UMANESIMO

Se, con il termine Umanesimo, intendiamo riferirci a quel periodo che occupa buona parte del Quattrocento, non dobbiamo, tuttavia, solcare un divario con il periodo che lo precede, né con quello che lo segue. Infatti elementi “preumanistici” si ritrovano già nella poetica e nelle opere di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio, come elementi di permanenza “medievale” le troveremo in alcune forme della letteratura quattro-cinquecentesca.

Inoltre a livello critico, è quasi impossibile separare nettamente la cultura del ’400 da quella del ’500, che la segue e della quale sembra essere un perfezionamento. A grandi linee si può affermare che se l’Umanesimo, propriamente detto, sviluppa la consapevolezza, da un suo punto di vista culturale inteso nella sua complessità, di un nuovo periodo, il Rinascimento lo esprime in opere di grande valore artistico.

Situazione storica

Situazione Italia alla fine del ‘300

A livello storico, nella penisola italiana, il ’400 è caratterizzato dall’affermazione delle Signorie. Questo processo aveva avuto inizio sin dalla fine del ’200, ma è in questo secolo che trova il suo consolidamento. Ed è proprio intorno alle Signorie che si sviluppa un nuovo modo di concepire ed interpretare il mondo. Fra le principali Signorie che, dopo aver ottenuto titoli feudali dall’imperatore o dal papa, si trasformeranno in Principati, ricordiamo quella di Milano, che passa dai Visconti agli Sforza; Ferrara, in mano agli Estensi, Urbino sotto i Montefeltro, e Mantova, governata dalla famiglia dei Gonzaga. Anche Firenze, sebbene permanessero più a lungo le istituzioni repubblicane, fu, nel 1435, governata da un signore Cosimo de’ Medici. La stessa Chiesa in qualche modo si “regionalizza”, dopo la crisi che aveva visto la sede papale trasferirsi ad Avignone, sotto la tutela della Francia, ed il papa assume le caratteristiche di un vero e proprio uomo di corte. Nel sud permaneva il Regno di Napoli sotto gli Angioini, mentre le isole restavano in mano agli Aragonesi. Dopo una lunga guerra, nella metà del secolo, il regno verrà riunificato sotto la dinastia di Aragona. Grazie alla pace di Lodi, stipulata nel 1454, determinata dall’impossibilità degli stati regionali di allargare i territori, fattosi loro garante il signore di Firenze, Lorenzo de Medici, gli stati italiani riuscirono ancora a godere di un grandissimo prestigio culturale nell’intera Europa, grazie anche alla cosiddetta politica dell’equilibrio che se garantì, nella seconda metà del secolo, un lungo periodo di pace, mostrò tuttavia, in seguito, la sua fragilità. Infatti politicamente non riuscirono a contrapporsi alle grandi potenze europee che, in quegli anni, andavano formandosi: l’Inghilterra, la Francia e la Spagna si avviavano a diventare le protagoniste della storia continentale, facendo, della nostra penisola, una terra di conquista. L’Italia del ’400, infatti, non riuscì ad andare al di là di una “regionalizzazione”: lo impedirono gli stati stessi che, ad ogni velleità di allargamento territoriale, si allearono per impedirlo: si giunge così ad uno stallo che, se può apparire oggi contraddittorio, diede vita ad un territorio culturalmente splendido, politicamente fragile. 

L’Italia dal trattato di Lodi alla sua rottura

Aspetto culturale

Sul piano culturale il secolo si caratterizza per una nuova concezione dell’uomo. Tale concezione si fonda sugli studi classici (humanae litterae, studia humanitatis), che sono ritenuti come gli unici in grado di elevare l’uomo alla perfezione. Viene, pertanto, ridimensionata la teologia ed il sapere scientifico (Aristotele), e ci si avvia verso una concezione del mondo antropocentrica, cui l’uomo appare come dignum omni admiratione animal, libero nelle scelte e costruttore del proprio destino. Egli è al centro di un mondo in cui equilibrio ed armonia lo rendono perfetto; di più: egli è lo specchio dell’equilibrio e dell’armonia del mondo (si pensi a L’uomo vitruviano di Leonardo). Da qui ne deriva l’ideale estetico dell’umanesimo che si fonda appunto sulla compostezza e sull’equilibrio.

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Leonardo da Vinci: L’uomo vitruviano (1490)

Tali qualità, secondo gli intellettuali umanisti, erano proprie della cultura classica, la quale deve rappresentare un punto di riferimento affinché, allontanatisi dall’età barbara (l’età medievale, da loro così definitiva: età di mezzo tra il mondo romano ed il loro) possa essere riportata in auge. Il classicismo, infatti, si ripropone come ripresa ed imitazione dei valori universali che la cultura greca e latina avevano saputo esprimere. E’ evidente come tale concezione, che, come detto, rivaluta l’uomo, porti con sé anche la rivalutazione della realtà terrena: agli ideali religiosi vengono sostituiti quelli mondani e vengono esaltate le grandi figure umane che di questi valori sono gli artefici, attraverso le biografie; in una parola alla vita contemplativa medievale viene sostituita la vita attiva. E’ un secolo, come si è visto, in cui la cultura laica predomina, ma non è un secolo senza Dio: l’uomo, anzi è visto come la più perfetta creazione di Dio, a lui somigliante; la dignità dell’uomo deriva proprio dall’esser stato scelto dal Signore come sua emanazione (Dio si è fatto uomo in Cristo), quindi la libertà dell’uomo è figlia del volere divino che gli ha fornito l’intelligenza per un libero cercare ed investigare. D’altra parte è tipico di questo secolo il voler armonizzare i valori del Cristianesimo con quelli della morale classica, attraverso la filosofia platonica e il pensiero di Cicerone e Seneca.

Se compito dell’età umanistica è ridare dignità all’uomo è evidente che molta importanza avrà l’educazione e la formazione, nonché lo scambio culturale, non più delegati alle Università, arroccate ancora su posizioni tipicamente medievali, ma alla Corte o a Circoli promossi dal signore, le cosiddette Accademie, le quali, oltre a raccogliere intellettuali o per meglio dire, grazie anche all’importanza degli intellettuali che le frequentano, danno prestigio a chi le promuove.

Il metodo umanista che s’impone in questo periodo non è più l’interpretazione, ma la lettura dei testi originali che possono formare una personalità in grado di integrare i diversi saperi (torna in auge il detto mens sana in corpore sano, dove al sapere si deve accompagnare lo sviluppo armonico del corpo). Il fondamentale strumento con cui questa età si approccia con la cultura classica è la filologia. Attraverso essa gli umanisti cercano di arrivare al significato originario dei testi, ricollegandoli al loro tempo. Vengono, quindi, ricercati testi antichi nei vecchi monasteri, e a questi intellettuali parrà di averli liberati dal carcere. E’ evidente che tali premesse rendano obsoleta la figura dell’intellettuale comunale: ora esso è un professionista alle dipendenze di un principe o di un qualsiasi altro committente che paga il suo operato. Ciò cancella il dato di provenienza sociale: essi, infatti, fanno parte di un gruppo a sé, capaci di comunicare tra loro in modo sopranazionale; ma fa assumere loro anche un carattere estremamente elitario: solo chi è in grado di “parlare” la lingua degli antichi può far parte di questo ristretto gruppo. Al centro della produzione culturale vi è dunque la corte signorile; tutte le principali corti sapranno esprimere personalità insigni in campo letterario ed artistico. Anche la Chiesa, come già detto, trasformatasi in un vero e proprio stato italiano, diventerà uno dei centri più importanti. Relativamente più libere, ma sempre sotto il patrocinio del Signore, saranno le Accademie, associazioni di studiosi e dotti che iniziano a formarsi, appunto, in questo periodo.

Pianta della Catena - Wikipedia

Firenze ai primi del ‘400

Umanesimo latino

Durante la fine del ’300, anche grazie all’insegnamento del Petrarca, il volgare perde piano piano il suo predominio, a favore di un latino classicamente atteggiato. L’unico caso in cui il volgare non declina, ma è usato insieme al latino, è Firenze, grazie anche al confronto che gli intellettuali di questa città devono fare con la grande tradizione letteraria di Dante, Petrarca e Boccaccio. L’attività degli umanisti, infatti, è alla ricerca di codici, seppelliti nei monasteri, che, una volta ritrovati, vengono sottoposti al vaglio della filologia. Attraverso questi ritrovamenti, tornano in auge anche i generi della letteratura latina. Prevale il genere del trattato, spesso strutturato in forma dialogica; anche la storiografia ha grande impulso; è praticata l’invettiva, genere polemico contro un avversario, e molti epistolari ad imitazione di quello ciceroniano. Bisogna ricordare che i ritrovamenti archeologici danno l’avvio alla formazione dei musei

.Coluccio Salutati - Wikipedia

Masaccio: Coluccio Salutati

A Firenze i primi intellettuali umanisti sono coloro che si ritrovavano insieme ad un vecchio Boccaccio nella sua casa a Certaldo; fra di essi ricordiamo Coluccio Salutati. Egli dà vita a quello che si suole definire come “umanesimo civile”: infatti in quanto cancelliere della città, ancora non trasformata in Signoria, inserisce nelle sue opere le problematiche politiche in difesa della libertas fiorentina contro il dispotismo di altre città italiane “nostra civitas non ingenita nobilium ambitione regitur, sed bonitate mercatoria gubernatur” «la nostra città è retta non dall’innata ambizione dei nobili, ma è governata dalla bontà del mercante», dirà nell’ Invectiva Colucii Salutati e tale concetto lo riaffermerà nel De tyranno, il cui intento polemico è contro Gian Galeazzo Visconti, signore di Milano).

Poggio Bracciolini - Wikipedia

Ritratto di Poggio Bracciolini

Altra importantissima figura dell’umanesimo fiorentino è Poggio Bracciolini, discepolo del Salutati. Anch’egli, dal 1458, ricopre l’incarico di cancelliere della città. La sua importanza sta soprattutto nell’aver riscoperto codici di testi classici. Ce ne offre una testimonianza nelle sue lettere:

RISCOPERTA DI CODICI NEL MONASTERO DI SAN GALLO

Fortuna quaedam fuit cum sua tum maxime nostra, ut cum essemus Constantiae ociosi cupido incesseret videndi eius loci quo ille reclusus tenebatur. Est autem monasterium Sancti Galli prope urbem hanc milibus passum XX. Itaque nonnulli animi laxandi et simul perquirendorum librorum, quorum magnus numerus esse dicebatur, gratia eo perreximus. Ibi inter confertissimam librorum copiam, quos longum esset recensore, Quintilianum comperimus adhuc salvum et incolumen, plenum tamen situ et pulvere squalentem. Erant enim non in bibliotheca libri illi, ut eorum dignitas postulabat, sed in teterrimo quodam et obscuro carcere, fundo scilicet unius turris, quo ne capitalis quidem rei damnati retruderentur. Atqui ego pro certo existimo, si essent qui haec barbarorum ergastula, quibus hos detinent viros, rimarentur ac recognescerent amore maiorum, similem fortunam experturos in multis de quibus iam est conclamatum. Reperimus praeterea libros tres primos et dimidiam quarti C. Valerii Flacci Argonauticon, et expositiones tamquam thema quoddam super octo Ciceronis orationibus Q. Asconii Pediani, eloquentissimi viri, de quibus ipse meminit Quintilianus. Haec mea manu transcripsi, et quidem velociter, ut ea mitterem ad Leonardum Aretinum et Nicolaum Florentinum; qui cum a me huius thesauri adinventionem cognovissent, multis a me verbis Quintilianum per suas litteras quam primum ad eos mitti contenderunt. Habes, mi suavissime Guarine, quod ab homine tibi deditissimo ad praesens tribui potest. Vellem et potuisse librum transumitere, sed Leonardo nostro satisfaciundum fuit. Verum scis quo sit in loco ut, si eum voles habere, puto autem te quam primum velle, facile id consequi valeas. Vale et me, quando id mutuum fit, ama.

Constantiae, XVIII Kalendas Ianuarias, Anno Christi 1417.

Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era ritenuto recluso. V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia. Perciò mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancora salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella biblioteca, come richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed oscuro carcere, nel fondo di una torre, in cui non si caccerebbero neppure dei condannati a morte. Ed io son certo che chi per amore dei padri andasse esplorando con cura gli ergastoli in cui questi grandi son chiusi, troverebbe che una sorte uguale è capitata a molti dei quali ormai si dispera. Trovai inoltre i tre primi libri e metà del quarto delle Argonautiche di Valerio Flacco, ed i commenti a otto orazioni di Cicerone, di Quinto Asconio Pediano, uomo eloquentissimo, opera ricordata dallo stesso Quintiliano. Questi libri ho copiato io stesso, ed anche in fretta, per mandarli a Leonardo Bruni e a Niccolò Niccoli, che avendo saputo da me la scoperta di questo tesoro, insistentemente mi sollecitarono per lettera a mandar loro al più presto Quintiliano. Accogli, dolcissimo Guarino, ciò che può darti un uomo a te tanto devoto. Vorrei poterti anche mandare il libro, ma devo accontentare il nostro Leonardo. Comunque sai dov’è, e se desideri averlo, e credo che lo vorrai molto presto, facilmente potrai ottenerlo. Addio, e voglimi bene, ché l’affetto è ricambiato.
Costanza, 15 dicembre, 1416

Nel testo di Bracciolini non si coglie soltanto l’amore sconfinato per i classici, ma anche la distanza che muove questo autore dal Medioevo, criticato in modo piuttosto aspro per lasciare in un “carcere” le grandi opere del passato. Inoltre possiamo cogliere nel testo ciò che possiamo definire non solo come amore, ma come ricerca di “emulare” il loro modus vivendi: ne è un segnale la scelta lessicale, Bracciolini usa i termini ociosus richiamandosi all’otium latino e cupido indicando l’estremo desiderio, la tensione verso la bellezza del vivere e pensare antico. 

Papa Pio II - Wikipedia

Pio II

Anche Roma, come detto, è uno dei centri più importanti dell’umanesimo. D’altra parte non dobbiamo dimenticare che a guidare la Chiesa fu chiamato un raffinatissimo umanista, Enea Silvio Piccolomini, che assunse il nome di Pio II ed operò, dopo la nomina papale, per una conciliazione tra valori classici e valori cristiani.

Altra grandissima personalità che opera in questa città è Lorenzo Valla, forse il più grande intellettuale della cultura della prima metà del ’400. Egli, nel 1440, grazie anche alla sua grande preparazione filologica, rivelò al mondo la falsità della “donazione di Costantino”.

L’USO DELLE PAROLE SBAGLIATE RIVELA LA FALSITA’

In eo privilegio ita inter caetera legitur: “Utile iudicavimus una cum omnibus satrapis nostris, et universo Senatu, optimatibus etiam, et cum cunto populo imperio Romanae ecclesiae subiacenti, ut sicut beatus Petrus in terris vicarius Dei videtur esse constitutus, ita et pontifices ipsius principis apostolorum vicem, principatum potestatem, ampius quam terrenae  imperialis nostrae serenitatis mansuetudo habere videtur, concessam a nobis nostroque imperio obtineant”. O scelerate, atque malefice, eadem, quam affers in testimonium, refert historia: longo tempore neminem senatorii ordinis voluisse accipere religionem Christianam, et Constantinum pauperes sollicitasse precio ad baptismum. Et tu ais, intra primos statim dies, Senatus, optimates, satrapes, quasi iam Christianos, de honestanda ecclesia Romana Caesare decrevisse. Quid quod vis interfuisse satrapas? O cautes, o stipes. Sic loquuntur Caesares? Sic concipi soles decreta Romana? Quis umquam satrapas in consiliis Romanorum nominari audivit? Non teneo memoria unquam legisse me ullum, non modo Romanorum, sed ne in Romanorum quidem provinciis satrapam nominatum. At hic Imperatoris satrapas vocat, eosque Senatui praeponit: quum omnes honores, etiam qui principi defendetur, tantum a Senatu decernantur, adiuncto populoque Romano. 

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Lorenzo Valla

Così in quel privilegio tra l’altro si legge: “Abbiamo giudicato utile, insieme a tutti i nostri satrapi e a tutto il senato, e pure a tutti gli ottimati e a tutto il popolo sottoposto all’impero della Chiesa Romana, che, come il beato Pietro appare essere stato posto in terra quale vicario di Dio, così anche i pontefici, vicari dello stesso principe degli apostoli, ottengano per concessione nostra e del nostro impero, un potere sovrano più ampio di quanto non sia quello della mansuetudine della nostra terrena imperiale serenità“. O scellerato malfattore, la stessa storia che egli porta quale testimonianza riferisce che per lungo tempo nessuno dell’ordine senatorio volle ricevere la religione cristiana e che Costantino sollecitò con denaro i poveri a battezzarsi. E tu dici che fin dai primi giorni il Senato, gli ottimati, i satrapi, quasi fossero già cristiani, decretarono insieme a Cesare di onorare la Chiesa Romana. E che dire del fatto che vuoi abbiano partecipato a questo anche i satrapi? O sassi, o tronchi! Così parlano i Cesari? Così si concepiscono i decreti Romani? Chi ha mai sentito nominare i satrapi nei consigli dei Romani? Non rammento di aver mai letto in nessun luogo il nome di un satrapo non solo Romano ma nemmeno delle Provincie Romane. E costui li chiama satrapi dell’Imperatore e li prepone al Senato, mentre tutti i titoli onorifici, anche quelli che vengono conferiti al principe, sono decretati dal Senato, solo o insieme al popolo Romano.

L’importanza di tale testo fu enorme. Pubblicato soltanto nel 1517, ma scritto nel 1440, non rileva soltanto come la “verità” proclamata dal soglio pontificio come una e intangibile, fosse stata invece, da essi stessi falsificata, ma come la ratio e la prospettiva storica insegnassero un nuovo modo di interpretare il passato: non più l’auctoritas o anche l’ipse dixit, che non ammettevano repliche, ma anche l’assumersi la responsabilità del pensiero autonomo investigante la storia. E’ evidente che soltanto una conoscenza prospettica permette di mettere distanza tra il passato e il presente, ma anche come lo stesso uso della lingua, quindi la consapevolezza filologica possa, oltre che portare alla luce nuovi valori, svelare i grossolani errori del passato.   

A lui si deve, inoltre, un alto elogio della lingua latina, di cui riportiamo un piccolo passo:

NON PERMETTETE CHE LA LATINITA’ SIA OPPRESSA DALLA BARBARIE

Verum enimvero quo magis superiora infelicia fuere, quibus homo nemo inventus est eruditus, eo plus his nostris gratulandum est, in quibus, si paulo amplius adnitamur, confido propediem linguam romanam vere plus quam urbem, et cum ea disciplinas omnes, iri restitutum. Quare pro mea in patriam pietate, immo adeo in omnes homines, et pro rei magnitudine cunctos facundiae studiosos, velut ex superiore loco libet adhortari evoca-reque et illis, ut aiunt, bellicum canere. Quousque tandem Quirites (litteratos appello et romanae linguae cultores, qui et vere et soli Quirites sunt, ceteri enim potius inquilini), quousque, inquam, Quirites, urbem nostram, non dico domicilium imperii, sed parentem litterarum, a Gallis captam es-se patiamini? id est latinitatem a barbaria oppressam? quousque profana-ta omnia duris set paene impiis aspicietis oculis?

Comunque quanto furono tristi i tempi andati, in cui non si trovò neppure un dotto, tanto maggiormente dobbiamo compiacerci con l’epoca nostra nella quale, se ci sforzeremo un poco di più, io confido che presto restaureremo, più ancora che la città, la lingua di Roma e, con essa, tutte le discipline. Perciò, dato il mio amore per la patria, anzi per l’umanità, e data la grandezza dell’impresa, voglio esortare ed invocare dall’alto tutti gli studiosi di eloquenza e, come suol dirsi, suonare a battaglia. E fino a quando, o Quiriti, (così chiamo i letterati e i cultori del latino, poiché essi solo sono veramente Quiriti, e gli altri piuttosto che ospiti), fino a quando, dico, lascerete in mano dei Galli la città vostra, non chiamerò sede dell’impero, ma sì madre delle lettere? Fino a quando permetterete che la latinità sia oppressa dalla barbarie? Fino a quando con sguardo indifferente, e quasi empio, assisterete a questa completa profanazione?

Il Valla, in questo passo, offre una esortazione affinché gli intellettuali si sforzino con maggior vigore a studiare e diffondere la lingua latina. Infatti se Roma era riuscita, con il suo impero, a conquistare stati e città, ancor più aveva diffuso la cultura e la civiltà per mezzo della sua lingua; e se l’impero, per l’imperscrutabile volere di Dio, era finito, non è stato così per la lingua, che può continuare il suo compito di civilizzazione.

Altro umanista di grande valore è Antonio Pomponio Leto, che dà vita all’Accademia Pomponiana, che si caratterizza per il culto dell’antichità romana.

Se a Milano, l’umanesimo assume un vero e proprio aspetto “cortigiano”, non lasciando opere degne di essere ricordare, più vivace è la situazione di Napoli, che dopo un primo periodo, caratterizzato dalla guerra tra Angioini ed Aragonesi, sotto quest’ultimi vedrà rinascere una degna vivacità culturale. Fra gli autori più significativi è da ricordare Antonio Beccadelli, detto il Panormita, la cui opera più importante è l’Hermaphroditus, dedicata a Cosimo de’ Medici, scritta in un momento in cui l’autore cercava di entrar a far parte della corte fiorentina, e costituita da epigrammi dal carattere licenzioso e lascivo. A Napoli il Beccadelli diede vita a un Accademia, che, in seguito, quando fu diretta da Pontano, venne detta Pontaniana.

Antonio Beccadelli - Wikipedia

Antonio Beccadelli detto il Panormita

DEDICA A COSIMO

Si vacat a patrii cura studioque senatus,
Quidquid id est, placido lumine, Cosme, legas.
Elicit hoc cuivis tristi rigidoque cachinnos,
Cuique vel Hippolyto concitat inguen opus.
Hac quoque parte sequor doctos veteresque Poetas,
Quos etiam lusus composuisse liquet,
Quos et perspicuum est vitam vixisse pudicam,
Si fuit obsceni piena tabella ioci.
Id latet ignarum vulgus, cui nulla priores
Visere, suo ventri dedita cura fuit,
Cuius et hos lusus nostros inscitia carpet.
Oh ita sit! Doctis irreprehensus ero.
Tu lege, tuque rudem nihili fac, Cosme, popellum,
Tu mecum aeternos ipse sequare viros.

Cosimo, se sei libero delle cure della patria e delle brighe del senato, leggi con tranquillità questo libretto, comunque esso sia. Esso risveglierà il riso in chiunque, anche al più afflitto e più rigido e anche ad Ippolito solleticherà i sensi. In questo io seguo i dotti e vecchi poeti che si compiacquero di scrivere scherzi e pur facendo una vita morigerata riempirono le loro carte di lubriche parole. Ciò non sa l’indotto volgo che non si cura di conoscere gli antichi, dedito solo al ventre e per la sua ignoranza riprenderà i miei detti. Oh! sia pure. Non sarò ripreso dai dotti. Tu leggi, o Cosimo; non far conto dell’ignorante volgo e con me segui l’esempio dei poeti immortali.

Come si può arguire da testo dedicatorio, il Panormita assume della latinità l’aspetto più giocoso e licenzioso, che sarà ripreso, in volgare da circolo laurenziano, instauratasi nella seconda metà del ’400 a Firenze.

Umanesimo volgare

La lingua volgare riprende un forte vigore soprattutto nella seconda metà del secolo anche per iniziativa dapprima di Pietro de’ Medici che, nel 1441, su spinta di Leon Battista Alberti, diede vita ad una gara di poesia in volgare (Certame coronario) e in seguito di Lorenzo il Magnifico che nel 1476, mandò a Federigo d’Aragona una raccolta poetica di scrittori toscani, che prende il nome, appunto, di Raccolta aragonese. Ambedue gli eventi volevano significare proprio che le cosiddette tre corone fiorentine non potevano essere “dimenticate” e che la loro lingua poteva diventare, a sua volta, un nuovo punto di riferimento per gli intellettuali contemporanei. Non è un caso che si farà egli stesso poeta in volgare e farà in modo che le altre città, per non rimanere indietro alle sue iniziative culturali, si facessero promotrici di cultura. Così vennero alla luce centri che mai prima di allora avevano brillato nella lingua della loro terra, facendo in modo che dal monocentrismo fiorentino si arrivasse ad un allargamento delle località in grado di poter produrre cultura.

Leon Battista Alberti - Wikipedia

Leon Battista Alberti

Firenze

Da quanto si è detto, risulta evidente che il nuovo centro propulsivo, sia a livello politico che culturale, è la Firenze di Lorenzo il Magnifico. Alla base di questo fervore vi è il mecenatismo attraverso cui il Signore, fornito di un’elevata cultura, si fa protettore e nel caso di Lorenzo, produttore, di arte. Infatti egli darà vita a quella cerchia laurenziana, composta di poeti, architetti ed intellettuali in genere, che saranno gli esponenti più brillanti del neoplatonismo. Con questa filosofia si tenterà di far convergere il pensiero greco con il cristianesimo. Tutto ciò l’aveva fatto anche Tommaso con Aristotele. Ciò che divide i due e che il secondo arriva all’esistenza di Dio, ma lì giunto non può andare oltre. Infatti ad un certo punto la filosofia deve cedere il passo alla teologia; invece Ficino, riprendendo il mondo delle idee platoniche, può riaffermare la capacità dell’uomo di riandare e comunicare con Dio, in quanto egli è in noi (almeno come ricordo). Ora è evidente che noi possediamo all’interno di noi la scintilla divina, ciò fa sì che noi possiamo indagare ed investigare il mondo, e non accettarlo supinamente; l’intelligenza umana, pallido riflesso di quella divina, pertanto non può essere “mortificata” dall’autctoritas, ma vivificata attraverso la virtus e la sapienza. Da qui l’importanza data all’educazione, in quanto l’uomo, attraverso essa può giungere alla sua perfezione.

L’ARTEFICE CHE IMITA LA NATURA

Denique homo omnia divinae naturae opera imitatur, et naturae inferioris opera perficit, corrigit et emendat. Similis ergo ferme vis hominis est naturae divinae, quandoquidem homo per seipsum, idest per summ consilium atque artem, regit seipsum a corporali naturae limitibus minime circumscriptum, et singula naturae altioris aemulatur. (…) Vicem gerit Dei, qui omnia clementia habitat, colitque omnia, et terrae praesens, non abest ab aethere. Atqui non modo elementis, verum etiam elemenorum animalibus utitur omnibus terrenis, aquatilibus, volatilibus, ad escam, ad commoditatem, ad voluptatem: supernis coelestibusque ad doctrinam, magicaeque miracula.

Marsilio Ficino: biografia, pensiero e libri | Studenti.it

Marsilio Ficino

L’uomo, insomma, imita tutte le opere della natura divina, e perfeziona, corregge ed emenda le opere della natura inferiore. Quindi l’essenza dell’uomo è fondamentalmente simile alla natura divina, dal momento che l’uomo di per se stesso, cioè con il suo senno e la sua abilità, governa se stesso, per nulla circoscritto nei limiti della natura corporea, ed emula le singole opere della natura superiore. (…) Fa le veci di Dio, l’uomo, che abita in tutti gli elementi, di tutti ha cura, e, presente sulla terra, non è assente dal cielo. E non solo si serve degli elementi, ma anche di tutti gli esseri che negli elementi vivono: dei terrestri, acquatici, volatili, per cibarsene, per sua comodità, per suo diletto; degli esseri superiori e celesti, per la dottrina magica e i suoi prodigi.

L’importanza di questo filosofo sarà fondamentale nella Firenze quattrocentesca, che vedrà circolare, intorno alla carismatica figura di Lorenzo, quelle di Poliziano e Pulci, anime complementari dello spirito laurenziano di cui il Principe è l’artefice.

File:Annuncio dell'angelo a Zaccaria - Marsilio Ficino - Cristoforo Landino - Angolo Poliziano.jpg - Wikipedia

Ghirlandaio: Marsilio Ficino, Cristoforo Landino, Angelo Poliziano

Iniziamo con Angelo Poliziano, nome d’arte di Angelo Ambrosini, ridotto dall’omicidio del padre a vivere un’esistenza modestissima. Le grandissime capacità intellettuali lo faranno approdare sotto la protezione di Lorenzo che lo accoglierà fra le sue ali, facendo di lui il precettore di suo figlio Pietro e suo segretario personale. Comincia a scrivere poesie in latino (Elegie ed Epigrammi) ed ottiene il sacerdozio. Dopo aver curato per Lorenzo l’Antologia da inviare al re aragonese, dà inizio alle Stanze per la giostra, dedicate a Giuliano de’ Medici, ed interrotte a seguito del suo assassinio. Per sfuggire alla peste del 1478 si rifugia con la moglie di Lorenzo in una villa appartata, dove svolge il ruolo di precettore per i figli di Lorenzo. Ma le incomprensioni tra la donna e in seguito con lo stesso Lorenzo lo fanno allontanare da Firenze. Girovaga pertanto nell’Italia del nord giungendo anche a Mantova, presso i Gonzaga, dove scrive La fabula di Orfeo, primo dramma italiano d’argomento profano. Dopo aver scritto una lunga lettera a Lorenzo, viene riaccolto a Firenze, dove riprenderà ad essere una figura chiave nella città toscana, grazie al ruolo di insegnante presso lo Studio fiorentino attribuitogli dallo stesso Lorenzo. Si spegnerà, dopo la morte del suo signore nel 1492, dopo solo due anni.

La sua opera più significativa sono appunto le Stanze per la giostra:

Nel primo libro Iulio o Iulo, si tratta di Giuliano ribattezzato classicamente, è un giovane bello e coraggioso che vive disprezzando l’Amore e dedicandosi agli esercizi del corpo, alla caccia e all’attività poetica. Cupido, con l’intento di vendicarsi, mentre Iulo è impegnato in una battuta di caccia, gli fa apparire davanti una splendida cerva, che il giovane tenta, senza successo, di raggiungere. Quando i due giungono in una radura, la cerva si trasforma in una bellissima ninfa, Simonetta. Colpito dalla freccia di Cupido, Iulo si innamora della giovane. Il dio, soddisfatto della buona riuscita del suo piano, può dunque tornare felice a Cipro, presso la madre Venere.  Il secondo libro, incompiuto, si apre con la decisione da parte di Venere, informata dal figlio dell’accaduto, di assicurare che l’amore di Iulo sia ricambiato da Simonetta. Perché questo accada, è tuttavia necessario che Iulo dimostri la sua virtù combattendo e ottenendo la vittoria in un torneo indetto per la giovane; Iulo è informato della decisione divina in sogno dallo stesso Cupido, che gli preannuncia anche la prossima morte dell’amata. L’opera si interrompe mentre Iulo, ardente d’amore, si appresta a partecipare alla giostra.

 

SIMONETTA: APPARIZIONE E INNAMORAMENTO
(I, 44-49; 55)

Candida è ella, e candida la vesta,
ma pur di rose e fior dipinta e d’erba;
lo inanellato crin dall’aurea testa
scende in la fronte umilmente superba.
Rideli a torno tutta la foresta,
e quanto può suo cure disacerba;
nell’atto regalmente è mansueta,
e pur col ciglio le tempeste acqueta.

Folgoron gli occhi d’un dolce sereno,
ove sue face tien Cupido ascose;
l’aier d’intorno si fa tutto ameno
ovunque gira le luce amorose.
Di celeste letizia il volto ha pieno,
dolce dipinto di ligustri e rose;
ogni aura tace al suo parlar divino,
e canta ogni augelletto in suo latino.

Con lei sen va Onestate umile e piana
che d’ogni chiuso cor volge la chiave;
con lei va Gentilezza in vista umana,
e da lei impara il dolce andar soave.
Non può mirarli il viso alma villana,
se pria di suo fallir doglia non have;
tanti cori Amor piglia fere o ancide,
quanto ella o dolce parla o dolce ride.

Sembra Talia, se in man prende la cetra,
sembra Minerva se in man prende l’asta;
se l’arco ha in mano, al fianco la faretra,
giurar potrai che sia Diana casta.
Ira dal volto suo trista s’arretra,
e poco, avanti a lei, Superbia basta;
ogni dolce virtù l’è in compagnia,
Biltà la mostra a dito e Leggiadria.

Ell’era, assisa sovra la verdura,
allegra, e ghirlandetta avea contesta,
di quanti fior creassi mai natura,
de’ quai tutta dipinta era sua vesta.
E come prima al gioven puose cura,
alquanto paurosa alzò la testa;
poi colla bianca man ripreso il lembo,
levossi in piè con di fior pieno un grembo.

Già s’inviava, per quindi partire,
la ninfa sovra l’erba, lenta lenta,
lasciando il giovinetto in gran martire,
che fuor di lei null’altro omai talenta.
Ma non possendo el miser ciò soffrire,
con qualche priego d’arrestarla tenta;
per che, tutto tremando e tutto ardendo,
così umilmente incominciò dicendo:

«O qual che tu ti sia, vergin sovrana,
o ninfa o dea, ma dea m’assembri certo;
se dea, forse se’ tu la mia Diana;
se pur mortal, chi tu sia fammi certo,
ché tua sembianza è fuor di guisa umana;
né so già io qual sia tanto mio merto,
qual dal ciel grazia, qual sì amica stella,
ch’io degno sia veder cosa sì bella».

(…)

Poi con occhi più lieti e più ridenti,
tal che ’l ciel tutto asserenò d’intorno,
mosse sovra l’erbetta e passi lenti
con atto d’amorosa grazia adorno.
Feciono e boschi allor dolci lamenti
e gli augelletti a pianger cominciorno;
ma l’erba verde sotto i dolci passi
bianca, gialla, vermiglia e azurra fassi.

Candida è lei e bianca la veste, tuttavia ornata di rose e di steli, i biondi capelli ricci, scendono sulla fronte umile e nello stesso tempo superba: tutta la foresta le sorride intorno e, per quanto possibile, le mitiga gli affanni; nell’atteggiamento è dolce come una regima e con il suo sguardo placa le tempeste. // Sfolgorano gli occhi di una dolce serenità, dove Cupido nasconde le fiaccole, l’aria intorno si fa serena, ovunque gira gli occhi. Ha il volto pieno di divina felicità, dipinto del colore bianco dei ligustri e rosa come i fiori; ogni soffio d’aria cessa al momento in cui ella emette la sua divina voce, e canta ogni uccellino con il suo verso. // Con lei va l’Onestà, umile e semplice, che volta la chiave ad ogni cuore chiuso; con lei va la Giustizia in persona e impara da lei l’elegante camminare. Non può osservarla uno sguardo non puro, se prima non si pente della propria colpa, Amore colpisce tanti cuori, tutte le volte che o parla o ride dolcemente. // Sembra che Talia (Musa del canto) prenda tra le mani la cetra, che Minerva (dea della guerra) prenda il giavellotto in mano e che se la faretra ha in mano e l’arco sulle spalle sia la casta Diana (dea della caccia). L’ira cattiva s’allontana dal suo volto e la superbia davanti a lei poco resiste; è in compagnia di ogni dolce virtù; la beltà e la gentilezza la indicano come esempio. // Lei era seduta sopra la leggiadra erbetta e aveva intrecciato una ghirlanda con tutti i fiori che la natura ha creato, di cui era dipinta la sua veste. E come si accorse del giovane (Iulio), alzò la testa con paura; poi preso un lembo con la bianca mano, si alzò in piedi con il grembo pieno di fiori. // Già si avviava per allontanarsi da quel posto, la ninfa sopra il prato, in modo lento, lasciando il giovane in grandi tormenti, che al di fuori di lei non desidera altro: ma non potendo l’infelice sopportare ciò, cerca di trattenerla con qualche scusa, per cui, pieno d’amore, con umiltà cominciò a dirle: // «Oh, chiunque tu sia, o principessa, o ninfa, o dea (ma certo più dea mi sembri), se sei dea, certo sei la mia Diana, se invece sei mortale, chi tu sia dimmelo, perché il tuo aspetto è al di fuori di ogni umana sembianza, né io so quale sia il mio merito per vedere una cosa così bella. // (…) // Poi con gli occhi gioiosi e ridenti, di modo che tutto il cielo intorno si rasserenò, si mosse sopra il praticello a passi lenti, adorna di gesti amorosi. Fecero allora i boschi dolci lamenti e gli uccellini cominciarono a piangere; ma il prato, sotto i suoi passi si trasformo in fiori bianchi, gialli rossi e azzurri.

Il brano ci offre la struttura tipica del poemetto: ottave con versi endecasillabi ABABABCC. Nel primo libro ci mostra Simonetta e il suo incontro con Iulio. Qual è la sua importanza? Se noi dovessimo analizzarla lessicalmente scopriremo che il testo è completamente intessuto di immagini stilnoviste e petrarcheggianti; ma lei non è venuta dal cielo in terra “a miracol mostrare”; la sua “divinizzazione” avviene in senso classico, (Talia, Minerva, Diana), rivitalizzando e nel contempo astraendo il concetto della “divina bellezza” in modo neoplatonico. L’innamoramento dio Iulio, poi, è disegnato come fosse un uscire dall’età infantile per arrivare all’età adulta, raggiungendo la perfezione dell’amore. E’ naturale che tale perfezione debba poi ritrovarsi nella fluidità dell’ottava, che pur riprendendo topoi della poesia precedente li “attualizza” nella nuova realtà culturale in cui Poliziano opera.

Luigi Pulci (1432–1484) | Art UK

Luigi Pulci

Altro autore della corte laurenziana è Luigi Pulci, resosi famoso col suo poema in ottave, il Morgante; personaggio un po’ bizzarro nella corte lorenziana, il suo merito e la sua condanna sarà quella di portare uno stile giocoso e irriverente. Dapprima infatti fu accettato, diventando quasi intimo del duca, di cui si permise, addirittura, di rifare, in modo ancora più comico una sua opera, la Nencia di Barberino con la Beca di Dicomano. Tuttavia la prevalenza, intorno agli anni ’70, di una cultura fortemente neopitagorica ed intellettuale lo allontanò dalla corte. Pur tentando di rientrarci, morì fuori Firenze a Padova nel 1484.

La sua opera più importante, come già detto è il Morgantepoema eroicomico in 28 canti, edito tra gli anni Settanta ed Ottanta del Quattrocento:

L’opera narra del conte Orlando che lascia Parigi per recarsi dagli infedeli. Durante il tragitto incontra Morgante che converte al cristianesimo e ne fa il suo scudiero. Insieme ad altri paladini giunge alla Pagania (terra dei pagani). Qui Morgante incontra Margutte e i due hanno una serie d’avventure, fino alla morte di quest’ultimo per riso, avendo visto una bertuccia che calzava le scarpe. Morgante si riunisce quindi ad Orlando e s’imbarcano verso Oriente. Sono costretti a sbarcare per una tempesta e qui Morgante muore morso da un granchiolino. Quindi Orlando torna in Francia dove, durante un sogno, un angelo gli ordina di conquistare la terra degli Infedeli. L’opera s’interrompe e verrà ripresa negli ultimi cinque canti dove si rispetterà maggiormente il tema dei romanzi bretoni ed arturiani.

 

MORGANTE INCONTRA MARGUTTE
(XVIII, 112-120)

Giunto Morgante un dì in su ’n un crocicchio,
uscito d’una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Détte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: «Costui non conosco»;
e posesi a sedere in su ’n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.

Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
«Dimmi il tuo nome» dicea «vïandante». 
Colui rispose: «Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
poi mi pentì quando al mezzo fu’ giunto:
vedi che sette braccia sono appunto». 

Disse Morgante: «Tu sia il ben venuto:
ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino». 

Rispose allor Margutte: «A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;

e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ’l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;

ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch’io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch’io non son terren da porvi vigna.

Questa fede è come l’uom se l’arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d’una monaca greca
e d’un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch’avea fantasia
cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille,
non una volta già, ma mille e mille.

Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l’arco e ’l turcasso.
Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,
e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;

anzi quanti ne son giù nello inferno:
io n’ho settanta e sette de’ mortali,
che non mi lascian mai la state o ’l verno;
pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita».

Morgante incontra Margutte

Morgante, arrivato un giorno presso un crocevia, uscito da una valle e trovandosi in un bosco, vide giungere di traverso da lontano, un uomo dal volto completamente truce. Diede un colpo col batacchio della campana in terra e disse: «Io questo non lo conosco», e messosi a sedere su una pietra, finché costui giunse al crociccio. // Morgante osserva attentamente tutte le sue membra dalla testa ai piedi che gli sembravano strane, orrende e brutte: Diceva: «Dimmi il tuo nome, passeggero». Egli gli ripose: «Il mio nome è Margutte; anch’io ebbi voglia di diventare un giugante, ma giunto a metà mi pentii, vedi, per l’appunto che sono alto soltanto 7 braccia (circa 4 metri)». // Disse Morgante: «Che tu sia il benvenuto: ecco che io avrò al mio fianco un fiaschetto (detto per la forma del mezzo gigante) dal momento che non ho bevuto da due giorni, e se ti unirai a me io ti tratterò come si conviene. Ma dimmi anche se sei cristiano, o saraceno, se credi in Cristo o ad Apollo». // Rispose allora Margutte: «A dirtelo subito, io non credo né al nero né all’azzurro, ma credo nel cappone arrosto o lesso, e credo talvolta anche nel burro, nella birra e quando ne ho nel vino, e molto più nel vino aspro (gioco di parole: aspro è sia l’aggettivo del vino che il nome di una moneta turca di poco valore) che nel mangurro (moneta turca d’argento); ma ho soprattutto fede nel buon vino e penso sia salvo chi crede in lui; // e credo nella torta e nel tortello, il primo è la madre il secondo è il figlio, ed il vero padre nostro è il fegatello e possono essere tre, due o uno solo ed anche quello deriva dal fegato. E se io volessi bere il vino in un ghiacciolo (grande vaso per svuotare i ghiacciai), se Maometto vieta e critica il vino, credo che il profeta sia un sogno o un fantasma // ed Apollo dev’essere pazzo e Trevicante forse un incubo. La fede è come il solletico, alcuni lo sopportano altri no. Io credo che tu, per la tua capacità, mi capisca. Ora tu potresti dirmi che io sono un eretico; affinché tu non intenda convertirmi, vedrai che la mia genìa non tradisce e che io non sono un terreno da piantarvi la vigna (della Fede). // La fede è quella che ognuno si porta con sé dalla nascita: vuoi tu vedere qual è la mia fede? Sono nato da una monaca greca e da un sacerdote in Bursia in Turchia. All’inizio mi dilettai a suonare la chitarra a tre corde perché avevo in mente di cantar di Troia, d’Ettore e d’Achille, e non una sola volta ma continuamente. // Poi quando mi stancai di suonare la chitarra, cominciai a portare l’arco e la faretra: un giorno in cui feci una rissa dentro la moschea, e uccisi il sacerdote mio padre, mi posi allato la scimitarra e cominciai ad andare in giro per il mondo; e per compagni condussi con me tutti i peccati del mondo // anzi quanti sono i peccati giù nell’inferno io li ho commessi settantasette volte fra i mortali, e non mi abbandonano mai né d’estate né d’inverno: non credo, se il mondo durasse in eterno, che si possano commettere tanti peccati quanti ne ho commessi io durante la mia vita; li conosco tutti alla perfezione».

Le poche ottave qui riportate ci offrono la possibilità di cogliere, all’interno della corte laureziana, un filone, che potremmo definire “comico” attraverso cui l’autore si pone il fine di suscitare il riso all’interno della raffinatissima corte entro la quale leggeva la sua opera. Egli infatti rovescia completamente il modello religioso, parafrasando il concetto di trinità spirituale con la materialità del cibo e ribadendo che se è lontano dal cristianesimo in quanto istigatore di rinunce e digiuni, lo è ancor di più verso il maomettismo perché negatore di vino.

Il Morgante è l’opera attraverso cui Pulci, spinto dalla madre di Lorenzo, Lucrezia Tornabuoni, vuole dare un’impronta maggiormente religiosa ai cantari popolari. Ma egli non si pone soltanto sulla linea, appunto, dei cantari popolareschi ancora in voga nel tardo trecento e nel periodo a lui contemporaneo: ironizzandoli, utilizzando i loro strumenti, li “abbassa” a al punto da cancellarli, o meglio di porre tra la sua opera e la loro una barra netta di separazione: infatti se il suo ispiratore appare appunto la tradizione canterina, quello letterario è certamente Boccaccio con le novelle di Ser Ciappelleto e dei frati e monache gaudenti.

La sua opera, tuttavia, non appare riuscita per alcuni fondamentali motivi:

  • La mancanza d’unitarietà, dovuta al fatto che l’opera è nata per essere recitata e non letta e quindi soffre di ripetizioni, di vistosi stacchi tra un canto e un altro e di una sostanziale disarmonia tra gli episodi;
  • Non vi è piena visione tra il fine ultimo dell’opera e l’ideologia di Pulci stesso: per meglio dire il compito datogli da Lucrezia non gli appartiene, anche se tenta di svilupparlo alla fine del poema: si è che egli è più aderente alla dissacrazione che alla costruzione e non è un caso che l’opera sia titolata come il gigante della storia: la parte più riuscita è quella fortemente comica e parodica, per il resto non è che una stanca ripetizione delle chancon de geste;
  • Non dobbiamo tacere tuttavia l’influenza che essa avrà nella cultura successiva: della sua opera si serviranno da una parte Teofilo Folengo e Alessandro Tassoni, autori di poemi eroico-comici come il Macaricon e la Secchia rapita ma anche il francese François Rabelais autore del celeberrimo Gargantua e Pantagruele.

Lorenzo il Magnifico, un principe senza corona

Lorenzo il Magnifico

Il terzo altro grande protagonista della cultura fiorentina di questo periodo è lo stesso duca: Lorenzo De’ Medici. Egli infatti, non solo si fa promotore di cultura, ma diventa egli stesso un raffinato facitore di versi e non di uno stile particolare, ma di tutte le esperienze che la sua città gli offriva: si va infatti dalla poesia comico realista dei Canti Carnascialeschi alle alte poesie d’ispirazione religiosa della maturità. E’ che in lui permangono sia lo stile burlesco che fa capo a Pulci, sia quello più strettamente filosofico di Marsilio.

Ii suo riconosciuto capolavoro sono i Canti Carnascialeschi da cui traiamo la sua lirica più famosa: 

CANZONA DI BACCO

Quant’è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Quest’è Bacco e Arïanna,

belli, e l’un dell’altro ardenti:
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati
ballon, salton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia
di doman non c’è certezza.

Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo
se non gente rozze e ingrate:
ora, insieme mescolate,
suonon, canton tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Questa soma, che vien drieto
sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio, è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca oro diventa.
E che giova aver tesoro,
s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi;
oggi siam, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi;
ogni tristo pensier caschi:
facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

Donne e giovinetti amanti,
viva Bacco e viva Amore!
Ciascun suoni, balli e canti!
Arda di dolcezza il core!
Non fatica, non dolore!
Ciò c’ha a esser, convien sia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

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Annibale Carracci: Il Trionfo di Bacco e Arianna

Quanto è bella la giovinezza, che se ne va un istante dopo l’altro. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Questi sono Bacco ed Arianna, belli, innamorati l’un dell’altro, perché il tempo scorre via ed inganna, stanno sempre insieme, contenti. Queste ninfe e gli altri personaggi che li seguono, sono sempre felici. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Questi lieti piccoli satiri (dei del bosco, dediti al piacere), innamorati delle ninfe, hanno teso loro piacevoli inganni nelle caverne e nei boschi; ora, eccitati dal dio del vino Bacco, ballano e danzano allegramente. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // A queste ninfe è gradito essere da loro ingannati: solo gente rozza e priva di grazia può resistere alle tentazioni dell’amore; ora mescolate ai satiri suonano e cantano incessantemente. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Questo peso, che segue sopra un asino è Sileno (satiro, precettore di Bacco), così vecchio ma ubriaco e felice, ormai vecchio e sfatto, se non riesce a srtare in piedi almeno ride e gode continuamente. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Segue poi Mida, ciò che tocca diventa oro, ma a che serve avere un tesoro se poi uno si accontenta. Che dolcezza può gustare chi ha sempre sete? Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Ciascuno presti attenzione, non si cibi del domani; oggi siamo ognuno di noi, vecchi e giovani felici, femmine e maschi, venga meno ogni pensiero triste. Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani. // Donne e giovani pieni d’amore, viva Bacco (il vino) viva l’amore! Tutti voi suonate, cantate, ballate: Arda di dolcezza il cuore! Nessuna fatica, nessun dolore! Ciò che deve essere, che sia! Chi vuol essere felice, lo sia! Non esiste nessuna certezza del domani.

Quello che caratterizza questa ballata è certamente il tema della caducità del tempo, a cui si associa quello della celebrazione della giovinezza. Il punto di partenza è certamente il Carpe diem oraziano e lì come qui tra i due termini non vi è contraddizione. Non vi è contraddizione perché la ballata viene inserita all’interno di un rito carnevalesco, in cui appunto vi è un tempo fortemente limitato, un inizio ed una fine e quindi una sospensione temporale. Se dovessimo paragonare tale interruzione con la giovinezza non vi troveremo appunto contraddizione. Ma quello che qui conta non è tanto ricercare una disarmonia tematica, assolutamente inesistente sia a livello di contenuto che di forma, ma la laicità del testo che ci invita ad un clima certamente diverso a quello medievale.

Napoli

File:Tavola Strozzi - Napoli.jpg - Wikipedia

Tavola Strozzi: Napoli nel ‘400

Napoli del ‘400 non è più quella città ridente e gioviale che aveva conosciuto il giovane Boccaccio. Infatti alla morte di Roberto d’Angiò (1343) il regno cadde in una profonda crisi dinastica che vide una lotta tra vari pretendi e che si concluse nel 1442, quando il regno si unì alla Sicilia, già in mano agli Aragonesi sotto il re Alfonso I il Magnanimo. Costui si fece promotore della cultura umanistica, promuovendo la nascita dell’Accademia e circondandosi d’intellettuali come Lorenzo Valla e Giovanni Pontano. Alla morte di costui (1458) i regni si divisero ulteriormente, lasciando Napoli a Ferdinando, figlio di Alfonso e la Sicilia a Giovanni II d’Aragona. Il loro regni durano fintantoché le aspirazioni francesi (con la famiglia d’Angiò) e quelle spagnole (con la famiglia degli Aragonesi) si contesero l’intero dominio che avvenne, nel 1516, con la presa di possesso della potenza iberica sia di Napoli che di Palermo.

Giovanni Pontano: biografia e opere | Studenti.it

Adriano Fiorentino: Giovanni Pontano

La grande stagione della cultura napoletana possiamo identificarla nella seconda metà del ‘400, durante il regno aragonese, grazie anche alla figura di Antonio Beccadelli, che diede vita ad un’Accademia, che venne guidata, alla sua morte, da Giovanni Pontano, e per questo detta Pontoniana, nella quale conversero le più grandi intellettualità del regno.

Jacopo Sannazaro - Wikipedia

Jacopo Sannazzaro

L’intellettuale più importante, per quanto riguarda la produzione volgare, è certamente Jacopo Sannazzaro, la cui opera avrà una fortuna tale da dare il nome ad una corrente del ‘700. Accolto nell’Accademia Pontoniana, si legò sin da giovane alla dinastia degli aragonesi, legandosi dapprima ad Alfonso e alla sua morte a Federico. A seguito della calata di Carlo VIII, seguì il suo signore sino in Francia e alla sua morte tornò nella capitale del sud Italia, dove compose opere in latino di spirito devozionale.     

Il suo capolavoro è l’Arcadia del 1486:

Sincero, dietro cui si cela lo stesso poeta (col nome assunto nella Accademia Pontoniana), si rifugia in Arcadia, il mitico mondo greco dei pastori, per sfuggire agli amori e alla delusione politiche. Qui divide la vita con i pastori e con le pastorelle che trascorrono le giornate guidando gli armenti al pascolo, cantando e suonando. La narrazione si arricchisce allora di altri racconti legati agli amori e agli avvenimenti che scandiscono il ritmo monotono di questa vita.

LA POESIA PASTORALE

Sogliono il più delle volte gli alti e spaziosi alberi negli orridi monti dalla natura prodotti, più che le coltivate piante, da dotte mani espurgate negli adorni giardini, a’ riguardanti aggradare; e molto più per li soli boschi i salvatichi uccelli sovra i verdi rami cantando, a chi gli ascolta piacere, che per le piene cittadi dentro le vezzose ed ornate gabbie non piacciono gli ammaestrati. Per la qual cosa ancora, siccome io stimo, addiviene, che le silvestre canzoni vergate nelle ruvide corteccia de’ faggi dilettino non meno a chi le legge, che li colti versi scritti nelle rase carte degl’indorali libri; e le incerate canne de’ pastori porgano per le fiorite valli forse più piacevole suono, che li tersi e pregiati bossi de’ musici per le pompose camere non fanno. E chi dubita, che più non fia alle umane menti aggradevole una fontana, che naturalmente esca dalle vive pietre, attorniata di verdi erbette, che tutte le altre ad arte fatte di bianchissimi marmi, risplendenti per molto oro? Certo che io creda, niuno. Dunque in ciò fidandomi, potrò ben io fra queste deserte piagge agli ascoltanti alberi, ed a quei pochi pastori, che vi saranno, raccontare le rozze Egloghe da naturale vena uscite; così di ornamento ignude esprimendole, come sotto le dilettevoli ombre, al mormorio de’ liquidissimi fonti da’ pastori d’Arcadia le udii cantare, alle quali non una volta, ma mille i montani Iddii da dolcezza vinti prestarono intente orecchie, e le tenere Ninfe, dimenticate di perseguire i vaghi animali, lasciarono le faretre e gli archi a piè degli alti pini di Menalo e di Liceo.

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Il più delle volte gli alti ed ampi alberi, nati spontaneamente sui monti selvaggi, sono soliti pacere a coloro che li ammirano, più delle piante coltivate, fatte nascere da mani esperti nei giardini ricchi d’ornamenti; e gli uccelli liberi che cantano sui verdi rami nei boschi solitari, gli ascoltatori sogliono piacere molto più di quanto non piacciano, nelle città affollate, quelli addomesticati nella graziose e adorne gabbie. Per cui credo che i boscherecci versi scritti sui ruvidi rami dei faggi piacciano non meno a chi li legge di quelli scritti nelle lisce carte di libri preziosi e credo che le zampogne dei pastori porgano un più piacevole suono in mezzo ai prati fioriti, di quanto non facciano i lucidi e pregiati flauti suonati dai musici nelle sale festose. E chi mette in dubbio  che non sia più gradita alla mente umana una fonte da cui naturalmente esca da le rocce, circondata da prati verdi, rispetto alle altre costruite ad arte con marmi bianchissimi e adornate con molto oro? Certo, per quanto ne sappia, nessuno. Dunque, confidando in ciò, potrò giustamente raccontare fra queste terre deserte agli alberi che ascoltano e ai pochi pastori che ci saranno, le disadorne Egloghe nate da un’ispirazione naturale; così recitandole prive di ornamenti, così come le sentii cantare dai pastori d’Arcadia sotto le piacevoli ombre (degli alberi) e al mormorio di limpidissime fonti, le stesse non una volta ma mille gli dèi montani, vinti dalla dolcezza, prestarono un attento ascolto e le dolci Ninfe, dimentiche di seguire i vaganti animali, lasciarono le faretre e gli archi  ai piedi degli alti pini di Menelao e di Liceo (monti dell’Arcadia). 

In questo passo il poeta napoletano sembra voglia mettere in contrapposizione il bello di natura dal bello di cultura, potremo dire artificiale. Ma ad essere artificiale è proprio il concetto di natura che lui descrive, utilizzando non lo sguardo “reale”, ma assolutamente letterario: l’eco di Teocrito, ma soprattutto di Virgilio, il periodare atteggiato ad uno stile involuto, latineggiante, con l’uso dei verbi posto alla fine, l’aggettivazione insistita, che indica maggiormente la qualità dell’oggetto descritto, rispetto allo stesso, rendono la pagina di Sannazzaro una ricerca di perfezione formale, in cui la “bellezza naturale” è tale solo se si trasforma in repertorio letterario.

Ferrara

Altro centro culturale di questo periodo è la Ferrara Estense. Sebbene cerchi di salvaguardare il suo territorio dalle mire di Stati più grandi e militarmente attrezzati che la circondano (a nord-ovest i Sabaudi, a Nord la Lombardia degli Sforza, ad Oriente la Repubblica di Venezia) lo Stato costituisce un nodo d’importante passaggio tra il centro papale e le regioni nordiche. Tale posizione le fornisce una enorme importanza strategica, ma diventa anche punto in cui si incontrano eminenti personalità dell’umanesimo, che la corte Estense, per prestigio, ospita e promuove.

Seguace di Dosso Dossi, sec. XVIIRITRATTO DI ERCOLE I D'ESTEolio su tela,  cm... | PANDOLFINI | ArsValue.com

Scuola di Dosso Dossi: Ercole I d’Este (XVII sec.)

Il momento più fervido della sua storia quattrocentesca è legato a Lionello d’Este, sposo di Margherita Gonzaga (si ricorda che i Gonzaga erano i signori di Modena), che scrisse anche liriche di raffinato gusto, ma soprattutto a Ercole, educato nella corte aragonese, che dal 1471 al 1505 regge il suo piccolo territorio, cercando d’ampliarne i confini, nonché di promuoverlo a livello intellettuale.

Una delle caratteristiche della cultura estense è l’amore verso la cultura francese, che è formata soprattutto da romanzi cavallereschi. Tale amore si era tradotto a livello popolare in una strana mescolanza tra ciclo carolingio e quello bretone, recitato nelle pubbliche piazze dai canterini, detti anche cantimpanca perché spesso recitavano in un palco improvvisato.

monteverdelegge: La poesia della domenica - Matteo Maria Boiardo, De avorio  e d'oro e de corali ...

Matteo Maria Boiardo

Il più grande intellettuale quattrocentesco è certamente Matteo Maria Boiardo, nato nel 1441 da nobile famiglia, legatissima alla casata estense. Ricevuta l’educazione umanistica e proprietario, alla morte del padre, del feudo di Scandiano, divenne in seguito comes di Ercole d’Este, vivendo per due anni nella sua corte. Tornato nel suo feudo, dopo aver preso in moglie una Gonzaga, si dedica al suo possedimento e alla letteratura, accompagnando, laddove fosse richiesto, gli Estensi in viaggi di rappresentanza. Muore nel 1494, l’anno della discesa di Carlo VIII.

Nell’inizio della sua produzione poetica, Boiardo ci dà testimonianza di come potesse essere l’umanesimo cortigiano, scrivendo opere, in latino, in cui era fortemente presente l’elemento encomiastico. Più importanti sono le opere in volgare fra cui ricordiamo l’Amorum libri, che richiama la poesia ovidiana degli Amores e il Canzoniere di Petrarca:

Amorum libri tres - Wikipedia

Antica edizione degli Amores di Boiardo

SONETTO PROEMIALE

Amor, che me scaldava al suo bel sole 
nel dolce tempo de mia età fiorita, 
a ripensar ancor oggi me invita 
quel che alora mi piacque, ora mi dole. 

Così racolto ho ciò che il pensier fole 
meco parlava a l’amorosa vita, 
quando con voce or leta or sbigotita 
formava sospirando le parole. 

Ora de amara fede e dolci inganni 
l’alma mia consumata, non che lassa, 
fuge sdegnosa il puerile errore. 

Ma certo chi nel fior de’ soi primi anni 
sanza caldo de amore il tempo passa, 
se in vista è vivo, vivo è sanza core. 

L’amore, che nel dolce tempo della mia giovinezza mi riscaldava al suo bel sole, ancora oggi mi invita a ripensare a ciò che allora mi piaceva, e adesso mi fa soffrire. // Così ho raccolto [in questi versi] ciò che il mio folle pensiero mi diceva nella vita amorosa, quando con voce ora lieta, ora piena di paura formava le parole tra i sospiri. // Ora la mia anima consumata e prostrata a causa della fedeltà amara [violata] e dei dolci inganni, fugge sdegnata i suoi errori di gioventù. // Ma certo chi nel fiore dei suoi primi anni trascorre il tempo senza il calore dell’amore, se in apparenza è vivo in realtà non possiede il cuore. 

Questo sonetto ci offre la possibilità di fare alcune osservazioni:

  1. l’inizio di un petrarchismo di maniera che risulterà insistito e codificato nella prima metà del ‘500. Tale petrarchismo si evince dal considerare l’amore in senso retrospettivo che causa dolore; ma se il dolore, nel sonetto di Petrarca, causato dall’errore giovanile lo porta al pentimento e alla caducità del tempo, in Boiardo ricade su stesso;
  2. ibridismo linguistico: la sostenutezza lessicale ricalcato sull’autore del Canzoniere, non cancella il linguaggio del luogo, rilevabile in “racolto, fole, sbigotita, fole”, in cui era usuale lo scempiamento delle consonanti doppie.  

Ma il suo capolavoro è l’Orlando innamorato del 1495, poema in ottave in tre parti (29, 31 e 9) di cui l’ultima incompiuta.

Angelica, la bellissima figlia del re del Cataio, giunge alla corte di Carlomagno accompagnata dal fratello Argalia che sfida tutti i cavalieri pretendenti. Il patto è che il vincitore avrà Angelica, ma quando Ferraguto uccide Argalia, la bella non sta ai patti e fugge verso Oriente, inseguita da tutti i paladini, innamorati di lei, compresi l’austero Orlando e Ranaldo. Nella foresta delle Ardenne Ranaldo però beve alla fontana dell’odio e da allora sfugge Angelica che, al contrario, ha bevuto a quella dell’amore e lo insegue innamorata. Anche il saraceno Agricane ama Angelica: pone per lei l’assedio ad Albracà e vi trova la morte per mano di Orlando. Intanto Agramante, re dei Mori, scatena la guerra in Francia, accompagnato da fierissimi guerrieri: Gradasso, Ruggiero, Ferraù, Rodomonte. Angelica continua a inseguire l’amato Ranaldo, sempre protetta dal fido Orlando; ma nella foresta delle Ardenne si rinnova l’incanto delle fonti, scambiato: adesso Ranaldo ama Angelica e lei lo sfugge. Per amore di lei Orlando e Ranaldo si azzuffano a Parigi: li separa Carlomagno, dando Angelica in custodia al duca di Namo e promettendola a chi combatterà più valorosamente i saraceni. Qui s’interrompe il poema. 

L’opera di Boiardo nasce dal clima che la dinastia estense vuole creare, dando vita ad una narrativa che si richiamasse esplicitamente alla letteratura medievale francese, e quindi feudale/cavalleresca, arricchendola con la nuova sensibilità umanistica, in cui la centralità dell’uomo emergesse non come forza guerriera, ma come sensuale amore. Non è che prima tale tema non esistesse, ma non veniva armonizzato in un’unica materia. Infatti alla base della stesura del poema troviamo è vero i poemi cavallereschi letti in francese nella corte ferrarese, ma anche il Teseida di Boccaccio, nonché l’appena scritto Morgante di Pulci (che sembra Boiardo conoscesse).

Boiardo Matteo Maria : Orlando innamorato [...] insieme coi tre libri di M.  Nicolo de gli Agostini, già

Edizione del 1611

L’opera è interrotta; la preparazione per l’arrivo di Carlo VIII distolse il Boiardo dagli interessi letterari; molti scrittori tentarono di concluderlo. Ma a continuarlo ci pensò l’Ariosto con l’Orlando furioso, il cui successo oscurò l’opera dell’autore quattrocentesco.

L’APPARIZIONE DI ANGELICA
(I, 1 stanze 1-3; 9-13; 19,35)

Signori e cavallier che ve adunati
per odir cose dilettose e nove,
stati attenti e quïeti, ed ascoltati
la bella istoria che ’l mio canto muove;
e vedereti i gesti smisurati,
l’alta fatica e le mirabil prove
che fece il franco Orlando per amore
nel tempo del re Carlo imperatore.

Non vi par già, signor, meraviglioso
odir cantar de Orlando inamorato,
ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
è da Amor vinto, al tutto subiugato;
né forte braccio, né ardire animoso,
né scudo o maglia, né brando affilato,
né altra possanza può mai far diffesa,
che al fin non sia da Amor battuta e presa.

Questa novella è nota a poca gente,
perché Turpino istesso la nascose,
credendo forse a quel conte valente
esser le sue scritture dispettose,
poi che contra ad Amor pur fu perdente
colui che vinse tutte l’altre cose:
dico di Orlando, il cavalliero adatto.
Non più parole ormai, veniamo al fatto.
(…)
Erano in corte tutti i paladini
per onorar quella festa gradita,
e da ogni parte, da tutti i confini
era in Parigi una gente infinita.
Eranvi ancora molti Saracini,
perché corte reale era bandita,
ed era ciascaduno assigurato,
che non sia traditore o rinegato.

Per questo era di Spagna molta gente
venuta quivi con soi baron magni:
il re Grandonio, faccia di serpente,
e Feraguto da gli occhi griffagni;
re Balugante, di Carlo parente,
Isolier, Serpentin, che fôr compagni.
Altri vi fôrno assai di grande afare,
come alla giostra poi ve avrò a contare.

Parigi risuonava de instromenti,
di trombe, di tamburi e di campane;
vedeansi i gran destrier con paramenti,
con foggie disusate, altiere e strane;
e d’oro e zoie tanti adornamenti
che nol potrian contar le voci umane;
però che per gradir lo imperatore
ciascuno oltra al poter si fece onore.

Già se apressava quel giorno nel quale
si dovea la gran giostra incominciare,
quando il re Carlo in abito reale
alla sua mensa fece convitare
ciascun signore e baron naturale,
che venner la sua festa ad onorare;
e fôrno in quel convito li assettati
vintiduo millia e trenta annumerati.

Re Carlo Magno con faccia ioconda
      sopra una sedia d’ôr tra’ paladini
      se fu posato alla mensa ritonda:
      alla sua fronte fôrno e Saracini,
      che non volsero usar banco né sponda,
      anzi sterno a giacer come mastini
      sopra a tapeti, come è lor usanza,
      sprezando seco il costume di Franza.
(…)
Mentre che stanno in tal parlar costoro,
      sonarno li instrumenti da ogni banda;
      ed ecco piatti grandissimi d’oro,
      coperti de finissima vivanda;
      coppe di smalto, con sotil lavoro,
      lo imperatore a ciascun baron manda.
     Chi de una cosa e chi d’altra onorava,
      mostrando che di lor si racordava.

Quivi si stava con molta allegrezza,
con parlar basso e bei ragionamenti:
 Re Carlo, che si vidde in tanta altezza,
tanti re, duci e cavallier valenti,
tutta la gente pagana disprezza,
come arena del mar denanti a i venti;
ma nova cosa che ebbe ad apparire,
fe’ lui con gli altri insieme sbigotire.

Però che in capo della sala bella
quattro giganti grandissimi e fieri
i
ntrarno, e lor nel mezo una donzella
che era seguìta da un sol cavallieri.
Essa sembrava matutina stella
e
giglio d’orto e rosa de verzieri:
i
n somma, a dir di lei la veritate,
non fu veduta mai tanta beltate.

Era qui nella sala Galerana,
      ed eravi Alda, la moglie de Orlando,
     Clarice ed Ermelina tanto umana,
      ed altre assai, che nel mio dir non spando,
      bella ciascuna e di virtù fontana.
     Dico, bella parea ciascuna, quando
      non era giunto in sala ancor quel fiore,
      che a l’altre di beltà tolse l’onore.

Ogni barone e principe cristiano
in quella parte ha rivoltato il viso,
né rimase a giacere alcun pagano;
ma ciascun d’essi, de stupor conquiso,
si fece a la donzella prossimano;
la qual, con vista allegra e con un riso
da far inamorare un cor di sasso,
incominciò così, parlando basso:

«Magnanimo segnor, le tue virtute
      e le prodezze de’ toi paladini,
      che sono in terra tanto cognosciute,
      quanto distende il mare e soi confini,
      mi dan speranza che non sian perdute
      le gran fatiche de duo peregrini,
      che son venuti dalla fin del mondo
      per onorare il tuo stato giocondo.

Ed acciò ch’io ti faccia manifesta,
      con breve ragionar, quella cagione
      che ce ha condotti alla tua real festa,
      dico che questo è Uberto dal Leone,
      di gentil stirpe nato e d’alta gesta,
      cacciato del suo regno oltra ragione:
      io, che con lui insieme fui cacciata,
      son sua sorella, Angelica nomata.

Sopra alla Tana ducento giornate,
      dove reggemo il nostro tenitoro,
      ce fôr di te le novelle aportate,
      e della giostra e del gran concistoro
      di queste nobil gente qui adunate;
      e come né città, gemme o tesoro
      son premio de virtute, ma si dona
      al vincitor di rose una corona.

Per tanto ha il mio fratel deliberato,
      per sua virtute quivi dimostrare,
      dove il fior de’ baroni è radunato,
      ad uno ad un per giostra contrastare:
      o voglia esser pagano o battizato,
      fuor de la terra lo venga a trovare,
      nel verde prato alla Fonte del Pino,
      dove se dice al Petron di Merlino.

Ma fia questo con tal condizïone
     (colui l’ascolti che si vôl provare):
      ciascun che sia abattuto de lo arcione,
      non possa in altra forma repugnare,
      e senza più contesa sia pregione;
      ma chi potesse Uberto scavalcare,
      colui guadagni la persona mia:
      esso andarà con suoi giganti via».

Al fin delle parole ingenocchiata
      davanti a Carlo attendia risposta.
      Ogni om per meraviglia l’ha mirata,
      ma sopra tutti Orlando a lei s’accosta
      col cor tremante e con vista cangiata,
      benché la voluntà tenìa nascosta;
      e talor gli occhi alla terra bassava,
      ché di se stesso assai si vergognava.

“Ahi paccio Orlando!” nel suo cor dicia
     “come te lasci a voglia trasportare!
     Non vedi tu lo error che te desvia,
      e tanto contra a Dio te fa fallare?
     Dove mi mena la fortuna mia?
     Vedome preso e non mi posso aitare;
      io, che stimavo tutto il mondo nulla,
      senza arme vinto son da una fanciulla.

Io non mi posso dal cor dipartire
      la dolce vista del viso sereno,
      perch’io mi sento senza lei morire,
      e il spirto a poco a poco venir meno.
     Or non mi val la forza, né lo ardire
      contra d’Amor, che m’ha già posto il freno;
      né mi giova saper, né altrui consiglio,
      ch’io vedo il meglio ed al peggior m’appiglio.”

Così tacitamente il baron franco
      si lamentava del novello amore.
     Ma il duca Naimo, ch’è canuto e bianco,
      non avea già de lui men pena al core,
      anci tremava sbigotito e stanco,
      avendo perso in volto ogni colore.
     Ma a che dir più parole? Ogni barone
      di lei si accese, ed anco il re Carlone.

Stava ciascuno immoto e sbigottito,
      mirando quella con sommo diletto;
      ma Feraguto, il giovenetto ardito,
      sembrava vampa viva nello aspetto,
      e ben tre volte prese per partito
      di torla a quei giganti al suo dispetto,
      e tre volte afrenò quel mal pensieri
      per non far tal vergogna allo imperieri.

Or su l’un piede, or su l’altro se muta,
      grattasi ’l capo e non ritrova loco;
     Rainaldo, che ancor lui l’ebbe veduta,
      divenne in faccia rosso come un foco;
      e Malagise, che l’ha cognosciuta,
      dicea pian piano: “Io ti farò tal gioco,
      ribalda incantatrice, che giamai
      de esser qui stata non te vantarai.”

Re Carlo Magno con lungo parlare
      fe’ la risposta a quella damigella,
      per poter seco molto dimorare.
     Mira parlando e mirando favella,
      né cosa alcuna le puote negare,
      ma ciascuna domanda li suggella
      giurando de servarle in su le carte:
      lei coi giganti e col fratel si parte.

Orlando Furioso on Pinterest

Orlando nella visione del disegnatore Luttazzi (per una animazione)

Signori e cavalieri che vi radunate per ascoltare cose piacevoli e nuove, state attenti e tranquilli e ascoltate la bella storia che ispira il mio canto; e vedrete le gesta straordinarie, il grande sforzo e le meravigliose prove che fece il francese Orlando  per amore, nel tempo in cui era re Carlomagno. // Non vi sembri, signori, meraviglioso sentire raccontare di Orlando innamorato, perché anche chi nel mondo è più fiero, è vinto dall’amore e a lui soggiogato; né un braccio muscoloso, né un coraggio vigoroso, né uno scudo o un’armatura, né una spada affilata, né altra forma di vigore potrà mai costituire una difesa tale che alla fine non sia battuta e conquistata da Amore. //  Questa nuova storia è conosciuta da poca gente, perché la nascose lo stesso Turpino, pensando forse che a quel conte fosse poco gradito che le scritture fossero rese palesi, dal momento che fu perdente contro l’Amore lui, che invece vinse tutte le altre battaglie: parlo di Orlando, il cavaliere perfetto. Nessuna parola ora: veniamo alla storia. // (…) // Nella corte c’erano tutti i paladini, per onorare quella piacevole festa, e Parigi era piena di una moltitudine di gente venuta da ogni parte e da tutti gli stati. Vi erano anche molti Saraceni, perché era proclamata la Corte Reale ed ognuno aveva assicurata l’impunità, a meno che non fosse traditore o un rinnegato. // Perciò era giunta dalla Spagna molta gente accompagnata dai suoi forti cavalieri: il re Grandonio, con la faccia di serpe, e Ferraguto dagli occhi di un grifone, Isoliere e Serpentino che furono compagni. Vi parteciparono molti altri, famosi per le grandi gesta, come vi racconterò al momento della giostra. // Parigi risuonava di vari strumenti, di trombe, di tamburi, di campane; sui vedevano grandi cavalli con bardature, di fogge inusuali, grandiose, preziose; tanti ornamenti d’oro e di pietre preziose che le voci umane non avrebbero potuto raccontare; perché, per onorare l’imperatore, ognuno diede sfoggio di sé il più possibile. // Già s’avvicinava il giorno nel quale si doveva cominciare la giostra, quando Carlomagno, in abito reale, fece sedere alla sua mensa tutti i signori e i nobili di nascita, venuti ad onorare la sua festa; e a quella tavola gli invitati furono contati in ventiduemilatrenta. // Re Carlo, con faccia gioiosa, si sedette su una sedia d’oro in mezzo ai paladini della tavola rotonda; di fronte a lui vi erano i Saraceni che non vollero né tavolo né sedie, anzi stettero a giacere sopra tappeti come cani, com’è loro abitudine, disprezzando tra sé e sé l’usanza francese. // (…) Mentre che tutti questi parlano tra loro, risuonarono da ogni parte gli strumenti; ed ecco che l’imperatore manda a ciascun barone piatti enormi d’oro coperti di cibo raffinatissimo, coppe di smalto, finemente lavorate; ad ognuno faceva onore chi di una cosa, chi di un’altra, mostrando di ricordarsi di tutti. // Qui si stava con molta allegria, parlando a bassa voce e di piacevoli argomenti; re Carlo che si vide così onorato tra tanti re, duchi e cavalieri valorosi, disprezza tutti i pagani, considerandoli come granelli di sabbia in preda ai venti; ma una cosa nuova che apparve improvvisamente lo fece sbigottire insieme a tutti gli altri. // Infatti dal fondo della bella sala entrarono quattro enormi e sdegnosi giganti ed in mezzo a loro una fanciulla, seguita da un solo cavaliere. Lei sembrava una stella mattutina un giglio d’oro e una rosa di giardino, insomma a dir la verità, non fu mai vista una simile bellezza. // Era qui nella sala Galerana (moglie di Carlo) ed Alda, moglie di Orlando, Clarice ed Ermelina, così cortese, e molte altre di cui taccio, tutte belle e piene di virtù. Dico, sembravano tutte belle, finché non giunse in sala quel fiore che tolse a tutte l’onore della bellezza. // Tutti i baroni e i principi cristiano hanno rivolto il viso verso di lei, né rimase sdraiato alcun saraceno, ma ciascuno di loro, preso da stupore, si avvicinò alla fanciulla, che con aspetto gioioso e una bocca atteggiata a riso, tale da far innamorare una pietra, parlando a bassa voce, cominciò a dire: // «Magnanimo signore, le tue virtù e le prodi imprese dei tuoi paladini, che sono tanto note nel mondo quanto tutte le terre che il mare circonda, mi danno la speranza che non siano perdute le speranze di due pellegrini, che sono venuti dai remoti confini del mondo per fare onore alla tua felicità. //  E affinché io ti renda chiara in poche parole il motivo che ci ha condotti alla tua festa reale, dico che questo è Uberto dal Leone, nato da nobile stirpe d’imprese gloriose, cacciato dal suo regno ingiustamente, io, che con lui sono stata bandita, sono sua sorella e mi chiamo Angelica. // Duecento giornate di cammino da oltre il Tanai, dove governiamo i nostri territori, ci furono portate le notizie riguardo te, della giostra e del gran raduno di queste nobili persone, qui raccolte, e ci è giunta la notizia che né città, né pietre preziose o tesori saranno premio per il valore, ma al vincitore si darà una corona di rose. // Per questo mio fratello ha deciso, per dimostrare qui il suo valore, dove si è raccolto il fior fiore dei nobili, di combattere a singolar tenzone con ciascuno di essi, sia pagano o cristiano e che (chi lo voglia) lo venga a cercare fuori dalla città, nel prato verde alla Fonte del Pino, nel luogo detto Pietrone di Merlino. // Ma lo scontro avverrà a queste condizioni (ascolti chiunque si vuol cimentare): chiunque sia disarcionato, non potrà tornare a combattere in altro modo e senza altra battaglia sarà prigioniero; ma chi potrà disarcionare Uberto, avrà come premio la mia persona: Uberto se ne andrà via con i suoi giganti. // Alla fine delle parole, inginocchiata di fronte a Carlo, aspettava la risposta. Tutti la guardavano ammirati, ma soprattutto Orlando che con il cuore tremante e lo sguardo incantato, a lei si avvicina, sebbene mascherasse il suo desiderio e talvolta abbassava lo sguardo per la vergogna verso se stesso. // “Ah, pazzo Orlando”, diceva fra sé “come ti lasci traviare dal desiderio, non vedi tu l’errore che ti fa allontanare dalla retta via e ti fa peccare grandemente contro Dio? Dove mi poorta la mia sorte? Mi sento preso e non posso aiutarmi, io che stimavo il mondo un niente, sono vinto, senza combattere, da una ragazzina. // Io non posso allontanare dal cuore la vista del viso sereno, per cui io mi sento morire senza di lei, e lo spirito venir meno a poco a poco; ora non vale nulla la forza, né il coraggio contro l’amore, che mi ha già soggiogato; né mi è d’aiuto conoscere il male, né il consiglio d’altri, sebbene veda il meglio per me e invece seguo il peggio”. // Così silenziosamente il barone francese si lamentava per il nuovo amore. Ma lo stesso duca di Namo, vecchio e con capelli bianchi, non aveva meno il cuore penoso, anzi tremava pieno di sbigottimento e spossato, ormai impallidito nel volto. Ma a che serve raccontare di più? Ogni barone s’innamorò di lei, anche il re Carlo. // Rimaneva ciascuno immobile e sbigottito, guardandola con immenso piacere, ma Ferraguto, giovane ardimentoso, sembrava a vedersi una viva fiamma e per ben tre volte decise ti toglierla a viva forza dai giganti e tre volte rinunciò a siffatti pensieri per non fare un tale affronto all’imperatore. // Rainaldo si dondola ora su un piede, ora su un altro, si gratta la testa e non trova pace ed in faccia è rosso come il fuoco e Malagise, suo cugino, che l’ha riconosciuta, diceva piano, tra sé: “Io ti farò un tale scherzo, incantatrice disonesta, da non farti vantare mai del tuo essere qui venuta”. // Re Carlo, con un prolungato discorso, rispose a quella fanciulla, per potersi trattenere a lungo con lei. Osserva parlando e osservando parla, né può negarle alcuna cosa ma acconsente a ciascuna richiesta, giurando di tenervi fede come se giurasse sul Vangelo; e allora lei, insieme ai giganti va via.    

Il Cavallo dell'Orlando fa ritorno nella Rocca Gazzetta di Reggio

Ugo Sterpini: Orlando Innamorato (Scandiano, località dove Boiardo fu feudatario)

In questo passo tratto dal primo canto possiamo trarre interessanti notazioni circa l’ispirazione e l’arte di Boiardo:

  1. Discendenza diretta dai canterini, con una novità; se in quelli prettamente popolari non mancava mai un’invocazione di tipo religioso, qui è talmente assente, sebbene il rifarsi all’uditorio è tipico di quel mondo;
  2. Il sottolineare che l’opera è nuova perché dice ciò che Turpino tace, vuol dire mettersi in competizione con i cantari popolari (che si rifacevano al”autorità di Turpino): si scopre qui un sottile gioco ironico;
  3. L’interesse insistito verso temi cari a Boiardo: la festa ed il banchetto, lo sfarzo,  l’oro e le pietre preziose; la cortesia cristiana e la rozzezza pagana. Tutte queste cose fanno da contorno all’apparizione di Angelica.
  4. Capacità nel variare le focalizzazioni: se la festa e i suoi convitati vengono visti da un narratore esterno, capace di leggere i pensieri e gli atteggiamenti dei protagonisti, Angelica è letta con gli occhi di chi la vede, quindi con una focalizzazione interna ai personaggi stessi; noi non sappiamo come sia, ma sappiamo quale effetto ha sugli uomini;
  5. La capacità di delineare i personaggi: Orlando, petrarcheggiante e idillico; Ferraguto, comico nell’atteggiarsi; pochi tratti a dirci le loro caratteristiche. 

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ORLANDO ED AGRICANE
(1, XVIII, 29-53)

Orlando ed Agricane un’altra fiata
ripreso insiem avean crudel battaglia;
la più terribil mai non fo mirata:
l’arme l’un l’altro a pezo a pezo taglia.
Vede Agrican sua gente sbaratata,
né li pô dare aiuto che li vaglia,
però che Orlando tanto stretto il tene,
che star con seco a fronte li conviene.

Nel suo secreto fie’ questo pensiero:
trar fuor di schiera quel conte gagliardo,
e poi che occiso l’abbia in su il sentiero
tornar alla battaglia senza tardo;
però che a lui par facile e legiero
cacciar soletto quel popol codardo;
ché tutti insieme, e il suo re Galafrone,
non li stimava quanto un vil bottone.

Con tal proposto se pone a fuggire,
forte correndo sopra alla pianura;
il conte nulla pensa a quel fallire,
anci crede che il faccia per paura;
senza altro dubbio se il pone a seguire.
E già son gionti ad una selva oscura;
aponto in mezo a quella selva piana
era un bel prato intorno a una fontana.

Fermosse ivi Agricane a quella fonte,
e smontò dello arcion per riposare,
ma non se tolse l’elmo della fronte,
né piastra o scudo se volse levare;
e poco dimorò che gionse il conte,
e come il vide alla fonte aspettare,
dissegli: «Cavallier, tu sei fuggito,
e sì forte mostravi e tanto ardito!

Come tanta vergogna pôi soffrire
a dar le spalle ad un sol cavalliero?
Forse credesti la morte fuggire:
or vedi che fallito hai il pensiero.
Chi morir può onorato, die’ morire;
ché spesse volte aviene e de legiero
che, per durare in questa vita trista,
morte e vergogna ad un tratto s’acquista».

Agrican prima rimontò in arcione,
poi con voce suave rispondia:
«Tu sei per certo il più franco barone
ch’io mai trovassi nella vita mia;
e però del tuo scampo fia cagione
la tua prodezza e quella cortesia
che oggi sì grande al campo usato m’hai,
quando soccorso a mia gente donai.

Però te voglio la vita lasciare,
ma non tornasti più per darmi inciampo!
Questo la fuga mi fe’ simulare,
né vi ebbi altro partito a darti scampo.
Se pur te piace meco battagliare,
morto ne rimarrai su questo campo;
ma siami testimonio il celo e il sole
che darti morte me dispiace e duole».

Il conte li rispose molto umano,
perché avea preso già de lui pietate:
«Quanto sei» disse «più franco e soprano,
più di te me rincresce in veritate,
che serai morto, e non sei cristïano,
ed andarai tra l’anime dannate;
ma se vôi il corpo e l’anima salvare,
piglia battesmo, e lasciarotte andare!».

Disse Agricane, e riguardollo in viso:
«Se tu sei cristïano, Orlando sei.
Chi me facesse re del paradiso,
con tal ventura non lo cangiarei;
ma sino or te ricordo e dòtti aviso
che non me parli de’ fatti de’ Dei,
perché potresti predicare in vano:
diffenda il suo ciascun col brando in mano».

Né più parole: ma trasse Tranchera,
e verso Orlando con ardir se affronta.
Or se comincia la battaglia fiera,
con aspri colpi di taglio e di ponta;
ciascuno è di prodezza una lumera,
e sterno insieme, come il libro conta,
da mezo giorno insino a notte scura,
sempre più franchi alla battaglia dura.

Ma poi che il sole avea passato il monte,
e cominciosse a fare il cel stellato,
prima verso il re parlava il conte:
«Che farem», disse «che il giorno ne è andato?»
Disse Agricane con parole pronte:
«Ambo se poseremo in questo prato;
e domatina, come il giorno pare,
ritornaremo insieme a battagliare».

Così de acordo il partito se prese.
Lega il destrier ciascun come li piace,
poi sopra a l’erba verde se distese;
come fosse tra loro antica pace,
l’uno a l’altro vicino era e palese.
Orlando presso al fonte isteso giace,
ed Agricane al bosco più vicino
stassi colcato, a l’ombra de un gran pino.

E ragionando insieme tuttavia
di cose degne e condecente a loro,
guardava il conte il celo e poi dicia:
«Questo che or vediamo, è un bel lavoro,
che fece la divina monarchia;
e la luna de argento, e stelle d’oro,
e la luce del giorno, e il sol lucente,
Dio tutto ha fatto per la umana gente».

Disse Agricane: «Io comprendo per certo
che tu vôi de la fede ragionare;
io de nulla scïenzia sono esperto,
né mai, sendo fanciul, volsi imparare,
e roppi il capo al mastro mio per merto;
poi non si puotè un altro ritrovare
che mi mostrasse libro né scrittura,
tanto ciascun avea di me paura.

E così spesi la mia fanciulezza
in caccie, in giochi de arme e in cavalcare;
né mi par che convenga a gentilezza
star tutto il giorno ne’ libri a pensare;
ma la forza del corpo e la destrezza
conviense al cavalliero esercitare.
Dottrina al prete ed al dottore sta bene:
io tanto saccio quanto mi conviene».

Rispose Orlando: «Io tiro teco a un segno,
che l’arme son de l’omo il primo onore;
ma non già che il saper faccia men degno,
anci lo adorna come un prato il fiore;
ed è simile a un bove, a un sasso, a un legno,
chi non pensa allo eterno Creatore;
né ben se può pensar senza dottrina
la summa maiestate alta e divina».

Disse Agricane: «Egli è gran scortesia
a voler contrastar con avantaggio.
Io te ho scoperto la natura mia,
e te cognosco che sei dotto e saggio.
Se più parlassi, io non risponderia;
piacendoti dormir, dòrmite ad aggio,
e se meco parlare hai pur diletto,
de arme, o de amore a ragionar t’aspetto.

Ora te prego che a quel ch’io dimando
Rispondi il vero, a fè de omo pregiato:
se tu sei veramente quello Orlando
che vien tanto nel mondo nominato;
e perché qua sei gionto, e come, e quando,
e se mai fosti ancora inamorato;
perché ogni cavallier che è senza amore,
se in vista è vivo, vivo è senza core. –

Rispose il conte: «Quello Orlando sono
che occise Almonte e il suo fratel Troiano;
Amor m’ha posto tutto in abandono,
e venir fammi in questo loco strano.
E perché teco più largo ragiono,
voglio che sappi che ’l mio core è in mano
de la figliola del re Galafrone
che ad Albraca dimora nel girone.

Tu fai col patre guerra a gran furore
per prender suo paese e sua castella,
ed io qua son condotto per amore
e per piacere a quella damisella.
Molte fiate son stato per onore
e per la fede mia sopra alla sella;
or sol per acquistar la bella dama
faccio battaglia, ed altro non ho brama».

Quando Agricane ha nel parlare accolto
che questo è Orlando, ed Angelica amava,
fuor di misura se turbò nel volto,
ma per la notte non lo dimostrava;
piangeva sospirando come un stolto,
l’anima, il petto e il spirto li avampava;
e tanta zelosia gli batte il core,
che non è vivo, e di doglia non muore.

Poi disse a Orlando: «Tu debbi pensare
che, come il giorno serà dimostrato,
debbiamo insieme la battaglia fare,
e l’uno o l’altro rimarrà sul prato.
Or de una cosa te voglio pregare,
che, prima che veniamo a cotal piato,
quella donzella che il tuo cor disia,
tu la abandoni, e lascila per mia.

Io non puotria patire, essendo vivo,
che altri con meco amasse il viso adorno;
o l’uno o l’altro al tutto serà privo
del spirto e della dama al novo giorno.
Altri mai non saprà, che questo rivo
e questo bosco che è quivi d’intorno,
che l’abbi riffiutata in cotal loco
e in cotal tempo, che serà sì poco».

Diceva Orlando al re: «Le mie promesse
tutte ho servate, quante mai ne fei;
ma se quel che or me chiedi io promettesse,
e se io il giurassi, io non lo attenderei;
così potria spiccar mie membra istesse,
e levarmi di fronte gli occhi miei,
e viver senza spirto e senza core,
come lasciar de Angelica lo amore».

Il re Agrican, che ardea oltra misura,
non puote tal risposta comportare;
benché sia al mezo della notte scura,
prese Baiardo, e su vi ebbe a montare;
ed orgoglioso, con vista sicura,
iscrida al conte ed ebbelo a sfidare,
dicendo: «Cavallier, la dama gaglia
lasciar convienti, o far meco battaglia».

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Agricane in una compagnia di pupi

Orlando ed Agricane un’altra volta avevano ripreso il crudele duello, non fu mai visto uno più terribile; le armi tagliano l’un l’altro tanti pezzetti di carne. Agricane vede la sua gente messa in fuga, né può dar loro valido aiuto, poiché Orlando non gli dà tregua quindi è costretto ad affrontarlo. Dentro di sé pensò di portare lontano quel forte cavaliere, e, dopo averlo ucciso, tornare senza indugio sullo stesso sentiero a combattere, perché a lui sembra facile e agevole mettere in fuga anche da solo quel popolo di vigliacchi, che tutti, e il loro re Galafrone, stimava quanto un bottone da quattro soldi. Pensando a ciò comincia a fuggire correndo forte sulla pianura; il Conte non pensa affatto a quell’inganno, anzi crede che lo faccia per paura: senza pensarci troppo comincia a seguirlo e sono quindi giunti ad un bosco oscuro. E proprio nel mezzo a quel bosco pianeggiante c’era un bel prato che circondava una fontana. Qui si fermò Agricane, vicino a quella fonte, e scese da cavallo per riposare, ma non si tolse l’elmo, né l’armatura né si volle liberare dello scudo. Aspettò un po’ ed ecco che giunse il conte Orlando, e come lo vide aspettare vicino alla fonte, gli disse: «Cavaliere, tu sei fuggito e ti mostravi così forte e coraggioso! Come puoi sopportare una tal vergogna, dare le spalle ad un solo nemico? Hai pensato forse di fuggire la morte? Ora capisci che ti sei sbagliato. Chi può morire con onore, deve morire, che può capitare facilmente, che per restare in questa triste vita, si acquista in un sol tratto sia la morte che la vergogna». Agricane dapprima rimontò sul cavallo e poi rispose con gentilezza: «Tu sei sicuramente il più leale Barone che io mai ho trovato nella mia vita, perciò saranno causa della tua salvezza la tua prodezza e quella cortesia che oggi mi hai mostrato (nel voler interrompere lo scontro) quando ho portato aiuto alla mia gente.  Per questo ti voglio lasciare la vita, ma vorrei che tu non tornassi indietro a darmi fastidio! Questo è il motivo per cui io ho finto di fuggire non avendo altra possibilità di salvarti. Ma se desideri combattere con me, morirai su questo terreno, ma mi siano testimoni il cielo ed il sole che darti la morte mi dispiace e mi addolora». Il Conte gli rispose in modo cortese: «In quanto sei il più sincero ed il più importante tra i nemici, tanto più in verità mi dispiace per te che morirai da non cristiano e così andrai tra le anime dannate, ma se desideri salvare il corpo e l’anima, battezzati e ti lascerò andar via». Disse Agricane, guardandolo in viso: «Sei cristiano sei Orlando! Se qualcuno mi offrisse di diventare il re del Paradiso, non farei cambio con l’opportunità (di combattere contro di te). Ma già da adesso ti ricordo e ti avviso di non parlarmi di questioni religiose e del destino (che mi spetta), perché predichi inutilmente, ognuno di noi difenda il suo Dio con la spada!» Non disse più nulla, ma tirò fuori Tranchera (la sua spada) e avanzò con coraggio verso Orlando. Ora inizia un crudo combattimento con colpi che tagliano e pungono: ambedue sono esempi di coraggio e duellano – come ci racconta Turpino – da metà mattina fino a notte sempre più ardimentosi nel duro scontro. Ma quando il sole tramontò ed il cielo iniziò a riempirsi di stelle, dapprima fu Orlando che parlò ad Agricane: «Che facciamo? Il sole è tramontato» «Ci sdraieremo su questo terreno e domattina, appena sorge il sole, ricominceremo a duellare». Si misero così d’accordo ed ognuno legò il cavallo, come se tra loro ci fosse un’antica amicizia. Erano vicini, scoperti, Orlando presso la fontana, Agricane a fianco il bosco, sotto l’ombra di un gran pino. E discutendo insieme di cose convenienti a loro, il Conte guardando il cielo diceva: «Questo che ora vediamo e il bel lavoro che ha fatto Dio, la luna e le stelle brillanti, la luce ed il sole; Dio ha questo per tutti gli uomini». Disse Agricane: «Io capisco che tu vuoi parlare di religione. Io non sono esperto di alcuna conoscenza, né mai da ragazzo, ho voluto imparare e, come ricompensa, ho spaccato la testa al mio maestro; in seguito non si è potuto trovare nessuno che mi mostrasse un libro o qualcosa di scritto: avevano tutti paura. E così ho passato la mia giovinezza cacciando, giostrando e cavalcando; né mi sembra sia opportuno alla nobiltà passare le intere giornate sui libri e a pensare. Conviene che un cavaliere eserciti la forza del corpo e l’abilità nella guerra: la dottrina lasciamola ai preti: io so quanto mi conviene». Rispose Orlando: «Sono d’accordo con te su un punto che le armi costituiscono il primo segno d’onore per un uomo, ma ciò non determina che il sapere renda l’uomo meno degno, anzi lo accresce, come fa un fiore in mezzo ad un prato: E’ simile ad un bue, a un sasso, a un pezzo di legno chi non pensa a Dio e non si può pensare a Lui senza cultura». Disse Agricane: «Non è cortese voler discutere da un punto di vista vantaggioso. Io ti ho rivelato la mia natura e riconosco che sei dotto e saggio, ma se continui su questo argomento io non ti rispondo più. Se ti va di dormire, dormi pure, se invece vuoi parlare, aspetto da te discorsi d’arme e d’amore. Ora, ti prego, rispondi a una mia curiosità: se sei tu veramente quell’Orlando  che è così famoso nel mondo, perché e come e quando sei arrivato fin qui e se sei ora innamorato, perchè un cavaliere senza amore se vive lo fa apparentemente, perché è senza cuore». Rispose Orlando: «Sono quell’Orlando che ha ucciso Almonte e suo fratello Troiano. L’amore mi ha posto in tale confusione che mi ha fatto giungere in questo luogo straniero e, per parlarti più chiaramente, voglio che tu sappia che il mio cuore è in mano della figlia del re Galafrone che dimora nella rocca d’Albracà. Tu le porti una gran guerra, per catturare la sua fortezza, ma io sono qui soltanto per l’amore di questa fanciulla, non voglio altro!» Quando Agricane capì che costui era l’Orlando che amava Angelica, il volto gli si turbò, ma, siccome era notte, non lo diede a vedere; piangeva sospirando come uomo fuori da sé; gli bruciavano il petto e l’animo ed il cuore gli batté così forte per la gelosia da non capire se fosse morto o vivo per il dolore. Poi disse a Orlando: «Tu devi pensare che appena si farà giorno dobbiamo combattere e uno di noi rimarrà qui, sul terreno; ora ti voglio pregare di una cosa che prima di giungere ad un tale scontro tu quella fanciulla che desideri l’abbandoni e la lasci a me. Io non potrei sopportare, mentre vivo, che un altro amasse un tal viso quando l’amo io: uno di noi due quando si farà giorno sarà privato dell’amore e della vita; nessuno saprà mai ad eccezione del ruscello e degli alberi che tu, in un momento, l’hai abbandonata». Rispondeva Orlando al re Agricane: «Ho mantenuto tutte le promesse che ho fatto, ma se io promettessi quello che tu mi chiedi e se io lo girassi non lo manterrei, nello stesso modo potrei staccarmi le membra dal mio corpo e strapparmi gli occhi, vivere senza un’anima e senza un cuore, piuttosto che lasciare l’amore per Angelica». Il re Agricane che ardeva di gelosia oltre misura, non può sopportare una tale risposta e sebbene si stia al mezzo dell’oscura notte prese il cavallo Baiardo e vi montò sopra e orgoglioso, con lo sguardo fiero, urla al conte  e lo sfida a duello dicendo: «Cavaliere, la bella donna ti conviene lasciare o combattere con me!».

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Il brano è abbastanza importante perché evidenzia in modo netto la tipologia dell’uomo dell’Umanesimo così come Boiardo lo disegna: in primo luogo si sottolinea la cortesia che non è certo da intendere in modo medievale, ma come capacità di dialogo, di confronto, di gentilezza con cui il Conte e Agricane si confrontano ed il valore militare; tuttavia bisogna anche qui sottolineare una differenza del “nuovo uomo” del ‘400 che accompagna l’essere cavaliere con la cultura (quasi a sottolineare la visione della nobiltà all’interno della corte estense). Tale concetto emerge proprio attraverso il confronto tra Orlando e Agricane, confronto condotto sulla base di una civiltà umanistica portata quasi al convincimento più che all’imposizione. E’ evidente che una narrazione cortese, dove è l’amore a costituire la base dell’intera narrazione, sarà proprio il sentimento verso Angelica che sarà privo di ogni compromesso: l’amore per uno e l’altro cavaliere non può essere concepito come relativo, ma solo come valore totalizzante.

GIOVANNI BOCCACCIO

Giovanni Boccaccio scrittore, biografia

Andrea del Castagno: Ritratto di Giovanni Boccaccio (particolare)

Si crede che Giovanni Boccaccio sia nato a Certaldo nel 1313 da una relazione illegittima di Boccaccino di Chellino, agente dell’agenzia bancaria dei Bardi. Tale credenza è messa in dubbio dal fatto che molti ritengono più probabile la nascita in Firenze, mentre lui, da giovane, avrebbe sviluppato la “favola” di una sua origine parigina. Impara i primi rudimenti grammaticali da un ecclesiastico, che instilla in lui, sin da giovane, un incredibile amore per Dante.

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La statua di Boccaccio a Certaldo in Toscana

Nel 1327 circa Boccaccino è sicuramente a Napoli, nel regno di Roberto d’Angiò a guidare una succursale della banca dei Bardi; egli, sin da subito, porta con sé il figlio Giovanni, perché apprenda i rudimenti del suo mestiere. In tale città il giovane sarà bene accolto sia negli ambienti aristocratici della corte, dove il padre svolge i suoi affari sia con il re, sia con i ricchi mercanti fiorentini che in quella città gravitano.

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Simone Martini: Roberto d’Angiò, Museo di Capodimonte (Napoli)

In questo periodo Giovanni, da autodidatta, legge moltissimo: frequenta con passione i classici latini, legge romanzi cortesi, che la biblioteca di corte possiede in quantità, ma non disdegna la letteratura popolare, come quella dei giullari, che allieta le piazze della città partenopea. Durante la sua permanenza nel Regno di Napoli, Boccaccio conduce una vita spensierata e gaudente, intreccia vari amori e scrive, in onore delle belle donne di corte, varie opere, che lo fanno conoscere e aprono a lui le porte per intrecciare avventure galanti. Tali opere sono: La caccia di Diana, il Filoloco, il Filostrato, il Teseida. Ma insieme a tali opere “narrative” scrive anche un certo numero di rime.

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P. Salinas: Boccaccio alla corte di Giovanna di Napoli, 1892

Nel 1340 la banca dei Bardi fallisce e Boccaccio deve tornare, insieme al genitore, a Firenze. E’ un periodo di difficoltà economica per cui cerca protezione presso i signori. Continua nel frattempo a scrivere opere come il Ninfale d’Ameto, l’Amorosa visione, il Ninfale fiesolano e l’Elegia di Madonna Fiammetta. Tra il 1349 ed il 1351 scrive il suo capolavoro, il Decameron; è un periodo fertile culturalmente, ma grave di lutti: gli muore il padre e Violante, la prima di cinque figli, avuti tutti fuori dal matrimonio. Il successo del Decameron lo porta ad essere apprezzato in città, tanto che la stessa gli affida incarichi importanti come ambasciatore. E’ di questo periodo anche l’amicizia, che durerà tutta la vita, con Francesco Petrarca, cui già un decennio prima aveva dedicato un’opera dal titolo De vita et moribus domini Francisci Petrachi. Sotto l’influenza del poeta aretino, approfondirà lo studio degli scrittori di Roma, che lo porteranno a elaborare alcune opere in latino. Ma egli non dimenticherà mai l’amore per Dante, tanto che scriverà, nel 1351, un libello in suo nome: Trattatello in lode di Dante. Di questo periodo è anche un’altra opera, piuttosto tarda, il Corbaccio. Comincia, come il suo amico a cercare nei monasteri testi classici; ma quando si libera un posto a Napoli come segretario, si reca in città per ottenerlo, ma senza riuscirvi. La città partenopea gli rimarrà sempre nel cuore, ma non riuscirà mai a stabilirvisi. Nel 1360 è colpito da una profonda crisi religiosa: si fa sacerdote e promuove lo studio del greco, non solo per lui, ma per l’intera cultura europea, chiamando Leonzio Pilato, monaco calabrese, allo “Studio fiorentino”, che potremmo definire coma la prima cattedra di lingua e cultura greca in territori non bizantini. Si racconta, ma senza fondamento, che tra gli effetti di tale crisi vi sia anche il senso di colpa per l’opera maggiore che ha scritto, tanto da volerla bruciare. Sarà il suo amico Petrarca a distoglierlo da tale atto.

Ormai povero e malato si ritira a Certaldo, fra il calore di vecchi e nuovi amici. Soprattutto questi ultimi (i futuri umanisti) lo saluteranno come un grande maestro.

Nel 1373 Firenze lo richiama per leggere pubblicamente la Divina Commedia di Dante nella chiesa di Santo Stefano. Accetterà tale incarico per amore verso il sommo poeta. Ma farà in tempo a leggere soltanto 17 canti. Morirà, nel 1375, dopo aver appreso la notizia della morte del suo amico Petrarca, sopravvivendogli appena un anno.

L’uomo

Boccaccio è contemporaneo di Petrarca, vive pertanto la stessa situazione storica dell’amico aretino. Tuttavia tra i due vi sono notevoli differenze:

  • L’adolescenza e la giovinezza a Napoli, all’interno di una corte dove ancora molto forte è la presenza della cultura “narrativa” cortese;
  • Il lavoro paterno e l’ambiente, borghesia e nobiltà. Saranno proprio questi due elementi che contraddistingueranno l’ideologia di fondo boccacciana e che troveranno voce in alcune novelle del suo capolavoro;
  • L’amore per Dante e per il modo con cui l’autore della Divina Commedia, osserva il reale. Noteremo, infatti, come anche Boccaccio sia più portato non tanto a scrutare l’io, quanto la vita nella sua molteplicità;
  • L’amore per i classici che metterà a frutto non solo in opere, certamente meno riuscite di quelle di Petrarca, ma nel suo stile volgare, dove ricreerà una eleganza modellandola sull’insegnamento stilistico degli uomini di Roma.

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Le statue di Dante, Petrarca e Boccaccio a Ponte Vecchio (Firenze)

E’ chiaro da quanto detto che si potrebbe istituire una linea che dal medioevo conduce alla nuova età umanistica, quella che caratterizzerà la cultura del 1400, proprio a partire da quella che è stata definita la nostra triade letteraria fiorentina: se infatti Dante è completamente proiettato verso il divino, Petrarca è l’uomo che, con le sue contraddizioni, sembra incapace a scegliere tra Dio e l’uomo, e il nostro Boccaccio, che chiude il discorso, è proiettato, con l’elogio verso l’amore sensuale, alla terra. Ma è estremamente semplicistico ridurre i nostri grandi autori a tale definizione: potremo dire che in modo diverso, dettato dall’età e dalla sensibilità di ognuno di loro, tutti e tre vivano con difficoltà il rapporto col divino: ce lo dimostra Dante stesso, nell’episodio di Francesca o d’Ulisse, quando, pur accusandoli per aver messo l’amore e la conoscenza al di sopra di Dio, non può che provare nei loro confronti profonda comprensione e stima; ce lo dice lo stesso Petrarca, e Agostino con lui, come l’amore verso la vanità e la gloria letteraria (tutta terrena) non le permettano di vivere, senza timori e difficoltà, il desiderio della serenità della fede; ma sarà di ciò testimone anche Boccaccio che se anche racconterà, col sorriso sulle labbra, di frati bugiardi e di monache vogliose di sesso, saprà disegnarci, nell’ultima novella, una storia in cui è evidente l’allegoria verso la figura della Madonna.

Periodo napoletano

Caccia di Diana (1334): poemetto in terza rima in 18 canti. La narrazione è fatta in prima persona. Il richiamo metrico è dantesco (la terza rima), mentre a livello di contenuto si richiama alla letteratura cortese. 

Il protagonista sta pensando come fare per ripararsi dai colpi d’amore, ma viene distolto da una voce che, in modo soave, chiama ad unirsi le donne della corte di Diana. Arrivano le donne più belle della reggia di Roberto d’Angiò. Esse, dopo essersi raccolte intorno alla dea, si dividono in gruppi e iniziano la caccia che viene descritta per quattordici canti. Diana dà l’ordine di sospendere la caccia e invita le donne a rendere sacrifici a Giove. Ma l’ultima donna dichiara di preferire fare sacrifici in onore di Venere. La dea appare e, riconoscente per la fedeltà a lei dimostrata dalle donne, fa apparire dalle fiamme del fuoco approntato per i sacrifici alcuni giovani allegri e piacenti.

