il Regno di Napoli e il Ducato di Milano che dapprima in mano francese finirono sotto il dominio spagnolo. Altri Stati conservarono la loro libertà, ma la pagarono a caro prezzo limitando la loro autonomia politica fin dove i due contendenti maggiori potevano permetterlo. Anche lo Stato della Chiesa, dopo aver cercato di “barcamenarsi” fra i due rivali, dovette capitolare al predominio spagnolo (ci piace ricordare qui il cosiddetto sacco di Roma del 1527 – a memoria di quello di Alarico e Genserico – compiuto dai lanzinecchi, soldati asburgici, che misero a ferro e a fuoco la città, mentre il papa, impotente, guardava le ferite inferte nella capitale della sacralità da una finestra di Castel Sant’Angelo). La stessa Repubblica di Venezia cessò le sue velleità espansionistiche e si limitò a controllare il proprio territorio, anche a causa dell’avanzata turca, che dopo aver debellato l’Impero d’Oriente (1473), minacciava l’Europa cristiana, cancellando le “stazioni” commerciali nel Baltico, fonte di lauti guadagni per la città lagunare. Tutto questo denota la perdita di centralità dell’Italia all’interno della politica europea, avvenuta soprattutto per due fatti fondamentali: la scoperta dell’America (1492) che sposta l’asse del commercio europeo dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico e la riforma protestante, promossa dal teologo tedesco Martin Lutero, (1517) che tolse al Papato il controllo ed i tributi di larghe fasce di credenti.

Tiziano, l'imperatore Carlo V a Mühlberg > ArtesplorandoTiziano: Ritratto di Carlo V d’Asburgo

La cultura rinascimentale

Culturalmente la situazione su descritta non determinò un indebolimento della tradizione italiana come la più importante dell’Europa; anzi, se così si può dire, i nostri intellettuali diedero vita ad una stagione prodigiosa che a livello artistico portò a risultati eccezionali: se nel ‘400 Leonardo aveva posto la figura al centro della natura, ma tuttavia armonicamente inserita in essa, come nella Gioconda, Michelangelo con il Giudizio Universale ed il David e Raffaello mostrano in tutta evidenza la tensione dell’uomo verso la ricerca della perfezione; negli affreschi e nei marmi del primo, tutti gli arti mostrano la tensione nervosa, la lotta del soggetto per affermare se stesso; nella Scuola di Atene raffaellesca, la tensione intellettuale di Leonardo e quella morale di Michelangelo si fondono in un tutt’uno di maggiore spiritualità, che pone l’uomo al centro della creazione divina e l’orgoglio dello stesso per questa centralità.

Sul piano letterario si evince, al di là degli esiti straordinari che in questa età verranno raggiunti, l’esigenza di contrapporre una certezza, che potesse in qualche modo contrapporsi al disordine della storia: nasce cioè la trattatistica che spiega il modo di scrivere o di governare in cui l’uomo del Rinascimento deve riconoscersi.

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Tiziano: Ritratto di Pietro Bembo (1539)

Per primo non sembra inopportuno richiamarsi al veneziano Pietro Bembo autore delle Prose della vulgar lingua. Nato nella città lagunare nel 1470 apprese, come gran parte degli intellettuali d’allora, in modo approfondito la cultura classica, ma, cosa rivoluzionaria per il suo tempo, curò l’edizione filologica dei classici italiani, Dante e Petrarca per le prestigiose edizioni a stampa di Manuzio. Si affaccia nella letteratura con il prosimetro sull’amore di stampo neoplatonico: gli Asolani.

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Pietro Bembo: Gli Asolani, dedicati a Lucrezia Borgia (edizione conservata in Francia)

Alla ricerca di una sistemazione all’interno di una corte signorile dove poter proseguire gli studi, abbandonata Venezia, si recò dapprima ad Urbino, dove rimase dal 1506 al 1512, per trasferirsi in seguito a Roma, dove divenne segretario del papa Leone X. Nonostante il suo esercizio all’interno dello Stato ecclesiastico lo facesse un intellettuale votato al latino, non tralasciò l’esercizio dell’uso del volgare pubblicando il suo capolavoro nel 1525 e, dopo cinque anni, la seconda edizione degli Asolani e le fondamentali Rime, che aprirono la via alla lirica petrarchesca. Divenuto cardinale nel 1539, onusto di gloria letteraria, si riconciliò con la sua patria e divenne storiografo ufficiale della Repubblica veneta. Muore a Roma nel 1547.

Il lavoro più importante di Bembo è costituito dalle Prose della volgar lingua del 1525, trattato a forma di dialogo – com’era uso nella filosofia classica – nel quale s’incontrano Carlo Bembo, fratello e portavoce delle tesi di Pietro Bembo, basate sul principio dell’imitazione dei grandi trecentisti, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa; Giuliano de’ Medici, nell’epoca in cui è ambientato il dialogo, duca di Nembours, che si fa portavoce della teoria del fiorentino allora in uso; Federigo Fregoso, umanista e futuro cardinale, che vede nell’intera tradizione volgare un modello da seguire ed infine Ercole Strozzi, umanista che propone l’uso del latino.

LA SUPREMAZIA DEL FIORENTINO SUGLI ALTRI VOLGARI 
(I,15)

«E’ adunque la fiorentina lingua» disse lo Strozza «più gentile e più vaga, messer Carlo, della vostra?»
«E’ senza dubbio alcuno», rispose egli «né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua più tosto che in questa dettando e commentando».
«Ma perché è», rispose lo Strozza «che quella lingua più gentile sia che la vostra?»
Allora disse mio fratello: «Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose; perciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, più dolce, più vago, più ispedito, più vivo; né elle tronche si vede che sieno e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. Oltre a questo, hanno il loro cominciamento più proprio, hanno il mezzo più ordinato, hanno più soave e più dilicato il fine, né sono così sciolte, così languide; alle regole hanno più risguardo, a’ tempi, a’ numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure che non usiam noi, le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de’ quali più in pregio è stato a’ suoi tempi, o pure a’ nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura, le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le Giustiniane . E se il Cosmico è stato letto già, e ora si legge, è forse perciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s’è egli dal suo natìo parlare più che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori, istimo essere avenuto perciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando, e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco disiderare si può più oltra, massimamente veggendosi quello, che non è meno che altro da disiderare che vi sia, e ciò è che allei copia e ampiezza non mancano. La qual cosa scorgere si può per questo, che ella, e alle quantunque alte e gravi materie dà bastevolmente voci che le spongono, niente meno che si dia la latina, e alle basse e leggiere altresì; a’ quali due stremi quando si sodisfà, non è da dubitare che al mezzano stato si manchi. Anzi alcuna volta eziandio piú abondevole si potrebbe per aventura dire che ella fosse. Perciò che rivolgendo ogni cosa, con qual voce i latini dicano quello che da’ toscani molto usatamente valore è detto, non troverete. E perciò che tanto sono le lingue belle e buone più e meno l’una dell’altra, quanto elle più o meno hanno illustri e onorati scrittori, sicuramente dire si può, messer Ercole, la fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l’altre volgari, che a nostro conoscimento pervengono, di gran lunga primiera».

