UMBERTO SABA

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Umberto Saba

Se per la prosa Trieste ha dato i natali ad uno dei nostri maggiori narratori del Novecento, lo stesso si può dire per la poesia, grazie alla produzione in versi di Umberto Saba.
Forse i motivi della loro importanza possono essere rintracciati in:

  • la perifericità della città di Trieste, posta al confine tra la grande cultura nazionale e le nuove esperienze culturali che sopraggiungevano dalla vicina Germania;
  • l’importanza della psicoanalisi.

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Trieste: Canale

Umberto Saba nasce a Trieste il 9 marzo del 1883, da Ugo Edoardo Poli e Felicita Rachele Coen. Certo tale nascita sarebbe stata una tra le tante nascite, se il padre dapprima non si fosse convertito all’ebraismo per sposarsi e per poi abbandonare la moglie in attesa del loro primo figlio.

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Casa della balia di Saba

Umberto non conosce il padre e la madre si rivela una donna dura, arrabbiata, non fosse perché costretta a sobbarcarsi tutte le incombenze economiche. Per tale motivo il piccolo Berto (come si definirà in una sezione della sua poesia), verrà affidato a una balia slovena, cattolica, “la Peppa”, che circonderà il piccolo di cure estremamente affettuose, visto che a lei era mancato da poco un figlio. Saranno anni felici, a cui il poeta resterà sempre legato, tanto da scegliere, per lo pseudonimo il nome Sabaz, per alcuni, dal suo cognome; per altri dal termine ebraico con cui si indica il pane).

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Trieste: P.zza Giuseppina

A tre anni Umberto dovrà lasciarla (l’allontanamento, forse, dovrà essere imputato al cattolicesimo) e fino a dieci anni sarà educato dalle zie nella città di Padova. Rientrato a Trieste si iscrive al ginnasio, ma il suo rendimento scolastico non è soddisfacente, quindi frequenta l’Imperial Accademia di Commercio e Nautica, finita la quale s’imbarcherà come mozzo in una nave mercantile.

Sempre giovane s’impiega in una ditta commerciale. Durante le ore di ozio concessegli nelle pause lavorative, approfondisce letture dei grandi poeti del passato. Quindi si reca a Pisa e a Firenze ed ha un incontro infruttuoso con Gabriele D’Annunzio (considerato da lui un mito). In seguito svolge il servizio militare a Sorrento.

Tornato a Trieste vi sposa, con cerimonia ebraica, Carolina Wöfler, da lui chiamata poeticamente Lina, dalla quale avrà l’amata figlia Linuccia.
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Saba con la moglie 

Durante i viaggi tra Firenze e Trieste, pubblica alcune raccolte di poesie (senza gran successo), ma allo scoppio della grande guerra viene richiamato alle armi. Farà una guerra sulle retrovie, considerato inabile per la battaglia.

Rientrato finalmente a Trieste, grazie all’aiuto della zia Regina, vi aprirà una biblioteca antiquaria e lì trascorrerà il resto della vita, (con l’eccezione del periodo in cui sarà costretto ad andare a Firenze per nascondersi a causa delle leggi razziali) tra crisi nervose e scrittura poetica.

Le continue cadute a livello psicologico lo condurranno alla cura psicoanalitica, grazie alla quale, pur non uscendo guarito, riuscirà a stabilire un equilibrio che gli permetterà di condurre un’esistenza che, dopo la guerra, comincia ad essere gratificata dal riconoscimento della sua grandezza poetica.

Riceverà la laurea honoris causa all’università di Roma nel 1953.

Nel 1956 muore la moglie Lina.

Stanco e malato, in una clinica di Gorizia, dalla quale non esce mai, si spegne, ad un anno di distanza, il 25 agosto.

La produzione poetica di Umberto Saba è tutta raccolta in un libro che ha avuto varie edizioni, a seconda delle aggiunte che il poeta vi inseriva, intitolato, come omaggio alla tradizione Canzoniere, e che sarà edita dapprima nel 1945 e, dopo l’aggiunta delle ultime poesie, nel 1961.

All’interno di essa varie sezioni, fra le più importanti dell’itinerario poetico di Umberto Saba: Versi militari, Casa e campagna, Trieste e una donna, Il piccolo Berto, Ultime cose.

Non bisogna dimenticare la sua attività di prosatore che si esplica in Scorciatoie e raccontini, la cui prima pubblicazione è del ’46, ed il romanzo incompiuto Ernesto, pubblicato, a cura della figlia, postumo nel 1975.

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Umberto Saba e Carletto Cerne nella Biblioteca antiquaria

Il Canzoniere rappresenta, per parole dello stesso Saba, un “autobiografia in versi” dello stesso poeta: non per niente il titolo riprende il modello petrarchesco in cui, appunto si raccontava, in modo poetico, l’amore in vita e in morte per madonna Laura. Allo stesso modo bisogna leggere l’opera del poeta triestino, perché ogni poesia, pur in sé conchiusa, non cessa di avere richiami interni e analogie con altri testi presenti nell’opera.

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Canzoniere edizione del 1921

Tale autobiografia la sottolinea egli stesso dividendo il Canzoniere in tre parti, che contengono precise raccolte poetiche (citeremo le più importanti):

  • periodo giovanile, dal 1900 al 1920: Versi militari, Casa e campagna, Trieste e una donna;
  • periodo della maturità dal 1921 al 1932: Autobiografia, Il piccolo Berto, Preludio e fughe, Ultime cose;
  • periodo della vecchiaia dal 1933 al 1954: Parole, Mediterraneo, Quasi un racconto, Sei poesie della vecchiaia.

La prima parte, o, per dir meglio il primo periodo della poesia sabiana vede come protagonista la moglie Lina e la città di Trieste.

Alla prima dedica il seguente testo:
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Il vecchio Saba con la moglie

A MIA MOGLIE
Tu sei come una giovane, una bianca pollastra.
Le si arruffano al vento
le piume, il collo china
per bere, e in terra raspa;
ma, nell’andare, ha il lento
tuo passo di regina,
ed incede sull’erba pettoruta e superba.
È migliore del maschio.
È come sono tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio.
Così se l’occhio, se il giudizio mio
non m’inganna, fra queste hai le tue uguali,
e in nessun’altra donna.
Quando la sera assonna
le gallinelle,
mettono voci che ricordan quelle,
dolcissime, onde a volte dei tuoi mali
ti quereli, e non sai
che la tua voce ha la soave e triste
musica dei pollai.
 
Tu sei come una gravida
giovenca;
libera ancora e senza
gravezza, anzi festosa; che,
se la lisci, il collo
volge, ove tinge un rosa
tenero la sua carne.
Se l’incontri e muggire l’odi,
tanto è quel suono
lamentoso, che l’erba
strappi, per farle un dono.
È così che il mio dono
t’offro quando sei triste.
 
Tu sei come una lunga
cagna, che sempre tanta
dolcezza ha negli occhi,
e ferocia nel cuore.
Ai tuoi piedi una santa
sembra, che d’un fervore
indomabile arda,
e così ti riguarda
come il suo Dio e Signore.
Quando in casa o per via
segue, a chi solo tenti
avvicinarsi, i denti
candidissimi scopre.
Ed il suo amore soffre
di gelosia.
 
Tu sei come la pavida
coniglia. Entro l’angusta
gabbia ritta al vederti
s’alza,
e verso te gli orecchi
alti protende e fermi;
che la crusca e i radicchi
tu le porti, di cui
priva in sé si rannicchia,
cerca gli angoli bui.
Chi potrebbe quel cibo
ritoglierle? chi il pelo
che si strappa di dosso,
per aggiungerlo al nido
dove poi partorire?
Chi mai farti soffrire?
 
Tu sei come la rondine
che torna in primavera.
Ma in autunno riparte;
e tu non hai quest’arte.
Tu questo hai della rondine:
le movenze leggere;
questo che a me, che mi sentiva ed era
vecchio, annunciavi un’altra primavera.
 
Tu sei come la provvida
formica. Di lei, quando
escono alla campagna,
parla al bimbo la nonna
che l’accompagna.
E così nella pecchia ti ritrovo,
ed in tutte le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna.
 

Poesia tra le più celebri di Saba, inserita nella sezione Casa e campagna, anche per il suo tono dimesso, ma non per questo meno ricercato. Se vi è un tributo è certamente al Cantico francescano e se tale tributo lo abbiamo ritrovato anche in D’Annunzio, più esattamente ne La sera fiesolana, dove esso rimanda ad una luna argentea, quindi visiva, qui, invece, è all’umiltà del creato e alla perfezione silenziosa umile della donna, soprattutto di Lina, al tempo della poesia, in attesa di un figlio.

L’accostamento alle femmine animali non è casuale: viene colto nell’atteggiamento di esse qualcosa che le rende uniche: l’incedere maestoso della pollastra, il bisogno di protezione e di dolcezza della giovenca, l’amore geloso di una cagna, il senso della libertà di una rondine, la maternità di una coniglia o la laboriosità di una formica; Lina è come tutte queste qualità.

La struttura del testo poetico ci offre la possibilità di definire la poesia sabiana antinovecentista; egli non ama l’analogia, cara ai simbolisti e poi agli ermetici, suoi contemporanei; crede fermamente nella forma e nella tradizione della poesia, soprattutto al grande canone della letteratura italiana, dagli stilnovisti a Leopardi.

A tale scopo Saba trova il ricorso alla similitudine, costruita in anafora su ogni strofe, più naturale, perché figlio, appunto della tradizione. Tale similitudine fa sì che l’attenzione rimanga accesa sul “Tu” che viene illuminato dalla perfezione di Dio nell’aver creato la donna. Infatti se la donna è più vicina alla natura dell’uomo, di conseguenza è più vicina a Dio. Per questo tale poesia ha un ritmo profondamente religioso, tanto da essere considerata, da alcuni critici, come un ricalco alla laude medievale (si pensi ai bestiari).

Ma Saba, oltre a considerarla una preghiera, l’ha definita anche come “poesia infantile”: “se un bambino potesse sposare e scrivere una poesia per sua moglie, scriverebbe questa”. E’ evidente che l’immagine femminile di un bambino non può che essere quella materna, per questo, poi, tale religiosità si veste anche d’ambiguità: allora la poesia che Umberto ha dedicato a Lina, l’ha anche dedicata alla madre. La compresenza di moglie/madre è evidente e rende il testo, con parole sabiane “scandaloso”.

Rapporto tra il mondo della natura e quello umano, lo ritroviamo anche in un altro testo, sempre tratti dalla sezione Casa e campagna:

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LA CAPRA
Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
 
Quell’uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi, prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
 
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita.

Il nucleo tematico della lirica è la solitudine dell’uomo e come questa porti al riconoscimento di una fraternità universale nel dolore.

L’incipit poetico è la parola senza risposta. Solo il belato di una capra sofferente, bagnata e legata. Si vede che è sofferente, della stessa sofferenza dell’io poetico.

Nella seconda strofa si sottolinea l’identità tra la voce ed il belato: nessuna differenza: la sofferenza ha una sola voce.

La terza vede, nel viso semita dell’animale, incentrarsi il male del mondo.

Potrebbe apparire un testo semplice, ma forte è il richiamo leopardiano, soprattutto di Canto notturno di un pastore errante: lì il pastore si domanda se il mondo animale non conosca il dolore (la noia), qui Saba dà una risposta, forse quella che Leopardi mette, a chiusura della lirica in tono dubitativo forse in qual forma, in quale stato che sia, dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il natale. Per Saba nessun forse, solo una certezza perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia.

In Storia e cronistoria del Canzoniere, in cui Saba spiega la genesi della sua opera, rispetto all’ultimo verso ci dice «è un verso prevalentemente visivo. Quando Saba lo trovò, non c’era in lui nessun pensiero cosciente né pro né contro gli ebrei. È un colpo di pollice impresso alla creta per modellare la figura». Ma la capra dal volto quasi umano che gli ricorda un viso semita, cioè proprio di quel popolo che ha più sofferto, per essere stato il più perseguitato della storia, non può non apparire come l’emblema “della condizione universale di dolore immanente negli uomini come nella natura” (Bàrberi Squarotti, 1960).

Altra grande protagonista della sua lirica è certamente Trieste, a cui dedica una delle sue poesie più belle, tratta da Trieste e una donna:
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Trieste città vecchia

CITTA’ VECCHIA
Spesso, per ritornare alla mia casa
prendo un’oscura via di città vecchia.
Giallo in qualche pozzanghera si specchia
qualche fanale, e affollata è la strada.
 