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Miniatura da La Caccia di Diana di Boccaccio

L’APPARIZIONE DI VENERE E I MIRACOLI D’AMORE

Caccia de’ petti nostri i pensier vili,
     e per la tua virtù fa’ eccellenti
     gli animi nostri, e’ cor larghi e gentili.
Deh fa sentire a noi quanto piacenti 
     sieno gli effetti tuoi, e facci ancora,
     alcuno amando, gli animi contenti.

(…)

E poi, verso del foco rivoltata,
     non so che disse: se non che di fuori
     ciascuna fiera che v’era infiammata,
mutata in forma d’uom, di quelli ardori 
     usciva giovinetto gaio e bello,
     tutti correndo sopra ’l verde e’ fiori;
e tutti entravan dentro al fiumicello,
     e, quindi uscendo ciascun, d’un vermiglio
     e nobil drappo si facean mantello, 

(…)

E vidimi alla bella Donna offerto, 
     e di cervio mutato in creatura
     umana e razionale esser per certo;
ma non ingiustamente, che natura
     non mise mai valor nè gentilezza,
     quant’è in lei onestissima e pura; 
il viso suo angelica bellezza
     del ciel discesa veramente pare,
     venuta a dare agli occhi uman chiarezza

discreta e saggia nel suo ragionare,
     e signorevol donna nello aspetto, 
     lieta e baldanzosa nello andare;

Manda via dalla nostra mente i pensieri malvagi, e grazie alla tua virtù, o Venere, rendi i nostri animi elevati e i cuori accoglienti e nobili. Dunque fa sentire a noi quanto piacevoli siano i tuoi effetti e rendici gli animi felici con l’amare qualcuno. (…) E poi, rivolta verso il fuoco, disse non so cosa, se non che tutti i corpi avvolti nelle fiamme furono esteriormente mutati in uomini; da quel calore uscivano giovinetti belli e felici, che correvano sopra il prato verde e fiorito. e tutti si gettavano dentro un fiumiciattolo dal quale, uscendo, venivano ricoperti con un rosso mantello. (…)  

E’ evidente in questa giovanile opera come Boccaccio, accanto a elementi classicheggianti, primi fra tutti quelli ovidiani, subisca l’influenza del “dolce stilnovo”. Infatti anche qui viene ripreso il concetto guinizzelliano dell’amore e del cuore gentile. D’altra parte è anche vero che tale tema viene “ingentilito” dall’esistenza stessa, nella corte di Roberto d’Angiò, da giovani e giovinette, ambedue portatori di cuore gentili: infatti Boccaccio canta l’amore come sentimento che ingentilisce l’uomo facendolo passare da essere ferino a possessore d’un gentil core.

Filostrato (1335): il cui titolo, secondo l’autore certaldino significherebbe “vinto d’amore” (in realtà vuol dire “amante degli eserciti”). Dopo un proemio in prosa, l’opera è costituita da nove parti in ottave dove si racconta la seguente storia:

Troiolo, ultimo figlio del re di Troia Priamo s’innamora di Criseida, figlia dell’indovino Calcante. Grazie al fratello di lei e suo amico, Pandaro, l’innamoramento sembra andare a buon fine. Ma Criseida, per uno scambio di prigionieri, deve andare al campo greco, scortata da Diomede che se ne innamora. Troiolo, convinto d’essere stato tradito, cerca di vendicarsi, ma viene ucciso da Achille.

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Manoscritto del Filostrato (Regione Veneto)

Le fonti di questo testo sono da ricercare nel romanzo francese Roman de Troie di Bernoit de Saint-Maure o Historia troiana di Guido delle Colonne della fine del XIII secolo. E’ evidente, pertanto, come il giovane Boccaccio è attratto dalla letteratura cortese anche quando i riferimenti sono classici (qui la guerra di Troia) e pertanto il suo sguardo è attirato  dai modelli delle chanson medievali, ricche d’avventura e d’amore, più dell’epica.

Lo dimostra, d’altra parte, l’invocazione:

INVOCAZIONE

(I, 1-6)

Alcun di Giove sogliono il favore
     ne’ lor principii pietosi invocare;
     altri d’Apollo chiamano il valore;
     io di Parnaso le muse pregare
     solea ne’ miei bisogni, ma amore
     novellamente m’ha fatto mutare
     il mio costume antico e usitato,
     poi fu’ di te, madonna, innamorato.
Tu donna se' la luce chiara e bella,  
per cui nel tenebroso mondo accorto
vivo; tu se’ la tramontana stella
la qual’io seguo per venire al porto;
ancora di salute tu se’ quella
che se’ tutto il mio bene e ’l mio conforto;
tu mi se’ Giove, tu mi sei Apollo,
tu se’ mia musa, io l’ho provato e sollo.

Per che volendo per la tua partita,
     più greve a me che morte e più noiosa,
     scriver qual fosse la dolente vita
     di Troilo, da poi che l’amorosa
     Griseida da Troia sen fu gita,
     e come pria gli fosse grazïosa;
     a te convienmi per grazia venire,
     s’io vo’ poter la mia ’mpresa fornire.

Adunque, o bella donna, alla qual fui
     e sarò sempre fedele e soggetto,
     o vaga luce de’ begli occhi in cui
     Amore ha posto tutto il mio diletto;
     o isperauza sola di colui,
     che t’ama più che sè d’amor perfetto,
     guida la nostra man, reggi l’ingegno,
     nell’opera la quale a scriver vegno.
Tu se’ nel tristo petto effigïata
     con forza tal, che tu vi puoi più ch’io;
     pingine fuor la voce sconsolata
     in guisa tal, che mostri il dolor mio
     nell’altrui doglie, e rendila sì grata,
     che chi l’ascolta ne divenga pio;
     tuo sia l’onore, e mio si sia l’affanno,
     se i detti alcuna laude acquisteranno.

E voi amanti prego che ascoltiate
     ciò che dirà ’l mio verso lagrimoso;
     e se nel cuore avvien che voi sentiate
     destarsi alcuno spirito pietoso,
     per me vi prego ch’amore preghiate,
     per cui siccome Troilo doglioso
     vivo lontan dal più dolce piacere,
     che a creatura mai fosse in calere.

Alcuni usano invocare, in principio della loro opera, la protezione di Giove, altri invocano la virtù di Apollo; io, in soccorso delle mie necessità, usavo pregare le Muse, ma recentemente Amore mi ha fatto mutare la mia antica e consueta abitudine, allorché mi innamorai di te, madonna. // Tu, o donna, sei la luce chiara e bella per la quale io vivo prudente nel mondo tenebroso; tu sei la stella tramontana che io seguo per giungere al porto; àncora di salvezza, tu (sola) rappresenti tutto il mio bene e il mio conforto; tu sei per me Giove, sei Apollo, tu sei la mia musa, ed io l’ho provato e ne sono certo. // Perciò volendo raccontare, in occasione della tua partenza, che è per me più dura e dolorosa da sopportare della morte stessa, quale sia stata la triste storia di Troiolo dopo la morte dell’amata Criseida, e come invece prima (quella vita) gli fosse piacevole, è opportuno che io chieda la tua grazia, se io voglio portare a termine la mia impresa. // Dunque, o bella donna, alla quale fui e sarò sempre assoggettato, o splendida luce dei begli occhi nei quali Amore ha posto tutto il mio piacere; o sola speranza di colui che ti ama più di quanto ami se stesso, di un amore perfetto, guida la mia mano, sorreggi la mia intelligenza, nell’opera che mi accingo a scrivere. // Tu sei ritratta nel mio petto addolorato con una tale forza, che su di me eserciti un potere più forte del mio stesso potere; infine fanne uscire la voce sconsolata, così che mostri il mio dolore attraverso (il racconto di) quello di qualcun altro, e rendila (la voce) così piacevole, che chi la sente diventi virtuoso. Tuo sarà l’onore e mia la fatica, se i versi riceveranno qualche lode. // E voi, amanti, vi prego di ascoltare ciò che diranno i miei versi addolorati, e se accadrà che voi sentiate destarsi nel cuore qualche pietà, vi prego di pregare per me Amore, a causa del quale, come Troiolo, vivo nel dolore, lontano dal più dolce piacere che abbia mai potuto avere qualche importanza per una creatura.

in cui convergono elementi derivati dalla scuola poetica siciliana, guinizzelliani, cavalcantiani ed anche danteschi, per meglio dire l’intera tradizione della poesia erotica italiana. Quello che tuttavia caratterizza il poemetto è l’amore concreto, vissuto rapidamente da due giovani, e non più l’amore idealizzato.

Troilo-e-Cressida-vanno-a-letto-insieme-1024x820.jpgTroilo e Criseide si incontrano e vanno a letto insieme”, miniatura tratta dal ‘Filostrato’ (terzo quarto del XV secolo)

L’importanza del Filostrato è tutta nella scelta metrica, l’ottava rima, otto versi endecasillabi con rima ABABABCC (6 versi rima alternata, gli ultimi due baciata) che sarà alla base della narrazione epico-cavalleresca dal ’400 fino al ’600.

Filocolo (1336): il titolo significa “fatica d’amore”. L’opera rappresenta il primo tentativo di “romanzo” da parte del Boccaccio e lo dedica a Fiammetta (senhal per Maria d’Aquino).

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Giovanni Boccaccio, Filocolo, per Filippo Giunti, 1594 (Biblioteca Marucelliana)

Florio, figlio del Re di Spagna e Biancofiore, un’orfana, si amano dopo essere cresciuti insieme. Per l’opposizione dei sovrani spagnoli che mandano Florio in giro per l’Europa a studiare e vendono Biancofiore ad un ammiraglio d’Oriente, i due giovani sono costretti ad affrontare molte peripezie e disgrazie che li dividono, ma alla fine, dopo numerosi viaggi di Florio alla ricerca dell’amata, con lo pseudonimo di Filocolo, si ritrovano e la storia termina con un lieto fine.

LETTERATURA E AMORE

Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l’aere pervenne a’ medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d’un soave sonno l’occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che a lui pareva esser sopra un alto monte e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le propie mani il leoncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva. Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sé: e di ciò pareva che l’uno e l’altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co’ propii unghioni quivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all’usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de’ vicini mari due girfalchi, i quali portavano a’ piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da’ piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sé. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d’oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n’andavano là ove ella era; e quivi gli parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l’uno e l’altro parea che divorar volesse co’ propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s’erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia simigliantemente d’una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell’ora che Amore s’era da’ suoi nuovi suggetti partito. Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l’un l’altro fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse: «Deh, che nuova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancifiore da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti!». Biancifiore rispose: «Io non so, se non che di te poss’io dire che in me sia avvenuto il simigliante. Credo che la virtù de’ santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in altrui adoperarono». «Veramente» disse Florio «io credo che come tu di’ sia, però che tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci». «Certo tu non piaci meno a me che io a te» rispose Biancifiore. E così stando in questi ragionamenti co’ libri serrati avanti, Racheio, che per dare a’ cari scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo, cominciò a dire: «Questa che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov’è fuggita la sollecitudine del vostro studio?». Florio e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi dell’effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne’ loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri, abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidare.

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Ulisse Sartini: Florio e Biancifiore (2012)

Così come Cupido immediatamente s’allontanò dalla madre, allo stesso modo Venere avvolta in una nube, giunse agli stessi tetti e silenziosamente, preso il vecchio re, lo portò in camera su un letto riccamente ricamato e occupò la sua mente con un dolce sogno. Una straordinaria immagine apparve al sovrano durante il sonno: gli sembrava di essere in un monte elevato e d’aver catturato una cerva bianchissima e bella, e gli sembrava avere verso di lei un sentimento di protezione; tenendola fra le braccia le pareva che da lei uscisse un piccolo leone, veloce e vispo, che insieme alla cerva egli stesso nutriva per qualche tempo. Ma, dopo qualche anno, vedeva scender giù dal cielo uno spirito risplendente, che apriva il petto del leoncino, ne traeva il cuore che la cerva mangiava con desiderio. Gli sembrava inoltre che lo stesso spirito avesse fatto lo stesso con il petto della cerva e con il leoncino che gustava il suo cuore, quindi si allontanava. Dopo ciò vedendo che il piccolo leone s’avvicinava alla cerva e pensando che la volesse mangiare, lo allontanava e le pareva che ambedue si dolessero per questo. Ma dopo poco apparve sopra la montagna un lupo, che con fame rabbiosa andava verso la cerva e il re gliela offriva; ma il leoncino, correndo prontamente, tornò per difendere la cerva e con le unghie lacerò il corpo del lupo, uccidendolo, e restituì la paurosa cerva al re che sembrava dolersi del suo ritorno. In seguito gli sembrava che due girfalchi provenissero dai mari con nelle zampette dei sonagli che non emettevano suono. Egli li attirava e consegnava loro la cerva e quindi li allontanava. e loro la prendevano, la legavano con una catena d’oro e la portavano, attraverso il mare, in Oriente: e qui ad un grandissimo cane da caccia, così come l’avevano legata, la lasciarono. Il leoncino, avendolo saputo, lamentandosi cominciò a cercarla, e facendosi accompagnare da altri animali , seguitando le orme della cerva, arrivò a trovarla e qui, nascostamente dal cane, sembra che con lei si congiungesse. Ma avendolo il cane scoperto, sembra che li volesse divorare entrambi, ma improvvisamente, essendogli cessata la rabbia, li respedì da dove erano giunti. Ma prima che raggiungessero il monte, in sogno gli apparve che il leoncino e la cerva si tuffassero in una fontana, dalla quale uscirono come bel giovane e piacente donna. Quindi, tornati dal re, venivano benignamente accolti, ed era tanta l’allegria di rivederli, tanto da fargli scoppiare il cuore che all’improvviso si risvegliò. Stupefatto del sogno, si rialzò meravigliandosi assai e vi pensò a lungo; ma poi non curandosene, venne nella sala reale del suo palazzo nello stesso in cui Venere se n’era andata. La dea dell’amore lasciò soli i due giovani, i quali si guardavano fissamente. Florio dapprima chiuse il libro e disse: «Quale straordinaria bellezza ti è cresciuta, o Bianciofiore, in così poco tempo, per cui ora tu mi piaci tanto? Tu prima non mi provocavi un così grande piacere, mentre ora i miei occhi non sono sazi di guardarti fissamente». Biancifiore rispose: «Non so, se non che lo stesso è successo a me nei tuoi confronti. Credo che la virtù dei versi che noi attentamente leggiamo, abbia acceso le nostre menti con un nuovo fuoco e a causato a noi quello che, come abbiamo visto, ha già causato in altri menti (l’innamoramento). Disse Florio: «Credo tu abbia ragione, dal momento che solo tu, tra tutte le cose del mondo, mi piaci». Rispose Biancifiore: «Sicuramente tu non piaci a me meno di quanto io piaccia a te». E parlando, così, con i libri chiusi, vennero scoperti da Racheio, che andava da loro per insegnare, giunse nella camera e rimproverandoli aspramente disse: «Che novità è questa, vedere i libri chiusi? dove è andata l’attenzione verso il vostro studio?». Florio e Biancifiore arrossiti per la vergogna a causa del rimprovero cui non erano abituati, riaprirono i libri ma i loro sguardi, spinti dall’attenzione reciproca che il libro provocava, distolti si  rivolgevano alle loro bellezze e la loro lingua, che era solita narrare in modo chiaro i versi studiati, balbettando esitava. Ma Racheio, uomo d’esperienza, vedendo i loro atti, capì che si erano innamorati e se ne dispiacque; ma volle accertarsi della verità, prima di riferire a qualcuno, nascondendosi in luoghi dai quali poteva vederli senza essere visto. E apertamente conobbe appena si allontanò da loro che chiusero di nuovo i libri si abbracciavano, porgendosi casti baci, non facendo altro, dal momento che la loro giovinezza non conosceva ancora i piaceri. E già la passione d’amore li aveva così presi che a stento la freddezza di Diana li avrebbe potuti raffreddare.  

E’ evidente come la letteratura conosciuta da Boccaccio operi, soprattutto quando si tratti di Virgilio (Cupido che fa innamorare Enea e Didone come qui fa innamorare Florio e Biancifiore) e dell’amato Dante: vi è in questo passo il riferimento alla Vita Nuova, quando racconta il sogno, definito, come nel poeta fiorentino, “mirabile visione”, ma vi è di più il ricordo del V canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca in cui “galeotto fu il libro”, come in Florio e Biancofiore ai quali i “santi versi” fecero scoprire l’amore. “Posto che è sempre difficile stabilire il livello di consapevolezza di una citazione non esplicita, specie in presenza di elementi non entrati in un immaginario diffuso come quelli provenienti dall’Eneide e dalla Vita Nuova, è certo che questi passaggi del Filoloco dimostrano quanto intimamente agiscano nel Boccaccio alcune delle sue letture. E, com’è naturale, il suo libro di nutre dei libri ch’egli legge e ha letto” (Corrado Bologna)

Il tenue filo narrativo del romanzo, tuttavia, è appesantito da numerose digressioni, monologhi e disputazioni. Vi è dunque una sovrapposizione di elementi eterogenei in cui convivono elementi pagani e cristiani, magici e miracolosi, fantastici e reali.

Teseida (1341): iniziato a Napoli, ma terminato a Firenze. E’ un poema epico in 12 canti in ottava rima.

Teseo muove guerra contro le Amazzoni, le sconfigge e sposa la loro regina Ippolita, che porta insieme con sé ad Atene la sorella Emilia. In seguito ad un’altra guerra contro i Tebani, Teseo conduce con sé, sempre ad Atene, due amici: Arcita e Polemone. Ambedue s’innamorano di Emilia e nasce fra loro una forte rivalità, tanto da giungere ad un duello. Teseo, per risolvere la questione, indice un torneo, dove i due, ciascuno con cento cavalieri, si fronteggeranno. Al vincitore andrà in sposa Emilia. Arcita vince, ma per le gravi ferite riportate è sul punto di morire. Allora chiama l’amico e gli offre la donna ancora vergine.

E’ il primo poema epico-cavalleresco della letteratura italiana. Boccaccio è consapevole di essere il primo e cerca di colmare la lacuna rifacendosi ai grandi poemi epici classici:,

INVOCAZIONE E ARGOMENTO

(I, 1-5)

O Sorelle Castalie, che nel monte
     Elicona contente dimorate
     d’intorno al sacro gorgoneo fonte,
     sottesso l’ombra delle frondi amate
     da Febo, delle quali ancor la fronte
     spero d’ornarmi sol che ’l concediate,
     le sante orecchie a’ miei preghi porgete,
     e quegli udite come voi dovete.

E’ m’è venuta voglia con pietosa

     rima di scriver una storia antica,
     tanto negli anni riposta e nascosa,
     che latino autor non par ne dica,
     per quel ch’i’ senta, in libro alcuna cosa.
     Dunque sì fate che la mia fatica
     sia grazïosa a chi ne fia lettore,
     o in altra maniera ascoltatore.
Siate presenti, o Marte rubicondo,

     nelle tue armi rigido e feroce,
     e tu, Madre d’Amor, col tuo giocondo
     e lieto aspetto, e ’l tuo Figliuol veloce
     co’ dardi suoi possenti in ogni mondo;
     e sostenete la mano e la voce
     di me, che intendo i vostri effetti dire
     con poco bene e pien d’assai martíre.

E voi, nel cui cospetto il dir presente
     forse verrà, com’io spero ancora,
     quant’io più posso prego umilemente,
     per quel signor ch’e’ gentili innamora,
     che attendiate con intera mente:
     voi udirete com’egli scolora
     ne’ casi avversi ciascun suo seguace,
     e come dopo affanno e’ doni pace.

E questo con assai chiara ragione

     comprenderete, udendo raccontare
     d’Arcita i fatti e del buon Palemone,
     di real sangue nati, come appare,
     e amenduni Tebani, e a quistione,
     parenti essendo, per superchio amare
     Emilia bella, vennero, Amazzona,
     d’onde l’un d’essi perdè la persona.

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Emilia nel roseto, manoscritto francese del 1460 ca.

O Muse, che vivete felici presso il monte Elicona, intorno alla fonte gorgonea, all’ombra delle frondi (d’alloro) amate da Apollo, delle quali spero ancora di ornarmi la fronte, se solo lo permetterete: prestate orecchio alle mie preghiere e ascoltatele, come e giusto. // Mi è venuta voglia di scrivere in forma umile una storia antica, a tal punto messa da parte e dimenticata negli anni, che, per quanto ne so, sembra che alcun autore latino ne parli in un qualche libro; fate dunque in modo che il mio racconto sia gradito a chi ne sarà lettore o in altro modo ascoltatore. // Siate presenti, o Marte dalle guance rosse, rigido e feroce nel condurre le tue armi, e tu, Venere, con il tuo aspetto gioioso e lieto, e Cupido, il tuo figlio veloce, che con i suoi dardi è presente in tutto il mondo; e sostenete la mano e il canto di me, che intendo raccontare gli effetti che voi producete, dai quali viene poco bene e molto dolore. // E voi, che forse come io spero ancora, udirete questo racconto, vi prego umilmente per quanto è possibile, in nome di quel dio che fa innamorare le genti, che porgiate tutta la vostra attenzione; voi ascolterete come egli fa sbiancare il volto nelle sorti avverse ogni suo seguace, e come dopo il travaglio egli doni pace. // E questo vedrete dimostrato assai chiaramente, sentendo raccontare le vicende di Arcita e del buon Palemone, nati, come pare, da famiglia reale, ed entrambi tebani, e (sentirete raccontato) di come, pur essendo parenti, si trovarono in conflitto, a causa dell’eccessivo amore di entrambi per la bella amazzone Emilia; a causa di questo conflitto, uno dei due morì.

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Giovanni dal Ponte: Episodi finali del Teseida: Arcita morente, il matrimonio tra Emilia e Polemone, la festa di nozze (1420-1425)

Infatti intitola il suo poema Teseida,  come Virgilio e Stazio  intitolarono i loro poemi epici Eneide e Tebaide; allo stesso modo li divide in XII canti e sanziona in modo definitivo l’ottava come misura metrica per il poema. In lui operano non solo la cultura classica, ma anche il romanzo d’amore (nei primi due viene spiegato l’antefatto, dal III al X la storia d’amore, l’XI e il XII il compianto di Archita, i riti funebri, e le perplessità di Emilia che vorrebbe conservare la castità, ma viene convinta a sposare Polemone). 

Periodo fiorentino

Comedìa delle ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto) (1342) è un prosimetro, cioè una narrazione in prosa, inframmezzata da componimenti in terzina cantati da vari personaggi. 

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Edizione della Comedia delle ninfe fiorentine del 1558

Ameto, un rozzo pastore, un giorno incontra delle ninfe devote a Venere e si innamora di una di esse, Lia. Nel giorno della festa della dea le ninfe si raccolgono intorno al pastore e gli raccontano le loro storie d’amore. Alla fine Ameto è immerso in un bagno purificatore e comprende così il significato allegorico della sua esperienza: infatti le ninfe rappresentano la virtù e l’incontro con esse lo ha trasformato da essere rozzo e animalesco in uomo.

AMETO INCONTRA LE NINFE

Sopra le nate erbette disteso il grave corpo, alle soavi aure aperse il ruvido seno; e, cacciatisi dal viso i sucidi sudori con la rozza mano, l’arida bocca rinfrescò con l’umide frondi delle verdi piante; e ricreato alquanto, colli suoi cani, ora l’uno ora l’altro chiamando, cominciò a ruzzare; e quindi levato in piedi, trascorrendo tra loro or qua or là, all’uno la gola, all’altro la coda e qual per li piedi tirando scherzando, dalla lasciviente turba da diverse parti era assalito; e talvolta i non ricchi drappi stracciati da quella il moveano ad ira: in questo trastullo, ora stendendoli in terra, ora sé fra loro stendendo, si stava. Ma, mentre che così prendeva in nuova maniera sollazzo, essendo il sole caldissimo, subito dalla vicina riva pervenne a’ suoi orecchi graziosa voce, in mai più non udita canzone; per che egli, avendo di ciò maraviglia, fra sé disse: “Iddii sono in terra discesi; e io più volte oggi l’ho conosciuto, ma nol credea; i boschi più pieni d’animali si sono dati che non soleano e Febo più chiari n’ha pòrti i raggi suoi, e l’aure più soavemente m’hanno le fatiche levate, e l’erbe e i fiori, in quantità grandissima cresciuti più che l’usato, testimoniano la loro venuta. Essi, per lo caldo affannati come io, qui vicini si posano e usano i celestiali diletti colle loro voci, forse avvilendo i mondani. Io non ne vidi mai alcuno; e, disideroso di vederli, se così sono bella cosa come si dice, ora li andrò a vedere, il sole guidante i passi miei; e, acciò che mi sieno benivoli, se di preda li vedrò vòti, della mia abbondevoli li farò, se vorranno”. E con fatica a’ cani, a quali con lusinghe, a quali con occhi torvi e con voce sonora mazze mostrando, puose silenzio e verso quella parte, ove il canto estimava, porse, piegando la testa sopra la manca spalla, l’orecchio ritto; e, ascoltando alquanto, rivolto a’ cani, quelli con gli usati legami attaccati, alla presente quercia raccomandò, e, preso uno noderoso bastone, col quale, portando la pesante preda, a’ suoi omeri alcuno alleggiamento porgeva, verso quella parte, dove udiva la dolce nota, volse i passi suoi; e, colla testa alzata, non prima le chiare onde scoperse del fiumicello che egli all’ombra di piacevoli arbuscelli, fra’ fiori e l’erba altissima, sopra la chiara riva vide più giovinette delle quali, alcuna mostrando nelle basse acque i bianchi piedi, per quelle con lento passo vagando s’andavano. Altre, posti giuso i boscherecci archi e gli strali, sopra quelle sospesi i caldi visi, sbracciate, colle candide mani rifaceano belli con le fresche onde. E, alcune, data da’ loro vestimenti da ogni parte all’aure via, sedeano attente a ciò che una di loro più gioconda sedendo cantava; dalla quale conobbe la canzone prima alle sue orecchie esser venuta. Né più tosto le vide che, loro dee stimando, indietro timido ritratto, s’inginocchiò e, stupefatto, che dir si dovesse non conoscea. Ma i giacenti cani delle riposanti ninfe, levati di colui alla vista, esso forse pensando fiera, veloci, con alto latrato gli corsero sopra; ed egli, poiché fuggire non gli valse, sopraggiunto da quelli, col bastone, con le mani, con la fuga e con le rozze parole, da sé, quanto poteva, cessava i morsi loro; le quali non conosciute dagli orecchi usati ricevere i donneschi suoni, più fieri, lui, già più morto per paura che vivo, seguieno; ed egli, rimembrandosi d’Atteone, con le mani si cercava per le corna la fronte, in sé dannando il preso ardire di volere riguardare le sante dee. Ma le ninfe, turbato il loro sollazzo per la canina rabbia, levate con alte voci, appena in pace puosero i presti cani e lui con piacevole riso, conosciuto suo essere, racconsolando, feciono sicuro.

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Desco da parto con scene dalla Comedia delle ninfe fiorentine

(Ameto), disteso sopra l’erbetta appena nata, tirò un ampio respiro nell’aria rinfrescante e, passandosi la rozza mano sul volto, cacciò il sudicio sudore e si rinfrescò la bocca con le foglie umide delle piante; dopo essersi riposato, cominciò a giocare con i suoi cani, chiamandone ora uno ora l’altro, e alzatosi in piedi, correndo in mezzo a loro, ad uno afferrava la gola, ad un altro tirava la coda, ad un altro ancora tirava le gambe scherzando e allo stesso tempo era assalito dalla scherzosa turba dei cani, e talvolta i suoi non ricchi indumenti stracciati da essi lo spingevano ad irarsi: in questo sollazzo, ora gettandoli in terra, ora gettandosi in mezzo a loro, trascorreva il tempo. Ma mentre si divertiva con nuovi giochi, essendo il sole già alto, gli giunse all’orecchio una voce piena di grazia dal fiume vicino, per cui, meravigliandosi, disse fra sé: “Sono scesi gli dei, e oggi l’ho sentito e l’ho pensato, ma non ci prestavo attenzione: i boschi si sono riempiti d’animali più del solito e Febo, dio del sole, ci ha regalato raggi più splendenti, e le brezze, soffiando più dolcemente, mi hanno alleviato le fatiche. Gli dei, accaldati come me, si riposano qui vicino e usano piacevoli celestiali con le loro voci , forse per umiliare i mondani. Io non ne ho visto mai nessuno e desidero vederli, se sono così belli ora lo sperimentò con la guida della luce del sole e affinché mi siano benevoli, se li vedrò senza preda, li renderò ricchi con la mia, se vorranno.” E con fatica impose il silenzio ai cani, alcuni gratificandoli, altri mostrando loro gli occhi torti, altri ancora a colpi di mazza e urla e si avviò dove pensava provenisse il canto, volgendosi verso sinistra, l’orecchio attento per capire la direzione. Dopo aver ascoltato i canti, assicurò i cani ad una quercia con i soliti guinzagli e si aiutò con un bastone nodoso che gli alleggeriva il peso della preda, avviandosi da dove giungevano le celestiali voci. Con la testa dritta, non prima di aver scoperto all’ombra di ombrosi alberi un ruscello tra fiori ed alta erba, e sopra il rivo vide giovinette di cui alcune mostravano i bianchi piedi immersi nell’acqua, altre camminavano con passo lento. Altre, posti in terra gli archi e le frecce, con le braccia nude e le bianche mani si pulivano il viso con l’acqua fresca. Alcune avevano allentato le loro vesti, affinché la frescura dell’aria vi penetrasse, facendo attenzione al canto che una di loro modulava, canto che precedentemente Ameto aveva udito. Non appena le vide, timidamente indietreggiò e s’inginocchiò non sapendo cosa dir loro, reputandole delle dee. Ma i cani delle ninfe, accortisi della sua presenza e credendo lui una preda selvaggia, velocemente lo assalirono e a nulla gli valse la corsa che, sopraggiunto  cercava con il bastone, con le urla con le mani, con la forza di evitare i morsi loro, ma i cani, non riconoscendo la sua voce, abituati a quelle femminili delle ninfe, non cedevano e nonostante cercasse di scappare già si vedeva morto, rimpiangendo di non essere Atteone, cercandosi le corna di cervo nella fronte e maledicendosi per aver voluto vedere le dee. Ma le ninfe, turbato il loro piacere per l’abbaiare dei loro cani, richiamatoli, li calmarono e, saputo chi fosse, mitigarono la paura di Ameto, con piacevoli sorrisi.

Il passo va letto come esemplificazione del concetto rozzezza/ virtù: se infatti nella prima parte anche linguisticamente (grave corpo, ruvido seno, sudici sudori) Ameto rappresenta la ferinità (il suo mescolarsi con i cani) il tutto inserito in un paesaggio idillico, nella seconda il canto funge da richiamo civilizzatore e se anche i cani delle ninfe lo rifiutano e perché non si è ancora tuffato nelle acque che lo trasformeranno in un giovane degno dell’amore di Lia.

Ma l’opera è importante perché anticipa a struttura tipica che poi sarà del Decameron: una volta che Ameto avrà dichiarato l’amore per Lia, quest’ultima inviterà le altre ninfe, nelle ore calde della giornata a raccontare le loro vicende d’amore. Vi è cioè l’idea di raccontare delle storie all’interno di una cornice. Anche qui è evidente l’influenza di Dante: ne è spia l’allegoria delle virtù nelle ninfe.

Amorosa visione: (1343) poema in terzine in 50 canti.

Il protagonista (Boccaccio stesso) è colpito da una freccia da Cupido. S’addormenta e sogna di trovarsi in un bosco dove incontra una donna, Fiammetta. Ella lo porta di fronte ad un castello che ha due porte, una stretta, che conduce alle virtù, l’altra larga promette fama e ricchezza. Convinto da due giovani, il protagonista imbocca la seconda e attraversa sale dove sono dipinte i vizi e le virtù. Quindi raggiunge una fontana, le cui figure rimandano le virtù cardinali, i tre tipi d’amore (carnale, venale, puro) e tre animali (superbia, avarizia, lussuria). Quindi si trova in un giardino, dove vede tre donne e tra di esse Fiammetta. S’allontanano in luogo solitario e cerca di possederla. A questo punto finisce il sogno e la guida lo rimprovera affermando che potrà avere Fiammetta dopo aver imboccato la via delle virtù.

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Edizione del 1911 dell’Amorosa visione

L’opera ebbe un enorme successo nel periodo in cui fu scritta proprio perché rappresentava allora un processo allegorico assai diffuso e che aveva avuto in Dante un notevolissimo predecessore. Il suo successo è inoltre testimoniato dal fatto che  gli stessi Trionfi del Petrarca siano posteriori e quindi abbiano influenzato il grande poeta.  Oggi, invece, risultano di difficile lettura: l’allegoria prevale sulla narrazione, la descrizione delle virtù è troppo dettagliata, l’imitazione dantesca è forse troppo spinta. Ma non bisogna dimenticare che l’opera s’inserisce a pieno titolo nella cultura medievale.

Elegia di Madonna Fiammetta (1344): romanzo.

La protagonista è una nobildonna napoletana che racconta, in prima persona, la sua vicenda sentimentale: innamoratasi al primo sguardo di Panfilo, mercante fiorentino identificabile con l’autore, vive una stagione di felicità interrotta però dalla partenza dell’amante per Firenze. La promessa infranta di Panfilo di un successivo ritorno a Napoli è il primo evento di una serie di peripezie: la donna apprende prima che Panfilo si è sposato, ma quando è in procinto di riconquistare una rassegnata serenità, viene a sapere che quella notizia era falsa e che l’amato ha invece una relazione con una donna fiorentina. Folle di gelosia, Fiammetta vuol darsi la morte ma ciò le viene impedito dalla vecchia nutrice. Arriva infine la notizia di un prossimo ritorno a Napoli dell’amato e Fiammetta torna nuovamente a sperare.

L’opera potrebbe considerarsi un romanzo psicologico, composto da nove capitoli più un prologo. Nel prologo l’autore dichiara che il suo scritto è dedicato alle donne, donne cortesi, appartenenti alla cerchia di Roberto d’Angiò e con esperienze d’amore. Solo così potranno comprendere il romanzo a loro destinato. La novità sta nell’attenta analisi psicologica della protagonista, che si muove tra speranze e delusioni.

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Dante Gabriel Rossetti: Fiammetta (1878)

FIAMMETTA S’INNAMORA DI PANFILO 

Mentre che io in cotal guisa, poco altrui rimirando, e molto da molti rimirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese. E già essendo vicina al doloroso punto, il quale o di certissima morte o di vita più che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito mossa, gli occhi con debita gravità elevati, intra la multitudine de’ circustanti giovini con acuto riguardamento distesi; e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me dirittissimamente uno giovine opposto vidi; e, quello che ancora fatto non avea d’alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad estimare. Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovinezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guance sue; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo. Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose già dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi poté tòrre. E già nella mia mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la riguardava, e quasi con più argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava.
Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo alquanto più fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: “O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra”. Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: “E voi la mia”. Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano già vaghi divenuti li contentava; e certo, se gl’iddii, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia, ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e subitamente atta divenni a potere essere presa; per che, non altramente il fuoco se stesso d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’ suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando, se ne gìo. Il quale, nel sùbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida e quasi freddissima tutta lasciò. Ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e calda rendé come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirai. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non di piacergli.

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Manoscritto miniato su carta dell’Italia centrale del 1458

(Fiammetta si trova in chiesa dove si sta celebrando la Pasqua).  Mentre io sto in quell’atteggiamento di chi è abituato ad essere ammirato più che ad ammirare, pensando che la bellezza potesse catturare, avvenne che la bellezza altrui catturasse me. E già essendo vicina al momento che doveva esser  motivo o di morte certa o di una vita piena d’angoscia, non so che da sentimento spinta, alzati gli occhi con composta devozione, alzai gli occhi guardando attentamente tra i molti giovani presenti, e, al di là di tutti un giovane solo che stava di fronte a me appoggiato ad una colonna di marmo e, cosa che non avevo fatto mai con alcun altro, spinta da un inevitabile destino, cominciai ad apprezzare tra me la sua persona ed i suoi atteggiamenti. Dico che, secondo il mio giudizio, non ancora occupato dall’amore, egli era d’aspetto bellissimo, piacevolissimo negli atti ed onestissimo nel comportamento, e della sua giovinezza rendeva evidente una barbetta che solo da poco tempo ricopriva le guance e mi guardava, fra una persona e l’altra, timidamente e in modo da destare tenerezza. Io trovai la forza di distogliere gli occhi dal fissarlo troppo, ma nessun altro evento, nonostante io compissi gli sforzi, potè deviare il pensiero dall’apprezzamento delle sue qualità sopra descritte. Ed essendosi impressa definitivamente la sua immagina nella mia mente, non so con quale segreto piacere tra me continuavo a figurarmela, e quasi confermando come vere, con maggiori argomenti, le qualità che di lui mi apparivano, talvolta con cautela osservavo se lui continuava a fissarmi, contenta di essere da lui guardata.
Ma ogni volta che io, non prendendo difesa dai lacci d’amore, lo guardavo lasciando i miei occhi fissi nei suoi più del dovuto, mi sembrava di scorgere in essi parole che dicevano: “Donna, tu sola sei la nostra beatitudine”. Certo se dicessi che tale parle non mi fossero piaciute, mentirei; anzi mi piacquero a tal punto che emisi un dolce sospiro che diceva “E voi la mia”. Se non che io, tornando me stessa, sottrassi le parole al sospiro. ma a cosa valse? Quello che non diceva, lo capiva il cuore, trattenendolo dentro di sé, che se fosse andato fuori, forse sarei libera. Dunque da questo momento in poi, concedendo maggiore libertà ai miei occhi folli, li appagavo di ciò di cui essi erano desiderosi; e certamente se gli dei, che muovono ogni cosa ad un determinato fine, non mi avessero privata della capacità di discernere, io sarei ancora in me; ma nonostante ogni proponimento fatto, assecondai il desiderio e subito mi misi nella condizione di essere catturata, per la qual cosa, come il fuoco scaglia se stesso da una parte all’altra, (così) una luce partì dai suoi occhi e traversando un raggio sottilissimo colpì i miei, ma non si accontentò di fermarsi in essi e anzi, non so per quali nascoste vie, se ne andò (da loro) penetrando subito nel cuore. Il cuore, spaventato dall’improvviso sopraggiungere di quella luce, richiamate a sé le forze esterne, mi lasciò pallida e quasi morta. Ma non fu lunga l’attesa, che sopraggiunse un evento contrario e non sentii il cuore solamente reso fervente, anzi le forze tornate nelle loro membra portarono con sé un calore, il quale cacciato il pallore mi rese rossissima e calda come il fuoco e chiedendomi meravigliata da dove quel fenomeno provenisse, sospirai. Nè da quel momento in poi potei avere nessun pensiero se non di piacere a lui.

Tuttavia, pur grazie ad un vero e proprio lavoro di scavo sull’animo femminile, l’opera, a livello di richiami, le Heroides di Ovidio, la Vita nuova di Dante, è ancorata ad una visione del mondo tipicamente medievale.

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Anonimo: Ritratto di Boccaccio (1568)

Ninfale fiesolano (1346): poemetto eziologico di 473 ottave.

Il pastore Africo corteggia, ma inutilmente la ninfa Mensola che appartiene al corteo di Diana, dea della caccia, e perciò votata alla castità. Con l’aiuto di Venere, dopo essersi travestito da donna, Africo riesce ad avvicinarla e a possederla. Temendo la punizione della dea, Mensola sfugge Africo, nonostante sia innamorata di lui, e il giovane, disperato, si uccide precipitandosi nelle acque del fiume che prende il suo nome. La ninfa partorisce un bambino, Pruneo; ma, nel tentativo di sfuggire all’ira di Diana che ha scoperto la sua trasgressione, anche Mensola cade in un ruscello e viene trasformata in acqua dalla dea. Si ripete così la vicenda di Mugnone, il nonno di Africo innamorato di una ninfa e trasformato anch’egli da Diana in un fiume. Pruneo sarà allevato dai genitori di Africo e diventerà ministro di Atlante, mitico fondatore di Fiesole.

E’ forse l’opera che mescolando la tradizione popolare con quella classica permette a Boccaccio un più accentuato realismo rispetto alle opere precedenti. Sono descritti con maggiore proprietà non solo gli ambienti campestri che si richiamano alla poesia elegiaca, ma anche reazioni e sentimenti degli stessi protagonisti.

AFRICO E MENSOLA

Mentre che tal consiglio si teneva,
     Un giovinetto, ch’Affrico avea nome,
     Il qual forse vent’anni o meno aveva,
     Senz’aver barba ancora, e le sue chiome
     Bionde e crespe, e ’l suo viso pareva
     Un giglio o rosa, ovver un fresco pome;
     Costui ind’oltre abitava col padre,
Senz’altra vicinanza, e con la madre.

Il giovine era quivi in un boschetto
     Presso a Dïana, quando il ragionare
     Delle ninfe sentì, che a suo diletto
     Ind’oltre s’era andato a diportare:
     Perchè fattosi innanzi il giovinetto
     Dopo una grotta si mise ascoltare,
     Per modo che veduto da costoro
     Non era, ed e’ vedeva tutte loro.

Vedea Dïana sopra all’altre stante
     Rigida nel parlare e nella mente,
     Con le saette e l’arco minacciante,
     E vedeva le ninfe parimente
     Timide e paurose tutte quante,
     Sempre mirando il suo viso piacente.
     Ognuna stava cheta, umíle e piana
Pe ’l minacciare che facea lor Dïana.

Poi vide che Dïana fece in piede
     Levar dritta una ninfa, che Alfinea
     Aveva nome, però ch’ella vede
     Che più che alcun’altra tempo avea,
     Dicendo: «Ora m’intenda qual qui siede:
     Io vo’ che questa qui in mio loco stea,
     Però ch’intendo partirmi da voi,
Sì che com’io obbedita sia poi.»

Affrico stante costoro ascoltando,
     Una ninfa a’ suoi occhi gli trascorse,
     La quale alquanto nel viso mirando,
     Sentì ch’amor per lei al cor gli corse,
     Che gli fer sentir gioia sospirando
     Le fiaccole amorose che gli porse;
     E un sì dolce disio, che già saziare
     Non si potea della ninfa mirare.

E fra sè stesso dicea: “Chi saria
     Di me più grazioso e più felice,
     Se tal fanciulla io avessi per mia
     Isposa? chè per certo il cor mi dice
     Che al mondo sì conlento uom non saria;
     E se non che paura mel disdice
     Di Dïana, io l’avrei per forza presa,
Che l’altre non potrebbon far difesa.”

Lo innamorato amante in tal maniera
     Nascoso stava in fra le fresche fronde,
     Quando Dïana veggendo che sera
     Già si faceva, e che ’l sol si nasconde,
     Che già perduta avea tutta la spera,
     Con le sue ninfe assai liete e gioconde
     Si levar ritte, e al poggio salendo
Di dolce melodia canzon dicendo.

Affrico quando vide che levata
     S’era ciascuna, e simil la sua amante,
     Udì che da un’altra fu chiamata:
     Mensola adianne, e quella su levante,
     Con l’altre tosto sì si fu inviata:
     E così via n’andaron tutte quante,
     Ognuna a sua capanna si tornoe,
     Poi Diana si partì e lor lascioe.

Avea la ninfa forse quindici anni,
     Biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
     E di candido lin portava i panni;
     Due occhi ha in testa rilucenti e belli,
     Che chi gli vede non sente mai affanni,
     Con angelico viso e atti snelli,
     E in man portava un bel dardo affilato:
Or vi ritorno al giovane lasciato;

Il qual soletto rimase pensoso
     Oltramodo dolente del partire
     Che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
     E ripetendo il passato disire,
     Dicendo: “Lasso a me, che ’l bel riposo
     C’ho ricevuto mi torna in martire,
     Pensando ch’io non so dove in qual parte
Cercarmene giammai, o con qual arte.

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Libero Andreotti: Africo e Mensola (1933)

Mentre aveva luogo il concilio delle ninfe, un giovane di nome Africo, dell’età di vent’anni o forse meno, ancora imberbe, dai capelli biondi e ricciuti ed un viso che sembrava un giglio o una rosa o un fresco frutto, (ebbene) costui abitava poco più in là col padre e con la madre, e non aveva altri vicini. // Il giovane si trovava in un boschetto vicino a Diana, quando udì il parlare delle ninfe, mentre era andato a passeggiare per svago; essendosi avvicinato a causa di ciò, il giovane si mise ad ascotare dietro una roccia, in modo tale da vedere tutte le ninfe e non essere visto. // Vedeva Diana che stava in posizione di preminenza sulle altre, severa nelle parole e nell’animo, mentre le minacciava con le saette e l’arco; e vedeva le ninfe tutte quante ugualmente timide e timorose, che contemplavano il bel viso di Diana e che stavano tutte in silenzio, umili e sottomesse, a causa dell’atteggiamento minaccioso di Diana nei loro confronti. //  Poi vide che Diana ordinò ad una ninfa di nome Alfinea di alzarsi dritta in piedi, in quanto si accorse che quella aveva più anni delle altre, e disse: «Ora mi ascolti chiunque sieda qui: io voglio che questa ninfa prenda il mio posto, poiché io ho intenzione di allontanarmi da voi, cosicché voi ubbidiate in seguito a lei, così come (ora) a me.» // Mentre Africo le stava ascoltando, tra le altre ninfe gliene appare una e, contemplando a lungo il suo viso, si accorse che Amore lo stava facendo innamorare di lei, tanto che produsse in lui, cher già sospirava, il fuoco della passione: ciò gli procurò un desiderio così dolce, che non era mai appagato dal guardare quella ninfa. // E fra sé diceva: “Chi sarebbe più privilegiato e più felice di me se potessi sposare quella fanciulla? Perché il cuore mi dice che certamente al mondo un uomo così fortunato; e se non fosse che la paura che provo nei confronti di Diana me lo sconsiglia, io la costringerei con la forza, perché le altre non potrebbero difenderla.” // L’amante innamorato stava nascosto fra i freschi rami, quando Diana, accorgendosi che ormai si stava facendo sera e che il sole stava calando e l’intero globo era già nascosto sotto la linea dell’orizzonte, insieme alle sue ninfe si alzarono in piedi e salirono sull’altura, cantando canzoni di belle melodie. // Africo, quando vide che ognuna delle ninfe si era alzata, ed anche la sua amata, la sentì chiamare da un’altra: «Mensola, andiamocene»; e quella, alzandosi, raggiunse immediatamente le altre. E così se ne andarono via tutte quante: ognuna tornò alla sua capanna e poi Diana si allontanò e le lasciò. // La ninfa aveva forse quindici anni; i suoi capelli erano biondi e lunghi, e portava vestiti di candido lino; (aveva) gli occhi luminosi e belli, (tanto) che chi li guarda non è oppresso da preoccupazioni; aveva un viso angelico e i suoi gesti (erano) pieni di grazia, e in mano portava una bella freccia affilata. Ora torno a raccontarvi del giovane Africo che abbiamo lasciato. // Costui rimase da solo a pensare, alquanto addolorato per l’allontanamento della ninfa dal bel viso e, rimpiangendo il desiderio passato diceva: “Povero me, che il momento di gioia che ho appena vissuto si trasforma ora per me in sofferenza, perchè penso che non saprei dove o in qual luogo cercare quella gioia ormai, o con quale espediente.”
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Libero Andreotti: Africo e Mensola (1933)

Al di là della convenzionalità del testo in cui si affronta il tema della castità (Diana) e dell’amore (Venere), quello che qui colpisce e la facilità versificatoria la quale sembra rifarsi ai cantari popolari. D’altra parte anche questa volta ricorre al mito delle ninfe come votate alla castità, in quanto ancelle di Diana (si veda la Caccia di Diana), mentre vuole esaltare l’amore “naturale” comandato da Venere, ma al di là della realizzazione di esso, quello che qui conta è la maggiore capacità, grazie al distacco, della narrazione in sé.  E’ evidente, d’altra parte, che il tema sia mescolato con quello eziologico ad imitazione ovidiana, laddove appunto si parla di metamorfosi con cui si dà spiegazione ai fiumi fiorentini.

DECAMERON

Il capolavoro di Boccaccio s’inserisce ed interpreta in modo mirabile il concetto secondo il quale la narrazione non è solo una rappresentazione del mondo così com’è, ma una sua interpretazione, secondo le esigenze narrative dell’autore.

Per far questo Boccaccio raccoglie, non si sa quanto consapevolmente, nel suo lavoro una serie di fonti che potremo qui sintetizzare:

  • Tradizione classica, soprattutto Ovidio ed il romanzo di Apuleio L’asino doro o le Metamorfosi;
  • Il romanzo cortese-cavalleresco sia in senso alto con i romanzi francesi/cortesi, sia in senso popolare, con la loro riproposizione da giullari di corte e saltimbanchi di piazza);
  • I libri di cronaca contemporanea;
  • Il Novellino, raccolta anonima del XIII sec.
  • Una conoscenza (probabilmente indiretta) della novellistica araba (Le Mille e una notte);
  • La Comedìa dantesca, da lui follemente amata.

Il titolo dell’opera, termine coniato dalla lingua greca, sta a significare “di dieci giorni”: dieci sono infatti i giorni in cui i giovani dell’“onesta brigata” raccontano cento novelle, lontano dalla terribile peste (seppur la loro permanenza sarà di due settimane).

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Edizione del Decameron del 1813

La struttura con cui si struttura l’opera presenta:

Un proemio, con un narratore di primo grado che dedica l’opera alle donne e ne spiega il motivo;

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Franz Xaver Winterhalter: Il Decameron (1837)

PROEMIO

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto. Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto.
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte,l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri.

E’ umano aver compassione delle persone afflitte, e benché si addica a tutti, è soprattutto richiesto a coloro i quali hanno già ricevuto conforto e lo hanno trovato in alcune persone; fra le quali, se alcuno n’ebbe bisogno, e gli fu gradito e ne ha già ricevuto piacere, io sono uno di quelli. Per il fatto che, sin dalla gioventù fino ad oggi, essendo stato estremamente acceso da un altissimo e nobile amore, sembrerebbe, se lo narrassi, forse più alto di quanto convenisse alla mia bassa condizione, per quanto presso coloro che erano discreti e che ne avevano avuto notizia io ne fossi lodato e da molti considerato, nonostante ciò (quest’amore) fu per me di grandissima fatica a sopportare, certo non per crudeltà della donna amata, ma per un eccessivo fuoco della mente concepito da un desidero non regolato; il quale, dal momento che nessun limite mi lasciava soddisfatto, più dolore di quanto avessi bisogno, mi faceva spesso provare. Nel quale dolore tanto conforto mi diedero i ragionamenti di qualche amico e le sue lodevoli consolazioni, che sono fermamente convinto che grazie a ciò non sia avvenuto che io sia morto. Ma come piacque a Dio, che, nella sua infinità, diede per legge inesorabile la fine di ogni cosa terrena, il mio amore, più appassionato di ogni altro, che nessun proposito o consiglio o vergogna o anche pericolo che ne poteva derivare, non era valso a spezzare e terminare, da se stesso, in un lasso di tempo, diminuì di modo che, ora, mi ha lasciato solo un ricordo piacevole, che è dato a chi non è solito recarsi in mari pericolosi, il quale (ricordo) prima era doloroso, e ora, andato via l’affanno, si è trasformato in dilettevole. Sebbene la pena sia terminata, non è perduta la memoria dei benefici ottenuti da coloro ai quali per benevolenza erano affannose le mie fatiche; né terminerà mai, se non con la morte. E per il fatto che la gratitudine, tra le altre virtù, è da lodare grandemente e non biasimare, per non sembrare ingrato mi sono proposto di voler, per quanto io possa, in cambio di quella che ho ricevuto, dal momento che mi sono liberato dalle pene d’amore, e non certamente a coloro che mi aiutarono, i quali mostrano di non averne bisogno o per caso, o per capacità o per fortuna, a coloro ai quali è necessario, voler offrire qualche sollievo. E sebbene il mio sollievo o conforto, se preferiamo chiamarlo così, possa essere poca cosa a coloro che ne abbiano bisogno, tuttavia mi sembra doverlo porgere dove il bisogno sia maggiore, sia perché sarà utile, sia perché sarà più gradito l’averlo ricevuto. E chi negherà, sebbene sia piccola cosa, dover offrire il conforto più alle donne che agli uomini? Esse, dentro i petti delicati, con paura e vergogna, tengono le fiamme amorose nascoste, che, come sa chi ne ha esperienza, hanno più forza di quelle rivelate; oltre a ciò, costrette dai voleri, dai piaceri e dai comandi dei padri, delle madri, dei fratelli e dei mariti, la maggior parte del tempo lo passano chiuse nel piccolo ambito delle loro camere e siedono oziose, desiderando e non desiderando nello stesso tempo, rivolgendo diversi pensieri con se stesse, che non è possibile siano sempre allegri. E se per quei pensieri, un po’ di malinconia sopraggiunge, derivata dal fuoco dell’amore, è necessario, in loro è inevitabile che si dimori con turbamento, se tale malinconia non è rimossa da nuovi pensieri: per non dire che le donne sono meno forti degli uomini a sopportarla; ciò non avviene agli uomini innamorati, come è facile dimostrare. Loro, se qualche pena d’amore li affligge, hanno molti modi per trovare sollievo o superarla; infatti, solo volendolo, hanno la possibilità di andare in giro, ascoltare e vedere molte cose, andare a caccia di uccelli e di selvaggina, pescare, andare a cavallo, giocare o fare il mercante, dai quali modi, ognuno di essi ha la forza, in tutto o in parte, di trarre a sé il pensiero o allontanarlo per un certo periodo di tempo, a seguito del quale o si giunge alla consolazione o ad un tormento d’amore minore. Dunque, affinché io possa ricompensare il torto della fortuna (fatto alle donne), la quale laddove esse erano meno forti, come vediamo essere le donne, fu più avara nel sostentarle, in soccorso e rifugio di quelle che sanno cosa sia l’amore, perché alle altre basta l’ago, il fuso e l’arcolaio, intendo raccontare cento novelle, o favolette o parabole o storie, come le vogliamo chiamare, raccontate in dieci giorni da un’“onesta brigata” di sette donne e tre giovani uomini, nel tempo della pestilenza che ha portato molti lutti e alcune canzonette cantate dalle donne secondo il loro piacere. Nelle cui novelle troveranno piacevoli e tristi storie d’amore, ed altri soggetti a caso sia dei tempi moderni come degli antichi; dalle cui novelle le donne, dopo averle lette, potranno prendere diletto e utile consiglio, in quanto potranno conoscer ciò che bisogna “imitare” o “fuggire, le cui cose, senza noia, non credo possano accadere. E se ciò dovesse avvenire, voglia Iddio che sia così, ne rendano grazie ad Amore, il quale liberandomi dai suoi lacci, mi ha permesso di dedicarmi ai loro piaceri.

Il Proemio presenta, efficacemente, alcuni temi fondamentali:

  • Il fatto di inserirlo, all’inizio dell’opera, come elemento in cui si sottolinea sia l’autobiografismo che il destinatario altro (le donne), fa percepire che la stessa è unitaria e non una raccolta casuale di racconti;
  • Il rispetto della tradizione cortese che vede le donne lettrici di romanzi cortesi (si pensi, qui, all’episodio dantesco di Paolo e Francesca); tuttavia qui Boccaccio sottolinea quali donne siano le loro lettrici: nobili, ricche borghesi, colte;
  • Novelle con scopo edonistico e non solo: si ripete “classicamente” il concetto di insegnare e nel contempo offrire piacere. E’ ben inserito e sottolineato il fine dell’opera: far sì che le giovani donne imparino cosa è giusto fare e come comportarsi in una società uscita dallo sconvolgimento della peste.

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Luigi Sabatelli: Incisione sulla peste di Firenze del 1348 dal Boccaccio descritta

Al Proemio segue un’introduzione alla prima giornata, sempre con un narratore di primo grado, in cui si racconta della peste del 1348, dell’incontro dei giovani in chiesa, della decisione di recarsi in campagna e di come strutturare il tempo, cioè con l’organizzarsi nel raccontare, ognuno di loro, una novella al giorno sotto la direzione di una o un giovane che si alterneranno nel ruolo di re / regina che ne detterà l’argomento (soltanto due giorni, il primo e il nono, saranno a tema libero). All’impegno di raccontare secondo il tema deciso, sarà esonerato il solo Dioneo.

La peste del 1348:

INTRODUZIONE: LA PESTE

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da officiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare.

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Ammalati di peste bubbonica (Illustrazione del 1411)

Erano ormai trascorsi 1348 anni dall’Incarnazione di Cristo, quando nella nobile città di Firenze, la più bella tra tutte le altre città, giunse la pestilenza, la quale o a causa dei cieli, o per colpa delle nostre colpe peccaminose mandata da Dio sopra i mortali, già iniziata, alcuni anni prima in Oriente, dove aveva causato innumerevoli morti, senza mai fermarsi, passando di luogo in luogo era giunta in Occidente con incredibili conseguenze. E poiché non valeva alcun senno o proponimento, per il quale la città fu pulita da molte sporcizie grazie ad ufficiali preposti a tale officio, per il divieto di alcun malato di entrare in città, di consigli per la pubblica sanità, e né ancora umili suppliche e processioni devozionali fatte da persone puramente religiose, all’inizio della primavera la peste cominciò a mostrare i suoi terribili effetti. E non si era manifestata come ad Oriente, dove l’uscita del sangue dal naso era indizio sicuro di morte, ma fa certi bubboni nell’inguine o sotto le ascelle sia nei maschi che nelle femmine; alcuni di questi crescevano delle dimensioni o di una mela comune, o di un uovo o tra l’uno o l’altro e queste il popolo chiamava ” “gaviccioli”. Da queste due parti corporali il bubbone cominciava ad espandersi ad altre parti del corpo; in seguito la malattia comincia a manifestarsi in macchie livide o nere, le quali nelle cosce, nelle braccia ed in altre parti del corpo apparivano a molti, ad alcuni spesse e rade, ad altri piccole e numerose. E come il bubbone era stato per coloro a cui era venuto indizio di morte, lo stesso per coloro che erano stati colpiti da macchie scure e livide. Per curare tale infermità non valevano né i consigli dei medici, né nessuna virtù medicinale: anzi o che la pestilenza non li sopportasse o l’ignoranza degli uomini (sia di medici che di maschi e femmine che non avevano alcuna scienza, ma il cui numero era cresciuto enormemente) che non capiva da dove provenisse tale malattia e pertanto non si sapesse come curarla, fece sì che non solamente pochi ne guarivano, anzi dopo tre giorni dall’apparizione dei segni, chi più e chi meno ne morivano. E questa pestilenza fu di particolare virulenza tanto che soltanto il comunicare tra un malato ed un sano determinava l’infezione di quest’ultimo, non diversamente come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli si sono avvicinate troppo. E più avanti ancora casi più gravi avvenivano, perché non solamente il parlare insieme infettava i sani, ma anche toccare i panni o qualunque cosa fosse stata toccata dalle persone malate. E’ straordinario quello che voglio dirvi, che se non fosse stato veduto da molta gente e da me, anch’io avrei avuto difficoltà a crederci, meno che mai a scriverlo, anche se l’avessi udito da persona degna di fede. Dico che la trasmissione della malattia dall’uno all’altro fosse tanto efficace, che non solamente da uomo a uomo, ma, cosa assai maggiore, fece sì che una cosa posseduta da un malato, o morto di pestilenza, toccata da un altro animale, che non sia uomo, non solamente contaminasse all’animale la malattia, ma lo conducesse addirittura alla morte. Ho visto con gli occhi miei, come ho detto precedentemente, che, essendo gli stracci di un uomo morto di pestilenza gettati in strada e avventandosi su di essi due maiali e, secondo il loro costume, avvicinandosi prima col muso, poi presi per i denti e dopo averli scossi con la bocca, dopo poco tempo, dopo alcuna contorsione, come se avessero assunto del veleno, ambedue sopra i panni malamente gettati in strada caddero morti. Da queste cose e e da altri simili nacquero sospetti e paure in quelli che rimanevano vivi, tutti attenti ad un solo fine: evitare ed allontanare i malati, credendo, così, di salvarsi.

A questo passo segue la descrizione di come la peste non abbia solo recato morte e distruzione, ma anche un allentamento della fondamentale legge morale che regola la vita in comune: chi pensando di morire in poco tempo, si lasciava andare a piaceri eccessivi, o, al contrario, si ritirava tanto da non veder più nessuno; chi, all’interno delle stesse famiglie, laddove ci fosse un malato, dimenticava ogni affetto familiare disconoscendo i genitori e questi i figli. Anche le esequie dei morti perdono il loro decoro, visto il numero eccessivo dei decessi e la paura di toccarli.

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William Waterhouse: A tail from Decameron (1916)

In questo disordine prende vita una nuova società. All’interno della Chiesa di Santa Maria Novella, sette donne, tra i diciotto e ventotto anni, tutte “cortesi” e dal nobile portamento, su consiglio di Pampinea, decidono di allontanarsi da quel luogo di desolazione e rifugiarsi in campagna. Ma si ritiene opportuna la presenza maschile, che viene esaudita dall’arrivo di tre giovani uomini (di cui il più piccolo aveva venticinque anni). Si forma così l’onesta “brigata”, che il giorno seguente, preceduta dai fanti di ciascuno, si reca in campagna:

LOCUS AMOENUS

Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii arbuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere.

Il luogo era su una piccola montagnetta, lontano da tutte le nostre strade, piacevole a guardare per i diversi alberelli e per le piante dalle verdi foglie; sulla cima di tale montagnetta vi era un palazzo, con un cortile bello e grande all’interno, un loggiato, sale e camere, tutte bellissime per sé e rese eleganti e ornate con piacevoli dipinti, con piccoli prati che le circondavano e con giardini meravigliosi e pozzi d’acqua limpidissima e cantine di vini preziosi: cose più adatte ai bevitori esigenti che ad oneste donne. Tutto era pulito, i letti fatti e ogni angolo della casa abbellito di fiori di stagione e di giunchi.

Giunti in tale luogo si dispone che venga eletto un re o una regina per ciascun giorno e che disponga cosa si debba fare. Viene eletta per la prima giornata Pampinea, la quale, dopo aver distribuito i compiti per i vari fanti e aver fatto rilassare i compagni, li riunisce e propone loro di raccontare, ciascuno, una novella, il cui argomento sarà deciso appunto dal re o dalla regina. Lei, essendo la prima, lascerà libera scelta a ciascun novellatore.

L’Introduzione alla prima giornata ha un orrido cominciamento, come ci dice lo stesso autore. Perché? E’ piuttosto naturale che tale scelta sia dovuta per:

  • credibilità narrativa: sarebbe stato impossibile per sette donne e tre uomini allontanarsi da soli in campagna senza la motivazione di non aver la possibilità di incorrere nel contagio della pestilenza;
  • chiaroscuro tonale: l’immagine dei giovani si contrappone a quella dei morti, così come la loro voglia di stare insieme alla solitudine dei malati; si veda ancora il verde e l’aria pura della campagna contro l’aria ammorbata dentro le mura;
  • Il divario tra fortuna e virtù (fondamentale in Boccaccio): sembra quasi che al caso che ha deciso di seminare morte e barbarie si contrapponga la virtù dei dieci giovani il cui vivere in modo onesto allontani il pericolo.

Concludiamo la cosiddetta parte della cornice con una riflessione dello stesso narratore di primo grado, posta come introduzione alla quarta giornata:

INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA

Carissime donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette, estimava io che lo ‘mpetuoso vento e ardente della invidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le più levate cime degli alberi; ma io mi truovo dalla mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani, ma ancora per le profondissime valli tacito e nascoso mi sono ingegnato d’andare. Il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali, non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più possono. Né per tutto ciò l’essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da’ morsi della invidia esser lacerato, non ho potuto cessare. Per che assai manifestamente posso comprendere quel lo esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti.
Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi.
E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare dond’io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontate che come io le vi porgo, s’ingegnano, in detrimento della mia fatica, di dimostrare.
Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto e intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze; anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio. Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della lo mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre. 

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Donne del Medioevo

L’autore racconta la novella di Filippo Balducci e delle papere. Il fiorentino Filippo Balducci, rimasto sconvolto dalla morte della moglie, decide di ritirarsi in un eremo con il figlio di due anni, lontano da ogni tentazione temporale, per dedicarsi solo alla preghiera e all’amore per Dio: recatosi molti anni dopo a Firenze, di fronte alla curiosità del figlio, ormai adulto, che gli chiede che cosa mai siano alcune belle ragazze che in quel momento passano per strada, risponde che si chiamano papere e sono mala cosa. Il figlio, per niente convinto, risponde che sono più belle degli angeli dipinti che il padre gli ha mostrato e di fare in modo di condurne una a casa che le darà da beccare (con significato equivoco)  

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Meli Valdés Sozzani: Novella delle papere (2013)

Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare l’aver conosciuti gli amorosi baciari e i piacevoli abbracciari e i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono; ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria e oltre a ciò la vostra donnesca onestà, quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini di una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate.
Riprenderannomi, morderannomi, lacerrannomi costoro se io, il corpo del quale il ciel produsse tutto atto ad amarvi, e io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la virtù della luce degli occhi vostri, la soavità delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno, e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovinetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama, e da voi non disidera d’essere amato, sì come persona che i piaceri né la virtù della naturale affezione né sente né conosce, così mi ripiglia, e io poco me ne curo.
E quegli che contro alla mia età parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde. A’quali lasciando stare il motteggiare dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello estremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi, e messer Cino da Pistoia vecchissimo, onor si tennono e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mosterrei d’antichi uomini e valorosi, ne’loro più maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne: il che se essi non sanno, vadino e sì l’apparino.
Che io con le Muse in Parnaso mi debbia stare, affermo che è buon consiglio, ma tuttavia né noi possiam dimorare con le Muse né esse con esso noi; se quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare. Le Muse son donne, e benché le donne quello che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle; sì che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere. Senza che le donne già mi fur cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furon di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’mille; e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse e in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano, quanto molti per avventura s’avvisano.
Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so; se non che, volendo meco pensare qual sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m’avviso che direbbono: – Va cercane tra le favole – . E già più ne trovarono tra le lor favole i poeti, che molti ricchi tra’lor tesori. E assai già, dietro alle lor favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver più pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che più? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro; non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e, quando pur sopravenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessità sofferire; e per ciò a niun caglia più di me che a me.
Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali, se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la loro riprensione e d’amendar me stesso m’ingegnerei; ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dallo aiuto di Dio e dal vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiare; per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire, che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto, e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degli imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, più giù andar non può che il luogo onde levata fu.
E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora più che mai mi vi disporrò; per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrà alcuna con ragione, se non che gli altri e io, che vi amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi, cioè della natura, voler contastare, troppe gran forze bisognano, e spesse volte non solamente in vano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo; e se io l’avessi, più tosto ad altrui le presterrei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne lori diletti, anzi appetiti corrotti standosi, me nel mio, questa brieve vita che posta n’è, lascino stare. 

Carissime donne, sia per aver ascoltato le parole dei saggi uomini, sia per le cose viste e lette, credevo che l’impetuoso vento dell’invidia non dovesse colpire se non le alti torri o le più elevate cime degli alberi: ma ho scoperto di essermi sbagliato. Per questo che mi ero ingegnato di andare soltanto per pianure e profondissime valli, e ciò appare palese a chi osservi le presenti novelle, che non solamente sono state scritte da me in fiorentino volgare ed in prosa e senza alcun titolo, ma sono anche (state scritte) in uno stile umilissimo  e dimesso più di quanto si potesse fare. Nonostante ciò non ho potuto evitare di essere fortemente scrollato, anzi vicino allo sradicamento dal vento dell’invidia e completamente lacerato dai suoi morsi; per questo è evidente quanto si dice da parte dei saggi uomini, che solamente la miseria è senza invidia nelle cose terrene.
Ci sono stati alcuni, discrete donne,  che leggendo queste novellette, hanno detto che voi mi piacete troppo e non è onesto che io provi tanto piacere nel piacervi e divertirvi e, alcuni hanno detto peggio, di elogiarvi, come faccio io. Altri, mostrando di volermi riprendere in modo più saggio, hanno detto che alla mia età non sta bene andare dietro a queste cose, cioè a ragionare di donne o a compiacerle. E molti, mostrandosi interessati  alla mia fama, dicono che sarebbe meglio io stessi con le Muse sul monte Parnaso, piuttosto che mescolarmi in tale chiacchiere con voi. Altri ancora che, più con dispetto che con ragione, hanno detto che mi comporterei più saggiamente pensando a come guadagnarmi la vita piuttosto che nutrirmi di vento con tali sciocchezze. E certi altri, per togliere valore alla mia fatica, s’ingegnano di dimostrare che le cose da me raccontate sono andate in maniera diversa da come le racconto io.
Dunque da così intensi  e inspirati venti dell’invidia, da zanne così atroci ed appuntite, mentre scrivo in vostro onore, valorose donne, sono sospinto, molestato e colpito nel vivo. Chiacchiere che io, con animo tranquillo, lo sa Dio, ascolto e capisco: e benché la mia difesa contro queste accuse spetti tutta a voi, non intendo affatto venir meno da me stesso, anzi, senza rispondere con la durezza che sarebbe necessaria, con qualche risposta arguta, senza alcun indugio, togliermi (quel chiacchiericcio) dagli orecchi. Perché, già ora che non sono giunto neppure ad un terzo della mia opera (si è appena conclusa la terza giornata), gli invidiosi e sono molti ed hanno abbastanza baldanza e temo che prima che io giunga alla fine dell’opera, essi potrebbero moltiplicarsi  e con un minimo sforzo mi rovinerebbero, se ora non dessi loro una risposta. Né per questo, sebbene le vostre forze siano grandi, potrebbero resistere.
(…)
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Donne del Medioevo

Giovani donne, dicono molti dei miei accusatori che io faccio male nello sforzarmi di piacervi e che voi mi piacete troppo. Cose che confesso senza difficoltà, cioè che voi mi piacete e che io mi sforzo di piacervi: vorrei domandare loro se si meravigliano di questo mio interesse per voi, considerando, non dico quel che tutti hanno conosciuto, i baci d’amore, i piacevoli abbracci, gli incontri intimi gioiosi che con voi, donne dolcissime, spesso si hanno, ma solamente di aver veduto e continuamente visto gli eleganti costumi, la raffinata bellezza e la garbata grazia e, oltre a ciò, la femminile onestà, quando colui che nutrito, allevato, cresciuto in un monte solitario e selvatico, entro angusti limiti, senz’altra compagnia se non paterna, appena vi vide foste da lui desiderate, richieste, affettuosamente domandate. (Si riferisce alla novella di Filippo Balducci).
Mi riprenderanno, mi morderanno, mi lacereranno costoro se io, il corpo del quale è stato fatto da Dio per amarvi, sin dalla fanciullezza volsi l’anima verso di voi, sentendo la virtù dei vostri occhi, la dolcezza delle vostre parole e il divampare d’amore per i vostri pietosi sospiri; se voi mi piacete e io mi sforzo di piacervi, soprattutto pensando che voi prima di ogni altra cosa siete piaciute ad un  piccolo eremita, ad un giovane che non conosceva i sentimenti, anzi a un animale selvatico? Certamente sono ripreso da chi non vi ama e non desidera essere amato da voi, come una persona che non conosce e non sente i naturali affetti; ma di costoro non mi curo. 
E coloro che parlano contro la mia età, mostrano di non conoscere che il porro ha il capo bianco ma la coda verde: a costoro, lasciando da parte gli scherzi, risponderò che mai mi vergognerò fino alla fine della mia vita di compiacere quelle cose che Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi e il vecchissimo Cino da Pistoia onorarono e fu gradito loro il compiacerle. E se non fosse fuori dal ragionamento, metterei in mezzo la storia, e mostrerei come essa è piena di uomini antichi e valorosi che pur avanti negli anni hanno non hanno cessato di compiacere le donne e se chi mi critica non lo fa, studino la storia e la imparino.
Che io debba stare con le Muse ritengo sia un buon coniglio, ma noi non possiamo stare sempre con esse, né esse con noi. Se talvolta capita che l’uomo si allontani da esse, non è da biasimare se si rivolge a cose che somigliano a loro: le Muse sono donne e seppure le donne non le possono eguagliare, a prima vista le somigliano, tanto che, se le donne non dovessero piacermi, dovrei amarle solo per questo; senza aggiungere che esse furono il motivo della composizione di più di mille versi, mentre le Muse per alcuno. Mi aiutarono tuttavia e mi mostrarono come comporre quei mille; e forse a scrivere queste novelle, quantunque siano estremamente umili, sono venute spesso a stare con me, in servizio  e in onore della somoglianza che le donne hanno con loro, per cui, elaborando le novelle, né mi allontano dal monte Parnaso né dalle Muse, quanto molti magari ritengono. 
Ma che diremo noi a coloro che, preoccupandosi della mia sorte, mi consigliano di guadagnare il pane (con altro pèiuttosto che con le novelle)? Non lo so, senonché, pensando a quale sarebbe la loro risposta se dovessi domandarlo loro, credo mi direbbero: «Va e cercalo tra le favole”. E già ne trovarono (di sostentamento) più tra le favole i poeti, che molti ricchi tra i tesori, e molti, andando dietro alle favole, vissero a lungo, al contrario, molti ricchi, cercando d’esserlo di più, morirono in giovane età.  Che più? Mi caccino costoro se chiedo loro del pane, benché, grazie a Dio, ancora non ne abbia bisogno e quando sopravvenisse la necessità io so, come disse San Paolo, vivere bene nell’abbondanza e sopportare con pazienza la povertà, e per ciò a nessuno importa più di me che a me stesso.
Quelli che dicono che i fatti raccontati nelle mie novelle non si sono svolti in questo modo, vorrei me la dicessero loro la verità, che se fosse così diversa da ciò che scrivo, direi che hanno ragione e mi adopererei per correggermi, ma finché essi si limitano a riprendermi con le parole, li lascerò della loro opinione, seguendo io la mia, dicendo di loro ciò che loro dicono di me.
E avendo per questa volta risposto a sufficienza, affermo che con l’aiuto di Dio e con il vostro, gentilissime donne, aiuto nel quale io spero, armato di buona pazienza, procederò, lasciandomi alle spalle questo vento (d’invidia) e lasciandolo soffiare, perché io reputo che non mi  possa accadere che quello che accade alla polvere sottile, la quale, quando soffia un vento impetuoso,  o lo stesso non la muove da terra o, se la muove, la porta in alto sopra la testa degli uomini e talvolta la lascia sopra gli alti palazzi e sopra le torri elevate; da cui, quando cade, non può andare più giù da dove era partita. E se mai avevo deciso di compiacervi con tutta la mia forza, ora più che mai mi ci proverò, dal momento che so che nessuno potrà dirmi altro con ragione se non che gli altri ed io che vi amiamo, operiamo secondo l’ordine delle cose, alle quali, se volessimo opporci ci vorrebbero grandi forze che spesso s’adoperano non solamente in modo inutile, ma anche con danno di chi le ha adoperate. Queste forze confesso di non averle né le desidero per questo lavoro e se le avessi piuttosto le presterei piuttosto d’adoperarle. Per cui tacciano i malevoli e se essi non possono provare il sentimento dell’amore, vivano nel gelo; e stando così nel loro diletto, anzi nelle loro voglie corrotte, lascino stare me nel mio (diletto) per questa breve vita che ci è concessa. 

E’ un passo importante perché a delle accuse circostanziate troviamo delle risposte altrettanto circostanziate che ci dicono anche quale sia la sua visione poetica.

I critici verso di lui affermano che:

  1. Egli loda troppo le donne;
  2. Donne ed amori non sono adatti all’età matura;
  3. La sua opera è di genere letterario troppo basso
  4. Tratta di una materia inutile
  5. Non racconta cose vere       

Le sue risposte sono:

  1. Se tutti desiderano le donne, esse sono “naturalmente” buone (a tale fine scrive la novella di Filippo Balducci dimostrando come l’attrazione verso di esse sia naturale);
  2. Il desiderio sessuale non cessa con l’età matura e ciò viene dimostrato da tutta la letteratura precedente (che ne racconta la bellezza);
  3. Le donne sono Muse e le Muse sono donne. Se le prime lo hanno ispirato, le seconde si sono sedute al suo fianco anche se la sua produzione è umile, cioè rivendicando ad essa la letterarietà;
  4. Forse la cultura non arricchisce “materialmente”, ma rende ricca la civiltà cui è rivolta;
  5. Afferma che egli nelle novelle abbia seguito il vero e quindi rivendica la natura essenzialmente realistica della sua opera; 

Vogliamo qui ricordare che il Proemio, l’Introduzione alla Prima giornata, l’Introduzione alla Quarta giornata e le Conclusioni dell’Autore costituiscono la cosiddetta “cornice” entro la quale inserire la molteplicità del reale boccacciano.

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Raffaello Sorbi: Decamerone (1876)

PRIMA GIORNATA

Quindi dopo aver disposto i compiti tra i fanti e giunta l’ora, l’“onesta brigata” si riunisce e la regina, Pampinea, dispone che “Per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado.”, cioè il tema del narrare sia libero, e lascia la parola al primo novellatore, Panfilo.

Costui, prima di cominciare il raccontare vero e proprio, fa una lunga e articolata premessa nella quale scinde tra il giudizio divino ed il giudizio umano; infatti l’uomo, nella sua umiltà, non sempre si rivolge per esaudire le sue preghiere a Dio, ma ai santi; tuttavia l’uomo non può sapere se la persona cui si rivolge è stata effettivamente accolta dal Signore o, come dice Panfilo stesso, esiliata da Lui. Tuttavia basta la sincerità con la quale gli si rivolge, al di là del mezzo cui ci serviamo, e ciò permette al Signore stesso di esaudirci.

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Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La vicenda di Ser Ciappelletto

SER CEPPARELLO CON UNA FALSA CONFESSIONE INGANNA UN SANTO FRATE E MUORSI; E, ESSENDO STATO UN PESSIMO UOMO IN VITA, E’ MORTO REPUTATO PER SANTO e CHIAMATO SAN CIAPPELLETTO.
(I,1)

Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso, sentendo egli gli fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone; e a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. E la cagion del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepperello da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava. Il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.
Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella conscienzia che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitor di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.
Venuto adunque questo ser Cepperello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia».
Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo.
E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che ‘l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui ch’aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.
E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare: «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Noi abbiamo dei fatti suoi pessimo partito alle mani, per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante n’avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ‘l voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto ‘l giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore e griderrà: “Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si vogliono più sostenere”; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore». 

Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi di niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e i miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti».
I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch’io infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la infermità m’ha data».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di domandare».
Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì ch’i’ nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch’io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al qual ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria».
Al quale il santo frate disse: «Dì sicuramente, ché il ver dicendo né in confessione né in altro atto si pecco’ giammai».
Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscì del corpo della mamma mia».
«Oh benedetto sia tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti».
E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; perciò che con ciò fosse cosa che egli, oltre a’ digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli.
Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere».
«Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo; e chiunque altri menti le fa, pecca».
Il frate contentissimo disse: «E io son contento che così ti cappia nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti?»
Al quale ser Ciappelletto disse: «
Padre mio, io non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m’avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l’una metà convertendo né miei bisogni, l’altra metà dando loro; e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei».
«Bene hai fatto», disse il frate «ma come ti se’ tu spesso adirato?»
«Oh!» disse ser Ciappelletto  «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per alcuno caso, avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcun’altra ingiuria?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, o voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: “Va che Dio ti converta”»
Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro alcuno o detto mal d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacer di colui di cui sono?»
«Mai, messere
 sì», rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica».
Disse allora il frate: «
Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?»
«Gnaffe», disse ser Ciappelletto «messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno, avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto, e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai ch’egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti».
E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo. E volendo egli già procedere all’assoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto».
Il frate il domandò quale; ed egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea».
«Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa».
«Non», disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore».
Disse allora il frate: «O altro hai tu fatto?»
«Messer sì», rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?»
Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta ch’io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Va via, figliuol, che è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente».
Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: «Ohimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato».
A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Iddio per te».
Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, e io il vi dirò. Sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia»; e così detto ricominciò a piagnere forte.
Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto ‘l giorno Iddio, e sì perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch’io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli».
Disse allora ser Ciappelletto: «Ohimè, padre mio, che dite voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà perdonato».
Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto. E chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, coll’aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a se’, piacev’egli che ‘l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?»
Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì; anzi non vorre’ io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e così fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da un’altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano, e fra se’ talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far ch’egli così non voglia morire come egli è vivuto?»
Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò, e peggiorando senza modo, ebbe l’ultima unzione; e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero.
Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camici e co’ pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l’avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre, e tutta la corte di paradiso».
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve colle sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano che, poi che fornito fu l’uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta. E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli potè in su l’estremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi d’essere uditi.

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Franco Citti nella parte di Ser Cepperello nel Decameron di Pasolini (1971)

Si racconta che Musciatto Franzesi, essendo diventato cavaliere in Francia da ricchissimo e potente mercante e dovendo venire a Firenze con Carlo di Valois, fratello del re Filippo il Bello, chiamato e sollecitato da papa Bonifacio VIII, sapendo che i suoi affari, come capita spesso ai mercanti, erano molto intricati di qua e di là e non potendoli risolvere facilmente, decise di affidarli a diverse persone e trovò quelle adatte ad ogni affare: solamente in dubbio gli rimase a chi sufficientemente affidare la riscossione dei suoi crediti fatti a diversi borgognoni. Il motivo della difficoltà della scelta era dovuto al fatto che gli abitanti di Borgogna erano litigiosi, malvagi e falsi; e a lui non veniva in mente chi fosse tanto malvagio, in cui porre grande fiducia da opporre alla loro malvagità. E avendo pensato a lungo, gli venne infine in mente un ser Cepparello di Siena, che a Parigi si era spesso ricoverato a casa sua, poiché era piccolino, ma ben sistemato, non sapendo i francesi cosa significasse Cepparello, credendo che volesse dire “cappello” o “copricapo”, nella loro lingua, non “Ciappello”, perché era piccolino, ma “Ciappelletto” lo chiamavano, e così per Ciappelletto tutti lo conoscevano, mentre per pochi ancora il suo nome era “Cepparello”. La vita di questo Ciappelletto era questa: essendo notaio, si vergognava moltissimo quando qualcuno dei suoi atti notarili fosse onesto, e tanti falsi ne avrebbe fatti quanti gliene avessero richiesti e questi li faceva gratuitamente più volentieri e che altri ben ricompensati. Diceva il falso con grande gioia, richiesto e non richiesto, e, prestando in quel tempo in Francia grandissima importanza ai giuramenti, non importandogli di giurare il falso, vinceva malvagiamente molte questioni sulle quali era chiamato a prestar fede. Provava gusto e molte volte anche provocava nello suscitare mali, inimicizie e scandali tra parenti e amici o qualsiasi altra persona, tra i quali quando più grandi mali vedeva seguire, quanto più trovava gioia. Invitato ad assistere ad un omicidio o a qualche altra azione delittuosa, senza mai negarsi, vi andava felicemente e molte volte si ritrovò volentieri a ferire o a uccidere con le proprie mani. Grande bestemmiatore di Dio e dei Santi, per ogni piccola cosa, così come colui che era estremamente iracondo. Non frequentava mai la Chiesa, e scherniva tutti i sacramenti come riti vigliacchi, mentre le taverne e i luoghi disonesti visitava volentieri e frequentava. Era così schifato dalle donne come sono i cani con i bastoni; con il sesso opposto si dilettava più di ogni altro uomo vizioso. Avrebbe commesso furti e rapimenti con la stessa coscienza con cui un sant’uomo offrirebbe l’elemosina. Golosissimo e grande bevitore, tanto che alcune volte vomitava sconciamente. Era un grandissimo giocatore con dadi falsi (baro): Ma perché mi dilungo in tante parole? Egli era il peggior uomo che fosse nato. La sua malizia sostenne per lungo tempo la condizione di Musciatto, per cui dalle persone private, a cui aveva fatto ingiuria, o alla pubblica corte, a cui continuamente le faceva, gli fu usato riguardo.
Venuto dunque in mente a messer Musciatto, che conosceva ottimamente la sua vita, pensò che la sua malignità dover esser adeguata a quella dei Borgognoni, perciò, fattolo chiamare, gli disse: «Ser Ciappelleto, come sai, io sto per allontanarmi da qui e, avendo tra le altre cose a fare con i borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so a chi lasciare riscuotere i miei affari più adatta di te. E perciò, non facendo ora nulla e se mai lo desiderassi, laddove volessi, intendo farti avere la protezione della corte e di donarti una parte di ciò che riscuoterai che riterrai più opportuno.»
Ser Ciappelleto, che era senza lavoro e in cattive condizioni economiche e vedendo andar via chi per lui era stato per lungo tempo suo sostegno e protezione, accettò senza alcun indugio e quasi costretto dalla necessità, e disse che lo avrebbe fatto volentieri. Per cui, messosi d’accordo, ricevuta la procura e le lettere favorevoli del re, partito messer Musciatto, andò in Borgogna, dove non lo conosceva quasi nessuno e qui, fuori dalla sua indole, con fare benevole e cortese cominciò a voler riscuotere e a compiere il compito per cui era stato mandato, quasi si riversasse a fare esplodere la sua naturale ira alla fine. 
E così facendo, mentre era ricoverato in casa di due fratelli fiorentini, usurai, e onorato molto da loro per amor di messer Musciatto, si ammalò. Allora i due fratelli fecero venir subito medici e servitori che lo servissero e ogni cosa opportuna affinché guarisse. Ma ogni aiuto era nullo, come dicevano i medici, per il fatto che il buon vecchio era vecchio e aveva vissuto in modo disordinato, e peggiorava di giorno in giorno, come se avesse una malattia inguaribile; di questa cosa i due fiorentini si lamentavano molto.
Un giorno, stando vicini alla camera in cui Ciappelletto giaceva malato, cominciarono così a parlare tra loro: «Che facciamo di lui? Noi a causa sua ci troviamo in una pessima situazione: perché sarebbe una grande vergogna ed una pazzia mandarlo via di casa così malato, dopo che la gente ci ha visto riceverlo e cercato di guarirlo ed ora, senza che egli ci abbia fatto alcun male, che dobbiamo mandarlo via così malato e verso una morte certa. D’altra parte egli è stato così malvagio che non vorrà confessarsi né prendere alcun sacramento; e morendo senza confessione, nessuna Chiesa vorrà ricevere il suo corpo, anzi sarà gettato nei fossi come un cane. E, se anche si dovesse confessare, i suoi peccati sono così orrendi, che accadrà la stessa cosa dal momento che nessun prete vorrà o potrà assolverlo per cui, non assolto, sarà ugualmente gettato ai fossi. E se ciò avvenisse, il popolo di questa terra, per il nostro mestiere, che a loro pare estremamente ingiusto e ci insultano ogni giorno a tal punto da volerci rubare, vedendo questo fatto si solleverà un tumulto e grideranno: “Questi cani lombardi, che la Chiesa si rifiuta di riceverli, non li vogliamo più tollerare” e correranno alle case e non solo ci porteranno via e cose, ma forse ci toglieranno anche la vita: per questo noi siamo nei guai, qualsiasi sia la nostra scelta, se costui muore».
Ser Ciappelletto, il quale, come già detto, giaceva vicino là dove i fratelli così ragionavano, avendo l’udito sottile, come spesso accade agli ammalati, udì ciò che loro di lui avevano detto; così li fece chiamare e disse loro: «Voglio che voi non dobbiate subire nulla per colpa mia né abbiate paura che io vi possa danneggiare. Ho sentito ciò che avete detto di me e sono sicurissimo che mi accadrebbe ciò che voi avete pronosticato, se le cose andassero così come pensate: ma andrà diversamente. Io, vivendo, ho fatto così tanti peccati verso Dio che, facendone una ora, sul punto di morte, non ne farà conto; e per questo fatemi venire un santo e valente frate, il più che potete, se qui ve n’è uno; e lasciatemi fare, che sicuramente sistemerò i fatti vostri e i miei in modo che risolverò la questione e ne sarete contenti»
I due fratelli, sebbene non riponessero molta speranza in questo, nondimeno andarono in un convento richiedendo un santo e saggio uomo che udisse la confessione di un lombardo malato in casa loro; e fu loro dato un vecchio frate, di vita santa e buona, gran maestro delle Sacre Scritture e molto venerabile, verso il quale tutti i cittadini avevano una speciale devozione, e glielo condussero. Questo, giunto nella camera dove ser Ciappelletto era infermo e postosi a sedere a fianco a lui, primo cominciò a confortarlo benignamente e in seguito gli domandò da quanto tempo non si confessasse. A lui ser Ciappelletto, che non si era mai confessato, rispose: «Padre mio, ho l’abitudine di confessarmi almeno una volta la settimana, anche se ci sono quelle in cui io mi confesso più volte; è pur vero che da quando mi sono ammalato, sono passati otto giorni, tanta è stata la sofferenza che la malattia mi ha procurato».
Gli disse il frate: «Figliolo, hai fatto bene; così bisogna fare d’ora in poi; e vedo che, dal momento che ti confessi così spesso, avrò poca fatica nell’ascoltarti e nel domandarti dei tuoi peccati».
Ser Ciappelleto disse: «Signor frate, non dite così: io non mi sono confessato tante volte, né così spesso, da non volermi confessare di tutti i peccati della mia vita da quando sono nato fino a questo giorno; e perciò vi prego padre mio buono, che in modo puntuale, mi poniate delle domande come se non mi fossi mai confessato, e non abbiate riguardo per la mia malattia, che preferisco di molto dispiacere al mio corpo perché, facendo cosa che fosse gradita loro, temo di entrare nella perdizione della mia anima, che il Signore riscattò col suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al venerando padre e gli sembrarono opportune per un uomo ben disposto verso la confessione; e dopo aver assai lodato questa sua abitudine, cominciò a chiedergli se mai avesse peccato in lussuria con le donne.
A lui sospirando Ciappelletto rispose: «Padre mio, di questo argomento mi vergogno di dirvi la verità, pensando d’essere vanaglorioso.
A cui il santo frate disse: «Parla sicuramente, che dicendo la verità non si pecca mai».
Allora disse ser Ciappelletto: «Poiché voi mi date sicurezza, ve lo dirò: io sono vergine come uscii dal corpo di mia madre».
«Oh, benedetto sia tu dal Dio», disse il frate «come hai fatto bene, e facendolo hai tanto meritato quanto, volendolo, avevi la facoltà che noi non abbiamo e che altri (non hanno) vincolati da una regola (religiosa)»
In seguito gli chiese se avesse commesso peccato di gola. Alla cui domanda, Ciappelletto, sospirando molto, rispose di sì e molte volte; per il fatto che, molte volte, dal momento che egli, oltre alle quaresime che si fanno durante l’anno dai devoti, ogni settimana fosse solito digiunare almeno tre giorni solo con pane e acqua e aveva bevuto l’acqua con gran gusto, specialmente dopo aver faticato o pregato o andato in pellegrinaggio, come coloro che bevono il vino; e molte volte aveva desiderato d’avere delle insalate di erbe, quelle che le donne raccolgono in campagna, e molte volte gli era sembrato migliore il mangiare di quanto avrebbe dovuto apparirgli a chi digiuna per devozione, come lui faceva».
A lui il frate rispose: «Figliolo mio, questi peccati sono naturali e molto veniali, e per questo voglio che la tua coscienza non sia da essi gravata più del necessario. Ad ogni uomo capita che dopo aver a lungo digiunato, per santissimo che sia, sembri il cibo e il bere un bene».
Disse Ciappelletto: «Oh, non deve dirmi questo per confortarmi, ben sapete che io so che le cose che si fanno al servizio di Dio, devono esser fatte in modo puro e senza macchia nell’anima e chiunque fa in modo diverso, pecca».
Il frate, contentissimo, disse: «Ed io sono felice che tu pensi questo e mi piace la tua coscienza pura e buona in questo. Ma, dimmi, in avarizia hai peccato, desiderando più del necessario e tenendo tu quello che non ti era dovuto?»
Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi dubitaste perché io sono in casa di questi usurai: io non ho nulla a che fare con loro, anzi ero venuto per ammonirli e castigarli e toglierli da questo abominevole guadagno; e credo che ci sarei riuscito se Dio non mi avesse visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò molto ricco, del cui avere, dopo la sua morte, gran parte diedi alla chiesa, poi per sostenere la mia vita e quella dei poveri di Cristo, ho fatto piccole mercanzie ed in quelle ho desiderato di guadagnare. E sempre con i poveri quello che ho guadagnato ho diviso; prendendo la metà per sostenermi e la metà per il loro sostegno e di questo mi ha favorito il Creatore che ho sempre garantito e difeso la mia vita».
«Ti sei comportato bene ed ora dimmi ti sei mai adirato?» disse il prete.
Rispose Ciappelletto: «Oh, vi dico chiaramente che mi sono arrabbiato spesso: e chi potrebbe trattenere l’ira, vedendo tutto il giorno gli uomini comportarsi in modo sconcio, non osservare i comandamenti di Dio e non temere il suo giudizio? Ci sono state volte che vorrei essere stato morto più che vivo, vedendo i giovani andare dietro le vanità e ascoltandoli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non rispettare le feste e seguendo piuttosto le vie del mondo che quelle di Dio».
Disse allora il frate: «Figliolo mio, questa è buona ira, né io, per me, saprei importi una penitenza; ma qualche volta ha potuto l’ira spingerti ad un omicidio, a dire cattive parole verso qualcuno o fare qualsiasi atto ingiurioso?»
Al quale ser Ciappelleto rispose: «Oimè, signore, eppure mi sembrate uomo di Dio: come dite voi queste parole? Se io avessi avuto anche una piccolissima idea di fare qualcosa che voi dite, credete che Dio mi avrebbe sorretto? Queste sono cose che fanno gli assassini e i malvagi, dei quali, ogni volta che ne ho incontrato qualcuno, gli ho sempre detto “Va, che Dio ti converta”».
Allora disse il frate: «Ora dimmi, figlio mio, sia tu benedetto da Dio, hai tu mai detto una falsa testimonianza contro qualcuno, o sparlato di qualcuno o preso cose altrui senza che l’altro ne ricevesse piacere?»
Rispose Ciappelletto: «Certamente sì, che io ho parlato male di qualcuno: perché io ebbi tempo fa un vicino che, del tutto ingiustamente, non faceva altro che picchiare la moglie, tanto che io parlai male di lui ai genitori della donna, tanta fu la pietà che provai per quella poverella, che, ogni volta che lui tornava ubriaco, la conciava come solo Dio lo sa».
Disse il frate: «Orbene, tu mi hai detto che sei stato mercante: hai ingannato mai le persone così come fanno i mercanti?»
«In fede mia» disse Ciappelleto «sì, ma non so a chi. Senonché, dovendomi egli dare dei denari per dei panni che gli avevo venduto e messili in una mia cassa senza contarli, dopo un mese scoprii che vi erano quattro monete più di quelle dovute. Per cui, passato un anno e non vedendolo più per restituirglieli, li diedi in carità».
Disse il frate: «Questa è una piccola cosa e hai fatto bene a fare quello che hai fatto»
E, oltre a questo, il frate gli domandò molte altre cose, alle quali rispose al modo in cui abbiamo visto, e, volendo quindi procedere all’assoluzione, ser Ciappelletto disse: «Signore, io ancora qualche peccato che non v’ho detto».
Il frate domandò quale ed egli disse: «Io ricordo che feci spazzare un mio servo sabato sera, e non ebbi la reverenza, per la domenica, che dovevo».
«Oh,» disse il frate «figlio mio, questa è poca cosa»
Disse ser Ciappelleto: «Non dite poca cosa, che la domenica si deve adorare, per il fatto che in questo giorno resuscitò nostro Signore».
Disse allora il frate: «Hai fatto altro?»
«Signor sì» rispose «che io, non accorgendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio»
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliol mio, questo è da non prendere in considerazione; noi, che siamo religiosi, vi sputiamo tutto il giorno».
Disse allora ser Ciappelletto: «E fate un grande vigliaccheria, perché niente è da tebersi così pulito come il luogo in cui si svolge il sacrificio di Cristo».
E in poche parole aggiunse molti altri fatti e alla fine cominciò a sospirare e dopo a piangere forte, che lòui lo sapeva fare bene, quando voleva.
Disse il santo frate: «Figlio mio, che hai?»
Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, signore, mi è rimasto un peccato, che non ho mai confessato, che ho grande vergogna nel ricordarlo oggi; ed ogni volta che ci ripenso mi vien da piangere, come vedete, e so per certyo che Dio non mi perdonerà per questo peccato».
Allora il Santo padre disse: «Ma va là!, figliolo, che dici? Se tutti i peccati che sono stati fatti dagli uomini o che saranno fatti finché durerà il mondo, fossero in un solo uomo ed egli ne fosse pentito e contrito come ti vedo, tanta è la bontà e la misericordia del Cielo che, confessandolo, glielo perdonerebbe con piacere ; per questo dillo con sicurezza.
Disse ser Ciappelletto, sempre piangendo: «Oimè, io mio peccato è troppo grave, e posso appena credere, se non ci fossero le vostre preghiere, di esser perdonato».
Disse il frate: «Dillo sicuramente, che io pregherò Dio per te».
Ser Ciappelletto piangeva ancora e non lo diceva, i il frate lo esortava a confessarlo; ma poi, dopo che Ciappelletto piangendo tenne a lungo il frate in attesa, dopo aver emesso un gran sospirato disse: «Padre mio, dal momento che avete promesso di pregare Dio per me, ve lo dirò: sappiate che una volta quando ero piccolino io maledissi mia madre»». E detto questo ricominciò a pianger forte.Disse il frate: «O figlio mio, ti sembra questo un così grande peccato? Gli uomini bestemmiano tutto il giorno Dio, eppure Egli perdona coloro a chi si pente d’averlo fatto: e tu credi che Egli non ti perdoni? Non piangere, confortati, che sicuramente, se tu fossi stato uno di quelli che lo posero in croce, mostrando il forte pentimento che io vedo in te, certamente Egli ti perdonerebbe.»
Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, frate mio, che dite mai? La mia dolce mamma che mi portò nel ventre per nove mesi e mi raccolse in petto durante la notte più di cento volte! Io ho fatto un gravissimo peccato a maledirla e se voi non pregate per me, Dio non perdonerà».
Il padre vedendo che non vi era nulla d’aggiungere alla confessione, gli diede l’assoluzione e la benedizione, credendolo un uomo santissimo, credendo certamente fosse vero ciò che Ciappelletto gli aveva detto: e chi non lo crederebbe vedendo un uomo in punto di morte dir così?
E poi, dopo, gli chiese: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete presto guarito, ma se pure avvenisse che Dio chiami la vostra benedetta e santa anima, vi farebbe piacere esser seppellito nel cimitero del Convento?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Si signore, anzi non vorrei essere altrove, dopo che voi avete promesso di pregare Dio per me, considerando inoltre la mia speciale devozione al vostro ordine. E vi prego di, appena sarete nel vostro luogo, fate in modo che a me venga quel corpo di Dio vero (attraverso l’ostia) che voi al mattino consacrate, dal momento che io, pur non essendone degno, con vostro permesso lo prenda, affinché se son vissuto nel peccato, almeno muoia da cristiano».
Il santo uomo affermò che molto gradiva la richiesta ben posta e avrebbe fatto in modo, che il giorno stesso, ricevesse l’eucarestia.
I due fratelli, che dubitavano fortemente che Ciappelletto li ingannasse, s’erano messi dietro un pannello che divideva la camera di Ciappelleto con l’altra, e ascoltando con facilità udirono tutto ciò che Ciappelletto diceva al frate, e veniva loro, alcune volte, tanto da ridere, ascoltando ciò che veniva confessato, che quasi scoppiavano; e talore si dicevano tra loro: «Che uomo è questo, che né vecchiaia, né malattia, né la paura della morte, che era a lui prossima, né addirittura di Dio, davanti al giudizio di cui in poco tempo avrebbe dovuto essere, l’hanno rimosso dalla sua malvagità, né fare in modo che egli morisse diversamente da come era vissuto. Ma come sentirono che sarebbe stato seppellito in Chiesa, non si preoccuparono di altro.
Ciappelleto ricevette la comunione e poco dopo si aggravò, e peggiorando in modo grave, ricevette l’estrema unzione e, passata la sera, il giorno stesso in cui aveva fatto la confessione, morì. Per cui i due fratelli, avendo disposto che egli, con il suo denaro, fosse onorevolmente seppellito e mandato a riferire della sua morte ai frati, e che essi stessi venissero quella stessa sera a prenderlo per far la veglia funebre secondo l’usanza e la mattina seguente per la sepoltura, disposero affinché fosse fatto tutto in modo opportuno. 
Il frate che lo aveva confessato, saputo che Ciappelletto era morto, ebbe un colloquio con il priore luogo; e fatta suonare la campana, ai frati raccolti mostrò che ser Ciappelletto  era stato un sant’uomo, così come aveva dedotto dalla sua confessione e sperando che il Signore, attraverso lui, dovesse dar vita a molti miracoli, convinse loro che si dovesse ricevere il suo corpo con somma reverenza e devozione. Sia il priore che i frati, credendo alle parole del confessore, accettarono e la sera stessa, andati nel luogo in cui Ciappelletto era spirato, fecero per lui una grande e solenne veglia di preghiera. Il mattino seguente, tutti vestiti con camici e piviali (abiti e mantelli indossati dagli ecclesiastici per le grandi solennità), con i libri sacri in mano e preceduti dalla croce, cantando in coro, andarono a prendere il corpo e a trasportarlo alla loro chiesa in modo festoso e solenne, seguiti da quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. Messo il corpo di ser Ciappelletto in chiesa, il santo frate, che l’aveva confessato, salito sul pulpito cominciò a predicare, riferendo cose meravigliose di lui, della sua vita, dei suoi digiuni, della sua verginità, della sua semplicità, innocenza e santità; ed inoltre raccontando di cosa ser Ciappelletto, piangendo, gli aveva confessato come maggior peccato, e come avesse dovuto convincerlo, lui stesso, che Dio glielo avrebbe perdonato, e da ciò, prendendo lo spunto per rimproverare il popolo che lo ascoltava: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi s’impiglia tra i piedi, bestemmiate Dio, la Madonna e tutti i santi del Paradiso».
Oltre a queste, riferì molte altre cose sulla sua lealtà e purezza: in breve, con le sue parole, alle quali la gente della contrada aveva dato pienamente fede, che così mise in capo e nella devozione di tutti presenti che, finita la funzione, tutti con la maggior calca del mondo, volevano baciargli i piedi e le mani, e gli avevano strappato i panni che aveva indosso, ritenendosi beato chi avesse potuto averne anche soltanto un poco, e si ritenne di mantenerlo così all’interno della chiesa per tutto il giorno, affinché fosse visto e ricevesse la visita da tutti. Poi, la notte seguente, messo in un’arca marmorea fu seppellito onorevolmente in una cappella: dal giorno seguente cominciarono piano piano le visite della gente, chi ad accender lumi e adorarlo, e conseguentemente a far voti e a affiggere le immagini di cera (ex-voto) secondo la promessa richiesta. E a tal punto crebbe la fama della sua santità e della devozione a lui, che quasi nessuno che avesse qualche avversità, facesse voti ad altro santo che non fosse lui,  e lo chiamarono e tuttora lo chiamano San Ciappelletto; e affermano che molti miracoli Dio fece attraverso lui, e tuttora fa a chi con devozione si raccomanda a lui.
Così dunque visse e morì ser Cepparello da Prato e come avete ascoltato, divenne santo. Non voglio negare che lui sia beato alla presenza di Dio e sebbene la sua vita fosse stata scellerata e malvagia, che abbia potuto all’ultimo aver fatto un così grande pentimento, che forse Dio abbia avuto misericordia di lui da riceverlo nel suo regno; ma siccome questo non è possibile da sapere, secondo quello che sappiamo, giudico e affermo che costui dovrebbe essere piuttosto nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se così fosse, si può riconoscere la grande benevolenza di Dio nei nostri confronti, la quale guardando la nostra fede e non l’errore, facendo noi da intercessore un suo nemico, credendolo un suo amico, allo stesso modo ci esaudisce, come se ad un vero santo, come intermediario, ci rivolgessimo. E per questo, dal momento che per sua grazia siamo stati conservati sani e salvi in questa avversità (della peste) e in  così lieta compagnia, lodando il suo nome, con il quale l’abbiamo cominciata, avendo Lui in reverenza, ci raccomanderemo a Lui neli nostri bisogni, sicurissimi d’essere ascoltati.  

01.01.jpgIl peccatore Ser Ciappelletto s’ammala in viaggio. Prima di morire si finge santo, il prete confessore ne beatifica la memoria”. Miniatura tratta dal ‘Decameron’ (codice del XV secolo)

La novella di Ciappelletto, proprio perché è  la prima ad essere raccontata, ha un protagonista malvagio, “il piggiore uomo forse che mai nascesse”. Tale figura viene inserita all’interno di un’etica mercantile, etica di cui lo stesso Boccaccio, come vedremo meglio, si farà estimatore. Infatti secondo la logica mercantile di Musciatto Franzesi per raggiungere l’obiettivo occorre un mezzo idoneo, ed essendo i borgognoni ladri ed infigardi, bisogna mandare chi è più ladro e più infingardo di loro. Moralmente criticabile, “commercialmente” emendabile.

Altra caratteristica della novella è certamente una doppia duplicazione:

  1. Ciappelletto è piccolo, minuto (lo stesso nome è un diminutivo), così come enormi, grandissimi sono i suoi peccati;
  2. La confessione è la duplicazione rovesciata dei suoi vizi. 

Il fatto che venga sottolineata la piccolezza del protagonista, rende lo stesso più caricaturale proprio alla luce dell’enormità della sua vita viziosa, così come la descrizione a tutto tondo della sua vita rende più semplice ed efficace l’enormità della sua confessione. D’altra parte l’efficacia narrativa è nel tenere all’interno della stessa malvagità del protagonista l’atto della confessione (il narratore, così come il lettore sanno che essa è un’ulteriore falsità – per lo più compiuta in punto di morte -) e l’esaltazione virtuosa della stessa da parte del coprotagonista (il prete confessore, che non sa che è una falsità).

Vorremo in ultimo ricordare che la novella è strutturata secondo il modello degli exempla medioevali: teoria (Dio può operare il bene anche attraverso personaggi malvagi), novella esplicativa (narrazione della vita e della morte di Ciappelletto), conclusione in cui si afferma che a Dio non importa chi venga preso per intermediario, ma soltanto la fede di chi crede.

Sarà Filomena a raccontare la terza novella della prima giornata:

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Melchisedech e il Saladino in un codice del XV sec.