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Edizione delle “Prose della vulgar lingua” pubblicata a Napoli nel 1714

«E’ dunque il fiorentino», disse Ercole Strozzi (scrittore esclusivamente latino), più gentile e più elegante, signor Carlo  (Bembo, fratello e qui portavoce delle idee di Pietro) del vostro veneziano?»
«Certamente», gli rispose «e non esiterò a confessarvi quello che mio fratello Pietro ha confessato a tutti, scegliendo di scrivere in fiorentino piuttosto che in veneziano».
«Ma perché», riprese Strozzi, «quella lingua è più gentile della vostra?».
Allora disse mio fratello: «Signor Ercole, si potrebbero addurre molti argomenti, dal momento che, principalmente, si vede che le parole toscane hanno un miglior suono rispetto alle veneziane, più dolce, più leggiadro, più sciolto, più vivace; né nel toscano mancano i troncamenti delle sillabe finali, fenomeno invece assai frequente nel veneziano insieme all’uso di consonanti non raddoppiate. Oltre a questo hanno le sillabe inizianti delle parole derivanti da quelle latine, le sillabe centrali poste in modo armonioso e la stessa fine (della parola) più dolce e delicata, né sono così allentate, né così languide. Hanno maggior rispetto della morfologia, rispetto al tempo (verbale), al singolare e al plurale, agli articoli e al maschile e al femminile. I toscani usano molti modi di dire, pieni di avvedutezza, molto gradevoli e piene di ornamenti (stilistici) che noi non abbiamo e non occorre notare quanto simili abbellimenti contribuiscano ad adornare la lingua. Ma non voglio dire altro se non questo: che non c’è alcun scrittore di prosa che venga letto e che sia conosciuto, di versi, senza dubbio, molto pochi; uno dei quali è stato più apprezzato ai suoi tempi ed anche ai nostri, per la musica, più che per la lingua usata, le cui canzoni, dal suo nome sono dette e ancora si dicono Giustiniane. E se (il poeta padovano) Cosmico è stato letto e lo è ancora e forse determinato dal fatto che egli non ha scritto in veneziano, anzi egli si è decisamente, scrivendo, allontanato dalla lingua natia. La mancanza o la povertà di scrittori credo dipenda dal fatto che la lingua parlata nei discorsi o nei ragionamenti dal popolo non rende trasportata tale e quale nella pagina scritta e non si può derivarla dagli scritti, mancando del tutto scrittori degni e accettabili, come già detto. Al contrario la toscana è nell’uso piacevole e si legge nelle scritture in modo grammaticalmente corretto; questo perché essa, modellata dall’uso che ne fecero nel tempo molti scrittori, si presenta ora regolare ed armonica, tanto che oggi non si potrebbe quasi desiderare di più; e questo soprattutto osservando l’abbondanza di vocaboli propria del toscano e la loro ampiezza di significato, la qual cosa è importante non meno di altre. Questo si può vedere da ciò, che il toscano sebbene possieda sufficienti vocaboli per esprimere cose profonde e importanti non meno del latino, possiede anche sufficienti voci per le cose superficiali e meno serie, e se è capace di rendere con completezza questi due estremi saprà dare, senza manchevolezza, voce alle cose che si trovano a metà tra le due. Anzi, talvolta può persino possedere più varietà di espressione del latino, infatti ricercando accuratamente in latino ciò che in toscano è il significato di valore non lo troverete. Dal momento che le lingue sono belle ed efficaci (da utilizzare) tanto più esse hanno più o meno scrittori illustri e pieni d’onore, certamente si può dire, signor Ercole, che la lingua fiorentina è di gran lunga la principale non dico solamente del veneziano, che senza alcuna discussione la precede, ma anche di tutti gli altri volgari che conosciamo.      

Il passo su riportato appartiene ad un dibattito, piuttosto acceso all’inizio del Cinquecento, sulla lingua letteraria da utilizzare nelle opere. E’ evidente che tale questione nasce alla luce dell’allargamento della produzione letteraria e la necessità di trovare una lingua comune che permetta una lettura che vada al di là del municipio, come avveniva nel Trecento, ma anche ancora nell’Umanesimo, se il problema non si era posto nel ‘400, dove l’opera forse più rappresentativa del secolo, l’Orlando innamorato, nata al di fuori delle mura toscane, è pieno di idiotismi vernacolari.

Il Bembo s’inserisce nel dibattito, confutando la teoria di altri notevoli intellettuali, fra i quali ricordiamo il Castiglione che proponeva l’uso della lingua di Roma, perché proprio nella città del papa convergevano le più alte intellettualità, pertanto la mediazione tra di esse avrebbe fornito l’exemplum princeps linguistico. 

Per Bembo una lingua, per essere valida, non deve essere parlata, ma deve possedere una tradizione letteraria, l’unica che, in quanto scritta, possiede una grammatica studiabile e quindi riproponibile, fornendo un modello a cui tutti possono attingere. 

PETRARCA E BOCCACCIO OTTIMI MODELLI
(II,2; 9)

(…) Vennero appresso a Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino, vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguì a costoro il Petrarca, nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte. Furono altresì molti prosatori tra quelli tempi, de’ quali tutti Giovan Villani, che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno Pietro Crescenzo bolognese, di costui più antico, a nome del quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrissero in prosa, sì come fu Guido Giudice di Messina, e Dante istesso e degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui più lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresì molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell’una facultà e nell’altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar più oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto. Il che senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl’indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai l’antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa lingua, la quale a comperazione di quella di poco nata dire si può, così tosto si debba essere fermata, per non ir più innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, sì come nelle raccontate cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale lingua scrivere più convenevolmente si può e più agevolmente, che con quella con la quale ragioniamo?
(…)
Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti, ancora per questa via: che perciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza; e le cose poi, che empiono e compiono queste due parti, son tre, il suono, il numero, la variazione, dico che di queste tre cose aver si dee risguardo partitamente, ciascuna delle quali all’una e all’altra giova delle due primiere che io dissi. E affine che voi meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro è di questa maniera. Perciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo ‘ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sí come aviene delle composizioni di messer Cino e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già tuttavolta, che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli, alcun’altra non se ne legga scritta gravemente, ma dico per la gran parte. Sí come se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo piú, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l’una e l’altra di queste parti empié maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli fosse maggior maestro.