Qui tra la gente che viene che va
dall’osteria alla casa o al lupanare,
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo, passando, l’infinito
nell’umiltà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega,
il dragone che siede alla bottega
del friggitore,
la tumultuante giovane impazzita
d’amore,
sono tutte creature della vita
e del dolore;
s’agita in esse, come in me, il Signore.
 
Qui degli umili sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via.
 

Il poeta passeggia per la città, e compie un piccolo viaggio: quasi novello Dante scende agl’inferi di essa: i luoghi sono l’osteria ed il bordello, posti nel porto e i peccatori sono la prostituta, il marinaio, un vecchio che bestemmia, una donna che litiga, un sodato, ed una chiassosa ragazzina invasata d’amore; ma in questi peccatori il poeta ritrova l’infinito nell’umiltà.

Se il canto è il canto dell’umiltà, umile dev’essere il linguaggio poetico, cui le assonanze interne e le rime rimandano alla disposizione di parole, quanto mai più denotative nella rappresentatività, quanto mai più connotative rivelando in esse la divinità dell’esistere nel nome del Signore.

Sono figure portatrici di dolore, come di dolore è stata la morte di Cristo: è sintomatica la rima amore : dolore : Signore, quasi ad indicare che laddove vi è Dio non può esserci sia l’uno che l’altro.

L’ultimo è quasi un verso ossimorico, ma visto nella dicotomia sabiana tra vita ed esclusione ad essa, troviamo la certezza che dove vi è la vita vissuta nella difficoltà, là vi è Dio. Ma è come se vi sia rimpianto: il poeta ama quella vita, ma ne è escluso, l’osserva dall’esterno.

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Saba osserva il porto di Trieste

TRIESTE
Ho attraversata tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
 
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
 
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.

Se il viaggio di Saba nella poesia precedente è di discesa, qui, viceversa è in ascesa, Saba qui sale dal centro popoloso, per arrivare su un’erta, dove, in isolamento osserva il sua città.

Trieste ha una grazia scontrosa: in un ossimoro la sua caratteristica: la dolcezza non affettata, come la purezza di un ragazzo che ama con gelosia. Vi è in essa come una continua dicotomia, che è lo specchio della dicotomia dell’autore stesso: Trieste è periferica, come periferico è il suo io, tra la vita e il senso di non appartenenza; tra la voglia d’amare e la paura dell’abbandono. Anche la casa, posta in alto, che s’aggrappa alla collina, sembra escludersi dal resto.

Non è un poesia sulla città in cui è nato, ma è una poesia sulla Trieste interiore riflesso della sua vita. Se in città vecchia la vedevamo solare, ora la troviamo irraggiungibile: ma ciò che non cambia è l’atteggiamento del poeta.

Che Saba sia un escluso lo capivamo dall’osservazione esterna sia in Città vecchia che in Trieste: nell’una osserva la vita del porto, a cui piacerebbe entrare, nell’altra la guarda dall’alto, l’abbraccia, ma continua a non viverla.

Sul piano stilistico notiamo la presenza di endecasillabi, settenari e quinari con rime a volte baciate: il lessico è leopardiano (erta, muricciolo, natia), poeta da lui profondamente amato.

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Edoardo Weiss con due assistenti

Dalle seconda parte scegliamo due poesie, la prima tratta dalla sezione Autobiografia (composta nel ’24), l’altra dalla sezione Il piccolo Berto (1931), raccolta dedicata al dottor Edoardo Weiss (allievo di Freud), a cui il nostro si rivolse per un trattamento psicanalitico.

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MIO PADRE E’ STATO PER ME “L’ASSASSINO”
Mio padre è stato per me «l’assassino»,
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
 
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
 
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
 
«Non somigliare – ammoniva – a tuo padre».
Ed io più tardi in me stesso lo intesi:
eran due razze in antica tenzone.

La poesia presenta un aspetto estremamente tradizionale: un sonetto a rime alternate. Come per gli altri sonetti della stessa sezione, il primo verso della poesia introduce il tema autobiografico che l’autore intende interpretare retrospettivamente: in questo caso si tratta del rapporto con la figura paterna, che Saba incontra per la prima volta a vent’anni, scoprendolo libero, infantile, dolce e molto più simile a lui di sua madre, che ai suoi occhi ha sempre incarnato la severa autorità e il senso del dovere.

Il sonetto è costruito secondo in modo simmetrico: le prime due quartine sono dedicate alla figura paterna, le due terzine alla madre. Ma tale divisione ricorre anche a livello di campi semantici: se nella prima parte a prevalere sono i significati leggeri, (ricordiamo che il termine “assassino” era un intercalare del linguaggio del parlato, qui riferito alla madre), tutti posti in rima bambino : azzurrino; e gli aggettivi composti dolce/astuto : amato/pasciuto; diverso il trattamento retorico e semantico dedicato alla madre, dove troviamo l’unico enjambement del testo, ad indicare il livello di sopportazione che la povera donna abbandonata doveva sopportare.

A tale divisione fa da chiusura l’ultimo verso gli ultimi due versi, dopo l’espressione materna, ad indicare che, i due caratteri così contrapposti (due razze in antica tenzone), fanno ora parte del proprio io: il senso di indeterminatezza e leggerezza, che lo rende estraneo della vita (come lo fu anche il padre in un certo senso), e la severità della madre che lo inibisce. Pur non avendo ancora onosciuto il dottor Weiss, è palese la lettura freudiana che il testo ci propone.

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Saba con la figlia Linuccia

MIA FIGLIA MI TIENE IL BRACCIO INTORNO AL COLLO
Mia figlia
mi tiene il braccio intorno al collo, ignudo;
ed io alla sua carezza m’addormento.
 
Divento
legno in mare caduto che sull’onda
galleggia. E dove alla vicina sponda
anelo, il flutto mi porta lontano.
Oh, come sento che lottare è vano!
Oh, come in petto per dolcezza il cuore
vien meno!
 
Al seno
approdo di colei che Berto ancora
mi chiama, al primo, all’amoroso seno,
ai verdi paradisi dell’infanzia.

Poesia fondamentale alla quale la lettura psicoanalitica sembra assolutamente lecita, essendo indirizzata, appunto al suo terapeuta.

Dopo una dolcissima descrizione, un amore tra un padre e una figlia, amore da lui provato solo dalla balia, la dolce Peppa, s’addormenta e l’approdo è alla sua infanzia.

La parte centrale rappresenta lo stato d’animo di Saba, un legno caduto sull’acqua che anela raggiungere la riva e non vi arriva, la mancanza di forza, la sua indeterminatezza, la noluntas di sveviana memoria, che al poeta conterraneo sembra tradursi in dolcezza, con il verso dal sapore leopardiano come in petto per dolcezza il cuore vien meno!.

Infine la catarsi, la regressione all’infanzia, con l’ultimo verso baudelairiano, laddove il poeta triestino sostituisce l’espressione dell’infanzia ai termini di amori infantili.

Dall’ultima fase, quella della maturità, le poesie che ci piace ricordare sono quattro. La prima di esse è tratta dalla sezione Parole (1933-1934), e presenta un tema inconsueto per la tradizione poetica:

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GOAL
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non vedere l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
 
La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano fratelli.
Pochi momenti come questi belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.
 
Presso la rete inviolata il portiere
– l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasta sola.
La sua gioia si fa una capriola
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Se Saba è alla ricerca di una poesia “umile” e quindi “popolare”, nel senso più alto che questo termine deve avere, essa deve trattare temi altrettanto popolari, come lo erano, certamente l’epica dei giochi funebri nella poesia classica. D’altra parte anche Leopardi aveva ottemperato a tale tradizione con A un vincitore nel pallone e Saba, accostandosi a tale tradizione, trasforma l’autore del goal in un eroe, capace di piegare la difesa avversaria e di far traboccare di gioia incontenibile i compagni ed i tifosi negli spalti. A tale scopo ricorre anche un certo innalzamento del lessico poetico, che rincorre quello epico

Ma tale episodio è posto al centro, schiacciato dalla strofa iniziale e da quella terminale, dove a prevalere sono i due portieri, come in un reale campo di calcio, posti ambedue all’estremità.

Saba non registra il gesto, né del vincitore né del portiere: quello che lo interessa è il riflesso psicologico che, in quello sconfitto, si riflette nel pudico pianto, nel vincente nella volontà di baciare chi condivide con lui la gioia.

Ma a ben leggere a prevalere sono un senso di fraterna solidarietà: il compagno s’avvicina, consola il portiere abbattuto; i compagni del realizzatore s’abbracciano, raccogliendo anche l’entusiasmo dell’uomo tra i pali.

Sono tutti legati dall’essere uomini: fratelli nell’odio e nell’amore di una medesima natura.

Il secondo testo è tratta dalla sezione 1944, scritta e pubblicata nello stesso anno, quando Firenze venne liberata dai nazifascisti.

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Carlo Levi: Ritratto di Umberto Saba

IL TEATRO DEGLI ARTIGIANELLI
Falce martello e la stella d’Italia
ornano nuovi la sala. Ma quanto
dolore per quel segno su quel muro!
 
Entra, sorretto dalle grucce, il Prologo.
Saluta al pugno; dice sue parole
perché le donne ridano e i fanciulli
che affollano la povera platea.
Dice, timido ancora, dell’idea
che gli animi affratella; chiude: «E adesso
faccio come i tedeschi: mi ritiro».
Tra un atto e l’altro, alla Cantina, in giro
rosseggia parco ai bicchieri l’amico
dell’uomo, cui rimargina ferite,
gli chiude solchi dolorosi; alcuno
venuto qui da spaventosi esigli,
si scalda a lui come chi ha freddo al sole.
 
Questo è il Teatro degli Artigianelli,
quale lo vide il poeta nel mille
novecentoquarantaquattro, un giorno
di Settembre, che a tratti
rombava ancora il cannone, e Firenze
taceva, assorta nelle sue rovine.
 

In Storia e cronistoria del Canzoniere il poeta sottolinea di non aver voluto scrivere una poesia comunista, ma di aver voluto cogliere il momento della appena ritrovata libertà in un luogo dimesso, un piccolo teatro di periferia.

Siamo nel 1944, gli alleati hanno respinto le truppe tedesche oltre la linea gotica; Saba è a Firenze, ospite di alcuni amici per essersi dovuto nascondere perché di madre ebrea.

Ancora cannoneggiano quando una parte della città è stata liberata e a festeggiarla un manipolo di uomini, donne e bambini. Una colorazione festosa, nell’incipit, che non disdegna il dolore per la guerra non ancora finita.

Entra, nella seconda strofe, un mutilato: recita il Prologo; vuol far sorridere, affinché il sorriso accomuni nel sentimento fraterno gli uomini, ormai liberi dai lutti e dai pianti: ad accompagnarli del vino rosso che ne attenui le tristezze.

La chiusa ci riporta al dolore, ad annullare il concetto di poesia celebrativa. E’ pur vero che il verso è piano, dalla sintassi semplice, con l’inserimento del discorso diretto; ma ad osservare i termini che chiudono le tre strofe ineguali, parole forti nel tessuto poetico, sembri che il sole di speranza della seconda si sperda, schiacciato dal muro e da rovine.

Il dolore, sembra dirci Saba, è insito nell’uomo e, seppur in questo caso, aperto alla speranza, forte per i numerosi lutti e la distruzione che la guerra ha causato.

Tratta dalla sezione Mediterranee (1946) leggiamo quello che può essere considerato un vero e proprio manifesto poetico del poeta triestino:

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Umberto Saba: La poesia onesta

AMAI

Amai trite parole che non uno
osava. M’incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.
 
Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l’abbandona.
 
Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.

L’autore, prendendo esplicitamente parola in prima persona, spiega al suo lettore in il fine delle sue scelte poetiche. Le trite parole (e cioè già utilizzate da molti, nel corso della tradizione poetica italiana) sono sia una scelta di stile che di contenuto: la rima fiore | amore, è la più banale cui si possa pensare, e per questo la più difficile da personalizzare e rendere originale. Ed è proprio questa la sfida di Saba, che reagisce contro la continua ricerca di nuove tecniche espressive, affermando come la vera scommessa sia quella di avvalersi della tradizione per esprimere concetti e verità nuove.

La verità che giace al fondo è secondo l’autore il fine ultimo della poesia, unico mezzo di cui l’uomo può avvalersi per scoprire i più reconditi segreti del cuore umano, la psiche tormentata che il poeta ha sempre cercato di sublimare col suo dettato poetico.