MELCHISEDECH GIUDEO, CON UNA NOVELLA DI TRE ANELLA, CESSA UN GRAN PERICOLO DAL SALADINO APPARECCHIATOGLI. 
(I, 3)

Il Saladino, il valore del qual fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe’ di Babillonia soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere da poterlo servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s’avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata.
E fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse: – Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana.
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una che l’altra lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione. Per che, come colui al qual pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ‘ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse, e disse: – Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete. Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri essere come maggiore onorato e reverito. E colui al quale da costui fu lasciato il simigliante ordinò né suoi discendenti e così fece come fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori; e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi d’essere ciascuno il più onorato tra’ suoi ciascuno per se’, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte venisse, a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero. E venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare, e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello. E trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro che qual di costoro fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente, e ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione.
Il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva; e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente, come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladino richiese il servì; e il Saladino poi interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.

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Un taglio di legno del XV secolo, che illustra la Storia dei tre anelli di Boccaccio 

Il Saladino, il cui valore fu tanto grande che grazie ad esso, non soltanto egli passò dall’essere un uomo qualunque ad essere il sultano di Babilonia, ma per giunta ottenne innumerevoli vittorie contro i re cristiani e saraceni, aveva dato fondo all’intero suo patrimonio, a seguito di diverse guerre e di una serie di iniziative molto dispendiose; contemporaneamente, per un qualche avvenimento che gli era capitato, il Saladino si trovava ad aver bisogno di una grossa somma di denaro, e non aveva idea del modo in cui avrebbe potuto trovare quel denaro nel breve tempo che aveva a disposizione; così gli tornò alla memoria la figura di un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale esercitava l’attività di usuraio ad Alessandria d’Egitto; il Saladino ritenne che Melchisedech possedesse abbastanza denaro da soddisfare la sua necessità, qualora avesse voluto; ma il Saladino sapeva anche che Melchisedech era così avaro, che non avrebbe mai concesso i suoi soldi, a meno che non fosse stato costretto a farlo, ed egli non voleva ricorrere ai soprusi; alla fine il Saladino, tormentato dalla necessità di denaro, concentrò tutte le sue energie nella ricerca di un modo per farsi finanziare dal giudeo Melchisedech, ed escogitò di commettere un sopruso che apparisse giustificato da qualche parvenza di legalità.
Quindi mandò a chiamare Melchisedech e lo accolse con benevolenza, si sedette con lui e gli disse: «Saggio uomo, ho sentito dire da più persone che tu sei un uomo estremamente assennato e che hai molto approfondito le questioni religiose; per questa ragione io sarei molto interessato a sentire da te quale, tra le religioni monoteiste, tu ritieni quella autentica, se la religione giudaica, quella cristiana o quella islamica».
Il giudeo Melchisedech, che era per davvero un uomo molto assennato, si rese conto fin troppo bene che il Saladino stava cercando di farlo cadere in un tranello per potergli poi muovere qualche accusa, e pensò che l’unico modo per impedire al Saladino di riuscire nel suo intento, fosse non esprimersi a favore di nessuna delle tre religioni. così, dal momento che egli aveva l’assoluta necessità di trovare una risposta che non lo facesse cadere nella trappola, aguzzò il suo ingegno e subito ebbe davanti a sé ciò che avrebbe dovuto rispondere; allora disse: «Mio sultano, la domanda che voi mi ponete è molto interessante e per farvi capire quale sia il mio punto di vista, vi racconterò una breve novella, che adesso ascolterete. Se la memoria non m’inganna, io ricordo di aver sentito raccontare più volte che, molto tempo fa, visse un uomo illustre e ricco, il quale, tra i gioielli più preziosi che facevano parte del suo tesoro, aveva anche un anello bellissimo e raro; e poiché l’uomo voleva rendere onore al valore e alla bellezza di quell’anello e voleva che esso si tramandasse per sempre, di padre in figlio, lungo i rami della sua discendenza, stabilì questa regola: quello tra i suoi figli, che avesse ricevuto da lui l’anello, avrebbe dovuto essere considerato il suo legittimo erede, e avrebbe dovuto essere onorato e riverito dai suoi fratelli come il più importante. E il figlio che ricevette l’anello, adottò la medesima regola per i propri discendenti; e, per farla breve, questo anello passò di mano in mano, da una generazione all’altra, di successore in successore. E alla fine arrivò nelle mani di un padre, che aveva tre figli belli, valorosi e molto rispettosi del loro genitore; per queste regioni egli li amava alla stessa maniera tutti e tre. ora, dal momento che i tre giovani conoscevano l’usanza dell’anello e ciascuno ambiva ad essere il più apprezzato tra i suoi fratelli, ciascuno di loro supplicava quanto più poteva il padre, che era ormai anziano, affinché al momento della morte, lasciasse a lui l’anello. Il brav’uomo che amava tutti i suoi figli alla stesso modo e non era in grado di compiere la scelta di lasciare l’anello ad uno di loro in particolare, dopo aver promesso l’anello a ciascuno dei suoi figli pensò ad un sistema per non doversi rimangiare la parla.. In segreto l’uomo commissionò ad un valido fabbro la realizzazione di due copie dell’anello, le quali furono realizzate tanto somiglianti all’originale, che il fabbro stesso che le aveva confezionate faceva fatica a capire quale fosse il modello e quali le copie. E quando fu sul punto di morire, l’uomo consegnò in segreto a ciascuno dei suoi tre figli un esemplare dell’anello. Così, quando all’indomani della morte del padre, ciascuno dei tre figli tentò di succedergli e di impadronirsi dell’eredità e del titolo e ciascuno dei tre cercò di impedire agli altri due di realizzare il loro intento, ogni figlio tirò fuori, a garanzia della legittimità di ciò che stava facendo, la propria copia dell’anello. E poiché gli anelli furono riscontrati essere così simili uno all’altro, che non era possibile stabilire quale tei tre fosse l’originale, rimase aperta anche la questione di quale fosse l’autentico erede del padre. E quella questione è tuttora aperta. Mio sultano, la medesima cosa vi dico io in merito alle tre religioni che Dio padre ha dato ai popoli, riguardo alle quali mi avete interrogato: ogni popolo si crede nel giusto mentre mantiene e rispetta la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti; tuttavia, come per gli anelli, la questione di chi sia il vero erede é ancora irrisolta.
Il Saladino si rese conto che Melchisedech aveva saputo magistralmente evitare la trappola che egli gli aveva teso davanti ai piedi; così decise di rivelargli con sincerità di aver bisogno di denaro, per poi stare a vedere se Melchisedech avrebbe accettato di finanziarlo; e così fece, svelandogli che cosa aveva pianificato di fare se lui non gli avesse risposto con quella capacità e saggezza. L’ebreo Melchisedech generosamente concesse al Saladino tutto il denaro di cui aveva bisogno e il Saladino successivamente gli restituì tutto il denaro che gli aveva prestato e, oltre a ciò, lo omaggiò di grandissimi doni, lo trattò sempre come un amico e lo fece restare nella propria corte tenendolo sempre in grande considerazione e grande stima. 

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Alberto Criscione: Melchisedech e il Saladino (2014) 

L’analisi della terza novella della prima giornata presenta alcune caratteristiche che meritano di essere sottolineate:

  1. il narratore: se, nella parte omessa sarà Boccaccio (narratore di primo grado) a dirci che la parola viene data a Filomena per raccontarci una novella, la stessa la inizia (narratore di secondo grado) presentandoci il Saladino ed il motivo che lo spinge a rivolgersi all’usuraio ebreo Melchisedech. Per cercare di non ricevere un rifiuto, lo stesso Saladino escogita uno stratagemma che costringe Melchisedech a trovare un’immediata risposta che consiste nel raccontargli un’altra storia (narratore di terzo grado) che lo liberi dall’impasse tesagli.
  2. la cortesia: ambedue i protagonisti, sia il sultano che l’ebreo mostrano cortesia l’un l’altro: elemento fondamentale nell’etica boccacciana, il sapere riconoscere nell’altro una persona degna di rispetto.
  3. la religione: potremmo parlare di “democrazia” religiosa in questa novella, ma sarebbe forse più giusto notare come laddove vi sia vera fede, non vi sia da parte dell’autore nessun ostracismo
  4. intelligenza: qui forse più marcatamente l’intelligenza della parola. Sia il sultano mostra di saper usare l’intelligenza nel porre un quesito per non offendere l’usuraio, sia quella di quest’ultimo che con essa riesce a sviare il pericolo. E’ proprio l’intelligenza (saggezza) di entrambi a far sì che essi si stringano in un rapporto di amicizia.

SECONDA GIORNATA

La seconda giornata è posta sotto la reggenza di Filomena la quale propone alle giovani e ai giovani dell’allegra brigata di ragionare di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre la speranza, riuscito a lieto fine.

La quarta novella è raccontata da Lauretta:

LANDOLFO RUFOLO, IMPOVERITO, DIVIEN CORSALE E DA’ GENOVESI PRESO, ROMPE IN MARE, E SOPRA UNA CASSETTA, DI GIOIE CARISSIME PIENA, SCAMPA, E IN GURFO RICEVUTO DA UNA FEMINA, RICCO SI TORNA A CASA SUA.
(II, 4)

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Miniatura del XV secolo

Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’ltalia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra ‘l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tra le quali città dette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di radoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella sé stesso. Costui adunque, sì come usanza suole essere de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno, e quello tutto di suoi denari caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione, non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via; laonde egli fu vicino al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che la onde ricco partito s’era povero non tornasse. E, trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti avea, comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo, e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto, ma di gran lunga quello avere raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non incappar nel secondo, a sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più , dovergli bastare; e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia, non s’mpacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’remi in acqua, si mise al ritornare. E già nello Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo picciol legno non avrebbe bene potuto comportare, in uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva, da quello vento coperto, si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore. Nel qual seno poco stante due gran cocche di genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero. Le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci, a doverlo avere si disposero. E messa in terra parte della lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna persona, sé saettato esser non voleva, poteva discendere; ed essi, fattisi tirare a’paliscalmi e aiutati dal mare, s’accostarono al picciol legno di Landolfo, e quello con picciola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma, senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver ponente venendo fer vela: e tutto quel dì prosperamente vennero al loro viaggio; ma nel far della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi, divise le due cocche l’una dall’altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo, con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia percosse in una secca e, non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta s’aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse e il mare grossissimo e gonfiato, notando quelli che notar sapevano, s’incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura loro si paravan davanti. Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, vedendola presta n’ebbe paura; e, come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s’appicco’, se forse Iddio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli d’attorno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, e una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse; e sempre che presso gli venia, quanto potea con mano, come che poca forza n’avesse, la lontanava.
Ma, come che il fatto s’andasse, avvenne che, solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare, sì grande in questa cassa diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo lasciatola andò sotto l’onde e ritornò suso notando, più da paura che da forza aiutato, e vide da se molto dilungata la tavola; per che, temendo non potere ad essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, colle braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non aveva che, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.
Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che ‘l facesse, costui divenuto quasi una spugna, tenendo forte con amendue le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono, quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pure, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando e vedendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravvisò la faccia e quello essere che era s’imaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tiro in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un picciol fanciullo ne portò nella terra, e in una stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavo che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze; e quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconforto, e alcun giorno, come potè il meglio, il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe la dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la quale salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura, e così fece.
Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere che alcun dì non gli facesse le spese; e trovandola molto leggiera, assai manco della sua speranza. Nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s’intendea; le quali veggendo e di gran valore conoscendole, lodando Iddio che ancora abbandonare non l’avea voluto, tutto si riconfortò. Ma, si come colui che in picciol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci, come meglio potè, ravvoltole, disse alla buona femina che più di cassa non avea bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì , e montato sopra una barca, passò a Brandizio, e di quindi, marina marina, si condusse infino a Trani, dove trovati de’suoi cittadini li quali eran drappieri, quasi per l’amor di Dio fu da loro rivestito, avendo esso già loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; e oltre a questo, prestatogli cavallo e datogli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli essere sicuro, ringraziando Iddio che condotto ve l’avea, sciolse il suo sacchetto, e con più diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno, egli era il doppio più ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciare le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; e il rimanente, senza più volere mercatare, si ritenne e onorevolmente visse infino alla fine.

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Alberto Criscione: Landolfo Rufolo (2014) 

Si crede che il litorale che va da Reggio Calabria a Gaeta sia la parte più bella d’Italia; lungo di esso, nei pressi di Salerno, vi era una costiera che s’affaccia sul mare, chiamata dai suoi abitanti “costiera amalfitana”, piena di piccole città, di giardini, di fontane e di uomini industriosi nel commerciare come pochi altri. Tra queste cittadine, ve ne era una, chiamata Ravello, dove abitava un uomo di nome Landolfo Rufolo, ricchissimo, il quale, desiderando raddoppiare la sua ricchezza, corse il rischio di perdere la vita, insieme con le ricchezze.
Costui dunque, secondo l’usanza dei mercanti, fatti i suoi conti, comprò una grandissima nave che riempì completamente a sue spese con molte mercanzie e partì per Cipro. Lì giunto, trovò molte altre navi con le stesse mercanzie portate da lui e dovette dunque, per questa ragione vendere con un gran ribasso quanto aveva trasportato, ma quasi gettar via la sua merce, pur di liberarsene: per cui fu quasi arrivato al punto di rovinarsi. E avendogli arrecato, quanto era successo portato, un grandissimo dispiacere, non sapendo che fare, essendosi egli ritrovato da uomo ricchissimo ad indigente, pensò o di morire o di andare a rubare, affinché da dove era partito non tornasse povero essendo partito ricco. Trovato un compratore della sua grande nave e con i pochi ricavati dal commercio con i soldi avuti, comprò una navicella agile e snella da predone, la armò in maniera adeguata e si diede alla vita di corsaro, derubando soprattutto i turchi. 
Questa attività fu favorita dalla fortuna, molto più che quella, precedente, di mercante. Dopo circa un anno rubò e catturò tante navi dei turchi, che non solo recuperò tutte le ricchezze che aveva perduto facendo il mercante, ma le raddoppiò completamente. per cui, reso prudente dalla prima perdita, misurando che con la nuova attività aveva ottenuto molto, per evitare un secondo dissesto finanziario, decise che quello che aveva gli doveva bastare e perciò deliberò di dover tornare a casa sua. Reso diffidente del commercio, non si dette pensiero d’investire i suoi denari, ma con la stessa piccola barca con la quale era ridiventato ricco, a forza di remi si pose sulla via del ritorno. Era già giunto nell’Arcipelago Egeo, quando, una sera, si alzò lo scirocco, che, non solo era contrario alla sua rotta, ma anche rendeva agitatissimo il mare; poiché la sua navicella non avrebbe potuto durare in un mare così grosso, si ritirò in un golfo protetto da un’isoletta e riparato dal vento; e qui si propose di attendere un vento migliore. In questa insenatura, poco distante, due cocche (navi da trasporto) genovesi, che venivano da Costantinopoli, giunsero a fatica, per ripararsi, come aveva fatto Landolfo. I naviganti, vista la piccola nave nel porticciolo e chiusale la via per uscire, udendo a chi apparteneva e sapendo, per fama, che il proprietario era ricchissimo, essendo ladri e desiderosi di danaro, decisero di appropriarsene. Fatta scendere una parte degli uomini armati di balestre ed altre armi, fecero circondare la navicella, in modo che nessuno potesse scendere da essa, se non voleva essere colpito dalle frecce; gli altri, trasportati dalle scialuppe e aiutati dal mare, si accostarono alla barchetta e se ne appropriarono, in breve tempo, con tutta la ciurma, senza colpo ferire, quindi fatto salire Landolfo su una delle loro cocche (navi con un solo albero), sfondarono la navicella e la affondarono, lasciandolo vestito solo con un miserevole farsetto. 
Il giorno dopo, cambiato il vento, le cocche fecero vela verso ponente, viaggiando per tutta la giornata favorevolmente, ma sul far della sera, si levò un vento tempestoso che, creando altissimi marosi, divise le due navi. E a causa di ciò, la nave su cui si trovava il misero Landolfo, con grande violenza, fu sbattuta in una secca  sull’isola di Cefalonia e, come un vetro che sbatteva contro un muro, si aprì tutta e si sgretolò. Gli sventurati che si trovavano sulla cocca, come suole avvenire in questi casi, essendo già il mare pieno di mercanzie, di casse e di tavole, in una notte nerissima, con un mare agitatissimo, nuotando al meglio che potevano, si cominciarono ad aggrappare alle cose che, per fortuna, si paravano davanti.
Tra questi il povero Landolfo, benché molte volte il giorno precedente avesse invocato la morte, scegliendo tra sé di voler morire piuttosto che tornare a casa povero come si trovava, vedendola sul serio davanti ne ebbe paura; e, come gli altri, aggrappatosi ad una tavola, a quella si attaccò, nella speranza che Dio, ritardando egli ad affogare, gli mandasse un qualche aiuto che gli permettesse di salvarsi e a cavallo di quella, come meglio poteva, spinto di qua e di là, si mantenne fino all’alba. Giunto il levar del sole, guardandosi intorno, non vedeva altro che nuvole e mare ed una cassa che sospesa nelle acque, mentre tentava di restare a galla, con sua grande paura,  gli si avvicinava, sospinta dalle onde, e avendo paura che potesse colpirlo, recandogli danno, ogni volta che s’avvicinava nonostante avesse poca forza, quanto poteva con la mano la allontanava. Comunque il fatto avvenisse, successe che scoppiata nell’aria una raffica di vento che investì il mare, esso con tale forza spinse la cassa e la cassa con tale impeto percosse la tavola che si rovesciò e Landolfo, costretto a lasciare la presa, andò sott’acqua e riemerse nuotando, spinto più dalla paura che dalla forza e vide che la tavola s’era molto allontanata da lui e non potendola più raggiungere si avvicinò alla cassa e messosi sopra di essa come meglio poteva, la teneva dritta con le braccia. E così, sbattuto dal mare da una parte all’altra, senza mangiare, non avendo a disposizione nessun cibo e bevendo più di quanto avesse voluto, senza sapere dove fosse e vedere altro che mare, Landolfo passò tutto quel giorno e la notte seguente.   
Il giorno dopo, come piacque a Dio o alla forza del vento che lo spingese, diventato quasi una spugna, attaccato con forza ai bordi della cassa, come ci si attacca per non affogare, giunse alla spiaggia dell’isola di Corfù, dove per caso una povera donnetta lavava i piatti con l’acqua salata e la sabbia. Come costei vide qualcosa che si avvicinava, non riconoscendo alcuna forma, temendo cominciò a gridare.  Landolfo non poteva parlare e aveva la vista debolissima e non disse niente; nonostante ciò, avendolo il mare spinto in terra, costei riconobbe dapprima la forma di una cassa e, guardando più attentamente, vide due braccia sopra di essa, quindi scorse la faccia e capì che quello era un povero naufrago. Quindi, mossa a compassione, entrata un po’ nel mare, che, frattanto, si era calmato, afferratolo per i capelli, lo tirò a terra con tutta la cassa, che pose sulla testa della figlioletta che era con lei, e, presolo in braccio come un bambino, lo portò al villaggio; in seguito messolo in un bagno caldo, tanto lo strofinò e lavò con acqua calda che Landolfo riprese colore e recuperò in parte le perdute forze. Lo lasciò lì il tempo necessario, lo riconfortò con vino e dolci sostanziosi e lo trattenne con sé alcuni giorni, tanto che lui, rimessosi, seppe infine dove si trovava. Allora alla donna sembrò opportuno restituirgli la cassa, che aveva conservato e lo licenziò. Il giovane, che non se ne ricordava per niente, prese la cassa, pensando che potesse valere qualcosa, ma visto che pesava poco, non aveva molte speranze. Nonostante ciò, essendo solo in casa, la schiodò per vedere cosa ci fosse dentro e vi trovò molte pietre preziose sia unite in monili sia sciolte il cui valore egli sapeva riconoscere e  ciò o confortò e gli fece ringraziare Dio che ancora non l’aveva abbandonato. Ma così come colui che in poco tempo e per ben due volte aveva subìto i colpi della fortuna, temendo che potesse essercene anche una terza, pensò di adoperare estrema prudenza nel voler condurre queste pietre a casa sua, per cui avvoltele in una tela, chiese alla donna un sacco, lasciandole in cambio la cassa. 
La donna l’accontentò volentieri, egli la ringraziò caldamente e messosi il sacco in spalla, partì. Salito su una nave, arrivò a Brindisi e, di porto in porto, giunse fino a Trani, dove incontrò alcuni suoi concittadini, che commerciavano in stoffe, ai quali raccontò le sue vicissitudini, ma, prudentemente, non accennò alla cassa. Costoro lo rivestirono, gli prestarono un cavallo e con una compagnia lo rimandarono a Ravello, dove diceva di voler tornare.
Giunto finalmente nel suo paese, sentendosi al sicuro, ringraziando Iddio, sciolse il sacchetto e guardò, come non aveva avuto modo prima, le pietre con più attenzione e considerò che erano molte e di gran pregio e calcolò che vendendole anche a un prezzo inferiore al loro valore, sarebbe diventato ricco il doppio di quando era partito. Trovato il modo di farne commercio, mandò a Corfù una buona quantità di denari alla buona donna che l’aveva raccolto dal mare e lo stesso fece a Trani verso coloro che l’avevano rivestito e il rimanente, senza voler più fare il mercante, si tenne per sé e così visse onorevolmente fino alla fine.

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Manoscritto con l’immagine di Landolfo Rufolo che scampa dal naufragio

Il motivo che spinge Landolfo è certamente economico ed egli perciò s’iscrive a quella categoria di mercanti verso cui Boccaccio mostra un’innata simpatia. Il personaggio, d’altra parte è caratterizzato da due elementi, posti all’inizio e alla fine del racconto, che lo caratterizzano: la ricerca di raddoppiare il denaro (non bastando la sua ricchezza, desiderando di radoppiarla) e l’ottenimento del fine (egli era il doppio più ricco che quando partito s’era). 

Ma l’importanza è che in questo caso più che l’intelligenza poté la fortuna e quest’ultima viene metaforizzata attraverso il mare: Landolfo, infatti, non è un buon mercante, in quanto la situazione iniziale di una concorrenza spietata poteva essere prevista. Ma a determinare le sue azioni non è la sua preveggenza quanto la fortuna; essa infatti può modificare una situazione (in questo caso una tempesta, i pirati genovesi) e ciò che Landolfo impara è rinunciare all’azione, cioè mettersi al riparo dell’imprevedibilità del caso.  

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Ninetto Davoli nella parte di Andreuccio nel Decameron di Pasolini (1971)

ANDREUCCIO DA PERUGIA, VENUTO A NAPOLI A COMPERAR CAVALLI, IN UNA NOTTE DA TRE GRAVI ACCIDENTI SOPRAPRESO, DA TUTTI SCAMPATO CON UN RUBINO SI TORNA A CASA SUA.
(II, 5)

Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre.
Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse: «Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri».
Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in casa sua».
Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: «Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso».
Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua donna chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a aspettarlo.
Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse: «O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!»
Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: «Madonna, voi siate la ben trovata!»
Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare, con lui nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva, là dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là , e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran donna.
E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m’ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l’amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l’amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de’ fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò, che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d’una fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è?  Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare: la cosa andò pur così. Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo. Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua , fratel mio dolce, ti veggio».
E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.
Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra’ denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?»
Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei».
Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava.
Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse: «Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d’onore».
Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania. Ed ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a’tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata».
Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l’era, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fè vista di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe , per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d’esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un’altra camera se n’andò.
Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una.

maxresdefault.jpgProgetto di un libro con le più importanti novelle di Boccaccio illustrato per ragazzi, in via di realizzazione.

Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde.
Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire: «Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!»
E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio e a gridare; e tanto fece così che molti de’circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente disse: «Chi picchia là giù?»
«Oh!» disse Andreuccio «o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso».
Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace».
«Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier con Dio».
Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, e’ mi par che tu sogni», e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a percuotere la porta. La qual cosa molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: «Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte».
Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?»
Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della donna di là entro».
Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse: «Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona»; e tornatosi dentro serrò la finestra.
Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio dissono: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore».
Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’ conforti di coloro li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza sa per dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire»; e questo detto alzata alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d’Andreuccio, e stupefatti domandar: «Chi è là?»
Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: «Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo».
E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola». E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: «Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai».
Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch’era presto.
Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l’uno: «Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente?» Disse l’altro: «Sì , noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente». Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato levato: per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.
Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s’incominciò a maravigliare. 
Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove. Così andando si venne scontrato in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che su l’avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e furono all’arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo.
E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà dentro?»
A cui l’altro rispose: «Non io».
«Nè io» disse colui «ma entrivi Andreuccio».
«Questo non farò io» disse Andreuccio.
Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: «Come non v’enterrai? In fè di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto».
Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v’avea. Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne ad aspettare. Costoro che d’altra parte eran sì come lui maliziosi, dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare.
Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato. E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co’suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse: «Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v’entrerò dentro io». E così detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare.
Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fè sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.
La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all’avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de’fatti suoi. A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.

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Miniatura recante immagini riguardanti la novella di Andreuccio

Mi è stato raccontato che a Perugia visse un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli che, avendo sentito che a Napoli si teneva un grande mercato di cavalli, si mise in borsa ben cinquecento fiorini d’oro e, pur non essendo mai uscito fuori di casa, vi andò insieme ad altri mercanti. Giunto là la domenica sera, informato dall’oste (dell’albergo), il giorno seguente si trovò al mercato; vide molti cavalli e molti gli piacquero e fece trattative su molti di essi, ma non si accordò con nessuno e, volendo mostrare che lui era lì per comperare, essendo inesperto ed incauto, spesse volte in presenza di chi andava e di chi veniva, faceva vedere questa borsa piena di fiorini.
E mentre faceva trattative, avendo più volte mostrato la borsa con dentro il denaro, accadde che una bellissima donna siciliana, ma disposta per poco prezzo a compiacere qualsiasi uomo, senza che Andreuccio la vedesse, passò vicino a lui vedendo la borsa con il denaro dentro e immediatamente disse fra sé: «Chi starebbe meglio di me se quei denari fossero i miei?» e andò oltre. Era con questa ragazza una vecchia, anche lei siciliana che appena vide Andreuccio lasciò che la ragazza andasse avanti  e corse affettuosamente ad abbracciarlo: la giovane si accorse della situazione ma non disse niente e si mise ad aspettare. Andreuccio rivoltosi dapprima alla vecchia, ricambiò l’abbraccio e si mostrò molto contento (di averla rincontrata); lei gli promise che sarebbe andata all’albergo a salutarlo e se ne andò; Andreuccio continuò a trattare, ma quel giorno non comperò nulla. La giovane, che dapprima aveva visto la borsa e poi la familiarità della sua vecchia nei confronti di lui, per capire come fare ad entrar in possesso dei denari o tutti o solo una parte di essi, con accortezza cominciò a domandare chi fosse, da dove venisse e cosa fosse venuto a fare qui e come mai lo conoscesse. La donna anziana riferì particolarmente i fatti d’Andreuccio, come glieli avrebbe riferiti lui stesso, essendo lei stata per un lungo periodo in Sicilia col padre di lui e poi nella stessa Perugia.  Inoltre gli disse in quale albergo dimorava ed il motivo per cui fosse a Napoli.
La giovane, pienamente informata sul parentado e sui nomi di Andreuccio, per soddisfare il suo desiderio (di denaro) con un inganno sottile, fondò il suo piano sulle informazioni ricevute: tornata a casa mandò la vecchia a sbrigare faccende che la tenessero lontana affinché non potesse tornare da lui e presa una servetta, abituata a prestare di questi servizi alla padrona, verso sera la mandò all’albergo dove Andreuccio aveva preso alloggio.
Costei, giunta all’albergo, per caso trovò lui solo sulla porta e gli chiese di Andreuccio. Rispondendo che era lui stesso, tiratolo da parte, le disse: «Signore, una gentil donna di questa terra, quando riterrete più opportuno, vi parlerebbe volentieri». Il quale, pur di vederla, considerando se stesso e ritenendo di essere un bel giovane, pensò che la donna si fosse innamorata di lui, come se non ci fosse altro bel giovane allora a Napoli al di fuori di lui, e subito rispose che era pronto e domandò dove e quando questa donna avesse intenzione di parlargli.
Al che la fanciulla rispose: «Signore, quando siete in grado di venire, ella v’aspetta casa sua».
Andreuccio subito, senza dir nulla all’oste dell’albergo, disse: «Dai, vai avanti che ti seguo».
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  Alberto Criscione: Andreuccio di Perugia (2014)

Quindi la fanticella la condusse a casa della donna, che dimorava in un luogo chiamato Malpertugio (luogo realmente esistente nella Napoli di allora, piuttosto malfamato, il cui nome deriva da buco – pertugio – nel muro della città che lo metteva in comunicazione direttamente con il porto) il cui nome stesso rivela quanto sia un poco onesto quartiere. Ma Andreuccio stesso, non sapendolo né sospettandolo, credendo d’andare in un luogo distinto e da una gentile e cara donna, ingenuamente, preceduto dalla fanciulla, entrò a casa della donna e salendo le scale, avendo la servetta chiamata già la padrona, annunciandole: «Ecco Andreuccio», egli la vide sulla cima della scala ad aspettarlo.
Lei era ancora molto giovane, alta e con un viso bellissimo, vestita e ornata onorevolmente e come Andreuccio le fu vicino, scese tre gradini con le braccia aperte e si avvinghiò al suo collo senza dire parola, come se fosse bloccata da eccessiva tenerezza, poi, lacrimando gli baciò la fronte e con voce alquanto tremante disse: «Oh Andreuccio, tu sei il benvenuto».
Egli, meravigliandosi di così tanta tenerezza, completamente stupefatto, rispose: «Signora, voi siete la ben trovata!»
Dopo lei lo prese per mano e lo condisse nella sala e continuando a non parlare, attraverso essa lo fece entrare nella sua camera che profumava di rose, fiori d’arancio e altro e là vide un bellissimo letto chiuso da cortine e molti abiti appesi alle pertiche, secondo l’abitudine di quei luoghi, e altre belle e ricche suppellettili per cui, inesperto com’era, sicuramente credette che lei fosse perlomeno una gran donna.
Si misero a sedere insieme su una cassapanca che era posta ai piedi del letto, e lei così cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono sicura che tu ti sia meravigliato sia delle carezze che delle lacrime, dal momento che tu non mi conosci e forse non hai mai sentito parlare di me. Ma sentirai ben presto qualcosa che ti farà sicuramente meravigliare e cioè che io sono tua sorella; e ti dico che, dal momento che Dio mi ha fatto una così grande grazia che io, prima di morire, abbia conosciuto un mio fratello, sebbene io voglia vedervi tutti, quando arriverà la mia ora non potrò che morire consolata. E se tu di questo fatto non ne sai niente, te lo dirò io. Pietro, mio padre e tuo, come credo che tu abbia potuto sapere, stette per molti anni a Palermo e, per la sua benevolenza ed amabilità, ci fu, ed ancora vi è fra loro, chi lo apprezzò. Ma tra gli altri che molto lo apprezzarono mia madre, che era nobildonna e allora era vedova, fu quella che l’amò, tanto che, abbandonata la paura del padre, dei fratelli ed il suo onore, familiarizzò tanto con lui, così che nacqui io e sono diventata come tu vedi. Poi, sopraggiunto un motivo per cui Pietro dovette abbandonare la Sicilia, mi lasciò bambina con mia madre, né mai, per quanto io ne abbia saputo, si ricordò né di me né di lei: per cui io, se non fosse stato mio padre, lo rimprovererei duramente riguardo la sua ingratitudine verso mia madre (lasciamo stare l’amore che avrebbe dovuto mostrarmi, non essendo nata né da una fante né da una qualunque villana) la quale, spinta da un amore fortissimo, aveva messo se stessa e le proprie cose nelle sue mani, senza sapere altrimenti chi egli fosse. Ma che serve lamentarsi? Le cose mal fatte nel passato è tanto più semplice biasimarle che correggerle, quindi le cose avvennero in questo modo. Egli mi lasciò piccola a Palermo dove, cresciuta come mi vedi adesso, mia madre mi diede in moglie ad uno di Agrigento, nobile uomo e pieno di virtù che, per amor di mia madre si trasferì a Palermo; e qui, essendo egli un guelfo convinto, cominciò a tenere trattative segrete con Carlo (Angioino). La cosa, giunta all’orecchio di Federigo II d’Aragona (re di di Sicilia dal 1302 al 1337) prima che potesse essere messa in atto, fu il motivo che ci spinse ad abbandonare la Sicilia, proprio nel momento in cui io avrei potuto diventare la più gran dama, moglie di un cavaliere del regno, dell’isola; quindi, prese poche cose fra quelle che poterono esser prese, rispetto alle molte che laggiù possedevamo, lasciate le terre ed i palazzi, ci rifugiammo in questa terra, dove trovammo il re Carlo così riconoscente nei nostri confronti che, una volta che ci ebbe risarcito in parte delle perdite subite a causa sua, ha dato e continua a dare a mio marito, tuo cognato, case e terre ed un buon stipendio, come puoi vedere. E per questo sono qui, fratello mio dolce, dove io, grazie a Dio e non a causa tua, ti vedo (per la prima volta)».
E dopo aver detto questo, di nuovo l’abbracciò e ancora lacrimando gli baciò la fronte teneramente.
Andreuccio, sentendo questa favola raccontata in modo così acconcio e composto da lei che in nessuna parola aveva mostrato qualche incertezza o balbettato qualcosa e ricordando che il padre in gioventù era stato a Palermo, sapendo per esperienza personale che i giovani volentieri si lasciano andare all’amore, vedendo inoltre le lacrime, gli abbracci e i casti baci di lei, considerò che le cose che la donna diceva fossero più che vere e dopo che lei tacque disse: «Signora, non vi dovete sorprendere se io mi meraviglio, perché in verità, o perché mio padre, per qualunque motivo lo facesse, non parlava mai di vostra madre o di voi, o perché, se egli ne parlò, io non sia venuto a saperlo, io non avevo nessuna conoscenza di voi, come se non esisteste e mi è molto più caro l’aver trovata mia sorella qui, in quanto sono solo e tanto meno avrei sperato questo. In verità io non conosco uomo di così alto stato sociale al quale voi non dovreste esser così gradita e meno che a me che sono un piccolo mercante. Ma vi prego ditemi: come avete saputo che io ero qui?»
A lui lei rispose: «Questa mattina me lo fece sapere una povera donna che s’intrattiene con me, che stette con nostro padre, così mi ha detto, per molto tempo a Palermo e a Perugia, e se non fosse stata cosa più che onesta che tu venissi nella tua casa (in quanto mio fratello questa ti appartiene) che io venissi in un albergo, da molto tempo sarei venuta da te».
Dopo queste parole la donna cominciò dettagliatamente a domandare dei parenti, chiamandoli per nome, a cui Andreuccio rispose, sempre più confermandosi di ciò che di meno avrebbe dovuto confermarsi.
Avendo parlato a lungo e facendo molto caldo, la donna fece portare vino bianco e dolcetti e diede da bere ad Andreuccio; costui, dopo questo voleva andar via, perché era giunta l’ora di cena, ma lei in nessun modo accettò, anzi facendo finta di turbarsi, abbracciandolo disse: « Povera me, che ora capisco come poco ti sia cara! Come si può pensare che tu sia qui, con tua sorella che non hai mai visto, e in casa sua, dove, venendo qui, avresti dovuto fermarti, e tu voglia uscire per andare a cena all’albergo?» Tu cenerai con me e, sebbene mio marito non ci sia e di ciò mi dispiace molto, io saprò farti un poco d’onore, secondo quanto può fare una donna».
Alla quale Andreuccio, non sapendo cosa rispondere, disse: «Io vi ho cara, come dev’essere cara una sorella, me se non vado sarò aspettato tutta la sera per cena e farei un atto da villano».
E lei: «Lodato sia Dio se io non ho qualcuno da mandare a dire di non aspettarti! Sebbene tu facessi maggiore cortesia, nonché rispetto degli impegni, a dire ai tuoi compagni che venissero a cena qui e poi, se volessi andar via, ve ne potreste andare tutti insieme in compagnia».
Andreuccio rispose che non voleva compagni quella sera, ma poiché le era gradito, poteva disporre di lui come voleva. Lei fece finta di mandare qualcuno ad avvertire l’oste dell’albergo di non aspettare Andreuccio e poi, dopo aver parlato molto, si misero a cena e furono serviti splendidamente con più vivande; lei in modo astuto condusse il pasto fino a notte inoltrata ed essendosi alzati da tavola e volendo Andreuccio andar via, ella disse che non l’avrebbe sopportato, visto che Napoli non era una città da andare in giro di notte, soprattutto per un forestiere; e così come aveva fatto per la cena, l’oste era stato avvertito anche per il dormire. Lui credendo a ciò e facendogli piacere rimanere con lei, ingannato da una falsa verità, rimase. Ci furono molti e lunghi discorsi, condotti da lei non senza una ragione, ed essendo già passata parte della notte, lei, lasciato Andreuccio a dormire in compagnia di un bambino che lo servisse in caso di necessità, andò in un’altra camera in compagnia delle sue ancelle. 
Faceva molto caldo, per cui Andreuccio si tolse subito il giubbetto e le brache, le mutande e le calze e posò tutto al capo del letto; poiché la naturale esigenza gli chiedeva di svuotare il peso del ventre, domandò al fanciullo dove fosse il luogo adibito a ciò, che gli fece vedere una porticina in un angolo della camera, dicendogli: «Andate là». Andreuccio, entrato senza sospetto, per caso posò il piede sopra un asse, la cui parte opposta era stata schiodata, per cui capovolgendosi, la tavola stessa con lui caddero in basso; e Dio lo amò talmente tanto che nel cadere non si fece male, ma s’imbrattò di escrementi, di cui il luogo era pieno. Questo luogo, affinché capiate ciò che ho detto e che dirò, vi mostrerò in che modo era. Quel luogo si trovava in uno stretto vicoletto, come spesso vediamo tra due case: c’erano alcune tavole confitte sopra due travicelli posti tra l’una e l’altra casa, sopra le quali tavole era posta la seduta; una di queste tavole era quella che cadde insieme a lui.
Andreuccio, ritrovandosi nel vicolo (che raccoglieva gli escrementi), sofferente per l’accaduto, cominciò a chiamare il bambino; ma il bambino, appena l’ebbe sentito cadere, corse a dirlo alla donna. Quest’ultima corse nella sua camera e velocemente cercò dove fossero i suoi vestiti e trovati e con essi i soldi, che lui pazzamente portava sempre addosso, ciò per cui gli aveva teso la trappola, fingendosi sorella palermitana di un perugino, non interessandosi più a lui, chiuse prontamente la porta da cui era entrato per cader giù.
Andreuccio, visto che il fanciullo non rispondeva, cominciò a chiamarlo più forte, ma non servì a niente. per cui lui, che già cominciava a sospettare e cominciando a capire l’inganno, salito su un muricciolo che divideva il vicoletto dalla strada, si mise in via e andò verso l’uscio della casa della donna che sapeva già riconoscere, e qui inutilmente lungamente chiamò, scosse e colpì la porta. Piangendo per la situazione, che ormai aveva già capito, cominciò a dire: «Povero me, come in breve tempo ho perduto cinquecento fiorini e una sorella!»
E dopo molti altri lamenti, di nuovo ricominciò a battere l’uscio e a chiamare, tanto che molti vicini svegliati, non sopportando più il chiasso, si alzarono e una delle serve della donna, in apparenza insonnolita, affacciatasi alla finestra con tono di rimprovero disse: «Chi picchia laggiù?»
«Oh», disse Andreuccio «non mi riconosci? Sono Andreuccio, fratello della signora Fiordaliso».
A lui rispose: «Buon uomo, se hai bevuto troppo, va a dormire e torna domani mattina; io non so chi sia Andreuccio né le frottole che tu dici; va alla buonora e, per favore, lasciaci dormire»
«Come», rispose Andreuccio «non sai che dico? Certo che lo sai; ma se sono così fatti i parenti siciliani, che in così poco tempo si dimenticano, restituiscimi perlomeno i vestiti, che ho lasciato dentro, e, con la volontà di Dio, me ne andrò.»
Al quale la donna, quasi ridendo, rispose: «Buon uomo, mi sembra che tu stia sognando» e dire questo, tornare dentro e chiudere la finestra, fu un tutt’uno.
Allora Andreuccio, già convinto dell’inganno, per il dolore si vide quasi a tramutare la sua ira in rabbia e con violenza propose di rivolere quello che non era riuscito ad ottenere con parole; per cui di nuovo, presa una grande pietra, con colpi più forti di prima ferocemente ricominciò a picchiare la porta. Per questo, molti dei vicini svegliatisi ed alzatisi, pensando essere lui un “delinquente” che dicesse bugie per disturbare la “buona donna”, infastiditi dal chiasso che egli stava facendo, affacciandosi alle finestre, non diversamente che un cane non della zona fosse circondato da un branco inferocito, cominciarono a dire: «E’ da gran maleducati venire a quest’ora a casa delle buone donne e dire queste fandonie. Dunque, va con Dio, lasciaci dormire, per favore; e se tu hai qualcosa da risolvere con lei, non ci dare questa seccatura stanotte».
Da queste parole, rassicurato forse uno che era dentro casa, protettore della buona donna, che Andreuccio non aveva visto né sentito, s’affacciò alla finestra e disse con voce grossa, terribile e minacciosa: «Chi è laggiù?»
Andreuccio, sollevata la testa nell’udire quella voce, vide uno il quale, per quel poco che poté capire, aveva l’aspetto di una persona importante, con una barba nera e folta che gl’incorniciava il volto, e come se si fosse appena svegliato da un grande sonno e alzato dal letto, sbadigliava e e si stropicciava gli occhi, a cui egli, anche con un po’ di paura, rispose: «Io sono un fratello della donna là dentro».
Ma l’uomo non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi, più burbero di prima, disse: «Io non so chi mi trattiene dallo scendere giù e darti tante bastonate finché continui a muoverti, asino fastidioso e ubriaco che non sei altro, che questa notte non permetterai a nessuno di dormire», e tornato dentro chiuse la finestra.
Alcuni dei vicini, che sapevano chi fosse e cosa abitualmente facesse, sottovoce si rivolsero ad Andreuccio e dissero: «Per Dio, buon uomo, va con Dio, non voler essere ammazzato qui, vattene per il tuo bene».
Per questo Andreuccio, spaventato dalla voce e dall’aspetto di quell’uomo e sospinto da coloro che sembravano aver avuto compassione di lui, pieno di dolori come nessuno e disperato per (aver perduto) tutti i soldi, verso quella parte dove il mattino aveva seguito la fanciulla, senza sapere dove andare, cercò la via dell’albergo. Ma vergognandosi per il puzzo che emanava, desideroso di andare verso il mare per lavarsi, girò verso sinistra e si ritrovò per una via chiamata Ruga Catalana. E camminando verso la parte alta della città, per caso si vide davanti due persone con una lanterna in mano che procedevano verso la sua direzione e temendo che fossero guardiani di corte o delinquenti disposti a far del male, per evitarli, si rifugiò senza far rumore in un casolare disabitato, che vide essere vicino. Ma quelli, come se avessero come meta lo stesso casolare vi entrarono e qui, uno di loro, scaricati certi strumenti di ferro che aveva appesi sul collo, con l’altro cominciarono a studiarli, parlando fra loro sul loro utilizzo.
Mentre parlavano, uno disse: «Ma che è? Io sento la peggior puzza che abbia mai sentito in vita mia» e detto questo, alzata la lanterna, videro il malcapitato Andreuccio e, meravigliati domandarono «Chi è là?»
Andreuccio non rispondeva, ma loro domandarono che cosa facesse lì così pieno di merda e allora Andreuccio raccontò tutto ciò che gli era capitato. Costoro, immaginando dove ciò potesse essere avvenuto, dissero tra loro: «Senz’altro questo dev’essere accaduto a casa del delinquente Buttafuoco».
Rivolgendosi a lui, uno di loro disse: «Buon uomo, benché tu abbia perduto i denari, devi lodare Dio che sei caduto dalla latrina e non sei rientrato in casa, perché se non fossi caduto, stai sicuro che appena ti fossi addormentato saresti stato ammazzato e avresti perso sia i denari che la vita. Ma che serve ora piangere? Tu così potresti avere un denaio (dodicesima parte di un fiorino) come tutte le stelle del cielo: sicuramente verrai ucciso, se parlerai con qualcuno di ciò che ti è accaduto».
Detto questo, parlando tra loro, gli dissero: «Vedi, ci è venuta la compassione per la tua situazione: e per ciò, quando tu voglia venire con noi per fare una cosa che stiamo andando a fare, siamo sicuri che in parte ti spetterà un valore (guadagno) maggiore di quanto hai perduto».
Andreuccio, vedendosi disperato, accettò.
Quel giorno si era celebrato il funerale dell’arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, ed era stato seppellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino nel dito, il quale valeva oltre cinquecento fiorini d’oro, che costoro volevano andare a rubare; e questo comunicarono ad Andreuccio.
Per questo Andreuccio, più avido che prudente, si mise in cammino con loro; andando verso la Chiesa Maggiore e poiché Andreuccio puzzava intensamente, disse uno dei due ladri: «Non potremmo noi fare in modo che costui si lavasse un po’ in un posto qualsiasi, affinché non puzzi così fortemente?»
Disse l’altro: «Sì, noi siamo qui vicino ad un pozzo che da sempre ha la carrucola ed un secchio; andiamo là e lo laveremo velocemente»
Giunti a questo pozzo videro che la fune c’era, ma il secchio era stato tolto, per cui pensarono di legarlo alla fune e di calarlo nel pozzo; una volta sceso, lui laggiù si lavasse, dopo scrollasse la fune e lo avrebbero riportato su; e così fecero. 
Ma successe che, avendo calato Andreuccio, alcune guardie della Signoria che per il caldo o perché avevano inseguito qualcuno, avendo sete, s’avvicinarono a quel pozzo e come quei due li videro subito cominciarono a correre, poiché i gendarmi che qui venivano a bere non li avevano visti. Quest’ultimi, assetati, posero in terra gli scudi di legno, le armi e la sopravveste e cominciarono a tirare la fune credendo che alla fine di essa vi fosse il secchio pieno d’acqua. Non appena Andreuccio si vide vicino all’orlo del pozzo, si avvinghiò con le mani ad esso: i guardiani, vedendo ciò, presi da immediata paura, senza dire altro lasciarono la fune e cominciarono a fuggire: cosa di cui Andreuccio si meravigliò tantissimo.
Ma avendo paura e non sapendo cosa fare, lamentandosi della sua sorte, senza toccar nulla scelse di allontanarsi e andava senza sapere dove; così camminando gli capitò d’imbattersi in quei due compagni di prima, che lo stavano raggiungendo per liberarlo dal pozzo e come lo videro, con grande stupore, gli chiesero chi l’avesse tratto su dal pozzo. Andreuccio rispose che non lo sapeva e raccontò loro ordinatamente cosa era successo e cosa aveva visto fuori del pozzo. Della qual cosa costoro, avendo capito cos’era accaduto, glielo dissero e ridendo aggiunsero perché erano fuggiti e chi erano stati a tirarlo fuori. Senza dire più niente, perché era sopraggiunta la mezzanotte, andarono nella chiesa maggiore, entrarono facilmente e si avvicinarono al sepolcro, che era di marmo e molto grande; sollevarono con il ferro il coperchio, che era pesantissimo, quel tanto che un uomo ci potesse passare e misero un puntello.
Fatto questo uno dei due disse: «Chi entrerà là dentro?»
A cui l’altro rispose: «Non io».
«Nemmeno io», disse il primo, «ma vi entra Andreuccio»
«Questo non lo faccio» disse Andreuccio.
Verso di lui si rivolsero entrambi e dissero: «Come non vi entrerai? In verità se tu non entri, noi ti daremo tanti colpi in testa con questi pali di ferro che ti uccideremo».
Andreuccio per paura vi entrò e, mentre entrava, tra sé pensò: «Questi mi fanno entrare per ingannarmi, perciò, come io avrò dato loro ogni cosa, mentre faticherò per uscir dall’arca, se ne andranno per fatti loro ed io rimarrò senza niente» E perciò pensò per prima cosa di tenersi la parte propria e, ricordandosi del prezioso anello di cui avevano parlato, come fu nel sepolcro, lo tolse dal dito dell’arcivescovo e se lo mise addosso; e poi, dato il pastorale, la mitra e i guanti e spogliatolo fino a lasciarlo in camicia, diede tutto a loro, dicendo che non vi era più niente. Questi affermando che doveva esserci l’anello, gli intimarono di cercarlo dappertutto: ma lui, dicendo di non trovarlo e fingendo di cercare, li lasciò a lungo ad aspettare. Quei due, che erano maliziosi così come era diventato Andreuccio, dicendogli di continuare a cercare, al momento opportuno tolsero il puntello, che sosteneva l’apertura del sepolcro, e fuggendo lasciarono Andreuccio lì dentro. Ciascuno può immaginare come stesse. 
Egli tentò più volte sia con la testa che con le spalle di sollevare il coperchio, ma i suoi tentativi erano vani; allora vinto da un gran dolore, cadde svenuto sopra il corpo dell’arcivescovo e chi allora li avesse visti, difficilmente avrebbe riconosciuto chi dei due era più morto, o lui o l’arcivescovo. Ma quando tornò in sé cominciò, cominciò a piangere in modo dirotto, vedendo se stesso giungere a due esiti finali: o morire di fame e ricoperto di vermi del corpo dell’arcivescovo in putrefazione in quell’arca, non venendo più nessuno ad aprirla, oppure, venendo qualcuno e trovando lui dentro, essere impiccato come ladro.
E mentre era molto addolorato, pensando tali cose, sentì gente camminare per la chiesa e parlare molte persone che, da come gli era sembrato di capire, andavano a fare ciò che lui, con i due compagni aveva fatto: per questo la sua paura aumentò. Ma dopo che costoro ebbero aperta l’arca e puntellata, incominciarono a discutere su chi dovesse entrare e nessuno lo voleva fare. Finalmente dopo una lunga discussione un prete disse: «Che paura avete? Credete che vi mangi? I morti non mangiano gli uomini. Entrerò io» E così detto, messo il petto sopra l’arca, volse la testa verso l’esterno e mandò all’interno le gambe per doversi calare giù. Andreuccio, vedendo questo, sollevatosi in piedi prese il prete per una delle gambe e cominciò a tirarlo. Il prete, sentendo ciò, emise un grandissimo urlo, e si gettò fuori; vedendo questo tutti gli altri  spaventati cominciarono a fuggire come se fossero inseguiti dai diavoli, lasciando l’arca aperta.
La qual cosa vedendo Andreuccio, felice oltre ciò che sperava, subito si gettò verso l’esterno  e, ripassando su quella strada attraverso cui era giunto in chiesa, ed essendo vicini all’alba, andato a caso con quell’anello al dito, giunse alla Marina e da lì giunse al suo albergo dove ritrovò i suoi compagni e l’albergatore tutti in ansia per lui. A loro raccontò ciò che gli era capitato e sembrò opportuno all’oste farlo partire immediatamente da Napoli; osa che lui fece subito e tornò a Perugia, avendo il suo denaro investito in un anello, quando era andato a comprare un cavallo.   

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Illustrazione della novella di Boccaccio

La novella di Andreuccio, come quella di Landolfo, tratta di fortuna, per meglio dire delle disavventure che possono capitare e di come, da esse, si possa uscire. Se in Landolfo il motore della fortuna è il mare, in Andreuccio è la città.

Se queste possono essere le similarità, di più sono le differenze che contraddistinguono le due narrazioni. In primo luogo il racconto di Andreuccio si struttura come un bildungsroman (romanzo di formazione) in quanto la vicenda del protagonista disegna un percorso in cui il giovane mercante “rozzo e poco cauto” arriva , non senza atteggiamenti di ribalderia e furbizia a possedere un anello di più alto valore del denaro perso. Tale acquisizione di consapevolezza viene da Boccaccio strutturato attraverso un percorso oppositivo che vede contrapposti l’alto ed il basso, il dentro e il fuori. Andreuccio dapprima viene accolto in casa (dentro: sicurezza) quindi cade nel pozzetto (basso/fuori). Le due opposizioni vogliono indicare lo stato di pericolo da cui riemerge con un grado di conoscenza superiore. Allo stesso modo la seconda opposizione: strada (alto: sicurezza) pozzo, (caduta, situazione di pericolo) ed anche la terza (arca: dentro) esterno e fuga (fuori: scioglimento).

Il tutto viene raccontato con una capacità realistica che ha dello straordinario, mostrando una Napoli labirintica che offre possibilità di “fortuna” come il mare. Il Boccaccio ottiene questo effetto grazie alla conoscenza di luoghi (Malpertugio, Ruga Catalana, Marina) e persone (Buttafuoco e Fiordaliso) che sono effettivamente reali e, come ci dicono i documenti dell’epoca, esistenti. In mezzo a tale realtà l’autore inserisce la casualità (“per ventura” ricorre piuttosto spesso nel racconto) che solo una città caotica come quella della città campana poteva offrire. Per questo possiamo concludere con la definizione di Mario Baratto che afferma come Boccaccio riesca a cogliere “il meraviglioso della realtà, il miracolo quotidiano” proponendosi come “il primo grande scrittore nel Medioevo, che abbia colto la natura avventurosa della città, il potenziale narrativo che essa contiene”.   

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Celedonio Perellon: Illustrazione per l’edizione spagnola del Decameron (2009)

TERZA GIORNATA

La terza giornata è posta sotto la reggenza di Neifile in cui si racconta di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.

La prima novella della giornata è narrata da Filostrato, il quale vuol dimostrare come le religiose sono donne e quindi, come tali, naturalmente portate al piacere e allo stesso tempo come un uomo, pur di condizione umile e bassa, può raggiungere il piacere (sessuale) usando un po’ di furbizia ed intelligenza:

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Manoscritto risalente al XIV che riproduce la novella di Masetto

MASETTO DA LAMPORECCHIO SI FA MUTOLO E DIVIENE ORTOLANO DI UNO MONISTERO DI DONNE, LE QUALI TUTTE CONCORRONO A GIACERSI CON LUI.
(III,1)

In queste nostre contrade fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua), nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d’un loro bellissimo giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond’egli era, se ne tornò. Quivi, tra gli altri che lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero servisse.
A cui Nuto rispose: «Io lavorava un loro giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. E, oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch’elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand’io lavorava alcuna volta l’orto, l’una diceva: “Pon qui questo”; e l’altra: “Pon qui quello”; e l’altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: “Questo non sta bene”; e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami dell’orto; sì che, tra per l’una cosa e per l’altra, io non vi volli star più e sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se io n’avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno.
A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell’animo un disidero sì grande d’esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava. E avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse: «Deh come ben facesti a venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse».
Ma poi, partito il lor ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose divisate seco, imaginò: «Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista d’esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto».
E in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad alcuno dove s’andasse, in guisa d’un povero uomo se n’andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l’amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne. Il castaldo gli diè da mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d’ora ebbe tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d’andare al bosco, il menò seco, e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l’asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse. Costui il fece molto bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il castaldo chi egli fosse.
Il quale le disse: «Madonna, questi è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c’erano. Se egli sapesse lavorar l’orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n’avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l’uom fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d’aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani.»
A cui la badessa disse: «In fè di Dio tu di’il vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare».
Il castaldo disse di farlo. Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e seco lieto diceva: «Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l’orto che mai non vi fu così lavorato».
Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl’impose che egli l’orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui lasciò. Il quale lavorando l’un dì appresso l’altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de’mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.
Or pure avvenne che costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che per lo giardino andavano, s’appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l’una, che alquanto era più baldanzosa, disse all’altra: «Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare».
L’altra rispose: «Di’ sicuramente, ché per certo io nol dirò mai a persona».
Allora la baldanzosa incominciò: «Io non so se tu t’hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo ch’è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l’uomo. Per che io m’ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è. Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui; ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi ch’egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri udirei quello che a te ne pare».
«Ohimè!» disse l’altra, «che è quello che tu di’? Non sai tu che noi abbiam promesso la virginità nostra a Dio?»
«Oh», disse colei, «quante cose gli si promettono tutto ‘l dì, che non se ne gli attiene niuna! Se noi gliele abbiam promessa, truovisi un’altra o dell’altre che gliele attengano».
A cui la compagna disse: «O se noi ingravidassimo, come andrebbe il fatto?»
Quella allora disse: «Tu cominci ad aver pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo».
Costei, udendo ciò, avendo già maggior voglia che l’altra di provare che bestia fosse l’uomo, disse: «Or bene, come faremo?»
A cui colei rispose: «Tu vedi ch’egli è in su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam per l’orto se persona ci è, e s’egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge l’acqua; e quivi l’una si stea dentro con lui e l’altra faccia la guardia? Egli è sì sciocco, che egli s’acconcerà comunque noi vorremo».

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Vincenzo Amato nella parte di Masetto nel Decameron di Pier Paolo Pasolini (1971)

Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l’esser preso dall’una di loro. Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fece che ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto quel che volea, diede all’altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s’andavano a trastullare.
Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici divennero del podere di Masetto. Alle quali l’altre tre per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi. Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s’accorgea, andando un dì tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì, per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l’ombra d’un mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto. La qual cosa riguardando la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l’ortolano non venia a lavorar l’orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual essa prima all’altre solea biasimare.
Ultimamente della sua camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante, s’avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare. E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire: «Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo».
La donna udendo costui parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse: «Che è questo? Io credeva che tu fossi mutolo».
«Madonna», disse Masetto «io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere restituita, di che io lodo Iddio quant’io posso».

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Un’altro fotogramma tratto dal Decameron di Pasolini (1971)

La donna sel credette, e domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le disse il fatto. Il che la badessa udendo, s’accorse che monaca non avea che molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato. Ed essendo di que’ dì morto il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo, la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali, come che esso assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier gli fece venir fatto.
Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s’era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra ‘l cappello.

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Rockwell Kent: illustrazione per il Decameron (1934)

In queste nostre terre ci fu e c’è ancora un monastero femminile molto famoso per santità (che non nominerò per non intaccare la sua fama di santità), nel quale, non molto tempo fa, essendoci solo otto monache ed una badessa, tutte di età giovanile, vi lavorava un bravo ometto, ortolano in un loro bellissimo giardino che, non contentandosi più dello stipendio, fatti i conti con il fattore delle monache, tornò a Lamporecchio, da dove era partito. Qui tra i molti che l’accolsero, era presente un giovane, sebbene contadino, forte, robusto e bello, che si chiamava Masetto. Lui gli domandò dove fosse stato tutti quegli anni e il buon uomo, che si chiamava Nuto, glielo disse; Masetto gli chiese anche quali fossero i servizi che nel monastero prestava. Nuto gli rispose: «Coltivavo un loro giardino, bello e grande; talvolta andavo a far legna nel bosco; prendevo l’acqua e mi dedicavo anche ad altri lavoretti; ma le monache mi pagavano così poco da non potermi neanche comprare i calzari. Per di più le monache sono tutte giovani e sembra abbiano il diavolo in corpo, perché non si può fare nulla ce a loro vada bene. Quando io lavoravo l’orto, una diceva: “Metti questi qui”, l’altra “posa quello là”, un’altra mi toglieva la vanga dalle mani e diceva: “non si fa così” e mi davano tante seccature che io preferivo andare via dall’orto col lavoro a metà; così tra una cosa e l’altra, avevo deciso d’andarmene e sono rivenuto. Inoltre mi pregò il loro fattore, quando stavo andando via, se conoscessi qualcuno per sostituirmi e glielo promisi; ma possa Dio preservarmi i reni, se io gli procurerò o gli manderò qualcuno».
A Masetto, che aveva sentito le parole di Nuto, gli venne una voglia matta di stare con le monache che se ne moriva, capendo dalle parole dell’ortolano che gli sarebbe stato possibile ricevere qualcosa di quello che desiderava e, sapendo che non sarebbe riuscito se avesse rivelato il desiderio a Nuto, gli disse: «Dio come hai fatto bene ad andartene! A cosa si riduce un uomo a stare con le donne? Meglio stare con i diavoli: loro non sanno sette volte su sei cosa loro stesse vogliono». 
Finita la loro conversazione, Masetto cominciò a pensare in che modo potesse rimanere con le monache e rendendosi conto che sapeva fare tutto ciò che serviva loro, temeva di non essere accettato perché era troppo giovane e avvenente. Pensate ed esaminate, riguardo a questo, molte cose, disse tra sé: “Il luogo e abbastanza lontano da qui e nessuno mi conosce. Se io faccio finta di essere muto, sono sicuro che mi riceveranno».
Convinto del suo pensiero, con una scure sulla spalle, senza dire niente a nessuno, come un povero uomo andò verso il monastero. Una volta entrato e trovò per caso nel cortile il castaldo verso il quale, facendo i segni come i muti, mostrò per amor di Dio di dargli da mangiare e che lui, se avesse avuto bisogno, gli avrebbe tagliato la legna. Il castaldo diede a lui volentieri da mangiare e gli mise di fronte alcuni ceppi che Nuto non aveva potuto tagliare, che lui, da uomo forte com’era, in breve tempo, spezzò. Quindi lo portò al bosco ed anche lì gli fece far legna: quindi gli mise l’asino davanti e con cenni gli disse di portarla al monastero. Egli fece il suo compito molto bene, per cui il fattore per più giorni gli fece fare dei lavori di cui aveva bisogno: in quei giorni capitò che la badessa lo vide e domandò al fattore chi fosse.
Il fattore rispose: «Signora, costui è un povero uomo muto e sordo, che, qualche giorno fa è venuto per elemosinare (qualcosa da mangiare), che io gli ho dato e gli ho fatto fare molte cose che erano necessarie. Se lui sapesse lavorare l’orto e volesse rimanere, io credo faremo un bell’affare, perché un uomo come lui ci serve, è forte, e si potrebbe fargli fare ciò che lei desidera; inoltre non dovreste preoccuparvi perché non infastidirebbe con parole le giovani monache».
A lui la badessa rispose: «In nome di Dio, tu dici il vero! Fa in modo di sapere se egli sappia lavorare la terra e cerca di trattenerlo: dagli un paio di scarpe, un vecchio cappuccio e soddisfalo, sii affettuoso e nutrilo bene».
Il fattore lo fece. Masetto che non era lontano, ma facendo finta di spazzare il cortile, sentiva tutto e fra sé diceva: «Se voi mi mettete dentro il monastero, lavorerò l’orto così come nessuno prima di me l’ha mai lavorato!»
Il castaldo avendo visto che sapeva lavorare molto bene, gli fece capire a cenni se lui volesse rimanere a cui lui con gesti disse di sì e quindi, avendolo assunto, gli comandò di lavorare l’orto e gli fece vedere ciò che doveva fare. Quindi andò per altri suoi impegni e lo lasciò solo. Masetto lavorava da più giorni e le monache cominciarono ad infastidirlo e a prenderlo in giro, come spesso si fa con i sordomuti, dicendogli le peggiori parole, pensando che lui non le sentisse; e la badessa che pensava che così senza “coda”, come senza parola fosse, di ciò non si dava pensiero.
Un giorno avvenne, avendo Masetto lavorato molto ed essendosi messo a riposare, che due giovani monache che passeggiavano per il giardino, s’avvicinarono dove lui fingeva di dormire e cominciarono a guardarlo; e allora una, che era più spigliata,  disse all’altra: «Se io sapessi che tu sai mantenere un segreto, io ti confesserei un’idea che mi è venuta spesso in testa, che potrebbe essere gradita anche a te».
«Parla con tranquillità, che io non lo dirò a nessuno»
Allora la più sfacciata cominciò a dire: «Io non se ti sei mai accorta su come siamo chiuse in regole rigide, che mai in questo monastero alcun uomo osa entrare se non il fattore, che è vecchio e questo muto. Io sentito dire spesso e a più di una donna che è venuta qui che tutte le altre dolcezze sono uno scherzo rispetto a quella di far l’amore con uomo; per questo mi sono messa in testa, dal momento che non ho altre occasioni, di voler provare con questo muto se questo è vero; e lui è io migliore del mondo per far ciò dal momento che, pur volendolo, non potrebbe ridirlo. Tu vedi che è un tale giovinaccio scemo, che è cresciuto prima lui del suo cervello. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi».
«Ohimé!» disse l’altra «Cosa dici! Non sai che abbiamo promesso la verginità a Dio?»
«Oh», le rispose «quante cose gli si promettono tutto il giorno e non se mantiene nessuna! Se gliela abbiamo promessa, ne troveremo un’altra o delle altre che gli attengono»
E ancora l’altra: «E se rimanessimo incinta, come faremo?»
Le disse: «Tu cominci a preoccuparti del danno prima che avvenga: se dovesse accadere, ci penseremo; ci sarà pure io modo di non farlo sapere, se noi non lo diciamo (a nessuno)».
Quella, sentito ciò e che aveva maggior voglia dell’altra di provare che animale fosse il maschio, disse: «Come faremo?»
Allora rispose: «Tu vedi che è circa la nona (tra le due e le tre del pomeriggio): credo che le suore siano tutte a dormire, eccetto noi; guardiamo se c’è qualcuno nell’orto e se non c’è nessuno che dobbiamo fare se non prenderlo per mano e portarlo a questo capanno, dove si rifugia quando piove, e qui, mentre una sta dentro con lui, l’altra fa da guardia? Egli è talmente scemo, che farà tutto quello che noi vorremo».
Masetto ascoltava tutto quello che dicevano ed era pronto ad obbedirle aspettando che una di loro lo prendesse. Queste, guardando intorno  e considerando che non erano vedibili da alcuno, avvicinandosi quella che aveva parlato per prima a Masetto, lo svegliò e lui, immediatamente, si alzò; e quindi con atti lusinghieri preso per mano, mentre lui rideva in modo scemo, lo condusse nel capanno, dove Masetto senza farsi invitare, fece quello che lei desiderava. Uscita dopo aver fatto ciò che voleva, come compagna leale lasciò il posto all’altra; Masetto, sebbene si mostrasse sempliciotto, esaudiva il loro piacere; per cui, prima di andarsene da lì, più di una volta, vollero riprovare come il muto sapeva cavalcare; in seguito, parlando tra loro, dicevano che era una cosa più bella di come l’avevano sentita e sfruttando il tempo favorevole, col muto andavano a divertirsi.
Capitò un giorno che una loro compagna dalla finestra della sua cella si accorse di questo fatto e lo mostrò ad altre due; e prima ragionarono se dovessero dirlo alla badessa, poi, cambiato parere e messosi d’accordo con le prima, cominciarono a frequentare l’orto di Masetto; ad esse per diverse vicissitudini le altre tre divennero compagne in tempi diversi.
Da ultimo la badessa, che ancora non si era accorta di nulla, andando un giorno tutta sola per il giardino, poiché era molto caldo trovò Masetto, che durante il giorno si stancava anche per un piccolo sforzo, per l’eccessiva attività notturna, steso e addormentato sotto un albero di mandorlo; e avendo il vento spinto all’indietro i panni con cui era coperto, stava completamente scoperto. La donna, vedendolo così, cadde nello stesso appetito nel quale erano cadute le sue monachelle e, svegliato Masetto se lo portò in camera, dove per molti giorni e con grande lamentela delle monache che non vedevano più l’ortolano, lo tenne con sé provando e riprovando il piacere che lei stessa prima condannava alle altre.Rimandandolo ultimamente dalla sua camera a quella di Masetto, rivolendolo spesso e soprattutto non volendolo spartire con le altre, non potendo Masetto soddisfarle tutte, risolse che il suo essere muto, se avesse continuato, si sarebbe potuto tramutare in danno; perciò una notte, essendo con la badessa, cominciando a parlare disse: «Signora, so che un gallo può servire dieci galline, ma che dieci maschi possono soddisfare malamente o con fatica una donna, quando a me tocca soddisfarne nove; perciò non ce la posso fare, anzi sono io, per tutto quello che fino ad adesso ho fatto, arrivato al punto di non poter fare né molto né poco e perciò o mi lasciate andar con Dio o per questa cosa trovate il modo».
La donna, sentendo costui parlare, credendolo muto, si turbò e disse: «Che cosa è questa novità? Pensavo tu fossi muto».
«Signora», rispose Masetto «io ero così non per natura, ma per una malattia che mi tolse la voce, e solamente da questa notte, per la prima volta, sento che sia tornata, della qual cosa lodo il Signore per quanto posso».
La donna gli credette e gli chiese che cosa intendesse dire che lui dovesse servire a nove. Masetto glielo spiegò, il che, la badessa udendo, si rese conto che tutte le sue monache erano più avvedute di lei; per questo, discretamente, senza lasciare che Masetto partisse, decise di trovare un accordo con le monache, affinché il monastero non fosse infamato dallo stesso ortolano. Essendo quei giorni molto il fattore, di comune accordo, girata la voce cosa tutte avevano fatto, con il consenso di Masetto ordinarono che la gente del luogo doveva credere che, per le preghiere da lor fatte al santo cui era intitolato il monastero, a Masetto, per lungo tempo muto, fosse tornata la parola e fecero lui fattore; quindi si divisero le sue fatiche in modo tale che egli le potesse sopportare.  E in queste cose, sebbene grazie a lui venissero al mondo molti monachini, tutto procedette con discrezione che non se ne seppe nulla, se non dopo la morte della badessa, quando ormai Masetto vicino alla vecchiaia, mostrò il desiderio di tornare a casa, che gli fu concesso.
Così infine Masetto vecchio, ricco e padre, senza darsi il pensiero di mantenere figli, avendo saputo passare bene la giovinezza, che lo aveva visto partire con una vanga in spalla, se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli metteva le corna sul cappello. 

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Carlo Romiti: Masetto e le monache (2013) 

La novella presenta come protagonisti un lavoratore della terra e nove monache: ciò che li caratterizza è l’identità del numero tra i protagonisti della novella e i novellatori che la raccontano. Ma vi è una sostanziale differenza che emerge sia nella concezione spaziale che culturale: 

  1. i dieci novellatori appartengono alla classe alta, vivono in un locus amoenus e, in quanto “cortesi” vivono nell’idealità di una purezza non scalfibile;
  2. i dieci protagonisti (nove donne e un uomo) pur vivendo anch’essi in un locus amoenus vengono esclusi da ogni altro sguardo oltre le mure conventuali e vivono una realtà “naturale” in contrasto con l’ideale religioso. 

A questo punto bisogna sottolineare meglio tale concetto: infatti quello che qui si vuol dire è che se i dieci novellatori si aprono al mondo attraverso la parola, qui il mondo è chiuso, introiettato su stesso, attraverso un processo di regressione animale (sesso senza comunicazione) che vede l’istinto prevalere sulla ragione.

Ma non è tutto così: non per niente l’azione parte con la parola e si chiude con la parola: Masetto dapprima ascolta la parola, mette quindi in atto un processo intellettivo di tipo mercantilistico (ricerca di un mezzo per un ottenimento di un bene) e scioglie l’avvenuto ottenimento con la parola stessa. 

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Bottega degli Zavattari: Agilulfo e Teodolinda si incontrano a Lomello (1441-1446)

UN PALLAFRENIER GIACE CON LA MOGLIE D’AGIFUL RE, DI CHE AGIFUL TACITAMENTE S’ACCORGE; TRUOVALO E TONDALO; IL TONDUTO TUTTI GLI ALTRI TONDE, E COSI’ CAMPA DELLA MALA VENTURA.
(III,2)

Agilulf re de’ longobardi, sì come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di Lombardia fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d’Autari re stato similmente de’ longobardi, la quale fu bellissima donna, savia e onesta molto, ma male avventurata in amadore. Ed essendo alquanto per la virtù e per lo senno di questo re Agilulf le cose de’ longobardi prospere e in quiete, avvenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da troppo più che da così vil mestiere, e della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina s’innamorò. E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser fuor d’ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava, né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogn’altro de’ suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che interveniva che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l’amor maggior farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non essendo da alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito di voler questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo amore che alla reina aveva portato e portava; e questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidero. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla reina giacer potesse. Né altro ingegno né via c’era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare.
Per che, acciò che vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra l’altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello e aver dall’una mano un torchietto acceso e dall’altra una bacchetta, e andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l’uscio della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto.
La qual cosa venuta, e similmente vedutolo ritornare, pensò di così dover fare egli altressì; e trovato modo d’avere un mantello simile a quello che al re veduto avea e un torchietto e una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l’odore del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E sentendo che già per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto colla pietra e collo acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n’andò all’uscio della camera e due volte il percosse colla bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se n’entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse cagione di volgere l’avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se n’andò, e come più tosto potè si tornò al letto suo.
Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte; ed essendo egli nel letto entrato e lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse: «O signor mio, questa che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre l’usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate». 
Il re, udendo queste parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n’era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere. Il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: «Io non ci fu’ io, chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne?» Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato.
Risposele adunque il re, più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato: «Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci?»
A cui la donna rispose: «Signor mio, sì; ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute».
Allora il re disse: «Ed egli mi piace di seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne vo’ tornare».
E avendo l’animo già pieno d’ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo mantello, s’uscì della camera e pensò di voler chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire. Preso adunque un picciolissimo lume in una lanternetta, se n’andò in una lunghissima casa che nel suo palagio era sopra le stalle de’ cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso e ‘1 battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente, cominciato dall’uno de’ capi della casa, a tutti cominciò ad andare toccando il petto per sapere se gli battesse.
Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura n’aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò s’avvedesse, senza indugio il facesse morire. E come che varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme, diliberò di far vista di dormire e d’attender quello che il re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse: «Questi è desso». Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l’una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e tornossi alla camera sua. Costui, che tutto ciò sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente s’avvisò per che così segnato era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v’erano alcun paio per la stalla per lo servigio de’ cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l’orecchie tagliò i capelli; e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
Il re levato la mattina, comandò che avanti che le porti del palagio s’aprissono tutta la sua famiglia gli venisse davanti; e così fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui; e veggendo la maggior parte di loro co’ capelli ad un medesimo modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: «Costui, il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno». Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch’egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a tutti rivolto disse: «Chi ‘l fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio».
Un altro gli averebbe voluti far collare, martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo, avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire; ed essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n’avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna, e contaminata l’onestà della donna sua. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la ‘ntendesse se non colui solo a cui toccava. Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né più la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.

                           
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Miniature delle Cronache di Norimberga: Agilulfo e Teodolinda

Agilulfo, re dei longobardi, pose il trono reale, come i suoi predecessori, a Pavia, città della Lombardia, dopo aver sposato Teodolinda, vedova di Autari, donna bellissima, saggia, onesta, ma sfortunata in amore. Mentre il regno longobardo prosperava, grazie alla virtù e al senno del re Agifulfo, un palafreniere (scudiero), di umilissima condizione, ma per tutto il resto assai superiore al suo modesto mestiere, e nell’aspetto bello e possente come un re, si innamorò perdutamente della regina. E sebbene che la sua vile condizione non gli impediva di comprendere che il suo amore era del tutto sconveniente, impossibile a realizzarsi, saggiamente non svelava il suo amore, neppure osava farlo comprendere con un semplice sguardo neppure all’amata. E sebbene vivesse senza alcuna speranza di poterle piacere, tuttavia si gloriava fra sé e sé di aver posto i pensieri così in alto e ardendo di fuoco d’amore faceva con passione più di tutti i suoi compagni ogni cosa che sembrava dovesse arrecare piacere alla regina. Quando accadeva che la regina doveva cavalcare, si serviva del cavallo da costui guardato piuttosto che quello di qualcun altro e quando questo capitava costui si reputava in grandissima grazia e non si allontanava dalle staffe , ritenendosi beato se poteva toccarle la stoffa.
Ma, come sempre avviene, l’amore si fa sempre più forte ogni qual volta la speranza diminuisce e così capitava per questo povero stalliere, tanto che gli era difficilissimo sopportare in silenzio il proprio desiderio, non essendo aiutato da alcuna speranza  e più volte dunque pensò di morire, non avendo alcuna possibilità di soddisfarlo. E pensando in quale modo decise di procurasi la morte  per la qual cosa fosse chiaro che moriva per l’amore che aveva provato e provava per la regina: e decise che ciò accadesse tentando la sorte, cercando di realizzare in tutto o in parte il proprio desiderio.  Non accennò con parole alla regina né le comunicò nulla per lettera il suo amore, poiché sapeva che lo avrebbe detto o scritto inutilmente, ma volle provare se, con l’inganno, gli riuscisse di dormire con la regina. Altro modo non c’era se non prender il posto del re, che sapeva non dormire con lei, giungere da lei ed entrare nella sua camera. Affinché vedesse il che modo e con quale abito il re andasse a trovarla, si nascose più volte di notte in una sala che stava tra la camera del re e quella della regina; in una di queste notti vide il re uscire dalla sua camera avvolto in un lungo mantello che aveva in una mano una piccola torcia e nell’altra una bacchetta; andava nella camera della regina e senza dire niente colpiva con la bacchetta l’uscio con uno o due colpetti, allora gli veniva aperto e gli veniva tolta la piccola torcia dalla mano.
Veduto questo e accorgendosi che lo stesso avveniva quando il re tornava, pensò di fare lo stesso e trovato il modo di possedere un mantello simile a quello del re una piccola torcia e una piccola mazza, essendosi lavato bene perché l’odore di letame non infastidisse e non svelasse l’inganno alla regina, e si nascose nella sala. La notte, sentendo che tutti dormivano, desiderando possedere la regina o morire, accese con la pietra focaia e l’acciarino la torcia, indossò il mantello e si avviò. Giunto davanti alla camera della sovrana, colpì due volte la porta con la bacchetta. La camera fu aperta da una cameriera assonnata, che prese la torcia e la spense.  Egli in silenzio, posato il mantello, entrò nel letto della regina che dormiva. Con immenso desiderio la presala in braccio e poiché sapeva che il re faceva l’amore in silenzio, senza dire alcuna cosa e senza che alcuna cosa gli fosse detta, più volte conobbe carnalmente la regina. Poi, sebbene gli risultasse gravoso il dover andare via, temendo che l’indugiare convertisse il diletto in danno, si alzò, riprese il mantello e la torcia e tornò nel suo letto.
In questo letto lui avrebbe potuto appena essersi levato quando il re, alzatosi, andò nella camera della regina, cosa di cui lei si stupì alquanto; ed essendo lui entrato nel suo letto e salutatala lietamente, lei, preso coraggio dalla sua disponibilità, disse: «Signor mio, che novità è questa di stanotte? Mi avete appena lasciato e avete fatto l’amore con più intensità e già siete di nuovo qua? State attento a quel che fate».
Il re, ascoltando tali parole, comprese che la regina era stata ingannata da una persona che aveva preso il suo posto, ma, saggiamente pensò che né la regina né alcun altro se ne fossero accorti e non volle che se ne accorgesse. Molti altri sciocchi avrebbero detto: «Non ero io, chi c’era al posto mio, come è arrivato qui, quando se ne andato?» da cui sarebbero partite infinite inquisizioni  per le quali avrebbe rattristato ingiustamente la regina o avrebbe spinto la stessa a desiderare un’altra volta un amore diverso dal suo; si sarebbe procurato infamia e disonore rivelando quello che invece, tacendo, non gli avrebbe procurato alcuna vergogna.
Rispose dunque il re, turbato più nella mente che nel viso o nelle parole: «Donna, non vi sembro io un uomo che, dopo aver avuto dei rapporti amorosi con voi, non possa averne subito dopo altri?»
A cui la donna rispose: « Signor mio sì, ma tuttavia vi prego di stare più attento alla vostra salute»
Il re allora: «Oggi voglio seguire il vostro consiglio e senza darvi più impaccio, me ne torno in camera». 
Essendo adirato e già pieno di sdegno per ciò che gli era successo, riprese il suo mantello e uscì dalla camera ma decise di scoprire, di nascosto, chi era stato, sicuro che doveva trattarsi di uno che era nella casa e chiunque fosse stato da quella non poteva scappare. Preso dunque un piccola lanterna e se ne andò in un lungo casamento che nel suo palazzo era posto sopra le stalle, nel quale in diversi letti dormiva tutta la sua servitù e credendo che chiunque avesse fatto ciò che la moglie gli aveva detto non avesse ancora il polso e il battito del cuore acquietato per l’affanno sopportato, in silenzio, cominciando dall’inizio del casamento a tutti toccava il petto per sapere se il cuore battesse con più forza.
Mentre ogni altro dormiva profondamente, colui che era stato con la regina non riusciva a prender sonno e accorgendosi che il re s’avvicinava e sapendo cosa cercava, cominciò ad avere tanta paura che il cuore che già per la fatica, ora anche per la timore aumentò di molto il battito; si rese conto fermamente che se il re se ne fosse accorto, senza aspettare un momento, lo avrebbe ucciso. E sebbene pensasse come scampare, vedendo il re senz’armi, fece finta di dormire, rimandando quello che dovesse fare. Avendone il re toccati molti e non trovandone nessuno che giudicasse colpevole, giunse a lui e trovando che il cuore gli batteva forte tra sé disse: “E’ lui”; ma non volendo fare nessun atto che fosse manifesto a tutti, non fece altro se non tagliargli con una forbicetta che aveva portato con sé, da una delle due parti i capelli, che a quel tempo portavano lunghi, affinché potesse essere riconosciuto il mattino seguente e fatto questo se ne tornò in camera.
Alzatosi la mattina il re comandò che prima che s’aprissero le porte del palazzo, venissero al suo cospetto tutti i suoi familiari e così avvenne. Tutti, senza alcun copricapo gli stavano davanti e il re cominciò a guardare per riconoscere quello a cui aveva tagliato i capelli e vedendo che davanti a lui molti avevano i capelli tagliati allo stesso modo in cui li aveva tagliati lui dapprima si stupì e poi disse tra sé: “Quello che sto cercando, sebbene di bassa condizione, mostra di essere di grande intelligenza». Poi vedendo che senza destare scalpore e scandalo non poteva trovare colui che cercava e deciso a non volersi procurare una grande vergogna per compiere una piccola vendetta, decise d’ammonirlo con la sola parola, mostrandogli che lui si era accorto di quanto successo e, rivolgendosi a tutti, disse: Chi lo ha fatto non lo faccia più e ora andate con la grazia di Dio».
Un altro li avrebbe potuti torturare, procurar loro tremendi dolori, sottoporli ad interrogatorio e così facendolo avrebbe reso palese quello che ciascuno deve cercare di tenere nascosto e rendendola palese, sebbene avesse ottenuto l’intera vendetta, non diminuita ma molto aumentata sarebbe stata la sua vergogna e rovinata l’onestà della sua donna. Quelli che sentirono la sua risposta si meravigliarono e a lungo si chiesero cosa il re avesse voluto dire, ma nessuno riuscì a capirlo ad eccezione di colui a cui era indirizzato. Lui, saggiamente, mai finché il re visse, rivelò l’accaduto, ne mise più  con un simile atto la propria vita in balia della sorte.

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Miniatura recante immagini riguardanti la novella di Agilulf e il palafreniere

Una delle protagoniste di questa novella è la saggezza. Qui infatti si vuole rappresentare in un tempo lontano, quello longobardo, un classico triangolo amoroso i cui vertici, tradizionalmente parlando sono costituiti da lui (il re), lei (la regina) l’altro (lo stalliere). Già così la novella avrebbe difficilmente potuto raggiungere l’idea del beffato e gabbato che è solito di un lui (un marito, in questo caso il re) in un personaggio così altocolato, così non avrebbe potuto fare della di lui moglie una donna facile alle attenzioni altrui. Per Boccaccio il triangolo amoroso deve essere riportato, in quanto coinvolgente le figure regali – oltreché reali – sul piano della non sfacciata corporeità. La differenza è nel lessico: se Masetto “cavalcava”, lo stalliere “disiderosamente in braccio recatalasi (la regina), mostrandosi turbato, senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. L’atto sessuale è in un rigo e mezzo, senza alcun riferimento animale.

Si potrà obiettare che il fine del Boccaccio non era quello di rappresentare l’amore dello stalliere, ma di vedere in che modo l’ottenesse sfruttando l’intelligenza. Ma non è forse lo stesso per Masetto, il quale intelligentemente si finge muto per divertirsi carnalmente con nove suore? 

Forse si potrebbe giustamente dire che qui Boccaccio ha voluto “democratizzare” l’intelligenza: “sì come savio” dice dello stalliere perché non rileva a nessuno l’amore per la regina; “ma come savio” dice del re quando lo stesso decide di non dire alla moglie che non è stato lui nell’amarla. Alla “democrazia” dell’intelligenza corrisponde a sua volta la “democrazia” dell’amore; d’altra parte la regina non si è accorta di nulla; forse se un pericolo vi era (suggerisce la novellatrice) è che lo stalliere fosse più focoso del re, ma ci piace pensare che lei, ignara dell’amante, ritenesse il marito capace di esserlo.   

QUARTA GIORNATA

La quarta giornata vede come re Filostrato che come tema propone che si ragioni di coloro i cui amori ebbero infelice fine, in linea direi col suo nome che, come già visto, secondo l’etimologia di Boccaccio significa “vinto, sconfitto dall’amore”. Non bisogna tuttavia dimenticare che tale giornata è preceduta da un’introduzione nella quale Boccaccio parla della “naturalità dell’amore”, in risposta alle critiche che aveva ricevuto rispetto a questo argomento. La novelletta, ricordo, utilizza un registro comico, cui fa da contrasto il tema scelto dal re, soprattuto la prima novella, raccontata da Fiammetta, ce ci porta in un ambiente abitato da principi e da gran dame:  

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Miniatura francese per la novella di Tancredi e Ghismonda

TANCREDI PRENZE DI SALERNO UCCIDE L’AMANTE DELLA FIGLIUOLA E MANDALE IL CUORE IN UNA COPPA D’ORO; LA QUALE, MESSA SOPR’ESSO ACQUA AVVELENATA, QUELLA SI BEE, E COSI’ MUORE.
(IV,1)

Tancredi principe di Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno; se egli nello amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse.
Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai; e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava; poi alla fine ad un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcun’altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante.
E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ogn’ora più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuore ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente avesse per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuol di canna, sollazzando la diede a Guiscardo, dicendo: – Fara’ ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.
Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna e quella veggendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse giammai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare, secondo il modo da lei dimostratogli.
Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da un fortissimo uscio serrata fosse. Ed era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava; ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea, anzi che venir fatto le potesse d’aprir quell’uscio; il quale aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venire s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo, prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa, e sè vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato ben l’uno de’ capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quello si collò nella grotta ed attese la donna.

Michele-Riondino-Boccaccio.jpgKasia Smutniak e Michele Riondino (Guiscardo e Ghismunda) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

La quale il seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio, nella grotta discese, dove trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e, dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi, la notte vegnente su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a casa. E avendo questo cammino appreso, più volte poi in processo di tempo vi ritornò.
Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia dei due amanti rivolse in tristo pianto. Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare laggiù venutone essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sè la cortina quasi come se studiosamente si fosse nascoso quivi, s’addormentò.
E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n’entrò nella camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su ‘l letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano; e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere più cautamente fare e con minore sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve, discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta ed ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino, e senza essere da alcuno veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò.
E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in su ‘l primo sonno, Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due, e segretamente a Tancredi menato. Il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: «Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei».
Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: «Amor può troppo più che né voi né io possiamo».
Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse, e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismonda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare, secondo la sua usanza, nella camera n’andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire: «Ghismonda, parendomi conoscere la tua virtù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non lo avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente, di ciò ricordandomi. E or volesse Iddio che, poi che a tanta disonestà conducere ti dovevi avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano, eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da picciol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore, il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno, preso per la tua gran follia; quegli vuole che io ti perdoni, e questi vuole che contro a mia natura in te incrudelisca; ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire». E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto.

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Kasia Smutniak e Lello Arena (Tancredi e Ghismunda) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Ghismonda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora esser preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì, e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina; ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sè porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse: «Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore; ma, il ver confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dello animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò; e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo; ma a questo non mi indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dovea, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e, come che tu uomo in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane; e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia virtù di non volere né a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna Fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva; e questo, chi che ti se l’abbi mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogn’altro, e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre allo amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare oppinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo (quasi turbato esser non ti dovessi, se io nobile uomo avessi a questo eletto) che io con uom di bassa condizione mi son posta. In che non ti accorgi che non il mio peccato ma quello della Fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i dignissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create. La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera apertamente si mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama, commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la lor virtù, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto, quanto tu ‘l commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto; ché se i miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu, che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non potevano esprimere, non vedessi; e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizione mi sia posta? Tu non dirai il vero; ma per avventura, se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza ad alcuno, ma sì avere. Molti re, molti gran principi furon già poveri; e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via. Se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le tue lagrime, e incrudelendo con un medesimo colpo altrui e me, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi».
Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola; ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva. Per che, da lei partitosi e da sè rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono, e, trattogli il cuore, a lui il recassero; li quali, così come loro era stato comandato, così operarono. Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che, quando gliele desse, dicesse: «Il tuo padre ti manda questo, per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava».
Ghismonda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua ridusse, per presta averla se quello di che elle temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presente e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo.
Per che, levato il viso verso il famigliare, disse: «Non si conveniva sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è; discretamente in ciò ha il mio padre adoperato».
E così detto, appressatoselo alla bocca, il baciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre e infino a questo estremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che giammai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo giammai, di così gran presente da mia parte gli renderai».
Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: «Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, mala detta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato; venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Iddio nel l’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già cotanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio si cura ai luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei; e come colei che ancor son certa che m’ama, aspetta la mia, dalla quale sommamente è amata».
E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versare tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, baciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che dattorno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di lei non intendevano; ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla.

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Lavennia Illustratrice canadese: Ghismunda mette la pozione avvelenata nella coppa (2017)

La qual, poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttosi gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia». E questo detto, si fe’ dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì avanti aveva fatta, la qual mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato, e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del morto amante, e senza dire alcuna cosa aspettava la morte.

decameron_4_1__ghismunda_and_tancredi_by_misellapuella-db2tsn1.jpgLavennia Illustratrice canadese: Ghismunda sdraiata col cuore di Guiscardo (2017)

Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandata a dire; il quale, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo i termini ne’quali era, cominciò dolorosamente a piagnere.
Al quale la donna disse: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo dono mi concedi che, poi che a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ‘l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittar morto, palese stea».
L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze. Laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi strignendosi al petto il morto cuore, disse: «Rimanete con Dio, ché io mi parto».
E velati gli occhi, e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.
Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismonda, come udito avete; li quali Tancredi dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente amenduni in un medesimo sepolcro gli fe’ sepellire.

Tancredi, principe di Salerno, fu un signore pieno di umanità e di indole buona, se lui, in vecchiaia, non si fosse sporcate le mani col sangue di due amanti; egli nella sua vita non ebbe che una figliola e sarebbe stato più felice se non l’avesse avuta. Quest’ultima fu teneramente amata dal padre, quanto nessun altro padre mai e per questo tenero amore, avendo lei già da tempo passata l’età del matrimonio, ma non sapendone separarsi, non la sposava; infine la fece unire con il figlio del duca di Capua, ma fu per poco tempo moglie, perché rimase presto vedova e tornò dal padre. 
Era d’aspetto e di viso bellissima più di ogni altra femmina, giovane, d’animo forte e saggia più di quanto normalmente non si richiedesse ad una donna. Vivendo con il padre in molte raffinatezze come una gran dama e vedendo che per l’amore ce le portava non aveva nessuna intenzione di rimaritarla, nè credendo cosa opportuna il chiederlo, pensò vi voler avere, laddove se ne fosse presentata l’opportunità, un amante di valore. Essendo circondata dalla presenza di molti uomini nella corte del padre, nobili e non nobili, così come è d’abitudine, e presi in considerazione i modi e le abitudini di ciascuno, tra tutti le piacque un giovane valletto del padre, di nome Guiscardo, uomo per nascita assai umile ma nobile per virtù e costumi nobile e, osservandolo spesso, silenziosamente s’innamorò intensamente di lui, apprezzando sempre di più il suo modo di fare. Il giovane, a cui non mancava l’intuito, essendosi accorto delle attenzioni di lei, si era a tal punto innamorato di lei che aveva allontanato dalla mente ogni pensiero, se non quello dell’amore per lei.
Così amandosi segretamente, non desiderando altro la giovane che di ritrovarsi insieme e non fidandosi di nessuno a cui svelare il suo sentimento e dovendogli comunicare il modo in cui incontrarsi, tra sé pensò un nuovo ed inusitato stratagemma. Scrisse na lettera e in essa gli descrisse cosa fare il giorno dopo per essere con lei; poi la mise in un pezzo di canna vuoto e scherzando lo diede a Guiscardo dicendogli: «Lo darai alla tua servitrice stasera con il quale alimenterà il fuoco».
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Adrien Van der Werff: Tancredi offre la coppa a Ghismonda (1675)

Guiscardo lo prese e pensando che non senza ragione costei dovesse averglielo donato e aver parlato in quel modo, allontanatosi, con questo pezzo di canna tornò a casa sua. Guardandolo con attenzione vide che era forato, l’aprì e vi trovò dentro la lettera e avendo capito ciò che dovesse fare, si riempì di felicità e cominciò a pensare affinché potesse raggiungere lei secondo il modo che la stessa gli aveva indicato.
Il palazzo del principe di fianco aveva una grotta, scavata nel monte, prodottasi molto tempo prima, che riceveva un po’ di luce da uno spiraglio fatto artificialmente che, poiché era stata abbandonata da anni, era ricoperto da cespugli spinosi ed erba nata spontaneamente; questa grotta era raggiungibile da una scalinata segreta che partiva da una delle camere terrene abitate dalla donna, sebbene fosse separata da una porta pesantissima. E tutti si erano dimenticati di questa scala, non essendo stata più utilizzata al punto che quasi nessuno si ricordava che essa esistesse, ma l’Amore al quale nessun segreto può rimanere nascosto che lui non scopra, aveva permesso che fosse tornata in mente alla donna innamorata. Lei, per fare in modo che nessuno la scoprisse aveva penato molti giorni prima con i suoi arnesi per poter aprire quella porta. Una volta aperta e scesa sola nella grotta, riscoprendo lo spiraglio, attraverso quello aveva detto per lettera a Guiscardo che trovasse il modo di raggiungerla, avendogli indicata l’altezza da quello sino a terra. Quindi per portare a termine l’impresa Guiscardo si procurò una fune con nodi e appigli con cui salire e scendere ed un vestito di cuoio per difendersi dai rovi. Senza farsene accorgere la sera seguente raggiunse la grotta e dopo aver legato la fune ad un forte sterpo, nato alla bocca dello spiraglio, per quello scese nella grotta e aspettò la donna.Lo stesso giorno seguente, lei facendo finta di volere dormire, licenziò le sue ancelle e chiusasi in camera, aprì la porta  e scese nella grotta dove trovò Guiscardo mostrando entrambi grande felicità, poi raggiunsero la camera vi rimasero gran parte del giorno tra i piaceri e, data una precisa regola ai loro incontri d’amore, affinché rimanessero segreti, dopo averlo licenziato, Guiscardo tornò nella grotta e lei, chiusa la porta, raggiunse le sue ancelle. Al calar della notte Guiscardo salendo attraverso la fune passò nello spiraglio da cui era entrato e così tornò a casa. Avendo imparato il percorso più volte in seguito vi tornò. 
Ma il destino, invidioso di un così lungo e grande piacere, con un doloroso incidente trasformò la felicità dei due amanti in pianto.
Tancredi aveva l’abitudine di andare solo nella camera della figlia e qui rimanere con lei, parlare per un po’ di tempo e poi andarsene. Un giorno, dopo pranzo, andò dalla figlia ma lei, il cui nome era Ghismonda, stava insieme con le sua damigelle in un giardino. Per non disturbare non si fece vedere né sentire; entrò nella camera e trovò le finestre chiuse e le cortine del letto abbassate; quindi si mise su una cassapanca ai piedi del letto, poggiò la testa sul letto e copertosi con la cortina, quasi si fosse nascosto apposta, s’addormentò. Per sfortuna quel giorno Ghismonda, dopo aver lasciato le sue damigelle in giardino, fece venire Guiscardo che tranquillamente entrò nella stanza e quella chiusa, senza accorgersi che dentro vi fosse qualcuno, lo fece entrare e, come succedeva da tempo, andarono a letto e insieme si divertirono e presero piacere l’un l’altra; accadde però che Tancredi si svegli, sentì e vide ciò che Guiscardo faceva con la figlia. Addolorato, prima volle loro sgridare, poi decise di star zitto e rimanere nascosto per poter con più calma e con meno vergogna quello che già aveva deciso di fare. I due amanti stettero insieme per un bel po’, com’erano abituati, senza accorgersi di Tancredi e quando decisero di alzarsi dal letto, Guiscardo tornò nella grotta e lei uscì dalla camera. Tancredi. sebbene fosse vecchio, uscì calandosi nel giardino dalla finestra e estremamente turbato, tornò in camera sua.
Guiscardo, essendo impacciato dall’abito di cuoio, nelle prime ore della notte all’uscir dallo spiraglio, per ordine di Tancredi fu catturato da due guardie e, nascostamente, fu portato di fronte al principe che, appena lo vide, quasi piangendo disse: «Guiscardo, la generosità che ti ho mostrata non merita l’offesa e la vergogna che hai arrecato nelle faccende della mia famiglia, così come oggi ho potuto constatare»
Guiscardo, non disse niente se non: «L’amore può molto di più di quanto lei ed io possiamo»
Comandò quindi il principe che lui segretamente fosse condotto in una camera tenuto in prigionia e così accadde.
Il giorno dopo, non sapendo Ghismonda nulla di quanto fosse successo, Tancredi pensò diverse e inusitate mostruosità  e si avviò, come era ormai solito, nella camera della figlia: fattala chiamare e chiusosi con lei, tra le lacrime cominciò a dirle: «Ghismonda, mi era sembrato di conoscere la tua virtù e onestà e mai mi sarebbe venuto in mente, anche se mi fosse stato detto, se non l’avessi visto con i miei occhi, che tu di concederti ad altro uomo che non fosse tuo marito, non solo non lo avresti fatto, ma neppure pensato, fatto del quale, per quanto poco mi rimanga da vivere, sempre ricordandolo mi dorrò. Abbia perlomeno voluto il cielo che poi, dovendoti condurre a tanta disonestà, avessi scelto un uomo conveniente al tuo essere nobile, ma fra tanti che frequentano la mia casa hai scelto Guiscardo, di umilissima condizione, cresciuto per carità nella nostra corte sin da bambino; per questo mi hai messo in grande difficoltà non sapendo che decisione prendere nei tuoi confronti. Ho già deciso di cosa fare di Guiscardo, che ho ordinato di prelevare quando è uscito dallo spiraglio e che adesso tengo in prigione, ma di te lo sa Dio che cosa ho deciso di fare. Da una parte mi tira l’amore che ti ho sempre portato, più di ogni altro padre verso la figlia, dall’altra mi tira un giustificabilissimo sdegno derivato da questa tua follia: la prima vorrebbe che io ti perdoni , l’altra che io contro la mia natura infierisca contro di te: ma prima di decidere, vorrei sentire quello che tu a questo proposito vuoi dirmi». Detto questo abbassò il viso e cominciò a piangere come un bambino picchiato ben bene.
Ghismonda dopo aver sentito il padre e aver saputo che il suo segreto amore era stato scoperto, ma ancor più che Guiscardo era stato tratto in prigione, sentì un fortissimo dolore e fu molto vicina a mostrarlo con grida e pianti, così come capita spesso alle donne, ma il suo forte animo questa volta vinse questa debolezza e con forza straordinaria compose con fermezza il viso e prima di dover rivolgere qualche supplica per sé, decise fra sé di togliersi la vita, ritenendo che il suo Guiscardo fosse già morto.
Per cui, non come femmina addolorata o rimproverata per un suo errore, ma come incurante e coraggiosa, con viso asciutto e franco e per niente turbato, così disse al padre: «Tancredi, non sono disposta né a negare né a pregare, perché né la proma varrebbe qualcosa, né la seconda voglio che mi valga; e oltre a ciò non intendo rendere la tua mansuetudine e il tuo amore favoreli per me; ma, dicendoti la verità, per prima cosa intendo difendere il mio onore e con i comportamenti mantendermi del tutto coerente con la mia grandezza d’animo. E’ vero che ho amato e amo ancora Guiscardo e per quanto vivrò l’amerò, e se dopo la morte si continua ad amare, non smetterò d’amarlo; ma a questo amore non mi ha spinto la mia femminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine di darmi in moglie e la virtù dell’uomo. Tancredi, avresti dovuto sapere, essendo fatto di carne, di aver messo al mondo una figlia di carne, non di pietra o di ferro; avresti dovuto e devi inoltre ricordare, sebbene abbia raggiunto la vecchiaia, quante e di che tipo e con che forza vengono gli istinti derivanti dalla giovinezza e sebbene tu abbia passato i migliori anni della tua vita nell’esercizio delle armi, nondimeno non dovevi disconoscere ciò che l’ozio e il vivere nella raffinatezza possono sia nei vecchi che nei giovani. Sono dunque da te nata così di carne che ancora di giovane età, e per ambedue queste condizioni pienamente vogliosa di appagamento carnale a cui ha dato una forza straordinaria il fatto che io ho conosciuto quale piacere si provi nel consumarlo, siccome già sono stata sposata. Non potendo resistere a ciò, dal momento che le forze della natura mi spingevano, come giovane e femmina, decisi di innamorarmi. Sicuramente misi in atto ogni mia virtù, per quanto potessi fare, nel non voler a te né a me procurare vergogna a cui quel naturale peccato mi conduceva. A ciò l’Amore e la buona fortuna mi avevano mostrato una via segreta, attraverso cui, senza che nessuno lo venisse a sapere, riuscivo a realizzare i miei piaceri: e questo, chiunque te l’abbia mostrato o come tu sia venuto a saperlo, non lo nego. Guiscardo non lo scelsi per caso, come fanno molte altre, ma lo elessi con deliberata volontà e con saggia costanza mia e sua ho goduto a lungo del mio desiderio. E sembra che, riguardo a questo fatto, tu, seguendo le dicerie altrui piuttosto che la verità, mi rimproveri più aspramente, non solo il peccato d’amore; ma dici che mi sono andata a mettere con un uomo di bassa condizione, quasi che fosse stato per te possibile non sdegnarti se io avessi scelto per dar sfogo al mio desiderio un uomo nobile e in questo non ti rendi conto di riprendere non il mio peccato ma la stessa fortuna che spesso mette in alto gli indegni lasciando in basso i degnissimi. Ma lasciamo perdere ora questo e andiamo alla essenza delle cose: vedrai che tutti siamo nati da un corpo e un corpo abbiamo tutti e da un unico Creatore creati con uguali forze, capacità e virtù. Dapprima distinse noi, uguali per nascita, la virtù e quelli che la possedevano e la mettevano in atto furono definiti nobili, tutti gli altri non nobili. E benché abitudini di vita contrarie a questa legge l’abbiano spesso offuscata, non è stata ancora cancellata, né rovinata dalla natura né dal buon costume; per questo colui che opera in modo virtuoso, mostra apertamente di essere nobile e chi lo chiama in modo diverso è lui che sbaglia non colui che è chiamato. Considera tutti i tuoi nobili ed esamina la loro vita, i loro costumi, il modo in cui agiscono e, viceversa, considera quelli di Guiscardo. Se osserverai senza animosità diresti lui nobilissimo e i tuoi nobili tutti villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo non mi sono riferita al giudizio di un’altra persona, ma alle tue parole e ai miei occhi. Chi mai lo elogiò tanto quanto tu lo lodavi in tutte quelle cose per cui un uomo valoroso dev’essere ricoperto di lodi? E certo non a torto, perché, se i miei occhi non m’ingannarono, nessuna lode gli fu da te attribuita che io non vedessi metterla in atto in modo migliore di quanto le tue parole potessero esprimere, e se mai mi fossi ingannata, l’inganno sarebbe partito da te. Dirai ora che io mi dia messa con un uomo di bassa condizione? Diresti una bugia: ma se per caso dicessi povero ti si potrebbe concedere con vergogna, perché così hai saputo ripagare un tuo valevole servitore; ma la povertà non toglie gentilezza d’animo, ma solo la ricchezza. Molti re e molti principi furono poverissimi e molti di coloro che zappano la terra e pascolano pecore furono e sono ricchissimi. L’ultimo dubbio che avevi, cioè cosa fare di me, scaccialo: se tu nell’avanzata vecchiaia sei disposto a fare ciò che in gioventù non hai osato fare, cioè a incrudelire, rivolgi contro me la tua crudeltà, che non sono disposta a pregarti in nessun modo, poichè sei la prima causa di questo peccato, se peccato è; perciò t’assicuro che quello che hai fatto o farai a Guiscardo, se non dovessi farlo anche me, saranno le mie mani a compierlo. Ora via, vattene con le femmine a piagnucolare e se credi che abbiamo meritato di morire, uccidici con uno stesso colpo».
Il principe riconobbe la grandezza d’animo della figlia ma non per questo credette che lei fosse così fermamente disposta a fare tutto ciò che affermava a parole; per cui allontanatosi da lei  e scacciando da sé il proposito d’infierire in qualche modo contro di lei, pensò con il colpire Guiscardo di riuscire a farle passare il forte amore e ordinò ai due guardiani di Guiscardo che durante la notte in modo silenzioso lo strangolassero e strappatogli il cuore glielo portassero. Essi fecero ciò che venne loro comandato. 
Il giorno seguente, il principre, fattosi recapitare una grande e bella coppa d’oro e messo al suo interno il cuore di Guiscardo, tramite un fidatissimo servo lo mandò alla figlia e gli ordinò quando lo consegnava di dirle: «Tuo padre ti manda questo per consolarti di ciò che tu più ami, come tu lo hai consolato di ciò che lui amava di più».
Ghismonda, non allontanatasi del suo proponimento, si fece venire erbe e radici velenose, poi, andato via il padre, le distillò e le sciolse in acqua, per averla pronta se avvenisse quello che lei temeva. Giunto a lei il familiare con la coppa e le parole del padre, con coraggio la prese e dopo averla scoperchiata e aver sentito le parole del padre, fu assolutamente certa che quello era il cuore di Guiscardo; per cui rivolta verso il familiare, disse: «Non sarebbe stato conveniente una sepoltura  meno degna di questa d’oro per un cuore come questo: almeno in questo mio padre ha operato in modo saggio»
E detto questo, avvicinando il cuore alla bocca lo baciò e poi disse: «Ho sempre trovato fino alla fine della mia vita l’amore di mio padre nei miei confronti tenerissimo, ma ora più che mai e per questo da parte mia gli renderai le ultime grazie che gli devo per un così grande regalo».
Detto questo, rivolta verso la coppa che stringeva a sé, guardando il cuore disse: «Ahi! docissimo rifugio di tutti i miei piaceri; maledetta sia la crudeltà di Tancredi che ora mi fa veder con gli occhi come sei! Quanto valeva di più viverti nel ricordo. Tu hai portato a compimento la vita e ti sei liberato di quel tale corso che la fortuna ti aveva concesso: sei arrivato dove corrono tutti (la morte) e hai abbandonato le miserie e le fatiche del mondo e hai ottenuto dal tuo nemico quella sepoltura che la tua virtù meritava. Non ti mancava niente per avere le esequie complete, se non le lacrime di quella che durante la vita hai amato tanto; e affinché tu le avessi, Dio pose nell’animo del padre crudele di mandarti a me e io te le darò, sebbene avessi deciso di morire con occhi asciutti e viso sereno; e te le darò e farò in modo, con il tuo aiuto, di congiungere la tua anima con la mia, che tu hai custodito tanto caramente. E con quale compagnia potrei andare più felice e sicura nell’aldilà che con lei (la tua anima)? Sono sicura che essa è ancora qui e osserva i luoghi del nostro piacere e, dal momento  che mi ama ancora, ne sono certa, sta aspettando la mia, da cui è amata moltissimo».E detto questo senza emettere alcun gemito, come se avesse una fonte d’acqua negli occhi, chinatasi sopra la coppa cominciò a piangere e a versare un mondo di lacrime, straordinario a vedersi, baciando innumerevoli volte il morto cuore. Le damigelle, che le stavano intorno, non sapevano di chi fosse il cuore e cosa volesse dire, ma vinte da compassione, piangevano tutte e le domandavano inutilmente il motivo del pianto e come meglio potevano e sapevano cercavano di confortarla.
Dopo aver pianto quanto voleva, alzato il viso e asciugati gli occhi, disse: «O cuore molto amato, ho compiuto ogni dovere nei tuoi confronti, non mi resta altro da fare se non di raggiungerti con la mia anima per far compagnia alla tua»
Detto questo si fece dare il piccolo recipiente pieno dell’acqua che aveva preparato, che mise nella coppa con dentro il cuore lavato dalle molte lacrime e senza alcun timore lo bevve e quindi, con la coppa in mano, salì nel letto e quanto più compostamente mise il suo corpo sopra quello e accostò il suo core a quello dell’amante: aspettava la morte senza dire nulla.
Le sue damigelle, avendo visto e ascoltato tutto, sebbene non sapessero che acqua fosse quella che aveva bevuto, avevavo mandato a chiamare Tancredi, che temendo di quello che potesse succedere era corso in camera della figlia, in cui giunse mentre lei si stava sdraiando e solo allora cercò di confortarla con dolci parole, ma vedendo le condizioni in cui si trovava, cominciò a piangere dolorosamente.
A lui la donna disse:«Tancredi, conserva queste lacrime per una sorte che hai desiderato meno di questa, non darle a me, che non le desidero. Chi vide mai qualcuno piangere per quello che ha voluto? Ma pure se qualcosa di quell’amore che mi hai portato ancora vive, per ultimo signore concedimi che, dal momento che non hai voluto che io in silenzio e di nascosto amassi Guiscardo, il mio corpo riposi visibile a tutti accanto al suo, dove tu lo hai fatto gettare».
L’angoscia del principe non gli permise di rispondere; in ultimo la giovane, sentendosi morire, stringendo al petto il morto cuore, disse: «Rimanete con dio, che io muoio». E chiusi gli occhi e perduto ogni sentimento partì da questa dolente vita.
Così ebbe una dolorosa fine la storia d’amore di Guiscardo e Ghismonda, come avete ascoltato, i quali Tancredi dopo aver pianto molto ed essersi pentito della sua crudeltà, con il dolore di tutti i salernitani, fece seppellire tutti e due in uno stesso sepolcro con tutti gli onori.      