Dopo Dante, ed alcuni insieme a lui, ma gli sopravvissero, ci furono Cino da Pistoia, poeta piacevole e gentile e soprattutto poeta d’amore e dal verso armonioso, ma, in vero, molto inferiore per capacità di spirito (a Dante) e Dino Frescobaldi, allora al tempo di Dante poeta molto famoso e Iacopo Alighieri , figlio di Dante, di molto inferiore e famoso del padre. Dopo di loro venne Petrarca, nella cui poesia si scorgono tutta la bellezza della precedente. Ci furono, inoltre molti prosatori in quei tempi, tra cui Giovanni Villani, che visse al tempo di Dante e scrisse la storia di Firenze, che non è da disprezzare, e lo è ancor meno il bolognese Pietro Crescenzo, antecedente al VIllani, che portò in toscano (dal latino) un trattato sui bisogni della campagna (attribuzione errata da parte di Bembo) che ancora si leggono. Ci sono poi autori che scrissero in versi ed in prosa, tra cui Guido delle Colonne, giudice di Messina, Dante stesso ed altri. Ma tutti furono vinti e superati da Giovanni Boccaccio e questo da se stesso; in quanto tra le molte composizioni, furono migliori quelle che scrisse nella maturità. Lo stesso Boccaccio, sebbene avesse scritto molte opere in versi, si sa palesemente quanto sia votato per la prosa. Tuttavia si vede che il rapido progresso della lingua condusse a Petrarca e a Boccaccio e poi si arrestò, in quanto dopo di loro non si è visto nessuno che li abbia superati e neppure raggiunti, il che è avvenuto per la vergogna del nostro secolo, che ha visto il progresso della lingua latina ritornata ormai all’antico splendore, non è ragionevole pensare che la lingua volgare, tanto più giovane di quella, debba essersi fermata, così da non poter progredire. Perciò cerco di spronare agli scrittori di adesso, di comporre le loro opere in volgare, dal momento che è la nostra lingua, così come si è detto precedentemente nel primo libro. Per cui con quale più conveniente si può scrivere se non nella lingua nella quale svolgiamo i nostri ragionamenti?
(…)
Ma in qualunque modo stiano le cose, venendo al punto, dico che bisognerebbe considerare se un componimento  sia meritevole o meno di un plauso, secondo criteri estetici, dal momento che sono due i criteri che rendono bella ogni tipo di scritto, la compostezza e la piacevolezza, e le cose che queste due contengono sono tre: il suono, il numero e la variazione; affermo che di queste ultime tre bisogna parlare separatamente poiché ciascuna di esse giova alle prime due ricordate prima. E affinché voi conosciate in modo migliore le due parti, come sono diverse tra loro, sotto la compostezza metto l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza e la grandezza e tutto ciò che somiglia loro; sotto la piacevolezza metto la grazia, la leggerezza, la bellezza, la dolcezza, gli scherzi ed i giochi e ciò che a questa può apparentarsi. Per cui può capitare che una composizione sia piacevole e non grave e viceversa, così come avviene in quelle di Cino da Pistoia che sono piacevoli ma non gravi o di Dante che sono sostenute ma non piacevoli. Non voglio dire che non esistono poesie in cui se via piacevolezza non vi sia gravità e viceversa, ma dico che la maggior parte di esse appartengono o all’una o all’altra cosa. Come se io dicessi altresì che in alcune parti delle loro composizioni non trovassi né gravità né piacevolezza, lo direi perché per la maggior parte son così e non perché in esse manchi la parola grave o piacevole. In questa stessa cosa operò perfettamente il Petrarca in maniera che non si può scegliere dove operi meglio, se in gravità o in piacevolezza, perché seppe operare splendidamente in ambedue. 

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Medaglione con il ritratto di Pietro Bembo

La pagina bembiana ci offre un chiaro esempio di quello che si suol definire il “classicismo rinascimentale”. Cominciamo col dire che la capacità critica bembiana si concentra soprattutto sul fatto stilistico e non contenutistico. Il Boccaccio, infatti, sembra aver portato alle estreme conseguenze l’iter cronologico della lingua toscana, pervenendo con essa, a livello prosastico, alla maggiore perfezione sino allora possibile per la lingua volgare; il Petrarca per la poesia raggiunge l’armonia (termine chiave per l’intera cultura rinascimentale) tra la sublimità del testo e l’euritmia che lo sottende: tale capacità va valutata esteticamente, oserei dire, formalmente. Aspetti fonici, ritmici, quantitativi, la variatio per evitare la monotonia sono elementi fondamentali con i quali giudicare l’opera d’arte.

Ma tali modelli sono soprattutto importanti perché, in quanto formali, sono replicabili: il classicismo rinascimentale si basa sulla capacità non solo di emulare ma di eguagliare i grandi classici e questo avviene linguisticamente. Il ‘400 aveva riportato a dignità letteraria il latino, togliendogli di dosso le scorie spurie del latino medievale; si trattava ora di portare alla stessa dignità il volgare. Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa avevano posto un termine dal quale ripartire, ricorrendo alla loro capacità estetica, per produrre opere dall’alto valore culturale. 

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Cranach il Giovane: ritratto di Pietro Bembo 

Lo stesso Bembo mise in pratica la sua concezione poetica da lui elaborata nelle Prose pubblicando le Rime (1535), testo di un’importanza fondamentale per l’affermazione del petrarchismo europeo. Portiamo ad esempio il sonetto proemiale: 

PIANSI E CANTAI LO STRATIO
(I)

Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra,
ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni,
et la cagion di così lunghi affanni,
cose prima non mai vedute in terra.

Dive, per cui s’apre Helicona et serra,
use far a la morte illustri inganni,
date a lo stil, che nacque de’ miei danni,
viver quand’io sarò spento e sotterra.

Ché potranno talhor gli amanti accorti,
queste rime leggendo, al van desio
ritoglier l’alme col mio duro exempio;

et quella strada, ch’a buon fine porti,
scorger da l’altre, et quanto adorar Dio
solo si dee nel mondo, ch’è suo tempio.

Piansi e cantai il dolore e la dura battaglia (d’amore) che dovetti affrontare per moltissimi anni ed il motivo di così prolungati tormenti, cose prima mai viste sulla terra. // Dee, per le quali si apre e si chiude la fonte dell’Elicona, abituate a tessere illustri inganni alla morte, date al mio stile, che è nato dal mio dolore, la possibilità di vivere, anche quando sarò morto. // Perché potranno talvolta gli amanti avveduti, leggendo queste rime, grazie al mio doloroso esempio, sottrarre le (loro) anime all’irraggiungibile desiderio // e vedere tra le altre strade quella che conduce al buon fine e quanto si deve adorare solamente Dio nel mondo, che è il suo tempio. 

Il tema è quello del ricordo doloroso d’amore (Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra, / ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni), e nell’incipit del poeta troviamo il richiamo lessicale petrarchesco (piango e ragiono); così come lo troviamo nell’ultimo verso (solo si dee nel mondo contro quanto piace al mondo). Ma se l’uso delle parole è fortemente debitore dell’autore aretino, ben diverso è il fine dell’opera: in Voi ch’ascoltate di rime sparse tutto è svolto in interiore hominis in cui si sottolinea la vacuità del desiderio e la vergogna verso se stessi; qui invece tutto si svolge in modo esterno da se stessi, sia quando invoca le Muse per rendere la sua poesia imperitura sia quando la sua poesia diventa avvertimento per gli amanti affinché sappiano scegliere la via verso il Signore. 