E proprio questa verità deve essere espressa dal poeta nel modo più semplice e immediato possibile, senza nascondersi dietro a tecnicismi e scelte stilistiche eccessivamente sperimentalistiche (quali quelli dei poeti a lui contemporanei, soprattutto gli ermetici).

Ancora dalla stessa sezione traiamo la lirica Ulisse:
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Umberto Saba alla finestra (1946)

ULISSE
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Saba è ormai vecchio quando scrive questa lirica e rievoca il periodo della giovinezza in cui, come mozzo in una nave, navigava sulle coste dalmate.

Rivivendo quei momenti e l’ambiente marino, il poeta non può non richiamarsi al mito d’Ulisse, così operante nella cultura Novecentesca (si pensi all’Ulisse di Joyce); tuttavia il confronto tra l’eroe greco e il poeta triestino può risoltura inopportuno se non si legge dietro il viaggio di Ulisse e il viaggio della vita di Saba una identica difficoltà nel superare gli ostacoli.

Qui il poeta li rivede quei pericoli e i momenti difficili della sua vita e li oggettivizza negli isolotti radenti l’acqua, coperti d’alghe, scivolosi…

La vela che sbanda è la sua anima, che cerca sicurezza, verità. Forse il porto potrebbe darle sicurezza, ma è una sicurezza inconsapevole (da lottatore, la definirebbe Svevo) quella che non dà problemi, fatta di una vita conformistica.

Ma un poeta non può fermarsi senza interrogarsi sulla verità ultima: allora il non domato spirito (sembra risentire Foscolo, che proprio ad Ulisse rivolse la sua attenzione in A Zacinto) e della vita il doloroso amore (splendido ossimoro in anafora) preferiscono andare al largo, nel mare (infinità dell’essere), ad interrogarsi ancora sul dolore universale dell’uomo, la cui fatica del vivere è resa, retoricamente con numerosi enjambement, quasi inciampi nel percorrere la difficile via dell’esistere.

Non si può chiudere il discorso su Saba, senza accennare al suo romanzo, iniziato nel ’53, ma rimasto incompiuto e ritenuto impubblicabile dallo stesso autore. Sarà infatti portato alla luce a più di vent’anni di distanza, dalla figlia Linuccia, esattamente nel 1975.

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Edizione enaudiana del romanzo (1975)

Vi si racconta la storia del sedicenne Ernesto, bellissimo adolescente, nel 1898, abbandonato dal padre prima di nascere e cresciuto con la madre, la balia ed una zia. Lavora presso il rude industriale Wilder e qui riceve le attenzioni di un operaio ventottenne con cui ha un’esperienza omosessuale. Confuso, su consiglio di un barbiere, si reca in un bordello cittadino, dove la prostituta Tania lo inizia all’amore eterosessuale. Non volendo più recarrsi al lavoro si procura il licenziamento inviando una lettera d’improperi al signor Wilder. Poiché la madre non si spiega il motivo di tale scelta e vorrebbe farlo riassumere il figlio è costretto a confessare alla madre la relazione omosessuale.

Il successivo capitolo, Emilio, disoccupato, assisterà ad un concerto di un giovanissimo violinista, strumento di cui anche lui è appassionato. Forse sarà l’inizio di un nuovo amore. Qui il romanzo s’interrompe.

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Locandina del film tratto dal romanzo di Saba (1979)

LA CONFESSIONE

«Non chiedermi nulla,» implorò Ernesto quando, fra le dita delle mani di cui si faceva schermo alla faccia, lesse negli occhi di sua madre il turbamento causato dalla sua confessione. Temeva di averle inferto un colpo mortale, di vederla, da un momento all’altro stramazzare dalla sedia, morta per colpa sua… Se non fosse stato egli stesso così turbato, avrebbe visto che le sue parole avevano procurato invece a sua madre un senso quasi di sollievo. Dall’agitazione del figlio attendeva anche peggio…

«Adesso capirai», continuò Ernesto, «perché non posso più ritornare dal signor Wilder. Non devo più rivedere quell’uomo. La signora Celestina non vedeva che il lato materiale del fatto, che gli sembrava, più che altro, incomprensibile. Le sfuggiva del tutto il suo significato – la sua determinante psicologica. Se no, avrebbe anche dovuto capire che il suo matrimonio sbagliato, la totale assenza di un padre, la sua severità eccessiva ci avevano la loro parte… Senza contare, bene inteso, l’età, e più ancora la “grazia”particolare di Ernesto, che forse traeva la sua origine proprio da quelle assenze.

«Mascalzone», esclamò, prendendosela, ad ogni buon conto, con l’uomo, «mascalzone, assassino, peggio di tuo… Abusare così di un ragazzo! Saprò bene io trovarlo, e dirgli quattro parole. Al solo vedermi, deve buttarsi in mare dalla vergogna, e subito, se non vuole che io…»

«No», disse Ernesto, «egli non ha tutta la colpa. Devi anzi, se non vuoi far andare in dispiaceri anche me, giurarmi che non cercherai mai né di vederlo, né di parlargli. Perché tu non sai, mamma… Adesso è finito; ma se ritornassi dal signor Wilder… Diceva di volermi bene, e non mi lasciava più pace… Mi portava perfino le paste».

«E vorresti che io lo lasciassi impunito, dopo quello che ha fatto a mio figlio, a un ragazzo per bene…»

«Non sono più per bene, e non sono più un ragazzo», disse, suo malgrado, Ernesto, «o almeno non lo sono più per la legge. E, se io non avessi voluto…»

«Non mi dirai, adesso, che sei stato tu a pregarlo?»

«No, mamma, a pregarlo no. Ma, … ma gli sono andato incontro a più di mezza strada. Ecco perché non devi dire niente a nessuno, meno di tutti allo zio Giovanni». (Gli era venuta in mente l’idea, più terribile di ogni altra, che sua madre potesse denunciare la cosa a suo zio, che era anche il suo tutore, e per di più, Ernesto non lo dubitava, mezzo matto… Il padre di Ernesto era stato bandito, per attività sovversive, irredentistiche, dall’Impero d’Austria, di cui Trieste era, dopo la perdita di Venezia, “la più bella gemma”; e la Legge voleva che ogni minorenne, privo per causa di morte o altra dell’assistenza paterna, avesse, almeno per la forma, un tutore). «Giurami», continuò, «che non dirai nulla allo zio; giurami, mammina. Se no…» E si mise a piangere

La signora Celestina (e fu un miracolo) capì, questa volta, che suo figlio aveva più bisogno di essere consolato che rimproverato. Il fatto – va da sé – le ripugnava e, più ancora le riusciva – come si è detto – quasi incomprensibile. Ma non ne fece – come temeva Ernesto – un caso di vita o di morte. Si accontentava che, per il buon nome di suo figlio, rimanesse tutto segreto; che nessuno, nemmeno l’aria, ne sapesse o sospettasse nulla.

«Ma lui… quell’uomo», disse, «sei sicuro che non parlerà?»

«Sicuro», si sforzò di mentire Ernesto.

«Ed anche tu non devi farlo capire a nessuno; nemmeno, guai!, a tuo cugino. Sai che ragazzo è quello». (Temeva che suo figlio fosse, oltre che un po’ esagerato, un po’ chiacchierino). «Ti ha fatto molto male?» aggiunse, sottovoce.

«Oh, mamma!» implorò Ernesto cacciandosi sempre più la testa fra le mani. (Il cugino corruttore gli sembrava, in quel momento, uno specchio di virtù).

«Figlio, povero figlio mio!» s’intenerì, ad un tratto, la signora Celestina. E seguendo questa volta l’impulso del cuore, mandò al diavolo (cioè al suo vero padre) la morale e le sue prediche inette. Si piegò sul ragazzo, e lo baciò in fronte.

«Devi giurarmi» disse, «che non lo farai più. Sono cose brutte, indecenti», (Ernesto pensò involontariamente alla “forma esterna” dei suoi componimenti scolastici, che gli aveva procurato l’inimicizia di un professore al Ginnasio), «indegne di un bel ragazzo come te. Solo i “muloni” le fanno, quelli che vendono limoni agli angoli delle strade, in Rena Vecchia, non il mio Pimpo». (Nei suoi rari momenti di espansione, la signora Celestina dava a suo figlio il nome che questi aveva dato al merlo).

Dopo il bacio della madre, e sentendo avvicinarsi il perdono, Ernesto si sentiva rinascere. Era uno dei pochi baci che avesse ricevuti da lei. La povera donna ci teneva molto ad essere – e più ad apparire – una “madre spartana”. «No pensarghe più, fio mio», disse, passando all’improvviso, e senza accorgersene, al dialetto, cosa anche questa che le accadeva di raro, «quel che te xe nato xe assai bruto, ma no ga, se nissun vien a saverlo, tanta importanza. No ti xe, grazie a Dio, una putela».

«No son una putela» protestò Ernesto «son anche sta una volta da una dona». E scoppiò in singhiozzi, come quando – fanciullo di dieci anni – aveva letto, la prima volta, il Cuore di Edmondo de Amicis. Singhiozzava proprio di gusto.

Questa seconda confessione – colla quale Ernesto credeva forse di lavarsi dalla prima – ferì più profondamente l’anima gelosa di sua madre. Come l’uomo – sebbene per motivi (almeno in parte) diversi – temeva per suo figlio le donne: quelle pubbliche per le malattie, le altre per altre ragioni. «Ed io», disse, «che ti credevo ancora innocente come un colombino».

Dal letto di ottone le rispose il gemito di un uomo pugnalato.

«Adesso, basta», disse, alzandosi, la signora Celestina. «Quello che è stato è stato. Al signor Wilder parlerò io, gli dirò che sei ammalato; o, per non mettere la bocca in male, troverò un’altra scusa. Tu non li vedrai più, né il signor Wilder, né… l’altro.

«Davvero, mamma, mi perdoni?» disse Ernesto. Desiderava un secondo bacio; ma non osava chiederlo.

«Ti ho già perdonato», disse la signora Celestina. «Alzati adesso, e va’ a fare quattro passi. Non lasciarti prendere dalla malinconia».

Ernesto si mise a sedere sul letto. Negli occhi color nocciola – lavati dal pianto – splendeva come una luce di bontà infantile.

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 Statua di Umberto Saba a Trieste

PUBLIO VIRGILIO MARONE

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Il poeta latino ritratto in un mosaico romano (Treviri, Landsmuseum).

L’importanza di Virgilio è talmente immensa nella storia del pensiero occidentale da stare al pari di Omero, Dante, Shakespeare e Goëthe. A testimoniarlo è lo stesso Dante, che nel I canto dell’Inferno, che fa da Introduzione all’intera Commedia, ce lo presenta in questo modo:

 «O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.

Da come si evince dal testo la sua grande importanza sta nel bello stilo che in Dante vuol dire stilo tragico, lo stile più alto per la poesia epica. Ciò significa che, se il padre della letteratura italiana dichiara d’essere “umile” seguace dell’insegnamento virgiliano, se, a sua volta, la cultura italiana è stata maestra di quella europea, l’importanza di Virgilio varca realmente i confini di spazio e tempo per arrivare fino agli intellettuali del ’900, come testimoniato dal romanziere di lingua tedesca Herman Broch che dedica all’autore dell’Eneide un intero romanzo, La morte di Virgilio.

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Biografia

La biografia virgiliana ci è testimoniata da Elio Donato, che a sua volta l’aveva ripresa da una sezione del libro di Svetonio, intitolata De poëtis, andata perduta. A tale biografia si rifà lo stesso Dante:

… li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

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Statua di Virgilio a Mantova

Sappiamo, più o meno che egli è nato nel 70 a. C. nei pressi di Mantova, più precisamente, secondo alcuni, ad Andes (località oggi collocabile nella città di Pietole in Lombardia), da agiati proprietari terrieri, se gli stessi hanno avuto la possibilità di farlo studiare dapprima a Cremona e quindi a Milano, per poi trasferirsi a Roma. L’urbe, in quel periodo era attraversata dalla guerra civile dapprima tra Cesare e Pompeo, quindi dal cesaricidio ed infine dalla guerra tra Antonio e Ottaviano contro gli assassini di Cesare. Anni fortemente problematici per il timido Virgilio, che nel frattempo si era trasferito a Napoli per seguirvi le lezioni di filosofia epicurea tenute da Sirone e Filodemo di Gadara. E’ di questi anni la notizia non confermata del primo tentativo da parte di Antonio di requisire parte dei suoi terreni per offrirli ai suoi soldati dopo la guerra di Filippi, che vide i cesaricidi sconfitti; non sappiamo se il tentativo sia fallito grazie alle influenti conoscenze di Virgilio stesso, oppure portato a termine e poi “riparato” da Augusto stesso. E’ che questo episodio lo deriviamo dalla sua prima opera ufficiale, le Bucoliche, composte tra il 42 e il 39 a. C., opera che ebbe una buona eco da far sì che lo stesso poeta venisse avvicinato da Mecenate e quindi entrasse a far parte della cerchia di Augusto.