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Bernardino Mei: Ghismonda con il cuore di Guiscardo (1659)

La novella sembra essere costruita al fine di farla convergere nello scontro ideologico tra padre e figlia; pare che l’inizio e la sua fine costituiscano una “cornice” nel quale inserire l’elemento tragico tra lo scontro tra i due protagonisti. Ad analizzarlo attentamente, infatti, vediamo che sebbene i protagonisti della storia d’amore siano Ghismonda e Guiscardo, quest’ultimo sia sacrificato a strumento per arrivare al momento chiarificatore dei rapporti tra Tancredi padre e Ghismonda figlia. 

Probabilmente non ci bastano gli strumenti della realtà storica: affinché la tragedia abbia luogo occorrono alcuni elementi che potremmo definire “fiabeschi” ad iniziare da come tutto venga tenuto in segreto e nascosto, dalle prove a cui lui si deve sottoporre per raggiungerla e al suo “strano abbigliamento”, all’inspiegabile non accorgersi della presenza paterna in camera quando la sua testa era sopra il letto, dal uscire di Tancredi dalla finestra, perché? Perché tutto deve convergere allo scontro finale che vede il capovolgimento dei due antagonisti: il vecchio e saggio Tancredi comportarsi come un bambino piangente per i colpi ricevuti; la giovane e bella Ghismonda fiera e coraggiosa che rimprovera la fragilità nonché la mancanza di virtù paterna.

Il discorso di Ghismonda, d’altra parte, non costituisce una novità da un punto di vista contenutistico, a partire proprio dal concetto di amore/nobiltà (di ascendenza guinizzelliana); semmai risulta nuovo, ma non nelle novelle precedenti del Boccaccio stesso, la rivendicazione, in questo caso femminile, dell’amore sensuale, soprattutto in giovane età.

Ma l’accento può cambiare se proviamo a formulare, in modo se si vuole anche veloce, una lettura psicoanalitica: Tancredi è rimasto vedovo in giovane età e riversa tutto il suo amore verso la figlia. Tale amore, che da parte sua non può essere esplicitato, dev’essere tuttavia negato alla figlia, affinché lei possa rimanere sua e di nessun altro; in altre parole l’elaborazione del lutto da parte di Tancredi avviene maturando un rapporto d’amore incestuoso verso la figlia. Come può superare tale difficoltà psicologica? con l’annullamento degli amanti e quindi la rimozione della sua contraddittorietà.  

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Miniatura per la novella di Lisabetta da Messina

I FRATELLI DELL’ELISABETTA UCCIDON L’AMANTE DI LEI; EGLI L’APPARISCE IN SOGNO E MOSTRALE DOVE SIA SOTTERRATO. ELLA OCCULTAMENTE DISOTERRA LA TESTA E METTELA IN UN TESTO DI BASSILICO; E QUIVI SU PIAGNENDO OGNI DI’ PER UNA GRANDE ORA, I FRATELLI GLIELE TOLGONO, ED ELLA SE NE MUORE DI DOLOR POCO APPRESSO.
(IV,5)

Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte l’Isabetta guatato, avvenne che egli le ‘ncominciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare che una notte, andando l’Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell’Elisabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.
E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse. E in Messina tornati dieder voce d’averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo attorno usati. Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l’uno de’ fratelli le disse: «Che vuol dir questo? Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene».

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Lisabetta nel Decameron di Pasolini (1971)

Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E disegnatole il luogo dove sotterrato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve.
La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a’ fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto. E avuta la licenza d’andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d’una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto potè là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo ‘mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra l’altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto. E servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da’suoi vicini fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: «Noi ci siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera». 
Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecer portar via questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli. La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:

Quale esso fu lo malo cristiano;
che mi furò la grasta, ecc.

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Alberto Criscione: Lisabetta da Messina (2014)

A Messina vivevano tre giovani fratelli, tutti mercanti, che dopo la morte del padre, originario di San Gimignano, erano diventati ricchissimi; avevano anche una sorella, chiamata Elisabetta, assai bella ed educata, che, non si sa per quale motivo, non avevano ancora sposata. Avevano anche in una loro bottega un ragazzetto di Pisa di nome Lorenzo, che si occupava di tutti i loro affari, che essendo bello nella persona ed raffinato nei modi, avendolo più volte Lisabetta guardato infine accadde che cominciò a piacerle. Lorenzo, accortosi più di una volta di questo, lasciate da parte le altre donne, cominciò a pensare a lei; così andò la faccenda che piacendosi vicendevolmente, non passò molto tempo, che fecero insieme l’amore, dopo aver preso le dovute precauzioni.
Continuando e prendendo spesso piacere l’un l’altra, non seppero agire con discrezione tale che una notte, essendo andata nella camera di Lorenzo, il maggiore dei suoi fratelli non si accorgesse del fatto, senza che lei si rendesse conto d’essere stata scoperta. Quest’ultimo, essendo un uomo saggio, sebbene fosse per lui molto doloroso venire a sapere ciò, mosso da un cauto pensiero, senza dar modo che con atti o parole mostrasse di esserne accorto, pensando a lungo all’accaduto, attese fino alla mattina seguente. In seguito, quando ritenne opportuno, raccontò ciò che aveva visto fare tra Lisabetta e Lorenzo ai suoi fratelli, e insieme a loro, dopo lungo parlare, stabilì in merito a questa vicenda, affinché non ne derivasse alcuna infamia  né a loro né alla sorella, di passarla sotto silenzio e di fingere di non aver visto o saputo nulla fono a che non si presentasse l’occasione in cui senza danno né fastidio per loro, potessero lavare questa vergogna, prima che progredisse troppo.    Mantenendo questo patto, e parlando e ridendo con Lorenzo come erano soliti fare, successe che facendo finta di andare a divertirsi tutti e tre fuori città, con loro portarono Lorenzo e arrivati in un luogo solitario e lontano dalla città, vedendo che si offriva loro l’occasione favorevole, uccisero Lorenzo che in nessun modo si proteggeva da una simile evenienza e lo sotterrarono di modo che nessuno se ne potesse accorgere. Quando tornarono a Messina, sparsero la voce di averlo mandato in qualche luogo per fare loro un servizio, il che fu creduto facilmente perché spesso lo mandavano fuori città.
Non vedendo tornare Lorenzo, Elisabetta continuava a chiedere spiegazioni ai fratelli, pesandole molto la sua lunga assenza; un giorno chiedendo ad uno di essi con insistenza egli le disse: «Questo che vuol dire? ciò? Che te ne importa di Lorenzo? E come mai chiedi di lui cosi spesso? Se tu continuerai a chiedere di lui, noi ti daremo la risposta che cerchi». La giovane dolente e triste non sapendo più cosa fare o dire, non chiese più nulla ai fratelli ma la notte lo chiamava e pregava perché tornasse, e qualche volta piangendo intensamente per il sua lunga assenza si lamentava, senza mai rallegrarsi e lo aspettava.
Una notte accadde che,  continuando lei a piangerlo molto perché non tornava ed essendosi, mentre lacrimava addormentata Lorenzo le apparve nel sonno, pallido e scarmigliato, con i vestiti fradici e stracciati e le parve che le dicesse: “O Lisabetta tu non fai altro che chiamarmi e allolorati per il mio ritardo e di questo mi accusi;  ma sappi che non potrò più tornare perché lo stesso giorno che mi hai visto per l’ultima volta i tuoi fratelli mi uccisero», e indicatole il posto in cui era sotterrato le disse di non chiamarlo e di non aspettarlo più, poi sparì.  
La giovane, svegliatasi e credendo nella visione, pianse amaramente; poi la mattina seguente, non avendo il coraggio di dire niente ai suoi fratelli, si ripropose di  andare nel luogo mostratole (da Lorenzo) per vedere se ciò che gli era apparso nel sonno fosse vero. Avuto il permesso di uscire da Messina per svago, in compagnia di una donna che era stataa servizio di loro servizio in un momento passato, e che conosceva le tribolazioni di Lisabetta, quanto più velocemente vi andò. Tolse le foglie secche che c’erano sul luogo e dove la terra le sembrava più morbida scavò, e non scavando molto, trovò il corpo del suo misero amante non ancora corrotto e putrefatto, capì allora che la visione era giusta. Per questo era molto addolorata quanto ogni donna mai, ma sapeva che quello non era il tempo di piangere. Se avesse potuto volentieri avrebbe portato con sé tutto il corpo per dargli una sepoltura migliore, ma vedendo che ciò era impossibile, con un coltello gli tagliò la testa, la mise in un asciugatoio e la mise in braccio alla signora, poi ricoprì il corpo con la terra e quindi senza essere vista partì da quel luogo e tornò a casa.
Giunta a casa si rinchiuse in camera sua con la testa di Lorenzo e sopra essa pianse amaramente e a lungo, tanto da lavarla completamente con le lacrime, e la riempì di mille baci da ogni parte. Prese poi un grande e bel vaso di quelli che  si usava per piantarci la maggiorana o il basilico e vi ripose la testa fasciata in un lenzuolo, la ricoprì poi di terra e vi piantò molti semi del bellissimo basilico salernitano che innaffiava solo con acqua di rose o di fiori d’arancio e con le sue lacrime. Aveva preso l’abitudine di sedersi vicino al vaso e di vegheggiare il suo desiderio accanto ad esso, dal momento che esso conteneva la testa del suo Lorenzo; quanto aveva finito piangeva a lungo e in questo modo bagnava il basilico.
Il basilico sia per le continue attenzioni che per la terra molto grassa, grazie al fatto di contenere la testa putrefatta, divenne bellissimo e molto profumato e dal momento che Lisabetta si comportava continuamente così, fu notata dai vicini che, meravigliandosi, parlarono ai fratelli del viso sfatto e degli occhi gonfi e dissero loro: «Noi ci siamo accorti che lei ogni giorno fa la stessa cosa». Sentito questo i fratelli e essendosene accorti, dopo averla rimproverata qualche volta, senza risultato, senza che lei se ne accorgesse le sottrassero il vaso; lei lo richiese con molta insistenza, ma non essendole reso, non smettendo di piangere, alla fine si ammalò e, durante la malattia, non faceva che domandare del suo vaso. I tre giovani si meravigliarono di queste continue domande e perciò vollero controllare cosa ci fosse nel vaso; lo svuotarono e trovato il lenzuolo lo aprirono e videro la testa non ancora consumata, ma la riconobbero come quella di Lorenzo a causa della capigliatura crespa.
Di ciò essi si meravigliarono tantissimo e temettero che questa cosa si risapesse in giro e sotterrata la testa, senza dire nulla, senza farsene accorgere andarono via da Messina, dopo aver trovato il modo di trasferire i loro affari lontani da lì e se andarono a Napoli.
La giovane non smettendo di piangere e continuamente domandando il suo vaso, morì tra le lacrime e così finì il suo sventurato amore: ma in seguito la faccenda fu conosciuta da molti e ci fu qualcuno che compose quella canzone che ancora oggi si canta:chi fu l’uomo malvagio /  che mi rubò il vaso di fiori, ecc…

La novella a prima vista potrebbe avere un impianto simile a quella di Guiscardo e Ghismunda: un triangolo i cui vertici sono rappresentati nel primo caso dal padre e la figlia, nel secondo da tre fratelli (supplenti del padre e la sorella) e la sorella; per entrambi l’oggetto del desiderio è l’eros “naturale” che infrange le regole. nella novella precedente quella della nobiltà, in questa quella della mercatura.

Holman Hunt, William - Isabella and il vaso di basilico1876.jpgWilliam Holman Hunt: Isabella e il vaso di basilico (1876)

Vi sono altre due specularità: 

  1. in ambedue vince la donna (pur morendo, vanifica i progetti delle figure maschili);
  2. ambedue hanno un andamento si potrebbe dire quasi favolistico (in questo caso il sogno, la pianta di basilico). 

E’ importante notare come nel primo i riferimenti culturali erano altissimi, a partire dalla tragedia classica nonché dal romanzo cortese e dalla storia, in specifico del “Tristano e Isotta” che giustifica in qualche modo quella perorazione, oserei quasi dall’impianto logico di Ghismonda verso il padre; qui invece è come se la narratrice partisse da una canzone popolare, messa in coda al racconto e ne spiegasse il motivo. Ciò permette al racconto di Lisabetta di vertere più sul piano dell’elegia, in cui a prevalere non è la parola ma il pianto (piange perché il fratello non le dice dov’è Lorenzo; piange perché l’uccidono; piange sulla sua testa “vegheggiando il desiderio”). Il pianto sembra il filo conduttore delle tre sequenze:

  1. l’amore clandestino di Lisabetta e Lorenzo;
  2. L’uccisione di lui; il sogno e il prelevamento della testa;
  3. Il ritorno il pianto, lo svelamento della verità e la fuga. 

Se tuttavia ci sembra “giustificabile” da un punto di vista feudale, il comportamento di Tancredi, meno comprensibile è quello dei fratelli: cos’hanno da perdere, per il loro commercio, da un matrimonio tra Lisabetta e Lorenzo?

Le risposte potrebbero essere due:

  1. L’autorità che, pure nel mondo borghese, un padre o chi per lui aveva su una donna, tanto da decidere il suo destino sentimentale (nonché sessuale);
  2. l’impossibilità, essendo Lorenzo un sottoposto, di contrarre un matrimonio di “convenienza” 

Pensiamo invece che quello che agisce possa essere sia una identica lettura psicoanalitica, che ripeterebbe lo schema di Tancredi e Ghisunda, quanto, invece socialmente, tale fatto avrebbe creato “vergogna” tra i commercianti che non avrebbero saputo contrarre un matrimonio vergognoso e si sarebbero piegati alla libertà femminile. 

QUINTA GIORNATA

La quinta giornata è presieduta dalla regina Fiammetta la quale vuole che si parli di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri e sventurati accidenti, felicemente avvenisse. Dopo le tragedie delle novelle narrate la giornata precedente, si torna a parlare di “amori a lieto fine”.

Su questo argomento scegliamo la novella di Nastagio degli Onesti presentataci da Filomena:

NASTAGIO DEGLI ONESTI, AMANDO UNA DE’ TRAVERSARI, SPENDE LE SUE RICCHEZZE SENZA ESSERE AMATO. VASSENE, PREFATO DA’ SUOI, A CHIASSI; QUIVI DEVE CACCIARE AD UN CAVALIERE UNA GIOVANE E UCCIDERLA E DIVORARLA DA DUE CANI. INVITA I PARENTI SUOI E QUELLA DONNA AMATA DA LUI SD UN DESINARE, LA QUALE VEDE QUESTA MEDESIMA GIOVANE SBRANARE; E TEMENDO DI SIMILE AVVENIMENTO PRENDE PER MARITO NASTAGIO.
(V, 8)

In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimaso ricchissimo. Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie, s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva.
La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in disidero d’uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ‘l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l’aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio, cominciò a fare la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s’era.
Ora avvenne che uno venerdì quasi all’entrata di maggio essendo un bellissimo tempo, ed egli entrato in pensier della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta. Ed essendo già passata presso che la quinta ora del giorno, ed esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse, e maravigliossi nella pigneta veggendosi; e oltre a ciò, davanti guardandosi vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e dà pruni, piagnendo e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsiere nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa ad una ora maraviglia e spavento gli mise nell’animo, e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma, senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone, e cominciò a farsi incontro a’cani e contro al cavaliere.

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Sandro Botticelli: 1° pannello

Ma il cavalier che questo vide, gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare, lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato.»
E così dicendo, i cani, presa forte la giovane né fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopraggiunto smontò da cavallo.
Al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so chi tu ti sé, che me così cognosci; ma tanto ti dico che gran viltà è d’un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda, e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica; io per certo la difenderò quant’io potrò».
Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, ed eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei, che tu ora non sé di quella de’ Traversari, e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene etternali dannato. Né stette poi guari tempo che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu ed è dannata alle pene del ninferno. Nel quale come ella discese, così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nimica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sì come tu vedrai incontanente, le caccia di corpo, e dolle mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio che ella, sì come la giustizia e la potenzia d’Iddio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla; e avviene che ogni venerdì in su questa ora io la giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai; e gli altri dì non creder che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi né quali ella crudelmente contro a me pensò o operò; ed essendole d’amante divenuto nimico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitare quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia mandare ad esecuzione, né ti volere opporre a quello che tu non potresti contrastare». 
Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi addietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il cavaliere. Il quale, finito il suo ragionare, a guisa d’un cane rabbioso, con lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e da’ due mastini tenuta forte gli gridava mercè; e a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla dall’altra parte. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, così cadde boccone, sempre piagnendo e gridando; e il cavaliere, messo mano ad un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa d’attorno, a’ due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a’ suoi famigli se ne tornò, e appresso, quando gli parve, mandato per più suoi parenti e amici, disse loro: «Voi m’avete lungo tempo stimolato che io d’amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m’impetriate, la quale è questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer Paolo Traversaro e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi vi piacerà, qui sieno a desinar meco. Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora».
A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare e promissongliele; e a Ravenna tornati, quando tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v’andò con gli altri insieme. Nastagio fece magnificamente apprestare da mangiare, e fece le tavole mettere sotto i pini d’intorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel donna; e fatti mettere gli uomini e le donne a tavola, sì ordinò, che appunto la giovane amata da lui fu posta a sedere dirimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire.
Essendo adunque già venuta l’ultima vivanda, e il romore disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato ad udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse, e niun sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e ‘l cavaliere e’ cani; ne guari stette che essi tutti furon quivi tra loro.

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Sandro Botticelli: 2° pannello

Il romore fu fatto grande e a’ cani e al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempiè di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v’avea (ché ve ne avea assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano e dell’amore e della morte di lui) tutte così miseramente piagnevano come se a sé medesime quello avesser veduto fare.
La qual cosa al suo termine fornita, e andata via la donna e ‘l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e vari ragionamenti; ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita, e conosciuto che a sé più che ad altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggir dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi. E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide (il quale quella medesima sera prestato le fu) che ella, avendo l’odio in amore tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacer d’andare a lei, per ciò ch’ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie.
La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, gli fece risponder che le piacea. Per che, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d’esser sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto; e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono, che prima state non erano.

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Sandro Botticelli: 3° pannello

A Ravenna, antichissima città della Romagna, vissero uomini nobili e ricchi, tra i quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, che aveva ereditato un’immensa eredità, in seguito alla morte del padre e dello zio. Egli, come di solito capita ai giovani, essendi scapolo, s’innamorò di una delle figlie di messer Paolo Traversaro, una giovane molto più nobile di lui, sperando di farla innamorare con grandi cortesie. Sebbene esse furono grandi, belle e degne di lode, non solo non gli giovarono, ma sembravano produrre l’effetto contrario; tanto la giovane amata gli si mostrava crudele, scontrosa e scortese, forse a causa della sua bellezza e nobiltà ed era diventata così altezzosa e superba, che non le piaceva né lui né le cose che lui apprezzava. Tutto questo era per Nastagio difficile a sopportare, che, dopo essersi doluto, spesso pensò di uccidersi; poi, pur trattenendosi dal farlo, tante volte cercò di convincersi di lasciarla stare o, se avesse potuto, odiarla allo stesso modo in cui lei odiava lui. ma inutilmente, però, perché quanto più sembrava svanisse ogni speranza tanto lui moltiplicava l’amore.
Continuando il giovane ad amarla e allo spendere in modo smisurato, ai suoi amici e ai suoi parenti sembrò che lui fosse in procinto di perdere se stessi e i suoi beni; per cui più volte lo pregarono e lo consigliarono di partire da Ravenna  per andare a stare per qualche tempo in un altro posto, in modo che, facendo così, facesse diminuire l’amore e le spese. Nastagio più spesso si prese gioco di questo consiglio, ma essendo da loro sollecitato (a farlo) non potendo più rifiutarsi, lo promise e fatti imponenti preparativi, come se dovesse andare in Francia o in Spagna o in un altro lontano paese, montato a cavallo e con molti compagni uscì da Ravenna per andare in un posto che distava circa tre miglia da Ravenna, Classe. Qui Nastagio si fece portare padiglioni e tende e disse ai suoi amici che voleva rimanere lì e li invitò a rientrare in città. Accampatosi lì Nastagio cominciò a condurre la più bella e magnifica vita che mai avesse fatto, invitando a cena or questi o quelli, come era solito fare.
All’inizio di maggio, in una giornata bellissima, pensando alla donna crudele, chiedendo a tutti i suoi familiari di lasciarlo solo per immergersi più semplicemente nei suoi pensieri e camminando lentamente giunse all’interno di una pineta. Era quasi mezzogiorno quando, entrato per mezzo miglio all’interno della pineta, dimentico di mangiare, sentì improvvisamente una donna emettere un grandissimo pianto ed altissimi lamenti;  per cui, interrotto il pensiero della donna, alzò la testa per vedere e si meravigliò del posto in cui si trovava, tanto era stato immerso nella sua immaginazione. Guardò quindi davanti a sé e vide venire attraverso il bosco ricco di arbusti e rovi, una bella giovane nuda, scapigliata e graffiata da rami e cespugli che piangeva ed urlava pietà. A fianco a lei vide due grandi e feroci mastini che rabbiosamente la inseguivano e, quando la raggiungevano la mordevano; e dietro di lei vide un cavallo nero con sopra un cavaliere vestito di nero, molto crudele nel volto, con uno spadino in mano, minacciandola di morte con parole spaventose e insolenti. Dapprima Nastagio fu colto da stupore  e paura nello stesso tempo, poi da compassione per la donna sfortunata, e quindi nacque la voglia di liberarla da una così crudele angoscia e certa morte, se fosse possibile riuscirci. Ma trovandosi senza armi, si adattò a raccogliere un ramo d’albero da utilizzare come bastone e andò verso i cani e il cavalieri.
Ma il cavaliere, vedendolo, da lontano gli disse: «Nastagio, non ti intromettere, lascia fare a me e ai cani ciò che questa malvagia donna ha meritato».
Mentre diceva ciò i cani raggiunsero la donna e la bloccarono e il cavaliere smontò da cavallo per raggiungerla, ma Nastagio, avvicinandolo, disse: «Non chi tu sia e come mai conosci il mio nome, ma intanto ti dico che è un gesto di gran villania per un cavaliere voler uccidere una donna nuda e di averle messo dei cani alle costole come fosse un animale selvatico: certamente, per quanto potrò, la difenderò. 
Gli rispose il cavaliere: «Nastagio, io fui della tua stessa terra, e tu eri ancora un piccolo bambino quando io, messer Guido degli Anastagi, ero molto più innamorato di questa donna di quanto tu oggi lo sia di quella della famiglia dei Traversari e a causa della sua superbia e crudeltà, il mio stato infelice crebbe tanto, che un giorno con questo spadino, che tu mi vedi in mano, poiché ero giunto alla disperazione, mi uccisi. Non passò molto che costei, che mostrò di essere estremamente felice per la mia morte, morì e per il peccato della sua crudeltà e della sua contentezza per le mie disgrazie, poiché non si pentì, ma credeva con il suo atteggiamento di non aver peccato, anzi di aver fatto un atto meritorio, come me è dannsta alle pene dell’Inferno. Lì ci fu dato come pena a lei di fuggirmi e a me, che l’amai tanto, di inseguirla come un mortale nemico e non come donna desiderata, e ogni volta che la raggiungo tante volte la colpisco con la spada con la quale mi uccisi. Quindi le apro uno squarcio sulla schiena e le strappo le interiora ed il cuore, che non permise entrassero amore e pietà per me, e li do ai cani. Non trascorre poi tanto tempo  che lei, secondo la giustizia e la potenza di Dio, come se non fosse stata uccisa, risorge e di nuovo ricomincia la dolorosa fuga, l’inseguimento dei cani e il mio. E accade che ogni venerdì, più o meno a quest’ora, io arrivo qui e faccio strazio del suo corpo come vedrai, e non credere che gli altri giorni ci riposiamo, ma la raggiungo in altri luoghi  dove lei pensò e mise in atto atteggiamenti rivolti contro di me. Ora essendole diventato da amante a nemico sono condannato ad inseguirla tanti anni quanti furono i mesi che ella fu crudele nei miei confronti. Dunque lasciami eseguire la giustizia divina e non opporti a ciò che Dio non ti permetterebbe di contrastare».
Nastagio, dopo aver udito ciò, pieno di paura e con i peli rizzati sulla pelle, indietreggiò e, guardando alla povera giovane, aspettò timoroso di vedere che cosa le facesse il cavaliere che, finito di parlare, come un cane rabbioso con la spada in mano corse contro la ragazza che in ginocchio, ma trattenuta dai mastini, gli chiedeva pietà ma con tutta la forza la colpì in mezzo al petto e la trapassò. Appena ricevuto il colpo, la giovane cadde bocconi, continuando a piangere e a gridare: il cavaliere, preso un coltello la squarciò all’altezza delle reni e tirato fuori il cuore e le altre interiora le gettò ai cani che, affamati, le divorarono. Ma non passò molto tempo che la giovane, come se non gli fosse accaduto nulla, improvvisamente si sollevò in piedi e ricominciò a correre verso il mare con i cani ad inseguirla per morderla e il cavaliere, ripreso lo spadino, rimontò in sella a rincorrerla e in brevissimo tempo di dileguarono tanto che Nastagio non poté più vederli. 
Lui, dopo aver visto questa cose rimase per molto tempo in una condizione commista tra pietà e paura; in seguito pensò di poter trarre vantaggio da questo avvenimento, dal momento che si ripeteva in modo uguale ogni venerdì. Quindi, segnato il luogo, tornò dai suoi servitori e in seguito, quando gli sembrò opportuno, convocata la maggior parte di parenti e amici, disse loro: «Voi mi avete spinto a smettere di amare questa mia nemica e ponga fine al gettare il mio denaro per lei, ed io lo farò certamente nel caso voi otteniate una grazia per me, che è la seguente: venerdì prossimo fate in modo che messer Traversari con moglie, figlia e tutto il parentado femminile e chiunque altro vi piacerà, siano qui a mangiare con me. Quello che io voglio ottenere con questo, lo vedrete in quel momento». 
A coloro cui tale richiesta fu rivolta parve piccola cosa da eseguire e, tornati a Ravenna e quando fu il momento invitarono coloro che Nastagio aveva chiesto e sebbene non fu facile convincere la ragazza che lui amava, alla fine vi andò insieme ad altre donne. Nastagio fece preparare un pasto sontuoso, mettendo i tavoli sotto i pini, intorno a quel luogo in cui aveva visto lo strazio della donne crudele, e ordinò ai servi di mettere gli uomini e le donne a tavola e che la donna fosse messa a sedere di fronte al luogo dove sarebbe accaduta la scena.
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Sandro Botticelli: 4° pannello

Giunti all’ultima portata si cominciò a percepire il rumore della giovane inseguita. Tutti si meravigliarono molto e si domandarono cosa fosse, ma non sapendolo nessuno si sollevarono in piedi per guardare e videro la donna dolorosa, i cani e il cavaliere. Si levarono molte grida contro di loro e moti avanzarono per aiutare la giovane, ma il cavaliere, parlando loro come aveva parlato a Nastagio non solo li fece indietreggiare ma li spaventò e li riempì di meraviglia e facendo quello che il venerdì precedente aveva fatto, quante donne erano presenti (ce n’erano molte che erano state congiunte della giovane donna o del cavaliere e che ricordavano l’amore e la morte di lui) tutte piangevano come se avessero subito loro stesse la punizione inflitta alla donna. La visione dell’inseguimento e del supplizio, non appena fu giunta al termine e la donna e il cavaliere se nje furono andati via, indusse coloro che vi avevano assistito a molti e diversi discorsi: Ma tra coloro che si spaventarono di più, ci fu la donna crudele amata da Nastagio, che, vista ogni cosa, aveva capito che riguardavano se stessa più degli altri presenti, ripensando alla crudeltà avita sin da allora verso Nastagio, tanto che già si vedeva scappare di fronte a lui adirato e inseguita da cani. 
Tanta fu la paura che quello che vide le procurò che, affinché non avvenisse, non appena ebbe l’occasione – ciò fu la sera di quel medesimo giorno – ella, avendo mutato l’odio in amore, mandò in gran segreto una sua cameriera da Nastagio e lo pregò, da parte della sua padrona, di voler andare da lei, perché ella era pronta a fare tutto ciò che egli desiderasse: Nastaglio gli risposte che ciò che gli aveva riferito le era molto gradito, ma che nel caso lei fosse stata d’accordo, desiderava portare a compimento il suo desiderio, e questo era possibile prendendola in moglie. La giovane sapeva che non era dipeso da altri se non da lei il fatto di non essere diventava la moglie di Nastaglio, gli fece rispondere che acconsentiva. Per cui, presentando lei stessa la richiesta di matrimonio, disse di voler diventare la sposa di Nastagio ai suoi genitori, che furono, per questo, molto soddisfatti.
La domenica seguente, celebrate le nozze, Nastastagio visse molto tempo felicemente con lei; e la paura non fu solamente il motivo di questo avvenimento lieto, anzi tutte le ravennate divennero donne timorose che in seguito furono molto più arrendevoli ai corteggiamenti degli uomini di quanto lo fossero state prima.   

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Alberto Criscione: Nastagio degli Onesti (2014)

La novella qui presentata mette a fuoco tre nuclei tematici estremamente interessanti:

  1. ambiente feudale, con elementi tratti dalla cultura cortese (la dedizione totale dell’uomo verso la donna, sino al depauperamento del suo patrimonio). E’ evidente che tale ambiente si presenti come “lontano nel tempo” e “raffinato”;
  2. La caccia infernale di dantesca memoria (canto XIII, pena degli scialacquatori, inseguiti e lacerati da morsi di cani rabbiosi); elemento religioso, infatti, con il castigo di Dio che ritiene una “villania” l’amor che a nullo amato amar perdona;
  3. L’elogio dell’intelligenza: Nastagio, dopo un primo momento di smarrimento, sfrutta a suo vantaggio la visione infernale, piegando alla sua volontà la ritrosia della donna.

La novella si chiude con un sorriso, invitando le donne ad essere meno scontrose e riservate alle richieste d’amore; d’altra parte non sempre tali richieste nascono solo per soddisfacimenti carnali, ed è lo stesso Nastagio a mostrarlo: quando la giovane avrebbe acconsentito a qualsiasi richiesta dell’uomo, quest’ultimo le chiede di sposarlo, rientrando così in una richiesta che, forse non più feudale, strizza l’occhio all’etica borghese.

La novella è anche famosa perché nel 1483 Lorenzo il Magnifico ne commissionò la resa pittorica a Sandro Botticelli, per donarla al matrimonio di Giannozzo Pucci. Essa è divisa in quattro pannelli, tre conservati attualmente al Prado (Madrid), il quarto a Palazzo Pucci, a Firenze.

La penultima famosissima novella della quinta giornata è raccontata da Fiammetta, che pur essendo regina, racconterà la storia di Federigo degli Alberighi, lasciando così al decimo narratore, Dioneo, la possibilità data lui di raccontare in piena libertà. 

FEDERIGO DEGLI ALBERIGHI AMA E NON E’ AMATO E IN CORTESIA SPENDENDO SI CONSUMA E RIMANGLI UN SOL FALCONE, IL QUALE, NON AVENDO ALTRO DA’ A MANGIARE ALLA SUA DONNA VENUTAGLI A CASA; LA QUALE, CIO’ SAPPIENDO, MUTATA D’ANIMO, IL PRENDE PER MARITO E FALLO RICCO.
(V,9)

maraviglioso_boccaccio_jasminetrinca_josafatvagni_foto_umbertomontiroli_0856.JPGJosafat Vagni (Federigo degli Alberighi) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è, uomo di grande e di reverenda autorità né dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo e degno d’eterna fama, essendo già d’anni peno, spesso volte delle cose passate co’ suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare che altro uomo seppe fare. Era usato di dire, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d’arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana. Il quale, sì come il più de’ gentili uomini avviene, d’una gentil donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, né suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva.
Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando, sì come di leggiere adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente vivea, e oltre a questo un suo falcone de’ miglior del mondo. Per che, amando più che mai né parendo gli più potere essere cittadino come disiderava, a Campi, là dove il suo poderetto era, se n’andò a stare. Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertà comportava.
Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento, e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l’anno di state con questo suo figliuolo se n’andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo. Per che avvenne che questo garzoncello s’incominciò a dimesticare con Federigo e a dilettarsi d’uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli, forte disiderava d’averlo ma pure non s’attentava di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro. E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò: di che la madre dolorosa molto, come colei che più non n’avea e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, che per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse.

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Josafat Vagni (Federigo degli Alberighi) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Il giovanetto, udite molte volte queste proferte, disse: «Madre mia, se voi fa che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire.»
La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura aveva avuta, per che ella diceva: «Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo? E come sarò io sì sconoscente, che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre?»
E in così fatto pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d’averlo se ‘l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava. Ultimamente tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo che che esser ne dovesse, di non mandare ma d’andare ella medesima per esso e di recargliele e risposegli: «Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò.»
Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento. La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di diporto se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare. Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d’uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse.
La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza levataglisi incontrò, avendola già Federigo reverentemente salutata, disse: «Bene stea Federigo!» e seguitò: «Io sono venuta a ristorarti de’ danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale che io intendo con questa mia compagna insieme destinar teco dimesticamente stamane».
Alla qual Federigo umilmente rispose: «Madonna, niun danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l’amore che portato v’ho adivenne. E per certo questa vostra liberale venuta m’è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste siate venuta». 
E così detto, vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tenere compagnia a altrui, disse: «Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola».
Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue ricchezze, ma questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere. E oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l’ora tarda e il disiderio grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone e arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato.
Laonde la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede le serviva, mangiarono il buon falcone. E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare: «Federigo, ricordandoti tu della tua preterita vita e della mia onestà, la quale per avventura tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione sentendo quello per che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata. Ma come che tu non n’abbia, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni d’altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t’è caro: e è ragione, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione lasciata t’ha la sua strema fortuna, e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliene porto, io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda. E per ciò ti priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente sé tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato».
Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse. Il quale pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé di partire il buon falcone divenisse più che d’altro, e quasi fu per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse: «Madonna poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi dirò brievemente. Come io udii che voi, la vostra mercé, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l’altre persone s’usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, degno cibo da voi il reputai, e questa mattina arrostito l’avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m’è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare».
E questo detto, le penne e i piedi e ‘l becco le fe’ in testimonianza di ciò gittare davanti. La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d’aver per dar mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell’animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco medesima commendò. Poi, rimasa fuori dalla speranza d’avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo. Il quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ‘nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò.
La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu da’ fratelli costretta a rimaritarsi. La quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima, cioè d’avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: «Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi».
Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: «Sciocca, che è ciò che tu dì? come vuoi tu lui che non ha cosa al mondo?»
A’ quali ella rispose: «Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo.»
Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissima, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.

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Josafat Vagni e Jasmine Trinca (Federigo degli Alberighi e Monna Giovanna) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Dovete sapere che Coppo Borghese Dominichi, che è vissuto nella nostra città e forse ancora vi vive (se non è morto per la pestilenza), uomo di grande e rispettabile autorità ai giorni nostri, illustre per i costumi e la virtù più che per la nobiltà di sangue, degno di essere ricordato lungamente, essendo già in là con gli anni, spesse volte si divertiva a parlare del passato con i suoi vicini ed altri cittadini, cosa che lui sapeva fare meglio e con maggior chiarezza, memoria ed eleganza di chiunque altro. Egli, tra le cose piacevoli, era solito raccontare che a Firenze visse un giovane di nome Federigo degli Alberighi, notevole più di ogni altro giovane della Toscana per l’esercizio delle armi e per la cortesia. Costui, così come avviene agli uomini nobili, s’innamorò di una giovane nobildonna di nome Giovanna, ritenuta ai suoi tempi una delle più belle e costumate donne di Firenze, e affinché lui potesse conquistarne l’amore, faceva giostre, si esibiva nell’uso delle armi, organizzava feste e mostrava grande generosità; ma lei non meno onesta che bella, non si curava di queste cose fatte per lei né chi le faceva.
Federigo, avendo speso più della sua possibilità e non ottenendo nulla, così come naturalmente avviene, le ricchezze sfumarono e cadde in povertà, poiché non gli era rimasto che un piccolo poderetto, delle rendite del quale viveva in grandi ristrettezze ed un falcone, uno dei migliori del mondo. Per questo, amando (madonna Giovanna) sempre più intensamente, ma non potendo vivere in città nel modo in cui desiderava farlo, andò a stabilirsi a Campi dove aveva il piccolo podere. Qui, quando poteva, andando a caccia di uccelli e non chiedendo aiuto a nessuno, sopportava con mirabile pazienza la sua povertà.
Un giorno avvenne che, mentre Federigo era arrivato allo stremo dell’indigenza, il marito di Giovanna si ammalò ed essendo molto ricco, all’apprestarsi della morte, fece il testamento di cui erede fece l’unico figlio e dove questo morisse, ne usufruisse la stessa Giovanna. Stabilito questo, morì. 
Rimasta vedova monna Giovanna, com’è di abitudine per le nostre donne, ogni anno d’estate andava con questo figlio in campagna, in un suo possedimento non lontano dal piccolo podere di Federigo. Ora avvenne che questo ragazzo prese a familiarizzare con Federigo e a divertirsi con gli uccelli e con i cani; avendo inoltre visto il falcone di Federigo e piacendogli straordinariamente, lo desiderava fortemente , ma pur non osava richiederglielo, vedendo l’attaccamento che Federigo aveva per lui. Stando le così le cose, capitò che il figlio di Giovanna si ammalò; per questo la madre essendo molto addolorata, non avendo che lui solo e amandolo quanto più poteva, stando intorno a lui cercava di recargli conforto e spesso lo interrogava chiedendogli che se desiderava qualcosa, pregandolo di dirglielo, perché certamente avrebbe trovato il modo di fargliela avere, se fosse possibile ottenerla. Il giovane, dopo aver udito più volte le richieste materne disse: «Madre mia, se fate in modo che io possa avere il falcone di Federigo, guarirò certamente».
La donna, dopo averlo ascoltato, rimase incerta, pensando a come fare. Sapeva che Federigo l’aveva amata per molto tempo, ma non aveva ricevuto da lei nemmeno uno sguardo, per cui si diceva: «Come manderò qualcuno o come andrò io stessa a richiedergli questo falcone che, per quanto ne sappia, è il migliore tra tutti e oltre a ciò lo tiene in vita? E come sarò io così ingrata da volerlo togliere ad un uomo così gentile cui nessuna altra gioia gli è rimasta?» E trattenuta da questo pensiero, sebbene sapesse che se glielo avesse domandato gliel’avrebbe dato, senza sapere cosa fare, indugiava.
Alla fine tanto vinse l’amore che portava al figlio che fra sé decise di non inviare un servitore, ma di andare lei stessa a chiedere il falcone e di portarglielo, e gli disse: «Figlio mio, rasserenati e pensa di guarire con tutte le forze che ti prometto che la prima cosa che farò domani mattina sarà di andare a prendere il falcone e te lo porterò». Il fanciullo, felice, il giorno stesso mostrò un certo miglioramento.
Il mattino seguente, Giovanna con una compagna, come se vi andasse per piacere, raggiunse la piccola casa di Federigo e domandò di lui. Il giovane, che a causa del tempo non favorevole in quei giorni non era andato a caccia, stava in un piccolo orto e vi faceva eseguire alcuni lavoretti. Egli, avendo sentito che la signora Giovanna, era alla sua porta, con grande meraviglia ma felice, la raggiunse.
Lei, vedendolo arrivare, con il suo fascino femminile gli andò incontro e  avendola già Federigo salutata con riguardo, gli disse: «Stia bene, Federigo» e continuò «sono venuta a risarcirti dei danni che hai subito a causa mia, amandomi più di quanto avresti dovuto fare; e il conforto è tale che io ho piacere oggi di mangiare in modo famigliare con te insieme alla mia compagna».
A cui Federigo rispose: «Non ricordo di aver mai ricevuto alcun danno a causa vostra, ma tanto di quel bene che, se ho mai avuto dei meriti, è stato solo grazie alla vostra virtù e all’amore che ho nutrito per voi; e certamente questa vostra generosa visita mi è molto più gradita di quanto lo sarebbe riavere e il poter spendere tutto ciò che ho già speso in passato, sebbene siate venuta da un ospite povero». Detto ciò le accolse con timidezza nella sua casa e quindi le condusse in giardino e qui non avendo nessuno per far loro compagnia, disse: «Madonna, dal momento che non c’è nessuno (pari alla vostra altezza), questa donna, moglie di questo mio contadino vi terrà compagnia quel tanto che io vada a preparare la tavola».
Egli, con tutto che la sua povertà fosse estrema, non si era ancora accorto quanto avrebbe dovuto, di aver dissipato tutte le sue ricchezze; ma questa mattina non avendo alcuna cosa con cui poter onorare la donna, per amor della quale egli aveva mostrato generosità ad infiniti uomini, glielo fece comprendere. Pieno d’angoscia, maledicendo la sua sorte, andando da una parte all’altra, non avendo denaro né alcuna cosa da impegnare, essendo già tardi e dovendo pur trovare qualcosa che gli permettesse di onorare la donna e non volendo chiedere nulla non solo a uno estraneo, ma neppure al suo stesso contadino, gli venne sotto gli occhi il falcone, che stava appollaiato sopra la stanga, per cui, non avendo altro cui ricorrere, preso e vedendolo grasso, pensò potesse essere degna vivanda per la donna. Perciò, senza più pensarci, gli tirò il collo e lo fece mettere da una fanciulla, dopo averlo spennato e preparato, sullo spiedo affinché arrostisse a dovere; preparata quindi la tavola con tovaglie bianchissime di cui ne conservava ancora qualcuna, con volto felice tornò dalla donna in giardino e il pranzo, per quello che poteva fare lui, era pronto. Quindi la donna con la sua compagna si alzarono e andarono a tavola e, senza sapere che tipo di carne stessero mangiando, insieme con Federigo, che le serviva con estrema devozione, finirono il falcone.
Alzatesi da tavola e dopo aver trascorso piacevolmente il tempo con vari discorsi, sembrando giunto il tempo per la donna di dire il perché era andata da lui, così benevolmente cominciò a parlare a Federigo: «Federigo, ricordandoti la vita passata  e la mia onestà, che tu, per caso, avrai reputato durezza e crudeltà, sono certa che ti meraviglierai della mia audacia, sentendo il motivo per cui io sia venuta qui da te; ma se avessi avuti o avessi figli, se potessi conoscere di quanta forza sia l’amore che noi portiamo verso loro, mi parrebbe certamente che in parte mi avresti perdonata. E sebbene tu non ne abbia, mentre io ne ho uno, non posso venir meno alle leggi di tutte le madri, e dovendola seguire, mi è necessario, contro il mio desiderio e contro ogni regola di convenienza e di dovere, chiederti un dono che ti so immensamente caro; ed è giusto, per il fatto che nessun altra gioia, nessun altro svago, nessuna altra consolazione ti ha lasciato la tua misera condizione; e questo dono è il tuo falcone, di cui il mio bambino si è talmente invaghito, che, se non dovessi portarglielo, ho paura che possa aggravarsi così tanto nella sua malattia, da cui ne deriverebbe la morte. Perciò ti prego, non per l’amore che mi porti, per il quale non sei obbligato in nulla, ma per la tua nobiltà, la quale si è mostrata nell’usare generosità più di qualunque altro, perciò ti prego di donarmelo, affinché io possa dire d’aver tenuto in vita mio figlio grazie a questo dono e mio figlio, per questo, ti sia sempre riconoscente».
Federigo, ascoltando ciò che la donna domandava e sentendo di non poterla accontentare, per quello che gli aveva preparato da mangiare, cominciò in sua presenza a piangere senza riuscire a pronunciare alcuna parola. La donna pensò che il pianto fosse dovuto dal doversi separare dal falcone e fu quasi sul punto di dirgli di non volerlo più; ma, trattenutasi, aspetto che, smesso il pianto, Federigo le rispondesse, che così le disse: «Madonna, dopo che Dio ha voluto che io ponessi il mio amore su di voi, in molte cose ho reputata la sorte contraria a me e mi sono lamentato di lei, ma tutte le cose contrarie capitatemi sono nulla rispetto a oggi, per cui io non avrò mai pace con lei, pensando che voi siete venuta qui alla mia povera casa e quando essa era ricca non veniste mai e che vogliate da me un piccolo dono  e che io non possa donarvelo e perché non possa, ve lo dirò. Come ho sentito che voi, per vostra bontà, volevate mangiare con me, avendo rispetto per la vostra eleganza e virtù, reputai cosa degna e convenevole onorarvi con la vivanda più preziosa secondo la mia possibilità, rispetto a quelle che sono solito offrire ad altre persone;  per cui, ricordandomi del falcone che mi state chiedendo e della sua bontà, lo reputai cibo degno per voi e questa mattina lo avete avuto arrostito sul piatto, e ritenevo di averlo impiegato nel modo migliore; ma vedendo ora che voi lo desideravate in altro modo, mi provoca gran dolore perché non posso servirvi, e credo di non poter mai trovare pace per questo».
Detto questo le pose davanti, in segno di fede, le penne, i piedi ed il becco: La donna, vedendo ed udendo ciò, dapprima lo rimproverò per aver dato in pasto ad una donna un falcone di grande valore ma poi la grandezza d’animo dell’uomo, che la povertà non aveva potuto far diminuire, molto tra sé e sé apprezzò. Poi, non avendo più la speranza di avere il falcone e cominciando a dubitare sulla salute del figlio, estremamente malinconica tornò a casa dal suo ragazzo. Costui o per il dolore di non poter avere il falcone o per la malattia che l’avrebbe comunque ridotto in quello stato, non passarono molti giorni che, con l’immenso strazio della madre, morì.
La donna, dopo esser stata lungo tempo a piangere e a lamentarsi, essendo tuttavia ricchissima e ancora giovane, fu più volte dai fratelli sollecitata a risposarsi. Lei, sebbene non lo volesse, vedendosi continuamente infastidire, ricordando delle virtù di Federigo, soprattutto l’ultima, cioè quella d’aver ucciso un falcone per onorarla, disse ai fratelli: «Volentieri, se vi piacesse, farei a meno di sposarmi; ma se volete che io prenda marito, siate sicuri che non ne prenderò alcuno che non sia Federigo degli Alberighi».
A cui i fratelli, prendendola in giro, dissero: «Stupida, che dici? Come mai vuoi lui che non ha più nulla?»
Ai quali rispose: «Fratelli, ciò che dite è vero; ma preferisco un uomo senza ricchezze che un uomo ricco privo di valore».
I fratelli, sentendo la sua volontà e conoscendo da tempo il valore di Federigo, sebbene lui fosse povero, come lei volle, gli donarono lei con tutte le ricchezze; e vedendo una cotal donna, da lui da sempre amata, diventargli moglie e, oltre a questo, diventando ricchissimo, fattosi miglior amministratore, terminò con lei i suoi anni. 

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Nerina Sam: Federigo degli Alberighi (2015)

La novella nell’impianto e tematica può somigliare a quella di Nastagio. Anche qui un uomo innamorato spende tutti i suoi averi per conquistare la donna del desiderio. La differenza, laddove vi può essere, e nell’ambientazione: se la precedente si può dire della Romagna contemporanea e quindi “maggiormente borghese” vi è naturale il bisogno di atemporalizzarla attraverso l’elemento fantastico; la seconda invece è a Firenze e il tempo è già di per sé favoloso. La storia infatti è raccontata da Coppo di Borghese Domenichi, personaggio realmente esistente (ce lo fa capire la stessa Fiammetta, quando ne mette in forse l’essere ancora in vita per via della peste) quando era già anziano e parlava di un periodo da lui già lontano: ne è spia un linguaggio “arcaico” che definisce Federigo “donzel” giovane nobile. Da tale assunto tutto dipende, a lui è dovuto l’onore, la cortesia e la generosità. Secondo l’insegnamento della letteratura precedente l’omaggio verso la donna è totale. La cancellazione del sé avviene sia in Nastagio che in Federigo: ma potremo dire che nella prima è momentanea per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta,  con la mente occupata dal pensiero della figlia dei Traversari,  in Federigo è essenziale: Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue ricchezze, in quanto l’arrivo di Giovanna gli fa rendere conto d’essere in miseria. 

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Il falcone di Federigo

In questo mondo arcaico, pieno di virtù e cortesia Boccaccio punta il suo sguardo di uomo borghese. Quel mondo così straordinario non è più possibile: l’economia entra in esso e ne stravolge le regole. Il ricco Federigo cade in miseria, solo il soccorso di un amore “borghese” lo può salvare (Giovanna lo sceglie, con l’approvazione dei fratelli) e renderlo da uomo feudale a uomo contemporaneo, trasformandolo da “donzel” a “massaio”. Sembra che Boccaccio ci voglia dire che il mondo da lui sognato sia il figlio delle visioni di entrambi, cioè Federigo marito di Giovanni.

SESTA GIORNATA

La sesta giornata è dedicata a chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno ed è sotto il reggimento d’Elissa. E’ evidente che tale argomento, basato sulla parola, metta in luce l’intelligenza.

La prima novella che leggiamo è quella di Cisti fornaio ed è raccontata da Pampinea.

CISTI FORNAIO CON UNA SOLA PAROLA FA RAVEDER MESSER GERI SPINA D’UNA SUA TRASCURATA DOMANDA.
(VI, 2)

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La novella di Cisti illustrata

Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s’avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s’era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente è, Cisti? è buono?» 
Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’ io dare a intendere, se voi non assaggiaste».
Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l’usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: «Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo»; e con loro insieme se n’andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d’assaggiarne gocciola!»
E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a’ compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri. A’ quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de’ più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: «Figliuolo, messer Geri non ti manda a me». 
Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: «Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così ti risponde, domandalo a cui io ti mando». 
Il famigliare tornato disse: «Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te». 
Al quale Cisti rispose: «Per certo, figliuol, non fa».
«Adunque», disse il famigliare «a cui mi manda?» 
Rispose Cisti: «Ad Arno». 
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ‘ntelletto e disse al famigliare: «Lasciami vedere che fiasco tu vi porti»; e vedutol disse: «Cisti dice vero»; e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo disse: «Ora so io bene che egli ti manda a me», e lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: «Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace».
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbero e per amico.

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Manoscritto con l’episodio di Cisti illustrato

Racconto dunque che, avendo papa Bonifacio VIII, presso il quale messer Geri Spina fu tenuto in grandissima considerazione, inviati a Firenze alcuni suoi ambasciatori per trattative di notevole importanza, ed essendo gli ambasciatori alloggiati in casa di Geri Spina, dal momento che a lui toccava discutere con loro gli interessi del pontefice, accadde che, qualunque fosse il motivo, Geri e gli ambasciatori papali passassero quasi ogni mattina, a piedi, davanti alla chiesa di Santa Maria degli Ughi, dove il fornaio Cisti aveva il suo forno ed esercitava il suo mestiere. E benché la sorte avesse riservato a Cisti un mestiere assai modesto, tuttavia gli era stata tanto propizia nella sua professione, che egli era diventato ricchissimo, e viveva in modo elegante e agiato, senza che mai gli venisse la tentazione di rinunziare al suo mestiere per qualche altro lavoro, avendo nella sua bottega, tra varie altre bontà, sempre i migliori vini bianchi e rossi che si potessero trovare a Firenze o nelle campagne circostanti. Cisti, vedendo ogni mattina passare davanti alla porta della sua bottega messer Geri e gli ambasciatori papali, facendo molto caldo, considerò che sarebbe stato un bel gesto cortese l’offrire loro un buon vino bianco, ma pensando che alla sua condizione sociale e a quella di messer Geri, non gli sembrava cortese avere la presunzione di invitarlo, e dunque pensò tra sé e sé, di fare in modo da indurre lo stesso Geri a invitarsi.
Indossando sempre un corpetto bianchissimo e, sul davanti, un grembiule fresco di bucato che lo facevano sembrare un proprietario di un mulino piuttosto che un fornaio, ogni mattina nell’ora in cui sapeva che messer Geri e gli ambasciatori sarebbero passati, si faceva portare davanti all’uscio della sua bottega un secchio nuovo di stagno d’acqua fresca e una brocca di terracotta, di fabbricazione bolognese, con il suo squisito vino bianco e due bicchieri, che erano tanto lucidi da sembrare d’argento; quindi si sedeva fuori e non appena essi passavano, dopo aver espettorato più volte per richiamare l’attenzione, cominciava a bere con tale gusto questo vino, che ne avrebbe fatto venir voglia ai morti.
Questa cosa fu vista una o due volte da messer Geri, il terzo giorno gli disse: «Com’è Cisti? E’ buono?»
Cisti, alzatosi prontamente in piedi, gli rispose: «Signor sì, ma quanto non ve lo potrei far capire, a meno che voi non lo assaggiaste». 
Messer Geri, a cui il caldo della stagione o la preoccupazione (del compito da svolgere) o forse la gustosa bevuta che aveva visto fare a Cisti, avevano fatto venire sete, sorridendo, rivolto agli ambasciatori disse: «Signori, è cosa opportuna che noi assaggiamo il vino di questo uomo gentile, forse e così buono come dice che non ce ne pentiremo», e insieme a loro s’avvicinò alla bottega di Cisti. Questo, fatta arrivare subito una panca dall’interno, pregò loro di sedersi e ai suoi operai, che già si preparavano a lavare i bicchieri, disse. «Compagni, lasciate fare a me, fatevi da parte perché io so versare il vino non meno bene di quanto sappia infornare il pane; e non crediate di assaggiarne una goccia».
Ciò detto, lui stesso, lavati quattro bicchieri belli e nuovi, e fatto venire una piccola fiaschetta di buon vino, con accortezza diede da bere a messer Geri e ai suoi compagni. A loro il vino parve il migliore che da molto tempo essi ebbero bevuto, per cui, lodatolo molto, per tutto il tempo che gli ambasciatori rimasero a Firenze insieme a messer Geri, quasi ogni mattina andarono a berlo.
Avendo gli ambasciatori terminato il loro lavoro e dovendo ripartire, messer Geri ritenne opportuno offrire un magnifico banchetto, al quale invitò i cittadini più importanti ed anche Cisti, che tuttavia a nessuna condizione ci volle andare. Messer Geri allora comandò ad un suo servitore di andare a chiedere a Cisti un fiasco del suo vino e che di quello si servisse mezzo bicchiere a ciascuno con la prima portata. Il servitore, forse arrabbiato perché mai aveva potuto assaggiare quel vino, prese un fiasco grande, che, appena Cisti, vide, gli disse: «Figliolo, messer Geri non ti manda da me».
Più volte il servitore gli disse che così era, ma non potendo avere altra risposta da Cisti, tornò da Geri e gliela riferì.
A cui messer Geri: «Torna da lui e digli che ti mando io e se egli ti dovesse rispondere come prima, domandagli da chi altri ti debba mandare».
Tornando il servitore da Cisti: «Cisti, è sicuro che messer Geri mi manda da te»
A cui Cisti rispose: «Figliolo, e certo che non è così»
Ed il servitore: «Da chi mi deve mandare?»
Rispose Cisti: «All’Arno»
Riportando il servitore questo, Cisti capì immediatamente il senso della risposta e gli disse: «Fammi vedere il fiasco che gli hai portato» e dopo averlo visto, aggiunse: «Cisti dice la verità» e rimproveratolo, gli fece portare un fiasco della misura giusta.
Cisti vedendo il nuovo fiasco disse: «Ora sono sicuro che ti manda da me» e, con gioia, lo riempì.
E poi, quello stesso giorno, fatta riempire una piccola botte con un vino della stessa qualità, e fattala portare con attenzione a casa di Geri, dopo se ne andò lì, e, trovando messer Geri gli disse: «Signore, io non vorrei che lei credesse che il gran fiasco di stamane mi abbia spaventato, ma, sembrandomi che vi foste dimenticato che io in questi giorni con dei piccoli contenitori via abbia mostrato che questo non è vino di poco valore, volli stamattina ricordarvelo. Ora non ho più intenzione di esserne geloso e ve l’ho mandato tutto, fatene, per il futuro, ciò che volete.
Messer Geri considerò il vino di Cisti un dono graditissimo e lo ringraziò nel modo che gli sembrò adatto a simile dono; e da quel momento in avanti lo considerò uomo di grande valore e degno della sua amicizia.  

La novella di Cisti è sintomatica dell’intera giornata: risulta infatti evidente come essa sia stata costruita intorno alla battuta dello stesso fornaio e come, molto probabilmente, tale battuta fosse patrimonio comune di modi di dire del popolo fiorentino.

Essa tuttavia costituisce un valido esempio per riaffrontare quel dibattito forse allora ancora molto acceso che appare come argomentazione su cui  Pampinea costruisce in seguito la sua narrazione: si tratta appunto d’individuare cosa sia la cortesia (con tutti i suoi attributi) e dove essa risieda; la risposta è appunto Cisti fornaio, uomo della Arti minori a cui la sorte ha attribuito un animo nobile.

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Manoscritto francese con l’episodio di Cisti illustrato

Tuttavia tanta “luminosità” nell’illustrare il carattere del protagonista lascia qualche ombra di dubbio: certamente egli è cortese, ma la sua cortesia e quindi generosità, mira ad uno scopo, quello di essere considerato e quindi apprezzato dalla classe nobiliare; non è un caso che tale “generosità” non venga elargita ai sottoposti, a cui nega recisamente fosse anche solo una goccia del suo prezioso vino.

Nella piccola novella sembra quindi riaffiorare il disegno politico/sociale al quale Boccaccio fa riferimento: così Cisti può raffigurare il borghese che, con la sua industriosità si fa ricchissimo, nel contempo mostra la volontà di non superare i limiti, cioè di non volersi confondere con la classe sociale superiore; ma ciò viene anche ribadito nel momento in cui nega questa possibilità ai suoi sottoposti, lasciando il “proletariato” al suo posto, affinché anch’esso non si confonda con la borghesia arricchita.   

La novella che vede protagonista Guido Cavalcanti viene narrata dalla regina stessa, Elissa:

GUIDO CAVALCANTI DICE CON UN MOTO ONESTAMENTE VILLANIA A CERTI CAVALIER FIORENTINI LI QUALI SOPRAPPRESO L’AVEANO.
(VI, 9)

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Manoscritto francese che illustra la novella di Cavalcanti

Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate. Tra le quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l’uno, doman l’altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de’cittadini; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella città.
Tra le quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni s’eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de’Cavalcanti, e non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo, e credeva egli co’suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva. E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: «Andiamo a dargli briga»; e spronati i cavalli a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: «Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?»
A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace»; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.
Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro.
Alli quali messer Betto rivolto disse: «Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra».
Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.

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La piazza cimitero interposta tra Battistero e Basilica alla fine del XIII secolo, descritta nella novella su Guido Cavalcanti

Dovete sapere che in passato nella nostra città ci furono delle usanze bellissime e molto lodevoli, di cui oggi non ne è rimasta neppure una, grazie al fatto che l’avarizia, naturalmente insieme all’aumentata ricchezza, le ha bandite. Tra queste ve n’era una per cui in diversi luoghi si radunavano un certo numero di uomini nobili delle varie contrade cittadine e si univano in gruppi di un certo numero di persone, preoccupandosi di accogliervi solo quanti potessero sostenere agevolmente le spese, e una volta per uno offrivano il pranzo, ognuno nel suo giorno stabilito, a tutta la brigata. E in essa spesso invitavano nobili forestieri, quando per caso si trovavano a Firenze, ed anche altri rispettabili concittadini: gli appartenenti a questi gruppi si vestivano in modo simile almeno una volta l’anno, e insieme durante le feste cavalcavano per la città, duellavano e si esercitavano con le armi, soprattutto nelle festività più importanti o quando giungeva in città una lieta notizia di una vittoria militare o altro di notevole riguardante la città.
Tra queste brigate vi era quella di Betto Brunelleschi, nella quale lo stesso Betto ed i suoi compagni s’erano ingegnati di farvi partecipare Guido, figlio di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza motivo: infatti egli era uno dei maggiori pensatori del mondo e un ottimo filosofo naturalista (di queste virtù la brigata poco si interessava), inoltre fu persona molto eloquente nel parlare e ogni cosa che volesse fare adatta ad un nobile egli la seppe fare in modo migliore di ogni altro; oltre a ciò era ricchissimo e quanto più si può richiedere sapeva onorare chi riteneva ne fosse degno. Ma messer Betto non era mai riuscito ad averlo nella propria compagnia, e pensava, insieme ai suoi compagni, che ciò fosse dovuto per il fatto che Guido, spesso dedicandosi a profonde riflessioni, si allontanasse molto dagli altri uomini, e siccome protendeva molto per le teorie degli epicurei, si chiacchierava tra il popolino che tutti i suoi pensieri tendessero a cercare di provare l’inesistenza di Dio.
Un giorno Guido, partito da Orto San Michele e camminando per il corso degli Adimari, era giunto al Battistero di San Giovanni, percorso abituale per lui; intorno a San Giovanni c’erano grandi sarcofagi di marmo, che oggi sono a Santa Reparata, e molti altri; mentre Guido si trovava tra le colonne di porfido, i sarcofagi e la porta del Battistero chiusa, passarono per piazza Santa Reparata messer Betto e i suoi compagni che vedendo Guido tra quei sarcofagi dissero: «Andiamo a dargli fastidio» e, dato lo sprone ai cavalli, come in un assalto scherzoso, gli furono addosso prima che lo stesso se ne accorgesse e gli cominciarono a dire: «Guido, tu ti rifiuti di esser parte della nostra compagnia; ma una volta che hai dimostrato l’inesistenza di Dio cosa ci guadagni?»
A loro Guido, vedendo da loro chiuso, subito rispose: «Signori, voi a casa vostra mi potete dire tutto quello che volete» e messa la mano sopra un’arca, poiché era leggerissimo, con un balzo si gettò dall’altra parte e, liberatosi di loro, se ne andò.
Questi rimasero attoniti, guardandosi l’un con l’altro e cominciarono a considerarlo pazzo e che la sua risposta non significava nulla, poiché là dov’erano non era di più di loro di quanto non fosse dello stesso Guido:
A loro rispose messer Betto: «I pazzi siete voi, che non l’avete capito: egli in modo garbato e in poche parole ci ha recato un’offesa più grande del mondo perché, se poneste bene attenzione, questi sarcofagi sono le case dei morti, in quanto in essi riposano i morti, e ci dice che sono la nostra casa, dimostrandoci che noi e gli altri uomini siamo ignoranti e non colti a differenza di lui e degli altri intellettuali, e quindi peggio dei morti e perciò, in mezzo ai sarcofagi, siamo a casa nostra».
Allora tutti capirono cosa Guido intendesse dire e si vergognarono e non gli diedero più fastidio e considerarono da quel momento in poi messer Betto un cavaliere intelligente ed acuto.

La novella ha certamente come antecedente il canto X dell’Inferno dantesco: ne sono spia la presenza delle arche e quella dell’epicureo Cavalcanti; ma nondimeno il Boccaccio tiene presente anche il Villani, autore di una cronaca della città di Firenze in cui il poeta fiorentino appare sdegnoso e solitario, ma innamorato profondamente degli studi filosofici.

Con questi elementi Boccaccio costruisce la sua novella che possiamo analizzare a partire dal rimpianto del bel tempo antico, impossibile al presente a causa della ricchezza e dell’avarizia (topos della cultura trecentesca fiorentina), dove vi regnava una allegra socialità fatta di nobili giovani che dominavano con la cortesia la vita raffinata di Firenze. Quindi la presentazione di Betto (Benedetto) Brunelleschi, uno dei più eminenti rappresentanti del partito guelfo, il quale, da giovane nobile, dedito a divertimenti cavallereschi, ma anche da fine intellettuale, vorrebbe inserire nella sua compagnia il maggiore intellettuale allora esistente, appunto Cavalcanti ma, sottolinea Boccaccio, come forma di prestigio, più che per le sue qualità.

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Manoscritto del Decameron dove viene rappresentato l’incontro di Betto Brunelleschi e Guido Cavalcanti

Qui entra in gioco Dante a dar forma all’idea boccacciana di Cavalcanti: riprende il paesaggio infernale delle tombe infuocate e le pone realisticamente sul suolo, tra l’Orto di San Giovanni ed il Battistero, dove effettivamente erano; gli dà l’appellativo di epicureo ed è proprio nel girone degli epicurei che Dante inserisce il papà di Guido, ma per parlare del figlio. Ma a Boccaccio serve anche Villani, che lo disegna come un asociale che sdegna i divertimenti dei suoi coetanei.

La battuta criptica che guido fa alla brigata di Betto diventa una vera e propria sfida all’intelligenza e se l’autore del Decameron si astiene dal giudicare l’uomo, non può fare a meno di ammirare (per meglio dire farci ammirare attraverso il suo scritto) la profonda capacità di “giocare con le parole” attraverso la metafora della mancanza di cultura come morte.      

SETTIMA GIORNATA

La settima giornata viene affidata a Dioneo, il più irriverente tra i dieci novellatori: infatti spetta a lui la libertà di poter uscire dal tema proposto, e, quasi sempre, ogni suo racconto presenta il tema dell’eros, come fattore di libertà e di piacevolezza. Non vi è nella sua figura alcuna cosa che lo allontani dall’idealizzazione della brigata, viceversa, il suo novellare, spesso, porta equilibrio tra i ragazzi (si pensi alla quarta giornata, dove il senso del pathos domina, e Dioneo che narra una storia divertente di un amante nascosto in una tomba, rubata da due ladri). D’altra parte è lo stesso suo nome a portare questa ventata di naturalità sessuale, infatti Dioneo sembra derivi da Dioniso, dio dell’ebbrezza e dell’eccesso. Il tema da lui scelto è in linea con quanto detto: delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte à lor mariti, senza esserne avveduti o sì.

La novella che segue ci è raccontata da Filostrato, che la premette da una considerazione generale: se si sa che gli uomini si fanno gioco delle mogli, può anche accadere che qualche donna si faccia beffe del marito: di questo le donne dovrebbero essere contente non solo nel saperlo, ma anche nel ridirlo, tanto che infine si sappia, da entrambi le parti, che tutti conoscono tutti, tanto da far sì che ci sia più attenzione (e forse rispetto) da parte di tutti.

PERONELLA METTE UN SUO AMANTE IN UN DOGLIO, TORNANDO IL MARITO A CASA; IL QUALE AVENDO IL MARITO VENDUTO, ELLA DICE CHE VENDUTO L’HA AD UNO CHE DENTRO V’E’ A VEDERE SE SALDO GLI PARE. IL QUALE SALTATONE FUORI, IL FA RADERE AL MARITO, E POI PORTARSENELO A CASA SUA.
(VII, 2)

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Illustrazione in un codice del Decameron

Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l’arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con esso lei si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse; e così molte volte fecero.

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Angela Luce nelle vesti di Peronella nel Decameron di Pasolini (1971)

Ma pur tra l’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire: «O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie. Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse».
Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse: «Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c’entrasti. Ma, per l’amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa».
Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all’uscio aprì al marito, e con un malviso disse: «Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co’ ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio che n’arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare».
E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo: «Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s’ha recata a casa. L’altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non n’abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a’ mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre. Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare».
Disse il marito: «Deh donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero ch’io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d’un mese, ché io ho venduto a costui, che tu vedi qui con meco, il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati».
Disse allora Peronella: «E tutto questo è del dolor mio: tu che se’ uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’ mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ‘mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo era».
Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso: «Buon uomo, vatti con Dio; ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque».
Il buono uomo disse: «In buona ora sia»; e andossene.
E Peronella disse al marito: «Vien su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri».
Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire: «Dove se’, buona donna?» Al quale il marito, che già veniva, disse: «Eccomi, che domandi tu?» 
Disse Giannello: «Qual se’ tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio».
Disse il buono uomo: «Fate sicuramente meco, ché io son suo marito».
Disse allora Giannello: «Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto».
Disse allora Peronella: «No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto».
E il marito disse: «Sì bene»; e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l’un de’ bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: – «Radi quivi, e quivi, e anche colà»; e: «Vedine qui rimaso un micolino».
E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.
Per che Peronella disse a Giannello: «Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo».
Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare.

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Celedonio Perellón: Peronella (2005)

Non è passato molto tempo da quando a Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e amabile giovinetta il cui nome era Peronella. Essi, ognuno con il proprio lavoro, lui il muratore, lei la filatrice, guadagnando assai poco, cercavano di tirare al meglio la loro vita. Un giorno avvenne che un giovane tra i più galanti, vedendo Peronella e piacendogli molto, se ne innamorò e ora in un modo ora in un altro tanto la corteggiò che infine prese dimestichezza con lei. Per poter stare insieme i due decisero che, dal momento che il marito per andare a lavorare si alzava ogni mattina piuttosto presto, il giovane si mettesse in una parte per vederlo senza essere a sua volta visto ed essendo la strada, chiamata via Arborio, piuttosto isolata, una volta uscito lui entrasse in casa di Peronella e così più volte fecero.
Tuttavia un giorno accadde che, essendo il buon uomo uscito e Giannello Scrignario, questo era il nome del giovane amante, stando in casa insieme a Peronella, dopo un po’ tornò a casa, cosa che di solito non succedeva mai. Trovata la porta chiusa e dopo aver bussato tra sé disse: «O Signore, sii sempre tu lodato! Sebbene mi abbia fatto povero, almeno mi hai consolato con una bella e onesta moglie! Guarda come si è chiusa dentro non appena sono uscito, affinché non potesse entrare nessuno che le desse noia».
Peronella, sentendo il marito, riconosciuto dal suo modo di bussare, disse: «Povera me! Giannello mio, sono morta che è tornato mio marito, gli venga un accidente e non so che cosa dire, visto che non è mai arrivato a quest’ora, forse ti ha visto quando sei entrato! Ma, per amor di Dio, comunque stiano le cose, entra in questa botte qui, che vado ad aprirgli,  e vediamo cosa a dire per essere tornato così presto questa stamattina.»
Giannello entrò subito nella botte e Peronella, raggiunta la porta aprì e con voce adirata disse al marito: «Che novità è questa di tornare così presto a casa? Da quello che mi sembra di capire, tu oggi non vuoi lavorare, che ti vedo con i ferri in mano; se fai così, di cosa vivremo? come avremo noi il pane? credi che io non soffra a vederti impegnare la gonna e altri miei vestiti, che non faccio che filare notte e giorno, tanto che mi è staccata la carne dall’unghia, per poter avere almeno dell’olio per la nostra lanterna? Marito, marito, non c’è nessuna che non si meravigli e si faccia beffe di me, per tutta la fatica che mi tocca sopportare, che tu mi torni con le braccia penzoloni quando dovresti essere a lavorare». Detto questo cominciò a piangere e aggiunse: «Povera me! Disgraziata! Che tempi mi tocca vivere, sotto quale cattiva stella sono nata! Che avrei potuto avere un giovane a posto e non l’ho voluto, per prendere costui che non pensa a chi si è portato in casa! Le altre si divertono con gli amanti e non ce n’è nessuna che non ne abbia almeno due o tre, e godono e fanno scambiano ai loro mariti la luna per il sole; ed io, poiché sono onesta, e non faccio tali storie, mi capitano disgrazie e sfortuna, non so perché non mi prenda anch’io degli amanti come tutte l’altre! Capisci bene, marito mio, che se volessi far del male, lo troverei e so anche con chi, perché ci sono dei galanti che mi amano e mi hanno promesso molti soldi o vestiti e gioielli; ma non ho mai ceduto, che non sono nata da una donna volgare; e tu che, torni a casa quando dovresti lavorare!»
Disse il marito: «Su, donna mia, non rattristarti, per Dio! E’ pur vero che io ero andato a lavorare, ma è evidente che tu non lo sapevi, come io non sapevo. Oggi è la festa di San Galeone e non si lavora e per questo sono tornato a casa; ma io ci ho pensato  e trovato il modo di avere il pane per più di un mese, perché io venduto a quest’uomo, che tu vedi qui con me, la botte, che sai che è d’impiccio nella nostra casa, e me ne dà cinque gigliati».
Disse allora Peronella: «Anche tutto ciò è causa del dolore mio: tu che sei un uomo e che dovresti sapere quali siano i prezzi del mercato, hai venduto una botte per cinque gigliati, che io povera donna che non sono mai stata fuori di casa mia, l’ho venduto a sette gigliati a un buon uomo che, quando stavi per tornare, vi entrò dentro per vedere se fosse resistente.
Quando il marito sentì questo, fu più contento che mai e disse a colui che era venuto a comprarlo: «Buon uomo, va con Dio, che hai sentito che mia moglie l’ha venduto per sette, mentre tu non me ne volevi dare che cinque».
Rispose il buon uomo: «Sta bene» e andò via.
E Peronella disse al marito: «Dai vieni dentro, visto che ci sei, e vedi con lui i soldi che ti deve dare».
Giannetto, che stava con le orecchie rizzate per capire se dovesse temere qualcosa o prendere dei provvedimenti adatti alla situazione, sentite le parole di Peronella, subito si gettò fuori dalla botte e come se non avesse sentito affatto il ritorno del marito, cominciò a dire: «Dove sei, buona donna?»
A lui il marito, che si avvicinava, disse: «Eccomi, che mi dici?»
Giannello: «Chi sei tu? vorrei la donna con la quale stavo contrattando questa botte»
Disse il buon uomo: «Trattate sicuramente con me, che sono suo marito».
Disse allora Giannello: «La botte mi sembra abbastanza resistente, ma mi sembra che dentro voi ci abbiate tenuto della melma, che è tutto impiastricciato di non so che di secco, che non riesco a scalfire con le unghie, e perciò non lo voglio se prima non risulterà pulito».
Disse allora Peronella: «No, per questo non rimarrà invenduto, mio marito lo pulirà tutto».
E il marito: «Bene», e poggiati gli attrezzi di lavoro in terra e messosi in maniche di camicia, si fece accendere una lanterna e dare un raschiatoio e, entrato dentro, cominciò a raschiare. E Peronella, quasi volesse vedere ciò che il marito facesse, messa la testa e un braccio con tutta la spalla sulla bocca della botte che molto grande non era, cominciò a dire: «Raschia qui e qui e là» e «Guarda qui, ce n’è un pochino anche qui».
E mentre che da quella posizione Peronella indicava e sottolineava al marito (dove operare) Giannello, che in quella mattina non aveva portato a termine il suo piacere, essendo arrivato il marito e considerando che non poteva esaudirlo nel modo desiderato, si adoperò di raggiungerlo come avrebbe potuto e, avvicinatosi a lei, che copriva con il corpo la testa della botte, in quel modo con cui cavalli in calore e pronti all’atto sessuale assalgono le cavalle di Partia, portò a compimento il giovanile piacere, che quasi nello stesso momento terminò mentre la botte fu pulita e il marito venne fuori.
Allora Peronella disse a Giannello: «Buon uomo, prendi questa lucerna e guarda se è pulita come la desideravi».
Giannello, guardato dentro, disse che andava bene e che rimaneva soddisfatto; e datigli sette gligliati si fece portare la botte a casa.  

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Alexander Daniloff: la novella di Peronella

La novella presenta il lato che nella fantasia popolare viene detto boccaccesco, o meglio quello dove l’eros viene esplicitato apertamente; ma anche qui il riferimento è classico, lo stesso episodio, infatti, lo ritroviamo nell’Asino d’oro o Metamorfosi di Apuleio. Esiste infatti nella letteratura greca e conosciuti da noi da quella latina (Petronio e appunto Apuleio) la fabula milesia la cui caratteristica è quella di essere un po’ lasciva, o meglio d’avere degli argomenti il cui riferimento sessuale è abbastanza diretto.

La capacità e l’originalità dell’autore toscano è quella di averla ambientata a Napoli, in un ambiente popolare i cui protagonisti emergono con forza con quelle caratteristiche care a Boccaccio: la stupidità del marito, infatti viene vinta dalla prontezza di Peronella che, con meno aulicità e capacità argomentativa, fa un’arringa al marito alla stregua di quella di Ghismunda al padre cui segue la capacità di Giannello di raggiungere il piacere interrotto. Arte delle parola ed eros, ambedue ottenuti grazie all’intelligenza, basta questo a Boccaccio per farne personaggi vincenti.        

 

DUE SANESI AMANO UNA DONNA COMARE DELL’ALTRO; MUORE IL COMPARE E TORNA AL COMPAGNO SECONDO LA PROMESSA FATTAGLI, E RACCONTAGLI COME DI LA’ SI DIMORI.
(VII, 10)

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Miniatura che ci illustra la novella di Tingoccio e Meuccio

Furono adunque in Siena due giovani popolari, de’ quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per quello che paresse s’amavan molto; e andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della gloria e della miseria che all’anime di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell’altro mondo. Delle quali cose disiderando di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d’uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d’una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo. Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s’innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l’un si guardava dall’altro, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività che a lui medesimo pareva fare d’amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l’avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo, ma perché già avveduto s’era che ella piaceva a Tingoccio. Laonde egli diceva: «Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò».
Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s’accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d’impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.
Così amando i due compagni, l’uno più felicemente che l’altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti dì sì l’aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita. E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva, chiamò.
Meuccio destatosi disse: «Qual se’ tu?»
A cui egli rispose: «Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell’altro mondo».
Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse: «Tu sia il ben venuto, fratel mio»; e poi il domandò se egli era perduto.
Al qual Tingoccio rispose: «Perdute son le cose che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?»
«Deh,» disse Meuccio «io non dico così ; ma io ti domando se tu se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace di ninferno».
A cui Tingoccio rispose: «Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto».
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de’ peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi gli domandò Meuccio s’egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là, a cui Meuccio disse di farlo volentieri.
E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse: «Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t’è di là data?»
A cui Tingoccio rispose: «Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m’era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m’era dal lato, mi disse: “Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco?” “Oh,” diss’io “amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d’un gran peccato che io feci già”. Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: “Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai”. Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: “Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari; il che io udendo tutto mi rassicurai”.
E detto questo, appressandosi il giorno, disse: «Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco»; e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. 

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Tingoccio nel Decameron di Pasolini (1971)

A Siena vissero due giovani popolani, uno dei quali si chiamò Tingoccio Mini, l’altro Meuccio di Tura, e abitavano entrambi a Porta Salaia, e non si frequentavano che fra di loro e sembra si volessero molto bene. E poiché andavano, come fanno tutti gli uomini, in chiesa a sentire le prediche, più volte avevano sentito della gloria e delle pene che era concessa alle anime di coloro che morivano, sulla base dei loro peccati. Di questo fatto, volendo esser sicuri né potendo trovare altro modo, promisero fra di loro che chi dei due prima morisse, se gli fosse stato possibile, sarebbe tornato e gli avrebbe riferito quello che l’altro desiderava sapere; e stabilirono questo con un giuramento.
Dopo aver fatto questa promessa, continuando a frequentarsi, successe che Tingoggio divenne compare di Ambrogio Anselmini, che abitava nella contrada di Camporeggi, che aveva avuto un figlio da sua moglie, chiamata monna Mita. Tingoccio, visitando insieme a Meuccio questa comare, che era bellissima e molto desiderabile, nonostante il rapporto di parentela, s’innamorò; lo stesso capitò a Meuccio, piacendogli molto e sentendo tutte le lodi che Tangoccio le rivolgeva. E questo amore lo tenevano segreto anche fra loro, ma non per lo stesso motivo: Tingoccio si guardava di dirlo a Meuccio per il grave peccato che lui stesso reputava per sé amando la comare e si sarebbe vergognato se qualcuno l’avesse scoperto; Meuccio non per questo, ma perché si era già accorto che lei piaceva a Tingoccio, per cui fra sé diceva: «Se io gli rivelo che so (che lui la desidera), s’ingelosirà di me e potendole parlare a suo piacimento, essendole compare, farà in modo che lei mi odii, tanto da non avere più alcuna cosa che mi piaccia di lei».
Così come detto, essendo i due amici innamorati, successe che Tingoccio, al quale era più semplice svelare il proprio desiderio alla donna, tanto seppe fare che sia con gesti che con parole riuscì a conquistarla. Di questo s’accorse Meuccio e sebbene provasse molto dispiacere, pure, sperando che un giorno potesse anche lui raggiungere il suo desiderio, affinché Tingoccio non avesse né ragione né motivo di guastargli o impedirgli qualcosa, fece finta di non sapere nulla.
Così essendo innamorati entrambi, sebbene uno con più soddisfazioni, successe che Tingoccio, trovando nella comare un terreno estremamente fertile, tanto infilò la zappa e tanto la dissodò che ne cadde malato, e tale infermità si aggravò molto che non potendola più combattere, nel giro di tre giorni morì. Dopo altri tre giorni, poiché forse non aveva potuto prima, come aveva promesso una notte giunse nella camera di Meuccio, che dormiva profondamente, e lo chiamò.
Meuccio svegliatosi disse: «Chi sei?»
A cui rispose: «Sono Tingocco e secondo la promessa che ti ho fatto, sono tornato a darti notizie dell’aldilà»
Meuccio, vedendolo, dapprima si spaventò molto, ma dopo essersi rassicurato disse: «Tu sei il benvenuto, fratello mio!» e poi gli chiese se fosse perduto (nel senso di dannato).
A cui Tingoccio rispose: «Perdute sono le cose che non si trovano più, e come sarei in me stesso se fossi perduto?»
«Ah», disse Meuccio, «ma io non intendevo in quel senso, ma ti chiedo se tu sei tra le anime dannate nel fuoco eterno dell’inferno».
A cui Tingoccio rispose: «Questo no, ma io, per i molti peccati da me commessi, mi trovo giustamente in pene grandissime e piene d’angoscia».
Meuccio gli domandò più precisamente quali fossero queste pene per i peccati commessi in terra e Tingoccio glieli disse tutti. Poi gli chiese se poteva fare qualcosa per lui e Tingoccio gli disse di sì, e cioè di far fare delle messe in suo suffragio, e pregare e fare l’elemosina, perché questi gesti erano molto considerati da quelli di lassù, e Meuccio gli rispose che avrebbe fatto tutto ciò volentieri.
Quando Tingoccio stava per andarsene, Meuccio si ricordò della comare e, sollevata la testa gli disse: «Bene, ora che mi ricordo, Tingoccio: per la comare con la quali facevi l’amore, che pena ti hanno assegnata?»
A cui Tingoccio: «Fratello mio, come arrivai di là, c’era uno che sembrava conoscesse tutti i miei peccati, che mi comandò d’andare in un luogo in cui, con grandissima pena, piansi tutti i miei peccati e dove trovai molti compagni con la medesima pena che mi era stata attribuita; mentre stavo con loro, ricordandomi della comare e aspettandomi per questo una pena maggiore di quella che stavo scontando, sebbene fossi in un gran fuoco e molto bruciato, tremavo completamente per paura. Vedendo questo, uno che mi era a fianco, mi disse: “Che hai tu di più di questi qua, che stai tremando in mezzo al fuoco?”, “Oh”, gli risposi “amico mio, io ho una gran paura del giudizio che mi attende per un peccato che io ho fatto”. Mi domandò allora che peccato fosse, a cui risposi: «Il peccato fu questo: che io facevo l’amore con mia comare e lo feci in modo talmente spesso da rimanerci” E lui, prendendomi in giro per questo, mi disse: «Va, stupido, non preoccuparti che qui non gliene frega niente delle comari!” e io, sentendolo, mi tranquillizzai». E detto questo, facendosi già quasi mattino, disse: «Meuccio, va’ con Dio, che io non posso più rimanere con te» e immediatamente sparì.
Meuccio, dopo aver sentito che non si dava alcuna importanza alle comari. cominciò a pensare alla sua dabbenaggine, dal momento in cui ne aveva risparmiate tante (di comari). Perciò, messa da parte l’ignoranza, si comportò saggiamente.

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Meuccio nel Decameron di Pasolini (1971)

La novella, ambientata a Siena, ci mostra un ambiente popolare, con protagonisti due amici ed uno stesso oggetto del desiderio. Il triangolo costruito qui da Boccaccio ha una forma un po’ particolare: non si tratta di un marito beffato, o di un padre (o fratelli) traditi dall’intemperanza della figura femminile, ma di un rapporto, all’inizio quasi paritario, verso lo stesso oggetto del desiderio, lasciato sullo sfondo.

L’etica vincente non è quella erotica, ma quella amicale, con aspetti interessanti di gelosia: Tingoccio riesce a farsi monna Mita, ma non dice niente all’amico, perché? Forse non vuole offenderlo nell’apparire “più bravo di lui”; Meuccio sa quello che Tingoccio fa con la comare, ma non lo svela: perché? Forse ne è geloso, e aspetta l’occasione buona per fregarlo. C’è insomma qualcosa di torbido in questa amicizia virile, che si dissolve nella scena del sogno. Forse per leggere la sequenza dovremo ricorrere alla psicologia e vedere in essa la proiezione di Meuccio verso l’esuberanza erotica dell’amico e quindi la stessa possibilità, ora che non c’è più, di emularlo.  

 

OTTAVA GIORNATA

L’ottava giornata è governata da Lauretta, la quale ha dettato come tema il seguente: si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro di fanno. 

La prima novella che si racconta sulla figura di Calandrino è di Elissa:

CALANBRINO, BRUNO E BUFFALMACCO GIU’ PER LO MUGNONE VANNO CERCANDO DI TROVAR L’ELITROPIA, E CALANDRINO SE LA CREDE AVER TROVATA; TORNASI A CASA CARICO DI PIETRE; LA MOGLIE IL PROVERBIA, ED EGLI TURBATO LA BATTE, E A’ SUOI COMPAGNI RACCONTA CIO’ CHE ESSI SANNO MEGLIO DI LUI.
(VIII,3)

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Alberto Cascione: Calandrino e l’elitropia (2016)

Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi. Il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa.
E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl’intagli del tabernacolo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario. A’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in pié, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua.
«Oh», disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro?»
Rispose Maso: «Mangiansegli i baschi tutti».
Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai»?
A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille».
Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha?»
Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta».
Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là che Abruzzi».
«Sì bene», rispose Maso «si è cavelle».
Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l’aveva per vere, e disse: «Troppo ci è di lungi a’ fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre cosė virtuose?»
A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l’una sono i macigni da Settignano e da Montisci, per virtù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que’ paesi di là, che da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine; ma ècci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Monte Morello, che rilucon di mezza notte vatti con Dio; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero e portassele al soldano, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidarii appelliamo elitropia, pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è».
Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?»
A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? o che colore è il suo?»
Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è più e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come nero».

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Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso e seco propose di volere cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli.
Ultimamente, essendo già l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze: per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niun’altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca».
Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra se medesimi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome.
A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassomo a cercare senza star più».
«Or ben», disse Bruno «come è ella fatta?»
Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo».
A cui Bruno disse: «Or t’aspetta»; e volto a Buffalmacco disse: «A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga».
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s’accordò, e ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn’altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò. E chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando. Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all’analda non era, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla correggia attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empié. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?»
Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi».
Disse Bruno: «Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d’andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone».
«Deh come egli ha ben fatto», disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?»
Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d’essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.

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Kim Rossi Stuart nella parte di Calandrino in Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2001) 

Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che faremo? Ché non ce ne andiam noi?»
A cui Bruno rispose: «Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farā più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa»; e il dir le parole e l’aprirsi e ‘l dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno: «Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino!» e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.
Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la cittā, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciō che quasi a desinare era ciascuno.
Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua.
Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: «Mai, frate, il diavol ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare».
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto; ma in fé di Dio io te ne pagherò»; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le treccie la si gittò a’piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e’ piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell’uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un de’ canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d’altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d’uom lasso sedersi.
Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: «Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre?» E oltre a questo soggiunsero: «E monna Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battuta; che novelle son queste?»
Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla risposta. Per che soprastando, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino, se tu aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai».
A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: «Compagni, non vi turbate, l’opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia; e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v’entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto».
E, cominciandosi dall’un de’ capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sė come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quant’io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quand’ella mi venne in questa casa!»
E raccesosi nell’ira, si voleva levar. per tornare a batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sė gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi allo ‘ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch’egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.

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Kim Rossi Stuart nella parte di Calandrino in Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2001) 

La nostra città che è sempre stata ricca di varie usanze e gente strana, è vissuto un tempo, non da molto, un pittore di nome Calandrino, semplice e d’insolite maniere. Egli passava molto tempo con altri due pittori, chiamati uno Bruno, l’altro Buffalmacco, uomini cui piaceva il divertimento, ma molto avveduti ed intelligenti, che frequentavano spesso Calandrino perché si burlavano dei sui modi e della sua ingenuità. Nello stesso tempo viveva a Firenze un uomo di straordinaria capacità in qualunque cosa decidesse di fare, intelligente e fortunato, chiamato Maso del Saggio, che, avendo sentito parlare della ingenuità di Calandrino, decise di burlarsi di lui e di fargli credere qualcosa d’impossibile.
Per caso un giorno, trovandolo seduto nella chiesa di San Giovanni, davanti al tabernacolo sopra l’altare attento ad osservare i disegni e i bassorilievi , pensò che quello era il momento di mettere in pratica la sua intenzione. Dopo aver informato un suo compagno di ciò che aveva in mente di fare, si avvicinarono entrambi dov’era seduto Calandrino e facendo finta di non averlo visto cominciarono a parlare della virtù di diverse pietre, argomento sul quale Maso parlava così efficacemente da apparire un importante e saggio studioso di lapidari. Ad un certo punto Calandrino, dopo aver aguzzato le orecchie, avendo capito che ciò di cui argomentavano i due non era segreto, si unì a loro, mettendo così ad effetto l’idea di Maso. Calandrino gli domandò dove queste pietre fossero e Maso rispose che la maggior parte si trovavano a Berlinzone, terra dei baschi, in un paese che si chiamava Bengodi, in cui si legano le vigne con le salsicce, si comprava un’oca con l’aggiunta di un papero per una moneta e c’era una intera montagna di parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano alcune persone che non facevano altro che fare gnocchi e ravioli per poi cuocerli in un brodo di capponi; poi li buttavano giù e chi ne prendeva di più, più ne aveva; e lì vicino vi era un fiumiciattolo di vernaccia, della migliore che si bevve mai, senza l’aggiunta di alcun goccio d’acqua.
«Oh», disse Calandrino, «dev’essere un bel paese; ma dimmi, che ci fanno dei capponi che si mettono a cuocere?»
Rispose Maso: «Se li mangiano i baschi».
Disse ancora Calandrino: «Ci sei mai stato?»
A cui Maso: «Mi chiedi se ci sono stato? Sì sono stato qui una volta come mille»
Disse ancora Calandrino: «E quante miglia dista?»
Maso rispose: «Ce ne sono più di millanta che tutta la notte canta».
Calandrino: «Quindi dev’essere più lontana degli Abruzzi»
«Si è così», rispose Maso, «è niente». 
L’ingenuo Calandrino, vedendo che Maso diceva queste parole con viso serio e senza ridere, diede ad esse fede come si fa per una verità ben più evidente e così le riteneva vere; e aggiunse: «E’ troppo lontana, ma se fosse più vicina ti dico che verrei una volta con te per vedere rotolare gli gnocchi e farmene una scorpacciata. Ma dimmi, che tu sia felice, in questi posti si trova qualcuna di quelle pietre piene di virtù?»
A cui Maso rispose: «Sì, si trovano due tipi di pietre di grandissima virtù. La prima sono i macigni che si stanno a Settignano e Montisci, per virtù dei quali, quando diventano macine, ne nasci la farina, perciò si dice in quei paesi che Da uno vengono le grazie dall’altro le macine; ma ce ne sono talmente tante che da noi sono poco pregiate, come presso loro gli smeraldi, di cui vi sono montagne più alte di Monte Morello, che brillano a mezzanotte e non ti dico di più. E aggiungo che formasse una collana le macine prima di forarle e le portasse dal sultano potrebbe chiedergli qualsiasi cosa che l’otterrebbe. L’altra è una pietra, che noi nei lapidari chiamiamo elitropia, di grande virtù, perché chiunque l’indossi , per tutto il tempo che la tiene, non è veduto là dove non è».
Disse Calandrino: «Gran virtù son queste; ma questa dove si trova?»
Maso rispose che ve n’erano alcune nel Mugnone.
Chiese ancora Calandrino: «Di che grandezza sono? Qual è il loro colore?»
Rispose Maso: «Ve ne sono di varie grandezze, più o meno grandi e il loro colore è grigio scuro, quasi nero».
Calandrino, avendo annotato tra sé e sé, facendo finta di avere altro da fare, si allontanò da Maso e decise di andare a cercare questa pietra, ma non voleva farlo senza dirlo prima a Bruno e Buffalmacco, con cui era molto legato. Cominciò dunque a cercarli, prima che qualcuno li trovasse, e passò tutta la mattina a vedere dove fossero. Alla fine, essendo già tra le due e le tre del pomeriggio, ricordandosi che loro lavoravano in un monastero di Faenza, sebbene facesse un gran caldo, cominciò a correre e chiamatili, così disse: «Compagni, se volete credermi, noi possiamo diventare gli uomini più ricchi di Firenze: infatti ho saputo da un uomo degno di fede che a Mugnone c’è una pietra che chi la indossa diventa invisibile da chiunque, per cui mi sembrerebbe giusto che noi, senza aspettare oltre, prima che vi andasse qualcun’altro, andassimo a cercarla. Sicuramente la troveremo, dal momento che io so com’è fatta e, una volta trovata, che dovremo fare se non metterla nel borsello e andare dai banchieri, che, com’è sapete, sono sempre pieni di piccole monete d’argento e di fiorini e prenderne quanti ne vorremmo? Nessuno ci vedrà, così arricchiremo in un sol attimo, senza stare tutto il giorno a imbrattare le mura come fa la lumaca».
Bruno e Buffalmacco, mentre lo ascoltavano, cominciarono a ridere tra se stessi e guardandosi reciprocamente gli mostrarono di meravigliarsi molto e di approvare totalmente il consiglio di Calandrino e Buffalmacco gli chiese quale fosse il nome di questa pietra.
A Calandrino, che era piuttosto stupido, già non ricordava il nome della pietra, per cui gli rispose: «A che ci serve dal momento che ne conosciamo le virtù? Mi sembra più opportuno a andare a cercarla senza indugiare oltre». 
«Bene», aggiunse Bruno, «com’è fatta?»
Calandrino: «Ce ne sono d’ogni forma, ma sono quasi tutte nere; per cui a me pare che noi dobbiamo raccogliere tutte quelle di questo colore, finché non ci imbattiamo in essa, e perciò, non perdiamo tempo, andiamo».
A cui Bruno disse: «Aspetta»; e rivolto a Buffalmacco aggiunse. «A me sembra che Calandrino dica il giusto, ma non mi pare che adesso sia il momento, perché il sole è alto e illumina la vallata del Mugnone all’interno, che ha tutte le pietre asciutte  che sembrano ora più bianche delle pietre che ci sono e che invece la mattina, prima che il sole le abbia inaridite, sembrano diventare nere; e oltre a questo ci sono oggi, per diversi motivi, molte persone per la vallata, in quanto è giorno di lavoro, i quali, vedendoci, potrebbero indovinare che cosa noi fossimo andati a fare e lo farebbero anche loro; finiremo quindi per litigare, cosicché per voler troppo si perde l’essenziale. A me sembra, se siete d’accordo, che questa cosa si faccia domani mattina, perché così si distingueranno le pietre nere da quelle bianche, ed essendo un giorno di festa non ci sarà nessuno».
Buffalmacco approvò il consiglio di Bruno e Calandrino vi si associò e stabilirono che la domenica mattina successiva si ritrovassero tutti e tre per cercare questa pietra; ma Calandrino soprattutto pregò loro di non dover parlare con persona alcuna di questa cosa perché a lui era stata riferita in gran segreto. E dopo aver detto questo, riferì loro  con giuramenti ciò che aveva ascoltato sul paese di Bengodi,  affermando che era la verità. Essi si misero d’accordo su quello che dovessero fare intorno a questo fatto, dopo che Calandrino si era allontanato.
Calandrino aspettò la domenica mattina con ansia e arrivato il tempo si alzò all’alba. Chiamati i compagni, usciti a San Gallo attraverso la porta e scesi dal declivio del Mugnone iniziarono a cercare la pietra. Calandrino andava come quello che aveva più voglia degli altri di trovarla, camminando avanti e saltando con velocità ora qui e ora là, e dovunque vedeva una pietra nera l’afferrava e, raccogliendola, se la metteva in grembo. I compagni lo seguivano e ne raccoglievano quando una quando un’altra; ma Calandrino non era andato molto avanti che ne aveva il grembo pieno, per cui alzandosi i lembi della veste che era capace ed ampia e facendo con la veste un ampio contenitore, attaccata bene alla cintura, non dopo molto lo riempì, e allo stesso modo dopo un bel po’ di tempo, fatto un altro contenitore con il mantello, lo riempì di pietre. Vedendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e si avvicinava l’ora di mangiare, secondo il piano che avevano ordito tra loro, Bruno disse a Buffalmacco: «Calandrino dov’è?». Buffalmacco, che lo aveva vicino, girando il volto da una parte e dall’altra e guardando con attenzione, rispose: «Non lo so, ma prima egli era poco davanti a noi».
Disse Bruno: « Altro che poco fa! Sono certo che egli ora è a casa a mangiare e ci ha lasciato in questo impiccio di andare a cercare le pietre nere giù per il Mugnone».
«Ahimè, come è riuscito bene», disse allora Buffalmacco «a imbrogliarci e a lasciarci qui dal momento in cui siamo stati così stupidi da credergli. Figurati! Chi sarebbe stato così scemo da credere che nel Mugnone ci fosse una pietra così virtuosa, oltre che noi!»
Calandrino, sentendo queste parole, immaginò di aver preso quella pietra e che per la virtù di essa gli amici, sebbene lui fosse presente, non lo vedessero. Contentissimo per questo fatto, senza dir niente pensò di andare a casa e tornato sui suoi passi cominciò ad andare verso casa. 
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: « Che facciamo? Perché non ce ne andiamo?».
A cui Bruno rispose: «Andiamocene; ma giuro di fronte a Dio che Calandrino non me ne farà più nessuna; e se io adesso gli fossi vicino come ci sono stato per tutta la mattina, lo colpirei con questa pietra sui calcagni che egli si ricorderebbe per un intero mese di questa beffa»; e nel dire queste parole, allargare il braccio e a lanciarlo sui calcagni di Calandrino, fu un momento e Calandrino, sentendo il dolore, alzò il piede, cominciò a soffiare, ma non disse parola e camminò oltre.
Buffalmacco, presa in mano una pietra che aveva raccolto, disse a Bruno: «Guarda che bella pietra, potesse giungere in questo momento sulle reni di Calandrino!» e lanciatala lo colse nelle reni con un gran colpo; e per dirla in breve, in questo modo ora con una parola ora con un’altra, risalendo sul Mugnone fino alla porta di San Gallo, continuarono a lapidarlo. In seguito, gettate in terra le pietre che avevano raccolto, si fermarono per un po’ di tempo con i gabellieri; questi, informati prima, fecero finta di non vedere Calandrino, divertendosi molto. Costui, senza fermarsi, raggiunse casa, che era vicino al Canto alla macina; e tanto fu la sorte favorevole alla beffa, che, mentre Calandrino attraversando il fiume giungeva  in città, nessuno gli rivolse la parola perché incontrò poche persone, in quanto erano quasi tutti a pranzo.
Dunque Calandrino entrò estremamente carico (di pietre) in casa sua. Per caso vi era la moglie di lui, monna Tessa, bella e amorevole donna, in cima alle scale e, alquanto preoccupata per la lunga assenza (del marito), vedendolo venire cominciò, rimproverandolo, a dire: «Alla buon’ora, fratello, il diavolo ti porta a casa! Tutti hanno già mangiato quando tu torni a pranzo».
Calandrino, ascoltando e vedendo che era visto, pieno di rabbia e di dolore, cominciò a gridare: «Oimè, malvagia donna, tu eri qui? Mi hai rovinato, ma in fede di Dio te la farò pagare!» e salito in una piccola camera e gettate in terra le molte pietre che aveva con sé, infuriato corse verso la moglie e presala per le trecce la gettò in terra e qui con tutte le sue forze la colpi su tutto il corpo con le mani e con le braccia: pugni e calci, senza lasciarle in testa capello o osso che non rimase pesto, non valendo per lei nulla il chiedere pietà con le mani giunte sul petto.
Buffalmacco e Bruno, dopo che ebbero riso molto con i guardiani  della porta, cominciarono a seguire da lontano Calandrino molto lentamente; giunti alla soglia della sua porta, sentirono l’atroce pestaggio che Calandrino dava alla moglie e, facendo finta di arrivare solo ora, lo chiamarono. Calandrino, tutto sudato, rosso e affannato, si affacciò alla finestra e li pregò che andassero immediatamente da lui. Loro, mostrandosi alquanto arrabbiati, andarono su e videro la sala piena di pietre e in un angolo la donna scapigliata, con le vesti stracciate, tutta livida e ferita nel volto piangere dolorosamente; e dall’altra parte, Calandrino con gli abiti slacciati e ansando come un uomo stanco, sedersi.
Qui, quando ebbero guardato tutto, dissero:« Che è questo Calandrino? vuoi tu costruire un muro che qui vediamo tante pietre?» e oltre a questo aggiunsero:« E che è successo a monna Tessa? Sembra che tu l’abbia picchiata: che novità son queste?». Calandrino, stanco dal peso delle pietre e per la rabbia con la quale aveva colpito la moglie e dal dolore della fortuna che gli sembrava aver perso, non riusciva a riprendere fiato per pronunciare una parola in risposta; per cui, poiché indugiava, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino, se tu avevi un altro motivo di rabbia, tu non avresti dovuto fare di noi lo strazio che hai fatto; perché ingannati ci hai portato con te a cercare la pietra preziosa, e senza considerarci, a guisa di due bestioni, ci hai lasciato e sei andato via dal mugnone, al che noi ci siamo rimasti molto male; ma per certo questa sarà l’ultima che ci farai».
A queste parole Calandrino rispose sforzandosi: «Compagni, non vi arrabbiate, la faccenda sta in altro modo di come la pensate. Io, sfortunato me!, avevo trovato quella pietra e volete sentire se vi dico la verità? Quando voi all’inizio mi cercaste io ero vicino a voi, meno di dieci metri, e vedendo che voi ve ne stavate andando e non mi vedevate mi incamminai davanti e  sempre avanzato rispetto a voi, arrivai a casa». E cominciando dall’inizio fino alla fine disse loro ciò che gli avevano fatto e mostrò il colpo ai calcagni e come i sassi glieli avessero ridotti; e poi continuò: « E vi dico che, entrando dalla porta con tutte queste pietre in grembo che voi vede qui, nessuno mi ha detto niente, e sapete quanto sono solitamente impiccioni e noiosi quei guardiani che vogliono vedere sempre tutto; e oltre a questo ho incrociato per via diversi compagni e amici, i quali sempre sono soliti rivolgermi la parola e invitarmi a bere, ma non c’è stato nessuno che mi dicesse nè una nè mezza parola, come se non mi vedessero. Infine, arrivato a casa, questo diavolo di femmina maledetta mi si mise davanti e mi vide, perciò che come sapete, le femmine fanno perdere la virtù ad ogni cosa: perciò io, che mi potevo considerare il più fortunato uomo di Firenze, mi sono ritrovato ad essere il più sfortunato; per questo l’ho picchiata tanto per quanto io abbia potuto menar le mani e non so che cosa mi trattenga dall’ammazzarla, che maledetta sia l’ora che io la vidi per la prima volta e che mi venne in questa casa!» e riaccesosi d’ira si voleva rialzare per tornare a picchiarla di nuovo.
Buffalmacco e Bruno, ascoltando queste cose, facevano finta di meravigliarsi molto e spesso confermavano quello che Calandrino affermava, e avevano una così gran voglia di ridere da scoppiare; ma, vedendolo furioso alzarsi per picchiare un’altra volta la moglie, gli andarono incontro e lo trattennero, dicendo che di questo fatto la donna non aveva nessuna colpa, ma lui, che sapeva che le donne fanno perdere la virtù alle cose, e non glielo aveva detto, non l’aveva avvertita di non apparirgli quel giorno: di quella cautela Dio lo aveva privato o perché la fortuna non doveva esser sua o perché egli aveva pensato di ingannare i suoi amici, ai quali, come si era accorto di averla trovata, avrebbe dovuto rivelarlo. E dopo molti discorsi, non senza una grande fatica, facendo riconciliare la donna dolente con lui, e lasciandolo triste con la casa piena di pietre, se ne andarono.