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Raffaello Sanzio: Ritratto di Baldassare Castiglione (1515)

Altro grande intellettuale rinascimentale, che si muove sempre all’interno della trattatistica e che nel suo libro fondamentale per la cultura dell’epoca tratta temi, potremmo dire, di carattere morale, è Baldassarre Castiglione. Egli nasce nel 1478 da una famiglia nobiliare imparentata con i Gonzaga di Mantova in un paese vicino alla città lombarda. Approfondisce gli studi classici a Milano. Poi dal 1499 dapprima nella signoria natia e quindi ad Urbino presso il duca di Montefeltro, a cui succede Francesco della Rovere, nipote del papa Giulio II, si dà alla vita cortigiana, svolgendo per i signori attività diplomatiche presso i re di Francia e d’Inghilterra. Nel 1513 con l’elezione al soglio papale di Leone X (1513) si trasferisce a Roma, come ambasciatore del Della Rovere, ma alla sua deposizione voluta da papa ed il ritorno di quest’ultimo a Mantova, il Castiglione lo segue. Qui, dopo aver rotto i rapporti con il suo signore, si riavvicina ai Gonzaga che lo rimandano a Roma presso Clemente VII, papa dal 1523. Mandato a Madrid per intessere relazioni con l’Impero Spagnolo, fu accusato di non aver saputo cogliere l’intenzione di Carlo d’Asburgo di mettere a fuoco la città di Roma (sacco di Roma, 1527). Caduto in disgrazia si trattenne in Spagna, morendo a Toledo nel 1529.

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Tiziano: Francesco Maria della Rovere

Il capolavoro del Castiglione è Il Cortegiano pubblicato l’anno precedente la morte. E’ un dialogo, secondo la trattatistica classica ed umanista, ma qui, composto in forma nuova: infatti non vi è un personaggio che fa la parte di colui che tenta di convincere gli altri interlocutori e che di solito è il portatore della visione dell’autore, ma tutti i dialoganti cooperano nella descrizione dei compiti del perfetto cortigiano.

L’opera, nella quale s’immagina il dialogo nella corte d’Urbino nel 1506, è divisa in quattro libri:

  1. Ludovico di Canossa delinea l’aspetto fisico e morale e, nell’ambito dell’affettazione, affronta il problema della lingua;
  2. Federigo Fregoso affronta i modi in cui le qualità del cortigiano debbano realizzarsi, ispirandosi al concetto di “onore” e “lode”. Quindi il Bibbiena parla delle facezie (motti arguti, amenità) da esplicarsi all’interno della corte;
  3. Giuliano de’ Medici parla della “cortigiana” difendendola dalle accuse misogene in cui era avvolta;
  4. Ottaviano Fregoso illustra quali debbono essere i rapporti tra principe e cortegiano, mente Pietro Bembo sviluppa il tema dell’amore platonico. 

NOBILTA’ E CORTIGIANERIA
(I, XIV)

«Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa famiglia; perché molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se desvia dal camino dei sui antecessori, macula il nome della famiglia e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa veder l’opere bone e le male ed accende e sprona alla virtú cosí col timor d’infamia, come ancor con la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobiltà l’opere degli ignobili, essi mancano dello stimulo e del timore di quella infamia, né par loro d’esser obligati passar più avanti di quello che fatto abbiano i sui antecessori; ed ai nobili par biasimo non giunger almeno al termine da’ sui primi mostratogli. Però intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omini piú segnalati sono nobili perché la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da esso deriva ed a sé lo fa simile; come non solamente vedemo nelle razze de’ cavalli e d’altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s’assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore. E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi sempre son simili a quelli d’onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano. Vero è che, o sia per favor delle stelle, o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia ed ornati de tutti i beni dell’animo e del corpo; sí come ancor molti si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio produtti gli abbia al mondo. Questi sí come per assidua diligenzia e bona crianza poco frutto per lo piú delle volte posson fare, cosí quegli altri con poca fatica vengon in colmo di summa eccellenzia. E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’imparare; medesimamente, nel conversare con omini e con donne d’ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e cosí graziosi costumi, che forza è che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccellente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i diffetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel tale esser degno del commerzio e grazia d’ogni gran signore».

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Banchetto rinascimentale all’aperto

«Voglio dunque che questo nostro cortigiano sia di discendenza nobiliare e di famiglia onorata; perché un comportamento non ispirato alla virtù è più facilmente tollerato in una persona di basso stato sociale che non in un nobile, che se si allontana dal cammino dei suoi antenati, macchia il nome della famiglia e solamente non acquista (in lode), ma perde quello che aveva ottenuto; perché la nobiltà è come una luce che rende manifeste e fa vedere le cose buone e quelle cattive e fa da sprone alla virtù, sia con il timore d’infamia quanto con la speranza di lode. Questa luce, non splendendo nelle opere delle persone comuni, viene loro meno lo stimolo ed il timore d’infami, né per essi è d’obbligo superare le condizioni dei loro antenati, mentre ai nobili parrebbe vergognoso non raggiungere almeno il livello (di fama, virtù ed onore) raggiunto dai loro predecessori. Per questo accade sempre che nelle armi e nelle altre azioni virtuose gli uomini più in vista sono nobili, perché la natura ha posto in ogni seme una forza o proprietà nascosta che tutto ciò che da esso proviene lo fa simile, così come vediamo nelle razze dei cavalli e di altri animali, ma anche negli alberi, i cui germogli hanno lo stesso tipo di tronco e se qualche volta degenerano è colpa di chi ha seminato. Lo stesso accade agli uomini che se sono cresciuti con buoni costumi, quasi sempre somigliano alla famiglia di provenienza e spesso la migliorano, ma se viene meno colui che si prenda cura di loro diventano come rozzi e non si educano più. E’ pur vero che, sia per volontà del cielo o della natura, vi sono degli uomini accompagnati da tante virtù che pare non siano nati, ma plasmati da qualche dio che li abbia forniti di ogni bene dell’anima e del corpo, così come molti altri se ne vedono tanto incapaci quanto sgraziati che viene quasi da pensare che la natura li abbia creati per dispetto o per scherno. Questi ultimi così con poco successo possono essere educati alla compostezza e alla buona creanza, mentre i primi con poca fatica raggiungono il culmine della massima eccellenza. Guardate, ad esempio, il signor Ippolito d’Este, cardinale di Ferrara che ha ricevuto dalla stirpe di cui è nato tanto di felicità che la persona, l’aspetto, le parole e tutti i suoi atti sono a tal punto composti e accordati, che tra i anziani prelati, sebbene sia egli giovane, rappresenta una tanto rilevante autorità, che sembra piuttosto in grado d’insegnare che d’imparare; allo stesso modo nel conversare con uomini e con donne d’ogni stato sociale, nel giocare, nel ridere, nel discorrere con ironia, ha un modo così elegante e aggraziato che è inevitabile che chiunque gli parla e lo vede gli rimane affezionato. Ma tornando al nostro discorso, affermo che tra questa eccellente grazia e quella rozzezza senza senso, si trova una via di mezzo e possono coloro che non sono stati così dotati dalla natura correggere in gran parte i difetti naturali con studio e fatica. Pertanto ritengo indispensabile che un cortigiano, oltre all’essere nobile, sia da questo punto di vista fortunato tanto da avere dalla natura non solo l’intelligenza e un aspetto gradevole, ma anche una certa grazia e, come si dice, un umore affidabile che lo renda alla prima impressione per chi lo vede piacevole e amabile e sia questo un ornamento che accompagni tutte le sue operazioni e fin dall’aspetto esteriore garantisca che quel cortigiano è degno della compagnia e dei favori del suo signore»    