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Mecenate

Accompagnando il volere del principe con la sua ispirazione poetica egli si accinse a scrivere le Georgiche , la cui composizione occupò quasi un decennio (38 – 29 a.C.) in cui la restaurazione agricolo-pastorale di Augusto faceva da sfondo al mondo georgico di Virgilio stesso.

Gli anni successivi furono tutti dedicati alla composizione dell’Eneide, attesa con ansia non solo dallo stesso Augusto, ma anche dagli stessi intellettuali come si può arguire da Properzio che dichiara nescio quid maius nascitur Iliade (non so che cosa di più grande nasca dell’Iliade). L’opera prese forma tra il 29 e il 19 a. C., anno della sua morte. Per Virgilio mancava l’ultima revisione (secondo il suo parere da svolgere in circa tre anni) e per far ciò si reca ad Atene, dove incontra lo stesso Augusto. Decide quindi di tornare con lui, ma durante una visita a Megara, a seguito di un’insolazione, è colto da malore e muore a Brindisi il 21 settembre del 19. Verrà seppellito a Napoli e la tradizione gli attribuisce il seguente epitaffio:

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Tomba di Virgilio a Napoli

EPITAFFIO

Mantua me genuit, Calabri rapuere tenet nunc
Partenope; cecinit pascua, rura, duces.

Mantova mi ha generato, mi ha rapito la Calabria, mi tiene ora
Napoli; ho cantato i pascoli, la campagna, gli eroi

Bucoliche

Le Bucoliche sono la prima opera virgiliana, composta tra il 42 e il 39, quando la guerra tra Ottaviano e Marco Antonio era ancora ben lontana dall’esaurirsi. Il titolo deriva direttamente dal greco e sottintende il termine carmina. Quindi Bucolica carmina sta per “Canti dei pastori”. Ogni canto si definisce ecloga o egloga (il cui significato greco è “poesia scelta”). Il modello cui Virgilio s’ispira è il poeta siracusano Teocrito, vissuto nel III secolo, i cui poemetti venivano chiamati Idilli dai grammatici, il cui successo a Roma fu enorme. Particolarmente apprezzati furono quelli d’ispirazione pastorale (non i soli nel poeta siracusano) ma che furono, quindi, ripresi e sviluppati, in modo proprio e personale da Virgilio. A dire il vero non siamo in grado di raccogliere testimonianze che ci diano il percorso di tale genere nella poesia latina: Virgilio rappresenta pertanto il poeta da cui partire e che, proprio da lui, prenderà le mosse per affermarsi in Italia nel Quattrocento con Sannazzaro e nel Settecento con il movimento poetico dell’Arcadia.

L’opera virgiliana è strutturata in dieci brevi poemetti in esametro.

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Miniatura che riporta la prima ecloga

Già dal primo possiamo individuare l’aurea poetica che li caratterizza.

TITIRO E MELIBEO
(I, 1-35)

MELIBOEUS

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena:
nos patriae finis et dulcia linquimus arva.
Nos patriam fugimus: tu, Tityre, lentus in umbra
formosam resonare doces Amaryllida silvas.

TITYRE

O Meliboee, deus nobis haec otia fecit.
namque erit ille mihi semper deus, illius aram
saepe tener nostris ab ovilibus imbuet agnus.
Ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum
ludere quae vellem calamo permisit agresti.

MELIBOEUS

Non equidem invideo, miror magis; undique totis
usque adeo turbatur agris. En, ipse capellas
protenus aeger ago; hanc etiam vix, Tityre, duco.
Hic inter densas corylos modo namque gemellos,
spem gregis, a! silice in nuda conixa reliquit.
Saepe malum hoc nobis, si mens non laeva fuisset,
de caelo tactas memini praedicere quercus.
Sed tamen iste deus qui sit, da, Tityre, nobis.

TITYRE

Urbem quam dicunt Romam, Meliboee, putavi
stultus ego huic nostrae similem, quo saepe solemus
pastores ovium teneros depellere fetus.
Sic canibus catulos similes, sic matribus haedos
noram, sic parvis componere magna solebam.
Verum haec tantum alias inter caput extulit urbes
quantum lenta solent inter viburna cupressi.

 MELIBOEUS

Et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi?

 TITYRE

Libertas, quae sera tamen respexit inertem,
candidior postquam tondenti barba cadebat,
respexit tamen et longo post tempore venit,
postquam nos Amaryllis habet, Galatea reliquit.
namque, fatebor enim, dum me Galatea tenebat,
nec spes libertatis erat nec cura peculi:
quamvis multa meis exiret victima saeptis,
pinguis et ingratae premeretur caseus urbi,
non umquam gravis aere domum mihi dextra redibat.

Melibeo: Titiro, tu che riposi all’ombra di un ampio faggio / Componi un carme silvestre su un esile flauto: / noi lasciamo i confini della patria e i dolci campi; /  fuggiamo la patria; tu, o Titiro, placido nell’ombra / fai risuonare le selve del nome della dolce Amarilli.
Titiro: O Melibeo, un dio mi ha donato questa pace / e infatti lo considererò sempre un dio, il suo altare / un tenero agnello dei nostri ovili bagnerà. / Egli ha permesso che i miei armenti vaghino e che io stesso / canti con un flauto agreste quello che desidero.
Melibeo: Non t’invidio, sono maggiormente meravigliato. In ogni parte in tutti / i campi fino a tal punto è confusione. Ecco io stesso / malato le caprette spingo avanti; questa, o Titiro, conduco a stento. / Qui tra i fitti noccioli, or ora, due gemelli, / speranza del gregge, dopo aver partorito, ha lasciato sulla nuda pietra. / Spesso questo male a noi, se la mente non fosse stata distratta, / ricordo che ce lo predisse una quercia colpita da un fulmine. / Ma tuttavia, chi sia questo dio, dicci, o Titiro.
Titiro: Una città, che chiamano Roma, o Melibeo, ho creduto, io pazzo, / simile a questa nostra, dove spesso siamo soliti / noi pastori allontanare i teneri figli degli agnelli. / Così i cagnolini simili ai cani, così i capretti alle madri / conoscevo; così ero solito confrontare le cose grandi con le piccole / In verità questa ha sollevato il capo tra le altre città, / quanto sogliono i cipressi tra i flessibili viburni.
Melibeo: E quale grande motivo avesti di vedere Roma?
Titiro: La verità, che sebbene tardi, tuttavia ha guardato me inerte / dopo che la barba cadeva più bianca a me che mi radevo; / finalmente ha volto lo sguardo e dopo lungo tempo è venuta, / da quando Amarilli mi ha, Galatea mi ha lasciato. / E infatti, lo confesserò dunque, per tutto il tempo che Galatea mi possedeva, / non vi era speranza di libertà, né cura del denaro: / sebbene molte vittime uscissero dai miei ovili, / e ricco formaggio fosse premuto per l’ingrata città / giammai tornai a casa con le mani piene di denaro.

Il poemetto prosegue con l’incontro di Titiro con un giovane che lo invita a riprendere il lavoro dei campi e a tornare ai valori della terra. Sconsolato Melibeo ricorda che la sua terra verrà requisita:

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Contadini nell’antica Roma

UN EMPIO SOLDATO AVRA’ I CAMPI COLTIVATI
(I, 70-83)

MELIBOEUS
………………..
Impius haec tam culta novalia miles habebit,
barbarus has segetes: en quo discordia civis
produxit miseros: his nos consevimus agros!
Insere nunc, Meliboee, piros, pone ordine vitis.
Ite meae, quondam felix pecus, ite capellae.
Non ego vos posthac viridi proiectus in antro
dumosa pendere procul de rupe videbo;
carmina nulla canam; non me pascente, capellae,
florentem cytisum et salices carpetis amaras.

TITYRUS

Hic tamen hanc mecum poteras requiescere noctem
fronde super viridi: sunt nobis mitia poma,
castaneae molles et pressi copia lactis,
et iam summa procul villarum culmina fumant,
maioresque cadunt altis de montibus umbrae.

Melibeo: Un empio soldato possederà queste maggesi così coltivate / un barbaro questi raccolti. Ecco dove la discordia / ha portato i miseri cittadini! Per questi noi abbiamo coltivato i nostri campi! / Innesta ora, o Melibeo, i peri, pianta in ordine le viti. / Andate, gregge un tempo felice, andate mie caprette. / D’ora in avanti non io, sdraiato in una verde grotta, / vi vedrò pendere lontano sospese da un rupe; / non canterò nessun canto; mentre io vi pascolo, caprette / non raccoglierete il citiso in fiore e i salici amari.
Titiro: Qui tuttavia potrai riposare tutta la notte, / sopra le verdi fronde: noi abbiamo frutti maturi, / tenere castagne e abbondante formaggio / e ormai fumano da lontano le sommità dei tetti delle case / e più grandi scendono le ombre dagli alti monti.
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Manoscritto medievale sul testo virgiliano

La prima ecloga rappresenta sia il modo attraverso cui Virgilio “rilegge” l’opera teocritea, nonché il clima poetico che il poeta mantovano ha voluto dare all’opera: se gli Idilli, infatti, rispettano proprio il loro significato (da “eidos”, vedere) rappresentando un “quadretto”, appunto “bucolico” o anche “quotidiano”, in Virgilio tale situazione si “sentimentalizza” per:

  • la creazione di un modo “mitico” in cui l’otium possa fare da contraltare alla realtà ancora sconvolta dalla guerra civile;
  • l’autobiografismo non “scoperto”, ma accennato nell’episodio della requisizione della terra che se non riguarda Virgilio direttamente, rappresenta uno vero e proprio stato d’animo dei proprietari terrieri dopo la battaglia di Filippi;
  • il servitium amoris che vedremo anche nella poesia augustea successiva, ma che qui assume quasi una certa “quotidianità” nel sottolinearne l’aspetto economico attraverso due ninfe.

Al di là dei motivi summenzionati quello che caratterizza l’opera è la fondazione di un topos che resterà presente nella poesia elegiaca latina e in quella successiva in lingua italiana: il locus amoenus, cioè la descrizione di un luogo non reale in cui prevale la bellezza e la floridezza (prati verdi, boschi frondosi, ruscelli limpidi e canti di uccelli).

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Mosaico di pastore nella basilica d’Aquileia 

La II ecloga rappresenta una storia d’amore omosessuale (il pastore Coridone si lamenta che l’amato non lo corrisponde). Non ci deve sorprendere la presenza di un amore omosessuale sia perché l’omosessualità non rappresentava allora un problema, sia perché nella poesia bucolica si scandagliava l’amore in qualsiasi forma si presentasse.

Nella III ecloga vi è una gara poetica tra i pastori Menalca e Dameta e l’indecisione del giudice Polemone che non sa a chi dare la palma del migliore. E’ pertanto un “carme amebeo”, cioè con versi pronunciati in modo alternato.

La IV ecologa è famosissima:

PUER
(IV, 1- 17)

Sicelides Musae, paulo maiora canamus!
Non omnis arbusta iuvant humilesque myricae;
si canimus silvas, silvae sint consule digne.
Ultima Cumaei venit iam carminis aetas;
magnus ab integro saeclorum nascitur ordo;
iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna,
iam nova progenies caelo demittitur alto.
Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum
desinet ac toto surget gens aurea mundo,
casta fave Lucina: tuus iam regnat Apollo.
Teque adeo decus hoc haevi, te consule, inibit,
Pollio, et incipient magni procedere menses;
te duce, si qua manent sceleris vestigia nostri,
inrita perpetua solvent formidine terras.
Ille deum vitam accipiet divisque viderit
permixtos heroas et ipse videbitur illis,
pacatumque reget patriis virtutibus orbem.