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Calandrino a teatro

La novella è la prima che ha come protagonista Calandrino, personaggio che sembra sia realmente esistito, cui il Boccaccio dedica altre tre novelle. 

Nella sua figura possiamo individuare alcune caratteristiche che fanno di lui un antieroe. Tali caratteristiche le potremmo individuare nelle sequenze attraverso le quali la stessa narrazione è suddivisa:

  1. dapprincipio egli ci è presentato come un sempliciotto, che, molto presumibilmente fa male il suo lavoro di pittore in quanto privo d’intelligenza e quindi facile oggetto dello scherno altrui. Di questo ci dà dimostrazione la credulità con cui assorbe tutto il nonsenso delle parole di Maso il quale, sebbene estremamente intelligente, si fa beffe della sua ignoranza creando un mondo “altro” con la parola, cioè mostrando che la realtà può esistere anche se non è, se vi è la parola che la traduce e se ne fa testimone. E’ chiaro che tale gioco può essere paritario se vi è stessa padronanza verbale, altrimenti diventa potere contro debolezza. Per questo un po’ sorridendo e un po’ impietosendoci, all’inizio del racconto siamo tutti per Calandrino;
  2. lo stesso dicasi quando Calandrino si rivolge a Bruno e Buffalmacco, i quali, se fossero stati veri amici, può darsi che l’avrebbero messo in guardia rispetto a ciò che Maso aveva detto; tuttavia un primo, sebbene appena accennato, segnale che Calandrino non è quell’ingenuo e sempliciotto che all’inizio della novella ci aveva quasi fatto pena, ce lo dà la motivazione per cui vuole diventare “invisibile”: rubare senza essere visto;
  3. in questa sequenza vediamo i tre amici in opera: il protagonista, stupido com’è cerca veramente, Bruno e Buffalmacco fingono e sempre dall’alto della loro intelligenza colpiscono l’ingenuo Calandrino, prendendolo a sassate. Ma in fondo, questa volta, il lettore è d’accordo con loro: credendo di aver preso la pietra miracolosa, Calandrino cerca di svignarsela, per non condividerla con nessuno; bel concetto, anche per lui, d’amicizia!
  4. l’ultima sequenza ce lo svela: violento e misogino; credendo che sia stata la moglie ad interrompere l’incantesimo la picchia con rabbia furiosa, mostrando un sottofondo di cattiveria quale all’inizio non ci saremo aspettati.    

Per riassumere si potrebbe dire che Calandrino sia tutto quello che Boccaccio non vuole ci sia in un uomo, sembra gli manchino tutte le virtù necessarie: infatti egli non è cortese, non è intelligente né tantomeno astuto, non ricerca il guadagno attraverso l’intelligenza, ma con la frode e non rispetta le donne.

L’altra novella di Calandrino, sempre con i coprotagonisti Bruno e Buffalmaccio, ci è raccontata da Filomena:

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Copertina per un’edizione dedicata ai bambini della novella di Calandrino e il porco rubato

BRUNO E BUFFALMACCO IMBOLANO UN PORCO A CALANDRINO; FANNOGLI FARE LA SPERIENZA DA RITROVARLO CON GALLE DI GENGIOVO E CON VERNACCIA, E A LUI NE DANNO DUE, L’UNA DOPO L’ALTRA, DI QUELLE CONFETTATE IN ALOE’, E PARE CHE L’ABBIA AVUTO EGLI STESSO, FANNOLO RICOMPERARE, SE EGLI NON VUOLE CHE ALLA MOGLIE IL DICANO.
(VIII, 6)

Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l’avete di sopra udito; e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto della moglie, del quale tra l’altre cose che su vi ricoglieva, n’aveva ogn’anno un porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre d’andarsene la moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli chiamò e disse: «Voi siate i ben venuti. Io voglio che voi veggiate che massaio io sono; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco».
Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare. A cui Brun disse: «Deh! come tu se’ grosso! Vendilo, e godianci i denari; e a mogliata dì che ti sia stato imbolato».
Calandrino disse: «No, ella nol crederrebbe, e caccerebbemi fuor di casa; non v’impacciate, ché io nol farei mai».
Le parole furono assai, ma niente montarono. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?»
Disse Buffalmacco: «O come potremmo noi?»
Disse Bruno: «Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di là ove egli era testé».
«Adunque», disse Buffalmacco «faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine».
Il prete disse che gli era molto caro. Disse allora Bruno: «Qui si vuole usare un poco d’arte: tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga; andiamo e meniallo alla taverna, e quivi il prete faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa».
Come Brun disse, così fecero. Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene; ed essendo già buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio, il lasciò aperto e andossi al letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là chetamente n’andarono; ma, trovando aperto l’uscio, entrarono dentro, e ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n’andarono a dormire.
Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e, come scese giù, guardò e non vide il porco suo, e vide l’uscio aperto; per che, domandato questo e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romore grande: ohisé, dolente sé, che il porco gli era stato imbolato. Bruno e Buffalmacco levatisi, se n’andarono verso Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse. Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, disse: «Ohimè, compagni miei, che il porco mio m’è stato imbolato».

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Bruno, Buffalmacco e il prete nell’edizione Federighi

Bruno, accostatoglisi, pianamente gli disse: «Maraviglia, che se’stato savio una volta».
«Ohimè», disse Calandrino «ché io dico da dovero».
«Così di’», diceva Bruno «grida forte sì, che paia bene che sia stato così».
Calandrino gridava allora più forte e diceva: «Al corpo di Dio, che io dico da dovero che egli m’è stato imbolato».
E Bruno diceva: «Ben dì, ben dì: e’ si vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero».
Disse Calandrino: «Tu mi faresti dar l’anima al nimico. Io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato».
Disse allora Bruno: «Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì. Credimi tu far credere che egli sia volato?»
Disse Calandrino: «Egli è come io ti dico».
«Deh!» disse Bruno «può egli essere?»
«Per certo», disse Calandrino «egli è così, di che io son diserto e non so come io mi torni a casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno pace con lei».
Disse allora Bruno: «Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un’ora ti facessi beffe di moglieta e di noi».
Calandrino incominciò a gridare e a dire: «Deh perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio e’santi e ciò che v’è? Io vi dico che il porco m’è stato sta notte imbolato».
Disse allora Buffalmacco: «Se egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo».
«E che via» disse Calandrino «potrem noi trovare?»
Disse allora Buffalmacco: «Per certo egli non c’è venuto d’India niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio e vederemmo di botto chi l’ha avuto».
«Sì», disse Bruno ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha dattorno, ché son certo che alcun di loro l’ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci vorrebber venire».
«Come è dunque da fare?» disse Buffalmacco.
Rispose Bruno: «Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere. Essi non sel penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del gengiovo, come il pane e ‘l cacio».
Disse Buffalmacco: «Per certo tu di’ il vero; e tu, Calandrino, che di’? Vogliallo fare?»
Disse Calandrino: «Anzi ve ne priego io per l’amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l’ha avuto, sì mi parrebbe esser mezzo consolato».
«Or via», disse Bruno «io sono acconcio d’andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari».
Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede. Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo, e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero, come avevan l’altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli:  «Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la ‘ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare».
Calandrino così fece. Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno: «Signori, e’ mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi piacesse, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrino, che qui è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l’ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere. E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che quel cotale che avuto l’avesse, in penitenzia il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto».
Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all’un de’ capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e, come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano. Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori.
Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro, perveder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembianti d’intendere a ciò, s’udì dir dietro: «Eja, Calandrino, che vuol dir questo?» per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse: «Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un’altra»; e presa la seconda, gliele mise in bocca, e fornì di dare l’altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto. Buffalmacco faceva dar bere alla brigata, e Bruno; li quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresono.
Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl’incominciò Buffalmacco a dire: «Io l’aveva per lo certo tuttavia che tu te l’avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato, per non darci una volta bere de’ denari che tu n’avesti».
Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l’avea.
Disse Buffalmacco: «Ma che n’avesti, sozio, alla buona fè? Avestine sei?»
Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare. A cui Brun disse: «Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta, e davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l’avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato ad esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto, e tu te ne venisti; e poscia ci volevi far credere che tu l’avessi trovata; e ora similmente ti credi co’ tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l’arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.
Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi. Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.

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Calandrino, Bruno e Buffalmacco e il porco salato nell’edizione Federighi

Chi fossero Calandrino, Bruno e Buffalmacco non c’è bisogno che ve lo dica, perché lo avete ascoltato prima. Per questo, cominciando da subito la narrazione, vi dico che Calandrino aveva un piccolo podere non molto lontano da Firenze, che aveva avuto in dote dalla moglie, nel quale, tra le altre cose che qui vi raccoglieva, vi allevava annualmente un maiale; ed era sua abitudine di andarci ogni anno a dicembre insieme alla moglie per ucciderlo e farlo salare.
Una volta capitò che Calandrino, essendo la moglie malata, andò solo ad uccidere il porco, e quando lo seppero Bruno e Buffalmacco, accertatosi che la sposa non sarebbe arrivata, decisero di andare qualche giorno da lui insieme ad un loro amico prete. Calandrino, il giorno in cui arrivarono, aveva appena ucciso il maiale e vedendoli col prete, disse loro: «Siate i benvenuti: voglio che vediate che buon massaro sono io» e fatti entrare in casa, mostrò loro il porco.
Questi videro il porco e lo reputarono bellissimo e sentirono da Calandrino che lo voleva salare per la famiglia. Bruno allora gli disse: «Accidenti, quanto sei stupido! Vendilo, divertiamoci con i soldi che ci fai e a tua moglie di’ che te l’hanno rubato».
Calandrino disse: «No, non mi crederebbe e mi caccerebbe di casa, non immischiatevi, perché non lo farei mai»
I tentativi per convincerlo furono molti, ma non produssero alcun effetto. Calandrino li invitò a cena da lui, ma lo fece con tale malagrazia che essi rifiutarono e se ne andarono.
Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliamo rubarglielo noi stanotte quel porco?»
Disse Buffalmacco. «Come potremo fare?»
Disse Bruno: «Il come l’ho già capito, se non si sposta da dov’era poco fa»
«Dunque» disse Buffalmacco  «facciamolo, perché non dovremmo farlo? E dopo ce lo goderemo con il prete».
Il prete disse che era d’accordo; ancora Bruno aggiunse: Qui ci vuole un po’ di astuzia. Sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come beve volentieri quando paga qualcun’altro: andiamo e portiamolo alla caverna, qui il prete faccia finta di pagare tutto lui per farci onore e non faccia pagare lui in nessun modo: egli si ubriacherà e ci verrà tutto più facile, allora, essendo solo in casa».
Così come Bruno suggerì, fecero. Calandrino, vedendo che il prete non lo lasciava pagare, si lasciò andare al bere e benché non gli giovasse troppo ne bevve in modo esagerato ed essendo già notte inoltrata andò a casa e credendo di aver chiuso la porta, la lasciò aperta e si buttò a letto. Bruno e Buffalmacco andarono a cena con il prete e dopo aver mangiato, si armarono di alcuni attrezzi per entrare in casa di Calandrino dove Bruno aveva già progettato e vi si diressero, in silenzio; ma trovando la porta aperta entrarono, presero il porco e lo nascosero a casa del prete. Quindi andarono a dormire.
Calandrino, essendo ritornato sobrio, la mattina si alzò, e scese le scale vide che il porco non c’era più e che la porta era rimasta aperta: per questo, domandando in giro chi avesse preso il maiale e non trovandolo, cominciò a fare un gran baccano: accidenti! peggio per lui, che gli avevano rubato il porco. Bruno e Buffalmacco, svegliatisi anche loro, andarono verso casa di Calandrino per vedere cosa costui avrebbe detto del porco ed appena li vide, quasi piangendo li chiamò e disse loro: «Ahimè, amici miei, mi è stato rubato il maiale!»
Bruno, fattosi vicino, gli disse a bassa voce: «Splendido! per questa volta sei stato furbo!»
«Povero me», disse Calandrino «è successo per davvero»
«Di’ così» diceva Bruno «grida forte, in modo che sembri vero che ti sia stato rubato»
Calandrino allora urlava più forte e diceva: «Per il corpo di Cristo ti dico che mi è stato rubato per davvero»
E  Bruno diceva: «Dici bene, dici bene; ma bisogna dirlo meglio, gridalo, fatti sentire, in modo che sembri vero»
Disse Calandrino: «Venderesti la mia anima al diavolo, non mi credi; potessi essere impiccato, se non dico la verità che mi è stato rubato!»
Disse allora Bruno: «Accidenti! come può essere? L’ho visto qui ieri, vorresti farmi credere che sia volato?»
Calandrino: «E’ come ti dico».
Bruno: «Come può essere?»
«Sicuramente», disse Calandrino «è così! sono rovinato e non so come tornare a casa; mia moglie non mi crederà e seppure dovesse crederci non mi darà mai più pace».
Disse allora Bruno: «Dio mi scampi, se questo è vero; ma tu sai Calandrino che io ieri sera ti consigliai di far finta che ti sia stato rubato per dirlo a tua moglie e non vorrei che nello stesso momento ti facessi beffe sia di tua moglie che di noi».
Calandrino cominciò a gridare: «Ma insomma perché mi fate disperare? e bestemmiare Dio e tutti i santi del paradiso? Vi dico che stanotte il porco mi è stato rubato»
Disse allora Buffalmacco: «Se è così, bisogna trovare il modo per sapere chi sia stato».
«E che modo» disse Calandrino «potremo trovare?»
Disse allora Buffalmacco: «Sicuramente nessuno è venuto dall’India a portarti via il porco, dev’essere stato uno dei tuoi vicini e perciò, se tu li potessi riunire, io so fare il rito del pane e formaggio e capiremo subito chi ce l’ha»
«Sì», disse Bruno «farai bene con pane e formaggio con questi “galantuomini” che sono qui attorno! Certamente ce l’ha uno di loro e si accorgerebbe (della prova) e non ci verrebbe»
«E allora cosa fare?» disse Buffalmacco.
Rispose Bruno: «Si potrebbe fare con delle gallette di zenzero accompagnati da una buona vernaccia ed invitarli a bere: non penserebbero (al rito) e verrebbero: si potrebbero benedire le gallette come il pane e il formaggio»
Disse Buffalmacco: «Bella trovata. E tu Calandrino che ne pensi? vogliamo provarci?»
Disse Calandrino: «Ve ne prego, per l’amor di Dio, che se solo sapessi chi se l’è preso, mi parrebbe d’essere perlomeno rinfrancato» 
«Suvvia», – disse Bruno, – io sono pronto ad andare a Firenze a procurarmi le cose necessarie se tu mi dai i soldi».
Calandrino aveva forse quaranta soldi e in tutto e glieli diede. Bruno, sceso a Firenze, andò da un amico droghiere, comprò circa una libbra (due chilogrammi circa) di biscotti allo zenzero; ma due ne fece fare due confezionati zenzero canino mescolato con amarissimo aloe; quindi le fece tutte coprire di zucchero come le altre e per non scambiarle fece fare un piccolo segno con cui egli le poteva riconosceva; comperato un fiasco di buona vernaccia, tornò al paese e disse a Calandrino: «Domattina, invita tutti quelli di cui hai sospetto: è festa e verranno volentieri ed io, stanotte, farò, insieme a Buffalmacco, l’incantesimo sui biscotti e domattina verrò a portarteli e, per amor tuo, sarò io stesso a darle e ti suggerirò cosa sia necessario dire e cosa fare».
Calandrino così fece. Radunato un buon numero di persone tra giovani fiorentini che erano lì in campagna e i contadini del luogo, la mattina seguente, sotto l’olmo davanti alla chiesa, Bruno e Buffalmacco arrivarono, con una scatola di biscotti e il fiasco della vernaccia e fatti mettere tutti in circolo, Bruno disse loro: «Signori, io devo spiegarvi perché siete stati qui riuniti, affinché, se dovesse capitarvi qualcosa di spiacevole, non ve la prendiate con me. A Calandrino, che è qui in mezzo a noi, ieri notte è stato rubato il maiale e non riesce più a trovarlo; e poiché chi l’ ha rubato deve essere stato uno di noi, Calandrino v’invita a mangiare questi biscotti allo zenzero e a bere. Sappiate però, che chi avrà preso il maiale non potrà mangiare il biscotto perché gli sembrerà più amaro del veleno e la sputerà. Io lo invito dunque, prima di patire questa vergogna in presenza di tutti, di dirlo in confessione al prete e mi asterrò dal compiere il rito».
Tutti risposero che erano pronti a mangiare i biscotti e allora Bruno, dopo averli disposti in giro e messo Calandrino in mezzo a loro, cominciò a dare a ciascuno il biscotto, ma arrivato a Calandrino, afferrata una galletta con lo zenzero canino, glielo diede. Calandrino se lo mise subito in bocca e cominciò a masticare, ma appena sentì l’amaro dell’aloe non poté più sopportarlo e lo sputò. Gli altri, nel frattempo, si tenevano tutti d’occhio per vedere chi sputasse, e non avendo ancora Bruno finita la distribuzione, facendo finta di non essersi accorto che Calandrino l’aveva sputato, sentì dire a un tratto: «Ohè, Calandrino, che significa questo?» e subito voltato, vide che Calandrino l’aveva buttato fuori il biscotto, disse: «Forse gli sarà andato di traverso; diamogliene un altro. E gli mise in bocca il secondo biscotto all’aloe, continuando a distribuire agli altri. A Calandrino, se il primo era sembrato amaro, il secondo biscotto parve amarissimo; tuttavia, vergognandosi di sputarlo, lo tenne in bocca cercando di masticarlo, e avendolo in bocca cominciò a sprizzare lacrime che parevano nocciole, ma alla fine non ce la fece più e lo sputò come il primo. Buffalmacco e Bruno che davano frattanto da bere alla brigata, e tutti gli altri, nel vedere questo, dissero che di certo Calandrino si era rubato lui stesso il maiale, e ci furono anche quelli che lo rimproverarono aspramente.
Dopo che tutti se ne furono andati, Buffalmacco cominciò a dire: «Io lo sapevo che lo avevi tu e che volevi ingannarci per non pagarci nemmeno un bicchiere di vino, con i soldi che ne avresti avuto (vendendolo)».
Calandrino, con la bocca amara, incominciò a giurare e spergiurare di non averlo. »Andiamo, andiamo», continuò Buffalmacco, «ma, amico mio, quanto ne hai ricavato? forse sei fiorini?»
E Calandrino, sentendolo dir così cominciò a disperarsi; allora Bruno disse: «Stammi a sentire, Calandrino, c’è uno qui nella brigata che ha mangiato e bevuto con noi, che mi ha detto che tu avevi qui una ragazzetta che mantenevi per i tuoi affari e che le davi ciò che potevi rimediare, e lui era certo che tu le avevi dato il porco. Hai imparato a prenderci in giro! Già una volta ci hai portato per il Mugnone a cercar pietre, e quando poi ci hai messo nei guai, te ne sei andato e volevi farci credere di aver trovato la pietra che rendeva invisibile, e adesso, allo stesso modo, vorresti darci a intendere che il maiale, che hai regalato o venduto, ti sia stato rubato. Siamo abituati ai tuoi scherzi e li conosciamo, e adesso non ti diamo più retta! Per questo, ci hai fatto passare la notte a preparare l’incantesimo. Sai che ti dico? O ci regali due capponi per il disturbo, o noi raccontiamo tutto a monna Tessa, tua moglie».
Calandrino, vedendo che non era creduto, sembrandogli di aver già avuto troppi dispiaceri, non volendo anche l’arrabbiatura ella moglie, diede loro i due capponi. E Bruno e Buffalmacco, avendo salato loro il porco, se ne andarono a Firenze lasciando Calandrino col danno e le beffe.

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Riduzione teatrale della novella

Rispetto alla novella precedente qui Calandrino sembra essere una vittima meno colpevole della beffa ordita dai due amici; certo tra Bruno, Buffalmacco e il prete, non si sa chi sia il peggiore. Ma, al di là di ogni giudizio morale, quello che emerge è che a vincere, pur con la cattiveria tipica di questi buontemponi fiorentini, è sempre l’intelligenza contro la stupidità.

L’intelligenza di Bruno è tutta nel capovolgimento blasfemo di un rito molto in voga nella Firenze del Trecento: “… era un sortilegio, un incantesimo assai diffuso, che aveva assunto quasi forma di rito: (…) fatti certi segni e data la benedizione su bocconi confezionati con formaggio e pane (d’orzo, in genere), si invitavano i presunti ladri a giurare la loro innocenza; e, dette speciali orazioni, si davano loro da mangiare quei bocconi che non potevano essere inghiottiti dal colpevole” (Vittore Branca). Bruno infatti sostituisce al pane e formaggio un biscotto, all’acqua benedetta la vernaccia, al prete benedicente se stesso: tale capovolgimento rituale ha bisogno di un progetto che lo sciocco Calandrino non può capire. 

D’altra parte l’ingenuo Calandrino continua ad essere mal visto dallo stesso Boccaccio: manca di convivialità (invita malvolentieri gli amici) ed è avaro (beve solo se gli pagano da bere).

Ma qui si svela ancora una volta anche la capacità comica dell’autore: il dialogo tra  Calandrino e Bruno, il derubato e chi pensa sia stato lui, è un capolavoro costruito sul fraintendimento, uno degli elementi basilari della comicità narrativa.  

NONA GIORNATA

Alla fine dell’VIII giornata viene nominata Emilia come regina per la nona, la quale, non senza vergogna, così cominciò a parlare ai compagni: E per ciò quello che domane, seguendo il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di ristrigneni sotto alcuna spezialità, ma voglio che ciascun secondo che gli piace ragioni, cioè, come successo nella prima l’argomento è libero.

La novella seguente è raccontata da Elissa: 

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Werner Klemke . La badessa con le braghe in testa (1972)

LEVASI UNA BADESSA IN FRETTA E AL BUIO PER TROVARE UNA SUA MONACA, A LEI ACCUSATA, COL SUO AMANTE NEL LETTO; ED ESSENDO CON LEI UN PRETE, CREDENDO IL SALTERO DE’ VELI AVER POSTO IN CAPO, LE BRACHE DEL PRETE VI SI POSE; LE QUALI VEDENDO L’ACCUSATA E FATTALENE ACCORGERE, FU DILIBERATA, ED EBBE AGIO DI STARSI COL SUO AMANTE.
(IX, 2)

Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì ad un suo parente alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò. Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s’accese; e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero. Ultimamente, essendone ciascun sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò. Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò. E prima ebber consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa. E così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei.

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Carolina Crescentini nei panni di Isabetta nel film dei fratelli Taviani Meraviglioso Boccaccio (2001)

Or, non guardandosi l’Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano. Le quali, quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia del l’uscio della cella dell’Isabetta, e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva, dissero: «Su, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che l’Isabetta ha un giovane nella cella».
Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto l’uscio sospignessero che egli s’aprisse, spacciatamente si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamanli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori, e prestamente l’uscio si riserrò dietro, dicendo: «Dove è questa maladetta da Dio?» e con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra; ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati, li quali, da così subito soprapprendimento storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La giovane fu incontanente dall’altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco.
La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva gravissime minacce.
La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva compassion nell’altre; e, multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo, e gli usolieri che di qua e di là pendevano.
Di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata disse: «Madonna, se Iddio v’aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete».
La badessa, che non la intendeva, disse: «Che cuffia, rea femina? Ora hai tu viso di motteggiare? Parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?»
Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace». Laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva. Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse.
E liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante. Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe’ venire. L’altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura.

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Paola Cortellesi nei panni di Usimbalda nel film dei fratelli Taviani Meraviglioso Boccaccio (2001)

Dovete dunque sapere che in Lombardia vi era un monastero famosissimo per religiosità e santità delle monache, nel quale tra le diverse monache che vi risiedevano, v’era una giovane di nobile famiglia e di straordinaria bellezza, di nome Isabetta, che, essendo andata al parlatorio per parlare con suo parente, s’innamorò di un bel giovane che lo accompagnava e lui, vedendola bellissima, avendo compreso dallo sguardo il desiderio della monaca, allo stesso modo la desiderò: e non senza grande sforzo di entrambi per lungo tempo dovettero sostenere questo amore senza appagamento.
Infine, essendo ambedue spinti dal desiderio, il giovane trovò un modo per incontrarsi in modo nascosto con la monaca e, mostrandosi lei felice per ciò, non una volta sola, ma per lungo tempo con grande soddisfazione andò a farle visita.
Mentre la storia tra i due proseguiva, capitò una notte che una monaca vide il giovane dentro il monastero e, senza che lui o lei se ne accorgessero, allontanarsi da Isabetta e uscire. Questa avvisò le altre monache e decisero dapprima di dirlo alla badessa, di nome Usimbalda, secondo l’opinione di tutte le monache e di chiunque la conoscesse, buona e santa donna, poi pensarono, affinché ella non potesse negare la colpa, di far sì che la badessa la cogliesse in fragrante; e così, senza dir niente, si spartirono i turni di veglia e di guardia per sorprenderla.
Ora, Isabetta né stando in guardia né sospettando che qualche monaca sapesse (del suo incontro con il giovane), una notte lo fece venire, cosa che seppero subito quelle monache che facevano la guardia; queste, quando a loro parve opportuno, essendo già notte inoltrata, si divisero in due: una parte si mise davanti alla porta d’Isabetta e un’altra corse alla camera della badessa; queste ultime bussarono alla sua porta e a lei che già rispondeva, dissero: «Signora, alzatevi immediatamente, che abbiamo scoperto che Isabetta ha un giovane in camera».
Quella notte la badessa stava con un prete che spesso lei faceva entrare nella sua camera nascosto dentro una cassa. Dopo aver sentito, temendo che le monache per la troppa foga o per la troppa voglia di denunciare la compagna potessero spingere la porta fino ad aprirla, in tutta fretta si alzò e come meglio poté si vestì al buio, e credendo di prendere certi veli, che erano stati piegati, che le monache si mettono in testa e chiamano salterio, afferrò le braghe del prete; e tanta fu la fretta che senza accorgersene, al posto del velo se le mise in testa e uscì e, chiudendo la porta con precipitazione, disse: «Dov’è questa maledetta da Dio?». E con le altre monache, tutte prese e determinate nel voler cogliere Isabetta in fallo, da non accorgersi cosa la badessa avesse in testa, giunse all’uscio della cella e questo, con l’aiuto delle altre, abbatté in terra e una volta entrate, trovarono i due amanti nel letto. Questi, confusi per esser stati colti così di sorpresa, non sapendo che fare, stettero fermi. La giovane fu subito afferrata dalle altre monache e, per ordine della badessa, portata nella sala capitolare. Il giovane, rimasto, si vestiva per vedere che piega prendesse la cosa e con l’intenzione di fare qualche brutto scherzo alle monache che avesse potuto prendere, se alla sua amante fosse stato fatto alcun male, e poi di condurla via con sé.
La badessa, messasi a sedere nella sala insieme a tutte le altre, che solo a Isabetta guardavano, cominciò ad insultare la giovane pesantemente, come mai nessun’altra donna fosse stata insultata, come se, con le azioni vergognose da lei compiute, se si fossero sapute, avesse infangato la santità, l’onestà e l’ottima fama del monastero; e insieme all’aspro rimprovero, aggiungeva non so quali altre orribili minacce.
La giovane, piena di vergogna ed intimidita, in quanto colpevole non sapeva cosa rispondere, ma tacendo suscitava compassione delle altre per sé, e dilungandosi la badessa nei rimproveri, successe che la giovane alzò il viso e visto ciò che la superiora aveva in testa e i legacci (delle braghe) che pendevano dalla sua testa da una parte e dall’altra, capì cosa fosse e, rinfrancata le disse: «Signora, che Dio vi benedica, legatevi la cuffia e poi ditemi tutto ciò che volete».
La badessa, che non capiva, disse: «Che cuffia, femmina svergognata, hai proprio ora la faccia di prendermi in giro? Ti pare di aver fatto qualcosa che abbia a che fare con gli scherzi?»
Allora la giovane le disse un’altra volta: «Signora, vi prego, legatevi la cuffia e poi ditemi tutto ciò che volete»; allora molte monache rivolsero lo sguardo verso la testa della badessa e lei stessa, mettendosi le mani sul capo, capì perché Isabetta le avesse detto quelle cose.
Resosi conto di ciò, la badessa scoperta da tutte le monache nello stesso errore di cui aveva accusato la giovane, e non potendolo più nascondere, trasformò il discorso rispetto a quello fatto sinora e concluse dicendo che era impossibile difendersi dagli stimoli della carne; per cui, in modo discreto, come si era fatto sino allora, disse a ciascuna di svagarsi quando se ne fosse presentata l’occasione e, liberata la giovane, andò a dormire col prete e Isabetta col suo amante.
La giovane, per dispetto di tutte quelle che avevano invidia, fece venire l’amante molto spesso e le altre, che l’amante non ce l’avevano, in segreto si procurarono i loro piaceri come meglio seppero fare. 

La novella qui presentata è forse una delle più divertite di Boccaccio e non per il tema estremamente abituale della sessualità nel mondo ecclesiastico, quanto per lo stile veloce ed incalzante con cui descrive l’intera azione. Tutto, infatti, viene filtrato attraverso lo sguardo: Isabetta, da dietro la grata, guarda il giovane (una sola proposizione per l’innamoramento); le monache vedono il giovane (velocissima la sequenza del vederlo, rimanere a guardia e la denuncia); Isabetta, non guarda ma è guardata, rovesciamento con la stessa situazione, stavolta rivolta alla badessa, che è costretta, a sua volta, guardare, attraverso le mani se stessa.

Per il resto la novella si chiude nel discorso della badessa e nel capovolgimento morale: dalla riprensione alla “naturale” accettazione dell’istinto sessuale (impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere). E’ che a tale conclusione si arriva attraverso un sentimento che sentiamo aborrito dallo stesso Boccaccio: quello dell’invidia e, novello Minosse (quel conoscitor de la peccata, direbbe Dante) le punisce in uno sterile autoerotismo.  

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Gabriele Castagnola: Isabetta con l’amante (1858)

La terza novella su Caladrino ce la racconta Filostrato. Ve n’è una quarta nella stessa giornata, raccontata da Fiammetta, in cui il povero Calandrino s’innamora, subendo l’ira dell’irosa Monna Tessa.

MAESTRO SIMONE, AD INSTANZIA DI BRUNO E DI BUFFALMACCO E DI NELLO, FA CREDERE A CALANDRINO CHE EGLI E’ PREGNO; IL QUALE PER MEDICINE DA’ A’ PREDETTI CAPPONI E DENARI, E GUARISCE DELLA PREGNEZZA SENZA PARTORIRE.
(IX, 3)

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Manoscritto del XV secolo con l’illustrazione della novella

Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de’ quali in questa novella ragionar debbo; e per ciò, senza più dirne, dico che egli avvenne che una zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli con tanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti diecimila fiorin d’oro, teneva mercato, il quale sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva.
Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli avesse avuto a far pallottole; ma, non che a questo, essi non l’aveano mai potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome Nello, dipintore, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro Nello e disse: «Buon dì, Calandrino».
Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì e ‘l buono anno. Appresso questo, Nello rattenutosi un poco, lo ‘ncominciò a guardar nel viso. A cui Calandrino disse: «Che guati tu?»
E Nello disse a lui: «Haiti tu sentita sta notte cosa niuna? Tu non mi par desso».
Calandrino incontanente incominciò a dubitare e disse: «Ohimè, come! Che ti pare egli che io abbia?»
Disse Nello: «Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro»; e lasciollo andare.
Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti. Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse niente. Calandrino rispose: «Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla?»
Disse Buffalmacco: «Sì, potrestu aver cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto».
A Calandrino pareva già aver la febbre. Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse: «Calandrino, che viso è quello? E’ par che tu sia morto: che ti senti tu?»
Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d’esser malato; e tutto sgomentato gli domandò: «Che fo?»
Disse Bruno: «A me pare che tu te ne torni a casa a vaditene in su ‘l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa come tu sai. Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo».
E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto affaticato nella camera, disse alla moglie: «Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male».
Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla ‘nsegna del mellone.
E Bruno disse a’ compagni: «Voi vi rimarrete qui con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno sarà, a menarloci».
Calandrino allora disse: «Deh! sì, compagno mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che dentro».
Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato maestro Simone del fatto. Per che, venuta la fanticella e il maestro veduto il segno, disse alla fanticella: «Vattene, e di’ a Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e dirogli ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare».
La fanticella così rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere allato, gli ‘ncominciò a toccare il polso, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse: «Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se’ pregno».
Come Calandrino udì questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire: «Ohimè! Tessa, questo m’hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva bene».
La donna, che assai onesta persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò, e abbassata la fronte, senza risponder parola s’uscì della camera.
Calandrino, continuando il suo ramarichio, diceva: «Ohimè, tristo me! Come farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde uscirà egli? Ben veggo che io son morto per la rabbia di questa mia moglie, che tanto la faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma, così foss’io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare’le tante busse, che io la romperei tutta, avvegna che egli mi stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar salir di sopra; ma per certo, se io scampo di questa, ella se ne potrà ben prima morir di voglia».
Bruno e Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano, udendo le parole di Calandrino, ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione rideva sì squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre. Ma pure al lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo gli dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro: «Calandrino, io non voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti del fatto, che con poca fatica e in pochi dì ti dilibererò; ma conviensi un poco spendere».
Disse Calandrino: «Ohimè! maestro mio, sì per l’amor di Dio. Io ho qui dugento lire di che io voleva comperare un podere; se tutti bisognano, tutti gli togliete, purché io non abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi, ché io odo fare alle femine un sì gran romore quando son per partorire, con tutto che elle abbian buon cotal grande donde farlo, che io credo, se io avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi».
Disse il medico: «Non aver pensiero. Io ti farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole. a bere, che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia savio e più non incappi in queste sciocchezze. Ora ci bisogna per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le comperi, e fara’mi ogni cosa recare alla bottega, e io al nome di Dio domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera’ ne a bere un buon bicchiere grande per volta.
Calandrino, udito questo, disse: «Maestro mio, ciò siane in voi»; e date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò che in suo servigio in queste cose durasse fatica.
Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea e mandogliele. Bruno, comperati i capponi e altre cose necessarie al godere, insieme col medico e co’ compagni suoi se li mangiò.
Calandrino bevve tre mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e i suoi compagni, e toccatogli il polso gli disse: «Calandrino, tu se’ guerito senza fallo; e però sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per questo star più in casa».
Calandrino lieto levatosi s’andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta, d’averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare. E Bruno e Buffalmacco e Nello rimasero contenti d’aver con ingegni saputo schernire l’avarizia di Calandrino, quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col marito ne brontolasse.

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Illustrazione di un medico che osserva le urine dei malati

Nelle storie che sono già state raccontate è dimostrato con chiarezza che razza di uomini fossero Calandrino e i suoi due amici, dei quali io devo parlare in questa novella; e per questo senza aggiungere altro, dico che accadde che una zia di Calandrino morì e gli lasciò in eredità duecento lire di piccioli in contanti; per cui Calandrino cominciò a dire di voler comprare un pezzo di terra e, come se avesse avuto da spendere diecimila fiorini d’oro, avviava una trattativa con tutti i sensali che operavano a Firenze, trattativa che sempre si interrompeva quando si arrivava al prezzo richiesto del podere. Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevano più volte detto che sarebbe stato meglio godersi quei soldi insieme piuttosto che comprare un pezzo di terra per farne delle pallottole (per una balestra); ma essi non solo non poterono condurre Calandrino a questo, nemmeno a offrire loro una volta un pranzo.
Per cui  un giorno, rammaricandosi di ciò, ed essendo sopraggiunto mentre parlavano un loro compagno, che si chiamava Nello, pittore anche lui, decisero tutti e tre di trovare il modo di fare una bella scorpacciata alle spese di Calandrino; e senza starci troppo a pensare, avendo tra loro ordito quello che dovessero fare, il giorno dopo Nello, rimasto in attesa che Calandrino uscisse di casa, andato non lontano gli si fece incontro  e gli disse : «Buongiorno Calandrino».
Calandrino gli rispose che Dio gli desse il buongiorno ed il buon anno. Dopo questo, Nello, fermatosi un po’, cominciò a guardarlo attentamente nel viso, per cui Calandrino disse : «Che hai da guardare?».
E Nello a lui : «Questa notte hai sentito qualcosa di strano? Hai un aspetto diverso dal solito».
Calandrino subito iniziò a spaventarsi e disse: «Ohimé, come! Cosa ti sembra che io abbia?».
Disse Nello: «Non lo dico per spaventarti; ma mi sembri diverso dal solito; sarà soltanto una mia impressione»; e lo lasciò andar via. Calandrino molto preoccupato, non sentendosi per nulla diverso dal solito continuò a camminare, ma Buffalmacco, che non era lontano, vedendolo andar via da Nello, gli si fece incontro e, salutandolo, gli domandò se sentisse qualcosa di strano. Calandrino rispose: «Non lo so, poco fa Nello mi diceva che gli sembravo cambiato, potrebbe forse essere che io abbia qualcosa?». Disse Buffalmacco: «Tu potresti proprio avere qualcosa, altro che nulla: sembri mezzo morto».
A Calandrino sembrava già di avere la febbre. Ed ecco sopraggiungere Bruno e prima di salutarlo disse: «Calandrino, che faccia è quella? Sembri morto: che ti senti?».
Calandrino, sentendo costoro dire così, stabilì fra sé e sé con assoluta certezza di essere malato e, pieno di sgomento, domandò loro: «Che faccio?»
Disse Bruno: «Mi sembra opportuno che tu torni a casa e che ti metta sul letto e che ti faccia coprire bene e che tu mandi un campione della tua urina al medico Simone, che, come sai, è un nostro intimo amico. Egli ti dirà subito ciò che dovrai fare e noi ti accompagneremo, se bisognerà fare qualcosa noi la faremo».
E con loro si aggiunse Nello e con Calandrino se ne andarono a casa sua ed egli entrò tutto affannato; e arrivato in camera disse alla moglie: «Vieni e coprimi bene che mi sento molto male».
Stando dunque a letto, mandò per mezzo di una servetta le sue urine al maestro Simone, che aveva bottega presso Mercato Vecchio e aveva per insegna un melone.
E Bruno disse ai compagni: «Voi rimanete qui con lui, io voglio andare a sentire cosa dirà il medico e se ci sarà bisogno a portarlo qui».
Calandrino allora disse: «Si amico mio, vacci e riferiscimi come stanno le cose, che io già mi sento un non so che dentro il corpo».
Bruno, andato dal maestro Simone, vi giunse prima della servetta che aveva con sé le urine e informò maestro Simone della beffa organizzata ai danni di Calandrino. Per ciò, venuta la servetta e vista l’urina, il medico le disse: «Va’, e di’ a Calandrino che si tenga al caldo che io andrò da lui subito e gli dirò che cosa ha e che cosa dovrà fare».
La servetta così riferì e non passò molto tempo che il maestro e Bruno giunsero: il medico si mise a sedere a fianco del letto e cominciò a toccargli il polso, e dopo un po’, alla presenza della moglie, gli disse: «Vedi, Calandrino, a parlarti come ad un amico, tu non hai altro male che quello di essere incinto».
Come Calandrino sentì questo, cominciò a gridare disperatamente e a dire: «Ahimé, Tessa, questo guaio me lo hai procurato tu, volendo sempre stare sopra, e io ti avevo avvisato».
La donna, che era una persona molto onesta, sentendo dire queste cose dal marito diventò rossa per la vergogna e, abbassata la fronte, se ne andò dalla camera.
Calandrino, continuando il suo lamento, diceva: «Ahimé, povero me, come farò? Come partorirò questo figliolo? Da dove uscirà? Vedo soltanto che io sono destinato a morire per la lussuria di questa mia moglie, che Dio la faccia soffrire tanto quanto io vorrei essere felice; ma, se stessi bene e non come ora, mi alzerei e le darei tante di quelle botte da farla a pezzi, e mi sta proprio bene, perché io non avrei dovuto farla salire sopra di me; ma state sicuri che se esco da questa malattia lei potrà morire dal desiderio prima di avere un altro rapporto con me».
Bruno, Buffalmacco e Nello avevano un così gran voglia di ridere che stavano per scoppiare, sentendo le parole di Calandrino, ma si trattenevano; invece lo stesso maestro “Scimmione” rideva in modo così sgangherato che gli si sarebbero potuti cavare tutti i denti. Ma, procedendo nella beffa, affidandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo lo dovesse consigliare ed aiutare, gli disse il medico: « Calandrino, io non voglio che tu ti spaventi, perché, sia lodato Dio, noi ci siamo accorti del fatto in tempo, per cui con poca fatica e in pochi giorni ti libererò; ma bisogna che tu spenda un po’ di denaro».
Disse Calandrino:  Ahimè, maestro mio, certamente per l’amor di Dio. Io ho qui duecento lire con cui volevo comprare un podere; se vi servono, prendeteli tutti, purché io non debba partorire, perché non so come potrei fare, perché io so che le femmine quando stanno per partorire fanno un grande strepito, sebbene esse abbiano un organo abbastanza grande per fare uscire i figli, perché credo, se io avessi quel dolore, che io morirei prima di partorire».
Disse il medico: «Non ci pensare. Io ti farò fare una certa bevanda distillata molto buona e molto piacevole da bere, che in tre giorni risolverà ogni cosa e così rimarrai più sano di un pesce; ma dovrai fare in modo che tu dopo, con più saggezza, non incappi più in simili guai. Ora ci occorrono per quella bevanda tre paia di buoni e grassi capponi, e per le altre cose che ci occorreranno darai per ciascuno di loro cinque lire di piccioli affinché le comperi, e mi farai portare ogni cosa in bottega ed io, in nome di Dio, domani mattina ti manderò quella bevanda distillata e comincerai a berla, un grande bicchiere pieno al giorno.»
Calandrino, sentito questo, disse: «Maestro mio, pensateci voi»; e date a Bruno cinque lire e soldi per i capponi, lo pregò che si prendesse la briga di fare queste cose per lui.
Il medico, andatosene via, gli fece fare un po’ di bevanda medicinale e gliela mandò. Bruno, comprati i capponi e altre cose prelibate, insieme con il medico e con i compagni se li mangiarono.
Calandrino bevve per tre mattine la bevanda medicale e il medico giunse da lui, insieme con i compagni, e gli toccò il polso e gli disse: «Calandrino, tu, senza dubbio,  sei guarito; e perciò ora vai a fare tranquillamente le tue cose, e non devi più restare a casa».
Calandrino, alzatosi dal letto felice, andò a fare i suoi affari, apprezzando molto con chiunque parlasse, la bella cura che il maestro Simone gli aveva dato, cioè di averlo fatto abortire in tre giorni senza alcuna sofferenza. Bruno, Buffalmacco e Nello godettero di avere, con astuzia, saputo ingannare l’avarizia di Calandrino, sebbene monna Tessa, accortasi della burla, borbottasse continuamente contro il marito.

La novella non si distanza molto dalle precedenti, anzi rimarca in modo più diretto come anche nella costruzione di uno scherzo vi stia, alla base, un motivo economico. Se per Boccaccio diventare “buon massaio” (vedi Federigo) è saper ben amministrare, Calandrino non riconosce il valore dei soldi, cioè non sa come si amministri un bene economico. Per questo è continuamente beffato.

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Bruno, Buffalmacco e Calandrino

Se dovessimo, volendo, fare con quest’ultima un sunto delle sue caratteristiche, oltre ad essere straordinariamente “stupido” (crede al mondo favoloso di Bengodi presentato da Maso; crede in un rituale fatto con biscotti e vino; crede di essere incinto) è “peccaminosamente” avaro, cioè vien meno al precetto fondamentale di una società in cui l’aspetto borghese non dimentica l’aspetto cortese, cioè la liberalità, quando quest’ultima viene esercitata con discrezione. 

DECIMA GIORNATA

A reggere l’ultima giornata e, naturalmente ad essere l’ultimo re dell’allebra brigata di novellatori è Panfilo (il cui nome – amico di tutti o verso tutti – richiama il tema da lui scelto): Egli infatti propone di ragionare di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa. 

A raccontarci la storia del famoso “bandito” è Elissa

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Un’immagine, tratta da un fumetto di Ghino di Tacco

GHINO DI TACCO PIGLIA L’ABATE DI CLIGNI’ E MEDICALO DEL MALO ALLO STOMACO E POI IL LASCIA QUALE, TORNATO IN CORTE DI ROMA, LUI RICONCILIA CON BONIFAZIO PAPA E FALLO FRIERE DELLO SPEDALE.
(X, 2)

Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’ più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con grandissima pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse. E questo fatto, un de’ suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo abate; il qual da parte di lui assai amorevolmente gli disse, che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse.
Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: «Messere, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo».
Era già, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato; per che l’abate, co’ suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, e ogn’altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato, e i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne.
E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: «Messere, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi andavate, e per qual cagione».
L’abate, che, come savio, aveva l’altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo, e sì disse all’abate: «Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi».
L’abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sì come vane, e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che egli s’accorse l’abate aver mangiate fave secche, le quali egli studiosamente e di nascoso portate v’aveva e lasciate.
Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: «A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito».
Ghino adunque avendogli de’ suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: «Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria»; e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co’ suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L’abate co’ suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino. Ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare. A cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino.
Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: «Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà difendere, e non malvagità d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro».
Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne!» E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e opportune prendere, e de’ cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò.
Aveva il papa saputa la presura dello abate e, come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l’abate sorridendo rispose: «Santo Padre, io trovai più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha; e contogli il modo; di che il papa rise». Al quale l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia.
Il papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate disse: «Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de’ più; e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare».
Il papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.

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Il castello di Radicofani dove si svolge la vicenda

Ghino di Tacco uomo molto conosciuto per la sua ferocia ed i suoi ladrocini, essendo nemico dei conti dei Biancofiore ed essendo stato bandito da Siena, fece ribellare Radicofani alla Chiesa di Roma e lì dimorando, chiunque fosse passato per quei luoghi o per quelli circostanti subiva le ruberie dalla sua compagnia. Mentre a Roma vi era il papa Bonifacio VIII, vi giunse l’abate di Clignì, che sembra fosse uno dei più ricchi prelati del mondo e qui, ammalatosi di stomaco, gli fu consigliato di andare alle terme di Siena dove sarebbe certamente guarito. Perciò, ricevuta la concessione papale, senza preoccuparsi della presenza di Ghino in quei luoghi, con gran ricchezza di arnesi, di some, di cavalli e di persone iniziò il viaggio.
Ghino di Tacco, saputo del suo passaggio, organizzò l’agguato e senza che gli sfuggisse un solo servitorello racchiuse in una gola l’abate con tutta la sua compagnia; dopo ciò mandò all’abate, opportunamente accompagnato, il più loquace dei suoi servitori a cui, con estrema cortesia, disse di dover andare e di alloggiare insieme alle sue cose al castello di Ghino. L’abate, dopo aver ascoltato le parole del messaggere, furiosamente gli rispose che non l’avrebbe fatto, ma che sarebbe andato avanti e voleva vedere chi glielo avrebbe impedito.
A lui, l’ambasciatore, con atteggiamento rispettoso, rispose: «Signore, voi siete venuto in quella parte del luogo dove, all’infuori della potenza di Dio, niente temiamo e dove non c’è uomo che non sia scomunicato o interdetto; perciò, per il vostro bene, gradisca di compiacere la volontà di Ghino»
Mentre parlavano, tutto il luogo era stato già circondato dagli uomini di Ghino, per cui l’abate, vedendosi ormai catturato con tutta la sua famiglia, con forte disprezzo, prese la via del castello con l’ambasciatore e con tutta la sua compagnia e, smontato da cavallo, su ordinazione di Ghino, fu messo da solo in una cameretta disagevole e con poca luce, mentre tutti gli altri uomini, secondo la loro condizione, furono comodamente alloggiati; allo stesso modo tutti cavalli e tutte le cose portate dall’abate fu messo in disparte senza toccare nulla.
Dopo ciò Ghino andò dall’abate e gli disse: «Signore, Ghino, di cui siete ospite, mi manda per sapere dove eravate diretto e il motivo per cui vi andavate».
L’abate, saggiamente, messa da parte l’alterigia, gli riferì in quale luogo fosse diretto ed il perché. Ghino, dopo averlo ascoltato, uscì e pensò di volerlo guarire senza che lui andasse alle terme; nella cameretta in cui stava l’abate fece fare e governare un fuoco ardente e il giorno dopo vi tornò e arrotolate in una tovaglietta bianchissima mise due fette di pane abbrustolito un bel bicchiere di vernaccia di Corniglia, dalle terre dello stesso abate e così disse all’abate: «Signore, quando Ghino era più giovane, studiò medicina e afferma che ha appreso una cura che nessun’altra ve n’è di migliore per il mal di stomaco di quella che lui stesso vi preparerà, di cui queste cose che vi porto sono l’inizio, perciò prendete e state di buon animo».
L’abate che aveva più fame che voglia di parlare, sebbene lo facesse con un atteggiamento un po’ sdegnoso, mangio lo stesso il pane e bevve la vernaccia e poi disse parole alterate e domandò molte cose e molte disse di dover fare e per ultimo chiese di poter vedere Ghino. Quest’ultimo, ascoltandolo, lasciò che molte parole dell’abate risuonassero vuote ad altre rispose con gentilezza e infine gli disse che, non appena Ghino avesse potuto,  sarebbe andato a salutarlo. Detto questo si allontanò e non vi tornò che il giorno dopo con lo stesso pane abbrustolito e con la stessa vernaccia e così continuò per un po’ di giorni tanto che si accorse che l’abate, di nascosto, aveva mangiato fave secche che Ghino stesso aveva portato e lasciato.
Per questo egli gli domandò da parte di Ghino come gli sembrasse andasse il suo mal di stomaco, a cui l’abate rispose: «A me sembrerebbe di star bene, se non fossi nelle sue mani e, a parte questo, non ho altra voglia che di mangiare, così bene mi hanno guarito le sue medicine».
Ghino, quindi, fatta raccogliere in una camera tutte le sue cose e l’intero suo seguito e fatta preparare una grande tavolata alla quale fu invitata tutta la famiglia di Ghino e tutti gli accompagnatori dell’abate da lui, il giorno dopo, andò e gli disse: «Signore, dal momento che state bene, è ora che voi usciate dall’infermeria», e presolo per mano lo portò nella sala che aveva allestito e qui, lasciatolo con i suoi, prestò la sua attenzione a preparare un convito sontuoso.
L’abate con i suoi accompagnatori molto si svagò e come avesse passato quei giorni raccontò loro, mentre essi al contrario gli di essere di essere stati meravigliosamente trattati da Ghino; ma giunta l’ora di mangiare, l’abate e tutti gli altri furono serviti in modo convenevole, senza che Ghino si lasciasse ancora riconoscere. Ma dopo che l’abate un po’ di giorni rimase al castello in questo modo, avendo Ghino raccolto tutti i suoi arnesi in una sala e i cavalli, sino al più misero ronzio, radunati nel cortile, andò dall’abate e gli domandò lo stato della sua salute e se si riteneva abbastanza in forma da poter cavalcare; a lui l’abate rispose che stava bene e che era guarito dal mal di stomaco e che starebbe bene qualora fosse fuori dalla prigionia in cui lo teneva Ghino.
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Ghino allora lo condusse dove aveva i suoi arnesi e tutta la sua compagnia e lo fece affacciare alla finestra da dove poteva vedere tutti i suoi cavalli e dopo gli disse: «Signor abate, voi dovete sapere che essere un nobile uomo, cacciato di casa e ridotto in povertà, l’avere molti e potenti nemici, per poter difendere la sua nobiltà e la libertà, e non per malvagità, hanno portato Ghino di Tacco, che sono io, a essere rapinatore e nemico della Chiesa. Ma, dal momento in cui vi reputo un uomo pieno di virtù, avendovi guarito dal mal di stomaco, non intendo trattarvi come qualsiasi altro al quale, quando fosse nelle mie mani, come siete voi ora, prenderei dalle sue cose tutto ciò di cui avessi voglia, ma io desidero che voi a me, considerata la mia condizione, mi diate quella parte che voi stesso volete darmi. Sono tutte qui davanti a voi e dalla finestra potete vedere i vostri cavalli; perciò prendete una parte o tutta e sia nella vostra volontà l’andare via o il voler rimanere qui».
L’abate rimase meravigliato che un rapinatore di strada avesse parle così liberali e ciò gli piacque molto: immediatamente mutando la sua ira in benevolenza, diventato dentro il suo cuore amico di Ghino, corse ad abbracciarlo, dicendo: «Giuro su Dio che per dovermi guadagnare l’amicizia di un uomo con quei valori che ormai giudico tu abbia, sarei disposto a subire un’offesa maggiore di quella che mi è parso tu abbia fatto a me. Sia maledetta la sorte che ti ha condannato ad un così deprecabile stato!» E detto ciò, prese con sé se non pochissime e necessarie cose e lo stesso fece dei cavalli, lasciando tutto il resto a Ghino, e se ne tornò a Roma.
Il papa aveva saputo del rapimento dell’abate e ne era molto preoccupato; vedendolo gli domandò se avesse ricevuto benefici dalle terme, a cui l’abate rispose con un sorriso: «Santo padre, ho trovato un bravissimo medico più vicino delle terme, che mi ha ottimamente guarito» e gli raccontò l’episodio occorsogli. Di ciò il papa rise e a lui l’abate, spinto da generosità d’animo, domandò una grazia.
Il papa, capendo che l’abate voleva domandare di più, liberamente lo pregò che glielo svelasse, allora l’abate disse: «Santo padre, quello che voglio domandarvi e che voi concediate il vostro perdono a Ghino di Tacco, mio medico, perché tra gli uomini valorosi e d’importanza che io ho incontrato nel corso della mia vita, egli è fra i più, e il male che egli fa, ritengo sia più frutto della sorte che della sua indole. Per cui se voi gli donate la vostra grazia, egli potrà vivere secondo il suo stato e non dubito affatto, cambiate le cose, che lui appaia a voi come è sembrato a me».
Il papa, sentendo questo, essendo lui stesso d’animo grande e amando perciò gli uomini valorosi, disse che l’avrebbe fatto volentieri se ciò era detto da una così degna di fede persona, e che lo facesse senza por tempo in mezzo a Roma. Giunse quindi Ghino, assicurato dalla parola del papa, secondo la volontà dell’abate, nella corte papale; né molto tempo dopo, reputandolo lo stesso papa pieno di virtù e fatto in modo che si riconciliasse con lui, lo nominò priore di un grande territorio di quelli degli Spedalieri e lo rese cavaliere; per cui lui si mantenne, finché visse amico della Chiesa e dell’abate di Clignì.

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Immagine tratta da un manoscritto che illustra la novella di Ghino di Tacco e dell’abate di Clignì

“Quiv’era l’Aretin che da le braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte” in questi due versi tratti dal Purgatorio di Dante, in cui ci ricorda come il giuriconsulto Benincasa da Laterina venne ammazzato appunto da Ghino di Tacco, ci dice forse quanto fosse popolare tale personaggio, tanto da essere sfruttato, in modo anche più ampio, dalla novella di Boccaccio.

Tuttavia nel Decameron la figura del criminale viene trasfigurata in una sorta di bandito gentiluomo, la cui vicenda si disegna sul piano della costrizione più che della scelta. Non sappiamo se sia vero il perdono del papa, ma che su di lui girassero notizie secondo le quali chiunque fosse stato rapito da lui, veniva poi rilasciato lasciandogli qualcosa con cui continuare a vivere, ne alimentò la leggenda.

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Statua rappresentante Ghino di Tacco a Radicofani

Ma a Boccaccio non serve costruire un personaggio che tanto sarebbe piaciuto alla lettura romantica, quanto invece un rappresentante di un mondo in cui la liberalità era segno distintivo di grandezza e nobiltà d’animo. Ghino di Tacco in questo è fratello di Federigo degli Alberighi, la cui generosità sarà premiata in uno con il matrimonio, nell’altro con il cavalierato. Infatti una delle parole che emerge in questa novella è il concetto di fortuna: ma dietro essa vi è sempre l’uomo e ancora al di sopra di lui, Dio. Suiamo non a caso nella decima giornata in cui è premiata la liberalità dei protagonisti; ma a liberalità è un frutto di scelta dell’uomo, che, sembra dirci Boccaccio non viene cancellata dalla storia, ma permane in lui fino ad esserne premiato.  

L’ultima novella, forse tra le più apprezzate, grazie alla traduzione latina che ne fece Petrarca, ci è raccontata dal più intemperante dei novellatori, Dioneo.

IL MARCHESE DI SANLUZZO DA’ PREGHI DE’ SUOI UOMINI COSTRETTO DI PIGLIAR MOGLIE, PER PRENDERLA A SUO MODO, PIGLIA UNA FIGLIUOLA D’UN VILLANO, DELLA QUALE HA DUE FIGLIUOLI, LI QUALI LI FA VEDUTO D’UCCIDERGLI; POI, MOSTTRANDO LEI ESSERGLI RINCRESCIUTA E AVERE ALTRA MOGLIE PRESA A CASA FACCENDOSI RITORNARE LA PROPRIA FIGLIUOLA COME SE SUA MOGLIE FOSSE, LEI AVENDO IN CAMISCIA CACCIATA E A OGNI COSA TROVANDOLA PAZIENTE, PIU’ CARA CHE MAI IN CASA TORNATALASI, I SUOI FIGLIUOLI GRANDI LE MOSTRA E COME MARCHESANA L’ONORA E FA ONORARE.
(X, 10)

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Pesellino: Le storie di Griselda (1445)

Già è gran tempo, fu tra’ marchesi di Sanluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiere avea, di che egli era da reputar molto savio. La qual cosa a’ suoi uomini non piacendo, più volte il pregarono che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliele tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, ed esso contentarsene molto.
A’ quali Gualtieri rispose: «Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga, e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s’abbatte. E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza; con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di quelle; quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, e io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’ vostri prieghi». I valenti uomini risposon ch’eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie.

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Anonimo: Griselda svestita (1494)

Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera giovinetta che d’una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse aver vita assai consolata; e per ciò, senza più avanti cercare, costei propose di volere sposare; e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne di torla per moglie. Fatto questo, fece Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro: «Amici miei, egli v’è piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son disposto più per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie avessi. Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d’esser contenti e d’onorar come donna qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa, e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio, assai presso di qui, la quale io intendo di tor per moglie e di menarlami fra qui a pochi dì a casa; e per ciò pensate come la festa delle nozze sia bella, e come voi onorevolmente ricever la possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento, come voi della mia vi potrete chiamare».
I buoni uomini lieti tutti risposero ciò piacer loro, e che, fosse chi volesse, essi l’avrebber per donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna. Appresso questo, tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il simigliante fece Gualtieri. Egli fece preparare le nozze grandissime e belle, e invitarvi molti suoi amici e parenti e gran gentili uomini e altri dattorno; e oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso d’una giovane, la quale della persona gli pareva che la giovinetta la quale avea proposto di sposare; e oltre a questo apparecchiò cinture e anella e una ricca e bella corona, e tutto ciò che a novella sposa si richiedea.

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Pesellino: Incontro e matrimonio tra Gualtieri e Griselda (1445)

E venuto il dì che alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che ad onorarlo era venuto; e ogni cosa opportuna avendo disposta, disse: «Signori, tempo è d’andare per la novella sposa»; e messosi in via con tutta la compagnia sua pervennero alla villetta. E giunti a casa del padre della fanciulla, e lei trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri, la quale come Gualtieri vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre fosse; al quale ella vergognosamente rispose: «Signor mio, egli è in casa».
Allora Gualtieri smontato e comandato ad ogn’uomo che l’aspettasse, solo se n’entrò nella povera casa, dove trovò il padre di lei che aveva nome Giannucole, e dissegli: «Io son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia»; e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s’ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sì.
Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, e in presenzia di tutta la sua compagnia e d’ogni altra persona la fece spogliare ignuda, e fattisi quegli vestimenti venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i suoi capegli così scarmigliati com’egli erano le fece mettere una corona, e appresso questo, maravigliandosi ogn’uomo di questa cosa, disse: «Signori, costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito»; e poi a lei rivolto, che di sé medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: «Griselda, vuo’ mi tu per tuo marito?»
A cui ella rispose: «Signor mio, sì».
Ed egli disse: «E io voglio te per mia moglie»; e in presenza di tutti la sposò; e fattala sopra un pallafren montare, onorevolmente accompagnata a casa la si menò. Quivi furon le nozze belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di Francia. La giovane sposa parve che co’ vestimenti insieme l’animo e i costumi mutasse. Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella: e così come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d’alcun nobile signore; di che ella faceva maravigliare ogn’uom che prima conosciuta l’avea; e oltre a questo era tanto obbediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il più contento e il più appagato uomo del mondo; e similmente verso i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve n’era che più che sé non l’amasse e che non l’onorasse di grado, tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando; dicendo, dove dir solieno Gualtieri aver fatto come poco savio d’averla per moglie presa, che egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse; per ciò che niun altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l’alta virtù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l’abito villesco. E in brieve non solamente nel suo marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, e in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s’era contra ‘l marito per lei quando sposata l’avea.
Ella non fu guari con Gualtieri dimorata, che ella ingravidò, e al tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa. Ma poco appresso, entratogli un nuovo pensier nell’animo, cioè di volere con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, primieramente la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente poi che vedevano che ella portava figliuoli; e della figliuola che nata era tristissimi, altro che mormorar non facevano.

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Charles West Cope: La prima prova della pazienza di Griselda (1849)

Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse: «Signor mio, fa di me quello che tu credi che più tuo onore e consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta, sì come colei che conosco che io sono da men di loro, e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti». Questa risposta fu molto cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata, per onor che egli o altri fatto l’avesse.
Poco tempo appresso, avendo con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il quale con assai dolente viso le disse: «Madonna, se io non voglio morire, a me conviene far quello che il mio signor mi comanda. Egli m’ha comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch’io…» e non disse più.
La donna, udendo le parole e vedendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi, comprese che a costui fosse imposto che egli l’uccidesse; per che prestamente presala della culla e baciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli: «Te’: fa compiutamente quello che il tuo e mio signore t’ha imposto; ma non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse». Il famigliare, presa la fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi egli della sua costanzia, lui con essa ne mandò a Bologna ad una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si fosse, diligentemente l’allevasse e costumasse.
Sopravenne appresso che la donna da capo ingravidò, e al tempo debito partorì un figliuol maschio, il che carissimo fu a Gualtieri; ma, non bastandogli quello che fatto avea, con maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un dì le disse: «Donna, poscia che tu questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son potuto, sì duramente si ramaricano che uno nepote di Giannucole dopo me debba rimaner lor signore; di che io mi dotto, se io non ci vorrò esser cacciato, che non mi convenga far di quello che io altra volta feci, e alla fine lasciar te e prendere un’altra moglie». La donna con paziente animo l’ascoltò, né altro rispose se non: «Signor mio, pensa di contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiere alcuno, per ciò che niuna cosa m’è cara se non quant’io la veggo a te piacere».
Dopo non molti dì Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò per lo figliuolo, e similmente dimostrato d’averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse; di che Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niun’altra femina questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe. I sudditi suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo crudele uomo, e alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le donne, le quali con lei de’ figliuoli così morti si condoleano, mai altro non disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea.
Ma, essendo più anni passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare l’ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de’ suoi disse che per niuna guisa più sofferir poteva d’aver per moglie Griselda e che egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l’aveva presa, e per ciò a suo poter voleva procacciar col papa che con lui dispensasse che un’altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni uomini fu molto ripreso. A che null’altro rispose, se non che convenia che così fosse. La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto e vedere ad un’altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in sé medesima si dolea; ma pur, come l’altre ingiurie della fortuna avea sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere.
Non dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a’ suoi sudditi il papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e lasciar Griselda. Per che, fattalasi venir dinanzi, in presenza di molti le disse: «Donna, per concession fattami dal papa, io posso altra donna pigliare e lasciar te; e per ciò che i miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade, dove i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu più mia moglie non sia, ma che tu a casa Giannucole te ne torni con la dote che tu mi recasti, e io poi un’altra, che trovata n’ho convenevole a me, ce ne menerò».
La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne le lagrime, e rispose: «Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l’ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi; ecco il vostro anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dote me ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, né a voi pagator né a me borsa bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m’è che ignuda m’aveste: e se voi giudicate onesto che quel corpo, nel qual io ho portati figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, io me n’andrò ignuda; ma io vi priego, in premio della mia verginità, che io ci recai e non ne la porto, che almeno una sola camiscia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa».
Gualtieri, che maggior voglia di piagnere avea che d’altro, stando pur col viso duro, disse: «E tu una camiscia ne porta».
Quanti dintorno v’erano il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei, che sua moglie tredici anni e più era stata, di casa sua così poveramente e così vituperosamente uscire, come era uscirne in camicia; ma in vano andarono i prieghi; di che la donna, in camiscia e scalza e senza alcuna cosa in capo, accomandatili a Dio, gli uscì di casa, e al padre se ne tornò con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro. Giannucole, che creder non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l’aveva i panni che spogliati s’avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che recatigliele ed ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si diede, sì come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nimica fortuna.
Come Gualtieri questo ebbe fatto, così fece veduto a’ suoi che presa aveva una figliuola d’uno dei conti da Panago; e faccendo fare l’appresto grande per le nozze, mandò per Griselda che a lui venisse, alla quale venuta disse: «Io meno questa donna la quale io ho nuovamente tolta, e intendo in questa sua prima venuta d’onorarla; e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le camere né fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono; e per ciò tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello che da far ci è, e quelle donne fa invitare che ti pare, e ricevile come se donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare».
Come che queste parole fossero tutte coltella al cuore di Griselda, come a colei che non aveva così potuto por giù l’amore che ella gli portava, come fatto avea la buona fortuna, rispose: «Signor mio, io son presta e apparecchiata». Ed entratasene co’ suoi pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa, della qual poco avanti era uscita in camicia, cominciò a spazzare le camere e ordinarle, e a far porre capoletti e pancali per le sale, a fare apprestare la cucina, e ad ogni cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani; né mai ristette che ella ebbe tutto acconcio e ordinato quanto si convenia. E appresso questo, fatto da parte di Gualtieri invitare tutte le donne della contrada, cominciò ad attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse poveri in dosso, con animo e con costume donnesco tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto viso, ricevette.
Gualtieri, il quale diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente, che maritata era in casa de’ conti da Panago, essendo già la fanciulla d’età di dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse, e il fanciullo era di sei, avea mandato a Bologna al parente suo, pregandol che gli piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo, e ordinare di menare bella e orrevole compagnia con seco, e di dire a tutti che costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa ad alcuno chi ella si fosse altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo alquanti dì con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l’ora del desinare giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini dattorno trovò, che attendevan questa novella sposa di Gualtieri. La quale dalle donne ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così come era, le si fece lietamente incontro dicendo: «Ben venga la mia donna». Le donne (che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la Griselda si stesse in una camera, o che egli alcuna delle robe che sue erano state le prestasse, acciò che così non andasse davanti a’ suoi forestieri) furon messe a tavola, e cominciate a servire. La fanciulla era guardata da ogn’uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio; ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino.
Gualtieri, al qual pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua donna, veggendo che di niente la novità delle cose la cambiava, ed essendo certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia molto la conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell’amaritudine, la quale estimava che ella sotto il forte viso nascosa tenesse. Per che, fattalasi venire, in presenzia d’ogn’uomo sorridendo le disse: «Che ti par della nostra sposa?»
«Signor mio», rispose Griselda «a me ne par molto bene; e se così è savia come ella è bella, che ‘l credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato signore del mondo; ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all’altra, che vostra fu, già deste, non diate a questa; ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sì perché più giovane è, e sì ancora perché in dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata».
Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato, e disse: «Griselda, tempo è omai che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro, li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale, conoscano che ciò che io faceva, ad antiveduto fine operava, vogliendo a te insegnar d’esser moglie e a loro di saperla torre e tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non mi intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal mio piacer partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te ad una ora ciò che io tra molte ti tolsi, e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi; e per ciò con lieto animo prendi questa, che tu mia sposa credi, e il suo fratello: sono i nostri figliuoli, li quali e tu e molti altri lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo marito, il quale sopra ogn’altra cosa t’amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com’io, si possa di sua moglie contentare».
E così detto, l’abbracciò e baciò, e con lei insieme, la qual d’allegrezza piagnea, levatosi, n’andarono là dove la figliuola tutta stupefatta queste cose ascoltando sedea, e abbracciatala teneramente e il fratello altressì, lei e molti altri che quivi erano sgannarono. Le donne lietissime levate dalle tavole, con Griselda n’andarono in camera, e con migliore augurio trattile i suoi pannicelli, d’una nobile roba delle sue la rivestirono, e come donna, la quale ella eziandio negli stracci pareva, nella sala la rimenarono. E quivi fattasi co’ figliuoli maravigliosa festa, essendo ogn’uomo lietissimo di questa cosa, il sollazzo e ‘ festeggiare multiplicarono e in più giorni tirarono; e savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l’esperienze prese della sua donna; e sopra tutti savissima tenner Griselda.
Il conte da Panago si tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucole dal suo lavorio, come suocero il puose in istato, che egli onoratamente e con gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza. Ed egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato visse. Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l’avesse in camicia cacciata, s’avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba.

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Esilio di Griselda (1494)

Molto tempo fa,  un giovane chiamato Gualtieri fu tra i marchesi di Saluzzo il capo della famiglia, il quale non avendo moglie né figlioli, in nessuna altra cosa trascorreva il suo tempo se non andando a caccia di uccelli e di selvaggina, e non aveva nessuna intenzione né di prendere moglie né di avere figli, cosa per cui egli era reputato molto saggio. Questa cosa ai suoi sudditi non piaceva e più volte lo pregarono di prender moglie affinché lui non rimanesse senza eredi ed essi senza signore, dichiarandosi pronti a trovare per lui una donna tanto nobile e gentile e figlia di padre e madre tali che si potesse nutrire buona speranza e ne potesse rimanere molto soddisfatto.
A questi Gualtieri rispose: «Amici miei, non mi costringete a fare quello che io avevo deliberato di non fare mai, considerando come sia difficile trovare chi si accordi alle proprie abitudini, e quanto grande sia la quantità del contrario e come sia dura la vita di colui che si imbatte in una donna non adatta a lui. Ed è una sciocchezza dire che voi crediate di conoscere le figlie dai costumi dei padri e delle madri e da qui argomentare di trovarmene una che mi piacerà, perché io non so come possiate conoscere i loro padri e i segreti delle loro madri e, pur conoscendoli, spesse volte accade che le figliole siano molto diverse dai padri e dalle madri. Ma dal momento in cui a voi piace mettermi le catene, ecco che vi voglio accontentare; e affinché non debba poi lamentarmi con altri se non con me stesso, se la cosa dovesse riuscire male, io stesso voglio individuare la fanciulla da sposare, dichiarandovi in modo esplicito che chiunque sia la donna che sposerò, se non sarà rispettata da voi come signora, voi sperimenterete a vostro danno quali possano essere gravi le conseguenze dell’avere io preso moglie contro i miei desideri, in base alle vostre sollecitazioni». I valenti nobiluomini risposero che erano d’accordo, a patto che lui stesso si inducesse a prender moglie.
Da molto tempo erano piaciuti a Gualtieri i modi di una povera giovinetta di un villaggio vicino a casa sua e sembrandogli molto bella credette che con lei avrebbe potuto avere una vita assai felice. E per questo, senza cercare ulteriormente, propose di volerla sposare e fattosi chiamare il padre, che era poverissimo, si accordò con lui per prenderla come moglie.
Fatto questo, Gualtieri fece riunire tutti i suoi amici dei dintorni e disse loro: «Amici miei, vi è piaciuto e vi piace che io mi decida a prender moglie , e io mi sono deciso più per accontentarvi che per il desiderio di avere moglie. Voi sapete quello che mi avete promesso, cioè di essere contenti e onorare come vostra signora chiunque io sposi; e per questo è venuto il tempo che io vi mantenga la promessa, e voglio che voi la manteniate a me. Io ho trovato qua vicino una giovane secondo il mio desiderio, che io intendo prendere per moglie e condurla  a casa fra pochi giorni, e per questo pensate ad organizzare una bella festa e a riceverla con tutti gli onori, dimostrandomi che io mi possa ritenere soddisfatto della vostra parola come voi possiate ritenervi soddisfatti della mia».
I nobiluomini risposero che gradivano ciò che il marchese aveva deciso e che la donna fosse chi volesse lui e che essi l’avrebbero accettata come padrona e l’avrebbero adorata in ogni occasione come signora; e dopo ciò tutti si prepararono per fare una bella, grande e straordinaria festa, e lo stesso fece Gualtieri. Egli fece preparare nozze assai sfarzose e belle, invitò molti suoi amici, parenti e nobili importanti e altra gente del circondario; e oltre a questo fece tagliare molti vestiti eleganti e preziosi sul modello di una giovane che gli sembrava simile, nella persona, alla ragazza che aveva deciso di sposare, e oltre a ciò preparò cinture e anelli e una ricca e bella acconciatura e tutto ciò che si riteneva opportuno per una nuova sposa.
Giunto il giorno stabilito per le nozze, Gualtieri alle sette e mezza del mattino montò a cavallo e con lui tutti coloro che erano venuti a fargli onore e, avendo preparato ogni cosa, disse: «Signori è ormai tempo di andare a prendere la sposa» e messosi in cammino con tutti i suoi invitanti giunsero fino alla piccola fattoria. Arrivati a casa del padre della fanciulla e trovatala che stava tornando dalla fonte con una brocca d’acqua e s’affrettava, per poi andare a vedere insieme alle altre compagne la sposa di Gualtieri, appena questi la vide la chiamò per nome, cioé Griselda, e le domandò dove fosse suo padre al quale lei rispose timidamente: «Mio signore, è in casa». Gualtieri smontò allora da cavallo, fece segno a tutti d’attendere ed entrò nella casupola, dove trovò Giannucole, il padre di Griselda, e gli disse: «Sono qui per sposare tua figlia, ma prima voglio che lei mi dica una cosa qui in tua presenza» e le domandò se sempre, una volta presa per moglie, si preoccupasse di compiacergli e di non turbarsi per nessuna cosa egli avrebbe detto o fatto, se gli sarebbe stata sempre ubbidiente, e altre cose simili, alle quali richieste lei rispose di sì.
Allora Gualtieri prendendola per mano, la condusse fuori e in presenza di tutta la sua compagnia e di ogni persona che stava li a guardare, la fece spogliare nuda e fattosi portare quegli abiti che aveva fatto preparare, immediatamente la fece vestire e calzare, e sui capelli. così com’erano, scarmigliati, le fece posare il diadema e dopo questo, tra la meraviglia generale, disse: «Signori, lei è quella che io desidero come mia moglie, purché ella mi voglia per marito». Poi a lei rivolto, che se ne stava titubante e vergognosa di se medesima, le chiese: «Griselda, mi vuoi per tuo marito?»
A cui ella rispose: «Signor mio, sì».
E lui le disse: «Ed io voglio te per mia moglie» e, in presenza di tutti, la sposò. E fattala montare su un cavallo e se la portò a casa con tutti gli onori.
Qui le nozze furono splendide e maestose, e lo stesso fu la festa non diversamente se Gualtieri avesse sposato la figlia del re di Francia.
La giovane sposa sembrò che cambiasse insieme con i vestiti anche il suo carattere e i suoi modi. Lei era come già abbiamo detto molto bella sia di corpo che di viso e così come era bella divenne tanto elegante e disinvolta che non sembrava più essere stata  la figlia di Giannucole  e custode di pecore, ma quella di un nobile  signore, e perciò lei suscitò la meraviglia in tutti quelli che l’avevano conosciuta  prima.  E oltre a ciò era  così obbediente e servizievole verso il marito che lui si sentiva l’uomo più felice ed appagato del mondo; e nello stesso modo  era tanto gentile e benevola verso i sudditi che non c’era nessuno che non l’amasse più di se stesso e non la onorasse volentieri; e tutti pregavano per la sua salute, la sua fortuna e la sua prosperità, affermando, quando prima si era soliti dire che Gualtieri , prendendola in moglie, si era comportato in modo poco avveduto, che egli era il più saggio e il più previdente uomo che si fosse al mondo, per ciò che nessun altro, se non lui, avrebbe mai potuto conoscere l’alta virtù di lei nascosta sotto poveri panni ed un abito contadino.
Ed essendo passato poco tempo dal suo matrimonio, non solamente nel suo marchesato ma dappertutto, seppe ella così comportarsi che fece in modo si ragionasse del suo valore e del buon operato e fece ritirare e correggere i giudizi contrari che erano stati formulati contro il marito, a causa sua, quando l’aveva sposata.
Non molto tempo dopo che ella era vissuta con Gualtieri, rimase incinta e dopo nove mesi partorì una bambina, e per questo Gualtieri fece una gran festa.
Ma poco dopo, venutogli nella mente un pensiero bizzarro, cioè di volere con un lungo esperimento e con intollerabili prove saggiare la pazienza di lei. in primo luogo la offese con male parole mostrandosi arrabbiato e dicendo che i suoi sudditi non erano affatto contenti di lei a causa della sua bassa condizione e specialmente ora che lei generava figli ed erano addoloratissimi che era nata una femmina, tanto che non  facevano altro che mormorare.
La donna, ascoltando queste parole, senza cambiare l’espressione del viso o i buoni propositi alla base di ogni suo comportamento, disse: «Signor mio, fa’ di me quello che sia più consono al tuo onore e alla tua consolazione, perché io sarò soddisfatta di tutto essendo una che, come so, sono inferiore a loro e che io non ero degna di questo onore al quale tu, per tua generosità, mi hai offerto».
Questa risposta fu molto gradita a Gualtieri, riconoscendo che lei non si era assolutamente insuperbita a causa degli onori che da lui o da altri aveva ricevuto.
Poco tempo dopo, avendo detto con parole generiche che i sudditi non potevano sopportare quella fanciulla che aveva partorito, addestrato un suo servo lo mandò a lei, il quale con un viso dolorante, le disse: «Signora, se non voglio morire devo fare quello che il mio signore mi comanda. Egli mi ha comandato che io prenda questa vostra figliola e che io … » e non aggiunse altro.
La donna, ascoltando le parole e vedendo il viso del servo, e ricordandosi di ciò (che Gualtieri le aveva detto), comprese che a costui fosse stato imposto di ucciderla; per cui immediatamente, sollevatala dalla culla la baciò e la benedisse, e benché nel cuore provasse un grande dolore, senza mutare espressione, la diede in braccio al servo e gli disse: «Tieni: fa’ fino in fondo quello che il tuo e il mio signore ti ha imposto, ma non lasciarla in modo che le bestie e gli uccelli la divorino, sempre che lui non te lo comandasse».
Il servo, presa la fanciulla, riferito a Gualtieri ciò che la donna aveva detto e meravigliandosi molto della sua fermezza, lo mandò con la piccola a Bologna da una sua parente, pregandola, senza mai dirle di chi fosse figlia, di allevarla in maniera diligente e di educarla.
Accadde in seguito che la donna rimase di nuovo incinta e dopo nove mesi partorì un maschio, di che fu contentissimo Gualtieri; ma non bastandogli quello che aveva fatto prima, colpì la donna con maggiori insulti, e con un atteggiamento offeso un giorno le disse: «Donna, dopo che hai partorito questo figlio maschio, non ho potuto stare in alcun modo con i miei vassalli, così aspramente si lamentano che un nipote di Giannucole debba diventare, dopo la mia morte, loro signore; pertanto io temo che, se non voglio essere cacciato dalla mia terra, mi convenga fare quello che ho già fatto un’altra volta, e alla fine lasciare te e prendere un’altra moglie».
La donna lo ascoltò con pazienza e non rispose altro se non: «Signor mio, preoccupati di rendere felice te e di soddisfare il tuo piacere e non pensare a me, dal momento che nessuna cosa  mi è cara se non quando la vedo gradita a te».
Dopo non molti giorni, nella stessa maniera che aveva mandato a prelevare la figlia, o fece per il figlio e allo stesso modo, mostrando di averlo fatto ammazzare, lo mandò a Bologna per allevarlo, come prima aveva fatto con la fanciulla; e di questo fatto la donna non fece altro viso né disse altre parole che avesse fatto con l’episodio della figlia; di ciò Gualtieri si stupiva molto e affermava tra sé che nessuna donna poteva fare quello che lei faceva e se non fosse che l’aveva vista affezionatissima ai figli, finché a lui piaceva, avrebbe creduto che ciò dipendesse dal fatto che non se ne curava, mentre riconobbe che così faceva per la sua saggezza.
I suoi sudditi, credendo che egli avesse fatto uccidere i figli, lo rimproveravano aspramente e lo ritenevano un uomo crudele e avevano una grandissima compassione verso la donna; la quale, con le altre donne che con lei condividevano il dolore per i figli così uccisi, non disse altro se non che a lei stava bene ciò che piaceva a lui che li aveva generati.
Ma essendo passati abbastanza anni dalla nascita della fanciulla, sembrando a Gualtieri che fosse giunto il momento di fare l’ultima prova della paziente capacità di sopportazione di lei, disse a molti suoi vassalli che non poteva più in alcun modo sopportare di avere Griselda per moglie, e che capiva di aver agito male e per inesperienza giovanile quando l’aveva sposata, e che perciò voleva ottenere dal papa, con il suo prestigio, la dispensa di poter lasciare Griselda e sposare un’altra donna; cosa di cui lui stesso da valentissimi uomini fu molto rimproverato. Al che non rispose niente altro che era necessario che si facesse così.
La donna, avendo sentito queste cose, sembrandole che si dovesse aspettare di ritornare a casa dal padre e forse a governare le pecore come in passato, e vedere che un’altra donna aveva per marito l’uomo al quale voleva tutto il bene di cui era capace, molto si rammaricava dentro di sé, ma pure come aveva sostenuto le altre avversità così, con viso risoluto, si dispose a dover sostenere anche questa.
Non dopo molto tempo Gualtieri fece arrivare le sue lettere contraffatte da Roma e lasciò credere ai suoi sudditi attraverso queste che il papa gli aveva concesso la dispensa e di poter prendere un’altra moglie, lasciando Griselda; per cui, chiamatala al suo cospetto, alla presenza di molti, le disse: «Donna, per una concessione fattami dal papa io posso prendere un’altra donna e lasciare te; e dal momento che i miei antenati sono stati degli aristocratici e nobili di questi luoghi, dal momento che i tuoi sono sempre stati contadini, voglio che tu non sia più mia moglie ma che tu te ne torni a casa di Giannucolo con la dote che mi hai portato, e poi un’altra, che ho trovato della mia classe, la condurrò qui come moglie».
La donna, ascoltando queste parole, non senza una grandissima fatica, al di là della natura femminile, trattenne le lacrime e rispose: «Signor mio, ho sempre saputo che la mia bassa condizione non era assolutamente conveniente alla vostra nobiltà e quello che io sono stata con voi l’ho sempre riconosciuto come dono vostro e di Dio, né mai proprio come dono, lo feci mio o lo trattenni, ma sempre lo considerai come un prestito, e anche a me deve piacere e mi piace rendervelo: ecco l’anello con il quale mi sposaste, prendetevelo. Mi ordinate che io me ne vada con quella dote che vi ho recato: per fare ciò né voi avete bisogno di un servitore adibito a pagare né io di borsa o bestia da soma, perché non mi sono dimenticata che mi avete preso nuda; e se voi giudicate cosa onesta che quel corpo nel quale io ho portato i figlioli da voi generati sia visto da tutti, me ne andrò nuda; ma io vi prego, in premio della mia verginità che vi ho portato e che non posso portar via, che almeno una sola camicia sopra la mia dote vi piaccia che io possa portare».
Gualtieri, che non aveva altra voglia che quella di piangere, pur rimanendo con un atteggiamento altero, disse: «E tu, vattene con una camicia».
Tutti quelli che avevano osservato ciò, lo pregavano di darle almeno un abito, che non si vedesse colei che per sua moglie era stata per tredici anni o più nella sua casa, uscire così poveramente e così ingiuriosamente, come era appunto uscire con una semplice camicia; ma inutili furono le preghiere, per cui la donna, in camicia, scalza e senza nulla in capo, dopo averlo raccomandato a Dio, uscì dalla sua casa e se ne tornò dal padre, con le lacrime e con il pianto di tutti coloro che la videro andar via. Giannucolo, che non aveva mai potuto credere che fosse vero che Gualtieri dovesse trattenere la figliola come moglie, e aspettandosi da un giorno all’altro che questo che gli era capitato avvenisse, gli aveva conservato i vestiti che quella mattina che Gualtieri la sposò le aveva tolto; per cui ripresi i vestiti e rivestita, si dedicò ai piccoli servizi nella casa del padre, così come era stata abituata a fare, sostenendo con grande fortezza d’animo il feroce assalto della fortuna nemica.
Dopo che Gualtieri ebbe fatto questo, fece credere ai suoi sudditi di aver preso una figliola da uno dei conti di Panico e facendo fare grandi  preparativi per le nozze mandò qualcuno a chiamare Griselda e a lei, dopo esser giunta, disse: «Io conduco questa donna alla quale mi sono nuovamente legato con una solenne promessa di nozze e intendo farle onore in questa sua prima visita; tu sai che non ho in casa donne che mi sappiano preparare le camere né fare molte altre cose che sono richieste per un così grande evento: e perciò tu,che sai meglio di qualunque altra persona delle cose di casa, metti in ordine quello che c’e da mettere in ordine e chiama quelle donne che ti servono e ricevile come se fossi la padrona di questa casa; poi, celebrate le nozze, te ne potrai tornare a casa».
Nonostante queste parole fossero tutte colpi al cuore di Griselda, poiché non aveva potuto deporre l’amore che gli portava, come invece le accadde con la sorte, rispose: «Signor mio, sono pronta e disponibile». E entrata in quella casa coi suoi miseri e dozzinali  abiti, dalla quale era uscita poco tempo prima in camicia, cominciò a pulire le camere e a far porre drappi sulle pareti e in capo ai letti e tappeti sulle panche nelle varie sale, e a far attrezzare la cucina e porre mani a tutte le altre incombenze, come se fosse una piccola servetta della casa; né mai si fermò, prima di avere tutto sistemato e ordinato come era necessario.
Dopo questo, fatte invitare da Gualtieri tutte le donne del circondario, si cominciò a preparare la festa; e venuto il giorno delle nozze, sebbene avesse poveri panni addosso, con animo e atteggiamento signorile tutte le donne che giunsero alla cerimonia ricevette con cortesia.
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Griselda nell’interpretazione inglese

Gualtieri, il quale aveva fatto allevare con diligenza dalla sua parente, che era sposata con uno dei conti di Panico, i figli da Bologna, essendo già la fanciulla di dodici anni di una straordinaria bellezza, e il fanciullo avendo raggiunto i sei anni, aveva mandato un servo a Bologna dal suo parente pregandolo di venire con questa figliola e con questo figlio a Saluzzo e di portare con sé una bella e onorevole compagnia, e di dire a tutti che lui gli stava portando questa fanciulla per moglie, senza dire ad alcuno chi ella fosse realmente.
Il gentiluomo, fatto come il marchese desiderava, messosi in cammino, dopo diversi giorni con la fanciulla, col fratello e con una nobile compagnia, verso l’ora di cena giunse a Saluzzo, dove trovò tutti gli abitanti del paese e di altre località vicine che aspettavano questa nuova sposa di Gualtieri.
Questa, ricevuta dalle donne, e giunta nella sala dove erano state apparecchiate le tavole, venne accolta da Griselda, così come era, che le si fece incontro con viso lieto dicendo: «Benvenuta mia signora». Alle donne, che avevano molto ma inutilmente pregato Gualtieri di fare in modo che Griselda rimanesse in una stanza o che le prestasse qualcuno dei vestiti che erano già stati suoi affinché non andasse così davanti agli ospiti, fu ordinato di apprestarsi alla tavola e di iniziare a servire.
La fanciulla era osservata da tutti gli uomini e ciascuno di loro diceva che Gualtieri aveva fatto uno scambio vantaggioso, ma fra gli altri anche Griselda la lodava molto, sia lei che il suo fratellino.
Gualtieri, al quale sembrava di avere ormai visto e sperimentato tutto ciò che desiderava riguardo alla mansuetudine della sua donna, constatando che nessun cambiamento la scalfiva, ed essendo sicuro che questo accadeva non per la stupidità di Griselda, dal momento che la conosceva come donna molto saggia, gli parve fosse giunto il momento di liberarla dalle sofferenze che egli credeva che ella nascondesse dietro il suo atteggiamento impassibile. Per cui, fattala venire vicino a sé, in presenza degli altri uomini, sorridendole disse: «Che ti sembra della nostra sposa?».
«Signor mio,» rispose Griselda «a me sembra molto bella e se è così saggia quanto bella, cosa che credo, io non dubito assolutamente che voi vivrete con lei come il più felice uomo del mondo; ma per quanto posso, che quei dolori, che avete inferto all’altra che fu già vostra moglie, non diate a lei, perché io credo che ella li possa sostenere appena perché è più giovane e perché è stata allevata signorilmente, mentre l’altra era stata abituata alle fatiche sin da piccolina».
Gualtieri, vedendo che lei sicuramente credeva che questa fanciulla dovesse essere sua moglie e nonostante questo non ne parlasse meno bene, la fece sedere accanto a lui e disse: «Griselda, è arrivato il momento in cui tu possa godere il frutto della tua lunga pazienza, e tutti quelli che mi hanno reputato crudele, ingiusto e feroce conoscano che ciò che io ho fatto mirava a un fine prestabilito, volendo insegnare a te ad essere moglie e ai sudditi di saper scegliere e mantenerne una, e a me procurare una perpetua pace per tutto il tempo in cui dovessi vivere con te, il che quando ti scelsi come moglie ebbi una gran paura che non mi capitasse e per questo, per metterti alla prova in tutti i modi che tu sai, ti ho ferito e offeso. Ma io non mi sono mai accorto che in qualche parola o in qualche atto tu ti sia allontanata dal mio amore, sembrandomi aver da te quella consolazione che desideravo, intendendo rendere in un solo attimo  ciò che io in molto tempo ti tolsi, e con estrema dolcezza ristorarti dalle ingiurie che ti feci; e perciò con lieto animo guarda questa, che tu credi essere mia sposa, e il suo fratello: sono i nostri figli, i quali tu e molti altri avete a lungo creduto che io avessi fatto uccidere; e io sono tuo marito, che ti ama sopra ogni altra cosa dal momento che credo di potermi vantare che nessuno al mondo si possa dire contento e soddisfatto di sua moglie quanto me».
E così detto l’abbracciò e la baciò e con lei insieme, che piangeva per la gioia, alzatisi andarono là dove la figlia, completamente stupefatta, sedeva ascoltando queste cose e l’abbracciarono teneramente, facendo lo stesso con il fratello, e disingannarono lei e molti altri che era giunti sin qui.
Le donne, felicissime, uscendo dalla sala andarono in camera con Griselda e con i migliori auguri le tolsero i suoi poveri panni e la rivestirono di un nobile abito fra quelli che aveva e come signora, la quale sembrava ugualmente nei poveri stracci, la riportarono nella sala.
E qui, fatta una meravigliosa festa con i figlioli, essendo tutti felicissimi per questa cosa, il divertimento e i festeggiamenti si moltiplicarono e si prolungarono per più giorni, e si reputò Gualtieri uomo estremamente saggio, le cui ingiustizie verso la sua donna prima avevano considerato crudeli e intollerabili, ma sopra tutti considerarono Griselda saggissima.
Il conte di Panico, dopo qualche giorno, tornò a Bologna e Gualtieri, tolto Giannucolo dal suo lavoro, come suocero lo mise in una condizione agiata tanto che egli, in modo onorevole, e con gran consolazione, visse fino a che morì. Lui stesso, dopo, maritata nobilmente la sua figliola, lungamente e con consolazione visse con Griselda, onorandola quanto più avrebbe potuto.
Che cosa si potrà dire qui, se non che nelle povere case arrivano dal cielo degli spiriti divini, come nelle case reali di quelli che sarebbero più degni di governare maiali che di avere il dominio sugli altri uomini? Chi avrebbe, se non Griselda, potuto con il viso non solamente mai bagnato da una lacrima, ma sereno, sopportare le rigide e mai udite prove inflittele da Gualtieri? E questo Gualtieri, forse, si sarebbe invece meritato di imbattersi in una donna che, cacciata da lui di casa con soltanto una camicia addosso, avrebbe avuto rapporti con un altro in modo da ricavare una bella veste.

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Illustrazione in cui vediamo Gualtieri, Griselda e Giannucolo

La novella di Griselda può assumere più letture, vista la sua complessità interpretativa; ma prima di addentrarci in esse, ci sembra giusto osservarla da un punto di vista strutturale all’interno dell’intera opera: come infatti nella I, 1, quella iniziale su ser Cepperello leggevamo la massima depravazione, quasi fossimo nel punto più basso di degradazione umana portata al rinnegamento/capovolgimento del sacramento della confessione, in quella di Griselda, appunto X, 10, quindi la finale ci troviamo nel massimo della virtù, quella appunto della cancellazione di sé per lei.

Le interpretazioni sulla novella sono tre:

  1. la prima ce la fornisce Petrarca stesso che, come abbiamo detto, ne ha fatto una traduzione; riprendendo le Storie di Giobbe di biblica memoria, Boccaccio ha fatto di Griselda l’esempio della rinuncia per volere di Dio. Dio dà all’uomo prove d’incredibile sopportazione, avendo in mente un disegno di cui solo Lui sa il fine. Se l’uomo le supera otterrà il premio dovuto. Quindi Gualtieri come Dio, Griselda come Giobbe o Maria Vergine.
  2. La seconda ce la offre l’analisi sulla fiaba di Vladimir Propp; la novella ha tutte le caratteristiche della fiaba: ad iniziare dalla svestizione, dalle prove da superare e il lieto fine. (elemento portante, inoltre, è la presenza dell’anello, onnipresente nelle fiabe, nella versione fatata);
  3. La versione sociologica: la novella presenta l’obbedienza cieca che un suddito doveva al feudatario, non per niente è ambientata in un tempo lontano e in luogo dove, al tempo di Boccaccio, ignari dei cambiamenti sociali, ancora persisteva. Ma si chiude anche con la vittoria della borghesia, cioè con un matrimonio sulla cui base vi è l’amore d’entrambi e la costruzione di una famiglia.   

 

Abbiamo già detto, sebbene in modo piuttosto sintetico, quali sono state le fonti di cui Boccaccio si è servito per scrivere il suo capolavoro ma ora è interessante, dopo aver visto alcune novelle, riprendere il discorso sottolineando il motivo per cui lo ha pensato, quali sono stati gli argomenti maggiormente trattati e se ha cercato, nella varietà delle novelle, d’utilizzare uno stile che potesse variare, ma nel contempo non inficiare l’architettura complessiva dell’opera.

L’opera ha un fine edonistico, procurare piacere a chi lo legge (le donne), ma anche didascalico, insegnar loro delle regole di vita attraverso gli exempla che le stesse novelle potevano offrire. Certo il primo fine si può ottenere proprio dall’atto stesso del narrare: il sentire storie è piacevole in sé, mostra cose del mondo che si ignorano nel tempo, nello spazio e nella morale, ma è proprio dal continuo raffronto tra il mondo e i lettori, oltre ad interessare ora e quindi provare diletto, s’impara dallo stesso a trovare o a evitare atteggiamenti, facendoli propri, ma non venendo mai meno al mondo ideale che i dieci novellatori hanno creato.

Se proprio questi dieci ragazzi sono gli espositori di racconti tratti dalla vita, l’autore (narratore di primo grado) oltre che costruire intorno a loro una ferrea struttura, non si prende la responsabilità di prendere la parola, ma li usa come schermo al fine d’allontanare la materia trattata per poterla osservare con più attenzione, cogliendo l’universo mondo, allo stesso modo di come lo aveva colto il suo dichiarato maestro, Dante.

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I dieci novellatori nel film dei Taviani

Ed è proprio a Dante a cui bisogna guardare per capire l’identità e la differenza tra i due capolavori trecenteschi: 10 gironi a cantica, 10 giornate e 10 giovani (tre ragazzi e tre ragazze, ad indicare – in modo inconsapevole? – le tre virtù teologali e le sette cardinali – ma ci piace aggiungere che la sottolineatura dei critici poco ci convince), 100 novelle, 100 canti: ma se il tomistico Dante da tale regola non scantona, il laico Boccaccio ci sta stretto: 10 giornate a cui 2 a tema libero; Dioneo che racconta sempre quello che gli pare, le novelle non sono 100 ma 101 se si ci mette anche quella delle papere (raccontata dal narratore di primo grado). 

Torniamo per un attimo alla cornice: non è semplicemente costituita dal Proemio, dall’Introduzione alla I e alla IV giornata e dalla Conclusione: essa s’insinua anche all’interno di ogni giornata in cui l’autore ci illustra la vita (stereotipata, certo, ma anche ordinata) dei dieci novellatori, nonché la conclusione di ognuna di esse che viene celebrata alla fine dei racconti con una ballata e dopo con la nomina della regina o del re che detterà l’argomento da trattare il giorno seguente. Perché tale bisogno di inserire il tutto in uno schema così perfetto? Per un bisogno d’armonia interna: se fino ad allora, nella tradizione novellistica i racconti si seguivano uno dopo l’altro, qui essi s’inseriscono all’interno di un tempo e di un tema; ma anche questo ha bisogno di una pur minima graffiatura. Ciò non inficia l’armonia, ma la rafforza se gestisco le due libere nella prima, quasi ad introdurre il lettore alla varietà dell’opera e alla nona, ad invitarlo a respirare prima dell’apoteosi della liberalità e cortesia dell’ultima; se il libero Dioneo obbedisce al tema dettato o no e se lo stesso, dopo esser stato per tutta l’opera il più irriverente e scanzonato nelle novelle raccontate, chiude con la più drammatica e perfetta che Petrarca  traduce e Chauser  riprende: Griselda

Passiamo quindi ai temi che si possono individuare in tre nuclei:

  1. Fortuna;
  2. Natura/amore;
  3. Ingegno

Partiamo dal primo: se la fortuna dantesca non è che un cielo ruotante per volontà di Dio a cui l’uomo non si può contrapporre, per Boccaccio, pur ancora casuale, si può in qualche caso piegarla a proprio vantaggio: si prendano ad esempio le novelle di Andreuccio, Landolfo e Masetto; vengono tutti tre “mossi dalla fortuna”, il primo dalla casualità della morte del vescovo, il secondo dalla salvezza grazie ad una cassa piena di gioielli, il terzo dalla morte del fattore. Se Landolfo è in qualche modo agito dalla fortuna, gli altri due la gestiscono in modo “intelligente”. E’ normale aggiungere, poi, che ad essa Boccaccio sposi spesso l’avventura, che trova la sua massima espressione nel “realismo” della Napoli di Andreuccio e nel mare metaforicamente espressione dell’imprevedibilità del caso di Masetto.

L’eros è quasi il tema più rappresentato nell’intera opera e trattato secondo diversi stili e diversi ambienti. Quello che tuttavia emerge è, quasi in maniera trasversale, che Boccaccio intende l’amore in modo naturale, per meglio dire, istintuale e questo si può vedere sia a livello alto (si pensi all’arringa di Ghismuda contro Tancredi) sia a livello popolare (ma non bisogna dimenticare che ciò si verifica quando si tratta di semplice soddisfacimento), sia a livello di censura (la novella di Lisabetta), sia di rapporti cortesi (Federigo degli Alberighi) e ancora, ma non ultima, come raggiungimento di un obiettivo  (Masetto salernitano e Agifulfo). Insomma il Boccaccio non accetta una dicotomia natura / eros, essendo parte ambedue della stessa costituzione umana, e quindi non più il peccato di lussuria di dantesca memoria ma soddisfacimento con soddisfazione o negazione con tragedia; ma l’idea del nostro autore continua ad essere, al di là del pianto o del sorriso, quella di un “matrimonio” borghese, come ci dicono le novelle di Federigo, appunto, o di Nastagio.

L’ingegno come capacità di sbrogliarsi da situazioni difficoltose caratterizza trasversalmente l’intera opera. Nella sesta giornata è il tema fondamentale quando esso s’accompagna con la parola, la battuta sagace che riesce ad annichilire l’avversario (si tratti di Cavalcanti o di Cisti). Ma l’ingegno si può tradurre anche in situazioni in cui è l’intelligenza a trovare l’occasione per ottenere ciò che si è proposto: è il caso del palafreniere di Agifulf o dell’ebreo Melchisedech, chi con un gesto e chi con una risposta non solo scampano ma vengono definiti, da Boccaccio, savi.

 

 

 

   

 

DANTE ALIGHIERI

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Sandro Botticelli: Ritratto di Dante Alighieri, 1495

Dante Alighieri nasce a Firenze, nel maggio o nel giugno del 1265, da una famiglia della piccola nobiltà guelfa, la cui crisi economica era stata accentuata dall’affermarsi, in città, della classe borghese. Egli stesso, nel Paradiso, ci dice d’essere antenato di Cacciaguida, un cavaliere dell’XI secolo (non si sa della verità di tale affermazione, ma ci dà l’impronta di una ideologia ancorata alla feudalità). Molto presumibilmente Dante si trovò orfano di madre, Bella degli Abati forse a cinque o sei anni, ma il padre, Alighiero Alighieri, si risposò e gli diede altri tre fratelli. Pur non ricco, riuscì ad avere un’educazione raffinata. E’ giovanissimo (12 anni) quando, secondo le usanze del tempo, venne concordato il matrimonio tra lui e Gemma della famiglia dei Donati; adolescente studiò dapprima a Firenze, le classiche arti del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia), poi quasi sicuramente a Bologna, le discipline universitarie (filosofia e teologia).

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Dante e Brunetto Latini, affresco attribuito a Giotto

Perse il padre tra il 1282 e il 1283, trovandosi, così, a dover sostenere nuovi impegni familiari e sposò Gemma, nel 1285, da cui avrà tre figli o quattro figli.
Dopo la parentesi bolognese, tornò a Firenze, tra il 1287 e 1288, dove conobbe sia Guido Cavalcanti (il primo amico) sia Brunetto Latini, che gli farà da maestro nella retorica e che forse gli insegnerà il valore morale della letteratura.

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Paolo Uccello: La battaglia di Campaldino

Nel 1289 prese parte alla battaglia di Campaldino contro Arezzo e molto probabilmente anche alla guerra contro Pisa; nel frattempo cominciò a distinguersi in città come abile verseggiatore: non sappiamo con precisione il periodo esatto dell’incontro con Beatrice, se non quello che egli ci dirà nella Vita nuova; ma sappiamo che è una giovane donna già sposata e che morirà a 25 anni; sarà lei a diventare il fulcro di una ricerca intellettuale che culminerà nella composizione della Commedia.

L’attività poetica di questo periodo viene svolta sulla base delle esperienze che autori come Guinizzelli e Cavalcanti avevano già prodotto e con i quali il nostro darà vita a quel Dolce Stil Novo da lui così nominato nel Purgatorio. Ma la morte di Beatrice farà presto prendere le distanze da tale movimento con la composizione della Vita nuova, che costituisce l’apogeo e insieme il superamento dello Stilnovo.

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Miniatura raffigurante Giano Della Bella

Dal 1295 al 1302 Dante partecipò attivamente alla vita politica del Comune. Giano della Bella, politico fiorentino, nel 1293 sancì l’estromissione dei nobili da ogni carica pubblica cittadina. In seguito il provvedimento fu attenuato e fu concesso loro di ricoprire cariche pubbliche in cambio di un’iscrizione alle Corporazioni cittadine. Dante si iscrisse a quella dei medici e degli speziali (più vicine alla speculazione filosofica), e, attraverso un rapido cursus honorum arrivò, sin dal 1300, a far parte dei sei priori, cioè i veri reggitori della sorte della città.

Quest’ultima viveva allora una vera e propria faida tra i Neri (Donati) e Bianchi (Cerchi). Dopo un grave episodio di sangue, Dante, pur essendo un esponente dei Bianchi, manda via i capi più facinorosi, tra cui l’amico Cavalcanti, per cercare una riconciliazione; ma il conflitto non si placa, anzi si aggrava per l’intervento del papa Bonifacio VIII che, presentando come paciere Carlo di Valois, vuole favorire i Neri, più consoni alla sua politica.

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Particolare della statua mortuaria di Carlo di Valois

Dante, insieme ad altri due ambasciatori, viene mandato a Roma per cercare di scongiurare il papa affinché non intervenga all’interno della politica fiorentina. Il papa, con false promesse, licenzia due ambasciatori e trattiene Dante, proprio mentre Carlo sta entrando a Firenze e rimettendo al potere i Neri; questi ultimi danno vita subito a processi sommari in cui vengono colpevolizzati i Bianchi, tra cui Dante che, in contumacia perché fuori città, viene accusato di baratteria e condannato all’esilio perpetuo.

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Domenico Peterlin: Dante in esilio (1911)

Dal 1302, quindi, inizia l’esilio di Dante: vagherà di città in città a cercare signori che lo ospitino e lo accolgano favorevolmente nei loro palazzi: è difficile seguire il suo percorso; sappiamo invece con certezza che tentò, con altri Bianchi fuorusciti, di rientrare in città, ma la loro sconfitta e le aspre critiche che il poeta muoverà loro, farà sì che egli decida di abbandonarli definitivamente. Durante il suo peregrinare Dante va componendo opere come il Convivio e il De vulgari eloquentia nonché altre rime.

Nel frattempo la discesa in Italia di Arrigo VII, nel 1311, sembra riaccendere in Dante le speranze non solo di un suo ritorno in città, ma di una pacificazione sotto l’egida di un imperatore capace di riportare la penisola ad uno stadio di benessere e ad una sana vita civile; il poeta lo invita con calore a occupare Firenze, ma la stessa città gli muove contro una lega; non si fa in tempo nemmeno a cominciare la battaglia che l’imperatore muore nel 1313. E’ in questa occasione che il nostro scrive il trattato il De monarchia, dove espone con chiarezza le sue convinzioni politiche.