Il discorso di Castiglione ci conduce ad un passaggio cruciale circa il concetto di nobiltà: se nell’età comunale tale “nobiltà” si era affrancata dall’essere di sangue per diventare una dote intellettuale che distingueva l’uomo gentile da quello villano, tra il Quattrocento ed il Cinquecento tale concetto cambia e tale mutamento è frutto della società signorile entro la quale Castiglione stesso s’inserisce. Se è pur vero che l’essere nobili non basta a possedere la “grazia” e pur vero che fornisce quel quid in più che permette di raggiungerla. E’ che nella corte essere un nobile è già di per sé una qualità che sta all’uomo saperla raffinare con la consapevolezza della sua discendenza e delle possibilità che la sua condizione gli offre.

LA SPREZZATURA
(I, XXVI)

«Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d’Aragona, né in altro avea posto cura d’imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosí da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand’omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è così cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti così la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?»

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Maestro di danza rinascimentale

Chi dunque vorrà essere un buon discepolo, oltre a fare le cose bene, deve sempre porre la massima attenzione per rendersi simile al maestro e, se fosse possibile, trasformarsi in lui. E quando ha la sensazione di aver raggiunto lo scopo, è molto utile osservare diversi uomini che fanno la professione (del cortigiano) e comportandosi con gran giudizio, che sempre lo deve guidare, per scegliere tra i loro comportamenti, or da uno ora da un altro, vari utili atteggiamenti. Come l’ape nei prati verdi va succhiando il nettare di fiore in fiore, così il nostro cortigiano dovrà rubare questa grazia da chi gli sembra ne abbia di più e da ciascuno di essi quella che gli parrà più lodevole; e non comportarsi come un nostro amico, che voi tutti conoscete,  che pensava di rendersi molto simile a Fernando II d’Aragona, re di Napoli e non in altro aveva posto l’attenzione se non in quella di alzare la testa, torcendo in parte la bocca, la cui torsione il re aveva contratto da una malattia. E si trovano molti di quelli che pensano di farsi molto apprezzare purché si rendano simili ad un grand’uomo in qualcosa, e spesso si attaccano a quella cosa che in quella personalità, sola, è un difetto. Ma avendo io spesse volte pensato dove nasca questa grazia, lasciando da parte quelli che l’hanno ricevuta dalla natura, ho trovato una regola universale che mi pare valida per quanto riguarda questo argomento e cioè fuggire quanto più si può, come se ci trovassimo di fronte ad un ruvidissmo e pericoloso scoglio, in tutte le cose umane che si fanno o si dicono dall’affettazione e per dir forse qualcosa di nuovo, usare in ogni cosa una certa “sprezzatura” che nasconda l’arte e dimostri che ciò che si fa e si dice venga fatto nasca senza fatica e quasi senza pensarvi. Secondo me da questo deriva la grazia, perché tutti sanno quanta difficoltà ci sia nelle cose rare e ben fatte e quanta meraviglia susciti se svolte con facilità; al contrario lo sforzare e, come si dice, tirar per i capelli dà vita ad una goffa disarmonia e fa reputare poco ogni cosa, per quanto grande possa essere. Perciò si può dire che appare vera arte quella che non sembra essere arte e che si deve porre ogni studio nel nasconderla perché, se evidente, toglie tutto il pregio e produce disistima verso l’uomo che la fa. E ricordo di aver letto che ci sono stati grandissimi oratori  i quali, tra le loro capacità, inserivano anche quella di non avere alcuna conoscenza di letteratura e dissimulando di conoscerla mostravano che le loro orazioni erano semplicissime (senza alcun ornamento) e piuttosto nate dalla naturalità (del dire) e dalla realtà dei fatti, piuttosto che dallo studio e dall’arte retorica; cosa che se si fosse saputa  avrebbe istillato nella gente il dubbio  di essere ingannati. Vedete dunque come il mostrare l’arte ed una così intensa cura tolga grazia da ogni cosa. Chi vi è di voi che non rida quando il nostro signor Pierpaolo danza secondo la sua maniera, con quei saltelli e quelle gambe rigide in punta di piedi, senza muovere la testa, come se fosse fatto di legno, con tanta attenzione, che sembra stia contando i passi? Chi è così cieco da non vedere in questo la goffaggine dell’affettazione? e (chi invece vede) la grazia in molti uomini e donne qui presenti, di quella naturalezza disinvolta (che nei loro movimenti molti così la chiamano) nel parlare o ridere o adeguarsi nel muovere le mani, mostrando di non dar peso a ciò che fanno e di pensare ad ogni altra cosa più che a quello, facendo credere e chi li vede quasi di non sapere né poter sbagliare? 

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Edizione antica del “Cortegiano”

Questo passo è fondamentale perché ci aiuta a capire un aspetto fondamentale di un cambiamento culturale che sarà precorritore della nuova cultura che si svilupperà nella seconda metà del Cinquecento. Il concetto di “grazia”, infatti, come sviluppato dallo stesso Castiglione non è derivato, ma frutto di un processo pedagogico “terreno”. Cerco di spiegarmi meglio: nella cultura del primo umanesimo essa poteva essere assimilata ad un processo metafisico per cui se la possiede è perché innata nell’uomo. Castiglione invece ne fa un qualcosa di esterno, verificabile, piena di connotati completamente raggiungibili attraverso studio e applicazione. “Ciò significa spostare in qualche modo il discorso dall’ideale al reale, dalla teoria alla prassi, dall’astrazione metafisica (il modello platonico delle idee) alla concretezza pedagogica (il modello aristotelico delle virtù che si possono apprendere ed effettivamente esercitare) (Grosser)”. 

Alla grazia Castiglione associa il concetto della naturalezza: se la grazia come dono di Dio è di per sé una naturale perfezione, la grazia acquisita con studio e fatica deve tendere alla perfezione simulando la naturalezza: ciò è quello che Castiglione chiama “sprezzatura”.  