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Partoriente con ostetrica

Muse Siciliane, cantiamo argomenti un po’ più elevati! / Non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici; / se cantiamo i boschi, i boschi siano degni d’un console. / Ormai è giunta l’ultima profezia della sibilla cumana; / una grande serie di generazioni nasce da capo; / torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno; / ormai una grande progenie è mandata dall’alto cielo. / Tu al fanciullo che ora nasce, per il quale dapprima la ferrea / stirpe cesserà e sorgerà in tutto il mondo l’aurea (generazione), / sii favorevole, casta Lucina, ormai regna il tuo Apollo. / Ed essendo proprio tu console inizierà questo decoro dell’età (età splendida), / o Pollione, e inizieranno a procedere i grandi mesi, / sotto la tua guida, se rimangono alcune ombra della nostra scelleratezza, / cancellate, libereranno le terre dalla paura. / Egli accoglierà la vita degli dei, e vedrà agli dei / misti gli eroi e lui stesso sarà visto da loro, /e guiderà il mondo pacificato dalle virtù patrie.

La sua notorietà è dovuta soprattutto al fatto che essa fu alla base di quella fama cha nel Medioevo fece di Virgilio un “mago”: infatti il “puer” presente in quest’ecloga venne inteso come la prefigurazione di Gesù Cristo. E’ evidente che il senso profetico virgiliano sta tutto all’interno della visione trascendentale del periodo medioevale: oggi interessa maggiormente capire che tale riferimento non è religioso, anzi, quasi seguendo l’opposta filosofia epicurea, sotto l’egida della filìa, si tratta dell’omaggio ad un amico, Pollione, che allora stava per diventare padre. Ma come sempre in Virgilio ridurlo all’aspetto familiare, sebbene di pregevole fattura, così come è tessuto di poetica alessandrina, sembrerebbe riduttivo: nel testo poetico, infatti, appare evidente il richiamo alla mitica “età dell’oro” e dell’esigenza di un suo ritorno, a suggellare la fine del periodo di guerra a cui il poeta guarda con angoscia.

Non si può poi dimenticare come i primi versi, quasi capovolgendone il senso, sia diventati centrali per la visione poetica di Giovanni Pascoli, che proprio a partire dalla citazione sulle tamerici virgiliane, titolerà una sua fondamentale raccolta poetica Myricae (1891-1911).

La V ecloga è la più rappresentativa da un punto di vista bucolico: infatti i pastori Menalca e Mopso, in un carme amebeo, piangono la morte di Dafni, nato da una ninfa ed inventore del canto pastorale.

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Particolare della statua di Sileno (Louvre)

Nella VI ecloga troviamo il vecchio satiro Sileno, rappresentato con orecchie e zampe equine. Per scherzo viene legato da due pastorelli e costretto a cantare l’origine del mondo ed altri miti.

Nella VII ecloga ci viene presentata una gara poetica tra Coridone e Tirsi, caratterizzata anch’essa dalla forma “amebea”.

Il tema dell’VIII ecloga è la gelosia ed il tradimento: mentre il pastore Damone narra la disperazione per il tradimento dell’amata Nisa, Alfesibeo racconta l’incantesimo amoroso di una pastorella per recuperare il proprio amore.

La IX ecloga ripresenta il tema dell’espropriazione dei campi dopo la guerra: infatti Menalca è stato privato della sua terra e i pastori Licida e Meri piangono la sorte dell’amico.

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Cornelio Gallo

La X ed ultima è un omaggio a Cornelio Gallo: narra la sua infelice storia d’amore con la bella Licoride, e solo va cantando la sua tristezza nei campi solitari dell’Arcadia.

Le Bucoliche, nel loro complesso, sono un’opera nella quale vengono a convergere le aspettative degli intellettuali di quel periodo: quello di un ritorno ad un mondo in cui la pace domina sulla distruzione, la quiete sullo sconvolgimento; ma per far questo si ha bisogno di una “palingenesi”, palingenesi ben rappresentata dalla presenza del puer nella IV ecloga: infatti la nascita di un fanciullo può ben rappresentare il “nuovo”, la rigenerazione, da contrapporsi alla morte delle guerre civili non ancora concluse.

Non bisogna dimenticare come Virgilio cerchi di rappresentare questa speranza:

  • la creazione di un mondo mitico come quello dell’Arcadia;
  • l’esaltazione della poesia, posta nell’ecloga centrale, quella di Dafni, inventore del canto pastorale;
  • l’idealizzazione della vita pastorale

ma non s’allontana dalla realtà:

  • l’esproprio delle terre da parte di Ottaviano;
  • la presenza esplicita della figura d’Ottaviano;
  • Asinio Pollione, console, di cui narra la nascita del figlio;
  • Cornelio Gallo, richiamato nell’ultima ecloga.

Ecco che realtà ed immaginazione riescono a convergere nel dettato poetico: nulla di descritto appare “falso”, ma nulla “crudo”; si ripensi all’ultima scena della prima ecloga, quando Melibeo piange per la perdita del suo terreno e Titiro l’invita a riposare: nell’immagine dei camini delle case e della notte che scende dal monte, non c’è una rappresentazione veriteria, ma un paesaggio dell’anima in cui il poeta rivede con nostalgia i luoghi della sua infanzia.

Pur essendola la prima opera virgiliana bisogna sottolineare come l’autore voglia, a fronte di diverse  tematiche, infondere un tono unitario, lavorando su una struttura che, attraverso richiamo tra un’egloga e un’altra, dia un tono armonioso all’intero testo: le egloge pari hanno una struttura narrativa, le dispari dialogica; la V, posta al centro esalta la poesia bucolica, l’ultima rappresenta proprio, attraverso la narrazione della scelta di Cornelio Gallo, poeta elegiaco, per l’amore e la poesia, il punto conclusivo, se l’autore stesso la definisce, nel 1 v. extremum laborem.

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Edizione de Le georgiche virgiliane del 1777

Georgiche

Le Georgiche sono la seconda opera virgiliana, la cui composizione si situa tra il 37 ed il 30 a. C. ed hanno anch’esse, come le Bucoliche, un titolo di derivazione greca Gheorghica carmina, il cui significato rimanda alla poesia contadina.

Se il riferimento della poesia pastorale era stato Teocrito, qui Virgilio si trova in un campo assai frequentato dalla poesia greca e latina: il poema didascalico. A partire dal padre di tale genere, l’Esiodo delle Opere e i giorni dell’VII secolo fino ai Fenomeni di Arato, così famosi a Roma che lo stesso Cicerone ne fece una versione, gli Aratea, appunto, i latini si erano appropriati del genere fino a renderlo un vero e proprio capolavoro con il De rerum natura di Lucrezio.

Virgilio si trovava quindi di fronte ad un’impresa non semplice, scendere in un campo in cui gli antichi e gli alessandrini, nonché i neoteroi ed il grande Lucrezio si erano già espressi. Ma come mai intraprese tale compito?

Interea Driadum silvas saltusque sequamur
intactos, tua, Maecenas, haud iussa mollia.

Nel frattempo seguiamo i boschi e pascoli segreti
delle driadi* tuoi non lievi comandi
* driadi: ninfe delle querce

A leggere questi due versi, tratti dal terzo libro, vv. 40-41 ci accorgiamo che:

  • Ad apparire vi è il nome di Mecenate, quindi Virgilio è già entrato nell’entourage di Ottaviano, non ancora diventato Augusto;
  • L’opera sembra essere stata commissionata, più che sentita dal poeta stessa, se deve obbedire ad ordini non facili.

L’opera è strutturata in quattro libri in esametro i cui argomenti possono essere così suddivisi, come ci dice lui stesso nel proemio del libro primo:

ARGUMENTA
(I, 1-5)

Quid faciat laetas segetes, quo sidere terram
vertere, Maecenas, ulmisque adiungere vites
conveniat, quae cura boum, qui cultus habendo
sit pecori, apibus quanta experentia parcis
hinc canere incipiam. …. 

Quel che allieti le messi, a quale stella  / voltar la terra, Mecenate, e agli olmi / unir le viti, quale aver de’ buoi / cura e qual modo in allevare armenti / seguire, quanta dall’api frugali / esperienza, qui a cantare io prenda.

Quindi essi sono

  • Il lavoro dei campi;
  • L’arboricoltura;
  • L’allevamento del bestiame;
  • L’apicoltura.

Come si può vedere gli argomenti erano prettamente tecnici. Tuttavia non bisogna pensare che, pur avendo come lettore ideale l’agricola, fossero proprio i contadini i destinatari: si trattava infatti di un modello sia alessandrino che, per quanto riguarda la poesia latina, neoterico, di conciliare, come fosse una sfida, uno stile altissimo e ricercato ad un argomento umile, tecnico.

Virgilio in parte segue questo modello, ma in parte lo adotta alla sua sensibilità. Fin a partire dal primo libro, infatti, se nel modello esiodeo il lavoro era visto come una punizione divina per Prometeo (aveva donato il fuoco agli uomini, contro il volere del dio) fatta scontare agli uomini, per Virgilio invece esso è un dono divino, affinché gli uomini aguzzassero l’ingegno:

IL LAVORO, PER IL PROGRESSO DELL’UMANITA’
(1, 118-142)

Nec tamen, haec cum sint hominumque boumque labores
versando terram experti, nihil improbus anser
Strymoniaeque grues et amaris intiba fibris
officiunt aut umbra nocet. pater ipse colendi
haut facilem esse viam voluit primusque per artem
movit agros curis acuens mortalia corda,
nec torpere gravi passus sua regna veterno.
Ante Iovem nulli subigebant arva coloni;
ne signare quidem aut partiri limite campum
fas erat: in medium quaerebant, ipsaque tellus
omnia liberius nullo poscente ferebat.
Ille malum virus serpentibus addidit atris,
praedarique lupos iussit pontumque moveri,
mellaque decussit foliis ignemque removit,
et passim rivis currentia vina repressit,
ut varias usus meditando extunderet artis
paulatim, et sulcis frumenti quaereret herbam,
ut silicis venis abstrusum excuderet ignem.
Tunc alnos primum fluvii sensere cavatas;
navita tum stellis numeros et nomina fecit
Pleiadas, Hyadas, claramque Lycaonis Arcton;
tum laqueis captare feras et fallere visco
inventum et magnos canibus circumdare saltus;
atque alius latum funda iam verberat amnem
alta petens, pelagoque alius trahit umida lina;
tum ferri rigor atque argutae lammina serrae
(nam primi cuneis scindebant fissile lignum),
tum variae venere artes. labor omnia vicit
improbus et duris urgens in rebus egestas.

 

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Retro di moneta del ‘600 francese con il motto virgiliano

Tuttavia, benché le fatiche di buoi ed uomini abbiano sperimentato / a proprie spese queste azioni rivoltando la terra, l’anatra testarda, / le gru dello Strimone e la cicoria dai filamenti amari / nuocciono o l’ombra nuoce. Proprio Giove volle che la via / per la coltivazione non fosse facile ed egli per primo attraverso un prodigio fece dissodare / i campi, stimolando i cuori degli uomini con i bisogni / e non permise che i suoi regni si intorpidissero in una pesante apatia. / Prima di Giove nessun agricoltore coltivava i campi / e non era neppure lecito segnare i confini o ripartire un campo / con una linea di confine; procuravano in comune e la terra da sola / più spontaneamente produceva, anche se nessuno doveva chiedere. / Egli aggiunse ai serpenti terribili il tremendo veleno, / ordinò ai lupi di cercarsi delle prede, al mare di agitarsi, / scosse via dalle foglie i mieli, tolse il fuoco / e fermò i vini che copiosamente scorrevano nei ruscelli, / perché il bisogno, attraverso la riflessione, foggiasse le arti diverse, / poco a poco, e nei solchi cercasse la pianta del frumento, / perché facesse sprizzare il fuoco nascosto nelle vene del sasso. Allora per la prima volta i fiumi sentirono su di sé gli ontani incavati; / allora il marinaio creò numeri e nomi per le stelle, / Pleiadi, Hiadi e l’Orsa splendente di Licaone; allora si scoprì come catturare coi lacci le belve, catturare col vischio / e circondare coi cani i grandi anfratti boscosi, e chi sferza il largo fiume con una rete, cercando il fondo dirigendosi al largo, chi ritrae dal mare le reti umide di lino; / allora la durezza del ferro e la lama della sega stridente (infatti i primi uomini tagliavano il legno tenero con i cunei), / allora vennero le svariate tecniche. Il lavoro ostinato vince tutto, / e come il bisogno che incalza nelle situazioni difficili.