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Incoronazione di Arrigo VII in un codice del 1340

Dopo aver sdegnosamente rifiutato il rientro a Firenze, in quanto il poeta riteneva umilianti le condizioni imposte dalla città, si rifugia a Verona presso Cangrande della Scala, dal 1312 al 1318 dove termina sia l’Inferno che il Purgatorio; si trasferisce, quindi, nell’ultimo periodo della sua vita, a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove, oltre a scrivere due Ecloghe e la Questio de aqua et terra porterà a termine il Paradiso.

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Giovanni Mochi: Dante presenta Giotto a Guido da Polenta (XIX sec.)

Mentre torna da una ambasceria a Venezia verso Ravenna, s’ammala. Morirà nel 1321 e le sue ossa saranno tumulate presso la chiesa di San Francesco.
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Tomba di Dante a Ravenna (notturno)

L’uomo

E’ difficile, dalle poche e scarne notizie biografiche, parlare della grandezza del poeta Dante, anche perché questa grandezza, riconosciuta a livello mondiale, non può prescindere dall’uomo che così intensamente ha vissuto e rappresentato la sua epoca.

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Testa di Dante dalla statua a lui dedicata a Firenze

In primo luogo bisogna riconoscere che nella sua opera vi è:

  1. una perfetta conoscenza scientifica e teologica del Medioevo, che verrà rappresentata in una straordinaria forma poetica;
  2. una grande e critica conoscenza della filosofia;
  3. l’aspirazione mistica verso la verità della fede e quindi di Dio, che non può essere disgiunta dalla volontà di affermazione di tale aspirazione sin dalla vita terrena;
  4. una vera e propria aspirazione verso la perfezione e quindi la bellezza del dettato poetico;
  5. un grande amore e rispetto verso la cultura latina (e la greca, se avesse avuto la possibilità di conoscerne la lingua), che non diventa tuttavia la sola, ma s’accompagna con lo stesso rispetto verso tutte le forme linguistiche capaci di elevarsi e di diventare poesia;
  6. una forte consapevolezza di sé ed un incredibile rigorismo, che fa sì che egli diventi la guida per allontanare l’intera umanità dal peccato e condurla verso la via di fede;
  7. una non accettazione dell’età presente, vista sotto il segno dell’arrivismo e dell’avidità economica, incapace quindi d’amare i veri valori dell’umiltà e della semplicità che il Vangelo stesso ci offre.

Ma da dove deriva tutto quello fin qui esposto all’uomo Dante? Non vi è dubbio alcuno che ci troviamo di fronte ad un personaggio intellettualmente eccezionale; ma quando tale capacità intellettuale s’accompagna ad una vita difficile, il grido e la voglia d’esprimersi, forse emerge con più vigore. Innanzi tutto non dobbiamo dimenticare che in lui vi è il senso della perdita: è ancora fanciullo quando perde l’adorata genitrice e già un uomo adulto quando perde l’amata città: ecco allora che il senso dell’assenza fa nascere, quasi per contrasto, un forte vitalismo, che lo conduce all’azione e a porsi come persona che, non piegandosi mai e non accettando “regole facili”, lo fa diventare modello “insuperabile” d’intransigenza. Ma tale intransigenza non può e non deve concludersi a livello morale, ma deve essere applicata anche a livello letterario: più semplicemente la moralità dell’uomo deve trovare applicazione e diventare moralità nello scrivere. Da qui il concetto che lo stesso applicarsi alla letteratura non sia un solo e splendido, sia pur raffinatissimo, gioco intellettuale per pochi eletti, ma un vero e proprio atto rivolto a Dio e alla maggior parte degli uomini.

La vita nuova
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Uno dei 43 manoscritti con cui è tradita l’opera giovanile di Dante 

L’opera, scritta molto presumibilmente nel 1294, è un prosimetro, cioè caratterizzata dalla presenza di parti in prosa e in poesia. Tale genere costituisce una vera e propria novità nella letteratura volgare italiana, il cui maggiore antecedente si può trovare nel De consolatione philosophiae dello scrittore dell’alto medioevo Severino Boezio (che tanta fortuna avrà in tutto questo periodo). L’opera inizia con un Proemio:

PROEMIO

In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: “Incipit vita nova.” Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

In quella parte del libro della mia vita e della mia memoria, prima della quale pochi eventi possono essere ricordati, si trova un capitolo il cui titolo dice: “Incomincia una vita nuova”. Sotto questo titolo io trovo scritti i ricordi, che è mia intenzione trascrivere e ordinare in questo libretto, e se non tutti, almeno il loro significato essenziale.

In questo brevissimo capitoletto appaiono subito due temi:

  1. tema della memoria, che sembra voler far assumere al libretto un carattere autobiografico, anche se, come vedremo, tale autobiografia è fortemente simbolica;
  2. l’incipit vita nova, che può significare sia l’inizio dell’età giovanile, sia vita rinnovata dall’amore.

Quindi, subito dopo, ci racconta il suo primo incontro con Beatrice:

PRIMA APPARIZIONE DI BEATRICE
(Capitolo II)

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi. In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: Apparuit iam beatitudo vestra. In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!. D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo». E avvegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre de l’essemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.

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Raffaele Giannetti: Prima apparizione di Beatrice (1877)

Per nove volte dopo la mia nascita il cielo del Sole era quasi arrivato al medesimo punto, riguardo alla propria orbita (erano cioè passati quasi nove anni dalla mia nascita) quando per la prima volta apparve ai miei occhi la signora della mia anima che ora è nella gloria del cielo, la quale fu chiamata Beatrice da molti che non sapevano come si chiamasse. Beatrice aveva già vissuto tanto tempo, che durante la sua esistenza il cielo delle stelle fisse si era mosso verso est di un dodicesimo di grado, (Beatrice, nel momento in cui Dante la vide per la prima volta, aveva 8 anni e 4 mesi, in quanto il cielo delle stelle fisse, ruota infatti verso est di un grado ogni secolo. Dalla nascita di Beatrice al momento in cui Dante la vede questo cielo si è mosso di un dodicesimo di grado ed è passato pertanto un dodicesimo di secolo, ossia appunto 8 anni e 4 mesi) sicché Beatrice mi apparve quand’era da poco entrata nel suo nono anno di età e io la vidi quasi alla fine dei mio nono anno di età. Apparve vestita di un colore nobilissimo, segno di modestia e di dignità rosso scuro; con una cintura e con degli ornamenti adeguati alla sua giovanissima età. Dico in modo veritiero che in quel momento lo spirito vitale, il quale si trova nella cavità più profonda del cuore, cominciò a tremare così forte, che si avvertiva anche nelle più piccole arterie, in modo da far paura; e con tremore disse: «Ecco un dio più forte di me, che venendo mi dominerà». A quel punto l’anima sensitiva, che si trova nella cavità del cervello a cui tutti gli spiriti portano le loro percezioni. agli spiriti della vista, cominciò a meravigliarsi molto e parlando specialmente alle nostre espressioni, disse: «È apparsa ormai la vostra beatitudine»: lo spirito naturale, che ha sede in quella parte del corpo in cui si provvede al nostro nutrimento, cominciò a piangere e piangendo disse: «Povero me, poiché d’ora in poi sarò spesso impedito!». Dico che da quel momento Amore si impadronì della mia anima la quale fu così presto sposata a lui e cominciò a prendere tanta baldanza e tanto potere su di me, per la forza che a lui conferiva la mia immaginazione, che mi era necessario fare fino in fondo tutto ciò che volesse. Mi comandava spesso che mi dessi da fare per vedere questa giovanissima creatura angelica, per cui nella mia giovinezza andai a cercarla e vedevo che aveva modi così nobili e degni di lode che certo di lei si sarebbe potuto dire la parola che il poeta Omero (scrisse di Nausica): «Lei non sembrava una figliola di un uomo, ma di un dio». E sebbene la sua immagine, che stava sempre con me, conferisse ad Amore la forza di dominarmi, tuttavia (la sua immagine) era di così nobile virtù che mai tollerò che Amore mi governasse senza il fedele consiglio della ragione, in quelle cose in cui fosse utile ascoltare tale consiglio. E poiché soffermarsi sulle passioni e le azioni di una così giovani età, sembra un raccontare favole, mi allontanerò da esse e tralasciando molte cose che si potrebbero trovare in quel capitolo in cui ho trovato queste, verrò a quelle parti più importanti che sono scritte nella mia memoria in capitoli più grandi.

In questo capitolo, sin dall’incipit, è chiara l’intenzione del poeta di porre il piano esistenziale sotto l’egida del piano simbolico. A ciò corrispondono le due ampie perifrasi astrologiche che insistendo sul numero nove, come moltiplicazione della Trinità, fanno apparire la vicenda come voluta da Dio, e quindi con valore universale. Quindi Beatrice appare (con parola che ha la valenza dell’apparire, mostrarsi, come fosse presenza divina) e appare già vestita in modo da lanciare il messaggio di umiltà e carità, tanto da far sì che gli spiriti si accorgano dello sconvolgimento di Dante (un chiaro richiamo alla poesia di Cavalcanti). Tuttavia in seguito è fondamentale come Dante, per non cadere preda del tormento, chieda aiuto alla ragione: c’è già un aspetto in cui il nostro tenta di allontanarsi dalle prospettive che lo Stilnovo aveva elaborato per superarlo in modo nuovo in una vita, appunto, nuova.

Nel prosieguo del racconto il poeta la rivede esattamente nove anni dopo, quando lui ne ha diciotto, e all’ora nona (le tre del pomeriggio) e lei gli rivolge il saluto. Il poeta è al sommo della felicità, torna a casa e pensa a lei. Quindi gli giunge un “soave sonno” durante il quale sogna un signore dall’aspetto pauroso; parla confusamente, ma si riesce a capire che dice al poeta “Io sono il tuo signore”. Nelle sue braccia c’è una donna nuda, ricoperta da un drappo rosso; Dante la riconosce come Beatrice. Nelle mani del signore appare quindi un qualcosa che arde e lui gli dice “Ecco il tuo cuore”, e si sforza di farlo mangiare a lei. La gioia della donna si tramuta subito in pianto; egli stringe la ragazza a sé e se ne va in cielo. E’ così grande l’angoscia per il pianto della donna che il poeta si sveglia improvvisamente e decide di fare un sonetto che ha per materia il sogno stesso da far leggere ai “fedeli d’Amore” che possano indicargli il significato. Tale sonetto prende il titolo di A ciascun alma presa. Quindi Amore prende il sopravvento su Dante, ma non vuole svelare il nome della donna. In Chiesa, durante una funzione, trova seduta tra lui e Beatrice una bella donna, che pensa che lo sguardo del poeta fosse rivolto a lei, e quindi la sceglie come “donna dello schermo”, che verrà utilizzata per un certo tempo, per non far criticare la donna amata.

LA DONNA DELLO SCHERMO

Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s’accorsero de lo suo mirare; e in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: “Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui”; e nominandola, io intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei.
Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

Dante di fronte alla chiesa di S Maria Novella dipinto, ca 1866 -

Planeta Giuseppe: Dante di fronte a Santa Maria Novella

Un giorno successe che queta donna gentilissima (Beatrice) sedeva in un luogo, cioé in una chiesa, dove i fedeli  erano intenti ad ascoltare parole in onore della Madonna, ed io ero in un luogo da dove vedevo colei che mi dava beatitudine; nel mezzo fra lei e me, attraverso una linea retta sedeva una nobile donna d’aspetto assai piacevole, che mi guardava  ripetutamente, meravigliandosi del mio guardarla che sembrava a lei diretto. Per cui molti s’accorsero del suo guardarmi e a tal punto fu posta attenzione che, allontanantomi dalla chiesa, udii dire da qualcuno vicino a me: «Vedi come questa donna distrugge la persona di costui»; e, pronunciando il suo nome, capii che si riferiva alla donna che era seduta tra me e Beatrice e alla quale il mio sguardo pareva terminasse. Allora mi confortai perché il mio segreto non era stato scoperto da alcuno, ad opera dei miei sguardi. Ed immediatamente pensai di fare di questa donna  lo schermo della verità, e ne feci così aperta dimostrazione che in poco tempo tutti coloro che parlavano di me lo conoscevano. Attraverso questa donna tenni nascosto il mio vero sentimento per alcuni anni, e per renderlo più credibile scrissi piccole cosucce in rima, che non ho intenzione di riportare qui, se non quelle che ho scritto per Beatrice. e perciò le  lascerò tutte ad eccezione di quelle che poterono sembrare scritte per lei ma che in realtà erano dedicate a Beatrice.

Questo passo dimostra come Dante sappia rielaborare modelli offerti dalla tradizione lirico-cortese. D’altra parte era stato proprio Andrea Cappellano a codificare la figura della donna schermo affinché i malparlieri non potessero offuscare l’onore della donna del Signore. Qui Dante lo reinterpreta, alla luce della “biografia esemplare” che in questa operetta sta scrivendo; infatti la donna schermo serve al poeta per giustificare la negazione del saluto di Beatrice e quindi la necessità di parlarne “in lode”, che costituisce la sua novità all’interno dello Stilnovo.

Ma la donna dello schermo s’allontana, mentre nel frattempo muore un’altra donna, di cui Beatrice era amica, a cui Dante dedica alcuni versi. Quindi parte per seguire la “donna dello schermo” e continuare così a sviare l’attenzione verso Beatrice. Durante il viaggio Amore gli suggerisce la presenza di una “seconda donna dello schermo”. Tornato a Firenze si mette alla ricerca di questa seconda donna, la cui finzione d’amore raggiunge l’intera città. Beatrice quindi gli toglie il saluto. Venuto a sapere il motivo per cui la donna non voglia più rivolgersi a lui, il poeta piange amaramente. Allora gli appare in sogno Amore che lo invita a non fingere più. Il nostro incontra Beatrice, in compagnia di altre ragazze, durante lo sposalizio di una di loro. Lo sguardo smarrito del poeta, suscita riso nelle donne, e ciò provoca vergogna e tormento nell’animo del poeta. 

Un giorno incontra un gruppo di donne che gli chiede spiegazione del suo comportamento:

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Enzo Anichini: Dante e Beatrice

LA VOGLIA DI POETARE IN “LODE”
(Capitolo XIII)

Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s’erano, dilettandosi l’una ne la compagnia de l’altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m’avea chiamato, era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand’io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra le quali n’avea certe che si rideano tra loro. Altre v’erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Altre v’erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo». E poi che m’ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l’altre cominciaro ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m’avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sia questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.

Poiché dal mio aspetto molta gente aveva compreso il mio sentimento, alcune donne, che si erano riunite con piacere l’una dell’altra, conoscevano bene il segreto del mio cuore, in quanto alcune di loro avevano assistito alle mie sconfitte (cioè alla mia incapacità di sostenere la presenza di Beatrice). Io, passando loro accanto, come fossi portato lì dalla fortuna, fui chiamato da una di queste nobilissime donne. Era una donna dall’ottima capacità nel dialogare, cosicché, quando giunsi di fronte a loro, e m’accorsi che la mia gentilissima (Beatrice) non era con loro, le salutai e domandai cosa desiderassero. C’erano molte donne e alcune ridevano. Altre mi guardavano, aspettando la mia risposta. Atre ancora parlavano tra loro. Di queste una, guardandomi e pronunciando il mio nome disse: «Quale fine ti proponi dal momento in cui non riesci a sostenere la sua presenza? Diccelo, che sicuramente tale fine dev’essere straordinario». E dopo che mi disse ciò, non solo lei ma tutte le altre mostrarono nel loro la volontà di ascoltare la risposta. Allora dissi loro queste parole: «Donne, il fine del mio amore fu già nel saluto di questa donna, di cui voi sapete il mio nome, e lì stava la mia gioia e la mia beatitudine. Da quando a lei piacque negarmelo, Amore, per la sua benevolenza ha deciso di riporre tale gioia e beatitudine in ciò che non può essere negato». Subito le donne cominciarono a parlare tra loro, e così come a volte la neve cade insieme alla pioggia, così si percepivano parole e sospiri. E dopo aver lungo discusso, la donna che già mi aveva rivolto la parola disse: «Noi ti preghiamo che tu ci sveli dove sta questa tua beatitudine» ed io, rispondendogli, dissi soltanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora sempre lei, mi rispose: «Se tu dicessi la verità, le parole con cui ci hai illustrato la tua condizione, le avresti già usate mettendole in poesia, con altra volontà» Allora mi allontanai un po’ vergognandomi, dicendo tra me: «Poiché vi è tanta beatitudine nelle parole che lodano la mia donna, perché le mie poesia hanno altre parole?». E perciò presi la decisione di poetare sempre in lode di questa nobilissima donna, e pesandoci molto mi sembrava di avere iniziato un compito troppo arduo per me, tanto che non avevo il coraggio di iniziare, e così stetti alcuni giorno con la volontà di poetare e con la paura di iniziare a farlo.

E’ da qui che parte la seconda parte della Vita nuova; infatti nell’incontro con le giovani donne ed il colloquio con una di esse, il brano fa emergere la profonda contraddizione tra il pensiero e l’azione del giovane innamorato. Se infatti la beatitudine, una volta sottratto il saluto, è tutta riposta nella lode che egli può rivolgere alla donna, perché così non opera? Ma se dovessimo andare al sottotesto, se l’amore verso Dio non richiede più che venga contraccambiato, perché non prova ad amarlo per la sua essenza?

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Paola Contini: Donne che avete intelletto d’amore (affresco)

DONNE CHE AVETE INTELLETTO D’AMORE

(Capitolo XIX)

Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne ch’avete.

Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.

 Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’un’anima che ’nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là ’v’ è alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: “O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati”».

 Madonna è disiata in sommo cielo:
or voi di sua virtù farvi savere.
qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che onne lor pensero agghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morria.
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien, ciò che li dona, in salute,
e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non pò mal finir chi l’ha parlato.

 Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser pò sì adorna e sì pura?»
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne ’ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto de ben pò far natura;
per essemplo di lei bieltà si prova.
De li occhi suoi, come ch’ella li mova,
escono spirti d’amore inflammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ’l cor ciascun retrova:
voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ’ve non pote alcun mirarla fiso.

 Canzone, io so che tu girai parlando
a donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana,
che là ’ve giugni tu dichi pregando:
«Insegnatemi gir, ch’io son mandata
a quella di cui laude so’ adornata».
E se non vuoli andar sì come vana,
non restare ove sia gente villana:
ingegnati, se puoi, d’esser palese
solo con donne o con omo cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a lui come tu dei.

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Marcel Rieder: Dante e le amiche di Beatrice, 1895.

Avvenne in seguito che, passeggiando per una via, lungo la quale scorreva un chiarissimo ruscello, a me giunse una così forte volontà di poetare, che io cominciai a pensare il modo in cui lo dovessi fare; pensai quindi che non era conveniente rivolgermi direttamente a Beatrice, se non mi fossi rivolto ad altre donne, e non ad una donna qualunque, ma solo a coloro che sono “gentili” (in quanto in grado d’amare” e non femmine volgari). Allora affermo che la mia bocca pronunciò, quasi da sola, Donne che avete intelletto d’amore. Conservai queste parole nella mente, con grande gioia, pensando che esse potessero costituire l’inizio (della mia poesia), quindi, ritornando a Firenze, riflettendo alcuni giorni, cominciai una canzone, scritta in un modo che verrà illustrato (nella parte finale del capitolo, in cui Dante riporta un commento retorico). La canzone inizia Donne che avete.
Donne che comprendete l’essenza dell’amore, io voglio parlare con voi della mia donna, non perché credo così di poter finire la mia lode (nei suoi confronti), ma solo per ragionare, per sfogare la mia mente. Io dico che pensando alla sua virtù, l’Amore si fa sentire così dolcemente, che se allora non perdessi coraggio, farei innamorare (di lei) la gente. Ed io non voglio cantarla in uno stile tanto alto, che per paura di non poterlo sostenere diverrei vile; ma parlerò della sua nobiltà in modo poco profondo rispetto a lei con voi, donne e fanciulle amorose, perché non è argomento da trattare con altri. // Un angelo la invoca direttamente nella mente divina e dice: “Nel mondo si vedono gli effetti miracolosi negli atti di un’anima che risplende fin quassù nel cielo. Il cielo a cui non manca nulla se non avere lei, la chiede al suo Signore e ciascun santo invoca Dio che gli conceda la grazia di averla in cielo. La sola misericordia divina difende la nostra causa, in quanto Dio, che parla alludendo a Beatrice, dice: “Miei cari, ora sopportate con pazienza che l’oggetto della vostra speranza rimanga per tutto il tempo che a me piacerà sulla terra, la dove c’è qualcuno che teme di perderla e che dirà nell’inferno: “Dannati, ho conosciuto Beatrice, speranza dei beati”. // Madonna è desiderata nel sommo cielo (l’Empireo) e ora voglio che voi conosciate la sua virtù. Dico che qualunque donna voglia apparire nobile, vada con lei, che quando cammina nella strada, Amore getta nei cuori villani uno sgomento, per cui ogni loro pensiero diventa di ghiaccio e muore; e chi sopportasse di starla a guardare, diventerebbe un nobile o morirebbe. E quando vede uno degno di guardarla, quello sperimenta il suo potere, perché tutto quello che la donna gli dona, si trasforma in salvezza, e lo rende tanto umile, da dimenticare ogni offesa. Inoltre Dio gli ha concesso come grazia, che non può finir male chi ha parlato con lei. // Amore, parlando di lei, dice: “Una creatura mortale, come può essere così bella e così pura?” Poi la guarda con attenzione e fra se stesso giura che Dio vuole fare di lei una creatura straordinaria. Ha il colorito del viso come di perle, come conviene abbia una donna, non eccessivo: è il massimo della bellezza che la natura può creare: la bellezza si può misurare sulla base del modello da lei rappresentato. Dai suoi occhi, appena li muove, escono spiriti infiammati d’amore, che feriscono gli occhi a chiunque la guardi in quel momento, e penetrano a tal punto che ciascuno di essi raggiunge il cuore: voi vedete nel suo viso dipinto Amore, in quel punto del viso in cui nessuno può guardarla. // Canzone, io lo so che tu andrai a parlare con molte donne, quando t’avrò licenziata. Ora ti ammonisco, perché io ti ho creata figlia d’Amore giovane e leggera, in modo che, là dove giungi, tu dici pregando: “Insegnatemi la via per andare da lei, perché io sono adornata della sua lode”. E se non vuoi andare inutilmente, non rimanere dove c’è gente scortese; fai in modo, se puoi, di mostrarti solo con donne o uomini nobili che subito ti mostreranno la via. Tu troverai Amore con lei, raccomandami a lui, così come devi.

E’ un punto nodale non solo dell’opera in sé, ma dell’intera poesia duecentesca se sarà proprio essa che farà dire a Bonagiunta Orbicciani, nel Purgatorio, che questo modo di poetare lo hanno tenuto lontano dal dolce stil novo. Dante infatti inaugura, con essa, un nuovo modo di rappresentare l’amore per una donna che tende verso l’amore celeste Il bello è che il poeta fa ciò non uscendo dalla tradizione fino allora esistente, si pensi agli effetti benefici quando cammina, al colore della pelle del viso, agli spiriti infiammati; ma ciò che conta è che egli, inserendola nel nuovo contesto della poesia della lode, dà ad essa un valore più alto rispetto alla poesia precedente. A ciò corrisponde anche il superamento dell’idea cavalcantiana dell’amore-dolore: se ciò che qui canta Dante va al di là, rappresentando pertanto un amore che non deriva dal cielo, ma va verso il cielo, il suo spirito non può che essere pacificato. Da qui l’estrema serenità che si evince dal canto, grazie anche alla fluidità e musicalità del dettato.

A questo canto ne seguono altri, in cui il poeta in tre sonetti riprende il tema dell’amore come potenza e atto: ma anche in questo concetto va oltre, mostrando come l’amore può arrivare dove la potenza dorme. Dopo la felicità che Dante prova grazie a questo nuovo modo d’esprimersi poeticamente, avviene un triste episodio: la morte del padre di Beatrice. Nei seguenti giorni il nostro viene aggredito, invece, dal pensiero della morte di lei:

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Dante Gabriel Rossetti: Sogno della morte di Beatrice (1856) 

UN PRESAGIO DELLA MORTE DI BEATRICE
(XXIII)

Appresso ciò per pochi dì avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendome dolere quasi intollerabilemente, a me giunse uno pensero lo quale era de la mia donna. E quando ei pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggiero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, meravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti. E meravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; e altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade, che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m’essere villana, però che tu dei essere gentile, in tal parte se’ stata! Or vieni a me, che molto ti disidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s’usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!».

Dopo pochi giorni, mi ammalai dolorosamente, per cui io in modo continuo soffrii per nove giorni un’insopportabile pena, che mi portò ad una debolezza tale, che dovetti stare immobile sul letto. Dico che, essendo passati nove giorni, sentendo dentro di me un dolore inenarrabile, cominciai a pensare a Beatrice. Dopo aver pensato a lei, ritornai a pensare alla mia vita e come fosse precaria la sua durata, anche se fosse sana, e in così triste pensiero mi misi a piangere. Per cui, sospirando forte, dicevo a me stesso: «Inevitabilmente è destino che un giorno o l’altro la gentilissima Beatrice muoia». Perciò provai un forte smarrimento, per cui chiusi gli occhi e cominciai ad agitarmi come una persona che delira e a vaneggiare in questo modo: all’inizio della mia immaginazione mi apparvero i visi di donne scapigliate in segno di lutto che mi dicevano: «Anche tu morirai» e dopo queste donne mi apparvero visi mostruosi e orribili che mi dicevano: «Tu sei morto». Così continuando a vagare nella mia fantasia mi ritrovai al punto di non sapere dove mi trovassi e mi sembrava di vedere donne scapigliate, straordinariamente tristi, che camminavano piangendo e il sole che si oscurava e le stelle di un colore che pareva piangessero, e gli uccelli del cielo che cadevano in terra morti e che ci fossero grandissimi terremoti. E stupendomi di tale fantasia e temendo molto, immaginai qualche amico che venisse a dirmi: «Non lo sai? La tua meravigliosa donna è morta». Allora pietosamente cominciai a piangere e non solo nell’immaginazione, ma i miei occhi erano bagnati realmente. Immaginavo di guardare verso il cielo, e mi sembrava di vedere una moltitudine di angeli che volavano in alto portando con loro una piccola nuvola bianca (l’anima di Beatrice). Mi sembrava che questi angeli cantassero in sua gloria e che le parole del canto fossero Osanna in excelsis e non sentivo nient’altro. Allora mi sembrava che il cuore, dove vi era un così grande amore, mi dicesse: «E’ vero che la nostra donna giace morta». E per questo mi sembrava che io andassi per vedere il corpo dentro il quale era riposta quella nobilissima e beata anima: e fu così forte questa immagine che mi mostrò la donna morta e che le donne le coprivano la testa con un velo bianco e che il suo volto esprimesse una così grande umiltà che pareva dire: «Sto per vedere Dio». Allora mi giunse per il suo aspetto una forte sensazione d’umiltà che chiamai la Morte e le dicevo: «Dolcissima Morte, vieni, non essere scortese, che tu devi essere gentile, così come sei stata in parte col corpo di Beatrice. Ora vieni da me, che ti desidero molto, lo vedi, che nel mio volto c’è già il tuo pallore». E dopo aver veduto compiere tutti gli atti funebri che si devono fare ai corpi dei morti, mi sembrava che io tornassi nella mia camera e qui guardassi verso il cielo e dicessi: «O bellissima anima, beato chi ti vede!».

Il presagio della morte di Beatrice è visto proprio sotto il segno della divinità: allo scadere del nono giorno di malattia, a sottolineare la ricorrenza della trinità di Dio. Ma non è solo questo: il racconto dell’immaginazione dantesca è tutto intessuto su riferimenti biblici ed evangelici (nonché, chiaramente, classici): gli eventi naturali che precedono la sua morte sono gli stessi che precedono quelli di Cristo: l’oscuramento del sole, la caduta di stelle, la morte degli uccelli, il terremoto; ma anche la salita in cielo dell’anima richiama quella evangelica. Qui Dante vuole sottolineare che Beatrice è figura Christi e quindi figura angelica il cui compito è portare l’uomo verso Dio.

Il capitolo prosegue con il pianto di Dante che preoccupa una giovane e gentile donna, sua parente, che fa accorrere al suo capezzale altre donne. Esse gli portano conforto e nel suo delirare Dante pronuncia il nome di Beatrice. Ma è sicuro che la sua voce, intramezzata da pianti e singhiozzi non sia stata capita. Guarito, seduto in solitudine, ha una nuova immaginazione d’Amore in cui vede Giovanna, donna amata da Cavalcanti, che ha il nome del Battista ed è soprannominata Primavera, avanzare verso lui; quindi il poeta pensa che lei verrà prima, quindi seguirà Beatrice, allo stesso modo come Giovanni ha preceduto Cristo. Si riconferma quindi come Beatrice sia per il poeta figura Christi. Perciò egli poi le dedica un sonetto, in cui sembra essere venuta dal cielo a mostrare il miracolo della creazione:

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Henry Holiday: Dante e Beatrice (1883)

L’APPARIZIONE DI BEATRICE
(XXVI)

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

 Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

 Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:

 e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira. 

La signora della mia mente sembra di tale nobiltà di spirito e di tale purezza di costumi quando saluta qualcuno, che ogni lingua, tremando (per l’emozione) diventa muta e gli occhi (dei presenti) non osano fissarla. // Ella procede, sentendosi lodare (da chi la vede passare), (quasi) rivestita di benevolenza e di umiltà, e sembra essere una creatura scesa dal cielo sulla terra per mostrare la sua natura miracolosa. // Si mostra dotata di tale bellezza a chi l’ammira (passare), che infonde, attraverso gli occhi, una dolcezza al cuore, comprensibile solo a chi l’ha provata: // e sembra che dal suo volto si muova uno spirito dolcissimo d’amore, che vada dicendo all’anima: «Sospira».

E’ certamente questa poesia, una delle liriche più alte di tutta la nostra tradizione poetica, perché in essa si sposano perfettamente:

  • la semplicità del dettato e la perizia tecnica con cui è costruito;
  • il motivo tradizionale con la nuova visione di donna come strumento divino per far sì che l’uomo di elevi a Dio.

Infatti essa è tecnicamente costruita attraverso una ripresa di temi tradizionali a cui dà una nuova veste: si vedano i due termini della prima strofe uniti dall’anafora tanto tra i due emistichi: il primo gentile “cortese” indica una qualità esteriore, mentre onesta una qualità dell’anima; si veda la particolarità con cui viene usato il verbo “pare”, il cui significato, come afferma il critico Gianfranco Contini, non è solamente “pare”, “mostra” (usato anche come termine ripetuto nella 2° quartina e nella 1° terzina, figura retorica che si chiama anadiplosi e in provenzale capfinidas) ma “manifestarsi cocretamente”, “rendere visibile il divino nell’umano”; ciò cambia anche il contenuto, che pur ricordando Io voglio del ver la mia donna laudare di Guido Guinizzelli e Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira di Guido Cavalcanti, sottolinea qui la presenza di un simbolo della salvezza. Si richiami la poesia del Cavalcanti che nel suo incipit riprendeva un salmo dedicato a Maria Vergine, per poi “ridimensionarlo” nella sua umanità, qui invece Dante trasfigura la figura della donna che è già di per sé non solo immagine, ma anche sostanza del divino.

Dopo questo passo avviene la morte di Beatrice, che apre la seconda parte dell’opera:

LA MORTE DI BEATRICE
(XXVIII)

Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia, quando lo segnore de la giustizia chiamoe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata.

Come siede desolata la popolosa città! E’ divenuta quasi una vedova la signora delle genti. Io ero ancora nel proposito di scrivere una canzone con questo inizio e avevo già scritto una stanza, quando il signore della giustizia (Dio) chiamò questa nobilissima a fruire dell’eterna gloria sotto il trono della regina benedetta Maria Vergine, il cui nome fu in massima reverenza nelle parole della beata Beatrice.
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Dante Gabriel Rossetti: Dante dipinge un angelo nell’anniversario della morte di Beatrice
Dante nulla aggiunge o vuole aggiungere sull’episodio della morte di Beatrice adducendo come motivi:

  • non era nel suo intendimento come si evince dal proemio dell’opera;
  • laddove fosse stato presente nel proemio avrebbe avuto l’incapacità d’esprimere in modo conveniente un evento tanto importante;
  • se ambedue le condizioni sarebbero state tuttavia possibili, Dante avrebbe finito per parlare di sé, cosa assai sconveniente. Scriva un altro autore della sua morte.

Per sfogare il suo dolore Dante scrive altri versi e viene invitato dal fratello di Beatrice affinché egli gliene faccia dono. Durante l’anniversario della morte, Dante sta disegnando un angelo, ma si sente osservato. Si accorge che a fare ciò è una donna, che sembra condividere il dolore del poeta e che ha sul volto lo stesso pallore di Beatrice. Dante sente che presso costei sta Amore e ciò lo rende estremamente combattuto: se la prende contro la leggerezza del suo cuore, ma sente anche il desiderio di conservare intatto il ricordo della sua donna. Infine questa gli appare, tanto che torna decisamente a lei. Nel frattempo un gruppo di pellegrini si prepara per andare a Roma per venerare il velo della Veronica. Dante scrive un sonetto per loro, affinché ricordino come la città che essi raggiungeranno abbia perso la sua Beatrice. Ottenuta la richiesta da parte di donne pellegrine di un altro sonetto, Dante gli offre una lirica, in cui Beatrice è ormai elevata al cielo:

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Dante Gabriel Rossetti: Beatrice beata

BEATRICE BEATA
(XLI)

Oltre la spera che più larga gira
passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.

 Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.

 Vedela tal, che quando ’l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.

 So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.

Oltre il cielo che ruota più esteriormente (Primo Mobile), s’inoltra il sospiro che esce dal mio cuore: una straordinaria intelligenza motrice, che Amore, piangendo, gli infonde, lo fa salire. // Quando poi giunge nell’Empireo (luogo in cui desidera andare), vede una donna onorata da tutti gli angeli e una luce così viva, che per il suo splendore, lo spirito pellegrino l’ammira. // La vede di tale bellezza, che quando me lo descrive, io non lo comprendo, a tal punto parla difficile ed oscuro al cuore dolente che gli dà la parola. // Ma capisco bene che parla di quella nobilissima donna, perché spesso lo sento ricordare Beatrice, tanto da capirlo bene (che sta parlando di lei), donne mie care.

Questo sonetto, l’ultimo della Vita nova, oltre a rappresentare quello che molti definiscono il preannuncio della Divina Commedia e più esattamente del Paradiso, in cui conserverà alcuni punti qui trattati come la luce e l’ineffabilità della parola, rappresenta il culmine di quell’itineriarium mentis in Deum in quanto lo porta attraverso le fasi dell’amore/poesia, fino a Dio. Esse sono:

gli effetti dell’amore                                     inter nos
l’amore della lauda                                       super nos
l’amore mistico                                              extra nos

fasi che costituiscono sia il suo percorso di poesia, da Guinizelli, passando per Cavalcanti, sino al suo superamento avvenuto con la concezione dell’amore mistico, sia morale, che lo ha allontanato dall’averroismo del suo amico per abbracciare il bisogno di una religione pura, come vedremo nel suo capolavoro.

RIME

Si può cominciare col dire che tale opera non esiste nella mente di Dante, ma è frutto di editori successivi che hanno voluto raccogliere, in un unico volume, tutta la produzione poetica che non è stata inclusa né nella Vita nuova, né nel Convivio. Ciò vuol dire che nelle Rime dantesche troviamo testi giovanili e testi scritti posteriormente all’esilio. Se così vario è il tempo e la storia personale del poeta, è evidente che esse presentano diversi stili e diversi momenti: per questo si parla di un vero e proprio sperimentalismo stilistico. Per cogliere tale varietà è bene raggruppare tali liriche in cinque modelli:

  • liriche giovanili e legate all’ambiente stilnovista di cui egli fece parte;
  • liriche coeve e della stessa tematica di quelle presenti nella Vita Nuova;
  • liriche prettamente “comiche”;
  • liriche in cui egli adotta il trobar clus di Arnaut Daniel;
  • liriche filosofiche già posteriori all’esilio.

Della fase giovanile prendiamo come esempio una lirica in cui sono presenti sia temi stilnovistici che quelli immediatamente precedenti dell’amor cortese:

GUIDO I’ VORREI CHE TU LAPO ED IO 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio.

 sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

 E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

 e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Guido, io vorrei che tu, Lapo ed io fossimo presi da un incantesimo e messi su un vascello, che percorresse il mare con qualunque vento, secondo la vostra e la mia volontà; // cosicché né una tempesta né altre avverse condizioni del tempo potessero esserci da ostacolo, anzi, agendo noi sempre con unità d’intenti, crescesse il desiderio di stare insieme. // E poi (vorrei) che l’abile mago (Merlino) ponesse con noi poi madonna Giovanna e madonna Alagia insieme con quella che occupa il trentesimo posto (fra le donne più belle di Firenze): // e qui che parlassimo sempre d’amore, e che ciascuna di loro fosse felice, così come io credo che saremmo noi.

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Dante Gabriel Rossetti: The boat of love (1874)

E’ un sonetto d’estrema importanza perché mostra come il giovane Dante sappia già districarsi tra i modelli e farli suoi; tale poesia, infatti, può essere letta in due modi: quello letterale, d’ispirazione arturiana, ci mostra mago Merlino (l’incantatore) che raduna in una piccola barca tre giovani e tre donne per parlare piacevolmente e cortesemente d’amore; ma a una lettura più attenta ci renderemo conto che può essere interpretata come una poesia prettamente stilnovista: il “vasello” può essere inteso come poesia, l’incantatore come l’innamoramento, le tre donne come l’oggetto del loro gentil amor e i tre ragazzi, i tre poeti (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Dante stesso) rappresentanti il circolo elitario d’autori di poesie estremamente raffinate (come questa in cui elementi cortesi e stilnovistici sono strettamente intrecciati).

Appartiene allo sperimentalismo giovanile anche questa lirica, facente parte della tenzone con Forese Donati:

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Copertina di un volume canadese che riporta la tenzone di Dante con Forese Donati 

BICCI NOVEL, FIGLIUOL DI NON SO CUI

Bicci novel, figliuol di non so cui
(s’i’ non ne domandassi monna Tessa),
giù per la gola tanta rob’ hai messa,
ch’a forza ti convien tôrre l’altrui.

 E già la gente si guarda da·llui,
chi ha borsa a·llato, là dov’e’ s’appressa,
dicendo: «Questi c’ha la faccia fessa
è piuvico ladron negli atti sui».

 E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ’mbolare,
che gli apartien quanto Giosep a Cristo.

 Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del mal acquisto
sann’ a lor donne buon’ cognati stare.

Bicci giovane (soprannome che Dante usa nella tenzone per rifersi a Forese), figlio di non so chi, se non lo domandassi a madonna Tessa, ti sei ingozzato di cibo a tal punto, che sei costretto a rubare. // E già la gente si guarda da lui, in particolare chi ha la borsa a fianco, nei luoghi dove lui si dirige, dicendo: «Costui che ha la faccia sfregiata, è un ladro noto a tutti per i suoi atti criminosi». // E così giace amareggiato nel letto per colpa sua, per il timore che venga colto a rubare, il padre che ha un rapporto di parentela con lui come Giuseppe con Cristo. // Di Bicci e dei suoi fratelli posso dire che in virtù dell’appartenenza alla loro stirpe, con l’inganno sanno essere per le loro donne buoni cognati.

 Si tratta qui di una tenzone, genere letterario presente nella letteratura cortese in cui i poeti rispondono, in questo caso con sonetti, su vari argomenti. In questo caso la tenzone, invece, riguarda temi personali: infatti se Forese, sempre in poesia, accusa Dante d’essere povero e avaro, Dante gli risponde definendolo ingordo, ladro e di scarsa prestanza sessuale. Perché noi a queste accuse e al fatto che i due s’offendessero in poesia non crediamo? Ce ne dà una testimonianza non tanto il fatto che Forese fosse parente di Gemma Donati, sua moglie, ma che lo stesso poeta lo ponga nel Purgatorio e lo ricordi come un grande amico (Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente). Infatti quel che Dante qui opera (e Forese insieme a lui) è un vero e proprio gioco letterario, con cui riprendono modelli francesi, anch’essi nati per mostrare la perizia letteraria di uno scrittore. Non è un caso che i termini che si usano sono tutti virati verso il concreto e verso il basso, contrari all’alto concettualismo stilnovistico.

La stessa ricerca lessicale la ritroviamo in un gruppo di poesie definite Rime petrose, perché dedicate a una donna di nome Petra:

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Raffaello Sanzio: Ritratto di Dante posto tra i filosofi (1509-1511)

COSI’ NEL MIO PARLAR VOGLIO ESSER ASPRO

 Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un diaspro
tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda;
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme:
sì ch’io non so da lei né posso atarme.

 Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
é loco che dal suo viso m’asconda;
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima.
Cotanto del mio mal par che si prezzi,
quanto legno di mar che non lieva onda;
e ’l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perché non ti ritemi
sì di rodermi il core a scorza a scorza
com’io di dire altrui chi ti dà forza?

 Ché più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’altri li occhi induca,
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor già mi manduca:
ciò è che ’l pensier bruca
la lor vertù, sì che n’allenta l’opra.
E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzé chiamando, e umilmente il priego:
ed el d’ogni merzé par messo al niego.

 Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:
allor mi surgon ne la mente strida;
e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza:
allor dico: «S’elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso».

 Così vedess’io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ’l mio squatra;
poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Omè, perché non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: «Io vi soccorro»;
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’le allora.

 S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.

 Canzon, vattene dritto a quella donna
che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dàlle per lo cor d’una saetta,
ché bell’onor s’acquista in far vendetta.

Voglio essere aspro nel mio modo di scrivere così come questa donna nei suoi atteggiamenti, la quale, come la pietra, racchiude in sé una durezza sempre maggiore e una sempre più cruda natura, e si veste di una pietra preziosa, il diaspro, così che grazie ad esso, o perché lei indietreggia (per proteggersi), mai si scaglia una freccia che la colga indifesa. (Anzi) è lei a uccidere, e non serve a proteggersi o fuggire i colpi mortali, che, quasi avessero le ali, raggiungono l’avversario e fanno a pezzi qualsiasi difesa; così che io non so, né posso, difendermi da lei. // Lei occupa il sommo della mia mente, come il fiore quello della foglia, perciò mi è impossibile trovare uno schermo che mi difenda da lei o un luogo in cui io possa nascondermi. Sembra che non si preoccupi per nulla del mio dolore, come la nave non si cura del male calmo; e il peso che mi tira a fondo è tale che le mie parole non saprebbero esprimerlo. Ahimè, tormentosa e impietosa lima (d’Amore) che consumi la mia vita sorda alle mie preghiere, perché non hai ritegno a logorarmi strato dopo strato il cuore, come io, invece, a dire il nome di colui che ti dà forza? // (Taccio il suo nome) perché temo che la mia idea fissa appaia all’esterno, ogni volta che penso a lei in un luogo dove qualcuno mi possa vedere, più di quanto il mio cuore non tema la morte, la quale già divora tutti i miei pensieri con i denti d’Amore; voglio dire che il pensiero (amoroso) corrode le facoltà dei miei sensi, e così ne limita le capacità. Amore mi ha colpito e messo a terra, e mi sta sopra con quella spada con cui uccise Didone, e io lo supplico e lo prego umilmente, chiedendo grazia; ma egli sembra negare qualsiasi pietà. // Egli alza ancora la mano e minaccia la mia debole vita, questo spietato, che mi tiene riverso a terra, incapace di reagire: allora immagino di gridare e il sangue che ho nelle vene fuggendo va nel cuore, che lo chiama; per cui perdo colore. Amore mi colpisce così forte sotto il fianco sinistro che il dolore mi rimbalza fino al cuore; allora dico: «Se alza un’altra volta (la spada), la morte metterà fine alla mia vita ancor prima che egli colpisca. // Vedessi (invece) Amore spaccare il cuore a quella donna crudele che squarta il mio; allora non mi spaventerebbe la morte, verso cui corro per la bellezza di lei: perché colpisce in ogni circostanza questa masnadiera omicida e ladra. Ah, perché non latra per me nel torrente infuocato, come io per lei? Allora griderei immediatamente: «Io vi soccorro»; e lo farei volentieri e afferrerei con le mani i biondi capelli che Amore increspa e indora per logorarmi; e allora le piacerei. // Se io avessi preso le belle trecce, che mi colpiscono come scudiscio e sferza, le terrei da mattina a sera e non sarei clemente né cortese, ma farei come l’orso quando gioca; e se Amore mi colpisce con quelle trecce fatte sferza io mi vendicherei rendendo più di mille volte le stesse sferzate. Anzi, per vendicarmi di come fugge dinanzi a me, la guarderei da vicino e fisso, in quegli occhi da cui escono le scintille che mi infiammano il cuore ferito a morte; poi le renderei amore e perdono insieme. // Canzone, vai dritta da quella donna che mi ha ferito il cuore e mi sottrae ciò che più desidero; colpiscila al cuore con una freccia, perché si acquista onore nella vendetta.

E’ questa una lirica in cui Dante sembra, stilisticamente, voler far corrispondere una tematica cruda ad un suono aspro. Se infatti la teoria degli stili medievali, così come sarà anche approfondita nelle opere teoriche di Dante stesso, prevede un adeguamento tra argomento e forma, qui il poeta vuole mostrare tale teoria ponendosi in una posizione assolutamente opposta a quella della lirica stilnovista: infatti al dolce si sostituisce l’aspro, al suono armonico lo scontro violento tra le parole: tutto questo viene ottenuto mettendo in rima vocaboli rari e con la duplice consonante in tr (squatra), pr (aspro), rz (ferza). Tale poesia, pertanto, appare come un vero e proprio esercizio stilistico che verrà utilizzato per la stesura della Commedia, soprattutto l’Inferno.

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Edizione del 1952 delle Rime di Dante

TRE DONNE INTORNO AL COR

Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore;
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute,
che ’l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
a cui vertute né belta non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
venute son come a casa d’amico;
ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.

 Dolesi l’una con parole molto,
e ’n su la man si posa
come succisa rosa:
il nudo braccio, di dolor colonna,
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
la faccia lagrimosa:
discinta e scalza, e sol di sé par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
la vide in parte che il tacere è bello
egli, pietoso e fello,
di lei e del dolor fece dimanda.
«Oh di pochi vivanda»,
rispose in voce con sospiri mista,
«nostra natura qui a te ci manda:
io, che son la più trista,
son suora a la tua madre, e son Drittura;
povera, vedi, a panni ed a cintura».

 Poi che fatta si fu palese e conta,
doglia e vergogna prese
lo mio segnore, e chiese
chi fosser l’altre due ch’eran con lei.
E questa, ch’era sì di piacer pronta,
tosto che lui intese,
più nel dolor s’accese,
dicendo: «A te non duol de li occhi miei?».
Poi cominciò: «Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ’l gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda:
sovra la vergin onda
generai io costei che m’è da lato
e che s’asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
mirando sé ne la chiara fontana,
generò questa che m’è più lontana».

 Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
e poi con gli occhi molli,
che prima furon folli,
salutò le germane sconsolate.
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
disse: «Drizzate i colli:
ecco l’armi ch’io volli;
per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’altre nate
del nostro sangue mendicando vanno.
Però, se questo è danno,
piangano gli occhi e dolgasi la bocca
de li uomini a cui tocca,
che sono a’ raggi di cotal ciel giunti;
non noi, che semo de l’etterna rocca:
ché, se noi siamo or punti,
noi pur saremo, e pur tornerà gente
che questo dardo farà star lucente».

 E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che de li occhi miei ’l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’have in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’have
già consumato sì l’ossa e la polpa,
che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
se colpa muore perché l’uom si penta.

 Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
per veder quel che bella donna chiude:
bastin le parti nude;
lo dolce pome a tutta gente niega,
per cui ciascun man piega.
Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi
amico di virtù, ed e’ ti priega,
fatti di color novi,
poi li ti mostra; e ’l fior, ch’è bel di fori,
fa disiar ne li amorosi cori.

 Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne,
ma far mi poterian di pace dono.
Però nol fan che non san quel che sono:
camera di perdon savio uom non serra,
ché ’l perdonare è bel vincer di guerra.

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Corrado Faraone: Tre donne intorno al cor

Tre donne si sono raccolte intorno al mio cuore e risiedono fuori, perché dentro il cuore risiede Amore, il quale è il signore della mia vita. Sono così belle e di così grande virtù, che il potente signore, mi riferisco a quello che signoreggia sul mio cuore, con difficoltà riesce a parlare di loro. Ciascuna appare addolorata e sgomenta, come una persona esiliata e stanca, che tutti abbandonano e a cui non sono d’aiuto né la virtù né la bellezza. Ci fu un tempo in cui, come si può desumere dalle loro parole, furono amate; ora sono tutte odiate e trascurate. Così in solitudine sono giunte (presso il cuore), come a casa di un amico, perché sanno bene che colui del quale parlo è dentro il mio cuore. // L’una si lamenta molto con le parole, e si appoggia (con la testa) sulla mano come una rosa recisa: il braccio nudo, sostegno al viso addolorato, sente la pioggia di lacrime che cade dal volto, l’altra mano nasconde il viso in lacrime, con le vesti discinte e scalza, appare signora soltanto di se stessa. Appena Amore la vide, attraverso la gonna lacera, in una parte del corpo che non è corretto nominare, egli impietosito e rattristato, le domandò di lei e del suo dolore: «O (tu che sei) cibo per i pochi eletti», rispose con la voce inframmezzata dai sospiri, «la nostra comune origine ci spinge qui da te; io, che sono la più triste, sono sorella di tua madre e sono la Giustizia, povera, come vedi, nelle vesti e negli ornamenti». // Dopo che ella si manifestò e si fece conoscere, (un sentimento di) dolore e vergogna colse il mio signore, il quale chiese chi erano le altre due che erano con lei. E costei, che era sul punto di piangere, non appena lui se ne accorse, sentì accendersi ancor più il suo dolore, dicendo: «Non provi dolore per i miei occhi (pieni di pianto)?». Poi cominciò: «Come sai, da una sorgente nasce il Nilo ancora povero di acque, là dove il sole toglie alla terra la fronda del salice: presso quella sorgente incontaminata, io generai costei che è al mio fianco e si asciuga (le lacrime) con la treccia bionda. Questa mia bella figlia, contemplando se stessa nella limpida acqua, generò quella che è più distante di me». // I sospiri resero Amore un po’ lento (a rispondere): e poi con gli occhi umidi di lacrime, che prima furono scortesi, salutò le tre parenti sconsolate: E dopo che afferrò entrambe le sue frecce, disse: «Alzate i volti: ecco le armi che io volli, per non essere state usate, come vedete, sono arrugginite. Liberalità, Temperanza e le altre (virtù) nate dalla nostra stirpe, sono ridotte a mendicare. Pertanto se questo è un danno, piangano gli occhi e si lamenti la bocca degli uomini ai quali (il danno) tocca, che (in quanto uomini) sono sotto l’influsso di tali astri negativi, non noi, che siamo immortali: infatti, se noi ora siamo abbattuti, noi continueremo ad essere, e tornerà una generazione che saprà rendere lucente questo dardo». // Ed io che sento esiliati così nobili che, con voce divina si consolano e si lamentano, l’esilio che mi è stato inflitto lo considero un onore: infatti, se il giudizio divino o il volere del destino vogliono che il mondo trasformi i fiori bianchi in neri, è ugualmente degno di lode essere sconfitto con gli onesti. E se non fosse che l’oggetto d’amore cui tendono i miei occhi si sottrae al mio sguardo per la lontananza, il quale oggetto d’amore mi ha acceso d’ardore, considererei facile (da sopportare) ciò che per me è un peso. Ma questo ardore mi ha già consumato a tal punto il corpo, che la Morte mi ha già chiuso il petto con la chiave. Perciò, se io fui colpevole, molti mesi sono trascorsi da quando (quella colpa) si è estinta, se (è vero che) la colpa si cancella per il fatto che ci si pente. // Canzone, nessuno cerchi di scoprire il tuo significato allegorico, per vedere quello che una bella donna nasconde: bastino le parti interpretabili letteralmente: non concedere a nessuno il dolce frutto, al quale ognuno tende la mano. Ma se accadesse mai che tu trovassi qualcuno incline alla virtù e se egli ti pregasse, acconciati debitamente, e poi mostrati a lui; e rendi desiderabile, per i cuori inclini alla virtù, questo fiore così bello all’esterno. // Canzone, vola cacciando con le bianche penne; canzone, vai a caccia con i cani neri, che io fui costretto a fuggire, ma che potrebbero concedermi il perdono. Ma non lo fanno perché non sanno come io sono: l’uomo saggio non chiude la camera del perdono, perché perdonare è un bel modo di vincere la guerra.

Questa lirica, famosissima, viene anche definita “dell’esilio”, perché in essa Dante fa direttamente riferimento alla sua condizione. La canzone, molto probabilmente, doveva far parte del Convivio e quella parte di esso in cui veniva trattato il tema della Giustizia. Infatti vengono qui rappresentate tre donne, diremo tre generazioni femminili, allegoria, ognuna di esse, della Giustizia: divina (la prima donna, seduta, il cui braccio fa da appoggio al suo volto piangente), umana, sua figlia, positiva (la legge), cui sta a fianco Amore, il poeta stesso. Sono colpiti tutti dallo stesso destino, scacciati, messi al bando; e ciò per una ferrea legge: se infatti viene bandita la giustizia divina, anche quella umana e quindi la legge non serviranno più alla verità e per questo Dante potrà essere ingiustamente colpito e condannato all’esilio. Tuttavia egli sa che se dovessero tornare, esse sarebbero ben accompagnate, da altre fondamentali virtù, come la liberalità e la temperanza, e verrebbero accolte da uomini saggi; ma sa anche che se ciò non dovesse accadere, a lui spetterebbe l’onore, perché è capace di perdono. Per questo i due congedi: nel primo il poeta dichiara che il suo canto è rivolto a “uomini di virtù”; nel secondo, attraverso la metafora della caccia, rivolto sia ai Bianchi che ai Neri, il poeta sembra volersi mostrare al di là e di aver superato ambedue le fazioni politiche.

CONVIVIO 

Si definisce con questo titolo un trattato, iniziato tra il 1303 e il 1304 e interrotto nel 1306, in cui Dante, all’indomani della sua condanna, vuole mostrare agli ingrati fiorentini la sua conoscenza e la sua capacità divulgativa di temi filosofici e morali. L’opera doveva presentarsi come un prosimetro (lo stessa tecnica con cui scrive la Vita nuova) e constare di quindici trattati accompagnati da una canzone (ad eccezione del primo trattato che fungeva da introduzione). Ma non venne conclusa e Dante scrisse solo quattro trattati e tre canzoni:

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Edizione veneziana del Convivio (1511)

Nel primo trattato, introduttivo, Dante ci spiega sia la finalità che lo stile dell’opera:

 PROPOSITO DELL’OPERA

Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere, ed è, che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti ed impedi(men)ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sè tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire.

Così come dice Aristotele nel primo libro della Metafisica, tutti gli uomini naturalmente desiderano conoscere. Il motivo di ciò potrebbe essere, ed è, che ogni creatura sospinta dalla sua natura provvidenziale, tende verso la propria perfezione; perciò, essendo la conoscenza il più elevato grado di perfezione della natura umana, e stando lì la nostra massima felicità, tutti siamo per natura soggetti al suo desiderio. Tuttavia da questa nobilissima perfezione molti sono esclusi, e motivi interni ed esterni all’uomo stesso lo rimuovono dalla conoscenza. Dentro l’uomo posso esserci due difetti: uno è essere impedito per motivi corporali, l’altro per motivi morali. Per motivi corporali è quando le parti (del corpo) sono conformate in modo non regolare, cosicché non possono ricevere nulla, come i sordi, muti e altri (difetti) simili. Da parte morale è quando la malizia vince sulla volontà, tanto da seguire piaceri illeciti, nei quali subisce grandi inganni che, a causa di essi, disprezza ogni cosa. All’esterno dell’uomo possono individuarsi altrettante due ragioni, una delle quali induce alle cose materiali, l’altra alla pigrizia. La prima è costituita dagli impegni familiari e pubblici, i quali trattengono necessariamente il maggior numero degli uomini, che così non possono trovare il tempo per la speculazione filosofica. L’altra è costituita da luoghi, in cui una persona è nata e cresciuta, privi di opportunità, tanto da essere non solo privato dei mezzi per lo studio, ma anche lontano da persone studiose. Due di questi motivi, cioè il primo interno (menomazioni fisiche) e il primo esterno (le occupazioni familiari e pubbliche) non devono essere rimproverati, ma scusati e degni di perdono. Le altre due (la prima legata alla malignità, la seconda alla pigrizia), sebbene una più dell’altra, sono passibili di biasimo e di condanna. Chiaramente dunque chi bene riflette, può ben vedere che pochi sono coloro che possono raggiungere quella disposizione abituale (del sapere) da tutti considerata, e quasi innumerabili sono coloro che ne sono impediti, da vivere pertanto sempre affamati di questo cibo (il sapere). Beati i pochi ammessi alla mensa dove si mangia il pane degli angeli (teologia e filosofia); miseri coloro che hanno il cibo comune (l’ignoranza) con le pecore! Ma poiché ogni uomo per natura è amico di ciascun altro uomo, e ogni amico si addolora dei difetti di colui che ama, coloro che hanno avuto il privilegio di essersi cibati alla mensa del sapere, hanno pietà di quelli che vedono vagare nutrendosi di erba e di ghiande da animali. E dal momento che la misericordia è madre di beneficio, coloro che sanno offrono sempre liberamente la loro ricchezza ai poveri di spirito e sono come una viva fonte dalla cui acqua trovano refrigerio per una sete naturale, quella che ho nominato prima, cioè la conoscenza. E io, dunque, che non siedo alla beata mensa ma, essendo riuscito al abbandonare i piaceri e gli allettamenti del volgo, ai piedi di coloro che siedono raccolgo le briciole che essi lasciano cadere e conosco la vita miserevole di coloro da cui mi sono staccato, per la dolcezza che io provo di quel poco (di sapienza) che riesco a raccogliere, spinto da misericordia, senza dimenticare la mia precedente condizione, per i miseri ho tenuto da parte alcune composizioni (canzoni dottrinarie) che avevo reso note già da tempo, e con questo ho fatto loro crescere il desiderio di conoscenza. Per cui ora, volendo loro preparare la mensa, intendo offrire un generale banchetto di ciò che ho loro già mostrato (le canzoni), e del pane (i trattati) che è necessario per tale cibo, in quando senza di esso (le spiegazioni, appunto, che i trattati offrono), non potrebbe essere mangiato. E perciò ad esso non si segga chi non abbia organi d’assimilazione adatti, come coloro che non hanno né denti, né lingua, né palato; né chi sia seguace di vizi, perché il suo stomaco è pieno di umori velenosi, contrari alla digestione, tanto che nessuna vivanda (conoscenza) può essere assimilata. Ma venga qui chiunque, impedito dai doveri civili o familiari, non abbia potuto completamente dedicarsi allo studio e si sieda alla mensa con altri che hanno subito simili impedimenti; e al di sotto di essi (ai loro piedi) si pongano tutti quelli che si sono astenuti (dalla conoscenza) per pigrizia, perché non sono degni di porsi più in alto, insieme ai primi; e ambedue prendano il mio cibo, accompagnandolo col pane, che lo farà loro gustare e tollerare (digerire e assimilare).

Il passo è importante perché ci illumina su tre aspetti: quello formale, contenutistico, sociale:

  • per il primo abbiamo un altissimo esempio di prosa filosofica in volgare, un cui, come nella Scolastica, Dante utilizza in procedimento di tipo sillogistico. Facciamo l’esempio tratto dal primo paragrafo: 
    • l’uomo tende per natura a un fine;
    • il sapere è il fine naturale cui tutti gli uomini tendono;
    • tutti gli uomini tendono verso il sapere.
  • per il secondo vediamo che, ancora sul piano filosofico, Dante non intende la ricerca filosofica come una ricerca, ma come un’accettazione dell’auctoritas (in questo caso Aristotele).
  • per quanto riguarda il pubblico, escludendo i dotti, che possono attingere direttamente al sapere, grazie alla conoscenza del latino, Dante si rivolge a coloro che per affari familiari e pubblici, quindi alla classe dirigente urbana (ma anche a quella della campagne, seppure in posizione minore), non ha potuto dedicarsi completamente allo studio. Da qui, si ripete seppur già chiaro, la scelta del volgare.

Sempre nell’introduzione Dante parla della sua condanna:

LEGNO SENZA VELA E SENZA GOVERNO

Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un’altra. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l’altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

E’ degna di molti rimproveri quell’azione che, finalizzata ad eliminare qualche difetto, fa nascere essa stessa quello stesso difetto; così come sarebbe degno di rimprovero colui che fosse inviato a dividere una rissa e, prima di dividerla, ne iniziasse un’altra. E poiché il mio commento è stato difeso dalla prima accusa, mi è necessario difenderlo da un’altra accusa, per evitare il seguente rimprovero, cioè che il mio scritto, che si può in un certo senso definire un commento, è finalizzato a rimuovere il difetto delle canzoni di cui sopra si è parlato, ma esso stesso potrebbe essere in qualche parte un po’ difficile. La quale difficoltà è stata voluta  per evitare un difetto maggiore e non per ignoranza. Ahimé, fosse piaciuto a colui che regola l’universo che la causa di questa mia scusa non fosse mai esistita! Poiché se Dio avesse voluto nessuno avrebbe commesso un errore contro di me, né io avrei sofferto ingiustamente una pena; una pena, intendo, di esilio e di povertà. Da quando piacque ai cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Firenze, cacciarmi fuori dal suo dolce seno, nel quale nacqui e fui nutrito fino alla maturità della mia vita e nel quale, con il consenso di quella città, desidero con tutto il cuore riposare l’animo e terminare gli anni della mia vita, sono andato esule, quasi mendicando, per quasi tutte le parti in cui si parla la lingua italiana, lasciando vedere contro la mia volontà la ferita infertami dalla sorte, che molte volte si è soliti imputare ingiustamente a chi è stato ferito.  Certamente io sono stato una nave senza vela e senza timone, spinta a diversi porti, foci e spiagge dal vento secco che la dolorosa povertà fa soffiare e mi sono mostrato in questa misera condizione agli occhi di molti che forse, per una certa fama positiva, mi avevano immaginato diverso alla vista dei quali non solo apparve più vile la mia persona, ma apparve di minor valore ogni opera, sia che fosse già stata scritta, sia che fosse ancora da scrivere.

Questo passo tratto dal terzo capitolo del primo libro, ci mostra un Dante diverso, che, abbandonando lo stile aristotelico/scientifico prodotto precedentemente, spiega la motivazione per cui a volte la prosa che intende spiegare le canzoni sia quasi più “oscura” delle canzoni stesse. Ciò si spiega con il fatto che Dante cerca di “ridare” prestigio alla sua opera, che l’esilio impostogli dalla città gli aveva inflitto, sottolineando, inoltre come la “fortuna” lo avesse colpito ingiustamente. Chiude il passo con la metafora attinta dalla cultura classica della nave: immagine che segna lo stile elegiaco di questo brano.

original.jpgGiuseppe Bezzuoli (1784 – 1855): Dante Alighieri in esilio

Nel secondo trattato invece Dante con la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete affronta il tema della disposizione dei cieli; inoltre egli affronta l’argomento dell’interpretazione di un testo letterario, i cosiddetti quattro sensi della scrittura. Questo ci permette di cogliere con maggior consapevolezza il modo con cui Dante offriva ai lettori contemporanei il modo di leggere la sua opera maggiore:

I QUATTRO SENSI DELLE SCRITTURE

(…) Si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico], e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire come uno savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. (…) Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Chè avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico.

Si deve sapere che le scritture devono essere interpretate e spiegate soprattutto attraverso quattro sensi. Il primo è quello letterale (e questo è quello che va appena oltre al puro suono delle parole, e ne mostra il significato esteriore, così come accade nelle opere di fantasia dei poeti. L’altro si chiama allegorico) ed è quello che si nasconde sotto il velo delle fantasie poetiche, ed è perciò una verità presentata sotto l’aspetto di una bella menzogna. Così come Ovidio, quando ci mostra che Orfeo rendeva mansueti e richiamava a sé animali, alberi e sassi con il suono della cetra, il che vuol dire come un saggio possa con lo strumento della voce rendere docili e umili i cuori crudeli e attiri alla sua volontà coloro che non possiedo conoscenze; e coloro che non hanno alcuna capacità intellettiva (ragione), sono come pietre. Il terzo senso si chiama morale ed è quello che i lettori devono ricercare con estrema attenzione nelle scritture, per loro utilità e dei loro discenti, così come si può cogliere tale senso nel Vangelo, quando Cristo salì nel monte per trasfigurarsi e, dei dodici apostoli, ne condusse solo tre, da ciò si può capire, sotto il senso morale, che le verità più segrete devono essere condivise con poche persone. Il quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso, e a questo bisogna rivolgersi quando si espone un passo biblico, che, sebbene sia vero anche nel senso letterale, ciò che viene esposto è anticipatore della gloria eterna, così come possiamo cogliere nel passo del profeta quando dice che nell’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, la Giudea è resa santa e libera. Perché, se è manifesta-mente vero da un punto di vista letterale, non è meno vero quello che spiritualmente vuole significare, cioè che dall’uscita dell’anima dal peccato essa sia fatta santa e padrona di sé. E a dimostrazione di ciò si ricorda che il senso letterale è il primo di tutti, in quanto in lui sono racchiusi tutti gli altri, senza il quale sarebbe impossibile e irrazionale capire gli altri, soprattutto l’allegorico.

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Ritratto allegorico di Dante (1530)

Il passo nasce dall’esigenza di Dante di spiegare ai suoi lettori che la donna, protagonista della canzone posta all’inizio del trattato si debba intendere attraverso l’allegoria (e quindi non persona reale): infatti lei è l’immagine della Filosofia. Ciò offre al poeta lo spunto per diversificare, a questo punto della sua vicenda intellettuale, l’allegoria riservata alle opere letterarie dal senso anagogico, caratteristico soltanto delle Sacre Scritture.

Il terzo trattato, a commento della canzone Amor che nella mente mi ragiona Dante celebra la filosofia in quanto figlia di Dio e portatrice di felicità. Inoltre affronta il tema dell’essenza dell’uomo che come in tutte le cose create da Dio, riceve la virtù grazie alla sua bontà. Ma essa è ricevuta da tutte le cose, gli angeli l’acquisiranno in modo maggiore, mentre piante e animali in modo minore: l’uomo pertanto è posto a metà strada tra le creature divine e quelle puramente terrene.

Nel quarto trattato, nel quale Dante commenta la canzone Le dolci rime ch’io solia Dante riprende il tema guinizzelliano della vera nobiltà. Possiamo vedere in questo trattato alcuni temi politici che saranno poi sviluppati nel De Monarchia.

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Codice del “De vulgari eloquentia” della fine del XIV

DE VULGARI ELOQUENTIA 

Il De vulgari eloquentia è un trattato latino composto negli stessi anni del Convivio, cioè subito dopo la condanna dell’esilio. E’ scritto in latino, perché rivolto al pubblico dei dotti, e s’interrompe al XIV paragrafo del secondo libro, mentre il proposito originario ne prevedeva quattro. Nel primo libro Dante afferma, in modo assolutamente nuovo, la superiorità del volgare rispetto al latino. Infatti, sbagliando, egli cita il primo come anteriore in quanto “naturale”; il secondo artificiale, in quanto bisogna impararlo con la “grammatica”. Quindi fa derivare il linguaggio dalla torre di Babele, in cui esso era unico, a seguire le confusione delle lingue. Egli, sapendo già che le lingue si evolvono, individua tre ceppi linguistici: anglo, greco e romanzo. Quest’ultimo si divide a sua volta in tre lingue: oil, oc, . A loro volta quest’ultima presenta numerose varianti regionali, bisogna pertanto creare un volgare, che unifichi tali varietà:

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Torre di Babele in due rappresentazioni novecentesche

ILLUSTRE, CARDINALE, AULICO, CURIALE

Quare autem hoc quod repertum est, illustre, cardinale, aulicum et curiale adicientes vocemus, nunc disponendum est: per quod clarius ipsum quod ipsum est faciamus patere.
Primum igitur quid intendimus cum illustre adicimus, et quare illustre dicimus, denudemus. Per hoc quoque quod illustre dicimus, intelligimus quid illuminans et illuminatum prefulgens: et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et karitate illuminant, vel quia excellenter magistrati excellenter magistrent, ut Seneca et Numa Pompilius. (…) Quare ipsum illustre merito profiteri debemus.
Neque sine ratione ipsum vulgare illustre decusamus adiectione secunda, videlicet ut id cardinale vocetur. Nam sicut totum hostium cardinem sequitur ut, quo cardo vertitur, versetur et ipsum, seu introrsum seu extrorsum flectatur, sic et universus municipalium grex vulgarium vertitur et revertitur, movetur et pausat secundum quod istud, quod quidem vere paterfamilias esse videtur. (…) Quare prorsus tanto decusari vocabulo promeretur.
Quia vero aulicum nominamus illud causa est quod, si aulam nos Ytali haberemus, palatinum foret. Nam si aula totius regni comunis est domus et omnium regni partium gubernatrix augusta, quicquid tale est ut omnibus sit comune nec proprium ulli, conveniens est ut in ea conversetur et habitet, nec aliquod aliud habitaculum tanto dignum est habitante: hoc nempe videtur esse id de quo loquimur vulgare (…).
Est etiam merito curiale dicendum, quia curialitas nil aliud est quam librata regula eorum que peragenda sunt: et quia statera huiusmodi librationis tantum in excellentissimis curiis esse solet, hinc est quod quicquid in actibus nostris bene libratum est, curiale dicatur. Unde cum istud in excellentissima Ytalorum curia sit libratum, dici curiale meretur.

Ora bisogna esporre il motivo per cui questo linguaggio che si è trovato noi lo indichiamo accostandovi (i termini) illustre, cardinale, aulico e curiale; attraverso quest’operazione facciamo risaltare più chiaramente ciò che questo linguaggio è per se stesso.
Per prima cosa, quindi, mettiamo in evidenza che cosa intendiamo quando gli accostiamo l’aggettivo “illustre” e perché lo chiamiamo illustre. Veramente, per ciò che chiamiamo illustre intendiamo qualche cosa che illumina e che, illuminata, risplende: e in questo modo chiamiamo gli uomini illustri o perché, illuminati dal potere, a loro volta illuminano gli altri sia con la giustizia che con la carità, o perché eccellentemente istruiti, a loro volta eccellentemente istruiscono, come Seneca e Numa Pompilio. (…) Perciò lo dobbiamo meritatamente riconoscere illustre.
E non senza ragione onoro con il secondo aggettivo lo stesso volgare illustre, sì, cioè da chiamarlo cardinale. Infatti, come l’intera porta segue il cardine, cosicché si gira dove si gira il cardine, e questo stesso si piega o verso l’esterno o verso l’interno, così anche l’insieme dei comuni si volge e si rivolge come il gregge dei dialetti, si muove e si ferma per il fatto che questo sembra davvero un pater familias. Perciò merita di essere onorato con un così grande vocabolo.
Il motivo per cui, poi, lo definiamo aulico consiste nel fatto che se noi Italiani avessimo una reggia, esso sarebbe (lingua) di palazzo. Infatti se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le parti del regno, qualsiasi cosa è tale da essere comune a tutti e non propria di alcuno, è ben che risieda ed abiti in essa (l’aula); né alcuna altra dimora è degna di tanto importante abitante: tale sembra certamente che sia quel volgare di cui parlo. Deve anche essere definito, a buon diritto, curiale, poiché la curialità non è nient’altro se non una norma ponderata delle cose che devono essere fatte; e poiché una bilancia capace di una tale pesata suole trovarsi solo nelle curie migliori, da questo deriva che qualsiasi cosa che c’è di ben ponderato è detto curiale. Da qui questo, poiché è stato pesato nella più eccelsa curia degli Italiani, merita di essere chiamato curiale.

Ciò che è importante in questo brano, al di là delle caratteristiche che tale lingua dovrebbe avere, è la riflessione politica che ne emerge: la mancanza d’unità politica che determina anche una conseguente unità linguistica. Nella parte del II libro giuntoci, Dante si sofferma sugli stili e sui generi poetici, dichiarando la superiorità della canzone sulle altre forme poetiche.

DE MONARCHIA

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Luca Signorelli : Dante con libri (1500/1504)

Il terzo trattato di Dante, dalla datazione ancora incerta, è sempre scritto in latino ed è, al contrario degli altri due, completo. E’ rivolto a un pubblico di dotti ed il suo argomento è politico. E’  costituito da tre libri:

  • nel primo individua la necessità della monarchia universale, cioè dell’impero rispetto ai principati singoli: infatti soltanto un unico imperatore, che in quanto tale non può desiderare di più, può garantire la pace universale, contro le cupidigie dei singoli stati. Il più alto esempio è infatti l’impero di Augusto, che riuscì a governare nella pace;
  • nel secondo libro si affronta la legittimità dell’impero romano, che, secondo Dante, era garantita dal diritto o non dalle armi. Inoltre esso è stato voluto da Dio, come dimostra la scelta di Cristo di farsi giudicare da tale impero, decretandone così la legittimità;
  • nel terzo libro Dante affronta il problema del rapporto tra Impero e Papato. Secondo lui il potere dell’Impero non deriva da quello della Chiesa: infatti, precedendo l’impero la formazione della Chiesa, non può dipendere da essa, ma direttamente da Dio.

Nell’ultima parte dell’opera dichiara le diversità dei compiti delle due autorità:
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Enzo Cucchi : La fontana dei due soli

DUOS FINES

Duos igitur fines providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vite ecterne, que consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, que per paradisum celestem intelligi datur. Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando; ad secundam vero per documenta spiritualia que humanam rationem transcendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fidem spem scilicet et karitatem. Has igitur conclusiones et media, licet ostensa sint nobis hec ab humana ratione que per phylosophos tota nobis innotuit, hec a Spiritu Sancto qui per prophetas et agiographos, qui per coecternum sibi Dei filium Iesum Cristum et per eius discipulos supernaturalem veritatem ac nobis necessariam revelavit, humana cupiditas postergaret nisi homines, tanquam equi, sua bestialitate vagantes “in camo et freno” compescerentur in via. Propter quod opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scilicet summo Pontifice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam, et Imperatore, qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret.

La ineffabile provvidenza ha posto dunque innanzi all’uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, che consiste nella esplicazione della propria specifica facoltà ed è simboleggiata nel paradiso terrestre; e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio e costituisce il paradiso celeste; ad essa quella facoltà specifica dell’uomo non può elevarsi senza il soccorso della luce divina. A queste due beatitudini, come a due fini diversi occorre giungere con mezzi diversi. Alla prima infatti perveniamo per mezzo degli insegnamenti filosofici; purché li mettiamo in pratica operando secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda invece perveniamo per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche della fede, speranza e carità. Siccome quel fine e quei mezzi ci siano stati additati dalla ragione umana, quale si è manifestata a noi compiutamente attraverso i filosofi, e sebbene quel fine e quei mezzi (soprannaturali) ci siano stati indicati dallo Spirito Santo che ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria attraverso i profeti, gli scrittori ispirati, Gesù Cristo, figlio di Dio, a lui coeterno, e i suoi discepoli, tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti dalla retta strada “con la briglia e con il freno”. Per questo l’uomo ebbe bisogno di una duplice guida in corrispondenza di un duplice fine, cioè del sommo Pontefice per dirigere il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell’Imperatore per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia.

dove mostra come le due autorità sia complementari e non soggette l’una all’altra, infatti egli usa la metafora dei due soli, e non come allora era abitudine del sole (luce diretta) e della luna (luce riflessa). Il passo si chiude con la riverenza che un Imperatore deve mostrare verso il Pontefice, ma ciò sottolinea, invece che contraddire la sua teoria: essa infatti sembra richiamare alla necessaria presenza della grazia divina (di cui il papa è strumento) nell’agire di ogni uomo (di cui l’imperatore è la massima espressione).

LUCIO APULEIO

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Immagine di Apuleio

Apuleio è il più grande narratore dell’antichità, la cui opera ci è giunta in modo integrale. Il carattere “misterico” ed “iniziatico” con cui la si è letta sin dal Medioevo, ha fatto del suo romanzo la base su cui si sono costruiti racconti favolosi o meno che hanno costituito la base della nostra civiltà.

Cenni biografici
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Resti romani di Medaura

Apuleio nasce in Africa, più precisamente a Madaura, oggi situata nell’attuale Algeria, intorno al 125. La tradizione ce lo tramanda con il prenome Lucius, ma dai critici si ritiene spurio in quanto corrisponde al nome del protagonista del suo romanzo. Di famiglia ricchissima, ereditò, insieme al fratello, ben due milioni di sesterzi, ricchezza che gli permise di ricevere, sin da principio, una straordinaria educazione culturale. Studiò dapprima a Cartagine, dove forse fu iniziato al culto di Esculapio, detto anche Asclepio, dio della medicina. Durante gli studi sembra si avvicinasse anche ad altri misteri, quali quelli eleusini (dedicati a Demetra, dea dell’agricoltura). Cominciò quindi a viaggiare, portando dappertutto la sua straordinaria abilità di conferenziere. Raggiunse Alessandria, centro molto importante a livello culturale, Ierapoli (nell’attuale Turchia) e Roma, dove fu iniziato al culto di Osiride. Nel 155, nella città di Oea (l’odierna Tripoli) incontrò un suo vecchio compagno di studio, Ponziano, il quale sembra lo convinse a sposare la non bella, ma ricchissima madre Pudentilla. L’intento del suo amico era quello di allontanare dalla madre i cosiddetti cacciatori d’eredità, ritenendo Apuleio lontano da qualsiasi interesse. La morte di entrambi fece intervenire i parenti di lei contro lo scrittore, accusandolo di aver praticato la magia per far innamorare la donna e quindi intascarne l’eredità. La felice difesa dell’autore, poi riportata nel De Magia, lo liberò da ogni accusa. Dopo questo episodio Apuleio si ritirò a vivere a Cartagine, dove rivestì cariche importantissime. Sembra che lì finisse la sua vita, ma non si ha la data certa. Non si hanno notizie di lui dopo il 170.

La filosofia

I concittadini di Medaura, sua città natale, eressero una statua ad Asculapio, dio della medicina, alla cui base vi era una dedica che così recitava: “Al filosofo platonico, cittadini di Medaura” quindi la dedicarono ad Apuleio. A dire il vero il platonismo cui egli fece parte è quello detto del “platonismo medio”. Tale filosofia prese piede proprio dalla crisi dello stoicismo e dell’epicureismo, adottando un sincretismo filosofico-religioso. Infatti, se per lo stoicismo “un dio è in noi”, in quanto siamo parte di un tutto unico, l’epicureismo prevede una totale lontananza dagli dei da noi. La filosofia cui Apuleio aderisce prevede viceversa la presenza dei daimonion (dèmoni) che fungono da mediatori tra il divino e l’umano. Ciò pone una specie di gerarchia tra ciò che sta al di sopra di noi nel cielo e gli umani che popolano la terra: in basso l’uomo, in mezzo i demoni, al di sopra gli dei. Se quest’ultimi sono totalmente privi di passione, questa, mano mano che si scende, domina la vita degli uomini.

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Il daimon di Socrate

Apuleio struttura il suo credo in tre libri, che sono:

  • De mundo (Sul mondo): opera scientifica che riprende uno scritto pseudo aristotelico dallo stesso titolo;
  • De Platone et eius dogmate (Platone e la sua dottrina): sintetizza la filosofia del pensatore greco (non ci è pervenuto il terzo ed ultimo libro);
  • De deo Socratis (Il demone di Socrate): in cui illustra, partendo dal Teeto di Platone, la voce interiore e capace di consigliare Socrate nei momenti della sua vita. Tale voce Apuleio l’identifica con un demone, un “entità” tra dio e uomo, tra razionalità e passione, capace di portare le nostre istanze al mondo superiore.

Il mago

Essere mago nel II sec. d.C. voleva dire essere lo stesso che filosofo e medico, tanto le tre discipline non possedevano un così netto distacco l’una dall’altra. D’altra parte, attraverso le sue opere, soprattutto l’orazione e il romanzo, fanno di tutto per non smentire che Apuleio facesse pratica di magia: l’importante per lui è in qualche modo scrollarsi di dosso la fama di “fattucchiere” che il padre e il fratello di Ponziano volevano accreditargli e lo fece con una brillantissima orazione, da noi conservata, che prende nome o di Apologia (discorso in difesa), o più significativamente, De magia. Tramessaci in due libri (lunghezza insolita per un’orazione) si può dividere in tre parti:

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  • Dapprima Apuleio demolisce le accuse e la credibilità dei suoi accusatori. Non manca una captatio benevolentiae attraverso la quale elogia la grande cultura del giudice e quindi la sua grande tollerabilità (sembra voler richiamare qui l’“apertura mentale” di colui che lo deve giudicare che certamente saprà bene che la sua, se magia dov’essere essere, è così ritenuta dagli indotti e malevoli);
  • Nella seconda parte egli fa una distinzione tra magia bianca e magia nera:  per magia nera s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per maledire l’altro a proprio vantaggio; per magia bianca s’intende l’uso strumentale d’incantesimi per beneficare l’altro a suo vantaggio. Apuleio nel definire le tipologie di magia, sottolinea che la bianca non è altro che la capacità, propria degli iniziati, di entrare in contatto col divino e di operare quindi, per mezzo di lui. Ciò potrà sembrare strano, ma non lo è, perché la cultura ce ne offre innumerevoli esempi, e, nel fare questi esempi, dà enorme sfoggio di erudizione.
  • L’ultima parte dell’orazione è dedicata alla storia vera e propria raccontando gli eventi che lo hanno condotto al matrimonio e termina con un vero e proprio colpo di teatro con cui si mostra l’eredità di Pudentilla e come lei avesse designato il figlio minore ad essere l’erede (quindi l’accusa è completamente infondata).

APÒLOGIA (DE MAGIA)
(91)

Vide quaeso, Maxime, quem tumultum suscitarint, quoniam ego paucos magorum nominatim percensui. Quid faciam tam rudibus, tam barbaris? Doceam rursum haec et multo plura alia nomina in bybliothecis publicis apud clarissimos scriptores me legisse an disputem longe aliud esse notitiam nominum, aliud ar-tis eiusdem communionem nec debere doctrinae instrumentum et eruditionis memoriam pro confessione criminis haberi an, quod multo praestabilius est, tua doctrina, Claudi Maxime, tuaque perfecta eruditione fretus contemnam stultis et impolitis ad haec respondere? 

Vedi, Massimo, quale schiamazzo hanno fatto perché ho enunciato i nomi di alcuni maghi. Come comportarsi con gente così rozza, così barbara? Dovrei loro ancora insegnare che questi nomi e molti altri ancora ho letto nelle pubbliche biblioteche in opere di chiarissimi scrittori, oppure dovrei sostenere che una cosa è conoscere i nomi delle persone, un’altra cosa è praticarne le arti, e che lo studio e la cultura non devono essere considerati come la confessione di una colpa? Oppure non sarà molto meglio che io mi affidi alla tua scienza, Claudio Massimo, e alla tua compiuta erudizione, sdegnando di rispondere a gente sciocca e incivile?

La veemenza con la quale conduce l’oratio, con le sue incalzanti interrogative, mostra come la lezione ciceroniana sia ben stata assimilata da Apuleio. Tuttavia quello che manca in quest’orazione difensiva è proprio l’orazione difensiva: nessuna prova per scagionarsi, ma solo dimostrare l’ignoranza altrui e la propria cultura. Poca differenza quindi tra quest’opera e le declamationes di cui egli era un campione.

Conferenziere

E infatti egli se mago fu, lo fu realmente della parola. Capace di suscitare ammirazione agli ascoltatori, sapeva parlare di tutto e di ogni cosa come ci dimostra anche nelle due opere maggiori. Qualcuno raccolse queste orazioni, scegliendo e facendo un’antologia tra le più ricercate e preziose. Tali opere hanno preso il nome di Florida.

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Edizione del 1927

Il romanziere

Ma l’opera per cui Apuleio è famoso è certamente la Metamorfosi o meglio conosciuta come L’asino d’oro. E’ un testo in 11 libri, il cui antecedente è costituito da un testo greco, non pervenutoci, di Luciano di Samosata del quale ci è giunto un plagio intitolato Lucius o l’asino. Non è improbabile che sia l’autore latino che quello greco abbiano a loro volta rielaborato un’ulteriore fonte, di cui ci testimonia Fozio: ovvero, un’opera intitolata Metamorfosi, e attribuito ad un certo Lucio di Patre. Nell’opera di Apuleio il magico si alterna con l’epico, il tragico, il comico, in una sperimentazione di generi diversi che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico: ciò non toglie, comunque, che tutto il testo sia intessuto di una forte letterarietà.

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Manifesto per una serie di conferenze su L’asino d’oro di Apuleio

L’opera racconta la storia di un giovane chiamato Lucio appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio, avvinto dalla sua insaziabile curiositas, vuole imitarla e, valendosi dell’aiuto di una servetta, Fotide, che nel frattempo è diventata sua amante, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di circostanze non gli impedisse di scoprire l’antidoto indispensabile. Rapito da certi ladri, che hanno fatto irruzione nella casa, durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia per lunghi mesi, trovandosi coinvolto in mille avventure, e sottoponendosi ad infinite angherie. Ciò gli permette di diventare un muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti. Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di Amore e Psiche, narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la favola racconta appunto l’avventura amorosa di Psiche e di Eros. Avendolo conquistato, ella tuttavia non può svelare il suo volto, ma vita da curiosità lo smarrisce. Lo ritroverà poi nel dolore di un’espiazione che le fa attraversare tutti gli elementi del mondo. Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finché, dopo altre peripezie, si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta sulla spiaggia e, durante una notte di plenilunio, vede apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride.

Sia l’ultima parte del romanzo che la celebre favola di Amore e Psiche sembra non abbiano alcun riferimento con le fonti sopra citate, ma siano frutto della fantasia e dell’intenzione di Apuleio, anche perché, come meglio vedremo, la favola costituisce un modello in scala ridotta dell’intero percorso narrativo del romanzo, offrendone così la corretta interpretazione. Infatti l’episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, hanno un evidente significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici nell’itinerario spirituale del protagonista, che, proprio al termine, sembra coincidere con l’autore: la vicenda di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorico: rappresenta la caduta e la redenzione dell’uomo, di cui l’ultimo libro è certamente la conclusione religiosa; questo ce lo fa pensare sia che l’asino fosse un animale inviso alla dea Iside sia lo stesso numero dei libri, 11, che rimanda al numero dei giorni richiesti per l’iniziazione misterica, dieci per la purificazione e uno dedicato al rito religioso.

Vediamo infatti dapprima descritta la degradazione cui è costretto Lucio:
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Lucio trasformato in Asino

LA TRASFORMAZIONE DI LUCIO IN ASINO

Haec identidem asseverans summa cum trepidatione irrepit cubiculum et pyxidem depromit arcula. Quam ego amplexus ac deosculatus prius utque mihi prosperis faveret volatibus deprecatus abiectis propere laciniis totis avide manus immersi et haurito plusculo uncto corporis mei membra perfricui. Iamque alternis conatibus libratis brachiis in avem similis gestiebam: nec ullae plumulae nec usquam pinnulae, sed plane pili mei crassantur in setas et cutis tenella duratur in corium et in extimis palmulis perdito numero toti digiti coguntur in singulas ungulas et de spinae meae termino grandis cauda procedit. Iam facies enormis et os prolixum et nares hiantes et labiae pendulae; sic et aures inmodicis horripilant auctibus. Nec ullum miserae reformationis video solacium, nisiu quod mihi iam nequeunti tenere Photidem natura crescebat.

Dopo avermi così rassicurato con grande trepidazione entrò nella stanza, e tirò fuori un barattolo dal cofanetto. Io lo presi in mano, lo baciai, e poi lo pregai che mi desse la grazia di voli felici; mi spogliai in fretta di tutti i vestiti, immersi le mani avidamente nel barattolo, ne tolsi un bel po’ di unguento e mi spalmai ben bene tutto il corpo. E già tentavo di librare prima un braccio poi l’altro, come un uccello, ma non mi spuntava nessun tipi di piume, e nemmeno penne. I miei peli, invece, diventavano grossi come setole, e la pelle mi diventava dura come il cuoio, e in cima alle mani le dita non erano più superate ma si univano in un unico zoccolo, e dall’estremità della spina dorsale mi venne fuori una gran coda. La mia faccia è enorme, la bocca tutta larga, le narici dilatate, le labbra mi pendono giù: e mi crescono orripilanti orecchie pelose. E non ho nessun conforto in questa mia disgraziata trasformazione se non uno: adesso che non potevo abbracciare la mia Fotide, la verga mi era diventata enorme!

E quindi la sua iniziazione:
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L’iniziazione di Lucio ai culti di Iside

LA TRASFORMAZIONE DA ASINO A LUCIO

At sacerdos, ut reapse cognoscere potui, nocturni commonefactus oraculi miratusque congruentiam mandati muneris, confestim restitit et ultro porrecta dextera ob os ipsum meum coronam exhibuit. Tunc ego trepidans, adsiduo cursu micanti corde, coronam, quae rosis amoenis intexta fulgurabat, avido ore susceptam cupidus promissi devoravi. Nec me fefellit caeleste promissum: protinus mihi delabitur deformis et ferina facies. Ac primo quidem squalens pilus defluit, ac dehinc cutis crassa tenuatur, venter obesus residet, pedum plantae per ungulas in digitos exeunt, manus non iam pedes sunt, sed in erecta porriguntur officia, cervix procera cohibetur, os et caput rutundatur, aures enormes repetunt pristinam parvitatem, dentes saxei redeunt ad humanam minutiem, et, quae me potissimum cruciabat ante, cauda nusquam! Populi mirantur, religiosi venerantur tam evidentem maximi numinis potentiam et consimilem nocturnis imaginibus magnificentiam et facilitatem reformationis claraque et consona voce, caelo manus adtendentes, testantur tam inlustre deae beneficium.

Intanto il sacerdote, messo sull’avviso dal sogno notturno, come potetti da me constatare, e a sua volta colmo di meraviglia per l’esatta corrispondenza tra ciò che stava accadendo e gli avvertimenti divini, subito si fermò e allungando il braccio, egli stesso mi porse la corona proprio davanti alla bocca. Allora tutto trepidante, col cuore che mi batteva forte, smanioso che la promessa s’adempisse, afferrai avidamente quella corona di bellissime rose intrecciate ch’era uno splendore e la divorai. E la celeste promessa non mi deluse. Là per là persi il mio brutto e animalesco aspetto, dapprima cadde l’ispido pelo, poi la grossa pelle si assottigliò, il largo ventre si restrinse, dalle piante dei piedi, attraverso lo zoccolo, spuntarono nuovamente le dita, le braccia non furono più zampe ma, rialzatesi, ripresero le loro funzioni, la testa ritornò eretta, il viso e il capo si arrotondarono, le orecchie da enormi che erano tornarono piccole come prima, i denti, grossi come ciottoli, ripresero dimensioni umane, infine la coda, quella coda che più d’ogni altra cosa era stata la mia ossessione, scomparve. La folla rimase incantata dalla meraviglia i più devoti si prostrarono in adorazione davanti alla potenza così evidente della grande dea, alla grandiosità di quella metamorfosi e anche alla naturalezza con cui s’era compiuta, così simile a un sogno notturno, e a voce alta e in coro, levando al cielo le braccia, testimoniarono lo straordinario miracolo della dea.

I due passi possono considerarsi uno specchio dell’altro e rappresentano, come già detto il punto di partenza e il punto d’arrivo nella trasformazione di un uomo. La curiositas di Lucio, sembra dirci Apuleio, senza che essa sia accompagnata da un più profondo sentire, che non si esaurisca nella ricerca solipsistica di puro piacere (non è senza significato che il primo rimpianto sia sessuale) quale quella di vedere il mondo dall’alto sotto forma di uccello, non può essere esaudita se non accompagnata da un più profondo senso sacrale. Anche questo è sottolineato: a dargli l’unguento è una servetta tutta “sesso”, a rifarlo uomo sarà un sacerdos.

Ciò farebbe delle Metamorfosi, così, un vero e proprio romanzo mistagogico (il cui significato è portare, guidare qualcuno a considerare le realtà sacre, introdurre nelle cose nascoste cioè nei misteri), che sembrerebbe rappresentare l’esperienza stessa dello scrittore. Lo stesso definisce la sua opera fabula milesia, cioè quella narrazione di carattere erotico con un narratore omodiegetico, cioè interno alla stessa (si pensi alla storia, fortemente sessuale di Lucio uomo con Fotide, la serva di Panfila; ma anche al desiderio sessuale che suscita su una nobildonna quando lo scopre, ormai asino, essere pensante come un umano e quindi la volontà di portarlo a teatro per fare l’amore con una condannata a morte). Ma sembra essere molto più in linea con il romanzo ellenistico d’avventure, di cui la storia è piena.

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Antonio Canova: Amore e Psiche

La parte più famosa, e certamente più importante e la favola di Amore e Psiche;
Questo brano può esser letto secondo la morfologia della fiaba dello strutturalista russo Vladimir Propp. Infatti esso è così strutturata:

  • Equilibrio iniziale (inizio): amore tra Psiche e Amore;
  • Rottura dell’equilibrio iniziale (movente o complicazione): gelosia delle sorelle e fuga di Amore
  • Peripezie dell’eroe: ricerca di Amore da parte di Psiche e prove cui sottoposta da Venere;
  • Ristabilimento dell’equilibrio (conclusione): nozze fra Psiche e Amore.

Come detto, la favola di Amore e Psiche, che parte dalla fine del IV libro a buona parte del VI, ha un’importanza fondamentale nell’economia generale del romanzo, svolgendo una funzione non solo estetica, ma fornendocene invece la corretta chiave di lettura e di decodificazione dell’intero testo. Infatti, a ben guardare, la successione degli avvenimenti della novella riprende quella delle vicende del romanzo: prima un’avventura erotica, poi la curiositas punita con la perdita della condizione beata, quindi le peripezie e le sofferenze, che vengono alfine concluse dall’azione salvifica della divinità. La favola, insomma, rappresenterebbe il destino dell’anima, che, per aver commesso il peccato di hybris (tracotanza) tentando di penetrare un mistero che non le era consentito di svelare, deve scontare la sua colpa con umiliazioni ed affanni di ogni genere prima di rendersi degna di ricongiungersi al dio. L’allegoria filosofica è appena accennata (se non altro, nel nome della protagonista, Psiche, simbolo dell’anima umana), ma il significato religioso è evidente soprattutto nell’intervento finale del dio Amore, che, come Iside, prende l’iniziativa di salvare chi è caduto, e lo fa di sua spontanea volontà, non per i meriti della creatura umana.

C’ERA UNA VOLTA UN RE E UNA REGINA

Erant in quadam civitate rex et regina. Hi tres numero filias forma conspicuas habuere, sed maiores quidem natu, quamvis gratissima specie, idonee tamen celebrari posse laudibus humanis credebantur, at vero puellae iunioris tam praecipua, tam praeclara pulchritudo nec exprimi ac ne sufficienter quidem laudari sermonis humani penuria poterat. Multi denique civium et advenae copiosi, quos eximii spectaculi rumor studiosa celebritate congregabat, inaccessae formonsitatis admiratione stupidi et admoventes oribus suis dexteram primore digito in erectum pollicem residente eam ut ipsam prorsus deam Venerem religiosis venerabantur adorationibus. Iamque proximas civitates et attiguas regiones fama pervaserat deam, quam caerulum profundum pelagi peperit et ros spumantium fluctuum educavit, iam numinis sui passim tributa venia in medias conversari populi coetibus, vel certe rursum novo caelestium stillarum germine non maria, sed terras Venerem aliam virginali flore praeditam pullulasse.

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William-Adolphe Bouguereau: Psiche (1898)

Un tempo, in una città, vivevano un re e una regina che avevano tre bellissime figlie, le due più grandi, per quanto molto belle, potevano essere degnamente celebrate con lodi umane, ma la bellezza della più giovane era così straordinaria e così incomparabile che qualsiasi parola umana si rivelava insufficiente a descriverla e tanto meno a esaltarla. Insomma sia quelli della città che i forestieri, attratti in gran numero dalla fama di tanto prodigio, restavano attoniti dinanzi a un simile miracolo di bellezza: portavano la mano destra alle labbra, accostavano l’indice al pollice e la adoravano con religioso rispetto come se fosse stata Venere in persona. Anzi nelle vicine città e nelle terre confinanti si era sparsa la voce che la dea nata dai profondi abissi del mare e allevata dalla spuma dei flutti, volendo elargire la grazia della sua divina presenza, era discesa fra gli uomini o anche che da un nuovo seme di stille celesti non il mare ma la terra aveva sbocciato un’altra Venere, anch’essa bellissima, nella sua grazia virginale.

Tale bellezza suscita la gelosia della dea Venere, che non può sopportare che una donna umana possa eguagliarla se non superarla in bellezza:

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Raffaellino del Colle (attribuito): Venere e Cupido,, Loggia Farnese, Roma

LA GELOSIA DI VENERE

“En rerum naturae prisca parens, en elementorum origo initialis, en orbis totius alma Venus, quae cum mortali puella partiario maiestatis honore tractor et nomen meum caelo conditum terrenis sordibus profanatur! Nimirum communi numinis piamento vicariae venerationis incertum sustinebo et imaginem meam circumferet puella moritura. Frustra me pastor ille, cuius iustitiam fidemque magnus comprobavit luppiter, ob eximiam speciem tantis praetulit deabus. Sed non adeo gaudens ista, quaecumque est, meos honores usurpabit: iam faxo eam huius etiam ipsius inlicitae formonsitatis paeniteat”

«Ecco che io, l’antica madre della natura, l’origine prima degli elementi, la Venere che dà vita all’intero universo, sono ridotta a dividere con una fanciulla mortale gli onori dovuti alla mia maestà e a veder profanato dalle miserie terrene il mio nome celebrato nei cieli. Nessuna meraviglia, allora, se durante i riti espiatori dovrò sopportare un culto equivoco, diviso a metà e se una fanciulla che non potrà sfuggire alla morte ostenterà le mie sembianze. A nulla è valso allora che quel pastore la cui giustizia e lealtà fu dallo stesso Giove riconosciuta, per la straordinaria bellezza prescelse me fra dee tanto più illustri. Ma non se li godrà a lungo costei, chiunque sia, gli onori che mi usurpa: la farò pentire io della sua bellezza che non le spetta».

A tale scopo chiama suo figlio, Cupido, che, per punire Psiche, deve fare in modo ch’ella si innamori dell’uomo più brutto sulla terra.

Ma Psiche, pur essendo la ragazza più bella sulla terra, non gode della sua fortuna, e rimane sola. Le sorelle si sposano, ma sembra che nessuno voglia lei, e piange, nella sua solitudine, la sua bellezza, maledicendola. Allora il padre si rivolse ad un indovino che gli predisse che un mostro l’avrebbe amata: questo era il volere degli dei. Pertanto la preparasse vestendola d’oro e d’argento, e la portasse sopra una rupe, che, con ferro e con fuoco, l’avrebbe fatta sua. Il padre, pieno di timore, non può fare a meno d’obbedire.

Portata sulla rupe, accompagnata con mesto corteo, viene lasciata sola. Ma viene da subito trasportata dal vento e portata in un locus amoenus:
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Kynuko Y Craft (illustratore): Psiche portata dal vento

LOCUS AMOENUS

Psyche teneris et herbosis locis in ipso toro roscidi graminis suave recubans, tanta mentis perturbatione sedata, dulce conquievit. Iamque sufficienti recreata somno placido resurgit animo. Videt lucum proceris et vastis arboribus consitum, videt fontem vitreo latice perlucidum; medio luci meditullio prope fontis adlapsum domus regia est aedificata non humanis manibus sed divinis artibus.

Psiche dolcemente adagiata su un morbido prato, in un letto di rugiadosa erbetta sentì l’animo suo liberarsi di tutta l’angoscia e placidamente s’addormentò. Dopo aver riposato abbastanza si levò più tranquilla e vide un boschetto fitto di alberi alti e frondosi e una sorgente d’acque cristalline e, proprio in mezzo al bosco, non lontana da quella fonte, vide una reggia, costruita non dalla mano dell’uomo ma per arte divina.

 Quindi viene introdotta in una reggia stupenda, dimora più di un dio che di un uomo. Delle invisibili ancelle la curano, la invitano a godere di tutte le cose che il castello le offriva. Dopo aver riccamente mangiato, presa dalla stanchezza fu presa da dolce sonno, ma proprio allora sentì una presenza al suo fianco, era il suo sposo che dolcemente la possedette, per poi svanire all’alba. Viene stipulato un patto: lei non dovrà mai vedere lo sposo.
Nel frattempo i genitori, preoccupati della sua sorte, mandano le sorelle a cercarla. Così lo sposo la ammonì:
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François Gérard, Cupido e Psiche (1798)

LE AMMONIZIONI DI UN DIO

“Psyche dulcissima et cara uxor, exitiabile tibi periculum minatur fortuna saevior, quod observandum pressiore cautela censeo. Sorores iam tuae mortis opinione turbatae tuumque vestigium requirentes scopulum istum protinus aderunt, quarum si quas forte lamentationes acceperis, neque respondeas immo nec prospicias omnino; ceterum mihi quidem gravissimum dolorem tibi vero summum creabis exitium.” 

«Psiche, mia dolcissima e amata sposa, il destino crudele ti minaccia di un terribile pericolo, per cui ti prego dì essere molto prudente. Le tue sorelle, angosciate dalla notizia della tua morte si sono messe sulle tue tracce e presto verranno a questa rupe; se tu sentissi i loro lamenti, per carità non rispondere, non farti vedere, perché a me daresti un grande dolore ma per te sarebbe addirittura la fine.»

Le sorelle, una volta ritrovatala e vista la reggia in cui Psiche vive, e che nel frattempo è in dolce attesa del figlio di un dio, mosse dall’invidia, le fanno credere, che il marito sia un mostro orrendo:

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Le sorelle di Psiche

L’INVIDIA SI TRASFORMA IN BUGIA

“Tu quidem felix et ipsa tanti mali ignorantia beata sedes incuriosa periculi tui, nos autem, quae pervigili cura rebus tuis excubamus, cladibus tuis misere cruciamur. Pro vero namque comperimus nec te, sociae scilicet doloris casusque tui, celare possumus immanem colubrum multinodis voluminibus serpentem, veneno noxio colla sanguinantem hiantemque ingluvie profunda, tecum noctibus latenter adquiescere. Nunc recordare sortis Pythicae, quae te trucis bestiae nuptiis destinatam esse clamavit. Et multi coloni quique circumsecus venantur et accolae plurimi viderunt eum vespera redeuntem e pastu proximique fluminis vadis innatantem. Nec diu blandis alimoniarum obsequiis te saginaturum omnes adfirmant, sed cum primum praegnationem tuam plenus maturaverit uterus, opimiore fructu praeditam devoraturum. Ad haec iam tua est existimatio, utrum sororibus pro tua cara salute sollicitis adsentiri velis et declinata morte nobiscum secura periculi vivere an saevissimae bestiae sepeliri visceribus.” 

“Beata te che te ne stai tranquilla, ignara di un fatto terribile, incurante del pericolo che ti sovrasta, ma noi che stiamo sveglie la notte, preoccupate del tuo caso, siamo angosciate al pensiero delle tue sciagure. Abbiamo saputo, infatti, con tutta certezza, e non possiamo nascondertelo dato che abbiamo fatto nostre le tue sventure e il tuo dolore, che chi viene a letto con te, di nascosto la notte, è un serpente gigantesco, tutto viscide spire dal collo gonfio d’un sangue velenoso e mortale e dalle fauci enormi spalancate. Ora, ricordati dell’oracolo che ti predisse che avresti sposato un’orribile bestia. Molti contadini, e quelli che vengono a caccia da queste parti, e parecchi abitanti dei dintorni lo hanno visto all’imbrunire tornare dalla pastura e nuotare nelle acque del fiume qui vicino. E tutti dicono che non ti colmerà per molto tempo di tutte queste delizie ma che appena la tua gravidanza si sarà compiuta ti divorerà insieme con il ricco frutto del tuo ventre. Stando così le cose tu devi decidere: o ascoltare le tue sorelle così sollecite della tua vita e, scampando alla morte, vivere con noi fuori di ogni pericolo, oppure finire nelle viscere di un mostro orrendo.”

E la convincono ad ucciderlo:
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Jacopo Zucchi: Amore e Psiche

PSICHE SCOPRE L’IDENTITA’ DELLO SPOSO

Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur. Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere, sed in suo pectore; quod profecto fecisset, nisi ferrum timore tanti flagitii manibus temerariis delapsum evolasset. Iamque lassa, salute defecta, dum saepius divini vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi. Videt capitis aurei genialem caesariem ambrosia temulentam, cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis dei pinnae roscidae micanti flore candicant et quamvis alis quiescentibus extimae plumulae tenellae ac delicatae tremule resultantes inquieta lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela. Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa, sive perfidia pessima sive invidia noxia sive quod tale corpus contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat, evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit. Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit.6366.jpg

Simon Vouet: Amore e Psiche

Allora a Psiche vennero meno le forze e l’animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. Ma non appena il lume rischiarò l’intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo dio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l’avrebbe certamente fatto se l’arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell’alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l’ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d’averlo generato. Ai piedi del letto erano l’arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio. Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l’acutezza ma per la pressione un po’ troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l’innocente Psiche, senza accorgersene, s’innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi. Ma mentre l’anima sua innamorata s’abbandonava a quel piacere la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch’essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall’orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d’olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d’amore, proprio il dio d’ogni fuoco tu osasti bruciare quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte il suo desiderio. Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d’un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell’infelicissima sposa.