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Pontormo: Ritratto di Giovanni Della Casa (1541)

Opera minore rispetto alle due precedenti, ma iscritta sempre all’interno della trattatistica e di notevole successo è il Galateo, opera di Giovanni Della Casa. Nato a Firenze e formatosi a Bologna, il nostro ebbe una vita piuttosto movimentata, fatta di amicizie (fra le quali ricordiamo quella con Pietro Bembo) e di legazioni. Dal 1537 iniziò la carriera ecclesiastica che lo portò a Venezia, dove partecipò all’azione repressiva della Chiesa contro il nascente riformismo luterano e istituì l’Index librorum prohibitorum. Se con Paolo III la sua posizione all’interno della Chiesa fu di una certa rilevanza, con il suo successore, Giulio III, il Della Casa venne in parte emarginato, quindi si ritirò a Treviso, dove si diede ad un’intensa attività letteraria. Salito al soglio Paolo IV, venne reintegrato e chiamato a Roma, dove divenne segretario di Stato, ma morì l’anno successivo (1556).

Il Della Casa è un autore piuttosto prolifico: di lui abbiamo eleganti scritture latine, orazioni, un ricco epistolario, componimenti berneschi d’argomento osceno e rime petrarchesche.

Il suo libro di maggior successo è il Galateo ovvero dei costumi, dedicato a Galeazzo Florimonte (Galatheus è il nome latino di Galeazzo) ed è stato composto tra il 1550 e il 1552. Vi si finge che un illetterato si accinga a d ammaestrare un suo giovinetto alle buone maniere, dando per scontato il presupposto etico.

IL RISPETTO PER LE REGOLE
(I,II)

Con ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere, o come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la diritta via con la salute dell’anima tua e con laude et onore della tua orrevole e nobile famiglia. E perciò che la tua tenera età non sarebbe sufficiente a ricevere più prencipali e più sottili ammaestramenti, riserbandogli a più convenevol tempo, io incomincerò da quello che per aventura potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che non di meno è o virtù o cosa a virtù somigliante. E come che l’esser liberale o constante o magnanimo sia per sé sanza alcun fallo più laudabil cosa e maggiore che non è l’essere avenente e costumato, non di meno forse che la dolcezza de’ costumi e la convenevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole giovano non meno a’ possessori di esse che la grandezza dell’animo e la sicurezza altresì a’ loro possessori non fanno: perciò che queste si convengono essercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni dì et ogni dì favellare con esso loro; ma la giustitia, la fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in opera più di rado; né il largo et il magnanimo è astretto di operare ad ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso; e gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte sono constretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera. Adunque, quanto quelle di grandezza e quasi di peso vincono queste, tanto queste in numero et in ispessezza avanzano quelle: e potre’ ti, se egli stesse bene di farlo, nominare di molti, i quali, essendo per altro di poca stima, sono stati, e tuttavia sono, apprezzati assai per cagion della loro piacevole e gratiosa maniera solamente; dalla quale aiutati e sollevati, sono pervenuti ad altissimi gradi, lasciandosi lunghissimo spatio adietro coloro che erano dotati di quelle più nobili e più chiare virtù che io ho dette. E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi. Per la qual cosa, quantunque niuna pena abbiano ordinata le leggi alla spiacevolezza et alla rozzezza de’ costumi (sì come a quel peccato che loro è paruto leggieri, e certo egli non è grave), noi veggiamo non di meno che la natura istessa ce ne castiga con aspra disciplina, privandoci per questa cagione del consortio e della benivolenza degli uomini: e certo, come i peccati gravi più nuocono, così questo leggieri più noia o noia almeno più spesso; e sì come gli uomini temono le fiere salvatiche e di alcuni piccioli animali, come le zanzare sono e le mosche, niuno timore hanno, e non di meno, per la continua noia che eglino ricevono da loro, più spesso si ramaricano di questi che di quelli non fanno, così adiviene che il più delle persone odia altrettanto gli spiacevoli uomini et i rincrescevoli quanto i malvagi, o più. Per la qual cosa niuno può dubitare che a chiunque si dispone di vivere non per le solitudini o ne’ romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima cosa il sapere essere ne’ suoi costumi e nelle sue maniere gratioso e piacevole; sanza che le altre virtù hanno mestiero di più arredi, i quali mancando, esse nulla o poco adoperano; dove questa, sanza altro patrimonio, è ricca e possente, sì come quella che consiste in parole et in atti solamente. Il che acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere che a te convien temperare et ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi, et a quello indirizzargli; e ciò si vuol fare mezzanamente, perciò che chi si diletta di troppo secondare il piacere altrui nella conversatione e nella usanza, pare più tosto buffone o giucolare, o per aventura lusinghiero, che costumato gentiluomo. Sì come, per lo contrario, chi di piacere o di dispiacere altrui non si dà alcun pensiero è zotico e scostumato e disavenente. Adunque, con ciò sia che le nostre maniere sieno allora dilettevoli, quando noi abbiamo risguardo all’altrui e non al nostro diletto, se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il più degli uomini, e quali quelle che noiano, potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da eleggersi. Diciamo adunque che ciascun atto che è di noia ad alcuno de’ sensi, e ciò che è contrario all’appetito, et oltre a ciò quello che rappresenta alla imaginatione cose male da lei gradite, e similmente ciò che lo ‘ntelletto have a schifo, spiace e non si dèe fare.

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Edizione del Galateo del 1940