In questo passo, tratto dal primo libro, si capisce perfettamente come il destinatario non sia il contadino alle prese con il duro lavoro dei campi, ma il cives Romanus: il concetto per cui il labor omnia vicit, infatti appartiene a quel concetto già presente nella quarta ecloga delle Bucoliche, quello della rinascita, che qui si iscrive sotto l’egida di una profonda pietas, cioè rispetto per i valori religiosi tradizionali. E’ da qui che bisogna ripartire se si vuole rifondare, dopo le guerre civile, il destino dell’Italia.

Nel secondo libro troviamo come tema quello dell’arboricoltura. Alla fine di esso vi è un appassionato elogio della vita agreste:

ELOGIO DELLA VITA CAMPESTRE
(II, vv. 458 – 474)
O fortunatos nimium, sua si bona norint,
agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
fundit humo facilem victum iustissima tellus.
Si non ingentem foribus domus alta superbis
mane salutantum totis vomit aedibus undam
nec varios inhiant pulchra testudine postis
inlusasque auro vestis Ephyreiaque aera
alba neque Assyrio fucatur lana veneno
nec casia liquidi corrumpitur usus olivi,
at secura quies et nescia fallere vita,
dives opum variarum, at latis otia fundis,
speluncae vivique lacus et frigida Tempe
mugitusque boum mollesque sub arbore somni
non absunt; illic saltus ac lustra ferarum
et patiens operum exiguoque adsueta iuventus,
sacra deum sanctique patres; extrema per illos
Iustitia excedens terris vestigia fecit.

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Villa Livia a Roma

O troppo fortunati, se conoscessero i loro beni / gli agricoltori! per i quali la stessa lontano dalle discordie delle armi / giustissima terra dal suolo spande un facile vitto. / Se l’alta casa dalle porte superbe un’ingente / marea non riversa al mattino da tutte le stanze al (cliente) che saluta / né osserva con la bocca aperta gli stipiti intarsiati di bella tartaruga / e vesti ricamate d’oro e bronzi d’Efira / né la bianca lana è tinta dal colore assiro / né l’uso del puro olio è corrotto dalla cannella, / ma una sicura pace e una vita che non sa sbagliare / ricca di beni diversi, ma ozi nei vasti possedimenti / grotte e laghi naturali e la fresca Tempe / e il muggito dei buoi e i dolci sonni sotto l’albero, / non mancheranno; la i boschi e i covili della fiere / e la gioventù paziente delle fatiche e contenta di poco / i culti degli dei e il rispetto inviolabile dei padri; attraverso essi gli ultimi / passi la Giustizia mosse abbandonando la terra.

E’ un passo fondamentale per comprendere quanto l’influenza lucreziana abbia operato nel lavoro dell’autore mantovano: ci troviamo qui di fronte alla contrapposizione tra la città e la vita agreste, tra il lusso sfrenato e la pacatezza dell’otium. E’ un inno all’autarkeia, all’accontentarsi del poco, ma anche del sapiens, che sa riconoscere qual è il vero bene. Sintomatico sotto questo aspetto il primo verso: “O fortunati gli agricoltori se sapessero conoscere il loro bene” in cui mostra come sia importante la consapevolezza della conoscenza. Ma egli va anche oltre Lucrezio, quando afferma che essa non può essere non accompagnata dal rispetto verso gli dei e verso i padri. Tema dominante, in seguito dell’Eneide.

Il terzo libro si apre con la prefigurazione della scrittura del poema epico. Poi prosegue con l’allevamento e con un excursus sulla lotta tra i tori e l’innamoramento dei cavalli. Si chiude con la peste di Norico, abbattutasi sulle pecore nell’attuale Austria, provincia romana, chiamata, appunto, Norico. Tale digressione si rifà alla peste d’Atene di lucreziana memoria.

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Lotta tra tori da un codice miniato (musei Vaticani)

Più importante il IV libro dove viene riportata la favola di Aristeo:

Aristeo è figlio della ninfa delle acque Cirene. Disperato per la morte delle api, si rivolge a lei che gli permette di scendere nel suo regno. Qui Aristeo può vedere il meraviglioso mondo delle acque cristalline, quindi, sotto consiglio delle madre, va ad interrogare Proteo, divinità dalle mille forme, che gli rivela che le ninfe sono adirate con lui perché ha causato la morte di una di loro, Euridice, che, mentre fuggiva alla sua furia amorosa, è morda da un serpente. Ma Euridice era anche l’amata infelice di Orfeo e Proteo racconta la sua triste storia. Per riparare al danno arrecato, Aristeo sacrifica quattro buoi e quattro giovenche; dopo nove giorni dal sacrificio torna e trova che dai corpi putrescenti sono natte le api. E’ questa l’origine della “bugonìa” (generazione dal corpo dei buoi) che spiega una credenza folcrorica del mondo romano, che da un corpo morto potesse rinascere la vita.

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Euridice morsa da un serpente inseguita da Aristeo (codice del 1400)

BUGONIA
(IV, 548-558)

Haud mora, continuo matris praecepta facessit:
ad delubra venit, monstratas excitat aras,
quattuor eximios praestanti corpore tauros
ducit et intacta totidem cervice iuvencas.
Post ubi nona suos Aurora induxerat ortus,
inferias Orphei mittit lucumque revisit.
Hic vero subitum ac dictu mirabile mostrum
aspiciunt, liquefacta boum per viscera toto
stridere apes utero et ruptis effervere costis,
immensasque trahi nubes, iamque arbore summus
confluere et lentis uvam demittere ramis.

Non v’ha indugio, d’un subito i precetti / adempie della madre. S’avvia al tempio, / erige l’are a lui indicate e quattro / tori, tra i più belli, di robusto corpo / vi guida e in egual numero giovenche / d’intatto collo. Poi, quando la nona, / aurora riportava le sue luci, / offre i funebri doni ad Orfeo e ritorna / a rivedere il bosco. Ed ecco, un nuovo / miracolo, mirabile a narrarsi, / s’offre: dei tori nei corrotti visceri / da tutto il corpo un gran brusire d’api / e un brulicare sulle rotte costole, / e gran nuvoli uscire e sulla cima / d’un albero raccogliersi, e dai rami / protesi, intorno pendere un grappolo.

Da come si dovrebbe aver capito, le Georgiche non sono certamente opera destinata ai contadini (a tale scopo provvedevano i vari libretti in prosa che circolavano copiosi nel mercato romano), ma piuttosto al ricco cittadino, latifondista (il cui terreno peraltro era lavorato dai servi), che era capace sia d’apprezzare la perizia compositiva che un richiamo ai valori che il “mito” della terra racchiudeva in sé.

In questo campo non c’è una gerarchia tra Augusto e Virgilio tramite Mecenate, ma un convergere insieme verso un progetto di “restaurazione valoriale” di cui la campagna diventava lo strumento; non per niente la Roma “virtuosa” era nata nei campi (si pensi a Catone il Censore e al suo De agricultura), ma ancor più evidente è l’acrimonia con cui descrive la Roma da fine repubblica, con i suoi cliens, il suo lusso sfrenato, l’ostentazione vuota, che un giovane intellettuale formatosi sulla scuola epicurea mal tollerava.

Da un punto di vista stilistico l’opera, pur nella varietà tematica, si può a grosso modo dividere in due: la prima parte (I e II libro) dedicati alla terra, la seconda (III e IV libro) dedicati agli animali. Ma a tenere insieme la materia è una vera e propria ricercatezza strutturale: tutti e quattro i libri si aprono con la dedica a Mecenate, inoltre ciascuno dei quattro libri si chiude con un excursus. Quest’ultimi sono posti in modo alterno: infatti nel primo e nel terzo la chiusa è fortemente drammatica: le guerre civili (I libro), la peste di Norico (III), nel secondo e nel quarto invece la conclusione è felice: l’elogio della vita campestre (II), la “bugonia” (IV).

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Virgilio con l’Eneide in mano Tra Clio (musa della storia) e Melpomene (musa della tragedia)

Eneide

L’Eneide è un poema epico in 12 libri scritto in esametri. Prima di ogni altro discorso dobbiamo chiarire cos’è un poema epico: una lunga narrazione in versi (poema) in cui si raccontano fatti eroici, leggendari o storici. Virgilio, quindi, rispettando il genere (e lo stile) che l’opera richiedeva aveva di fronte l’opera letteraria per eccellenza, quella dell’Iliade e dell’Odissea omerica. Non erano certo mancati continuatori (ed anche detrattori) del genere stesso: esempio illustre, nell’epoca augustea, sono certamente le Argonautiche di Apollonio Rodio, che tuttavia, in pieno alessandrinismo, conserva il contenuto ma riduce notevolmente la lunghezza. Roma stessa, nel momento in cui si vuole dotare di una letteratura propria, non può far di meglio che iniziare nel nome di Omero: l’Odusia di Livio Andronico è il primo tentativo di inserire gli strumenti retorici e stilistici ed adattarli linguisticamente. Nevio con il suo Bellum Poenicum o Ennio con i suoi Annales costituirono certamente per Virgilio un continuo e ricco punto di riferimento (si pensa che sia da Nevio che egli trasse alcuni spunti per la storia di Enea e Didone). Ma certamente fu Omero a dargli l’ispirazione e a fornirgli materiale che lui seppe mirabilmente elaborare.

L’Eneide è stata scritta tra il 27 ed il 19 a. C.; la redazione dell’opera a noi giunta non è quella che Virgilio prospettava: mancava ancora qualche ritocco per rendere il testo definitivo: 58 versi non sono conclusi, i cosiddetti tibicĭnes, rarissime volte si riscontra qualche leggera contraddizione. Fu stampata così come lui l’ebbe lasciata e contro la sua volontà per volere di Augusto. Essa narra:

Libro I
Il primo libro inizia con la protasi (cioè l’argomento) e l’invocazione:

PROEMIO
(vv. 1-11) 

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam fato profugus laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram,
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem
inferretque deos Latio, genus unde Latinum
Albanique patres atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso
quidve dolens regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
inpulerit. Tantaene animis caelestibus irae!

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Enea

Armi canto e l’uomo, che primo dai lidi di Troia / venne in Italia fuggiasco per fato, giunse e alle spiagge / lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda / di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone, / molto sofferse anche in guerra, finch’ebbe fondato / la sua città, portato nel Lazio i suoi dei, donde il sangue / Latino e i padri Albani e le mura dell’alta Roma. / Musa, tu dimmi le cause, per quale offesa divina / Per qual dolore la regina dei numi a soffrir tante pene, / a incontrar tante angosce condannò l’uomo pio. / Così grandi nell’animo dei celesti le ire!

Sin dall’incipit del poema ci muoviamo sul solco della emulazione/confronto con i poemi omerici: arma si riferiscono alle guerre, al mondo iliaco, che fanno da sfondo all’ira dell’eroe Achille, (Cantami, o diva, del Pelide Achille l’ira funesta); virum sembra maggiormente riferirsi all’uomo, in questo caso l’Ulisse dell’Odissea, per lo più iactatus terris et alto (mari) sbattuto per terre e per mare, e quindi a quel girovagare alla ricerca del suo fine. Ma qui il fine sono le altae Romae moenia, le alte mura di Roma, la fondazione della città, il suo bisogno di una rigenerazione che passasse anche per la riformulazione di un muto, quello d’Enea, che, personaggio omerico, fuggito da Troia, fonderà Roma per volontà degli dei. Per questo egli è insignis pietate “insigne per pietà”, perché ottempera a ciò che il destino (fata) hanno deciso per lui. Ma Virgilio non può non pensare di essere nato nel I secolo a. C., quanto la visione degli dei romana aveva subito un forte ridimensionamento per lo svilupparsi a Roma delle ideologie epicuree e neppure egli può fare a meno di pensare la storia come un avvenimento “casuale” determinato quasi “meccanicamente”, né, può abbracciare semplicemente la credulità popolare: ecco allora che si situa, sin da subito un rapporto dialettico, oserei dire conflittuale con il divino; da qui la sua riflessione Tantaene animis caelestibus irae! Che sottolinea il grado di difficoltà personale (che trasmetterà anche ad Enea) nel rapportarsi con la tradizione della religione romana. Non possiamo qui dimenticare la eco che tale incipit ebbe: si pensi solo all’inizio sia alferiano Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, ma ancor più pedissequamente l’inizio della Gerusalemme Liberata di Tasso: Canto l’arme pietose e ’l capitano / che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.