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Maurice Denis: Amore e Psiche (1908)

Abbandonata, dapprima cerca d’uccidersi e, dopo essersi vendicata delle sorelle, comincia a vagare senza meta, alla ricerca del suo sposo. Dopo aver chiesto a varie dee, che non possono aiutarla, si rivolge a Venere, madre di Cupido, cui il figlio si era rifugiato, malato d’amore. Ma l’ira della dea è impacabile:

L’IRA DI VENERE

“Tandem” inquit “dignata es socrum tuam salutare? An potius maritum, qui tuo vulnere periclitatur, intervisere venisti? Sed esto secura, iam enim excipiam te ut bonam nurum condecet”; et: “Ubi sunt” inquit “Sollicitudo atque Tristities ancillae meae?” Quibus intro vocatis torquendam tradidit eam. At illae sequentes erile praeceptum Psychen misellam flagellis afflictam et ceteris tormentis excruciatam iterum dominae conspectui reddunt. Tunc rursus sublato risu Venus:””Et ecce” inquit “nobis turgidi ventris sui lenocinio commovet miserationem, unde me praeclara subole aviam beatam scilicet faciat. Felix velo ego quae ipso aetatis meae flore vocabor avia et vilis ancillae filius nepos Veneris audiet. Quanquam inepta ego quae frustra filium dicam; impares enim nuptiae et praeterea in villa sine testibus et patre non consentiente factae legitimae non possunt videri ac per hoc spurius iste nascetur, si tamen partum omnino perferre te patiemur.”luca_giordano_003_psiche_punita_da_venere (1).jpg

 Luca Giordano: Psiche punita da Venere (1702)

“Finalmente” le gridò “ti sei degnata di venire a salutare tua suocera! O forse sei venuta a far visita a tuo marito in pericolo per la ferita che gli hai procurato? Ma sta tranquilla, ti farò l’accoglienza che merita una brava nuora come te,” e soggiunse: “dove sono Angoscia e Tristezza, le mie ancelle?” e fattele entrare ad esse l’affidò perché la torturassero; e quelle, eseguendo a puntino l’ordine della padrona, cominciarono a lavorare di scudiscio sulla povera Psiche e a straziarla con torture di vario genere, poi gliela riportarono davanti. E Venere nuovamente scoppiò a ridere: “Sta a vedere che io adesso debbo commuovermi per quel suo ventre gravido che dovrebbe farmi nonna felice di una prole illustre. Sì, proprio felice: nel fiore degli anni esser chiamata nonna e il figlio di una miserabile schiava passare per nipote di Venere. Ma stupida anch’io a chiamarlo figlio, ché mica è valido il matrimonio fra persone di diversa condizione sociale celebrato, poi, così, in campagna, senza testimoni, senza il consenso del padre; perciò questo che nascerà sarà un bastardo, ammesso pure che io ti lasci portare a termine la gravidanza.”

E quindi la sottopone a prove impossibili: separare un mucchio di semi differenti; procurarsi un fiocco d’oro dalle pelli di certe pecore, feroci verso il genere umano; attingere un’urna d’acqua nello Stige. Psiche, attraverso l’aiuto di creature meravigliose, riesce a portare a termine tutte le prove.

L’ultima è quella di scendere nell’Averno e incontrare Proserpina che le farà dono della sua bellezza. Ma la curiositas spinge Psiche ad osservare dentro il cofanetto che le è stato consegnato e quindi giace come morta nel sonno infernale.

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Giulio Romano: Proserpina offre una pisside con dentro la bellezza, Palazzo Te (Mantova, 1534)

Amore, guarito ed impietositosi di lei, intercede presso il grande Giove. Egli ordina la fine delle traversie di Psiche:

IL MATRIMONIO

“Dei conscripti Musarum albo, adolescentem istum quod manibus meis alumnatus sim profecto scitis omnes. Cuius primae iuventutis caloratos impetus freno quodam coercendos existimavi; sat est cotidianis eum fabulis ob adulteria cunctasque corruptelas infamatum. Tollenda est omnis occasio et luxuria puerilis nuptialibus pedicis alliganda. Puellam elegit et virginitate privavit: teneat, possideat, amplexus Psychen semper suis amoribus perfruatur.” Et ad Venerem conlata facie: “Nec tu,” inquit “filia, quicquam contristere nec prosapiae tantae tuae statuque de matrimonio mortali metuas. Iam faxo nuptias non impares sed legitimas et iure civili congruas”, et ilico per Mercurium arripi Psychen et in caelum perduci iubet. Porrecto ambrosiae poculo: “Sume,” inquit “Psyche, et immortalis esto, nec umquam digredietur a tuo nexu Cupido sed istae vobis erunt perpetuae nuptiae.”

“O dei, iscritti nell’albo delle Muse, voi tutti certamente sapete che questo ragazzo l’ho cresciuto io stesso con le mie mani. Ora però credo sia giunto il momento di mettere un po’ a freno i suoi ardori giovanili; sono troppe ormai le favolette che corrono in giro sui suoi adulteri e su tutte le sudicerie che combina. Occorre eliminare ogni occasione e contenere la sua giovanile lussuria con i vincoli del matrimonio. La ragazza già ce l’ha, l’ha anche sverginata: che se la tenga, ci vada a letto e si goda per sempre Psiche e il suo amore.” E volgendosi a Venere: “E tu, figlia mia, per questo matrimonio con una mortale non te la prendere, non temere per il tuo casato e la tua condizione. Disporrò che queste nozze siano tra eguali, del tutto legittime quindi e conformi al diritto civile” e là per là ordinò che Mercurio andasse a prendere Psiche e la portasse in cielo: “Bevi, Psiche” le disse offrendole una coppa d’ambrosia “e sii immortale; né mai Cupido si scioglierà dal vincolo che lo lega a te e queste saranno per voi nozze eterne.”

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Raffaello Sanzio: Il matrimonio di Amore e Psiche (1517)

Ed infine:

VOLUTTA’

Sic rite Psyche convenit in manum Cupidinis et nascitur illis maturo partu filia, quam Voluptatem nominamus”.

Così Psiche andò sposa a Cupido, secondo giuste nozze e, al tempo esatto, nacque una figlia, che noi chiamiamo Voluttà.

 

IL PRINCIPATO D’ADOZIONE

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In questo periodo, tra il 96, morte di Domiziano e il 192, fine degli Antonini, con l’uccisione di Commodo, si afferma quello che storicamente viene definito il principato adottivo o l’età degli Antonini. Il primo perché, dopo l’esperienza dei Flavi che aveva riprodotto il principio della successione dinastica, si era adottato il sistema per cui, l’imperatore “adottava”, al di là dei rapporti di sangue, il “migliore” che lo avrebbe succeduto; il secondo perché, pur riferendosi solo agli ultimi imperatori, esattamente ad Antonino Pio, ma tutti legati da uno stesso sistema di scelta imperiale, si suole dare a tutto il II secolo il nome, appunto, di età degli Antonini. Non solo l’intero II secolo è detto anche “secolo d’oro” è per questo principalmente per due motivi:

  1. Un periodo di stabilità politica, dovuto al maggior coinvolgimento delle forze provinciali, che garantirono un’efficiente sistema burocratico;
  2. L’accettazione della figura dell’imperatore, che si afferma come il migliore garante e protettore dello Stato.

Gli imperatori di questo periodo sono:

  • Nerva, discendente da antica nobiltà senatoria. Egli con grande capacità politica, dopo l’uccisione di Domiziano, seppe destreggiarsi tra le forze contrapposte allora in gioco: rappresentante del Senato, lo legò ancor più a sé liberando tutti i prigionieri politici che l’ultimo imperatore flavio aveva condannato (fra di essi molti nobili); ma per non scontentare l’esercito, nominò come suo successore un valente comandante militare, Traiano, inaugurando “de facto” il criterio d’adozione; regnò per soli due anni (96-98);

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Nerva

  • Traiano, militare d’origine spagnola. Con lui, l’impero riuscì a raggiungere la massima espansione territoriale e un lungo periodo di pace interna. Per tali caratteristiche gli venne conferito il titolo di Optimus che lo associava alla figura di Giove. Conquistò, con due battaglie, la provincia della Dacia, (attuale Romania) che romanizzò con una forte penetrazione di elementi italici. Il ricco bottino procurato da tale conquista, gli permise sia di operare sul piano architettonico, facendo un nuovo foro ed inserendo in esso la colonna traiana nella quale furono scolpiti le immagini della guerra vittoriosa (politica di propaganda), sia di carattere economico, prestando denaro alla agricoltori, per ridare impulso alla produzione italica. Altre conquiste importanti furono quella dell’Arabia settentrionale, che gli permise di controllare il traffico dalle regioni Orientali, come quello delll’India verso l’Egitto. Restò poco a Roma, sempre impegnato in campagne militari, e, al ritorno di una di esse, si ammalò; prima di morire, nominò come successore Adriano, anche lui spagnolo. Regnò dal 98 al 117;

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Traiano

  • Adriano, anche lui spagnolo. Non fu amato come l’imperatore precedente, anche se anche lui riuscì a regnare per circa una ventina d’anni. Non continuò la spinta espansionistica di Traiano, ma anzi rinunciò alle conquiste più “esterne” per rafforzare il limes. A tale scopo fece costruire una forte muraglia sul Danubio e il famoso vallum Hadriani, una roccaforte in Britannia capace di tener lontane le popolazioni residenti nell’attuale Scozia. Inoltre riformò anche l’esercito: i soldati che presiedevano il confine erano gli stessi provinciali, che lo avrebbero difeso come “cosa loro”, anche se tale scelta poteva, come più tardi avvenne, dar loro troppo potere. Profondamente innamorato della cultura ellenica, risiedette per lungo tempo ad Atene e fece costruire una straordinaria villa, presso Tivoli, in cui fece riprodurre opere d’arte greche. Morì presso Napoli, nel 138, nominando come successore Antonino Pio.

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Adriano

  • Antonino Pio, nobile italico. Egli perseverò nella politica di rafforzamento imperiale, continuando ed incrementando una politica sia di aiuti verso gli agricoltori e sia verso i figli dei ceti medi che aspiravano alla cultura. Molto attento al Senato, ricevette da questo il titolo di Pius e Pater Patriae. Mostrò estrema tolleranza verso le forme religiose che pullulavano a Roma in quel periodo. Come aveva promesso ad Adriano chiamò a succedergli Marco Aurelio e Lucio Vero. Morì nel 161.

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Antonino Pio

  • Marco Aurelio, nobile Romano. Governò per un primo momento insieme a Lucio Vero (formando un’insolita diarchia) fino alla morte di quest’ultimo, e in seguito associando a sé il figlio Commodo. E’ ricordato nella storia come l’imperatore filosofo, amante della cultura e delle lettere. Ma tali amori non poté esercitarli alla luce delle continue tensioni e difficoltà che si stavano creando all’interno del suo regno; da una parte dovette fronteggiare le spinte di popolazioni provenienti dalla zona danubiana che premevano sui confini, come i Quadi e i Marcomanni, che riuscirono a raggiungere Aquileia. Costretto a richiamare Lucio Vero, di stanza in Oriente, in Europa, le sue truppe portarono nel continente e in Italia una tremenda peste bubbonica. L’imperatore filosofo, amante della pace, passò, quasi tutto il suo regno a guerreggiare per difendere l’impero. Morì in guerra nel 180.

La statua equestre di Marco Aurelio, al centro della piazza del Campidoglio, Roma | Statua equestre, Statue, EquestreStatua equestre di Marco Aurelio in piazza del Campidoglio

  • Commodo, figlio di Marco Aurelio, con lui cessa il principato adottivo. Sembra di rivivere con lui il dramma di Caligola, Nerone e Domiziano. Cercò di ricreare il potere assoluto appoggiandosi sul popolo, con giochi gladiatori, mentre la peste non era ancora terminata e lo stato viveva un forte periodo depressivo. Volle essere divinizzato come Ercole Romano. I suoi eccessi e le sue manie lo resero inviso al senato e, come degno rappresentante dei suoi predecessori, venne ucciso nel 192.

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Commodo

In linea generale tale età è caratterizzata da una buona stabilità politica: infatti la transazione morbida tra gli imperatori e l’atteggiamento “rispettoso” verso il senato, pur svuotato di potere, determinata un clima sereno, che si riflette non solo sul piano politico, ma anche su quello culturale. Non si ha più, infatti, l’esigenza di far del popolo la leva capace di fare da contraltare allo scontento dei ceti nobiliari, come era successo per gli imperatori assolutisti. Quindi una minore attenzione al lato populista, donazioni e giochi circensi ed una maggiore propensione a favorire il “ceto medio”, con organizzazioni collegiali su base professionale e con facilitazioni per l’accesso all’istruzione.

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Il vallo di Adriano in Inghilterra

Dal punto di vista di politica estera, tale impero invece si caratterizza non solo per il suo allargamento territoriale, quanto per la spinta “centro-ecumenica” cui tese. Pur allargandosi i confini, Roma cerca di restringere le distanze accogliendo nel suo sistema tutte le diversità. Non si tratta di dare la cittadinanza romana a tutti (che rimane un fenomeno elitario) quando d’assorbire la molteplicità nell’unità culturale: già abbiamo visto come i maggiori intellettuali del periodo post augusteo fossero spagnoli, ma il rapporto tra essi e l’impero è unidirezionale, dalla periferia al cuore dell’Impero; ora si tratta, viceversa, di una spinta a centrare e un’altra ad allargare l’acquisizione socio-culturale della vastità imperiale: non è un caso che proprio un imperatore, Marco Aurelio, si affiderà, nell’affidare i suoi Ricordi alla lingua greca.

Sarebbe oltremodo limitante non accennare, come ultimo aspetto, quello generalmente culturale, che si qualifica soprattutto su un piano estetizzante: la possibilità di numerose biblioteche in tutto l’impero, l’amore per la tradizione, il recupero antiquario sviluppano soprattutto un forte interesse erudito e filologico.

Per la filosofia, se i Flavi avevano visto, proprio in essa, un pericolo per la stabilità dell’impero, e la testimonianza ce la offre proprio Quintiliano quando sottomette tale “sapere” all’interno della retorica, gli imperatori di questo periodo accettano la ripresa della “neosofistica”: se la prima sofistica aveva in sé un forte aspetto politico, rivendicando a sé il ruolo di rappresentazione della libertà, qui si riprende quella delle origini, razionale, che gioca sulle sottigliezze dialettiche su qualsiasi argomento: morale, politico, consolatorio, che si sviluppa, soprattutto, con le declamationes.

Ancora importante è l’affermarsi, durante il II periodo, del sincretismo religioso: infatti l’estendersi dell’impero ed il coesistere in esso di varie forme di religiosità, avevano fatto sì che queste ultime si livellassero tutte nella comune attesa di una palingenesi; il frutto di ciò, caduta ormai la prassi di un’ideologia “politica”, sarà cercare la salvezza o una forma di riscatto personale da qualche altra parte: oracoli, presagi, interpretazioni di sogni e via discorrendo.

Anche la filosofia, almeno quella stoica che chiedeva di vivere secondo natura viene assorbita dal nascente cristianesimo. Nascono tuttavia nuove pratiche religiose-culturali: all’inizio si impone quella di Iside, presto sostituita da quella di Mitra, che in parte assorbe la prima in parte presenta caratteri originali: era questo culto portato soprattutto dai soldati stanziati nella parte orientale dell’Impero. All’inizio era identificato con il sole e quindi con la luce: prospettava l’immortalità ma solo se si fosse vissuto operando per il bene e amando il prossimo come un fratello (punti di assoluto contatto con l’incipiente religione cristiana).

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Bassorilievo con la scena del banchetto mitraico. Mitra e Sole.

I generi letterari che si sviluppano in questo periodo sono:

  • Per l’oratoria e l’epistolografia si ricorda Plinio il Giovane. Di lui si ricorda soprattutto il Panegirico a Traiano. Importante opera di carattere epidittico (discorso retorico con il quale si vuole convincere un determinato pubblico dell’eccellenza di una persona), volendo contrapporre Domiziano a Traiano, tende a sottolineare la ritrovata libertà con quest’ultimo imperatore; strano concetto di libertà, tuttavia, se essa viene elargita dall’alto. Se possiamo trovare difficoltà nel comprenderla “concettualmente” parlando, ci dice, tuttavia del migliore rapporto che c’è tra il potere e gli intellettuali.
  • Per la scrittura in versi, da una parte la ripresa della satira con Giovenale (sulla stessa linea che parte da Lucilio ed arriva sino a Persio) e la lirica con i poetae novelli che si richiamano ai neoteroi per la poesia intesa come lusus;
  • La storiografia con Tacito e la biografia di Svetonio (soprattutto De vita Caesarum, ricca di aneddoti e pettegolezzi);
  • L’erudizione con Aulo Gellio (autore delle Noctes Atticae in cui mostrando il suo interesse e curiosità per aspetti filologici, li analizza con brani di autori che senza di lui sarebbero andati sicuramente persi).
  • Il romanzo con Apuleio.

EUGENIO MONTALE

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Eugenio Montale

Eugenio Montale nasce a Genova nel 1896.

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La casa in cui nacque

La sua famiglia appartiene alla buona borghesia e lui trascorrerà l’infanzia e l’adolescenza tra la città e Monterosso, borgo delle Cinque Terre, il cui paesaggio sarà fondamentale per la sua poesia.

Si diploma in ragioneria e questo sarà l’unico titolo ufficiale, in quanto preferisce approfondire da autodidatta la sua cultura; inoltre prende lezioni di canto coll’intento, poi non realizzato, di diventare baritono.

Frequenta la Biblioteca comunale di Genova dove, in piena autonomia, si formerà un ricchissimo bagaglio culturale che spazia dalla filosofia, alla letteratura, alla scienza e alla religione; grazie anche alla sorella Marianna legge e approfondisce la filosofia di Bergson, ma soprattutto sarà attratto dal pensiero di Émile Boutroux.
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Montale sodato

Nel 1917 parte per la Prima Guerra Mondiale, dopo una serie di rinvii per la sua fragile costituzione. Al fronte conosce Sergio Solmi che lo metterà in contatto con i liberali torinesi.

Torna a Genova nel 1920, dove continua ad approfondire la propria cultura e dove inizia la frequentazione degli intellettuali di quella città, fra cui quella di Camillo Sbarbaro, importante poeta ligure; nel 1922, grazie all’amico Solmi, pubblica a Torino le sue prime prove poetiche.

Il 1925 è un anno importante per Montale: un amico triestino lo mette in contatto con Umberto Saba e gli farà conoscere le opere di Svevo (che commenterà, entusiasticamente, su L’Esame); aderirà al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce; scriverà l’articolo Stile e tradizione in cui prenderà le distanze dalla triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, in favore di una letteratura “disincantata”¸ ed infine pubblica, presso le edizioni del “Baretti” Ossi di seppia.

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Guido Peyron: Ritratto di Eugenio Montale

Nel 1927 si trasferisce a Firenze e a 31 anni trova il suo primo lavoro presso una casa editrice; dopo solo un anno viene nominato direttore del Gabinetto Viesseux, prestigioso punto di riferimento culturale della città; questo incarico si protrarrà fino al 1938, quando dovrà abbandonarlo per il rifiuto di prendere la tessera del Partito Fascista.

Montale a Firenze vivrà un periodo ricco di esperienze culturali: collabora a numerose riviste, conosce i più importanti intellettuali del tempo e traduce opere fondamentali della letteratura anglosassone, verso cui nutre forte interesse.

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Eugenio Montale

Nel 1932 pubblica un piccolo opuscolo, le cui poesie confluiranno in seguito nella raccolta Le occasioni, che vede la luce nel 1939. Quest’opera è dedicata ad una giovane studiosa americana Irma Brandeis, cantata come Clizia; conosce anche Drusilla Tanzi, moglie di un noto critico musicale (cantata come Mosca), con cui inizierà una convivenza.

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Carlo Levi: Ritratto di Montale

Nel 1940 scoppia la guerra: Montale è ancora senza lavoro e per sopravvivere traduce dall’inglese opere a lui non congeniali. Per i provvedimenti antisemiti Irma, d’origine ebraica, è costretta a fuggire dall’Italia: il poeta vorrebbe seguirla negli Stati Uniti, ma il progetto non si realizza anche per il legame con Drusilla. Rimane a Firenze dando ospitalità ad amici perseguitati dal regime: Umberto Saba, Carlo Levi.

Nel 1943 pubblica in Svizzera Finisterre, primo nucleo di quello che poi diventerà La bufera ed altro, uscito solo nel 1956.

A guerra finita collabora con il Corriere della sera con articoli di varia umanità, vari reportage, e di critica musicale; nel 1962 sposa Drusilla, rimasta vedova.

Dopo un anno la moglie muore: a lei dedicherà i versi di Xenia che confluiranno poi nella raccolta Satura del 1971.

Conosciuto ormai in Italia e all’estero, riceve molti riconoscimenti che culmineranno nell’assegnazione del premio Nobel nel 1975. Le sue ultime raccolte sono Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977).

Muore a Milano nel 1981.

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Ossi di seppia, edizione 1925

Ossi di seppia

Ossi di seppia, pubblicato da Piero Gobetti, comprende poesie scritte dal ’20 al ’25. Solo Meriggiare pallido e assorto è stata scritta nel ’16. Nella seconda edizione dell’opera, del ’28, sono aggiunte sei poesie.

L’opera si divide al suo interno in quattro parti: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo, Meriggi ed ombre: tale struttura fa sì che l’opera abbia un’architettura interna unitaria, e non sia solo una raccolta di poesie.

Il titolo, che allude alla conchiglia interna della seppia, cioè ad un oggetto insignificante e privo di valore, vuole da subito significare la ricerca di una poesia bassa ed antiretorica. Ciò è dimostrato anche dal fatto che la seconda sezione che dà il titolo all’opera avrebbe dovuto intitolarsi Rottami.

Egli infatti accetta, in questa prima fase, la lezione dei crepuscolari: la sua vuol essere una poesia consapevolmente dissacratoria: d’altra parte, per Montale, la finitezza dell’uomo non può produrre messaggi: soltanto la disillusione può diventare una testimonianza da condividere con gli altri.

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Installazione marina dedica a Ossi di seppia di Montale

Ma gli ossi di seppia vogliono anche voler dire, a livello tematico, una poesia mediterranea, lo sfondo duro e aspro della natura ligure, che si traduce in un altrettanta asperità linguistica.

Infatti il paesaggio montaliano si disegna sin da subito come un paesaggio che non ha nulla di lussureggiante, che anzi esso diventa l’oggetto in cui si specchia la solitudine e il dolore dell’uomo. Non si tratta, infatti, di descrivere gli oggetti, pur nella loro assoluta nudità, ma di caricarli di un significato esistenziale, dove si sente la lezione di Schopenhauer e del suo velo di Maya: le cose, nella loro essenza non sono conoscibili; se quindi non si può attingere alla verità, non ci resta che vivere in una precaria esistenza. Questo approccio filosofico in Montale si traduce appunto in immagini di oggetti, che, come dice Boutreaux nella teoria del contingentismo rappresentano la possibilità di vedere in essi ciò che va oltre il determinismo, specchiando la realtà interiore in attesa di qualcosa di salvifico; questo nonostante la nostra inautenticità, non ci toglie la volontà di una ricerca di senso, di un miracolo che possa mostrare un barlume di verità, che lascia l’uomo sì desolato, ma in attesa.

Le ultime poesie della raccolta, quelle posteriori al ’25, mostrano una figura femminile, Arletta, che apre verso una nuova solidarietà verso gli uomini. Queste poesie costituiscono il preludio della seconda raccolta montaliana: Le Occasioni.

La poesia d’apertura, dopo un’introduzione poetica In limine è I limoni:
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Natura morta con limoni

I LIMONI

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
 
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
 
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
 
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
 
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
 

I limoni, poesia scritta tra il 1921 ed il 1922, si offre alla prima lettura come una poesia programmatica. Già l’incipit denota quello che criticamente è stato definito come “un attraversamento dannunziano”: infatti il poeta sembra riprendere moduli del poeta pescarese per capovolgerli (richiami ci sono nella presenza femminile muta a cui il poeta si rivolge Ascoltami, vedi): la sua natura non è lussureggiante, “alcionia”; piuttosto la semplicità dei limoni. Sempre nella prima strofa troviamo inoltre la presenza di una natura riarsa, rappresentata dall’anguilla nelle pozzanghere rinsecchite. Vi è già un’attenzione verso la parola, non ungarettianamente capace di toccare l’assoluto, ma precisa, come in Pascoli, a rilevare la loro essenzialità: basti pensare ai limoni e alla loro gialla solarità.

Nella terza e quarta strofa appare quella che è stata definita una “religiosità laica”, cioè la volontà dell’uomo di scoprire un mistero, di svelare una verità. Tuttavia tale ricerca sarà un illusione; cade del tutto l’ipotesi scientista secondo cui si può raggiungere “la verità”.

Nell’ultima strofa rinasce l’illusione, che se non può garantire lo svelamento del mistero, può tuttavia riproporne l’illusione.

 
Altra poesia programmatica può considerarsi Non chiederci la parola, che viene scritta ad un anno di distanza, nel 1923:
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Progetto Muri di poesia, Leden, Olanda

NON CHIEDERCI LA PAROLA

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
 
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
 
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
 

Come ne I limoni esiste un ascoltatore, al quale il poeta rivolge l’invito di non chiedere o pretendere dalla poesia la verità. Tale tematica può facilmente ricollegarsi alla poesia crepuscolare e, andando ancora più indietro negli anni, alla Scapigliatura: si tratta infatti del tema del ruolo della poesia nella società contemporanea. Si noti come anche qui torni la parola che rimanda ad un effetto coloristico, un colore intenso in mezzo al grigio della polvere, immaginazione di verità che il poeta non può dare.

La quartina centrale sembra collegare le due strofe: vi è qui la polemica contro il conformista, l’uomo sicuro di sé, indifferente alla sua ombra schiacciata nel muro dall’implacabile sole.

L’ultima strofa riprende la prima, reiterando ancora la richiesta di una risposta risolutiva: ma Montale può offrire Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, riaffermando l’impossibilità non soltanto del dire, ma anche dell’esserci. E’ evidente la polemica con la poesia roboante dannunziana (come ne I limoni), ma vi si può scorgere anche la distanza che divide la poetica del poeta ligure da quella di Ungaretti, che offriva invece alla parola un ruolo sacrale ed assoluto. 

Altra poesia fortemente significativa della raccolta è Meriggiare pallido e assorto:

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MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
 
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.
 
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
 
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.
 

Poesia del 1916, scritta, appunto quando Montale aveva appena vent’anni. Si può dividere in due parti: nelle prime tre strofe c’è la descrizione di un arido paesaggio marino ligure colto nell’ora della massima canicola.

Il tempo fa l’azione “meriggia”, mandando calore; l’uomo ascolta la natura che risponde all’infuocato sole, spia i movimenti di insetti, osserva le conchiglie e ascolta, di nuovo, quasi a chiudere circolarmente le sue azioni, (il canto delle cicale diventa un tremulo cricchio dove l’allitterazione in erre sembra trasformare il canto in un suono aspro).

Nell’ultima strofa si coglie invece il dato esistenziale; per meglio dire la natura arida paesaggistica montaliana, si trasforma in un identico stato d’animo. Ma bisogna fare attenzione non è la vita desolata ad essere simboleggiata dall’oggetto, ma sembra che in Montale sia l’oggetto a simboleggiare la vita: le nostre esistenze frastagliate e doloranti sono appunto simbolo di pezzi di bottiglia che non hanno permesso di superare il muricciolo dove forse, dall’altra parte, c’è quella verità di cui è già in cerca.

Anche in questo testo vi è l’attraversamento dannunziano, proprio in una lirica dal titolo Meriggio. Com’è lì l’ora calda di un pomeriggio estivo rappresentava il momento estremo della comunione panica tra l’uomo e la natura “E sento che il mio vólto / s’indora dell’oro / meridiano, / e che la mia bionda / barba riluce / come la paglia marina” qui, la stessa aggettivazione lo rovescia “l’oro meridiano” si trasforma in “pallido e assorto”, negando ogni forma di lucentezza.

Il correlativo oggettivo montaliano è espresso con maggior forza espressiva in un’altra celeberrima poesia:

 
SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO

Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
 
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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Girolamo Peralta: La statua della sonnolenza (2008)

Tale poesia può costituire l’esempio di quello che per Montale rappresenta l’oggettivazione (poesia degli oggetti, correlativo oggettivo) che verrà approfondita e ampliata nella raccolta successiva Le occasioni. Infatti “il male di vivere”, non è una sensazione, ma è “qualcosa” che sta fuori di noi, visto che si può incontrare. Questo qualcosa si materializza in oggetti (l’acqua in una strozzatura, una foglia, il cavallo). Non è senza significato il riferimento al rivo strozzato dantesco, Fitti nel limo dicon: Tristi fummo ne l’aere dolce che dal sol s’allegra, portando dentro accidïoso fummo: or ci attristiam ne la belletta negra”. Quest’inno si gorgoglian ne la strozza, ché dir nol posson con parola integra. E’ il canto degli accidiosi quelli che vivono senza la forza di vivere: è il caso della modernità: anche la poesia non riesce ad elevarsi, strozzata nel fango dell’esistere.

Sopra gli oggetti l’indifferente divinità, il cui “miracolo” è lontano, estraneo all’uomo: anche questa lontananza viene oggettivata (la statua, la nuvola, il falco), per dire solo l’Indifferenza può liberare l’uomo dalla contingenza di un dolore non risolvibile, se non nello sguardo del miracolo a cui l’uomo non può tendere.

Un altro tema presente ne Ossi di seppia e quello del ricordo: 

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CIGOLA LA CARRUGOLA NEL POZZO
 
Cigola la carrucola del pozzo,
l’acqua sale alla luce e vi si fonde.
Trema un ricordo nel ricolmo secchio,
nel puro cerchio un’immagine ride.
Accosto il volto a evanescenti labbri:
si deforma il passato, si fa vecchio,
appartiene ad un altro…
Ah che già stride
la ruota, ti ridona all’atro fondo,
visione, una distanza ci divide.

Stride la carrucola del pozzo, mentre l’acqua portata in superficie dal secchio sembra fondersi con la luce che la colpisce. Su di essa affiora un ricordo, si delinea l’immagine tremula e sorridente di una persona amata. Quando il poeta accosta il volto a quelle labbra femminili che crede di vedere, muove la superficie dell’acqua e fa svanire l’immagine; il cigolio della carrucola riconduce la visione al fondo oscuro del pozzo. La parafrasi del testo sembra dirci quanto sia illusoria l’idea che la memoria possa stabilire un contatto con l’altro, fosse anche un ricordo. Tutto è effimero non riusciamo a trattenere nella memoria neppure i volti amati e gli istanti di gioia: essi sono solo un barlume, un’illusione che si spegne, rifluendo nella profondità dell’inconscio.

Anche in questa poesia il concetto dell’irrecuperabilità del ricordo è espresso dal poeta attraverso immagini concrete: l’immagine del volto nell’acqua e il suo sparire, rimandano allo stato esistenziale di disinganno.

Il testo si divide in due parti, l’endecasillabo nel verso 5 divide la lirica in due parti e segna il momento dello “scacco”, in quanto contrappone al volto che si avvicina con le labbra che svaniscono.

La circolarità della lirica è scandita dal movimento di risalita (Cigola la carrucola) e di ricaduta (Ah che già stride), corrispondente a illusione e delusione.

 11 DE PISIS - Venezia Marina, 1930, olio su cartone, 50x70 cm, Collezione Piero Zanetti.jpg

Filippo De Pisis: Le occasioni

Le occasioni

La seconda raccolta poetica Le occasioni, che comprende poesie scritte dal ’28 al ’39, viene scritta nel momento della maturità poetica e nasce forse nel periodo più difficile, storicamente parlando, che Montale deve affrontare.

L’opera ha una struttura unitaria: è divisa in quattro sezioni, di cui soltanto una ha un titolo, Mottetti e presenta delle significative novità rispetto ad Ossi di seppia, e tali novità riguardano:

  1. Un allargamento della prospettiva geografica che va oltre il paesaggio ligure;
  2. La presenza della figura femminile che recupera il concetto di donna-angelo stilnovista;
  3. L’uso consapevole del “correlativo oggettivo”.

Partiamo dal primo aspetto: se in Ossi di seppia è presente il paesaggio mediterraneo con il suo sole, con la natura a “rappresentare” la possibilità del varco, in questa raccolta il paesaggio si fa cittadino (Montale vive in questo periodo a Firenze); da qui le contrapposizioni spaziali cambiano tra un dentro e un fuori, gli oggetti non sono più rintracciabili in una spiaggia, in una via, ma all’interno di stanze. Cambia inoltre la percezione psichica, l’interno come protezione, ma l’esterno anche come fuga verso l’altro.

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Monterosso, dove si trova la casa dei dognanieri

L’altra componente essenziale è la figura femminile: tra cui ricordiamo Arletta, presenza/assenza, de La casa dei doganieri, Dora Markus, donna ebrea, nell’incombere del nazismo, e soprattutto Clizia, Irma Brandeis, forse donna amata dal poeta, costretta a fuggire in quanto ebrea, appassionata di Dante; in lei forse si vivifica quella capacità di trasportare il poeta in quell’altrove, che lo conduca oltre la caducità dell’essere. Per questo la condizione psicologica del poeta assume nuove valenze, che si traducono in una percezione di disfacimento (cominciano a sentirsi le eco della guerra), ma nel contempo, nella possibilità, attraverso la donna, di darle una parvenza di senso.

In questa raccolta Montale usa un linguaggio più “alto” rispetto a quello degli Ossi di seppia, una lingua che tuttavia non vuole, come in Ungaretti, svelare l’assoluto attraverso la parola, ma che tende invece ad elevarsi per isolarsi, isolamento necessario contro la barbarie della storia, ma anche per capire meglio, “distanziandosi”, la condizione esistenziale dell’uomo. Importante per la comprensione di tale poetica è la lettura che Montale fa dell’opera di Eliot. Ambedue i poeti fanno uso del “correlativo oggettivo”: ma se nella raccolta precedente, ad esempio nella lirica Spesso il male di vivere ho incontrato, si usa l’oggetto per significare qualcosa, come fosse una similitudine senza il come (ricordiamo simmetrica), qui non appare il motivo da cui si genera l’oggetto; si parla infatti di occasione-spinta, cioè non ci viene più espresso il motivo da cui si origina l’immagine.

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Le gambe di Dora

DORA MARKUS
I
Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all’altra sponda
invisibile la tua patria vera.
Poi seguimmo il canale fino alla darsena
della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.

E qui dove un’antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d’Oriente,
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.

La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare.
E i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in quel lago
d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d’avorio; e così esisti!

II
Ormai nella tua Carinzia
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl’irti
pinnacoli le accensioni
del vespro e nell’acque un avvampo
di tende da scali e pensioni.

La sera che si protende
sull’umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d’oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa una storia di errori
imperturbati e la incide
dove la spugna non giunge.

La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere e deboli in grandi
ritratti d’oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l’armonica guasta nell’ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro per la cucina
resiste, la voce non muta,
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino.
Ma è tardi, sempre più tardi.

Dora Markus è una delle poesie più importanti di Eugenio Montale, in quanto in essa troviamo i principali temi della nuova raccolta. Ma il suo fascino sta nella distanza di tempo in cui le sue due parti sono state composte: la prima risale al 1926 e ci mostra Dora, un’austriaca presentatagli da Bobi Bazlen (intellettuale triestino, critco letterario ed editore che gli fece conoscere l’opera di Svevo) da una prospettiva esistenziale. Montale ne traccia il ritratto di donna inquieta, esule non solo dalla propria terra ma anche dalla propria vita, il cui cuore è un lago di indifferenza e che sembra affidare la propria salvezza all’immagine incantatoria di un portafortuna, quel topolino d’avorio celato nella trousse dei trucchi.

La storia aleggia sullo sfondo, come un’ombra, in questo periodo di relativa calma tra le due guerre mondiali, ma non è che un presagio, un presentimento insito nei turbamenti del vivere, nei silenzi di Dora, affacciata alla spalletta di quel ponte di Ravenna; è in quella primavera inerte, senza memoria grigia e soffocata nella periferia di ciminiere e di fumo.

Passano tredici anni, sull’Europa soffia ormai il vento di un’altra primavera, quella hitleriana. Montale dà una conclusione, se non un centro alla poesia. La prospettiva ora è mutata: Dora Markus è soltanto un ricordo, appare in questi inspiegabili disguidi della memoria, è la storia a prendere il sopravvento sulle esistenze; l’inquietudine è per quella bufera che si agita nell’aria del 1939: presto la Germania nazista invaderà la Polonia e un’apocalisse si abbatterà sul mondo intero. La sera che si protende sembra indicare proprio l’imminenza della guerra e il palpito dei motori è quello degli aerei, dei carri armati pronti a fare fuoco. Dora deve fare i conti con il suo passato, con le scelte sbagliate che non si possono ormai più cancellare, con gli smacchi del vivere. E deve fare i conti con il presente, che ha portato dalle glorie asburgiche degli antenati al nazismo, a quella fede feroce. Se nella prima parte la storia era un’ombra grigia sullo sfondo, qui è un immanente colorato di bandiere rosse con la svastica – l’anno prima l’Anschluss aveva unito l’Austria alla Germania: Dora si trova ancora una volta in una sorta di esilio. E già suonano le sirene, crepitano i fucili, si prepara l’orrore dei lager: Ma è tardi, sempre più tardi.

Ancora sulla memoria leggiamo due celebri poesie: La casa dei doganieri e Non recidere forbice quel volto. 
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Girolamo Peralta: La  casa dei doganieri (2013)

LA CASA DEI DOGANIERI
 
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
 
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
 
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende…)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta. 

E’ questa una poesia sulla memoria: l’ambiente (la casa sulla scogliera) rappresenta il “correlativo oggettivo” del rapporto che il poeta stabilisce tra il suo presente ed il suo passato. Il vento che sbatte sui muri, la banderuola che gira impazzita, i dadi il cui conto non torna più sono emblemi di una vita che trascorre incessantemente e senza senso. Ma la casa (che realmente è sul territorio di Monterosso, posta a confine tra l’Italia e la Francia) è anche, in quanto limes, quello stesso che divide la vita e la morte, cui la donna fa da segnale (è lontana, appartiene alla memoria); allora la lirica viene ad assumere anche la valenza di meditazione sulla vita e del suo nascere e morire. Ma di ciò Montale intuisce che non è possibile penetrarne il mistero, ottenere un senso.
Per questo la donna, presente nella memoria, quindi viva nel pensiero dell’autore, gli indica l’illusione il varco è qui?, cui fa da riscontro la sua vacuità, con la negazione di ogni certezza non so chi va e chi resta. La donna è, pertanto, la figura femminile che, come nello stilnovo, richiama ad una possibilità: ma Montale sceglie, fra gli amori stilnovisti, il più etereo: l’amore di lontano, quasi ad allontanare, pur indicandolo essa, ma da un punto imprecisato della mente, il raggiungimento della verità.
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Angelica Pinnella

NON RECIDERE FORBICE QUEL VOLTO

Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre.
 
Un freddo cala… Duro il colpo svetta.
E l’acacia ferita da sé scrolla
il guscio di cicala
nella prima belletta di Novembre

Il non recidere dell’inizio può essere inteso come una preghiera al tempo (le forbici) di non cancellare le immagini delle persone care al poeta che non ci sono più. Ma l’ultima frase della prima strofa sembra negare tale possibilità (la mia nebbia di sempre).
La seconda strofa è il “correlativo oggettivo”, che sembra non avere rapporto con il dettato della prima strofa se non nel primo emistichio del primo verso (un freddo cala): il freddo può assumere, infatti, una doppia valenza: psichica, il vuoto della mente dopo il suo sfollarsi, ma anche come aggettivo della lama che spezza il ramo: ed il volto è come il guscio della cicala nel fango di novembre.

La donna angelo, che qui abbiamo visto nelle varie sfumature con cui Montale descrive il esserci stato, diventa elemento pregnante nella figura di Irma Brandeis, cantata con il nome di Clizia (riprende la tecnica provenzale del senhal), il cui significato rimanda alla luce (nella mitologia greca una ninfa innamorata del sole).

Essa ci appare nei Mottetti, sezione di brevi liriche all’interno dell’opera:
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Installazione di Cosentino

LO SAI: DEBBO RIPERDERTI E NON POSSO
 
Lo sai: debbo riperderti e non posso.
Come un tiro aggiustato mi sommuove
ogni opera, ogni grido e anche lo spiro
salino che straripa
dai moli e fa l’oscura primavera
di Sottoripa.
 
Paese di ferrame e alberature
a selva nella polvere del vespro.
Un ronzìo lungo viene dall’aperto,
strazia com’unghia ai vetri. Cerco il segno
smarrito, il pegno solo ch’ebbi in grazia
da te.
           E l’inferno è certo.
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Irma Brandeis: la Clizia montaliana

Poesia del 1934.
Prima strofa: la sua Clizia sta per allontanarsi. Ogni gesto che compie lo colpisce, con inesorabilità, come lo colpiscono le grida, l’odore di sale e la caligine che rende scura la primavera (oscura primavera: splendido ossimoro).
Seconda strofa: la città di ferro con le ciminiere; suono aspro dall’esterno (unghia sui vetri, correlativo oggettivo). La donna è stata portatrice di segni, di valenze significative. Il suo allontanamento costituisce per il poeta l’inferno del vivere.
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Maria Luisa Spaziani

TI LIBERO LA FRONTE DAI GHIACCIOLI

Ti libero la fronte dai ghiaccioli
che raccogliesti traversando l’alte
nebulose; hai le penne lacerate
dai cicloni, ti desti a soprassalti.
Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo
l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole
freddoloso; e l’altre ombre che scantonano
nel vicolo non sanno che sei qui.
 

Poesia del 1939
Sono passati cinque anni: la Clizia se n’è andata per sempre; la storia si fa inferno (la Germania hitleriana invade la Polonia).
Ecco che la donna-angelo ripresentarsi a lui, dall’iperuranio, l’estremità del cielo, la cui provenienza è raffigurata dai ghiaccioli. Le sue ali sono lacerate per avere passato tempeste e bufere, il suo singulto è figlio dello scombussolamento della storia.

Mezzogiorno, lei s’affaccia, rende il sole freddoloso: la gente non sa che è venuta a lui per “consolarlo” del dolore. Ma il suo ritorno non promette un viaggio al poeta, non porterà il suo pensiero oltre la spera che più larga gira, come Beatrice aveva potuto offrire a Dante, in quanto il suo viaggio è discensionale. La stessa Irma, lacerata, proietta un’ombra nera, senza speranza. Fuori, l’indifferenza della gente, che non sa che si sta preparando un altro inferno.

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Prima edizione de La bufera

La bufera e altro (1956)

Questa terza raccolta comprende poesie composte tra il ’40 e il ’54, cioè tra l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e il primo dopoguerra. Sono questi anni cruciali per il poeta, la morte della sorella e della madre lo turbano profondamente, così come il definitivo allontanamento di Irma Brandeis; ma c’è anche la tragedia della guerra, così come la falsa illusorietà del difficile dopoguerra. La poesia di Montale, quindi, entra a contatto con la storia, per meglio dire, istituisce un rapporto problematico fra l’io e la storia.

Da qui il titolo: infatti se La bufera può alludere certamente al periodo storico, dai totalitarismi alla guerra, non può non riferirsi anche al dramma umano del poeta, che vive accadimenti privati in questo turbinio pubblico.

L’opera si articola in sette sezioni:

  • Finisterre: le liriche appartenenti a questa sezione riprendono temi e stile de Le occasioni. Un riferimento al periodo storico è certamente la lirica La bufera che ha come epigrafe un verso di un poeta francese del ’600: “I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie: le loro mani non servono che a perseguitarci”;
  • Dopo: viene qui introdotto il personaggio di Mosca (Drusilla Tanzi)
  • Intermezzo: sezione prosastica in cui viene sottolineato il decadimento del presente:
  • Flashes e dediche: sezione centrale in cui appaiono varie donne, fra cui la poetessa Maria Luisa Spaziani. Esse appaiono come piccole ancore di salvezza, almeno sul piano individuale;
  • Silvae: è una sezione in cui si raccolgono poesie di varia ispirazione (da qui il titolo);
  • Madrigali privati: poesie dedicate alla poetessa Maria Luisa Spaziani;
  • Piccolo testamento: sezione in cui si sancisce l’estraneità del poeta con la contemporaneità.

 

Il fascismo e la guerra sono i punti di riferimento che si stagliano sullo sfondo del discorso poetico: rappresentano il caos, il disordine; ma ad esso si contrappone la volontà di capire, di trovare un senso: sono le donne che rendono possibile tale eventualità. Infatti come donne-angelo esse appaiono le sole capaci di offrire un significato rispetto alla storia. Esse sembrano assumere su di loro, come Cristo, tutto il dolore della storia. Questa fortissima tensione etica si scioglie dopo la guerra, ma appare la forte contrarietà verso il mondo contemporaneo.

Ne La bufera appare anche il tema della morte: d’altra parte la guerra e i lutti familiari non potevano eludere un tema che era già apparso nelle raccolte precedenti. Vi è qui un recupero di Pascoli: i morti, in questo assurdo presente, sono più vivi dei vivi, e ci stimolano verso un altissimo impegno di vita.

Dalla prima sezione Finisterre prendiamo la poesia che dà il titolo all’intera raccolta:

LA BUFERA

La bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi tuoni
marzolini e la grandine,
 
(i suoni di cristallo nel tuo nido
notturno ti sorprendono, dell’oro
che s’è spento sui mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
 
il lampo che candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità d’istante – marmo manna
e distruzione – ch’entro te scolpita
porti per tua condanna e che ti lega
più che l’amore a me, strana sorella, –
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e sopra
qualche gesto che annaspa…
Come quando
ti rivolgesti e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
 
mi salutasti – per entrar nel buio.

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Sergio Vacchi: Ritratto di Montale

C’è ancora lei, la Clizia delle Occasioni, in questo testo del ’41. La guerra imperversa, lo sconvolgimento della natura irrompono violentemente nell’esterno e nell’interno. La donna dormiente viene colta all’improvviso, dall’irrompere della storia. Ella se ne fa carico, come una condanna a salvare l’uomo, novello Cristo per la redenzione dei peccati. Ma il suo gesto non è sufficiente. Cristo è morto, ma il dolore nel mondo non è cessato.

La poesia non ha proposizioni principali, ma solo relative: quasi a significare l’impossibilità di descrivere la guerra in modo razionale. Nella prima parte c’è la pura descrizione della guerra, metaforizzata con la bufera; s’apre poi una parentesi in cui ci viene presentato il nido di Clizia, anch’esso immerso nel caos bellico; sembra sparire ogni luce, ma solo lei è ancora capace di conservare, seppure minimale, barlume di luce. Si passa poi alla terza strofa, la più difficile: ancora la guerra metaforizzata con un lampo, e descritta con tre parole dalla forte carica ambivalente, a sottolineare il disorientamento del poeta. In questa negazione di qualsiasi dignità di vita anche l’illusione della donna salvifica viene a mancare: dopo il ciao Clizia entra nel buio, se ne va, per sempre in America.

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Fotografie di Montale

PICCOLO TESTAMENTO

Questo che a notte baluginanella
calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.
Solo quest’iride posso
lasciarti a testimonianza
d’una fede che fu combattuta,
d’una speranza che bruciò più lenta
di un duro ceppo nel focolare.
Conservane la cipria nello specchietto
quando spenta ogni lampada
la sardana si farà infernale
e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del Tamigi, dell’Hudson, della Senna
scuotendo l’ali di bitume semi-
mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora.
Non è un’eredità, un portafortuna
che può reggere all’urto dei monsoni
sul fil di ragno della memoria,
ma una storia non dura che nella cenere
e persistenza è solo l’estinzione.
Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato
non può fallire nel ritrovarti.
Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio
non era fuga, l’umiltà non era
vile, il tenue bagliore strofinato
laggiù non era quello di un fiammifero.

Dopo aver descritto la guerra in termini allusivi (è difficile se non impossibile descrivere il caos rovinoso), nell’ultima sezione de La bufera e altro, Montale prende posizione contro i falsi miti postbellici. Il periodo storico-culturale in cui questo testo vede la luce è assai complesso: il perdurare della guerra nel sud-est asiatico, la problematica contrapposizione tra l’America e l’URSS, il pericolo nucleare, rendevano il clima politico assai arroventato; a ciò si accompagna quasi un diktat, per gli intellettuali, di prendere posizione, soprattutto da parte del Partito Comunista (famosa la polemica Vittorini – Togliatti); è il periodo del neorealismo. Montale qui, alle accuse rivoltegli di non prendere posizione, risponde con orgoglio sull’onestà del suo operato e sulla necessità, da parte degli intellettuali di “estraniarsi” dai “falsi miti”, per conservare la piena dignità con cui testimoniare la fragilità “innata” e quindi “astorica” della fragilità umana. Tale testimonianza è possibile proprio a partire da quel barlume, quella piccola luce, di cui Clizia è stata portatrice, sola ad illuminare il difficile cammino dell’uomo. Piccolo testamento sembra preludere, stilisticamente e contenutisticamente, all’ultima produzione montaliana.

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Montale al tempo di Satura

Satura (1971)

Questa raccolta inaugura un nuovo modo di poetare di Montale: già il titolo richiama al genere in auge nella poesia latina, ed indica la presenza di vari argomenti, in cui predomina il gusto per la critica dei vizi della società contemporanea. L’opera appare divisa in quattro parti: Xenia I e II Satura I e II: i primi si strutturano come piccoli doni a Mosca; gli altri si scagliano contro la società massificata e omologata.

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Montale con la moglie Drusilla

HO SCESO, DANDOTI IL BRACCIO…

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.
 
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
 

Un vero e proprio Xenion questo che Montale dedica alla moglie morta. Mosca, così chiama Drusilla Tanzi, è lontana dalla bellezza eterea, angelica, di Clizia: le ali, sebbene spezzate di Irma Brandeis la collocavano ancora sulla scia della grande poesia dantesca e petrarchesca: qui il richiamo sembra più all’apprezzato Saba, che coglie della donna l’aspetto più umile.

Mosca tuttavia, nel suo essere dimesso, di umile ha avuto ben poco: lei è stata la vera guida di quest’uomo che non sapeva cogliere la difficoltà dell’esistere, quella che gli ha permesso di scendere le scale senza difficoltà, quella a cui lui s’appoggiava. E’ perché lei, nella sua miopia, non aveva bisogno di guardare le cose, le vedeva oltre, capiva le loro vera essenza e sapeva quindi offrire un cammino sicuro a questo poeta che ora, solo, s’appresta a percorrere l’ultimo tratto della vita

 

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Pablo Echaurren: La storia

LA STORIA
I
La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra
carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
 
II 
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
 
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
 

In questo testo Montale demistifica la storia come mito borghese e assoluto. Lo fa attraverso una parte destruens e una parte costruens. Attraverso l’anafora de “La storia non è”, egli afferma l’estraneità della “storia” dall’agire umano (non è di chi la pensa e di chi l’ignora) e, soprattutto non è maestra di niente. La parte costruens della storia è definita per antifrasi: è solo nella sua casualità (rete a strascico con qualche strappo). Importanti gli ultimi versi: chi scampa dalla storia, fuori dai pregiudizi è costretto all’incomprensione; solo chi vi è dentro, con tutti i modelli ideologici imposti, si crede libero e non lo è.

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Gabrielli Donelli: Ritratto di Montale

Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977)

Il nuovo corso poetico montaliano prosegue con queste due ultime raccolte. Già i titoli mostrano che il poeta vuole adottare uno stile “diaristico”, in linea con l’abbassamento stilistico e tematico inaugurato da Satura; in queste raccolte a volte si utilizza parodisticamente il linguaggio dei mass-media, altre volte si tratta di poesie brevissime, dal taglio lapidario. Si accentua qui il distacco del poeta contro il conformismo dilagante, riaffermando la propria autonomia, rispetto ai falsi miti (si ricorda qui, per inciso, come siano questi gli anni che vanno dalla contestazione studentesca sino al terrorismo).

AL MARE (O QUASI)
 
L’ultima cicala stride
sulla scorza gialla dell’eucalipto
i bambini raccolgono pinòli
indispensabili per la galantina
un cane alano urla dall’inferriata
di una villa ormai disabitata
le ville furono costruite dai padri
ma i figli non le hanno volute
ci sarebbe spazio per centomila terremotati
di qui non si vede nemmeno la proda
se può chiamarsi cosí quell’ottanta per cento
ceduta in uso ai bagnini
e sarebbe eccessivo pretendervi
una pace alcionica
il mare è d’altronde infestato
mentre i rifiuti in totale
formano ondulate collinette plastiche
esaurite le siepi hanno avuto lo sfratto
i deliziosi figli della ruggine
gli scriccioli o reatini come spesso
li citano i poeti. E c’è anche qualche boccio
di magnolia l’etichetta di un pediatra
ma qui i bambini volano in bicicletta
e non hanno bisogno delle sue cure
Chi vuole respirare a grandi zaffate
la musa del nostro tempo la precarietà
può passare di qui senza affrettarsi
è il colpo secco quello che fa orrore
non già l’evanescenza il dolce afflato del nulla
Hic manebimus se vi piace non proprio
ottimamente ma il meglio sarebbe troppo simile
alla morte ( e questa piace solo ai giovani)
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La natura contro il consumismo

 

DECIMO GIUNIO GIOVENALE

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Il giovane Giovenale

Di Decimo Giunio Giovenale conosciamo poco. Laziale di Aquino, nasce tra il 50 e il 60. Amico di Marziale, sembra condividi con lui la condizione sociale. Lo stesso amico poeta lo annovera tra i clientes. Sembra abbia scritto le sue opere non più giovane, infatti alcuni riferimenti interni ci fanno pensare alla prima età del principato adottivo. Nessun riferimento nella sua opera ad avvenimenti seguenti il 127, data dopo la quale va certamente posta la sua morte.

Egli è l’ultimo rappresentante del genere satirico che aveva visto in Lucilio, Orazio e Persio degni antecedenti. Ma lui lo reinterpreterà alla luce della sua età, in cui non vi era certamente libertà di parola accentuando la critica verso vizi generici che sono, dopo l’autore del periodo neroniano e gli epigrammi di Marziale, quasi diventato topoi letterari.

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Manoscritto

Satire
Le satire di Giovenale sono sedici, divise in cinque libri:

  • dalla I alla V
  • VI
  • dalla VII alla IX
  • dalla X alla XII
  • dalla XIII alla XVI

Non sappiamo se tale divisione sia originale o sia frutto di grammatici posteriori, che, nel VI secolo d.C. curarono il testo di Giovenale.
Al di là della divisione, non è possibile individuare un tema per ciascun libro. Ma è bene partire dalle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere Satire:
Nella prima, dopo aver criticato i declamatores, giustifica il suo essere autore di satire:

E’ SEMPRE LA SOLITA SOLFA
(1, 1-14)

Semper ego auditor tantum? Numquamne reponam
vexatus totiens rauci Theseide Cordi?
Inpune ergo mihi recitaverit ille togatas,
hic elegos? Inpune diem consumpserit ingens
Telephus aut summi plena iam margine libri
scriptus et in tergo necdum finitus Orestes?
Nota magis nulli domus est sua quam mihi lucus
Martis et Aeoliis vicinum rupibus antrum
Vulcani; quid agant venti, quas torqueat umbras
Aeacus, unde alius furtivae devehat aurum
pelliculae, quantas iaculetur Monychus ornos,
Frontonis platani convolsaque marmora clamant
semper et adsiduo ruptae lectore columnae.
Expectes eadem a summo minimoque poëta.

Succube sarò sempre ad ascoltare? Mai replicherò / vessato tutto il tempo dalla Teseide del rauco Cordo? / Impunemente quello potrà recitare queste / togate e queste elegie? Impunemente avrà consumato il giorno / un Telefo che mai finisce e un non ancora concluso Oreste scritto fino / ai margini del ponderoso libro, anche sul retro? / A nessuno più è nota la sua casa che a me il bosco / di Marte e l’antro vicino alle rupi Eolie / di Vulcano; che cosa facciano i venti, quali ombre torturi / Eaco, da dove furtivamente un altro abbia strappato l’oro / del Vello, Monico che scaglia così tanti frassini, / i platani e marmi rovinati di Frontone urlano / sempre e le colonne rotte dall’assiduo lettore. / Aspetti le stesse cose da un grande o da un infimo poeta.

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Altra immagine di Giovenale

Qui Giovenale, sembra riprendere un topos della poesia satirica, che risale sin da Orazio, il rifiuto della poesia alta; nel poeta augusteo tale rifiuto viene risolto con l’excusatio; lo stesso Persio nel suo Coliambo aveva parlato del rifiuto da parte sua di “abbeverarsi” alla fonte del Parnaso; qui è la sua inutilità, da un punto di vista morale, a venir sottolineata; in Giovenale invece a prevalere è l’indignatio, come ci dice nel verso 79: Si natura negat, facit indignatio versum (se manca la natura, l’indignazione fa la poesia)

E’ DIFFICILE NON SCRIVERE SATIRE
(1, 23 -30)

Cum tener uxorem ducat spado, Mevia Tuscum
figat aprum et nuda teneat venabula mamma,
patricios omnis opibus cum provocet unus
quo tondente gravis iuveni mihi barba sonabat,
cum pars Niliacae plebis, cum verna Canopi
Crispinus Tyrias umero revocante lacernas
ventilet aestivum digitis sudantibus aurum
nec sufferre queat maioris pondera gemmae,
difficile est saturam non scrivere.

Quando un effeminato eunuco prende moglie, Mevia un Toscano / cinghiale conficca e con la mammella nuda tiene lo spiedo da caccia, / quando tutti i patrizi sfida in ricchezza uno / con il cui taglio molesto, la barba faceva risuonare a me giovane, / quando una parte della plebe del Nilo, la canaglia di Canopi / Crispino, sulla spalla richiamante il mantello di Tiro (di porpora) / ventilava un gioiello d’oro estivo sulle dita sudate / né poteva sopportare il peso di una gemma più grande, / è difficile non scrivere satira.

L’indignatio di Giovenale nasce dall’esigenza di descrivere il reale così com’è, che a lui sembra permanere anche nel nuovo clima politico dell’impero di Traiano; ma il reale descritto da lui, punta soprattutto il dito verso “una” realtà, a suo parere la più sordida e “malsana”, più che sulla totalità della realtà: altrimenti non riusciremo a capire come, per Plinio il Giovane, tale realtà sia descritta in modo favorevole e positivo, “rinnovata” grazie al nuovo clima culturale basato sulla “libertas”. Ci si potrà soffermare sulle differenze sociali tra la nobilitas di Plinio e il cliens di Giovenale: ma se mai volessimo trovare in lui un difetto è che il suo essere “inferiore” viene additato come se la colpa fosse dei nuovi mores introdotti da tempo immemorabile. Per questo, tuttavia, per non esser colpito dagli strali di chi si sente colpito, rivolgerà lo sguardo nel passato, individuando in esso le “storture” del presente.

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Giovenale riceve la maschera della poesia satirica e l’alloro poetico

La seconda satira si scaglia contro chi nasconde il vizio dietro un’apparente virtù, come per gli omosessuali.  Più riuscita la terza nella quale, colta l’occasione del desiderio espresso dall’amico Umbricio di voler lasciare Roma, si lascia andare ad uno sfogo verso la città, ormai che di Romano ha nulla:

DOVE SONO FINITI I ROMANI?
(III, 60 – 72)

(…) Non possum ferre, Quiriti,
Graecam urbem. Quamvis, Achaei quota portio faecis?
Iam pridem Syrus in Tiberim defluxit Orontes
et linguam et mores et cum tibicine chordas
obliquas nec non gentilia tympana secum
vexit et ad circum iussas prostare puellas.
Ite, quibus grata est picta lupa barbara mitra.
Rusticus ille tuus sumit trechedipna, Quirite,
et ceromatico fert niceteria collo.
Hic alta Sicyone, ast hic Amydone relicta,
hic Andro, ille Samo, hic Trallibus aut Alabandis,
Esquilias dictumque petunt a vimine collem,
viscera magnarum domuum dominique futuri.
 

Non posso sopportare, o Quiriti, / una città greca. Sebbene, gli Achei quanta proporzione della feccia siano? / Ormai da tempo l’Oronte siro si getta nel Tevere / e ha trascinato la lingua, le abitudini, le corde oblique (dell’arpa) / con il flautista e i timpani gentili con sé / e le fanciulle costrette a prostituirsi vicino al circo. / Andate, (voi) ai quali è gradita la lupa (puttana) con un barbaro mantello dipinto. / Quel tuo figlio contadino indossa i sandali, o Quirita, / e porta distintivi di vittoria sul collo spalmato di cera. / Questo dall’alta Sicione, poi questo dall’abbandonata Amidone, / questo da Andro, quello da Samo, questo da Trallibo o Alabanda, / e si dirigono verso l’ Esquilino e il colle chiamato dal vimini, / viscere di grandi case e futuri padroni.

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Roma, saeva urbs (satira III)

Anche in tale piccolo frammento di questa satira sembra che il malessere del poeta e della stessa città vada attribuito all’orientalizzazione avvenuta sin dai tempi degli Scipioni; tale impressione è rafforzata dalla lettura dell’intera satira che si può dire abbia una frattura all’interno di essa: dapprima la descrizione della città come sentina di vizi e malaffare determinato dalla presenza di questi graeculi, la cui presenza esaspera la ricchezza individuale e la presenza delle puttane da loro gestite; dall’altra elogio della campagna e dei piccoli piaceri, dove ancora resiste il mos maiorum; nella quarta satira il soggetto è fortemente sarcastico: si parla di un consilium principis convocato per decidere come preparare un rombo, e nell’ultima satira del I libro, l’accusa della differenza tra un ricco e povero nella scena di un banchetto in cui sono inserite ambedue le figure.

Come precedentemente detto il II libro è interamente occupato dalla VI satira (la più lunga della letteratura latina (661 versi): essa si presenta come una vera e propria requisitoria contro la figura femminile. L’occasione gli è fornita dal desiderio del suo amico Postumo di prender moglie. Ed è proprio all’interno dell’istituzione familiare che Giovenale osserva la sua donna: scappata la Pudicizia, le donne si sono lasciate andare ai piaceri tra i quali quelli sessuali (basti pensare a Messalina che non contenta dei piaceri coniugali, si rifugiava di notte nei bordelli a provare smisurati godimenti), quelli legati ai giochi del circo, al potere che esercitano sui mariti grazie alla loro dote, all’innamoramento verso la cultura e la lingua greca.

LA LETTERATA SACCENTE
(VI, 448 – 456)

Non habeat matrona, tibi quae iuncta recumbit,
dicendi genus, aut curvum sermone rotato
torqueat enthymema, nec historias sciat omnes,
sed quaedam ex libris et non intellegat. Odi
hanc ego quae repetit volvitque Palaemonis artem
servata semper lege et ratione loquendi
ignotosque mihi tenet antiquaria versus
nec curanda viris opicae castigat amicae
verba: soloecismum liceat fecisse marito.
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Gli amanti di Messalina

Non abbia la matrona, che si sdraia a fianco a te, / la caratteristica della parola, o con linguaggio artificioso un tortuoso / entimema* rivolti, né conosca tutta la storia, / ma qualcosa, e non comprenda (tutto) dai libri. Io odio / quella che ripete e illustra l’arte di Palamone* / istruita (in essa) sempre dalla legge e secondo le regole del parlare / reciti versi antichissimi a me sconosciuti / e rimproveri ad una amica ignorante parole non da sottolineare / dagli uomini: sia lecito al marito aver fatto (qualche) errore.

Anche qui torniamo an topos ben presente nella cultura latina: chi non ricorda con quale disprezzo Cicerone disegna Clodia, tra i cui difetti vi era anche la cultura? è certo questa una delle componenti che disturba il “maschio”, per cui la donna deve solo rispettare la casa e il marito. Ma torniamo al vecchio discorso: dov’erano le donne che sacrificavano se stesse per il bene della famiglia e della patria? Ci ritroviamo ancora una volta nella Roma Repubblicana, a dimostrare come le accuse di Giovenale, oltre ad essere anacronistiche, non sono affatto propositive. Il suo odio, infatti, sembra non sia dato dalla condizione storica, quanto da una pura e semplice misoginia. Questa satira si caratterizza anche per essere una “satira tragica”. Ci dice l’autore stesso che nel descrivere la depravazione femminile ha dovuto far riferimento spesso ai miti del passato: ciò può destare qualche perplessità, perché essi sono e vanno inseriti nel genere della tragedia, ma la differenza tra la sua e quella della tragedia sta nel fatto che la seconda si basa sul mito, lui sulla realtà. Ma forse è anche il caso di dire che nella tarda antichità comincia ad intravedersi qualche mescolamento di genere.

La VII satira, che apre il terzo libro, è complementare a tutte quelle dedicate alla povertà dei clientes, che condividono tali ristrettezze con avvocati, maestri, poeti, di contro all’avarizia dei potenti e agli stratosferici guadagni degli atleti.

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Wenceslaus Hollar: Immagine per l’edizione inglese delle Satire di Giovenale 

Da tale satira potremo quasi notare un piccolo cambiamento nell’opera di Giovenale, che tuttavia sembra muoversi tra satire in cui continua a stigmatizzare i comportamenti viziosi degli uomini, come l’VIII in cui si scaglia contro chi deturpa la memoria dei propri antenati con una vita dissoluta, sebbene appaia alla fine lo spiraglio di una virtù capace di attribuire la vera nobiltà; la IX in cui si parla di un cliens che si prostituisce al padrone; la XII contro cui si scaglia contro i cacciatori d’eredità e la XV in cui inveisce contro il cannibalismo (episodio avvenuto in Egitto); nelle altre sembra riprendere alcuni temi “più classici” che si possono richiamare alla satira diatribica, come quello della X in cui cerca di individuare il vero significato della preghiera verso gli dei, non certo quello dell’avarizia; o ancora quello del “giusto mezzo”, individuato nel mezzo di un povero pasto, capace tuttavia di soddisfare i convitati ma soprattutto la XIV dove invita i genitori ad aver rispetto verso i propri figli; egli analizza tale rapporto sotto la lente dell’avarizia.

Particolare la XIII, in cui si racconta della truffa subita da un suo amico che aveva prestato del denaro: la satira sembra una “consolatio” rovesciata, ma dove l’intento satirico si appunta sulla stupidità degli uomini e la XVI giunta talmente frammentaria da essere di difficile interpretazione (l’argomento è il privilegio di cui gode la casta militare).

Non si può terminare un discorso su Giovenale se non si ricordano alcune sue espressioni entrate, per così dire, nel linguaggio ordinario come massime; mens sana in corpore sano, panem et circenses, maxima debetur puero reverentia.

PUBLIO CORNELIO TACITO

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Publio (o Gaio) Cornelio Tacito (ritratto immaginario)

Cenni biografici

Di Cornelio Tacito non conosciamo con precisione né il praenomen (Publio secondo un manoscritto, Gaio, secondo un autore antico) né con precisione la data di nascita (tra il 54-55, così risaliamo secondo la testimonianza di Plinio il Giovane, suo amico) e neppure il luogo di nascita, forse umbra, forse celtica. Certamente iniziò la sua carriera politica sotto Vespasiano per finire sotto Traiano, senza significative interruzioni). Fu probabilmente di famiglia equestre se poté approfondire la sua educazione nella capitale e se, sin da giovane, poté scegliere come moglie la figlia di Gneo Giulio Agricola, autorevole comandante militare, grazie al quale iniziò la sua attività che rivestì durante l’intera dinastia dei Flavi. Certo dovette essere un buon oratore se, dopo essersi recato come pretore in Africa, difese le popolazioni in un processo de repetundis contro il proconsole Mario Prisco, insieme a Plinio il Giovane (famoso per il suo Epistolario); sappiamo inoltre che tra l’88 e il 93 si allontanò da Roma (non ne conosciamo il motivo) e che rivestì la carica di consul suffectus (cioè l’ottenimento della carica consolare in caso di dimissioni o morte di un console durante il suo incarico). Ottenne anche la pretura in Asia. Morì intorno al 117.

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Ponte a Nimes (città comprendente quella che un tempo era la Gallia Narborense, cioé l’attuale Provenza nel sud della Francia)

Opere
Le opere di Tacito a noi note sono:

  1. De vita Iulii Agricolae (98);
  2. De origine et situ Germanorum o Germania (98);
  3. Dialogus de oratoribus (di poco successivo al 100);
  4. Historiae (tra il 100 e il 110);
  5. Annales (tra la fine delle Historiae e la morte dell’autore).

 
Dialogus de oratoribus

Cominciamo la nostra analisi con un testo lontano dalla riflessione storica o etnografica, ma che ci riporta subito a Quintiliano, cioè la retorica. E, sebbene l’opera sia più tarda rispetto all’Agricola o alla Germania, risulta così “staccata” dal resto della sua produzione, che alcuni ne hanno messo addirittura in forse l’autenticità o la datazione, collocandola nel periodo giovanile (il manoscritto ci è giunto anonimo, ma a definirne la “paternità” è il suo essere stata tramandata insieme ad altre opere minori). Infatti l’argomento, ma soprattutto lo stile sembrano assai lontani dagli altri di Tacito. Ma se essa appare così diversa probabilmente lo si deve al genere stesso dell’opera che Quintiliano aveva poi canonizzato con uno stile neociceroniano da renderlo quasi “obbligatorio”. L’opera è strutturata come un dialogo, avvenuto nel periodo di Vespaniano, tra i maggiori oratori del tempo, e affronta il tema della decadenza. E’ composto da 42 capitoli e appare evidente come ci sia una lacuna tra il capitolo 35/36. L’io narrante è costituito da un giovane che descrive, non intervenendo, il dialogo dei tre grandi retori.

I protagonisti attribuiscono ognuno una motivazione diversa al declino dell’oratoria:

  1. Vipsano Messala ne indica le cause sul deterioramento dell’educazione (riprendendo la teoria di Quintiliano);
  2. Marco Apro afferma che l’oratoria non è peggiorata, ma è solo cambiata adeguandosi ai tempi;
  3. Curiazio Materno con la fine della libertà che non permette la facoltà di potersi esprimere senza remore.

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Tacito, come mostrato precedentemene, sembra accogliere, nella sua opera, le motivazioni che nell’età imperiale, da Petronio in poi, hanno caratterizzato la decadenza dell’oratoria e accoglie le motivazioni che i suoi predecessori avevano elaborato. Tuttavia sembra che egli debba sottolineare come la realtà a lui contemporanea sia priva di una elegante eloquenza perché manca un confronto ardente fra fazioni politiche opposte, come ai tempi di Cicerone, per poi tuttavia aggiungere  che è meglio la pace imperiale che le guerre civili.

L’ANTICA FIAMMA DELL’ELOQUENZA

Magna eloquentia, sicut flamma, materia alitur et motibus excitatur et urendo clarescit. Eadem ratio in nostra quoque civitate antiquorum eloquentiam provexit. Nam etsi horum quoque temporum oratores ea consecuti sunt, quae composita et quieta et beata re publica tribui fas erat, tamen illa perturbatione ac licentia plura sibi adsequi videbantur, cum mixtis omnibus et moderatore uno carentibus tantum quisque orator saperet, quantum erranti populo persuaderi poterat. Hinc leges adsiduae et populare nomen, hinc contiones magistratuum paene pernoctantium in rostris, hinc accusationes potentium reorum et adsignatae etiam domibus inimicitiae, hinc procerum factiones et adsidua senatus adversus plebem certamina. Quae singula etsi distrahebant rem publicam, exercebant tamen illorum temporum eloquentiam et magnis cumulare praemiis videbantur, quia quanto quisque plus dicendo poterat, tanto facilius honores adsequebatur, tanto magis in ipsis honoribus collegas suos anteibat, tanto plus apud principes gratiae, plus auctoritatis apud patres, plus notitiae ac nominis apud plebem parabat.

La grande eloquenza, come la fiamma, ha bisogno di materia che la alimenti e di movimento che la ravvivi; e nell’ardere acquista splendore. Le medesime cause favorivano anche nella nostra città l’eloquenza degli antichi. Benché infatti certi oratori della nostra epoca abbiano ottenuto tutti i successi che potevano ripromettersi in uno stato ben regolato, tranquillo e felice, tuttavia sembra che maggiori speranze si aprissero agli antichi in mezzo a quei grandiosi rivolgimenti e tumulti, allorché, essendo ogni cosa sconvolta e mancando un unico capo, ciascun oratore tanto più valeva, quanto più riusciva ad influire sulla moltitudine disorientata. Di qui le frequentissime proposte di leggi e la gran popolarità, di qui gli sproloqui dei magistrati, che quasi pernottavano sulla tribuna: di qui le accuse lanciate contro alti personaggi e le inimicizie condivise anche dalle famiglie; di qui le fazioni dei patrizi, di qui le lotte continue tra il senato e la plebe. Tutti questi mali dilaniavano sì lo stato, ma stimolavano l’eloquenza di quei tempi e le offrivano brillanti compensi; perché quanto più un cittadino s’imponeva con la parola, tanto più facilmente giungeva alle cariche pubbliche e nelle cariche stesse oltrepassava i propri colleghi, tanto più maggiore favore si procurava da parte dei potenti, tanta maggiore autorità da parte del senato, tanta maggiore notorietà e fama presso la plebe.

E ciò che dice in questo passo, posto quasi a conclusione dell’opera, affermato da Materno che, in quest’opera è l’alter ego di Tacito.

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Giulio Agricola

De vita et moribus Iulii Agricolae

Dopo la morte di Domiziano, cui segue la parentesi di Nerva, sotto la quale i critici tendono a far coincidere l’inizio della stesura di quest’operetta, e l’elezione di Traiano, a Roma si percepisce una maggiore libertà, se così si può dire, culturale. Per questo Tacito diede alle stampe un libretto il cui compito era quello di esaltare il suocero, grande comandante militare e leale uomo di Stato. Di lui infatti si racconta soprattutto l’impresa della conquista della Britannia cui dedica degli excursus che sembrano esulare dal genere biografico vero e proprio, quindi, la gelosia dei successi del generale, ed il richiamo per volontà del princeps nella Capitale, dove Agricola, per non urtare l’Imperatore, conduce vita ritirata. Rinuncia al proconsolato e la morte lo coglie ad appena cinquantatré anni (qualcuno vocifera per avvelenamento da parte di Domiziano).

L’opera consta di 46 capitoli, in cui si racconta la vita di Giulio Agricola fino al consolato, cui segue la spedizione in Britannia (e qui viene inserito un excursus che ricorda gli excursus cesariani del De Bello Gallico) e quindi il suo ritorno a Roma.

E’ difficile definire il genere di tale monografia: potremo inserirla nel genere della biografia encomiastica, oppure di una vera e propria una vera e propria laudatio funebris in onore del suocero. Infatti quello che lui vuole mettere in evidenza è come, pur sotto un pessimo imperatore, come Domiziano, si ci può comportare in modo corretto e giusto. Egli infatti sembra prendere le distanze da quel periodo in cui il suicidio stoico sembrava essere l’unica forma per salvare la propria libertà e quindi la propria dignità. Nella considerazione che l’impero è ormai una forma ineluttabile del processo storico romano, compito di un buon funzionario è quello di fare in modo che sia proprio questo, cioè l’impero e non il suo rappresentante, l’imperatore, a godere dei frutti dell’uomo onesto:

AGRICOLA DI FRONTE ALL’IMPERATORE
(42)

Proprium humanii ingenii est odisse quem laeseris: Domitiani vero natura praeceps in iram, et quo obscurior, eo inrevocabilior, moderatione tamen prudentiaque Agricolae leniebatur, quia non contumacia neque inani iactatione libertatis famam fatumque provocabat. Sciant quibus moris est inlicita mirari, posse etiam sub malis principibus magnos viros esse, obsequiumque ac modestiam, si industria ac vigor adsint, eo laudis excedere, quo plerique per abrupta sed in nullum rei publicae usum ambitiosa morte inclaruerunt.

E’ della natura umana odiare chi hai offeso; inoltre la natura di Domiziano, tanto più implacabile quanto più si teneva chiusa in se stessa, era mitigata dalla modestia e dalla prudenza di Agricola, il quale non ricercava la fama né sfidava la morte con l’ostinazione o con la vana fierezza della libertà. Sappiano coloro che ammirano i gesti di ribellione che possono esistere uomini grandi anche sotto principi cattivi e che l’obbedienza e la moderazione, quando è presente l’operosità e l’energia, si elevano a quella gloria dove molti altri per vie pericolose, ma senza utilità per lo stato, salirono illuminati da una morte ambiziosa.

Il passo mostra bene quando detto prima: ma ciò non toglie a noi il dubbio che quanto Tacito dica del suocero, tenda anche a dirlo per lui. Anch’egli, infatti, iniziò attività politica sotto Domiziano e vorrebbe essere “scagionato” dall’averla fatta sotto la tirannia del feroce imperatore.

Ma certamente uno dei passi più famosi di tutta l’opera, di cui riportiamo un frammento è nella definizione dell’imperialismo romano:

DAL DISCORSO DI CALGACO
(30)

Quotiens causas belli et necessitatem nostram intueor, magnus mihi animus est hodiernum diem consensumque vestrum initium libertatis toti Britanniae fore: nam et universi coistis et servitutis expertes, et nullae ultra terrae ac ne mare quidem securum inminente nobis classe Romana. Ita proelium atque arma, quae fortibus honesta, eadem etiam ignavis tutissima sunt. Priores pugnae, quibus adversus Romanos varia fortuna certatum est, spem ac subsidium in nostris manibus habebant, quia nobilissimi totius Britanniae eoque in ipsis penetralibus siti nec ulla servientium litora aspicientes, oculos quoque a contactu dominationis inviolatos habebamus. Nos terrarum ac libertatis extremos recessus ipse ac sinus famae in hunc diem defendit: nunc terminus Britanniae patet, atque omne ignotum pro magnifico est; sed nulla iam ultra gens, nihil nisi fluctus ac saxa, et infestiores Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant.

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Disegno del XIX sec. che illustra il discorso di Calgaco

Ogni volta che esamino le cause della guerra e la nostra critica situazione, ho grande fiducia che il giorno d’oggi e la vostra concordia  saranno l’inizio della libertà per tutta la Britannia; infatti vi siete riuniti tutti insieme voi che siete ignari di schiavitù, e non ci sono terre di là e nemmeno il mare è sicuro, dal momento che la flotta romana incombe su di noi. In tale situazione il combattimento armato, che è onorevole per i valorosi, è nel contempo anche la difesa più sicura per gli imbelli. Le precedenti battaglie, nelle quali si è combattuto contro i Romani con varia sorte, avevano una speranza e una possibilità di aiuto nelle nostri mani, perché noi i più nobili di tutta la Britannia e perciò posti proprio nelle sedi più interne senza vedere alcun lido di coloro che sono asserviti, avevamo persino gli occhi non contaminati dal contatto dell’asservimento. Lo stesso nostro isolamento e l’oscurità del nostro nome ci hanno difero fino a oggi, noi i più lontani abitanti della terra e ultimi rappresentanti della libertà; ora l’estremo confine della Bretagna è aperto e tutto ciò che è ignoto passa per prodigioso: ma ormai al di là non c’è nessun altro popolo, non c’è nulla se non flutti e scogli, ma più pericolosi i Romani, alla cui tracotanza invano si potrebbe sfuggire con l’ossequio e la sottomissione. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che devastano ogni cosa sono venute a mancare le terre, scrutano anche il mare: se il nemico è ricco, sono avidi di denaro, se poveri, prepotenti, tali che né l’Oriente, né l’Occidente potrebbe saziare: loro soli con pari desiderio bramano le ricchezze e l’indigenza di tutti. Depredare, massacrare, rapinare essi lo chiamano con falso nome impero, e, quando fanno il deserto, lo chiamano pace.

E’ giusto ricordare che sin dalla storiografia greca, come Tucidite e Senofonte, si era soliti riportare i discorsi dei generali rivolti alle proprie truppe. Se per quelli dei militari appartenenti alla cultura “vincente” si esalta l’eroismo ed il patriottismo, per gli avversari l’estrema forza e attaccamento ai soldati e alle terre. Non si sottolinea il coraggio dell’avversario a caso, esso è utile a rafforzare la forza vincente: più il nemico ha valore più la vittoria sarà gloriosa. Lo stesso per il discorso di Calgaco ai suoi uomini. Allora perché esso è diventato più importante? Perché la capacità “icastica” tacitiana è diventata proverbiale: quello che dice il britanno ai Romani è quello che si può dire di qualsiasi imperialismo e del suo modo di giustificarsi. codex-aesinas.jpg

Codice con la fine dell’Agricola e l’inizio della Germania

E’ questa la prima opera di Tacito, quella in cui il grande futuro storico, cerca un proprio modo di porre la materia. Tacito non è mai esente dall’imparare dai modelli di cui interpreta lo stile e la struttura (abbiamo visto come gli excursus nascano da Cesare). Il modello stilistico per il De vita et de moribus Iulii Agricolae è certamente quello di Sallustio (su cui modella il discorso di Calgaco): uso di arcaismi, ellissi verbali ed infiniti storici.

Altrettanto importante è il passo dedicato alla morte del generale Agricola:

Finis vitae eius nobis luctuosus, amicis tristis, extraneis etiam ignotisque non sine cura fuit; vulgus quoque et hic aliud agens populus et ventitavere ad domum et per fora et circulos locuti sunt; nec quisquam audita morte Agricolae aut laetatus est aut statim oblitus. Augebat miserationem constans rumor veneno interceptum; nobis nihil comperti, ut adfirmare ausim. Ceterum per omnem valetudinem eius crebrius quam ex more principatus per nuntios visentis et libertorum primi et medicorum intimi venere, sive cura illud sive inquisitio erat. Supremo quidem die momenta ipsa deficientis per dispositos cursores nuntiata constabat, nullo credente sic adcelerari quae tristis audiret. Speciem tamen doloris animi vultu prae se tulit, securus iam odii et qui facilius dissimularet gaudium quam metum. Satis constabat lecto testamento Agricolae, quo coheredem optimae uxori et piissimae filiae Domitianum scripsit, laetatum eum velut honore iudicioque. Tam caeca et corrupta mens adsiduis adulationibus erat, ut nesciret a bono patre non scribi heredem nisi malum principem.

La fine della sua vita fu luttuosa per noi, triste per gli amici, anche per estranei e sconosciuti non senza rammarico; anche la folla e questo popolo che si occupa di altro vennero continuamente alla sua casa e ne parlarono nelle piazze e nei crocchi; e nessuno, sentita la morte di Agricola, si rallegrò o se ne dimenticò subito. Accresceva la commiserazione la diceria insistente che fosse stato ucciso con il veleno; nulla di accertato da parte mia per osare affermarlo. Peraltro, per tutta la sua malattia, più frequentemente della consuetudine imperiale di far visita per mezzo di messaggeri, vennero i principali liberti e i medici più fidati, sia che quello fosse preoccupazione o controllo. Certo, nell’ultimo giorno, risultava che i momenti stessi della sua agonia vennero riferiti da apposite staffette, mentre nessuno credeva che si accelerassero così cose da udire con tristezza. Tuttavia ostentò sul volto l’apparenza del dolore dell’animo, ormai tranquillizzato nel suo odio e per dissimulare più facilmente la gioia che la paura. Risultava a sufficienza che, letto il testamento di Agricola, in cui nominò Domiziano coerede insieme all’ottima moglie e alla devotissima figlia, egli si rallegrò come prova d’onore e di stima. Tanto cieca e corrotta era la sua mente dalle continue adulazioni da ignorare che da un buon padre non si può nominare erede se non un pessimo imperatore.

Siamo nella parte finale del libello: Tacito con un racconto secco ed essenziale non ci dice che il suocero fosse stato ucciso dall’Imperatore, ma lo suggerisce, sottolineando l’arrivo di medici, liberti di Domiziano, per accertarsi della sua fine. Può sorprendere che Agricola abbia lasciato parte del suo patrimonio all’Imperatore, ma era pratica comune per i Romani ricchi, affinché, con una scusa qualsiasi, non ne venissero privati da qualsiasi accusa mossa loro.

De origine et situ Germanorum

Contemporaneo all’Agricola è il De origine et situ Germanorum o più semplicemente Germania, piccolo libro composto da 42 capitoli, che viene considerato come il primo esempio di un’opera interamente etnografica a noi giunta. Certo non mancano esempi di scrittura etnografica negli excursus, come ad esempio nel De bello gallico di Cesare o nelle Historiae, a noi non giunte, di Sallustio. Ma tali esempi sono vere e proprie digressioni all’interno di opere altre, come quelle storiche. Tacito, invece, scrive un’opera che ha quell’impostazione, richiamandosi, molto probabilmente a testi simili di Seneca sull’India e sull’Egitto. Più che riportare in modo diretto il luogo che si accinge a descrivere, Tacito si serve di fonti letterarie, che riprende e abbellisce in modo stilistico. Tale riferimento è già chiaro nell’incipit:

I CONFINI DELLA GERMANIA
(I)

Germania omnis a Gallis Raetisque et Pannoniis Rheno et Danuvio fluminibus, a Sarmatis Dacisque mutuo metu aut montibus separatur: cetera Oceanus ambit, latos sinus et insularum immensa spatia complectens, nuper cognitis quibusdam gentibus ac regibus quos bellum aperuit. Rhenus, Raeticarum Alpium inaccesso ac precipiti vertice ortus, modico flexu in occidentem versus septentrionali Oceano miscetur. Danuvius molli et clementer edito montis Abnobae iugo effusus, plures populos adit, donec in Ponticum mare sex meatibus erumpat; septimum os paludibus hauritur.

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La Germania ai tempi di Tacito

La Germania, nel suo complesso è separata dai Galli, dai Reti e dai Pannoni dai fiumi Reno e Danubio, dai Sarmati e dai Daci dalla reciproca paura o dai monti: l’Oceano circonda le altre parti, abbracciando vaste penisole ed immensi spazi delle isole, di cui da non molto conosciuti genti o re, che la guerra ha svelato. Il Reno, nato dalla cima inaccessibile e precipitosa delle Alpi Retiche, volto verso occidente con una leggera curvatura, si mescola al mare del nord. Il Danubio, nato da una lieve cima di dolce pendio del monte Abnoba, tocca più popoli, finché erompe nel mare del Ponto per sei canali, il settimo si consuma nelle paludi.

In esso lo stile e i termini richiamano fortemente l’incipit cesariano (si pensi al Gallia est omnis…). Ma qual è il fine di quest’opera? Si è sempre creduto che egli volesse sottolineare la fortezza e l’integrità, seppur non civilizzata, delle popolazioni germaniche, di fronte alla decadenza dei costumi della ricca e troppo civile società romana.

FIEREZZA E PUREZZA DEI GERMANI
(IV)

Ipse eorum opinionibus accedo, qui Germaniae populos nullis aliis aliarum nationum conubiis infectos propriam et sinceram et tantum sui similem gentem exstitisse arbitrantur. Unde habitus quoque corporum, tamquam in tanto hominum numero, idem omnibus: truces et caerulei oculi, rutilae comae, magna corpora et tantum ad impetum valida: laboris atque operum non eadem patientia, minimeque sitim aestumque tolerare, frigora atque inediam caelo solove adsueverunt.

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Immagine di un guerriero germanico

Personalmente inclino verso l’opinione di quanti ritengono che i popoli della Germania non siano contaminati da nessun incrocio con gente di altra stirpe e che si siano mantenuti una razza a sé, indipendente, con caratteri propri. Per questo anche il tipo fisico, benché così numerosa sia la popolazione, è eguale in tutti: occhi azzurri d’intensa fierezza, chiome rossicce, corporature gigantesche, adatte solo all’assalto. Non altrettanta è la resistenza alla fatica e al lavoro; incapaci di sopportare la sete e il caldo, ma abituati al freddo e alla fame dal clima e dalla povertà del suolo.

Infatti, in questo breve passo, Tacito sembra mettere in rilievo due aspetti fondamentali:

  • La purezza della razza;
  • La forza determinata dalle avverse condizioni geografiche.

Per quanto riguarda il primo aspetto è chiara l’intenzione tacitiana di mettere in rilievo come l’essere “non contaminati” rappresenti un elemento capace di dar loro coesione valoriale e quindi forza nella loro determinazione di riaffermare le proprie esigenze, dall’altra la ripresa del topos storiografico di mettere in relazione corpo-ambiente, che qui egli utilizza per ribadire la purezza della razza germanica.

Ma quello che maggiormente emerge è che, dietro lo sguardo etnografico, si nasconda quello politico: egli è ben consapevole che un allargamento dell’Impero potesse avvenire solamente da quella parte e non nel ben più pericoloso Oriente. Tuttavia si rende anche conto della necessità di prevenire spedizioni da parte di loro (infatti Traiano aveva già lì spostato le sue truppe), perché alla loro rozzezza, ma che si potrebbe anche intendere come forza incontaminata, Roma, con l’andar del tempo non saprebbe più rispondere.

Edizione del 1658

I capolavori di Tacito sono tuttavia rappresentati dai due libri storici: Historiae ed Annales. Non ci sono giunti integri, pertanto vi è una ricca discussione critica riguardo l’ipotesi della loro lunghezza che, secondo la testimonianza rilasciataci da San Gerolamo, fosse di trenta libri; inoltre la trasmissione manoscritta ci ha trasmetto insieme le due opere secondo una versione cronologica capovolgendone la composizione. Infine, considerando per buona la testimonianza del religioso, si è ipotizzato che le due opere fossero le Historiae di 12 e gli Annales di 18 libri.

Historiae

Le Historiae costituiscono il primo grande capolavoro tacitiano. Il testo ci è giunto mutilo, possediamo soltanto i primi quattro libri e 26 capitoli del V. Non sappiamo quanto potesse essere lunga: ipotizziamo, sulla base della tradizione manoscritta 14 o 12 libri. Tali ipotesi può essere avvalorata dal fatto che San Gerolamo ci parla di un unico testo in trenta libri in cui gli Annales (che raccontava episodi precedenti) precedevano le Historiae. Cominciando quest’ultimo al capitolo sedicesimo si è giunti all’ipotesi su formulata.

L’opera, che venne strutturata seguendo la tradizione annalistica (anno per anno), doveva raccontarci gli avvenimenti successi a Roma dal 69, anno della lotta fra i quattro imperatori ed il 96, anno della morte di Domiziano. Vediamone la struttura:

Il I libro si apre con il breve regno di Galba. In esso troviamo il Proemio in cui Tacito vuole anche raccontarci come egli abbia iniziato la sua attività politica:
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Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano

NEQUE AMORE SINE ODIO
(I)

Mihi Galba Otho Vitellius nec beneficio nec iniuria cogniti. Dignitatem nostram a Vespasiano inchoatam, a Tito auctam, a Domitiano longius provectam non abnuerim: sed incorruptam fidem professis neque amore quisquam et sine odio dicendus est. Quod si vita suppeditet, principatum divi Nervae et imperium Traiani, uberiorem securioremque materiam, senectuti seposui, rara temporum felicitate ubi sentire quae velis et quae sentias dicere licet.

Quanto a me non ho conosciuto né Galba, né Otone, né Vitellio, quindi né benefici, né amore. La mia carriera politica ha avuto inizio con Vespasiano, si è svolta con Tito, ha raggiunto il suo vertice (né io lo nego) con Domiziano: ma chi professa incorrotta fedeltà al vero, di ognuno deve parlare senza amore e senza odio. Alla mia vecchiaia riservo, se la vita mi basterà, la storia del principato del divo Nerva e di Traiano: più ricco tema, e men periglioso a trattarsi per la singolare felicità del tempo presente in cui è dato pensare come piace e dire ciò che si pensa.

E’ l’ultima parte del Proemio che è stata qui riportata, che ci offre il destro per cogliere da una parte elementi, seppur indiretti della sua biografia, iniziata nell’età flaviana, l’avvio della sua attività sotto il principato adottivo, ma soprattutto il fatto, poi negato, di continuare la storia con il racconto del periodo di Nerva e Traiano. Assistiamo qui al duplice tentativo sia di giustificare se stesso sia di rivendicare l’oggettività con la quale vuole descrivere la storia. Se per la prima basta riandare a ciò che nell’Agricola ha detto del suocero, ben più difficile spiegare la seconda, dove l’oggettività a volte è piegata a giudizi non proprio positivi sugli imperatori, incapaci nel difficile compito di guidare l’impero.

In seguito ci viene raccontata la sua fine da parte di Otone e la sua proclamazione. Nel II assistiamo all’acclamazione da parte di Vitellio delle sue truppe, mentre Vespasiano e Tito si trovano in Giudea per domare la rivolta ebraica. Vi è la guerra aperta tra Vitellio e Otone. Quest’ultimo, sconfitto a Cremona, si toglie la vita. Il vincitore, quindi si dirige a Roma. Nel III assistiamo alla morte di Vitellio trucidato a Roma, mentre il IV vedrà infine l’arrivo nelle capitale di Vespasiano.

L’ultimo che possediamo, il V, si soffermerà invece su suo figlio, Tito. Alla narrazione della sua preparazione bellica, farà seguito una digressione sugli Ebrei.

Il modo attraverso cui Tacito sembra avvicinarsi a tale periodo sembra rispondere all’esigenza di cogliere, in un passato così recente, l’errore che ha portato dapprima Roma nel caos (l’anno dei quattro imperatori) e come, nel periodo successivo, quello di Nerva, ciò sia stato evitato:

GALBA A PISONE
(I, 16 – 1)

Si immensum imperii corpus stare ac librari sine rectore posset, dignus eram a quo res publica inciperet: nunc eo necessitatis iam pridem ventum est, ut nec mea senectus conferre plus populo Romano possit quam bonum successorem, nec tua plus iuventa quam bonum principem. Sub Tiberio et Gaio et Claudio unius familiae quasi hereditas fuimus: loco libertatis erit quod eligi coepimus; et finita Iuliorum Claudiorumque domo optimum quemque adoptio inveniet.

Se l’immensa mole dell’impero potesse reggersi e bilanciarsi senza una guida, sarei degno di ridare inizio alla repubblica; ma la realtà, e non da oggi, è così compromessa che la mia vecchiaia altro non può dare al popolo romano che un buon successore, e non altro la tua giovinezza se non un buon principe. Sotto Tiberio, Gaio, Claudio noi Romani siamo stati, per così dire, proprietà ereditaria di una sola famiglia: sostituisca in qualche modo la libertà l’applicazione che noi facciamo del principio della libera scelta, sicché, finita la casa Giulia e Claudia toccherà all’adozione scegliere il più degno.

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Moneta romana raffigurante Galba

Infatti il regno di Nerva, senatore eletto a Roma dopo l’uccisione di Diomiziano era stato scevro dai pericoli di successione proprio perché aveva adottato come successore Traiano (non per niente la loro età prende il nome di Principato adottivo). Ma allora perché Galba non era riuscito, pur avendo adottato Pisone? Perché Galba era stato voluto da una minoranza aristocratica, non aveva sostegni che potessero puntellarlo:

et omnium consensu capax imperii nisi imperasset
secondo l’opinione di tutti degno dell’impero, se non avesse governato

Ma perché Tacito è così sferzante nei suoi confronti? Proprio perché Galba vuole mettere d’accordo ciò che non esiste più: egli vorrebbe essere ancora il garante del mos maiorum; ma questo è in contraddizione con l’impero. Non si può infatti adottare un buon uomo, ligio al dovere, integerrimo moralmente, ma inviso alle truppe e alla gente. Ben altra tempra aveva Nerva, e ben altre capacità politiche, se aveva ottenuto per Roma un periodo di pace e, adottando Traiano, aveva scelto un princeps capace e amato da tutti.

E’ nel IV che troviamo la giustificazione dell’impero, attraverso le parole di Petilio Ceriale, comandante di un grosso esercito di otto legioni, mandato da Vespasiano per sedare delle rivolte sorte nel territorio gallico. Tacito riporta il suo discorso rivolto ai capi gallici:

IL DISCORSO DI PETILIO CERIALE

Terram vestram ceterorumque Gallorum ingressi sunt duces imperatoresque Romani nulla cupidine, sed maioribus vestris invocantibus, quos discordiae usque ad exitium fatigabant, et acciti auxilio Germani sociis pariter atque hostibus servitutem imposuerant. Quot proeliis adversus Cimbros Teutonosque, quantis exercituum nostrorum laboribus quove eventu Germanica bella tractaverimus, satis clarum. Nec ideo Rhenum insedimus ut Italiam tueremur, sed ne quis alius Ariovistus regno Galliarum potiretur. An vos cariores Civili Batavisque et transrhenanis gentibus creditis quam maioribus eorum patres avique vestri fuerunt? Eadem semper causa Germanis transcendendi in Gallias, libido atque avaritia et mutandae sedis amor, ut relictis paludibus et solitudinibus suis fecundissimum hoc solum vosque ipsos possiderent: ceterum libertas et speciosa nomina praetexuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet.

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Antonio Tempesta: Petilio Cerviale incontra i Bavari (1612)

Gli ufficiali e e i generali romani non sono entrati nella vostra terra o in quella degli altri Galli, per un loro desiderio personale, ma perché invocati dai vostri antenati, che le discordie continue avevano spinto all’estremo, e perché i Germani, da loro chiamati in aiuto, avevano imposto la stessa schaivitù agli alleati ed ai nemici. E’ ben noto quante volte abbiamo dovuto affrontare i Cimbri e Teutoni, e con quante fatiche per i nostri eserciti e con che succedersi di avvenimenti abbiamo condotto a termine le guerre in Germania. Non ci siamo stanziati nel Reno per difendere l’Italia, ma per impedire che un altro Ariovisto si impadronisca nel regno delle Gallie. Credete forse di essere più cari a Civile, ai Batavi ed alle genti Transrenane, di quanto i vostri padri lo furono ai loro antenati? I Germani hanno sempre le stesse ragioni per invadere le Gallie: un impulso irrazionale o l’avidità e il desiderio di cambiare sede e di impadronirsi di queste terre fertilissime e delle vostre persone, abbandonando le loro paludi e le loro terre inabitabili. E’ vero che, da parte loro, mettono avanti il discorso della libertà ad altre belle parole, ma non ci fu mai nessuno che, desideroso di ridurre gli altri in schiavitù e di imporre il il proprio dominio, non abbia abusato di questi termini.

Ci dice Tacito che è l’avidità che muove la storia, avidità che spinge qualsiasi popolazione o loro comandante a soggiogare gli altri e ciò avviene per un semplice motivo: nam neque quies gentium sine armis neque arma sine stipendiis neque stipendia sine tributis haberi queunt; cetera in communi sita sunt (I popoli, infatti, non possono vivere sicuri senza le armi, e non vi sono armi senza spese, e non si può far fronte alle spese senza tributi. Tutto il resto lo abbiamo in comune). Al di là di un discorso fatto da un generale romano che chiede alle popolazioni galliche di far fronte comune contro le possibili incursioni delle popolazioni germaniche, quello che qui interessa è la stringente capacità tacitiana di dare una legge politica attraverso un parallelismo sintattico che si conclude poi con la sentenza finale che dovrebbe convincere loro.

Ma l’opera, oltre che per questi motivi politici, conserva una fortissima dignità letteraria determinata da una ripresa, con grande capacità, dell’arte sallustiana del ritratto, e, per quella parte che ci è rimasta per la descrizione magistrale delle folle, sia esse in battaglia, sia in trepida attesa per un evento.

Annales

Terminate le Historiae. Tacito non rispettò l’impegno di scrivere dell’età sua, ma si rivolse ancora più indietro e, ricollegandosi a Livio, sembra volesse riprendere il filo da lui tessuto, iniziando la sua opera Ab excessu divi Augusti (Dalla morte del divino Augusto), richiamandosi, così, in modo esplicito all’Ab Urbe condita liviano. Di quest’opera, tuttavia, ci rimangono i primi quattro libri, più un esiguo frammento del quinto e, non integro, il sesto. Poi ci sono giunti l’XI (solo 38 capitoli) ed interi dal XII al XVI. Vediamone la struttura:

I libri I-IV, il frammento del V e parte del VI contengono, dopo un breve riassunto dell’impero augusteo, l’età di Tiberio. Gli ultimi, dall’XI e il XVI gli anni riguardanti Claudio e Nerone; da come si intuisce manca forse la parte più interessante che la penna di Tacito avesse vergato, quella riferita al folle Catilina, il cui ritratto forse sarebbe stato interessantissimo sia sul piano letterario che storico.

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L’inizio dell’opera in un manoscritto

INTRODUZIONE

Urbem Romam a principio reges habere; libertatem et consulatum L. Brutus instituit. Dictaturae ad tempus sumebantur; neque decemviralis potestas ultra biennium, neque tribunorum militum consulare ius diu valuit. Non Cinnae, non Sullae longa dominatio; et Pompei Crassique potentia cito in Caesarem, Lepidi atque Antonii arma in Augustum cessere, qui cuncta discordiis civilibus fessa nomine principis sub imperium accepit. Sed veteris populi Romani prospera vel adversa claris scriptoribus memorata sunt; temporibusque Augusti dicendis non defuere decora ingenia, donec gliscente adulatione deterrentur. Tiberii Gaique et Claudii ac Neronis res, florentibus ipsis, ob metum falsae, postquam occiderant, recentibus odiis compositae sunt. Inde consilium mihi pauca de Augusto et extrema tradere, mox Tiberii principatum et cetera, sine ira et studio, quorum causas procul habeo.

I re tennero per primi il governo di Roma. Lucio Bruto fondò il regime di li-bertà e il consolato. La dittatura era temporanea: il potere dei decemviri non durava oltre un biennio, né fu a lungo in vigore il potere consolare dei tribuni militari. Né la tirannia di Silla né quella di Cinna durarono a lungo; la potenza di Pompeo e quella di Crasso in breve si raccolsero nelle mani di Cesare, e gli eserciti di Lepido e di Antonio passarono ad Augusto, il quale ridusse sotto il suo dominio col nome di principe lo Stato stanco e disfatto dalle lotte civili. Ora le fortune o le avversità del popolo Romano antico furono narrate da storici illustri, e chiari ingegni non mancarono di descrivere l’età di Augusto, fin che ne furono distolti dalla sempre crescente necessità di adulare. Le imprese di Tiberio, di Caio, di Claudio e di Nerone furono raccontate falsamente, per paura mentre essi regnavano, per influssi di odi ancor vivi dopo che furono morti. Di qui il mio disegno di riferire pochi fatti intorno ad Augusto e precisamente gli ultimi della sua vita; subito dopo mi propongo di narrare la dominazione di Tiberio e le vicende che ne seguirono, senza avversione né simpatia, essendo lontane da me le cause dell’una e dell’altra.

La lettura di questo passo ci offre una visione che, secondo l’autore, vuole essere neutra, in quanto, ormai, lontano dalle cause che hanno prodotto i “fatti” avvenuti nell’età giulio-claudia, può guardare ad essi sine ira et studio (senza rabbia né approvazione). Eppure, a voler osservare con maggiore attenzione, attraverso un sapientissimo climax l’autore sembra condurci verso il baratro del dispotismo.

Tale dispotismo sembra incarnarsi proprio nel primo successore di Augusto, Tiberio, verso cui il servilismo del senato, nonché la doppiezza dello stesso, ruotano verso un abisso storico cui Tacito guarda:

TIBERIO E IL SENATO
(I, 11)

Versae inde ad Tiberium preces. Et ille varie disserebat de magnitudine imperii sua modestia. Solam divi Augusti mentem tantae molis capacem: se in partem curarum ab illo vocatum experiendo didicisse quam arduum, quam subiectum fortunae regendi cuncta onus. Proinde in civitate tot inlustribus viris subnixa non ad unum omnia deferrent: plures facilius munia rei publicae sociatis laboribus exsecuturos. Plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat; Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura sive adsuetudine, suspensa semper et obscura verba: tunc vero nitenti ut sensus suos penitus abderet, in incertum et ambiguum magis implicabantur. At patres, quibus unus metus si intellegere viderentur, in questus lacrimas vota effundi; ad deos, ad effigiem Augusti, ad genua ipsius manus tendere, cum proferri libellum recitarique iussit.

Furono dunque rivolte delle preghiere a Tiberio. Ed egli, passando da un discorso all’altro, discuteva di quanto l’impero fosse vasto e della sua modestia. Solo la mente del divo Augusto poteva sopportare un peso così grande: egli aveva imparato, nello sperimentare una parte delle preoccupazioni dopo essere stato nominato da lui, quanto fosse gravoso e quanto soggetto al caso tutto il peso del governare. Quindi, in una città ricca di così tanti uomini illustri, non conferissero tutti i poteri ad una persona: un gruppo di più persone, facendo fronte comune, avrebbe ricoperto con più facilità le cariche statali. In un discorso del genere prevaleva la dignità più che la convinzione; e Tiberio usava – per sua natura o che vi fosse abituato – anche quando si trattava di discorsi che non voleva tenere nascosti, parole sempre oscure ed indecise: allora più si sforzava di nascondere nel profondo dell’animo i suoi pensieri, e più le sue parole si contorcevano nell’incertezza e nell’ambiguità. Ma i senatori, la cui unica preoccupazione era far finta di aver capito, proruppero in gemiti, lacrime e preghiere. Tendevano le mani agli dei, all’effigie di Augusto, alle sue ginocchia, quand’ecco che egli ordinò che si portasse e si leggesse il libello.

Vediamo già da subito come per Tacito il problema sia politico e riguarda il rapporto tra senato e imperatore: ambedue appaiono nel loro disfacimento: il senato è infatti disegnato sotto l’egida del più bieco servilismo, ma il vero capolavoro è il ritratto di Tiberio giocato tutto sulla doppiezza, sul suo predicare e sul suo pensare nascostamente, come fossero degli a parte teatrali, dando tragicità, certamente negativa al personaggio.

Ma tale giudizio negativo viene esacerbato con l’avvento di Nerone. I libri XIII fino al XVI, dove l’opera s’interrompe sono dedicati a lui e contengono forse le pagine più famose dello storico: l’incendio di Roma, l’uccisione di Britannico, il matricidio, la repressione con la morte di Seneca e Petronio.

Il processo involutivo dell’imperatore romano, il suo degenerare verso la “pazzia” ha la prima avvisaglia nell’ossessione (accresciuta dal sentimento di gelosia) quando decide di uccidere il fratellastro, Britannico:

LA MORTE DI BRITANNICO
(XIV, 16)

Mos habebatur principum liberos cum ceteris idem aetatis nobilibus sedentes vesci in adspectu propinquorum propria et parciore mensa. Illic epulante Britannico, quia cibos potusque eius delectus ex ministris gustu explorabat, ne omitteretur institutum aut utriusque morte proderetur scelus, talis dolus repertus est. Innoxia adhuc ac praecalida et libata gustu potio traditur Britannico; dein, postquam fervore aspernabatur, frigida in aqua adfunditur venenum, quod ita cunctos eius artus pervasit, ut vox pariter et spiritus [eius] raperentur. Trepidatur a circumsedentibus, diffugiunt imprudentes: at quibus altior intellectus, resistunt defixi et Neronem intuentes. Ille ut erat reclinis et nescio similis, solitum ita ait per comitialem morbum, quo prima ab infantia adflictaretur Britannicus, et redituros paulatim visus sensusque. At Agrippina[e] is pavor, ea consternatio mentis, quamvis vultu premeretur, emicuit, ut perinde ignaram fuisse [quam] Octaviam sororem Britannici constiterit: quippe sibi supremum auxilium ereptum et parricidii exemplum intellegebat. Octavia quoque, quamvis rudibus annis, dolorem caritatem omnes adfectus abscondere didicerat. Ita post breve silentium repetita convivii laetitia.