Poiché è giunto il momento in cui tu cominci il viaggio della vita che io, come puoi vedere,  ho già per la maggior parte compiuto, volendoti molto bene (si pensa possa essere suo nipote, Annibale Ruccellai) mi sono riproposto di mostrarti alcune circostanze  in cui io, avendole già sperimentate, temo tu possa incapparvi e sbagliare nell’affrontarle, affinché tu, con il mio insegnamento, possa mantenere la giusta direzione con la salvezza della tua anima e con lode ed onore della tua onorata e nobile famiglia. Dal momento in cui la tua giovinezza non è ancora sufficiente per apprendere i più importanti e profondi insegnamenti, riservandoli ad un tempo più opportuno, inizierò da quelli, per alcuni frivoli, che io credo si debba tenere, nella comunicazione e nella relazione tra persone, per apparire costumato, piacevole e di buone maniere, che pur non essendo propriamente virtù di molto gli si avvicina. E benché essere generosi e fermi nelle decisioni e di elevati costumi sia di per sé, senza dubbio, cosa più lodevole e importante che non essere di bella persona e di buoni modi, nondimeno la dolcezza nel comportarsi e usare modi e atteggiamenti convenevoli  sono utili a costoro alla stessa maniera in cui la grandezza d’animo e la fermezza lo siano per chi ce l’abbia; perché queste cose sono esercitate continuamente, essendo la pratica dell’incontrarsi e del conversare con gli altri necessaria, mentre le virtù più nobili e più grandi vengono messe in opera più raramente; e nemmeno uomini liberali e generosi  sono costretti a dimostrare continuamente tutta la loro magnificenza, anzi non c’è la possibilità di poterla mettere in opera spesso  e quelli forti e coraggiosi  allo stesso modo non possano mettere in atto continuamente tutta la loro virtù. Quindi quanto le virtù più nobili vincono per importanza e gravità quelle del buon comportamento, quanto quest’ultime vincono le prime per numero e frequenza. Potrei, se fosse lecito, nominare molti uomini che essendo di per se stessi poco meritevoli, sono stati e sono ancora molto apprezzati per via della loro piacevole e gradevole presenza, dalla quale aiutati ed innalzati a più alto grado, hanno lasciato indietro quelli che  possedevano le già nominate grandi virtù e allo stesso modo come i modi piacevoli e gentili hanno la forza di stimolare la benevolenza di quelli con cui viviamo e la sgarbatezza ed il comportamento inadeguato spingono gli altri all’odio e al disprezzo; per cui, benché le legge non prevedano pene per la sregolatezza e la maleducazione dei comportamenti (una colpa che è parsa di di poco rilievo ed è certo non grave), tuttavia vediamo come la stessa natura ce li fa scontare duramente allontanandoci, a causa loro, dalla partecipazione sociale e dalla disponibilità delle persone. Naturalmente come i peccati più gravi nuocciono maggiormente, così questi più veniali danno fastidio e recano più spesso insofferenza; allo stesso modo gli uomini temono di più gli animali selvatici, mentre dei piccoli insetti, come le zanzare e le mosche non hanno paura; ma per la numerosità più spesso si lamentano di loro, come per gli uomini che odiano quelli dai costumi spiacevoli e riprovevoli piuttosto di quelli dai costumi malvagi. Perciò nessuno deve dubitare, a meno che non decida di vivere da solo o in un monastero, ma in città, in mezzo ad altri uomini, che il sapere essere gentile e costumato, senza aggiungere altro, servirebbe a poco; mentre questa capacità, senza bisogno di altri valori, s’impone di per sé, in quanto consiste solo di parole e comportamenti.
Affinché tu apprenda più agevolmente il comportamento (da tenere), devi sapere che ti conviene moderare e gestire le tue maniere non secondo la tua volontà ma secondo il piacere di coloro con i quali ti relazioni e finalizzarli a loro; e ciò si può ottenere con misura, senza esagerare, perché chi si presta esageratamente ad assecondare il piacere altrui nel conversare e nello stare con lui, sembra piuttosto un buffone o un saltimbanco o quasi lusingatore piuttosto che un educato gentiluomo. Allo stesso   modo, al contrario, chi non si preoccupa per nulla del piacere o dispiacere altrui è uno zotico, scostumato e sgradevole. Infine, affinché le nostre maniere siano nei momenti opportuni piacevoli, quando noi abbiamo rispetto dell’altro e non per piacere nostro, se noi investigassimo quali sono le cose che generalmente piacciono di più agli uomini e quali quelli che più li infastidiscono, potremo facilmente trovare quali modi siano da evitarsi e quali da preferirsi nel rapportarsi con loro. Diciamo dunque che ciascun atto che è poco stimolante ed è contrario al desiderio e tutto ciò che rappresenta all’immaginazione cose estremamente sgradite e allo stesso modo ciò che l’intelletto ritiene odioso , spiace e non si deve fare.

La prospettiva del libro del Della Casa è fortemente didascalica: sin dalle prime righe egli, pur assimilandosi ad un vecchio idiota, si assume il compito d’ammaestrare il giovane di buna famiglia a comportarsi in modo adeguato. Come il più alto Cortegiano, anche il Galateo passa da un prospettiva teorica ad una pratica, ma se nel primo l’anelito morale è ancora presente nella ricerca della “grazia”, qui tutto si riduce ad una forma che non ha alcun valore dentro di sé. Infatti ci si deve comportare secondo le aspettative di colui con il quale si instaura una relazione: questo vuol dire abdicare a qualsiasi forma inerente all’individuo interno per combaciare in modo acritico alle attese dell’individuo che si ha di fronte; per meglio dire, racchiudere nella forma delle buone maniere il vuoto del proprio io che trova forma in una serie di sterili gesti e atteggiamenti che rendono elegante l’uomo. Il Della Casa sottolinea spesso questo aspetto: l’uomo geniale e d’altissime virtù è poco amato, l’uomo con poche attitudini positive è circondato dall’amore di molti. Il giudizio degli altri diventa metro fondamentale entro cui misurare il grado di piacevolezza all’interno della società.

Come abbiamo già visto a proposito del Bembo, durante il Cinquecento prende forma un’importante produzione poetica, tutta segnata dall’insegnamento dell’intellettuale veneziano che fa del Petrarca il modello inimitabile. Molti gli intellettuali che si cimentano nella produzione di sonetti, ma fra essi ci piace ricordare il più grande artista del  Cinquecento, Michelangelo Buonarroti, che, tra le altre, inserisce nelle sue rime la tensione artistica che contraddistingue la sua insuperabile arte scultorea e pittorica:

NON HA L’OTTIMO ARTISTA ALCUN CONCETTO

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.

Il mal ch’io fuggo, e ’l ben ch’io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch’io più non viva,
contraria ho l’arte al disïato effetto.

Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;

se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che ’l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

L’ottimo scultore non concepisce un’idea che il solo marmo non contenga già in sé, con la parte superflua, e la mano riesce a raggiungerla solo se ubbidisce al pensiero. // Il male che io fuggo, e il bene che cerco, si nascondono così in te, donna leggiadra, altera e divina; ma la mia arte non giunge all’effetto desiderato perché io non possa continuare a vivere. // Dunque non ne hanno colpa né Amore, né la bellezza, né la durezza (del cuore), né la fortuna né lo sdegno, o il mio destino o la sorte; // se nel tuo cuore porti nello stesso tempo la morte e la pietà, e la mia inadeguata capacità non sappia, pur ardendo, trarne che la morte.

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Michelangelo: Ritratto di Vittoria Colonna

Il sonetto, dedicato a Vittoria Colonna, ci offre un quadro inusuale di Michelangelo (lui stesso definisce la sua produzione poetica “cosa sciocca”) ma vediamo in esso un interessante concetto che fa del poeta un petrarchista “sui generis”. Il tappeto fonico del testo ci rimanda più all’asprezza “petrosa” dantesca, con il ricorso insistito alla durezza di suoni (l’incontro di quattro consonanti “nscr”, nella seconda strofe in forma chiasmatica tra il primo e il quarto verso il “prometto” con il “contraria” e si potrebbe continuare – l’insistito uso della “r” nell’ultimo verso”) ma anche alla dittologia del poeta aretino (“il mal… e il ben, v. 5; morte e pietate v. 11). Tuttavia quello che qui è emerge è ancora il neoplatonismo fiorentino, figlio dell’Umanesimo di quella città: vengono qui messe a paragone le potenzialità dell’arte e quelle dell’amore: l’artista che ha il compito d’estrarre dalla materia l’idea di bellezza, così come l’amante quello all’interno della donna; se il primo è possibile grazie alla mano, il secondo va incontro al fallimento: al posto del bene dentro di lei coglie la morte e il senso di peccato.