Il primo canto prosegue spiegando l’ira di Giunone, protettrice di Cartagine. Ella sapeva che nei disegni divini ci sarebbe stata la potenza di Roma, per questo cerca di ritardare l’arrivo di Enea nel Lazio. Quindi, mentre Enea naviga verso la Sicilia, con l’aiuto di Eolo (re dei venti), fa scoppiare una tremenda tempesta. Per intervento di Nettuno le acque si placano e il nostro eroe raggiunge le terre della Libia. Mentre Enea sta perlustrando il luogo, incontra la madre, trasformatasi in cacciatrice, che le racconta la storia della regina Didone, mentre Giove ispira a quest’ultima benevolenza verso gli ospiti. Venere, per essere più sicura, chiede a suo figlio Cupido, dio dell’amore, di prendere le sembianze del piccolo figlio di Enea, Ascanio. Quando i due giungeranno alla reggia, Cupido con le sue arti farà innamorare Didone dell’eroe troiano, a cui chiederà di raccontare sin dall’inizio le sue disavventure.

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Enea incontra Venere nelle vesti di cacciatrice

Libro II

Inizia il racconto d’Enea e qui, Virgilio, si mostra un vero e proprio maestro nell’istituire un parallelo con l’antecedente omerico: infatti come Ulisse ha raccontato nella terra dei Feaci le sue avventure, allo stesso modo Enea le dovrà raccontare alla regina:

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Narcisse Guérin: Enea racconta a Didone (1815)

ENEA COMINCIA A RACCONTARE…
(vv. 1-13)

Conticuere omnes intentique ora tenebant
inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto:
«Infandum, regina, iubes renovare dolorem,
Troianas ut opes et lamentabile regnum
eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi
et quorum pars magna fui. Quis talia fando
Myrmidonum Dolopumue aut duri miles Ulixi
temperet a lacrimis? et iam nox umida caelo
praecipitat suadentque cadentia sidera somnos
sed si tantus amor casus cognoscere nostros
et breviter Troiae supremum audire laborem,
quamquam animus meminisse horret luctuque refugit,
incipiam.» 

Tacquero tutti e intenti il viso tendevano. / Dall’alta sponda il padre Enea cominciò: / «Dolore indicibile tu vuoi ch’io rinnovi, o regina, / come la forza troiana e il misero regno / i Danai distrussero, le cose tristi che io vidi, / e ne fui parte grande. E chi raccontandole, / sia Mirmidone o Dolopo, o del duro Ulisse soldato, / può tenere le lacrime? E già l’umida notte del cielo / precipita e invitano al sonno cadendo le stelle. / Ma se tanto è l’amore è d’apprendere le nostre vicende, / d’udir brevemente l’angoscia estrema di Troia, / quantunque l’animo frema al ricordo e rifugga dal pianto, / comincerò.» (Rosa Calzecchi Onesti)

Anche l’incipit di questo canto è famosissimo, soprattutto perché di loro si ricorderà Dante nell’episodio in cui a Francesca ed al conte Ugolino sarà richiesto di raccontare la “radice prima” del loro dolore ed essi risponderanno come chi “piange e dice” (Francesca) e “parlar e lagrimar vedra’mi insieme” (Ugolino). Ma qui ancor più importante è l’atteggiamento che caratterizza il racconto d’Enea, e di come esso sia fautore di un infandus dolor, cioè di un dolore che non ha parole, per meglio dire inesprimibile.

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Il cavallo di Troia in un immagine del Tiepolo

Il canto secondo prosegue appunto con il racconto. Poiché i Greci non riescono ad assalire Troia, ricorrono all’inganno: costruiscono un enorme cavallo di legno e quindi lo depositano sulla spiaggia di fronte alla città e si nascondono in un’isola vicina. I Troiani, non scorgendo più i nemici e vedendo il cavallo credono che i Greci siano fuggiti. Ma il sacerdote Laooconte teme sia un inganno. Ma ecco apparire Sinone, greco, che dichiara di essere stato abbandonato dai compagni che sono fuggiti ed hanno recato in risarcimento al furto nel tempio della città quel cavallo per ottenere il perdono degli dei e raggiungere felicemente le loro terre. Laooconte non ci crede e lancia un dardo contro il ventre del cavallo, ma ecco uscire dal mare due grandi serpenti che lo avvinghiano e lo uccidono insieme ai figli.

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Il famoso gruppo di Laocoonte  nei Musei Vaticani

LAOCOONTE
(vv. 201-227)

Laocoon, ductus Neptuno sorte sacerdos,
sollemnis taurum ingentem mactabat ad aras.
ecce autem gemini a Tenedo tranquilla per alta
(horresco referens) immensis orbibus angues
incumbunt pelago pariterque ad litora tendunt;
pectora quorum inter fluctus arrecta iubaeque
sanguineae superant undas, pars cetera pontum
pone legit sinuatque immensa volumine terga.
Fit sonitus spumante salo; iamque arva tenebant
ardentisque oculos suffecti sanguine et igni
sibila lambebant linguis vibrantibus ora.
Diffugimus visu exsangues. Illi agmine certo
Laocoonta petunt; et primum parva duorum
corpora natorum serpens amplexus uterque
implicat et miseros morsu depascitur artus;
post ipsum auxilio subeuntem ac tela ferentem
corripiunt spirisque ligant ingentibus; et iam
bis medium amplexi, bis collo squamea circum
terga dati superant capite et cervicibus altis.
Ille simul manibus tendit divellere nodos
perfusus sanie vittas atroque veneno,
clamores simul horrendos ad sidera tollit:
qualis mugitus, fugit cum saucius aram
taurus et incertam excussit cervice securim.
At gemini lapsu delubra ad summa dracones
effugiunt saevaeque petunt Tritonidis arcem,
sub pedibusque deae clipeique sub orbe teguntur.

Laooconte, chiamato a sorte ministro a Nettuno, / presso l’are solenni un gran toro uccideva. / Ed ecco gemelli da Tenedo, per l’alto mare tranquillo, / (rabbrividisco a narrarlo) con giri immensi due draghi / incombon sull’acque e tendono insieme alla spiaggia. / Alti hanno i petti tra l’onde, le creste / sanguigne superan l’onde, l’altra parte sul mare / striscia dietro, s’inercan l’immense terga in volute. / Gorgoglia l’acqua e spumeggia. E già i campi tenevano, / gli occhi ardenti iniettati di sangue e di fuoco, / con le lingue vibratili lambendo le bocche fischianti. / Qua, là, agghiacciati a tal vista, fuggiamo. Ma quelli diritto / su Laocoonte puntavano: e prima i piccoli corpi / dei due figli stringendo, l’uno e l’altro serpente / li lega, divora a morsi le misere membra; / poi lui che accorreva in aiuto e l’armi tendeva, / afferrano avvinghiano fra le spire tremende. Due volte / già l’hanno annodato alla vita, due volte al suo collo / cingon le terga squamose, ardue le teste levando. / Lui con le mani tenta di sveller quei nodi, / bava le bende sacre gocciando e nero veleno, / e intanto urla orribili manda alle stelle, / come muggiti, se il toro fugga piagato dall’ara, / via dal collo scrollata la scure esitante. / E fuggono i draghi gemelli agli templi strisciando, / e cercan la rocca della Tritonia feroce, / e ai piedi di lei si nascondono sotto lo scudo rotondo.

Racconto fondamentale questo in cui s’illumina il confronto problematico che Enea personaggio ha con il divino: la morte atroce del giusto Laocoonte, resa ancora più drammatica dalla fine atroce dei suoi figli, sembra un’ingiusta punizione contro i Troiani e quindi contro se stesso, a favore di coloro che compiono un gesto empio, mentendo con Sinone, per ottenere la vittoria. Ma il rovesciamento di prospettiva avverrà proprio quando empie non appariranno le false parole del greco, ma il lancio contro ciò che, dopo l’episodio, apparirà come un vero e proprio votum. Risulta evidente l’interrogarsi di Enea sulla “giustizia” divina, ed altre prove dovrà sopportare, per capire che invece essa c’è ed è nel disegno provvidenziale che fa di lui il protagonista della rinascita.

Proseguendo il racconto vedremo come la morte del sacerdote convince i Troiani ad introdurre il cavallo di legno in città, ma durante la notte, dal suo ventre escono i guerrieri greci che fanno strage. Dapprima Enea combatte, ma quindi appare la madre Venere, ordinandogli di andar via, in quanto il suo destino è già deciso dagli dei. Quindi riesce a prendere con sé il padre, caricandolo sulle spalle, ed il figlio che gli corre accanto; dietro la moglie Creusa. Ad un certo punto, voltandosi indietro, non vede più la moglie, che, dopo averla cercata invano, gli apparirà come un’ombra, essendo morta, e gli confermerà che egli è destinato a fulgidi destini e per far ciò dovrà unirsi ad una donna regale.

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Federico Barocci: Fuga di Enea (1598)

Libro III

Prosegue il racconto di Enea, il quale va alla ricerca di una nuova terra in cui fondare la patria. Approdato con la flotta sulle spiagge della Tracia, comincia qui a costruire la sua nuova città; ma un prodigio blocca il suo progetto:

POLIDORO
(vv. 22-46)

Forte fuit iuxta tumulus, quo cornea summo
virgulta et densis hastilibus horrida myrtus.
Accessi viridemque ab humo convellere silvam
conatus, ramis tegerem ut frondentibus aras,
horrendum et dictu video mirabile monstrum.
Nam quae prima solo ruptis radicibus arbos
vellitur, huic atro licuntur sanguine guttae
et terram tabo maculant. Mihi frigidus horror
membra quatit gelidusque coit formidine sanguis.
Rursus et alterius lentum convellere vimen
insequor et causas penitus temptare latentis:
ater et alterius sequitur de cortice sanguis.
Multa movens animo Nymphas venerabar agrestis
Gradivumque patrem, Geticis qui praesidet arvis,
rite secundarent visus omenque levarent.
Tertia sed postquam maiore hastilia nisu
adgredior genibusque adversae obluctor harenae,
– eloquar an sileam? – gemitus lacrimabilis imo
auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris:
«Quid miserum, Aenea, laceras? iam parce sepulto,
parce pias scelerare manus. Non me tibi Troia
externum tulit aut cruor hic de stipite manat.
Heu fuge crudelis terras, fuge litus avarum:
nam Polydorus ego. Hic confixum ferrea texit
telorum seges et iaculis increvit acutis.» 

C’era li accanto un’altura e sulla cima cornioli, / e un cespuglio di mirto, irte bacchette affollate. / M’avvicino, e tentando strappare da terra una verde / frasca, per ornare di rami frondosi l’altare, / orrendo – stupore a narrarlo – vedo un prodigio. / L’arbusto che, rotte le radiche, per primo dal suolo / è divelto, ecco ne colano gocce di sangue corrotto, / putredine macchia la terra. Un brivido freddo / le membra mi scuote, gelato d’orrore si ferma il mio sangue. / D’un secondo, di nuovo, il tronco flebile insisto / a svellere, a cercare le cause laggiù sotto nascoste. / Corrotto pur nella corteccia del secondo esce sangue. / Col cuore in tumulto, le Ninfe veneravo dei campi / e il padre Gradivo, sovrano delle Getiche terre, / che propiziassero quella visione, il malaugurio annullassero. / Ma quando una terza bacchetta con sforzo maggiore / afferro puntando il ginocchio contro la rena, / – parlo o taccio? – un singhiozzo straziante da sotto / l’altura risuona, e chiara mi viene agli orecchi una voce: / «Enea, perché un misero scerpi? Lascia in pace un sepolto, / lascia, non contaminar le pie mani. Non estraneo ti nacqui / in Troia, non cola questo sangue dal legno. / Oh fuggi terre crudeli, fuggi un avido lido! / Perché io son Polidoro. Qui m’inchiodò seppellendomi / ferrea selva di dardi: poi germogliarono l’aste puntute».

Veniamo a sapere che Polidoro, ultimo figlio di Priamo, era stato mandato con un grosso tesoro da Polimestore, suo genero, per fuggire la distruzione di Troia. Ma giunto qui viene ucciso, per impossessarsene. Inorridito dall’evento quindi Enea lascia la Tracia e si dirige a Delo, per consultare il sacerdote di Apollo, che gli indica come patria quella dell’“antica madre”. Pensando fosse Creta Enea vi si dirige, ma qui scoppia una pestilenza, mostrando così la contrarietà degli dei. Durante la notte Enea vede i Penati che gli indicano la strada: e l’Italia in cui egli deve andare. Enea, quindi riparte ma è costretto, da una tempesta, a fermarsi nelle isole Strofadi dove viene accolto dalle Arpie:

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Immagine di un Arpia (manoscritto medievale)

ARPIE
(vv. 214-218)

Tristius haud illis monstrum nec savio ulla
pestis et ira deum stygiis sese extulit undis.
Virginei volucrum voltus, foedissima ventris
proluvies uncaque manus et pallida semper
ora fame.