Era costume che i figli dei principi sedessero a mensa coi coetanei delle famiglie nobili, sotto gli occhi dei genitori ad una tavola separata e imbandita con maggior sobrietà. Qui sedeva Britannico e poiché v’era costume che un servo assaggiasse in precedenza i cibi  e bevande, per non sospendere tale consuetudine e per rivelare la morte di ambedue il delitto, si ricorse ad un trucco. Si fece portare a Britannico una bevanda innocua ma caldissima e già in precedenza assaggiata; avendola egli respinta per l’eccessivo calore, si versò allora in quella insieme con dell’acqua ghiacciata il veleno, che si diffuse per tutte le membra così rapidamente che in uno stesso momento vennero meno a Britannico la parola e la vita. I circostanti furono presi da spavento; coloro che non sapevano nulla si dileguarono, coloro, invece, che vedevano più chiaro rimasero immobili guardando fissi a Nerone.  Questi, standosene sdraiato con l’aria di nulla sapere, andava dicendo che si trattava del solito attacco di epilessia, di cui fin da bambino Britannico soffriva e che a poco a poco i sensi sarebbero tornati. In Agrippina, invece, il terrore e la costernazione si dipinsero con tale violenza sul volto, per quanto ella si sforzasse di dissimularli, che fu chiaro che ella ignorava ogni cosa, quanto Ottavia, sorella di Britannico. Con quel delitto Agrippina si vedeva strappare l’ultima carta nel gioco ed in esso vedeva un presagio del matricidio. Anche Ottavia, per quanto ancora inesperta per l’età, aveva imparato a dissimulare il dolore, l’affettuosa pietà, ogni sentimento dell’animo. Così, interrotta da un breve silenzio, continuò la gioia del convito.

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Giovanni Muzzioli: Il funerale di Britannico (1988)

E’ da una di queste, e sono molte, pagine di Tacito che capiamo la grandezza della scrittura dello storico romano. La descrizione è in primo piano, tavole imbandite separate tra gli adulti e i bambini. L’atto del veneficio, descritto da una consecutiva che sottolinea l’effetto del veleno. Quindi la scena si sposta a coloro che stanno attorno, per restringersi, zumando sui due protagonisti: la “falsa” indifferenza di Nerone ed il terrore di Agrippina per quel figlio che mostra già di essergli indipendente. Certamente tacito non lascia nulla al caso e il lemma parricidium (uccisione di un parens, quindi di un genitore), carica il lettore di attesa, che già sa che una delle più parti più intense sarà, appunto, l’uccisione della madre da parte del figlio.

Ma più famosa, ricca di notazioni “psicologiche”, è certamente il passo che descrive l’uccisione di Agrippina. La vulgata ci dice che Nerone vuole liberarsi della madre per la sua disapprovazione dell’amore del figlio verso Poppea, ma le motivazioni possono essere più politiche, vista l’ingerenza e il ricatto cui lo sottopone. Ma il gesto è pericoloso: Agrippina è ancora potente ed è amata dai militari (sorella di Germanico, fra gli uomini più venerati dai suoi soldati). Ad aiutarlo ci pensa un suo liberto, Aniceto. Il primo fallimento del piano, obbliga Nerone ad affrettare la morte della genitrice, prima che la situazione precipiti:

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Luca Ferrari: Nerone davanti al corpo di Agrippina

LA MORTE DI AGRIPPINA
(XIV, 8)

Interim, vulgato Agrippinae pericolo, quasi casu evenisset, ut quisque acceperat, decurrere ad litus. Hi molium obiectus, hi proximas scaphas scandere; alii, quantum corpus sinebat, vadere in mare; quidam manus protendere; questibus, votis, clamore diversa rogitantium aut incerta respondentium omnis ora compleri; adfluere ingens multitudo cum luminibus, atque, ubi incolumem esse pernotuit, ut ad gratandum sese expedire, donec aspectu armati et minitantis agminis deiecti sunt. Anicetus villam statione circumdat, refractaque ianua, obvios servorum abripit, donec ad fores cubicoli veniret; cui pauci adstabant, ceteris terrore inrumpentium exterritis. Cubicolo modicum lumen inerat et ancillarum una, magis ac magis anxia Agrippina, quod nemo a filio ac ne Agermus quidam: aliam fore laetae rei faciem; nunc solitudinem ac repentinos strepitus et extremi mali indicia. Abeunte dehinc ancilla, «Tu quoque me deseris» prolocuta, respicit Anicetum, trierarcho Herculeio et Obarito, centurione classiario, comitatum; ac, si ad visendum venisset, refotam nuntiaret, sin facinus patraturus, nihil se de filio credere: non imperatum parricidium. Circumsistunt lectum percussores, et prior trierarchus fusti caput eius adflixit; iam in mortem centurioni ferrum destringenti protendens uterum, «Ventrem feri» exclamavit, multisque vulneribus confecta est.

Frattanto si era sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, che si credeva del tutto accidentale, e ognuno si precipitava alla spiaggia a mano a mano che apprendeva la notizia; alcuni salivano sui moli, altri sulle barche che si trovavano a portata di mano; chi si inoltrava nel mare fin dove per la sua statura riusciva a toccare il fondo, chi tendeva le braccia; tutta la spiaggia era piena di lamenti, di invocazioni, di un vocio confuso in cui si intrecciavano domande contrastanti e risposte incerte: si andava radunando una folla immensa con le torce accese, quando giunse la notizia che Agrippina era salva, e tutti allora si avviarono per andare a congratularsi con lei, ma la vista di una minacciosa schiera di armati li costrinse a disperdersi. Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini, quindi, sfondata la porta, fece trascinare via tutti i servi che gli si facevano incontro finché giunse davanti alla porta della stanza da letto: qui stava di guardia uno sparuto gruppo di domestici, perché tutti gli altri si erano dileguati atterriti dall’irruzione dei soldati. Nella camera, illuminata da una luce fioca, si trovava una sola ancella, mentre Agrippina era sempre più in ansia perché non arrivava nessun messo da parte del figlio e non ritornava neppure Agermo: le cose sarebbero state ben diverse, all’intorno, se gli eventi avessero preso una piega favorevole; ora invece non vi era che solitudine, un silenzio rotto da grida improvvise e tutti gli indizi di una irrimediabile sciagura. Poiché l’ancella stava per andarsene, Agrippina si volse verso di lei per dirle: «Anche tu mi abbandoni?», e allora vide Aniceto accompagnato dal trierarco Erculeio e dal centurione navale Obarito. E subito gli disse che, se era venuto per farle visita, poteva riferire a Nerone che si era ristabilita; se invece era lì per compiere un delitto, ella non poteva credere che ubbidisse a un ordine del figlio: era certa che egli non aveva comandato il matricidio. I sicari circondarono il letto e il trierarca* per primo colpì al capo con un bastone; quindi il centurione impugnò la spada per finirla, e allora Agrippina, protendendo il ventre, esclamò: «Colpisci qui», e spirò trafitta da più colpi.
*comandante di una trireme.

La descrizione che fa Tacito avvicina la figura di Agrippina ad una eroina tragica; dapprima ad essere in primo piano è la folla, la cui volubilità è messa in rilievo in modo quasi sarcastico dallo storico latino, dapprima intorno alla madre dell’imperatore e poi in una fuga repentina alla vista dei soldati. L’eroina rimane sola, quando anche l’ancella l’abbandona (ricalca l’espressione riferita a Cesare: Tu quoque) per poi offrire il petto all’assassino; ma muore anche come madre: non può credere che sia stato il figlio ad ordinarne l’uccisione.

Tutto diverso è l’atteggiamento di Nerone:

SENSI DI COLPA DI NERONE
(XIV, 10)

Sed a Caesare perfecto demum scelere magnitudo eius intellecta est. Reliquo noctis modo per silentium defixus, saepius pavore exsurgens et mentis inops lucem opperiebatur tamquam exitium adlaturam. atque eum auctore Burro prima centurionum tribunorumque adulatio ad spem firmavit, prensantium manum gratantiumque, quod discrimen improvisum et matris facinus evasisset. amici dehinc adire templa, et coepto exemplo proxima Campaniae municipia victimis et legationibus laetitiam testari: ipse diversa simulatione maestus et quasi incolumitati suae infensus ac morti parentis inlacrimans. quia tamen non, ut hominum vultus, ita locorum facies mutantur, obversabaturque maris illius et litorum gravis adspectus (et erant qui crederent sonitum tubae collibus circum editis planctusque tumulo matris audiri), Neapolim concessit litterasque ad senatum misit, quarum summa erat repertum cum ferro percussorem Agermum, ex intimis Agrippinae libertis, et luisse eam poenam conscientia, qua[si] scelus paravisset.

Cesare comprese solo a delitto compiuto l’enormità del misfatto. Per il resto della notte, ora sprofondato in un silenzio di pietra, più spesso in preda a soprassalti di paura e fuori di sé, attendeva la luce del giorno, quasi che dovesse portare la sua rovina. Gli ridiede speranza il primo atto di adulazione, quello, suggerito da Burro, dei centurioni e dei tribuni, che gli prendevano le mani e si felicitavano con lui, per essere scampato all’imprevisto pericolo e all’attentato della madre. Gli amici poi corsero ai templi e, sul loro esempio, le città più vicine della Campania manifestavano, con l’offerta di vittime e l’invio di delegazioni, la loro gioia: ed egli, con rovesciata finzione, si presentava afflitto, quasi insofferente della propria salvezza e in pianto per la morte della madre. Ma poiché non muta, come il volto degli uomini, l’aspetto dei luoghi, e poiché lo ossessionava la vista opprimente di quel mare e della spiaggia (e c’era chi credeva che si udisse, sulle alture circostanti, un suono di tromba e lamenti dal luogo in cui era sepolta la madre), si ritirò a Napoli e inviò un messaggio al senato, la cui sostanza era che avevano scoperto, con un’arma, il sicario Agermo, uno dei liberti più vicini ad Agrippina, e che lei, per rimorso, come se avesse preparato il delitto, aveva scontato quella colpa.

L’enormità del gesto pesa come un macigno nell’animo dell’imperatore, che lo sconta con atteggiamenti incoerenti, quasi infantili. A sollevarlo da tale situazione ci pensano gli adulatori e qui riesce, vinta la paura, a mistificare una maggiore tranquillità con il pianto per la madre. l’importante è uscirne indenne ed il modo è quello tipico di ogni tirannia: incolpare un innocente del proprio misfatto, facendo così della madre un’ipotetica assassina del figlio per mano di un sicario, cui lo stesso figlio non poteva a sua volta che punirla per lesa maestà.

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Il rimorso di Nerone dopo l’assassinio di sua madre – J. W. Waterhouse

Sin dal ritratto del primo imperatore fino alla efferatezze dell’ultimo della dinasta Giulio-Claudia, capiamo qual è il fine di quest’opera. Se è vero che egli l’abbia scritta e pubblicata nell’età che vede il passaggio di Traiano ad Adriano, è facile poter cogliere delle analogie con la storia del primo Impero. Infatti Traiano muore l’8 agosto del 117 in Cilicia, La notizia viene data l’11. Pochi giorni per far girare la voce (rumor, cui Tacito assegna tanta importanza) che egli aveva adottato, come successore, Adriano. Pur essendo l’unico suo parente per diritto designabile, sappiamo pure che non provava nessuna stima nei suoi confronti, preferendogli Prisco, a cui l’imperatore sembrava pensare da tempo. A tessere la trama pare vi sia stata Plotina, moglie di Traiano, fortemente legata ad Adriano. Se questa è la storia, non si può vedere, nel rapporto tra Claudio e Agrippina la stessa spinta di quest’ultima per nominare suo figlio Nerone? Ma tale modo d’agire, se fosse vero, non avrebbe influito anche sul pensiero di Tacito riguardo alla assoluta irrilevanza che il Senato, cui spettava il compito anche di consigliare o approvare, aveva avuto nell’elezione e quindi un pessimismo più forte sull’agire dell’uomo e sui suoi spazi di libertà? Tutto questo agisce nell’opera tanto da far apparire gli Annales come una vera e propria “storiografia tragica”. Egli infatti si muove tra personaggi la cui sete di potere li porta necessariamente a vivere in modo tragico. Ma questo non può essere svincolato dalla realtà. La storia di ieri va letta con l’occhio del presente ed ecco allora il paragone tra Tiberio e Domiziano, che, come il primo, nell’ultimo periodo di regno, circondato dal sospetto e dalla paura, aveva incrementato fortemente le uccisioni degli avversari politici per lesa maestà. Ed è proprio quando Tacito descrive personaggi dal fascino sinistro e ambiguo, che dà il meglio di sé. Non per niente la parte meno felice che noi possediamo è quella riguardante Claudio (mancandoci, come si è detto, quella su Caligola), ma torna a giganteggiare quando parla di Nerone. Certo forse non è proprio attendibile sul piano storico (non lo giustifica affatto); ma è proprio nella statura di questo imperatore, un intellettuale malvagio, ellenizzante, a spingerlo per farlo diventare, a sua volta un eroe tragico, circondato da altri grandi attori, tutti della stessa statura, come Messalina o Agrippina, partecipi della grande tragedia della storia.

QUINTO ORAZIO FLACCO

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Quinto Orazio Flacco

Se Virgilio, grazie all’epica, potrà fregiarsi del titolo di padre della civiltà latina, Quinto Orazio Flacco può invece considerarsi il classico per eccellenza della letteratura romana e non soltanto grazie alla lirica, ma soprattutto per il modo in cui egli seppe, attraverso essa, guardare alla realtà del suo periodo, la Roma che va dall’affermazione all’apogeo di Augusto.

Biografia
 Orazio parla molto di sé nella sua opera, anche se le informazioni maggiori le ricaviamo dal De poëtis di Svetonio.
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Venosa, la cosiddetta casa d’Orazio

Nasce l’8 dicembre del 65 a. C a Venosa, località militare posta tra l’Apulia e la Lucania. Il padre è un liberto e possiede qui una piccola proprietà. Ben presto la famiglia si trasferisce a Roma, dove il padre intraprende la carriera di coactor argentarius, cioè esattore delle imposte; tale attività gli permette di offrire al figlio la migliore educazione possibile. Orazio stesso ci racconta come sin da giovane fosse costretto ad imparare i grandi dell’età arcaica dal plagosus (manesco) Orbilio. Nel 44 a. C. decide, come gran parte della buona gioventù di allora, di recarsi ad Atene per perfezionare le sue conoscenze, ma si trova invischiato nella lotta che i triumviri Antonio, Lepido ed Ottaviano stanno conducendo contro il cesaricida Bruto. Ardente di spirito libertario, il giovane Orazio sceglie di stare con quest’ultimo e combatte, come ufficiale, nella battaglia di Filippi (42 a.C.). Orazio, in una delle sue Odi (ΙΙ, 7) parla di questa battaglia e ci rammenta come egli, allo stesso modo di Archiloco

«ἀσπίδι μὲν Σαΐων τις ἀγάλλεται, ἣν παρὰ θάμνωι,
ἔντος ἀμώμητον, κάλλιπον οὐκ ἐθέλων·
αὐτὸν δ’ ἐξεσάωσα. τί μοι μέλει ἀσπὶς ἐκείνη;
ἐρρέτω· ἐξαῦτις κτήσομαι οὐ κακίω.»

del mio scudo ora uno dei Sai si fa bello: presso un cespuglio abbandonai quell’arma perfetta a malincuore; ma salvai la vita: che m’importa di quello scudo. Vada alla malora: me ne procurerò un altro non peggiore

abbandona lo scudo e se la dà a gambe.

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Giorgio Esposito: la battaglia di Filippi (1993)

ODI
(II, 7 vv. 9-12)

Tecum Philippos et celerem fugam
sensi relicta non bene parmula,
cum fracta virtus et minaces
turpe solum tetigere mento;

Con te provai Filippi e la vergogna
dello scudo gettato nella fuga,
quando vinti ma fieri
toccammo il suolo con il mento

 

Ritornato a Roma dalla battaglia di Filippi, trovandosi in ristrettezze economiche per aver perduto il fondo paterno, si riduce a fare lo scriba quaestorius, un lavoro burocratico non senza importanza. Durante questo periodo egli, con molta probabilità, inizia a scrivere e quindi, attraverso la sua prima produzione, viene a contatto con Varo e Virgilio. Saranno loro a presentarlo, per la prima volta nel 37 a. C., a Mecenate. Un incontro non facile, perché il nostro si dimostra impacciato; ma solo dopo nove mesi nasce una vera e forte amicizia che fa sì che Mecenate gli doni un piccolo fondo in Sabina.

E sicuramente Mecenate che lo avvicina ad Augusto, che gli mostra sempre un atteggiamento cordiale e di profondo rispetto per la sua ars.

Il resto della sua vita ci appare piuttosto oscuro: ma più che oscuro forse senza eventi degna di nota, se non per le opere che periodicamente lui pubblica e che lo rendono, già per gli intellettuali contemporanei e per lo stesso imperatore, un “classico”.

Infatti fu Augusto a fare di lui un poeta ufficiale, degno erede di quel Virgilio, morto nel 19, da lui tanto ammirato quanto il poeta mantovano abbia ammirato lui, quando gli commissiona il Carmen saeculare nel 17 a. C.

Orazio muore nell’8 a. C., dopo solo due mesi dall’amico Mecenate.

Opere
 
E’ difficile fare un discorso cronologico sulle opere di Orazio, in quanto egli lavora ai libri delle stesse in modo parallelo. Sarà pertanto dato qui, in modo schematico, il genere della produzione artistica del nostro:

opere a carattere satirico e moralistico: Satire (due libri) e l’Epistole (I libro);
opere a carattere teorico o di riflessione letteraria: l’Epistole (II libro) e l’Epistula ad Pisonem (o Ars poëtica);
opere a carattere giambico e lirico: Epòdi (o Iambi) e Carmina (o Odi) (IV libri)
opere a carattere celebrativo: Carmen saeculare.
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Una vecchia edizione delle Odi e degli epodi di Orazio

Epòdi
 
Ci dice Orazio in una delle Epistole:

I GIAMBI DI ORAZIO
(I, vv. 24-26)

… Parios ego primus iambos
ostendi Latio, numeros animosque secutus
Archilochi, non res et agentia verba Lycamben. 

Io per primo i giambi di Paro
portai nel Lazio, seguendo il ritmo e lo spirito
di Archiloco, non gli argomenti e le parole che perseguitavano Licambe

da cui si può arguire che gli Epòdi hanno, come concezione, una forte ascendenza letteraria. Inizia cioè quel topos del primus, che tanta parte ebbe nella cultura augustea.

Infatti, primo poeta latino, riprende i poeti greci Archiloco (VII sec. A. C.) ed Ipponatte (IV sec. A. C.), famosi per le loro invettive ed aggressività. Tuttavia Orazio ne prende subito le distanze: se infatti vuole imitarne il metro e lo spirito, non così gli argomenti.

Gli epòdi sono 17 componenti, in cui prevale il metro, appunto epodico (che indica in un distico, che il secondo verso è più breve del precedente). Il titolo oraziano era Iambi, ma, come già in Catullo, la titolazione preminente, datagli dai grammatici medievali, è di tipo metrico. Si pensa che essi siano stati composti tra il 41 e il 30, anno della loro pubblicazione (insieme al secondo libro delle Satire) e rappresentano, a livello contenutistico una certa varietà:

  • il 3, il 4, il 6 ed il 10 riprendono il tema dell’invettiva tipica del genere greco; il 3 è un divertissement (un’invettiva contro l’aglio che gli ha cucinato Mecenate) gli altri due si rivolgono più ad un “vizio” che a persone specifiche (al contrario dei giambografi greci), soltanto l’ultimo è rivolto a Mevio, cui viene augurato un naufragio:

AUGURIO DI CATTIVO VIAGGIO
(10)

Mala soluta navis exit alite
ferens olentem Mevium.
Ut horridis utrumque verberes latus,
Auster, memento fluctibus;
niger rudentis Eurus inverso mari
fractosque remos differat;
insurgat Aquilo, quantus altis montibus
frangit trementis ilices;
nec sidus atra nocte amicum adpareat,
qua tristis Orion cadit;
quietiore nec feratur aequore,
quam Graia victorum manus,
cum Pallas usto vertit iram ab Ilio
in impiam Aiacis ratem.
O quantus instat navitis sudor tuis
tibique pallor luteus,
et illa non virilis eiulatio
preces et aversum ad Iovem,
Ionius udo cum remugiens sinus
Noto carinam ruperit!
Opima quodsi praeda curvo litore
porrecta mergos iuverit,
libidinosus immolabitur caper
et agna Tempestatibus.
 

Con funesto presagio è salpata e va la nave
che porta il fetido Mevio.
Di sferzarne entrambi i fianchi con spaventose
ondate ricordati, Austro;
Euro nero sconvolgendo il mare ne possa le gomene
e i rami spezzati disperdere;
Aquilone si levi impetuoso come quando sugli alti monti
schianta i lecci tremanti;
e nessuna costellazione nella cupa notte brilli amica
là dove tramonta Orione tempestoso;
e su acque sia portato non più calme
di quelle che ebbe l’armata dei Greci vincitori,
quando Pallade dalle ceneri d’Ilio volse la sua ira
contro la nave empia di Aiace.
Oh quanto sudore attende i tuoi marinai,
e te pallore giallastro,
e quel tuo non virile piagnucolio,
e preghiere a Giove che non t’ascolta,
quando il mar Ionio mugghiando sotto le piovose raffiche
di Noto ti fracasserà la chiglia!
Se poi una preda succulenta sul lido ricurvo
lunga distesa pascerà gli smerghi,
un lascivo capro sarà da me immolato
con un’agnella alle Tempeste.

E’ questa l’unica invettiva rivolta contro una persona (sembra fosse un mediocre poeta), ma nulla ci rimanda ad un motivo, un’occasione che abbia spinto Orazio a rivolgergli l’augurio di un naufragio: guardando il modello archilocheo, ci viene qui da pensare che si tratti di un puro esercizio letterario, tanto più che è trattato secondo lo schema del propemtikòn (augurio di buon viaggio) completamente rovesciato.
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Nave d’epoca romana sommersa (dipinto)

  • l’8 ed il 12 sono rivolti a due “vecchie libidinose” che tentano di concupirlo. La loro bruttezza fisica è accentuata da una descrizione espressionistica;
  • il 5 ed il 17 descrivono invece la maga Canidia, contro le cui arti magiche il poeta si scaglia;
  • il 7 ed il 16 da una parte ed l’1 ed il 9 sono d’argomento civile: i primi due risalgono alla disfatta di Filippi (il 7 esprime il suo sdegno per la ripresa della guerra civile, il 16 invita i Romani ad andarsene nelle Isole Felici per sfuggire alla guerra); le seconde due in prossimità alla battaglia di Azio (la numero 1, che funge da dedica a Mecenate, in cui il poeta assicura fedeltà ad Ottaviano e la 9, mostrandosi in ansia, schernisce gli avversari e si prepara a brindare per la loro sconfitta;

LA FOLLIA DELLE GUERRE CIVILI
(7)
Quo, quo scelesti ruitis? aut cur dexteris
aptantur enses conditi?
Parumne campis atque Neptuno super
fusum est Latini sanguinis,
non ut superbas invidae Karthaginis
Romanus arces ureret,
intactus aut Britannus ut descenderet
sacra catenatus via,
sed ut secundum vota Parthorum sua
urbs haec periret dextera?
Neque hic lupis mos nec fuit leonibus
umquam nisi in dispar feris.
Furorne caecus an rapit vis acrior
an culpa? Responsum date!
Tacent et albus ora pallor inficit
sic est: acerba fata Romanos agunt
scelusque fraternae necis,
ut inmerentis fluxit in terram Remi
sacer nepotibus cruor

Dove, dove vi gettate voi, scellerati?
perché impugnate le spade in disarmo?
Forse non si è sparso sulla terra e sul mare
sangue latino a sufficienza?
e non perché i romani incendiassero in guerra
le rocche altere di Cartagine
o gli indomiti britanni in catene
scendessero per la Via Sacra,
ma perché, come sperano i parti, perisse
questa città di propria mano?
Non è costume questo di lupi o leoni,
feroci solo coi diversi.
Follia cieca vi travolge? forza invincibile
o colpa? Rispondete.
Tacciono, e un pallore scolora il loro volto,
la mente attonita, sgomenta.
Certo: un fato atroce perseguita i romani,
l’infamia di aver ucciso un fratello,
quando, a maledizione dei nipoti, il sangue
di Remo bagnò innocente la terra.

Ad osservare questo epodo sembra quasi che il lettore non riconosca nella voce del poeta quella pacatezza, giusta misura, quale la tradizione gli riconosce. Infatti le incalzanti interrogative, l’esempio pregnante dei lupi e dei leoni sembrano riferirsi maggiormente al sentimento dell’ira e dell’invettiva. E’ proprio dell’epodo tale stile. Difficile collocare tale passo: alcuni lo pensano come uno fra i primi quando, appena terminata la guerra di Filippi, doveva assistere alla ribellione di Perugia il pericolo con la rottura fra Ottaviano e Antonio. Certamente è il sentimento di pace che domina, vissuto più come aspirazione che realtà: per questo la poesia si apre e chiude ad anello sul termine scelesti/scelus quasi fosse destino il travaglio per i nipoti di Romolo.

  • l’11, il 14 e il 15 sono d’argomento erotico: l’11 ed il 14 riprendono il topos dell’incapacità di riprodurre versi per il troppo amore che gli riempie il cuore e la mente, mentre il 15 è rivolto ad una donna infedele.

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Moneta raffigurante Orazio

LA BELLA INFEDELE
(15)
Nox erat et caelo fulgebat Luna sereno
inter minora sidera,
cum tu, magnorum numen laesura deorum,
in verba iurabas mea,
artius atque hedera procera adstringitur ilex
lentis adhaerens bracchiis;
dum pecori lupus et nautis infestus Orion
turbaret hibernum mare
intonsosque agitaret Apollinis aura capillos,
fore hunc amorem mutuom,
o dolitura mea multum virtute Neaera:
nam siquid in Flacco viri est,
non feret adsiduas potiori te dare noctes
et quaeret iratus parem
nec semel offensi cedet constantia formae,
si certus intrarit dolor.
et tu, quicumque es felicior atque meo nunc
superbus incedis malo,
sis pecore et multa dives tellure licebit
tibique Pactolus fluat
nec te Pythagorae fallant arcana renati
formaque vincas Nirea,
heu heu, translatos alio maerebis amores,
ast ego vicissim risero. 

Era notte e la luna scintillava
tra le luci minori delle stelle
e tu alle mie parole rispondevi
“giuro”, pronta a tradire
il santo nome degli dei – io ero
avvinto alle tue morbide braccia
come l’edera stringe l’alto leccio –
“finché sarà nemico al gregge il lupo
e Orione al marinaio
quando agita il mare nell’inverno
e fin che l’aria toccherà la chioma
mai recisa d’Apollo,
tuo e mio sarà il nostro amore” –
ma molto dovrai piangere
Neera, per questo mio essere uomo!
Perché se l’uomo c’è in questo Flacco
non patirà che tutte le tue notti
le dia a chi è il più forte
e l’ira chiederà la parte uguale.
Sarà allora infallibile il dolore,
sarà fermo
davanti alle bellezza così offesa.
Io non so chi tu sia,
più fortunato,
che superbo cammini sul mio mare.
Ma puoi essere ricco e di terre e di armenti,
ti può scorrere l’oro come un fiume,
puoi essere maestro nei misteri
di Pitagora che nacque e che risorse
e superare Nireo per bellezza –
avrai la ricompensa di un amore
che va da un altro. E sarà la mia volta,
riderò.

Un epodo “erotico” che ci permette di sottolineare la profonda differenza tra la concezione d’amore catulliana e questa d’Orazio: come sappiamo anche Clodia tradisce Catullo: ma lì vi è la rottura di un foedus, d’un patto d’amore; in Orazio ad essere colpito invece è l’orgoglio che la punirà con la stessa moneta: il tradimento. Ma non finisce qui: l’invettiva è rivolta anche a colui che l’ha sostituito: quando a sua volta sarà abbondonato dalla fedifraga Neera sarà lui a ridere. Si noti l’“incipit” che sembra aver ispirato certi notturni tassiani e leopardiani.

  • Isolati gli epodi 2 e 13: il primo è un elogio della vita di campagna (con sorpresa finale, a farlo è un usuraio), il secondo apre il tema simposiaco: è infatti un invito a bere in una notte d’inverno.

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Uva: pittura parietale

Come abbiamo già accennato a caratterizzare gli Epodi e l’estrema varietas, dall’esaltazione a Mecenate alle guerre civili; alla varietà degli argomenti risponde anche una varietà di tono, che può essere indignato, affettuoso, ironico e sarcastico.

Ma l’Orazio degli Epodi è realmente irato o “finge” di esserlo? Per rispondere basta sottolineare le differenze tra la sua poesia ed il modello: se l’una è rivolta a personaggi o situazioni specifiche (almeno quanto ci è rimasto), il poeta lucano sembra maggiormente rivolgersi a “tipi” a “situazioni generiche”. Forse non sono proprio un “falso” (d’altra parte nascono all’interno di una situazione storica ancora fluida), ma già in questa produzione in versi vi appare l’Orazio fine letterato.

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Edizione Ottocentesca delle Satire

Satire
 
A definire lo stile della satira è lo stesso Orazio:

I PADRI DELLA SATIRA
(I, 4 vv. 1-7)
Eupolis atque Cratinus Aristophanesque poetae
atque alii, quorum comoedia prisca virorum est,
siquis erat dignus describi, quod malus ac fur,
quod moechus foret aut sicarius aut alioqui
famosus, multa cum libertate notabant,
hinc omnis pendet Lucilius, hosce secutus,
mutatis tantum pedibus numerisque… 

Eupoli, Cratino e Aristofano, questi poeti,
e altri, che furono gli autori della commedia antica,
se uno meritava di esser messo in berlina perché furfante o ladro,
adultero o assassino o in ogni caso
malfamato, lo bollavano senza tanti complimenti.
Da questi in tutto deriva Lucilio, che ne segue l’esempio,
mutando soltanto il metro e io ritmo.

 

che l’ascrive totalmente al poeta Lucilio, che visse, come si ricorderà in età sillana. Egli stesso ci dice che Lucilio l’avrebbe derivata dagli autori della commedia arcaica, conservando lo stile mordace irriverente, ma al contempo cambiandone il genere ed il metro. Stesso il discorso di Quintiliano che nella sua opera descrive come “poeti satirici” appunto Lucilio, Orazio e Persio. Sebbene anche Nevio ed Ennio furono autori di Satire, il poeta ed il critico latino ne danno piena paternità a Lucilio, e lo stesso Quintiliano, orgogliosamente afferma: Satura tota nostra est, rivendicando l’originalità e l’indipendenza dal modello greco. Ma a marcarne la differenza, poco dopo Orazio aggiunge:

LO STILE DI LUCILIO

(I, 4 vv. 11-14)
cum flueret letulentus, erat quod tolleret velles;
garrulus atque piger scribendi ferre laborem,
scribendi recte: nam ut multum, nil moror…

siccome scorreva fangoso, c’erano cose che avresti voluto levare;
era ciarliero e insofferente della fatica di scrivere,
di scrivere bene: perché io del molto scrivere non me ne curo.

distinguendosi dal modello e quindi mostrando la volontà di rifondare il genere, per sostituirsi e diventare a sua volta punto di riferimento.

Orazio scrive due libri di Satire in esametro, il primo tra il 40 ed il 35, anno in cui lo pubblicò, il secondo tra il 34 ed il 30. Pertanto la loro composizione coincide con quella degli Epodi.

Le prime 10 Satire del primo libro trattano:

  • Rivolta a Mecenate: si parla del raggiungimento della felicità e come tale ricerca sia illusoria; infatti raggiuntala si vuole sempre andare oltre. Per vivere se non felicemente ma in armonia con se stessi, bisognerà prendere atto di ciò che realmente ci occorre.

L’INCONTENTABILITA’ DEGLI UOMINI
(I, 1 vv. 1-20; 106-107)

Qui fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem
seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa
contentus vivat, laudet diversa sequentis?
«O fortunati mercatores» gravis annis
miles ait, multo iam fractus membra labore;
contra mercator, navim iactantibus Austris,
«Militia est potior. quid enim? concurritur: horae
momento cita mors venit aut victoria laeta.»
Agricolam laudat iuris legumque peritus,
sub galli cantum consultor ubi ostia pulsat;
ille, datis vadibus qui rure extractus in urbem est,
solos felicis viventis clamat in urbe.
Cetera de genere hoc – adeo sunt multa – loquacem
delassare valent Fabium. ne te morer, audi
quo rem deducam. si quis deus «En ego» dicat,
«iam faciam quod voltis: eris tu, qui modo miles,
mercator; tu, consultus modo, rusticus: hinc vos,
vos hinc mutatis discedite partibus. Eia,
quid statis?» nolint: atqui licet esse beatis.

 
Com’è, Mecenate, che nessuno è contento della sorte,
che la ragione gli ha dato o il caso gli gettato davanti,
e tutti invece non fanno che esaltare chi persegue una vita diversa?
«Fortunati i mercanti!», dice il soldato appensatito,
dagli anni, le membra ormai rotte dalla lunga fatica.
E il mercante, da parte sua, mentre gli Austri sballottano la nave:
« Meglio soldato. Che cos’è in fin dei conti? Ci si scontra: nel volger
di un’ora viene rapida la morte o la vittoria gioiosa».
Fa l’elogio del contadino l’esperto di diritto e di leggi,
quando sul cantare del gallo, il cliente gli batte la porta.
L’altro invece, che, per aver presentato malleverie, viene tratto in forza dalla campagna in città,
va proclamando felice chi vive in città.
Gli altri di questo genere varrebbero – tanto on numerosi – a sfinire
una lingua come quella di Fabio. Per farla breve, ascolta
dove vado a parare. Se un dio dicesse: «Ecco,
io ora farò ciò che volete: sarai mercante, tu che eri poc’anzi soldato;
tu, prima giureconsulto, sarai campagnolo. Voi da questa parte,
e voi da quest’altra, a ruoli scambiati. Ehi,
che fate lì impalati?» non vorrebbero. Eppure è dato loro di essere felici.

Il poeta ci ricorda:

est modus in rebus, sunt certi denique fines
quos ultra citraque nequit consistere rectum.

in tutto c’è dunque una misura, ci sono confini ben precisi
al di fuori dei quali il giusto non può darsi

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Auguste Rodin: Il pensatore (Parigi)

La prima satira ci porta direttamente nel nucleo ideologico del pensiero di Orazio: nell’individuazione che nessuno si contenta di ciò che è ed ha ed aspira ad essere diverso, si misura il senso dell’insoddisfazione che attanaglia l’uomo; la soluzione il poeta la trova nella misura, cioè l’equidistanza dagli eccessi (metriòtes), che sarà cantata con altri accenti nelle Odi.

  • la seconda è sempre rivolta alla ricerca del ben vivere: se si vuole far l’amore perché cercare il brivido dell’adulterio piuttosto che andare con le prostitute nate per far ciò?
  • Presentando un uomo privo del senso della misura, Orazio ci ricorda dei difetti di ognuno, prendendo in giro i saggi stoici, che pensano a se stessi come perfetti, e insegnandoci ad essere indulgenti con noi stessi.
  • E’ questa la satira in cui riconosce la paternità del genere a Lucilio. Inoltre ricorda come il padre, insegnandogli a guardare i vizi della vita altrui, lo invitasse a tenere una condotta migliore nel proprio comportamento.
  • Qui si descrive il viaggio a Brindisi affrontato insieme a Mecenate e ad altri amici;

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Colonna romana a Brindisi che segnava la fine della via Appia

VIAGGIO A BRINDISI
(I, 5 vv. 1-20)

Egressum magna me accepit Aricia Roma
hospitio modico; rhetor comes Heliodorus
Graecorum longe doctissimus; inde Forum Appi
differtum nautis cauponibus atque malignis.
Hoc iter ignavi divisimus altius ac nos
praecinctis unum: minus est gravis Appia tardis.
Hic ego propter aquam quod erat deterrima ventri
indico bellum cenantis haud animo aequo
exspectans comites. Iam nox inducere terris
umbras et caelo diffundere signa parabat.
Tum pueri nautis pueris convicia nautae
ingerere: “Huc adpelle”; “Trecentos inseris?” “Ohe
iam satis est!” Dum aes exigitur, dum mula ligatur,
tota abit hora. Mali culices ranaeque palustres
avertunt somnos; absentem cantat amicam
multa prolutus vappa nauta atque viator
certatim: tandem fessus dormire viator
incipit, ac missae pastum retinacula mulae
nauta piger saxo religat stertitque supinus.

 
Partito che fui da Roma, dalla gran città, in un modesto alloggio
Ariccia mi ospitò; ero accompagnato da Eliodoro, maestro d’eloquenza,
coltissimo: nessuno, tra i Greci, alla sua altezza. Poi Forappio,
tutta un brulicare di barcaioli e tavernieri truffaldini.
Che pigrizia, la nostra! Dividemmo il tratto in due tappe, ma sarebbe una sola
per viaggiatori un po’ più disinvolti: andando adagio l’Appia è meno faticosa.
Qui per via dell’acqua, ch’era infame, io dichiaro
guerra all’intestino; e cupo, mi riduco ad aspettare
i compagni che cenano. Ormai la notte s’accingeva
a stendere le tenebre sul mondo, a spargere le stelle in cielo.
Ed ecco, tra schiavi e barcaioli, tra barcaioli e schiavi, scoccare
scintille: “Accosta qua!”, “Quanti ne imbarchi: trecento?”, “Ehi,
basta così!”. Un’ora intera se ne va tra l’incassare i soldi
e l’aggiogar la mula. Malefiche zanzare e rane palustri
mettono in fuga il sonno. Ingaggiano una sfida un barcaiolo avvinazzato
e un viaggiatore cantano entrambi, a gara, la ragazza
lontana; finché il secondo, stanco morto, si addormenta,
e l’altro, lasciata andare al pascolo la mula, ne lega
pigramente le redini ad un masso, si corica supino, e russa.

Questa satira, di cui si riportano i solo primi versi, racconta l’esperienza di viaggio di Orazio compiuto a Brindisi, per accompagnarvi Mecenate e Cocceio Nerva, inviati in missione diplomatica da Ottaviano per rinsaldare i rapporti, che si erano fatti un po’ tesi, con Antonio. Nell’intera satira del motivo politico del viaggio e dell’importanza che esso poteva rappresentare per il rafforzamento di quel progetto di pace (che poi sapremo non riuscire) che legavano i massimi rappresentanti politici. Orazio si limita a descrivere figure, piccole macchiette, che, seppure non unite fra loro, rimandano ad un brulicare di “vita” che rendono la satira stessa assai vivace, E’ chiaro, infine, l’intento di inserirsi sulla stessa linea di Lucilio, che aveva descritto, appunto, un viaggio in Sicilia: ma non bisogna dimenticare che il tema del viaggio era molto apprezzato dai lettori di allora.

  • Ancora vengono sottolineati gli insegnamenti paterni: infatti il nobile Mecenate lo ha accolto nel suo cerchio perché, pur figlio di un liberto, gli ha trasmesso la purezza e l’integrità;
  • Viene descritto un contrasto tra due personaggi, chiamati in giudizio;
  • Il dio Priapo ci racconta le magie di una fattucchiera;
  • Qui il poeta mette in scena se stesso, che mentre passeggia viene importunato da uno “scocciatore”;

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Via Sacra

LO SCOCCIATORE
(I, 9 vv. 1–34)
 
Ibam forte via Sacra, sicut meus est mos,
nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
Accurrit quidam notus mihi nomine tantum
arreptaque manu: “Quid agis, dulcissime rerum?”.
“Suaviter, ut nunc est”, inquam “et cupio omnia quae vis”.
Cum adsectaretur, “Num quid vis?” occupo, at ille
“Noris nos” inquit, “docti sumus”. Hic ego: “Pluris
hoc” inquam “mihi eris”. Misere discedere quaerens
ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
manaret talos. “O te, Bolane, cerebri
felicem!” agebam tacitus, cum quidlibet ille
garriret, vicos, urbem laudaret. Ut illi
nil respondebat. “Misere cupis” inquit “abire:
iamdudum video. Sed nil agis; usque tenebo,
persequar. Hinc, quo nunc iter est tibi?”. “Nil opus est te
circumagi: quendam volo visere non tibi notum;
trans Tiberim longe cubat is prope Caesaris hortos”.
“Nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te”.
Demitto auricolas, ut iniquae mentis asellus,
cum gravius dorso subiit onus. Incipit ille:
“Si bene me novi, non Viscum pluris amicum,
non Varium facies: nam quis me scribere pluris
aut citius possit versus? Quis membra movere
mollius? Invideat quod et Hermogenes, ego canto”.
Interpellandi locus hic erat: “Est tibi mater,
cognati, quis te salvo est opus?”. “Haud mihi quisquam;
omnis conposui”. “Felices! Nunc ego resto.
Confice. Namque instat fatum mihi triste, Sabella
quod puero cecinit divina mota anus urna:
“hunc neque dira venena nec hosticus auferet ensis
nec laterum dolor aut tussis nec tarda podagra:
garrulus hunc quando consumet cumque: loquacis,
si capiat, vitet, simul atque adoleverit aetas”. 

Passeggiavo per combinazione lungo la Via Sacra, vecchia abitudine,
e intanto meditavo una mia sciocchezza, tutto concentrato.
Mi abborda d’improvviso un tizio di cui conosco solo il nome.
Afferra la mia mano: “Come va, carissimo?”
“Fin qui stupendamente”, gli rispondo “e t’auguro ogni bene”
Non molla, mi tallona: “Insomma, cosa vuoi?”, gli butto là. E lui:
“Dovresti pur conoscerci” dice, “siamo intellettuali”. “Avrò per te”,
gli dico, “stima ancor maggiore”. Tentando disperato di tagliar la corda
ora accelleravo il passo, ora mi fermavo a sussurrare
qualche cosa nell’orecchio del mio servo. Grondavo di sudore
fino alle calcagna. “Beato te, Bolano, spirito
bollente!”, rimuginavo a bocca chiusa. E l’altro garrulo,
ciarlava, proclamava il suo entusiasmo per le strade, la città. Io
non replicavo. “Ma tu” sogghigna, “tu non vedi l’ora di piantarmi in asso.
Da un pezzo l’ho notato. Niente da fare. Ti terrò ben stretto,
restandoti alle costole. Dove sei diretto adesso?” “Giri inutili
per te: vado a trovare una persona che certo non conosci.
E’ a letto. Sta di là dal Tevere, lontano, dalle parti dei giardini di Cesare.”
“Non ho nessun impegno, e non sono affatto pigro: t’accompagno”.
Mi si abbassano le orecchie come a un somarello rassegnato suo malgrado
quando sul dorso gli grava una soma più pesante. Quello ricomincia:
“Mi conosco bene: la mia amicizia ti sarà preziosa almeno quanto
quella con Visco e Vario. Ti sfido a trovare chi sappia scrivere
più versi e più velocemente: chi danzi con maggiore
grazia. Se udisse il mio canto persino Ermogene m’invidierebbe”.
Era giunto il momento d’interromperlo: “hai ancora la madre,
dei parenti cui stia a cuore il tuo stato di salute?”. “Più nessuno,
tutti li ho sepolti”. “Beati! Io, purtroppo, sopravvivo.
Dammi il colpo di grazia: un tragico destino incombe su di me. Una vecchia
Sabina, scuotendo l’urna, per i vaticini (ero fanciullo), lo predisse.
‘Questo ragazzo non l’ammazzeranno terribili veleni, spade nemiche,
attacchi di pleurite o tisi o podagra che rallenta il passo;
lo porterà alla tomba, un giorno o l’altro, un chiacchierone. Uscito dunque
dalla pubertà, abbia buon senso di stare alla larga dai loquaci”.

Il racconto prosegue con l’intenzione del “seccatore” di essere presentato a Mecenate, e, mostrando ad Orazio le bassezze di cui è capace pur di ottenere lo scopo. Intanto s’avvicina un amico di Orazio, che conosce bene il tipo, e per questo, vuol far dispetto al poeta, facendo lo gnorri. Poi finalmente lo scocciatore sembra esser preso da fretta improvvisa; infatti vede arrivare il suo avversario, aveva citato in giudizio, e prega Orazio di essergli testimone.
Può sembrare una satira facile, divertente, un tranche de vie costruito su un piccolo prepotente e il pavido Orazio. Ma non è così. Pur con ironia ciò che sta alla base della racconto oraziano un forte moralismo e questo viene espresso attraverso una costruzione quasi tragica: i due attori che si scambiano continue battute (il servo e poi l’amico sono quasi completamente muti), il destino avverso del protagonista, ed infine l’intervento del deus ex machina che risolve la questione.

  • In quest’ultima satira del primo libro, Orazio torna a parlare di letteratura e del suo modo di poetare. Egli è certo di essere apprezzato dai suoi docti

Il secondo libro di Satire, pubblicate, come detto nel 30, sono otto e trattano:

  • Qui Orazio si rivolge ad un giurista per ricevere risposte sulla sua attività di scrittore satirico; ascoltata la sentenza secondo cui essa è inutile, gli si risponde che questa è la sua vocazione;
  • Il contadino Ofello rivolge una lode al cibo modesto; ma anche questa satira ha valore sapienziale in quanto rimanda al concetto del “giusto mezzo”
  • Qui si sviluppa, tramite le parole di filosofo, il tema secondo cui “siamo tutti folli”;
  • Ancora, riprendendo Lucilio, una satira “gastronomica”, raccontata come fosse di norme filosofiche;
  • Appare il fantasma di Tiresia a consigliare ad Ulisse, dopo aver a lungo viaggiato a ricostruire la sua eredità;
  • Ringraziando Mercurio, per il dono fattogli da Mecenate della villa in Sabina, il poeta svolge in questa satira un appassionato elogio della vita di campagna;

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TOPO DI CAMPAGNA E TOPO DI CITTA’
(II, 6 vv. 80-117)
 
Rusticus urbanum murem mus paupere fertur
accepisse cavo, veterem vetus hospes amicum,
asper et attentus quaesitis, ut tamen artum
solveret hospitiis animum. Quid multa? Neque ille
sepositi ciceris nec longae invidit avenae,
aridum et ore ferens acinum semesaque lardi
frusta dedit, cupiens varia fastidia cena
vincere tangentis male singula dente superbo,
cum pater ipse domus palea porrectus in horna
esset ador loliumque, dapis meliora relinquens.
Tandem urbanus ad hunc “Quid te iuvat” inquit, “amice,
praerupti nemoris patientem vivere dorso?
Vis tu homines urbemque feris praeponere silvis?
Carpe viam, mihi crede, comes, terrestria quando
mortalis animas vivunt sortita neque ulla est
aut magno aut parvo leti fuga: quo, bone, circa,
dum licet, in rebus iucundis vive beatus,
vive memor, quam sis aevi brevis. “Haec ubi dicta
agrestem pepulere, domo levis exsilit; inde
ambo propositum peragunt iter, urbis aventes
moenia nocturni subrepere. Iamque tenebat
nox medium caeli spatium, cum ponit uterque
in locuplete domo vestigia, rubro ubi cocco
tincta super lectos canderet vestis eburnos
multaque de magna superessent fercula cena,
quae procul exstructis inerant hesterna canistris.
Ergo ubi purpurea porrectum in veste locavit
agrestem, veluti succinctus cursitat hospes
continuatque dapes nec non verniliter ipsis
fungitur officiis, praelambens omne quod adfert.
Ille cubans guadet mutata sorte bonisque
rebus agit laetum convivam, cum subito ingens
valvarum strepitus lectis excussit utrumque.
Currere per totum pavidi conclave magisque
exanimes trepidare, simul domus alta Molossis
personuit canibus. Tum rusticus:” Haud mihi vita
est opus hac” ait et “ valeas: me silva cavosque
tutus ab insidiis tenui solabitur ervo”.

Un rustico topo un topo urbano si dice accogliesse
nella povera tana, il vecchio ospite il vecchio amico
severo e parsimonioso, ma capace di sciogliere
il chiuso animo all’ospitalità. Che dire? Né quello
risparmiò il cece messo da parte né la lunga avena,
portando alla bocca chicchi di uva secca e lardo
per metà rosicchiato diede in pezzetti, desiderando
vincere il fastidio di chi mal toccava i singoli pezzi
con dente superbo, grazie a una cena variegata,
mentre lo stesso padrone di casa, su fresca paglia disteso,
mangiava loglio e farro, lasciando il meglio del banchetto.
Allora l’urbano disse a questi: “Che ti giova, o amico,
vivere a fatica sul dorso di un bosco a precipizio?
Vuoi tu anteporre gli uomini e la città alle selvagge selve?
Prendi la strada, credimi, o compagno, poiché le creature
terrestri vivono anime mortali ricevute in sorte
e per il grande e per il piccolo non c’è alcuna fuga dalla morte:
per questo, mio caro, finché ti è lecito, vivi beato
in mezzo ai piaceri, ricordati che la vita è breve.” Quando queste
parole convinsero il campagnolo, questi salta via leggero dalla sua casa,
poi entrambi fanno il viaggio stabilito, con il desiderio
di strisciare sotto le mura della città di notte. Già alta era la notte,
quando i due mettono le loro impronte in una ricca dimora,
dove una coperta tinta di rosso scarlatto brillava sopra
letti di avorio e restavano molti piatti da una grande cena,
rimasti da parte in cesti pieni dal giorno prima. L’ospite,
fatto sdraiare il campagnolo sul tappeto purpureo,
come uno schiavo con vesti arrotolate, corre su e giù,
porta una pietanza dopo l’altra e fa il servizio come
lo schiavo di casa, prima assaggiando tutto ciò che serve.
L’altro se ne sta sdraiato e gode della mutata sorte
e in mezzo a queste delizie, fa il convitato felice,
quando d’improvviso un grande strepito di porte li fece sobbalzare
dai letti. Allora corsero via impauriti per tutta la sala,
tremarono senza fiato, quando l’alta dimora risuonò per i latrati
dei cani molossi. Allora il topo di campagna disse: “Non fa per me
questa vita, ti saluto, la mia tana nel bosco, sicura
dai pericoli, mi consolerà dei miei pochi legumi”.

Favoletta diventata celeberrima rappresenta una specie di apologo sulla condizione umana desiderata da Orazio stesso, che rivendica per sé un ideale di vita qui rappresentato dal mus rusticus. La perizia oraziana sta tutta nel descrivere due topi reali nel loro agire ed “umani” nel loro dialogare, caratterizzati anche da un linguaggio potremo dire diverso, perché diversa è la loro classe sociale. Si nota tuttavia una certa “incoerenza” del poeta, ma a sottilinearla ci pensa Orazio stesso.

  • Secondo il costume dei Saturnali a prendere la parola è il servo Davo che fa una vera e propria predica al suo padrone Orazio, a cui il padrone riesce a porre termine con le minacce;

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Ernesto Biondi: Saturnali (1890)

DAVO RIMPROVERA ORAZIO
(II, 7 vv. 22-35)

“Laudas
fortunam et mores antiquae plebis, et idem
si quis ad illa deus subito te agat, usque recuses,
aut quia non sentis quod clamas rectius esse,
aut quia non firmus rectum defendis, et haeres
nequiquam caeno cupiens evellere plantam.
Romae rus optas, absentem rusticus urbem
tollis ad astra levis. Si nusquam es forte vocatus
ad cenam laudas securum holus ac, velut usquam
vinctus eas, ita te felicem dicis amasque
quod nusquam tibi sit potandum. Iusserit ad se
Maecenas serum sub lumina prima venire
convivam: “nemon oleum fert ocius? Ecquis
audit?” cum magno blateras clamore fugisque.

 
“Tu lodi
la maniera di vivere e i costumi del buon tempo antico, ma tu stesso,
se un dio di punto in bianco volesse farti risalire a quella età, mai ti decideresti
o perché non senti che sia migliore ciò che predichi,
o perché, privo di costanza, difendi il bene e resti impagliato
nel fango, da cui invano desideri staccare i piedi.
A Roma tu sospiri la campagna; quando sei in villa, volubile,
levi alle stelle la città lontana. Se per caso da nessuno sei invitato
a cena, esalti il tuo tranquillo piatto di legumi e, come se,
ovunque vai, andassi trascinato a forza, ti proclami così felice
e ti compiaci di non dover andare da nessuna parte. Ma lascia
che t’inviti Mecenate, ad andare da lui commensale sul tardi,
all’accendersi dei primi lumi: “nessuno mi porterà un po’ d’olio? Siete
tutti sordi?” sbraiti con grande schiamazzo e poi di corsa.

Prendendo a pretesto la festa dei Saturnali (una specie del nostro Carnevale) in cui i ruoli venivano rovesciati, Orazio può mettere in bocca al suo servo tutte le sue contraddizioni e debolezze, non potendosi, cioè su un piedistallo a stigmatizzare comportamenti altrui, ma facendosi uomo tra gli uomini con i propri vizi e le proprie virtù, descritte con ottima capacità di autoanalisi e d’ironia.

  • Qui viene descritto il banchetto di un uomo ricco ma assolutamente privo di eleganza.

Al di là delle pur necessarie precisazioni dei contenuti delle singole satire ad emergere è l’atteggiamento del poeta di fronte ad un genere che non conosceva un “modello” letterario greco da emulare, quanto invece un modello romano, certamente da superare per diventare, lui stesso, un pater di questo genere latino. E’ qui che va a commisurarsi l’ambivalenza che egli nutre verso Lucilio: come primus (così da lui, e da Quintiliano, reputato) è certamente lui, ma sarà Orazio a dover essere guardato, in futuro, come nuovo “modello” a cui ispirarsi: infatti darà alla satira quella cura formale che non contrasta anzi accentua con il sermo cotidianus che utilizza. Egli infatti li definisce Sermones, chiacchierate, che non nascondono, tuttavia un sottofondo moraleggiante. Esso trova la sua linfa, oltre che sulle convinzioni oraziane vere e proprie, tipiche del suo pensiero in ogni sua opera, sulle speculazioni filosofiche diatribiche svolte dai cinici. Queste ultime erano infatti delle demistificazioni di verità etiche attraverso esempi tratti dal quotidiano portati avanti da filosofi di strada il cui compito era di scandalizzare. Niente di tutto questo in Orazio, dove l’esempio etico viene sì stigmatizzato, ma mitigato da un profonda autoironia.

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Giacomo De Chirico: Quinto Orazio Flacco

Odi

Le Odi di Orazio sono 103 e sono suddivise in 4 libri, di cui i primi tre scritti tra il 30 e il 23, quando furono pubblicate, l’ultimo libro nel 13.

L’opera, chiamata anche Carmina, è certamente la più ambiziosa, se egli, nella I del primo libro, dedicata a Mecenate, afferma:

A MECENATE
(I, 1 vv. 29- 36)
 
Me doctarum hederae praemia frontium
dis miscent superis, me gelidum nemus
Nympharumque leves cum Satyris chori
secernunt populo, si neque tibias
Euterpe cohibet nec Polyhymnia
Lesboum refugit tendere barbiton.
Quod si me lyricis vatibus inseres,
sublimi feriam sidera vertice.
 

Ma l’edera che premia la fronte dei sapienti
mi porta tra i Celesti, un fresco bosco,
un coro di spiriti lievi del bosco,
se Euterpe sceglie il flauto,
e la Musa dell’inno tocca corde Lesbie,
mi portano lontano dalla mia gente. Mecenate,
se mi comprenderai tra i poeti che hanno nome della lira
con una mano toccherò le stelle.

Vengono qui sottolineati due aspetti fondamentali: da una parte la sottolineatura di essere tra i docti e quindi tra i poëtae, qualifica che ancora non era valida per i Sermones, ed ancora come questa scelta lo porti nell’isola di Lesbo, cioè là dove ha operato il poeta Alceo e la poetessa Saffo, cioè tra i lirici. E’ evidente che tale scelta lo allontani, ancor di più, dal vulgus; ma questo ormai è il segno di chi vuol dare vita ad una lirica che abbia su di sé l’imprimatur della classicità.

In ogni libro, pur presentando tematiche non riconducibili a temi precisi, possiamo individuare dei nuclei ispirativi che li caratterizzano:

I libro, composto di 38 componimenti si apre, con la dedica a Mecenate: maggiormente numerose appaiono le poesie che celebrano la gioia del convito, spesso accompagnate da riflessioni sulla brevità della vita:
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NON INTERROGARE IL DOMANI (I, 9)

Vides ut alta stet nive candidum
Soracte, nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto.

Dissolve frigus ligna super foco
large reponens atque benignius
deprome quadrimum Sabina,
o Thaliarche, merum diota.

Permitte divis cetera, qui simul
stravere ventos aequore fervido
deproeliantis, nec cupressi
nec veteres agitantur orni.

Quid sit futurum cras fuge quaerere et
quem fors dierum cumque dabit lucro
adpone, nec dulcis amores
sperne, puer, neque tu choreas,

donec virenti canities abest
morosa. Nunc et Campus et areae
lenesque sub noctem susurri
composita repetantur hora,

nunc et latentis proditor intumo
gratus puellae risus ab angulo
pignusque dereptum lacertis
aut digito male pertinaci.

Tu guarda come svetta il Soratte chiaro
di neve alta, quasi non regge il peso
la selva stanca, e osserva i corsi
d’acqua rappresi nel gelo acuto.
Ma sciogli il freddo dando vigore al fuoco
con altra legna, senza timore poi
il vino puro di quattr’anni
versa dall’anfora, mio Taliarco.
Il resto lascia tutto agli dèi, che appena
sul mare grosso placano i venti forti
tra loro in lotta, non stormisce
più il cipresso né l’orno vecchio.
Al tuo domani non ci pensare, segna
qualunque giorno voglia donarti il caso
a tuo guadagno e non sprezzare,
tu che sei giovane, amori e danze,
finché capelli bianchi e malanni stanno
da te lontani. Ora più spesso invece
la sera scendi al Campo, in piazza,
corri ai sussurri di chi ti aspetta,
ritorna al caro riso con cui si svela
la tua ragazza ferma nel buio fitto,
al pegno tolto dal suo braccio,
dalle sue dita che stringe piano.

L’inizio dell’ode e tratto da Alceo, ma la citazione è ben lontana dallo sviluppo, che subito piega verso la “romanizzazione” del testo e più ancora verso le tematiche tipiche della poesia oraziana. La prima avviene attraverso la descrizione di un paesaggio tipicamente laziale, la seconda, invece è strutturata secondo la grazia e la levità del dettato oraziano: dapprima il paesaggio invernale (ritratto secondo la convenzione del freddo e della neve), quindi per difendersi l’intimità, il fuoco ed il vino; terzo momento riflessione gnomica sullo scorrere del tempo e l’imprevedibilità del futuro (quid sit futurum cras fuge quaerere) per terminare con l’arrivo della primavera dove il passaggio si fa urbano e svela i giochi erotici della gioventù (di forte ascendenza ellenistica)

o ancora la celeberrima:
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Daniela Cataldi: Carpe diem

CARPE DIEM
(1,9)

Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quidquid erit pati!
seu plures hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.

Non chiedere, o Leuconoe, (non è lecito saperlo) qual fine
abbiano a te e a me assegnato gli dèi,
e non tentare calcoli babilonesi. Quant’è meglio accettare
quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni,
oppure ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno
contro gli scogli, sii saggio, filtra vini, tronca
lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso
tempo. Afferra l’attimo, credi al domani quanto meno puoi.

Brevissimo carmen da cui generano, con naturalezza, i temi più tipici della poesia oraziana, nonché temi, oserei dire, universali per la loro valenza umana e filosofica: dalla riflessione dello scorrere del tempo e dell’esigenza di non interrogare il domani ne derivano il gusto della vita, contro la malinconia, la gioia dell’amore che sottende tutto il testo che si esprime attraverso un intima convivialità: nessun peso nell’invitarci al carpe diem epicureo, ma solo una riflessione di quanto sia importante saper godere di ciò che la vita quotidianamente ci offre.

Per la poesia erotica riportiamo questo delicato ritratto adolescenziale:

CLOE
(1, 23)

Vitas inuleo me similis, Chloe,
quaerenti pavidam montibus avis
matrem non sine vano
aurarum et siluae metu.
 
Nam seu mobilibus veris inhorruit
adventus foliis seu virides rubum
dimovere lacertae,
et corde et genitus tremit.
 
Atqui non ego te tigris ut aspera
Gaetulusve leo frangere persequor:
tandem desine matrem
tempestiva sequi viro. 

Tu mi eviti, o Cloe, come un cerbiatto
che per impervie balze la sgomenta
madre ricerchi, scosso
dal fogliame e dal vento,
che se, giungendo primavera, appena
freme una foglia, o un viscido serpente
smuove il roveto, trema
nelle gambe e nel cuore.
Ma non ti seguo, io, per lacerarti,
come una tigre o un leone getulo:
non cercare tua madre,
sei da marito ormai.
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Ritratto di giovane donna

Sa osservare Orazio, che oltre a conoscere la poesia topica dell’adolescente oggetto d’attenzione per gli uomini, di cui è spia il nome greco Cloe, letteralmente “erba tenera e verde”, le prime paure e il vago tremore di chi, non ancora donna, sente tuttavia i primi segni di un corpo trasformantesi in oggetto di desiderio; ma non manca la capacità ironica del nostro che sa ben sottolineare, sempre con leggerezza ed ironia, il passaggio del tempo.

Il II libro comprende 20 componenti in cui vengono ripresi temi già trattati come quello del convito, della morte incombente, dell’amore: Ma si ripetono anche quelli che contengono delle pillole di saggezza gnomica, tratte sempre dalla speculazione epicurea e quella cinico-stoica.

Eccone un esempio:
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Felix Vallotton: Il vento

AUREA MEDIOCRITAS
(II, 10)

Rectius vives, Licini, neque altum
semper urgendo neque, dum procellas
cautus horrescis, nimium premendo
litus iniquum.
 
Auream quisquis mediocritatem
diligit, tutus caret obsoleti
sordibus tecti, caret invidenda
sobrius aula.
 
Saepius ventis agitatur ingens
pinus et celsae graviore casu
decidunt turres feriuntque summos
fulgura montis.
 
Sperat infestis, metuit secundis
alteram sortem bene praeparatum
pectus: informis hiemes reducit
Iuppiter, idem
 
submovet; non, si male nunc, et olim
sic erit: quondam cithara tacentem
suscitat Musam neque semper arcum
tendit Apollo.
 
Rebus angustis animosus atque
fortis adpare, sapienter idem
contrahes vento nimium secundo
turgida vela.

 
Vivrai con maggior saggezza, Licinio, se non ti
spingerai sempre verso il mare aperto e se non rasenti
eccessivamente la costa pericolosa
mentre, cauto, provi orrore delle tempeste.
Chi ama la dorata via di mezzo,
sicuro evita la miseria di una casa
fatiscente e sobrio un palazzo
che susciti invidia.
Più spesso l’alto pino è scosso dai venti
e le torri elevate cadono con rovina
maggiore ed i fulmini feriscono
le cime dei monti.
Un animo ben agguerrito spera
nelle sventure e nelle fortune teme il cambiamento
della sorte. Giove ogni anno porta lo squallido inverno
ed egli stesso poi lo allontana.
Non sarà sempre così, se ora va male:
talvolta Apollo risveglia con la cetra
a musa che tace e non sempre
tende il suo arco.
Mostrati forte e coraggioso
nelle sventure; tu stesso saggiamente
ritirerai le vele gonfie per un vento
eccessivamente favorevole.

Nel verso 5 di quest’ode troviamo il concetto che, pur di Orazio, lo banalizza presso il largo volgo (cosa da lui aborrita) auream quisquis mediocritatem diligit: non si tratta, se si vuole, come già per il carpe diem di accontentarsi, ma di non vivere la vita superficialmente. E’ vero, è già stato detto, non soltanto da Orazio, ma anche da molti altri poeti greci: ma non è compito di un classicista e classico a sua volta inventare nuovi concetti, quanto dialogare e rielaborarli ed inserirli nella nuova realtà in cui il poeta stesso si trova. Potremo dire che tale atteggiamento sia fondamentale nel clima politico ed ideologico augusteo: non nascondersi e non apparire, appunto, scusarsi per non voler scrivere un “nuovo” poema (recusatio), ma sentirsi grandi poeti da voler confrontarsi Pindaro, cantore ufficiale delle idealità greche.

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Medaglia ungherese di guerra con il motto oraziano

Il III libro si apre con le sei famose odi romane, tutte datate dopo il 27.

DULCE ET DECORUM
(III, 2 vv. 13-20)
 
Dulce et decorum est pro patria mori:
mors et fugacem persequitur uirum
nec parcit inbellis iuuentae
poplitibus timidoue tergo.
 
Virtus, repulsae nescia sordidae,
intaminatis fulget honoribus
nec sumit aut ponit securis
arbitrio popularis aurae

E’ per la patria bello e pio soccombere:
la Morte incalza anche chi la evita,
né risparmia i polpacci o il tergo
timoroso di un giovane imbelle.
La virtù, ignara di ripulse sordide,
brilla di onori immacolati e fulgidi
non prende o depone le scuri
secondo il capriccio del popolo.

Come si dimostra in questo passo l’ode è di valore civile, con quello che, anche nel nostro secolo è diventato un motto militare. Qui ci troviamo di fronte ad una espressione tipicamente pindarica, che dà il segno dell’ispirazione cui sono espressione queste opere: l’esaltazione del mos maiorum, l’esaltazione della grandezza di Roma, ottenuta anche grazie ai sacrifici dei giovani, la lode verso Augusto, uomo che ha saputo, anche attraverso questi ideali, riportare la pace a Roma, non è un caso, forse che dopo la pubblicazione di tale libro, sarà affidato proprio ad Orazio il Carmen saeculare.

Le altre 24 odi, anch’esse fra le più celeberrime di Orazio, riprendono toni già cantati. Spiccano tuttavia due carmina, uno di perfezione lirica e descrittiva:
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Carl Frommel: Incisione della Fonte Bandusia

FONTE BANDUSIA
(III, 13)
 
O fons Bandusiae splendidior vitro,
dulci digne mero non sine floribus,
cras donaberis haedo,
cui frons turgida cornibus
primis et venerem et proelia destinat.
Frustra: nam gelidos inficiet tibi
rubro sanguine rivos lascivi suboles gregis.
Te flagrantis atrox hora Caniculae
nescit tangere, tu frigus amabile fessis
vomere tauris praebes et pecori vago.
Fies nobilium tu quoque fontium
me dicente cavis impositam ilicem
saxis, unde loquaces
lymphae desiliunt tuae. 

O fonte di Bandusia che brilli più del vetro
e meriti il dolce vino e le corone,
domani ti verrà dato un capretto
col gonfio delle corna che gli nascono
per destinarlo alla lotta e all’amore:
no, la creatura vivida del gregge,
arrosserà di sangue,
le tue acque di gelo.
La spietata Canicola non sa
toccarti. E offrì la frescura amata
ai tori stanchi d’aratura,
al bestiame errabondo. Anche tu
sarai tra le fontane celebrate,
perché parlo di un leccio che sovrasta
la tua grotta e la roccia da cui balza
la tua acqua purissima che parla.

Poesie tra le più celebri di Orazio. Non importa capire qui se tale fonte sia in un suo luogo d’infanzia e nella villa regalatagli da Mecenate: quel che conta è la perfetta aderenza con il leptos callimacheo, ovvero la leggerezza di una poesia breve. L’immagine tuttavia è teocritea: cioè vi è una chiara presenza della natura. Il sacrificio del capretto e l’arsura dei buoi ci rimandano a quella partecipazione emotiva con il mondo animale che, almeno per questo testo, lo fa vicino al Virgilio delle Georgiche.

Il terzo libro si chiude con una poesia in cui, a conclusione della sua fatica, si lascia andare all’orgoglio di aver fatto qualcosa d’importante:
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Anne e Patrick Poirier: Exegi monumentum aere perennius (1998, Prato, Firenze) 

ORGOGLIO DI POETA
(III, 30)

Exegi monumentum aere perennius
regalique situ pyramidum altius,
quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar, multaque pars mei
vitabit Libitinam: usque ego postera
crescam laude recens, dum Capitolium
scandet cum tacita virgine pontifex.
Dicar, qua violens obstrepit Aufidus
et qua pauper aquae Daunus agrestium
regnavit populorum, ex humili potens
princeps Aeolium carmen ad Italos
deduxisse modos. Sume superbiam
quaesitam meritis et mihi Delphica
lauro cinge volens, Melpomene, comam.

Ho eretto un monumento più perenne del bronzo
più alto dell’elevate piramidi regali,
tale che non la pioggia che consuma, non l’impotente Aquilone
possa distruggere o l’innumerevole
serie degli anni e la fuga dei tempi.
Non morirò del tutto, e gran parte di me
eviterà Libitina: io continuerò a crescere
rinnovato nella lode futura, mentre il pontefice
salirà il Campidoglio con una tacita vergine.
Sarò detto, là dove il violento Aufido rumoreggia
e là dove il povero d’acqua Dauno sul rustico
popolo regnò, da umile grande
per primo aver dedotto il carme eolico
agli italici ritmi. Assumi il superbo
orgoglio con i meriti e cingimi benigna
con l’alloro delfico, o Melpomene.

I manoscritti che ci hanno tramandato le Odi oraziane, alla fine di questo componimento recano scritto: Q. Horatii Flacci carminum liber III explicit, ad indicare che con questa ode il poeta mise la parola fine alla raccolta Carmina in tre libri, del 23. L’orgoglio con cui egli esprime la sua gioia di poeta non è tuttavia da considerarsi contraddittorio rispetto al sui senso della misura, così presente nella sua produzione: è che egli si sente profondamente consapevole di aver terminato, nel riportare i metri alcaici e saffici di aver completato l’iter dei neoteroi. Roma quindi, con lui, può annoverare un’altra conquista, quella del genere lirico. Per questo se il problema del tempo che passa è stato così vivo e così fortemente accettato come uomo, ora questo tempo cessa di essere limitato ed acquista il valore dell’eternità. Eternità del tempo poetico in Orazio: ancora in Foscolo sembrano permanere le conquiste del poeta romano.

Il IV libro viene composto nel 13, dopo 10 anni della prima pubblicazione, con 15 soli componimenti. Sembra che l’insuccesso della prima raccolta lo abbia riportato verso forme più care al suo pubblico, come quello delle Epistolae: egli infatti soltanto dopo esse si deciderà per questa nuova raccolta. Anche qui vengono presentati temi come l’amore, la poesia, la riflessione sulla morte, ed altre poesie ancora civili.

Interessante è il modo in cui egli, in età ormai matura, si avvicina all’amore:

FILLIDE
(IV, 11)
 
Est mihi nonum superantis annum
plenus Albani cadus, est in horto,
Phylli, nectendis apium coronis,
est hederae vis
 
multa, qua crinis religata fulges;
ridet argento domus, ara castis
vincta verbenis avet immolato
spargier agno;
 
cuncta festinat manus, huc et illuc
cursitant mixtae pueris puellae,
sordidum flammae trepidant rotantes
vertice fumum.
 
Ut tamen noris, quibus advoceris
gaudiis, Idus tibi sunt agendae,
qui dies mensem Veneris marinae
findit Aprilem,
 
Iure sollemnis mihi sanctiorque
paene natali proprio, quod ex hac
luce Maecenas meus adfluentis
ordinat annos.
 
Telephum, quem tu petis, occupavit
non tuae sortis iuvenem puella
dives et lasciva tenetque grata
compede vinctum.
 
Terret ambustus Phaethon avaras
spes et exemplum grave praebet ales
Pegasus terrenum equitem gravatus
Bellerophontem,
 
semper ut te digna sequare et ultra
quam licet sperare nefas putando
disparem vites. age iam, meorum
finis amorum
 
– non enim posthac alia calebo
femina -, condisce modos, amanda
voce quos reddas: minuentur atrae
carmine curae.

Ho un’anfora piena di vino albano
che ha piú di nove anni, e c’è nell’orto,
Fíllide, l’apio per le tue corone;
e rigogliosa è l’edera
che fra i capelli ti farà risplendere;
brilla d’argenti la casa; e l’altare avvolto
di verbena chiede in rito
il sangue di un agnello.
Ogni mano è in faccende; in ogni luogo
corrono insieme ragazzi e fanciulle;
guizzano le fiamme esalando in cima spire
di fumo nero.
Ma sai a quali gioie
sei invitata? Le Idi, queste devi celebrare,
che dividono il mese sacro a Venere marina,
ora d’aprile:
ed è, giusto per me, giorno solenne
forse più sacro del mio compleanno, perché da oggi
conta Mecenate il fiume
dei suoi anni.
Tèlefo, il giovane che tu desideri, non fa per te:
l’ha preso una fanciulla ricca, spensierata,
e in dolci catene
cosí lo tiene avvinto.
Fuga il fuoco di Fetonte ogni insana
speranza; e Pègaso, il cavallo
alato che rifiutò l’uomo
Bellerofonte,
ti ammonisce severo a cercare solo
ciò che ti si addice e, poiché empio
è sperare oltre il lecito, ad evitare chi non t’assomiglia.
Ultimo amore mio
(nessuna piú riscalderà
il mio cuore) impara i ritmi
che con voce amabile mi ripeterai:
dileguerà al canto ogni
fosco pensiero.
 

E’ questa l’ultima poesia d’amore delle Odi. Qui il poeta invita Fillide (anch’esso nome tradizionale) ad un banchetto per il compleanno di Mecenate; dopo aver scritto i preparativi, la poesia piega verso i nuovi amori di Fillide, ma il giovane che lei ama, ama a sua volta una giovane e ricca fanciulla. Conviene va Fillide, che ricca non è, a posare il suo sguardo verso persone a lei più confacenti, al poeta stesso: il canto e la poesia, l’allevieranno la tristezza. Questo piccolo quadretto non nasconde ti temi cari: il tema simposiaco, l’amicizia per Mecenate, l’esortazione all’equilibrio, e, non ultimo, il tema dell’eternità della poesia.

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Vecchia foto del 1924

Carmen saeculare
 
Questo carme si può accostare alla sua produzione lirica, scritto in occasione dei Ludi saeculares in onore delle due divinità Apollo e Diana, protettori di Roma. Il carme venne eseguito da due cori: uno di giovani vergini e l’altro da casti ragazzi. Tale commissione, affidatagli da Augusto, oltre a dirci l’alta considerazione in cui era tenuto presso la corte augustea, ci offre il segno di come, grazie all’altezza della sua poesia, fosse stato chiamato a compiere atti ufficiali.
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Manoscritto che riporta la vita do Orazio

Epistulae
 

Le Epistolae, opera poetica oraziana, si riallaccia, stilisticamente e, in parte contenutisticamente alle Satire: non è un caso che anch’esse prendano il nome di Sermones e che il metro sia lo stesso, l’esametro dattilico.

Esse sono una raccolta di “lettere” scritte in versi e a farne un opera unitaria nella letteratura latina sembra sia stato proprio Orazio, che anche qui, come nelle Odi, dichiara orgogliosamente la sua novità. Tale opera è composta in due libri, di cui il primo in 20 componimenti e il secondo di soli 2, ma fra loro vi è la lunga e articolata Ars poetica, e scritta dopo la pubblicazione dei primi tre libri delle Odi.

La forma epistolare costringe il nostro ad una maggiore attenzione allo stile del sermo cotidianus, già precedentemente usato nelle Satire. Ma qui appare più stringente il fine morale, che prevale su quello narrativo. E’ che il nostro è invecchiato e non riesce più a ridere o sorridere come un tempo; non è che qui manchino spunti ironici, è che tutta l’opera è sottesa da una profonda malinconia, dove si acuiscono i temi dell’autàrkeia e della metriòtes, ma dove sembra si sottolinei la continua ricerca con una approfondimento critico verso se stesso che forse precedentemente mancava.

Importante tra le Epistole è l’Ars poetica, dedicata alla famiglia degli Scipioni (la datazione è incerta). Qui egli delinea la figura del perfetto poeta, ma accorda soprattutto l’importanza al teatro classico.

Ciò avviene per due ragioni:

  • Riprende il modello della Poetica aristotelica che proprio sul teatro in quanto arte che meglio sviluppa il concetto di “mimes” poneva la propria attenzione ed importanza;
  • La volontà di Augusto di ripristinare a Roma tale genere, a cui Orazio risponde per lo meno da un punto di vista teorico,

 

GIUSEPPE UNGARETTI

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Giuseppe Ungaretti

Con la personalità del poeta Ungaretti, ci muoviamo ancora una volta con la figura di un intellettuale la cui formazione avviene ai margini, fuori dai centri culturali italiani che sembravano essere punti crocevia per il passaggio di idee e di nuova cultura, come Roma, Milano o Firenze (capitali allora di un vivace dibattito all’interno delle riviste come La Voce o Lacerba).

Giuseppe Ungaretti nasce, infatti, ad Alessandria d’Egitto da genitori di origine lucchese: il padre, operaio per lo scavo di Suez, muore giovane, lasciando il bimbo Giuseppe, di soli due anni, alle cure del fratello maggiore, Costantino, e della madre, donna energica e dalla forte religiosità, che deve gestire un forno alla periferia della città, per mantenere i figli.

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Alessandria d’Egitto in una rara foto di fine ‘800

Con il lavoro, la signora Ungaretti riesce a mandare Giuseppe nella prestigiosa École Suisse Jacot, una delle più prestigiose all’interno della città africana, dove, oltre a fare delle amicizie importantissime, tra le quali quella di Moammed Sceab, il giovane Ungaretti respira un clima multiculturale, fatto di fuoriusciti e intellettuali arabi ed europei (soprattutto francofoni). Innamoratosi della letteratura, s’immerse, in questi anni di formazione, in letture poetiche che spaziavano da Dante e Leopardi a Baudelaire e Mallarmé.

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Ungaretti ad Alessandria

Uscito dalla scuola cominciò a frequentare circoli letterari in bar della città, dove entrò in contatto con il poeta greco Konstantinos Kavafis e l’italiano Enrico Rea, che lo avvicina agli ideali anarchici e socialisti.

Quando la madre cede il forno, lascia una parte del ricavato a Giuseppe, al quale, però, non frutta alcun bene, a causa d’investimenti sbagliati. Scoraggiato da questa esperienza e desideroso di conoscere la capitale della cultura europea si sposta, nel 1912, con Moammed a Parigi; qui incontra fra gli altri Marinetti e Palazzeschi, grazie ai quali comincerà a collaborare, con scritti poetici, alle riviste italiane. L’anno successivo il suo amico si suicida: tale è il dispiacere per il poeta che gli dedica una delle sue poesie più toccanti.

Nel 1914 si trasferisce quindi a Milano e l’anno successivo aderisce al partito degli interventisti. Allo scoppio della guerra si arruola volontario e viene mandato nel Carso. Qui scrive le poesie de Il porto sepolto, pubblicate da un ufficiale suo amico, Ettore Serra in soli ottanta esemplari (confluiranno, in seguito, nella maggiore raccolta, Allegria dei naufragi).

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Ettore Serra

Finito il conflitto torna a Parigi, da qui collabora, come corrispondente dall’estero, al Popolo d’Italia. Conosce Jeanne Dupoix, che sposerà nel 1920 e dal cui matrimonio nascerà Ninon e Antonietto. Tornato in Italia, dopo aver aderito al Fascismo, lasciando la sua attività di giornalista, accetterà un modesto impiego nel ministero degli Affari Esteri.

Del 1926 sono una serie di conferenze che lo porteranno in giro per L’Europa, ma è a Roma che Ungaretti troverà maggiori spunti intellettuali e da cui nascerà l’esperienza di Sentimento del tempo. Comincia a maturare in lui una spiritualità intensa che la città barocca eccita e lo sprona ad una nuova riflessione sulla vita.

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La città di São Paulo intorno agli ’30

Nel 1936, in America latina, accetta l’incarico d’insegnare Letteratura italiana all’Università di San Paolo, dove si trasferirà, con l’intera famiglia, fino al 1942. Tale periodo fu funestato, però, dalla morte di Costantino, fratello maggiore, ma soprattutto da quella del figlio Antonietto (1939).

Nel 1942 viene nominato Accademico d’Italia e riceve l’incarico di docente di Letteratura italiana all’Università di Roma (incarico che terrà per circa un decennio). Ed è proprio da quest’anno che comincerà a raccogliere l’intero corpus poetico nel volume Vita d’un uomo e a scrivere nuove raccolte poetiche come Il dolore (1947) e La terra promessa (1950), accompagnate da opere di traduzione. Ed è sempre nella città eterna che perderà la cara moglie in un’assolata giornata romana (1958).

Intorno agli anni ’60 Ungaretti è ormai considerato come uno dei più grandi intellettuali del Novecento: riceve varie lauree honoris causa, interviene spesso con letture in televisione.

Nel 1970 trascorre l’ottantaduesimo compleanno in compagnia di pochi amici (gli intellettuali più in voga in quegli anni, come il pittore Renato Guttuso e lo scrittore Goffredo Parise). Parte quindi per gli Stati Uniti, per ricevere un premio internazionale, ma al ritorno, sfibrato dalla stanchezza, muore a Milano dello stesso anno.

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Tomba di Ungaretti e della moglie

L’itinerario poetico di Ungaretti possiamo distinguerlo in tre momenti:

  • Il primo periodo coincide con l’avvento della guerra e comprende le raccolte delle poesie Il porto sepolto (1916) e Allegria dei naufragi (1919);
  • Il secondo periodo ha inizio con il trasferimento a Roma (1921) e corrisponde all’itinerario poetico di Sentimento del tempo (1933);
  • Il terzo periodo è situato nel dopoguerra ed è compreso tra Il dolore (1947), La terra promessa (1950) e Taccuino del vecchio (1960).

Primo periodo

Ungaretti si avvicina alla poesia da un luogo appartato, sebbene stimolante e dopo la temperie futurista. Sembra che con lui si sia chiusa definitivamente l’esperienza poetica che lo ha preceduto: infatti se dovessimo analizzare le ultime esperienze diremmo forse che sia gli stessi marinettiani quanto i crepuscolari scrivono programmaticamente poesie “contro”, non ancora poesie “per” disegnare, attraversandola come farà Montale o utilizzandola in modo personale, come farà Ungaretti la poesia precedente.

Giuseppe Ungaretti, infatti, con le prime esperienze poetiche, supera di colpo tutti quegli elementi dannunziani che ancora erano presenti in poeti come Gozzano e se ciò è dovuto alla lateralità della sua formazione, ripetiamo Alessandria d’Egitto e Parigi che gli ha permesso un perfetto bilinguismo, spiega ulteriormente come sia pronto con voce nuova ed autentica a raccontarci la grande emozione di dolore e di amore insieme che la guerra gli aveva permesso..

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Una delle prime edizioni de Il porto sepolto

L’allegria
Sembra che Ungaretti non si contentasse mai dei versi scritti e li rimaneggiasse in un continui lavorio di sottrazione verbale estenuante alla ricerca della purezza della lirica e della parola in essa contenuta. Un esempio è quello di Porto sepolto del ’16, composto da 32 liriche; scrive poi nel ’19 Allegria dei naufragi, in cui confluiscono le poesie scritte per la rivista Lacerba e quelle scritte in francese, dopo essere state completamente rimaneggiate. I due libretti, sempre dopo un attento lavorio, saranno raccolte nell’edizione del ’31 con il titolo definitivo de L’allegria:

IN MEMORIA

Locvizza il 30 settembre 1916.
 
Si chiamava
Moammed Sceab
 
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
 
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè
 
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
 
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
 
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre in una giornata
di una
decomposta fiera
 
E forse io solo
so ancora
che visse

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Le sordide catapecchie di Rue de Carmes, dove Ungaretti condivideva la stanza con Moammed Sceab

La prima cosa che appare nel testo, prima che esso diventi poesia, è la precisazione che indica il luogo e la data in cui la scrisse. E’ una poesia in memoria, mentre sta in guerra, dove più forte è la sensazione di sradicamento e quindi ancora è intensa l’esigenza di ricercare, in un luogo di dolore, il proprio io fatte di esperienze, amicizia e amore. Ma ci dice anche come per Ungaretti la poesia sia un diario in cui segnare, nel momento in cui nascono, le impressioni che l’io poetico sente o riceve dall’esterno.

Si situa, cioè in questo testo, quel rapporto vita/poesia che è fondamentale per Ungaretti: la poesia non può nascere svincolata dal sentimento dell’esistere che ognuno prova, non può essere esercizio intellettuale, privo di riferimento al reale, ma deve partire dall’interiorità, la sola che può esprimere con verità, e per questo nuda nell’essenza verbale, la purezza della parola.

Si osservi come egli isoli, all’interno del testo, le parole forti, in maggioranza, svincolate da rapporti sintattici, poste in modo che l’occhio si fermi su di esse, nella loro solitudine. Ancora l’uso attento dei tempi verbali. Passato ed imperfetto ad indicare un’azione richiamata alla memoria, ma morta (si chiamava, amò, fu…).

In Moammed lo sradicamento, lo stesso di Giuseppe, è senza soluzione. Può cambiare nome, ma al deserto rassicurante africano, con la nenia del Corano e l’odore di caffè, non si sostituisce il deserto fatto d’aridità si sentimenti umani della città. Ma l’amico arabo di Ungaretti si è suicidato perché non aveva più Patria e soprattutto perché, come invece avviene a Giuseppe non riesce a cogliere il momento di catarsi che la poesia può offrirgli (E non sapeva / sciogliere / il canto / del suo abbandono).

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Autografo del testo

IL PORTO SEPOLTO

Mariano il 29 giugno 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde
 
Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

Verso i sedici, diciassette anni, forse più tardi, ho conosciuto due giovani ingegneri francesi, i fratelli Thuile, Jean e Henri Thuile. (…) Mi parlavano d’un porto, d’un porto sommerso, che doveva precedere l’epoca tolemaica, provando che Alessandria era un porto già prima d’Alessandro, che già prima d’Alessandro era una città. (…) Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d’ogni era d’Alessandria. Il titolo del mio primo libro deriva da quel porto, il Porto sepolto.”

Così ci racconta lo stesso Ungaretti in Vita d’un uomo. Il porto sepolto diventa quindi, per il poeta, simbolo della sua ricerca, della meta della sua poesia; dice Carlo Ossola (critico letterario e professore all’università di Parigi): “il porto sepolto è il luogo delle profondità affioranti e perdute, segno e abisso, ricettacolo incontaminato di ricordi d’infanzia e civiltà favolose, approdo dopo tappe e rasure di deserto, un coagulo mitico che contiene in nuce i simboli e le matrici figurali dell’intero percorso ungarettiano”. Egli è il poeta che laggiù disceso, nei recessi più inesplorati di esso, riemerge per rivelare a tutti il mistero (del vivere) e porgerlo a tutti.

Ma la grande poesia ungarettiana de Il porto sepolto è soprattutto nella straordinaria sezione dedicata alla guerra, dove sono contenute, forse le sue liriche più famose:

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Pagina di Julian Peters

VEGLIA

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
 
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
 

Dalla data posta all’inizio della poesia, veniamo a sapere che Ungaretti è appena arrivato al fronte e l’immagine che fa quasi da introduzione alle poesie dedicate alla guerra si apre, sin da subito, con un’immagine raccapricciante: un soldato morto, disegnato in una lunga strofe, senza soluzione di continuità e con un linguaggio quasi espressionistico, dove il suono aspro è denotato non solo dal martellare dei participi passati, ma anche capace di allontanare ogni illusione consolatoria (massacrato, digrignata, penetrata). Ed è proprio a fianco all’estremità del ribrezzo della morte, che lui si trova nella condizione di sentire verso l’esistenza l’amore pieno, estremo.

La pausa non è casuale: è lo stacco necessario in cui il poeta, come respirasse profondamente a dire la “verità” che la morte di un compagno gli suggerisce. Non è egoismo, ma è la piena consapevolezza che soltanto conoscendo la morte si arriva ad amare la vita.
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Soldati nel dolore

FRATELLI

Mariano il 15 luglio 1916
 
Di che reggimento siete
fratelli?
 
Parola tremante
nella notte
 
Foglia appena nata 
 
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
 
Fratelli

L’inizio della poesia è realistico: due drappelli di soldati s’incontrano durante la notte: non possono che essere dello stesso esercito, essendo la situazione colta durante una pausa, probabilmente vicino ad una trincea. Una domanda ed una conferma: l’insistere della vocale labiale f (fratelli, foglia, fragilità) quasi a sottolineare il sussurro con cui la parola viene pronunciata.

Il sentire la parola richiama fortemente nell’animo del poeta il concetto di solidarietà, determinata questa dalla fragilità dell’uomo stesso: i tre termini non sono riportati perché allitterati sembrano evocare un parlar piano perché nel climax ascendente sembra posarsi il pensiero poetico; il termine fratelli evoca l’uguaglianza nel pericolo e nel dolore, il termine foglia richiama appunta la sua fragilità, tanto più nuda in quanto esposta alla morte.

Ed è per questo che il soldato Ungaretti vorrebbe abbracciarli e lo fa costruendo il testo in modo circolare: l’ultima strofa composta dal trisillabo fratelli richiama la prima, in cui tale parola interrogativa cercava una risposta, che trova nella condivisione di un uguale destino.

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Ungaretti in trincea

SONO UNA CREATURA

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916
 
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
 
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
 
La morte
si sconta
vivendo

La poesia è costruita su una comparazione, in cui il poeta anticipa il secondo termine di paragone, in cui viene descritta l’aridità del paesaggio.

Si trova nel Carso, dove le rocce hanno interiorizzato l’acqua, che è penetrata in loro, rendendole prosciugate, refrattarie, dunque ostili, appunto disaminate senza anima. Il suo pianto è come queste pietre (si ristabilisce così la similitudine), ma, ancora più drammaticamente, ci dice che l’abitudine al dolore è talmente interiorizzata che non riesce più ad esprimersi.

Non c’è in tale testo il contrappasso della vita, anch’essa si è inaridita in un dolore continuo che l’ha resa fredda e dura. La disperazione di un pianto che non vuole uscire sembra riflettersi in una sordità che non trova parole altre a cercare la vita: da qui l’allitterazione che troviamo quasi disperante nella ripetizione di quel così…

Ma il vero significato è nel titolo: sono una creatura. E’ un titolo (non sono mai casuali i titoli in Ungaretti e fanno sempre parte della lirica) che dichiara al mondo la sua più estrema protesta: sono una creatura, ed ho come tale il diritto di piangere.

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San Martino nel 1916

SAN MARTINO DEL CARSO

Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
 
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
 
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
 
Ma nel cuore
nessuna croce manca
 
È il mio cuore
il paese più straziato

Anche qui una poesia desolata, dove l’immagine iniziale rimanda ad un qualcosa di scarno, lacerato: tale impressione è determinata dall’applicare la parola brandello a una casa. Se pensiamo che a tale vocabolo associamo qualcosa di strappato, come la stoffa o, per essere più violenti, la carne, ecco che rivolgerlo ad un muro rimanda all’idea di una lacerazione che oltre ad essere reale, visiva è anche psicologica.

Tale risvolto lo troviamo nella seconda strofa, della stessa lunghezza della prima. Alla distruzione delle case risponde il deserto della vita: ciò è reso, a livello fonico dalla ripresa dello stesso sintagma composto da una preposizione nella prima e da un avverbio nella seconda più la parola tanti; di tanti ad indicare abbondanza, neppure tanto ad indicare assenza.

Il ma oppositivo, oltre ad una constatazione, la ribellione della vita, nel ricordo, contro la cancellazione definitiva. Per questo il cuore del poeta non è un luogo dove le rovine denotano il paesaggio, ma è un paese straziato dal dolore perché le persone che ha amato non ci sono più.

Supera, se così si può dire, la contingenza bellica, seppure da essa trae origine una delle più importanti dell’intero percorso ungarettiano:
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 L’Isonzo a valle di Caporetto

  
I FIUMI
 
Cotici il 16 agosto 1916
 
Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
 
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
 
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
 
Ho tirato su
le mie quattro ossa
e me ne sono andato
come un acrobata
sull’acqua
 
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
 
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
 
Il mio supplizio
è quando
non mi credo
in armonia

Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
Felicità
 
Ho ripassato
le epoche
della mia vita
 
Questi sono
i miei fiumi
 
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre.
 
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle distese pianure
 
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
 
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
 
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre.

Qui il poeta, in un momento di pausa dall’azione bellica (che non viene censurata e la spia ce la offre il participio mutilato), si sdraia in una dolina (cavità del terreno) a sentire il languore (una sensazione malinconica, d’abbandono), come quando termina uno spettacolo circense (metafora della vita). Tale situazione, con l’ultima immagine fortemente evocativa, fa percepire al poeta il senso dell’universalità dell’esistere.

Il poeta si bagna nell’Isonzo: è circondato dall’acqua, lavato e purificato. Tale sensazione che il poeta prova è determinata da una ricerca non casuale di termini che rimandano al sacro: urna d’acqua (acqua come liquido amniotico, ma anche mezzo battesimale), reliquia ad indicare qualcosa di sacrale che si offre al Dio creatore della vita. Non è un caso che tali immagini richiamanti la religiosità di Cristo (Dio fatto uomo), contrastino con la presenza bellica della morte.

L’Isonzo è il fiume delle azioni belliche. Il poeta vi si immerge ed è come pietra, un minerale: ma il sasso è posto nel fondo è viene purificato dallo scorrere dell’acqua, che diventa metafora della discesa verso le fonti della vita.

Dopo la purificazione la resurrezione: il poeta tira su le sue quattro ossa (minerale, come la pietra) e cammina sull’acqua, tenendosi in bilico, come un acrobata di un circo. E’ evidente che ci troviamo di fronte a due metafore: la instabilità della vita e la religiosa. Novello Cristo Ungaretti sente su di sé il peso della difficoltà del vivere, soprattutto in una situazione bellica.

Quindi spogliatosi “dai sudici panni di guerra”, si china, come a raccogliere se stesso nel lontano tempo africano, come un nomade in preghiera a ricevere il Sole.

Da lui che è vita rifluiscono tutti gli attimi che lo hanno condotto fino a questo estremo limite difficile da superare (ritorna il binomio vita / morte, laddove qui il primo viene rafforzato dal concetto di ricordo).

Si parte dal presente, dal riconoscersi uomo: tale presa di consapevolezza fa percepire al poeta il suo essere parte di un tutto, e il dramma nasce quando questa piccola particella che è il suo io non si trova in armonia, appunto con il tutto da cui è circondato.

Ma non ora in cui l’acqua, personificata in mani che lo imbevono della loro stessa essenza lo fanno in pace con te stesso e gli permettono di far fluire in lui tutta la sua vita, ad iniziare da quella passata: si inizia dal Serchio, vicino Lucca da cui hanno origine i suoi genitori di tradizione contadina, e poi il Nilo che lo fatto nascere, lo ha visto crescere e gli ha offerto, durante l’adolescenza e la giovinezza di formarsi, d’acquisire la consapevolezza dell’esistere e di trovare se stesso, ma regalandogli anche quel senso d’illimitata libertà, metaforizzata nell’immensità del deserto. Quindi Parigi dove è diventato uomo, nella torbidezza del percepire il prendere coscienza, in una grande città dove la vita si presenta nel legame indissolubile d’amore e dolore (ricordiamo, qui, l’esperienza intellettuale, ma anche umana, con la perdita del suo migliore amico).

Tutti questi fiumi si contano ora in questo, l’Isonzo, dove il poeta, sdraiato nella notte, si lascia andare nella fluidità dell’esistere, la racchiude tra una corolla di petali che sta per aprirsi, e la offre alla notte, la dove si cela il suo mistero.

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Maurizio Frisinghelli: M’illumino d’immenso (mosaico e ceramica)

MATTINA

Santa Maria La Longa il 26 gennaio 1917
 
M’illumino
d’immenso
 

Dall’ampiezza del ricordo che ritrova, nel fluire del pensiero, il suo essere parte di un tutto, alla estrema brevità in cui tale concetto trova l’assolutezza dell’espressione. Due parole precedute da due monosillabi apostrofati, affinchè l’emissione di voce non si spezzi indicano il momento estremo in cui la comunione con il tutto non viene descritta, ma illuminata.

Lo fa attraverso l’integrazione del titolo all’interno dei due versi; il parallelismo dei due ternari in sequenza (il primo è sdrucciolo), e il richiamo fonico con l’allitterazione consonantica tra m e n e vocalica tra i e o.

Sentimento del tempo

La seconda stagione della poesia ungarettiana è rappresentata dalla raccolta Sentimento del tempo in cui vengono inserite tutte le liriche del poeta scritte dal 1919 al 1933.

Se nella struttura vuole richiamare la precedente opera Allegria, anch’essa divisa in sette sezioni, a livello tematico e strutturali notiamo delle importanti differenze:

  • A dominare il testo poetico è il concetto del tempo, quasi a sottolineare, nel nuovo canto, la differenza tra ciò che è eterno e ciò che è morituro;
  • La scoperta della Roma barocca, letta tuttavia nel pieno del periodo estivo: grazie anche a traduzioni della grande lirica spagnola del ’600, Ungaretti legge il barocco come un’esplosione, i cui frammenti dispersi, nel momento in cui si ritrovano, danno vita a qualcosa d’estremamente nuovo, forse più autentico;
  • La necessità di ritornare a un canto più regolare, anche nel tessuto sintattico: la parola s’accompagna in modo più disteso ad un dettato maggiormente articolato;
  • L’uso più insistito dell’analogia rispetto alla similitudine, che fanno di queste liriche, a volte, dei veri e propri testi dalla difficile interpretazione (aprirà forse alla stagione dell’Ermetismo);
  • La riscoperta del verso classico

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Un’immagine di Ungaretti con la pipa

ISOLA

A una proda ove sera era perenne
di anziane selve assorte, scese,
e s’inoltrò
e lo richiamò rumore di penne
ch’erasi sciolto dallo stridulo
batticuore dell’acqua torrida,
e una larva (languiva
e rifioriva) vide;
ritornato a salire vide
ch’era una ninfa e dormiva
ritta abbracciata a un olmo.
 
In sé da simulacro a fiamma vera
errando, giunse a un prato ove
l’ombra negli occhi s’addensava
delle vergini come
sera appiè degli ulivi;
distillavano i rami
una pioggia pigra di dardi,
qua pecore s’erano appisolate
sotto il liscio tepore,
altre brucavano
la coltre luminosa;
le mani del pastore erano un vetro
levigato da fioca febbre.

Questa poesia è stata composta nel 1925. In essa, come appare evidente, il poeta abbandona lo stile franto ed essenziale che aveva caratterizzato l’Allegria per dar vita ad una forma classica e barocca il cui significato rimane, ai più, di difficile interpretazione.

L’incipit crea un atmosfera misteriosa, lo spazio in cui si muove il protagonista, che non è definito, è senza nome, è  indefinito. Il tempo verbale dominante è il passato remoto, attraverso cui il poeta crea un effetto di sospensione mitica.

Il testo, d’altra parte, nella prima parte ci dice poco: un uomo approda sull’isola e si inoltra nel buio della vegetazione; è angosciato dal rumore di un uccello che spicca il volo; subito dopo si imbatte in una ninfa che dorme abbracciata ad un albero. La visione sembra poi chiarirsi: il protagonista giunge in un prato che ospita fanciulle addormentate, delle pecore e un enigmatico pastore.

Lo stile e analogico e le immagine polisemiche sembrano susseguirsi senza nesso logico: la ripresa sembra sia quella del locus amoenus (ninfe, uccelli, pastore) ma tutto rivissuto attraverso la lezione simbolista dei francesi, Mallarmé e Valery soprattutto.

E’ lo stesso Ungaretti che ci spiega il perché del ritorno a forme tradizionale (la ripresa dei verso endecasillabo e del novenario, in questo testo): Le mie preoccupazioni in quei primi anni del dopoguerra […] erano tutte tese a ritrovare un ordine e ciò non è distante dalla esigenza espressa dalla rivista La Ronda che proprio in quegli anni auspicava un ritorno all’ordine (e quindi alla chiarezza classica).

Tuttavia qualche linea di continuità c’è dietro l’apparenyte differenza tra i due tempi ungarettiani: la ricerca di una poesia pura e assoluta, basata sull’enfatizzazione delle pause e sul peso della parola isolata tipici de “L’Allegria” (come ci dice il critico Mengaldo).

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Gabriella Scarciglia: Di luglio (pittura ispirata alla poesia di Ungaretti)

DI LUGLIO

Quando su ci si butta lei,
si fa d’un triste colore di rosa
il bel fogliame.
 
Strugge forre, beve fiumi,
macina scogli, splende,
è furia che s’ostina, è l’implacabile,
sparge spazio, acceca mete,
è l’estate e nei secoli
con i suoi occhi calcinanti
va della terra spogliando lo scheletro.

1931: Ungaretti è a Roma, d’estate, nella canicola di un giorno di luglio. Lei, l’estate diventa furia distruttrice. Ed è lei col suo calore (con l’ellissi del soggetto, nella seconda strofa) distrugge, dissecca, arde impietosamente, aumenta la sensazione dello spazio, non fa vedere, non mostra il fine ultimo. L’estate creando crepe nel terreno, lo rende nudo, come uno scheletro.

Vi è nel testo come una forma d’ambivalenza, che va oltre la dicotomia morte / vita, amore /desolazione, presenti ne L’Allegria.

Ungaretti sembra dirci che attraverso l’esplosione della massimo vitalismo estivo, si crea il massimo dell’aridità, come il Barocco, che distrugge per ricostruire.

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LA MADRE

E il cuore quando d’un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d’ombra,
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
sarai una statua davanti all’Eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.
 
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
 

La lirica propone il tema del rapporto fra la vita terrena e l’aldilà, sottolineato dalla certezza del poeta di ricongiungersi alla madre nella vita ultraterrena. Il sentimento dominante è il rimpianto per la perduta felicità dell’infanzia, che Ungaretti spera di recuperare quando tornerà a incontrare sua madre. In questo altro mondo la madre conserva gli atteggiamenti abituali che aveva in vita, la sua figura rievoca immagini che appartengono alla memoria e diventa un ponte tra la vita e la morte.
Il ricordo del passato torna ripetutamente (come una volta, come già ti vedevo, come quando spirasti) e crea un legame di continuità nella dimensione dell’eterno (il futuro incontro con la madre). La morte non ha più i toni tragici dell’Allegria, ma è solo un muro da valicare per ottenere il premio della gloria eterna.
Il testo presenta una struttura simmetrica: ogni strofa coincide con un periodo e con un gesto compiuto dalla madre, che danno al componimento una intonazione a tratti solenne. Il recupero delle forme poetiche tradizionali è evidenziato nella punteggiatura, nella subordinazione, che caratterizza la costruzione dei periodi in modo lineare, nelle similitudini che introducono le immagini del passato, nelle inversioni dell’ordine delle parti del discorso, che danno maggiore rilievo a una rispetto a un’altra (quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra; Come una volta mi darai la mano) e nella sinestesia finale degli occhi della madre, che “sospirano” di amore e di sollievo.

Il dolore

Le liriche de Il dolore vengono pubblicate nel dopoguerra, più esattamente nel 1947, e comprendono i testi composti dal 1934.
E’ indubbiamente la raccolta più personale di Ungaretti, quella in cui il poeta sperimenta il dolore, appunto, della perdita, in modo diretto, personale. Ci dice infatti in Vita d’un uomo: So che cosa significhi la morte, lo sapevo anche prima; ma allora, quando mi è stata strappata la parte migliore di me, la esperimento in me, da quel momento, la morte. Il dolore è il libro che più amo, il libro che ho scritto negli anni orribili, stretto alla gola. Se ne parlassi mi sembrerebbe di essere impudico. Quel dolore non finirà di straziarmi.
L’opera infatti può essere strutturata in tre parti tematiche:

  • nella prima troviamo le poesie dedicate alla morte del fratello Constantino, avenuta nel ’37;
  • la seconda, la più straziante, per quella del figlio, nel ’39;
  • la terza per la seconda guerra mondiale.

Già nella poesia dedicata alla madre, abbiamo visto come l’approdo ad una fede religiosa, rappresentasse una forma non dico di pacificazione ma di idealizzazione delle persone scomparse; i segni che essi lasciano permettono, infatti che il dialogo continui. Tali segni possono essere ritratti nel volto, nelle mani, nell’ombra che, pur scomparsi, s’intrattengono col poeta.

La prima poesia che apre la raccolta è dedicata al fratello:
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Ottone Rosai: Ritratto di Ungaretti

TUTTO HO PERDUTO

Tutto ho perduto dell’infanzia
e non potrò mai più
smemorarmi in un grido.
 
L’infanzia ho sotterrato
nel fondo delle notti
e ora, spada invisibile,
mi separa da tutto.
 
Di me rammento che esultavo amandoti,
ed eccomi perduto
in infinito delle notti.
 
Disperazione che incessante aumenta
la vita non mi è più,
arrestata in fondo alla gola,
che una roccia di gridi.

E’ una poesia sulla morte di Constantino e con lui sulla morte dell’infanzia. Ciò ci dice nel primo verso dove il Tutto assolutizza la sensazione della perdita tale da non poter più dimenticare se stesso in un grido di libertà. Ora l’infanzia è sotterrata, tagliata dal presente, irripetibile proprio perché viene a mancare la persona che la evocava. Il ricordo, personale si focalizza sull’amore infantile che ora non è più, trasformandosi in aridità rocciosa.

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NON GRIDATE PIU’

Cessate d’uccidere i morti,
non gridate più, non gridate
se li volete ancora udire,
se sperate di non perire.
 
Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo
 

La poesia de Il dolore, dall’esprimere dapprima uno strazio (per usare il termine di Ungaretti) per la morte del fratello e del figlio (i versi riguardanti Antonietto si strutturano in un poemetto, dove si susseguono varie sensazioni determinate dalla perdita) si apre qui ad un dolore universale, quello creato dalla guerra.

Essa e composta da due strofe: nella prima troviamo due imperativi (cessate, gridate) che non hanno valenza di comando, ma come di preghiera, invito a terminare di profanare i loro corpi assenti. Essi hanno ancora qualcosa da insegnarci, un impercettibile sussurro che li lega a noi. Sono datori di vita, come l’erba, che cresce sopra loro. Ma l’ultimo verso, di per sé inquietante, sottolinea l’impossibilità dell’incontro: essi parlano laddove non esiste l’uomo, che calpesta e uccide la vita quand’essa nasce dal profondo della terra.

Le ultime due raccolte sono La terra promessa e Taccuino del vecchio, che possono essere considerate legate dalla stessa concezione poetica. Le parti più interessanti sono certamente quelle dedicate alla ripresa classicista del mito di Enea e Didone, tale mito permetteva al poeta di proiettare in esso tutti i temi portanti (il viaggio, l’approdo, l’abbandono, la morte) presenti nel suo itinerario poetico. Tale progetto non vide la definizione e rimase incompiuto e venne ripreso in parte nell’ultima raccolta, dove tuttavia il punto di vista veniva capovolto, ed era l’io lirico il cui approdo diventava appunto la cessazione della vita. Si ricorda, per inciso, che l’intenzione del poeta era quella di dar vita ad un vero melodramma: infatti il musicista Luigi Nono prese i frammenti (alcuni anche piuttosto lunghi) e li inserì in un tappeto musicale.