Altro importante aspetto del petrarchismo cinquecentesco è la poesia femminile. Nel 1559 venne dato alle stampe un libro Rime diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne, a dimostrazione, forse per la prima volta nella poesia italiana, dell’alto grado letterario raggiunto anche da chi fino ad allora era stato “oggetto” del fare letterario. Sono due le tipologie di donne di cui possediamo il loro canzoniere: le nobildonne, animatrici nella corte della vita culturale e le cortigiane. che dispongono di un largo spettro di competenze culturali – musica, danza, canto e poesia – con cui intrattenere il loro protettore.

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Girolamo Muziano: Ritratto di Vittoria Colonna (1530)

La prima di loro che ricordiamo è Vittoria Colonna (dedicataria del sonetto presentato prima di Buonarroti) di antica e nobile famiglia romana. Andò in sposa al marchese di Pescara Ferrante d’Avalos, soldato nell’esercito di Carlo V. Alla sua morte la poetessa si consacra alla sua memoria, cercando conforto in pratiche religiose che l’avvicineranno sempre più ad una profonda tensione spirituale. Il suo Canzoniere, diviso come quello di Petrarca in vita e in morte dell’amato marito, troviamo nella prima parte poesie d’argomento amoroso, nella seconda poesie spirituali. Da esso traiamo un sonetto:

NELLA LUCE DEL SOGNO

Quando ’l gran lume appar nell’ Oriente,
che ’l negro manto della notte sgombra,
e dalla terra il gelo, e la fredd’ ombra
dissolve, e scaccia col suo raggio ardente;

dell’ usate mie pene alquanto lente,
per l’ inganno del sonno, allor m’ ingombra,
ond’ ogni mio piacer risolve in ombra,
quando da ciascun lato ha l’ altre spente.

O viver mio nojoso, o avversa sorte!
cerco l’ oscurità, fuggo la luce,
odio la vita ognor, bramo la morte.

Quel, ch’ agli occhi altrui nuoce, a’ miei riluce,
perchè chiudendo lor, s’ apron le porte
alla cagion, ch’ al mio Sol mi conduce.

Quando il Sole nasce ad Oriente, che allontana il nero manto della notte (l’oscurità) e che dissolve il gelo e scaccia l’ombra fredda dalla terra col suo raggio luminoso // mi grava di nuovo delle pene abituali che il sonno aveva alquanto alleviato, per cui ogni mia gioia tramuta in pena quando da ogni parte le altre ombre ha portato via (quelle della notte). // Oh vivere mio angoscioso, oh sorte avversa! Cerco l’oscurità fuggendo la luce, ho in odio la vita e desidero sempre la morte. // Quello che (la notte) agli occhi degli altri dà fastidio per me, invece, splende perché chiudendoli (gli occhi) si aprono le porte del sonno, mezzo che mi conduce al mio amato consorte (Sole).

Nella poesia della Colonna ripercorriamo il dualismo petrarchesco che oppone la notte alla luce solare che fa da metafora alla vita e alla morte: infatti nel sonno la poetessa dimentica gli affanni derivati dall’amore per l’uomo che ormai non c’è più, mentre il giorno li rende vividi, procurando dolore; l’opposizione pertanto non è solo interiore ma riguarda l’intera umanità: la gioia del Sole (simbolo di Dio) di contro alla buia notte, piena di pericoli e misteri. Ma la Colonna sa sciogliere tale opposizione in un anelito religioso: se la notte equivale alla morte e all’annullamento di sé ella la invoca, in quanto le apre le porte dove potrà riabbracciare l’amore morto che costituisce il suo vivificante sole.

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Disegno raffigurante Gaspara Stampa

Altra grande poetessa rinascimentale è Gaspara Stampa. Nasce a Padova nel 1523, figlia di un musicista, che la lascerà presto orfana. Fu probabilmente una cortigiana e visse una vita libera ed elegante, innamorandosi del conte Collatino di Collalto, con cui ebbe una burrascosa relazione. Lui lascerà per una donna di più alto livello sociale, mentre lei si consolerà con un amore meno appossionato. Morì giovane nel 1554, colta da un’improvvisa malattia. Il libro, pubblicato a Venezia nello stesso anno della morte, ci riporta 311 versi, di cui leggiamo il sonetto proemiale:

VOI CH’ASCOLTATE IN QUESTE MESTE RIME

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,

ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:
«Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?»

Voi che ascoltate in queste dolenti rime, in questi accorati, in questi oscuri accenti il suono dei miei lamenti d’amore e delle sofferenze più intense di tutte le altre, // dove vi sia qualcuno che apprezzi e stimi il valore (del mio sentimento) spero trovare tra le persone d’alta sensibilità, la gloria e non solo il perdono dei miei lamenti, dal momento che la loro motivazione è tanto nobile. // E spero inoltre che qualcuna debba dire: «Felicissima lei, da quando sopportò un così grave danno per una causa tanto gloriosa! // Ahimè, perché un così forte amore, una così grande fortuna (d’essere amata) da parte di un così nobile signore a me non è capitata, per cui anch’io potrei stare alla pari con una donna così?»

Non si tratta di soli accenni petrarcheschi, ma di veri e propri calchi: si prenda il primo verso del sonetto proemiale del Canzoniere e questo della Stampa “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”  “Voi, ch’ascoltate in queste meste rime”, o ancora “ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono” e “ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar“. Ma il calco lessicale (ci piace ricordare che, nei salotti da lei animati, spesso cantava i versi di Petrarca da lei messi in musica) non lede lo svolgimento personale della lirica della poetessa. Infatti se nel poeta aretino l’illusione dell’amore s’accompagna all’illusione di tutte le cose terrene, per cui aver vissuto la passione non fa che procuragli vergogna, per la Stampa essa dovrebbe procurare invidia, in quanto l’amore passionale verso Collatino è stato così intenso da procurare un dolore altrettanto profondo. E’ segnificativo lo scarto semantico tra il concetto di pietà del primo e di gloria del secondo: se il primo sottolinea il suo dissidio, Gaspara rivendica con orgoglio l’amore e questo è dato dal chiasmo “per sì chiara cagion danno sì chiaro!” in cui sottolinea la piena consapevolezza con cui lei ha amato e del dolore che un amore così grande le ha procurato. 

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Copertina di una biografia di Gaspara Stampa del 1909

Forse quello che la Stampa inserisce nel sonetto proemiale corrisponde a verità (non avremo motivo di metterlo in dubbio) ma ciò non toglie l’idea che il petrarchismo del Cinquecento sia stato in alcuni casi utilizzato per scopi mondani, in un gioco di rimandi intellettuali che spesso hanno nascosto le vere motivazioni del grande poeta trecentesco.