Più tristo mostro di quelle non c’è, né peggiore / peste: e per l’ira divina per l’onde di Stige s’alzarono. / Virginei volti su corpi d’uccelli, puzzo lentissima / profluvie del ventre, adunchi artigli, pallida sempre / la faccia di fame.

Se abbiamo scelto questi due passi è proprio per far capire come l’Eneide virgiliana possa fungere da stimolo per i poeti successivi: vediamo in questo caso come Dante riprenda ed unisca i due “miti” virgiliani nel XIII canto dell’Inferno, quello di Pier delle Vigne, anche se inserisce la figura di Polidoro nel Purgatorio. E’ chiaro come l’intento dei due autori, pur con la felice ripresa quasi “letterale” del poeta fiorentino sia diverso. Non è un caso che le fonti che Virgilio usa per questo passo non siano omeriche, quanto, piuttosto tragiche e di come egli si sia servito di un mito piuttosto recente, alessandrino, per Polidoro. Infatti qui si vuole sottolineare l’interesse eziologico, oltre che narrativamente tragico e pietoso, dell’episodio; si tratta insomma di spiegare l’origine del mirto e delle sue scure bacche, come frutto appunto del sangue con cui il giovane troiano bagna la pianta.

Enea cerca di cacciare le Arpie che confermeranno la fondazione della città, ma solo dopo aver patito la fame da mangiare le mense. Fuggiti dalle Strofadi, costeggiando la terra Enea e i suoi compagni sbarcano ad Azio, dove vengono accolti da Eleno, indovino troiano. Costui conforterà il nostro eroe e gli offrirà consigli per un viaggio sicuro. Ripreso il viaggio il nostro si ferma in Sicilia, dove approderà nelle terre dei Ciclopi. Qui incontrerà un greco dimenticato dai compagni. Mentre costui narra la tragica vicenda occorsa ai greci, appare da lontano Polifemo con il suo gregge. Il nostro riesce a fuggire, e, fatto il periplo dell’isola, giungono nei pressi di Trapani, dove muore Anchise. Ripartiti Enea viene ancora una volta sorpreso da una tempesta che lo lascia nelle spiagge libiche. Qui finisce il suo racconto.

Libro IV

Con il III terzo libro, quindi, termina il lungo flash-back di Enea, ed inizia uno dei canti più celebrati dell’intero poema, il quarto, dove si consuma la storia d’amore tra Enea e Didone. Questa, capendo i suoi sentimenti, si confida con la sorella Anna:GalleriaDoriaPamphilj-D19.jpg

Dosso Dossi: Didone (1519)

DIDONE FERITA DALL’AMORE
(vv. 1 – 30)

At regina gravi iamdudum saucia cura
vulnus alit venis et caeco carpitur igni.
Multa viri virtus animo multusque recursat
gentis honos, haerent infixi pectore vultus
verbaque nec placidam membris dat cura quietem.
Postera Phoebea lustrabat lampade terras
umentemque Aurora polo dimoverat umbram,
cum sic unanimam adloquitur male sana sororem:
«Anna soror, quae me suspensam insomnia terrent!
Quis novus hic nostris successit sedibus hospes,
quem sese ore ferens, quam forti pectore et armis!
Credo equidem, nec vana fides, genus esse deorum.
Degeneres animos timor arguit. Heu quibus ille
iactatus fatis! Quae bella exhausta canebat!
Si mihi non animo fixum immotumque sederet
ne cui me vinclo vellem sociari iugali,
postquam primus amor deceptam morte fefellit;
si non pertaesum thalami taedaeque fuisset,
huic uni forsan potui succumbere culpae.
Anna, fatebor enim, miseri post fata Sychaei
coniugis et sparsos fraterna caede penates,
solus hic inflexit sensus animumque labantem
impulit. Adgnosco veteris vestigia flammae.
Sed mihi vel tellus optem prius ima dehiscat
vel pater omnipotens adigat me fulmine ad umbras,
pallantes umbras Erebi noctemque profundam,
ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo.
Ille meos, primus qui me sibi iunxit, amores
abstulit; ille habeat secum servetque sepulcro».
Sic effata sinum lacrimis implevit obortis.

Ma sanguina ormai la regina in un tormento pesante, / nelle sue vene nutre una piaga, da chiuso fuoco è consunta. / Grande il valore dell’uomo, grande le assedia la mente / la gloria del nome: è fitto in cuore quel volto, / la voce: placido sonno non dà alle membra il tormento. / Illuminava la terra l’Aurora seguente col lume di Febo / e l’umida ombra aveva cacciato dal cielo, / e lei così parla, già pazza, alla fedele sorella: / «Anna, sorella, che sogni m’hanno sconvolta! / Che straordinario ospite m’è venuto in palazzo, / che portamento, che forza in cuore e nell’armi! / Credo, certo, né è fede vana, è stirpe di dei. / Un’indole ignobile, vil timore la smaschera. E quale / destino lo incalza! che guerre durate narrava! / Se immobilmente fisso non avessi nell’animo / di non legarmi a nessuno con nodo di nozze, / dacché con la morte mi tradì il primo amore; / se non odiassi per sempre talamo e fiaccole, / forse a questa unica colpa avrei potuto soccombere. / Anna, te lo confesso, dopo la morte del misero sposo / e la strage fraterna, che la casa m’insanguina, / egli solo ha scosso i miei sensi, m’ha fatto tremare / il cuore. Oh, dell’antica fiamma i segni conosco! / Ma voglio che prima la terra mi s’apra davanti, / che all’ombre il padre onnipotente mi fulmini, / all’ombre dell’Erebo pallide, e nella notte profonda, / prima che io ti vìoli, o Pudore, o sciolga il tuo vincolo. / Lui, che m’ha unita a sé per primo, il mio amore / s’è preso, e lo tenga con sé chiuso dentro il sepolcro!». / Così diceva, e il petto inondò a un tratto di lagrime.

Anna, sentita la sorella, la esorta, e vince così le flebili resistenze della regina. Giunone si accorge di ciò e, per rallentare l’arrivo dei troiani in Italia, cerca di favorire la situazione. Venere la asseconda, per non provocare ulteriori rallentamenti, sicura sempre della volontà di Giove. Sarà pertanto organizzata una battuta di caccia, durante la quale ci sarà una tempesta. Rifugiatisi in una grotta, Enea e Didone compiranno il loro atto d’amore. La situazione precipiterebbe se non intervenisse il padre Giove che, attraverso Mercurio, ordina ad Enea di abbandonare la Libia e di raggiungere l’Italia. Enea dunque si prepara all’abbandono, ma Didone è presaga di quel che sta per succedere e lo affronta a viso aperto:

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Rutilio Manetti : Enea e Didone (1630)

AT REGINA DOLOS
(vv. 296-330)

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)
praesensit, motusque excepit prima futuros
omnia tuta timens. Eadem impia Fama furenti
detulit armari classem cursumque parari.
Saevit inops animi totamque incensa per urbem
bacchatur, qualis commotis excita sacris
Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho
orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron.
Tandem his Aenean compellat vocibus ultro:
«Dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum
posse nefas tacitusque mea decedere terra?
nec te noster amor nec te data dextera quondam
nec moritura tenet crudeli funere Dido?
quin etiam hiberno moliris sidere classem
et mediis properas Aquilonibus ire per altum,
crudelis? quid, si non arva aliena domosque
ignotas peteres, et Troia antiqua maneret,
Troia per undosum peteretur classibus aequor?
mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui),
per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,
si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam
dulce meum, miserere domus labentis et istam,
oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.
Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni
odere, infensi Tyrii; te propter eundem
exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,
fama prior. Cui me moribundam deseris hospes
(hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?
quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater
destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas
saltem si qua mihi de te suscepta fuisset
ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula
luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,
non equidem omnino capta ac deserta viderer.

Ma la regina (chi ingannerà donna amante?) / presentì il tradimento, capi prima le mosse future, / lei che del sicuro tremava. E a lei, già fremente, la Fama / empia narrò che armavan le navi, la partenza allestivano. / Smania, fuori di sé, per tutta la città delirando / impazza, come Baccante invasata, al muover dei sacri / segni, quando al grido di Bacco l’orgia triennale / la stimola, e il Citerone con il richiamo notturno la invita. / E finalmente per prima così affronta Enea: / «Speravi anche, spergiuro, di potermi nascondere / tanta empietà? senza una parola dalla mia terra partirtene? / né il nostro amore, la destra, che pur mi hai data, / né può tenerti Didone, che morrà crudelmente? / E sotto le stelle invernali muovi le navi? / Me fuggi? oh, per queste mie lagrime, per la tua destra / (quando null’altro io stesso ho lasciato a me misera), / pel nostro amore, per le nozze recenti, / se t’ho fatto del bene, se pur qualche cosa / di me ti fu dolce, pietà della casa che cade, oh ti prego, / se posto c’è ancora per le suppliche, smetti questo pensiero! / Per te i popoli d’Africa, i sovrani dei Nomadi / m’odiano, i Tirii mi sono nemici; per te, per te solo / morto è il pudore, la gloria di prima, quell’unica / per cui salivo alle stelle. A chi mi lasci, che muoio, / ospite, ormai questo nome soltanto resta, da sposo. / Che aspetto? che le mie mura distrugga il fratello / Pigmalione? che Iarba getulo mi porti via schiava? / Se un figlio, almeno un figlio da te avessi avuto / prima della tua fuga, se nelle stanze giocare / un piccolo Enea mi vedessi, che pur avesse il tuo viso, / non del tutto delusa, non tradita sarei!»

Enea ascolta, senza controbattere, finché non può non ricordarle che egli non è padrone del suo destino e che pertanto deve partire per volontà degli dei. Lei non ci crede e gli rinfaccia il suo tradimento, allontanandosi sorretta dalle ancelle. Enea non recede dalle sue intenzioni, nonostante intervenga Anna per cercare di convincerlo a rimanere fino alla primavera. Ma ricevuto un nuovo diniego, Didone medita il suicidio. Finge con la sorella di voler preparare un nuovo rimedio per trattenere Enea o per liberarsi dall’amore che la lega a lui, poi prepara il rogo, dove si dovranno bruciare tutte le cose appartenute all’eroe. Una maga prepara il rituale a cui Didone assiste e nel far questo vede la flotta allontanarsi. Quindi lancia la sua maledizione verso Enea e la sua stirpe:

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Giovanni Francesco Romanelli: Enea abbandona Didone

LA MALEDIZIONE DI DIDONE
(vv. 612-629)

(…) Si tangere portus
infandum caput ac terris adnare necesse est,
et sic fata Iovis poscunt, hic terminus haeret,
at bello audacis populi vexatus et  armis,
finibus extorris, complexu avulsus Iuli
auxilium imploret videatque indigna suorum
funera; nec, cum se sub leges pacis iniquae
tradiderit, regno aut optata luce fruatur,
sed cadat ante diem mediaque inhumatus harena.
Haec precor, hanc vocem extremam cum sanguine fundo.
Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum
exercete odiis, cinerique haec mittite nostro
munera. nullus amor populis nec foedera sunto.
Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor
qui face Dardanios ferroque sequare colonos,
nunc, olim, quocumque dabunt se tempore vires.
litora litoribus contraria, fluctibus undas
imprecor, arma armis: pugnent ipsique nepotesque.

(…) Se pur deve giungere / al porto quel maledetto, se deve toccare la terra, / così vuole il fato di Giove, fisso è questo termine, / oppresso però dalla guerra d’un popolo audace, / ramingo dalla città, strappato all’abbraccio di Iulio, / mendichi aiuto, veda strazio orrendo dei suoi. / E quando anche di pace umiliante ai patti si pieghi, / non goda del regno, non dell’amabile luce, / ma cada avanti il suo giorno, su nuda terra, insepolto. / Chiedo questo, quest’ultima voce col mio sangue effondo. / E voi, Tiri, per sempre la stirpe e tutta la razza / tormentare con l’odio, queste inferie al mio cenere / offrite. Nessun amore, mai, nessun patto tra i popoli. / E sorgi, vendicatore, oh, dalle mie ossa, / col ferro, col fuoco, perseguita i coloni Troiani, / ora, poi, non importa: quanto bastin le forze. / I lidi ai lidi contrari, all’onde supplico l’onde, / l’armi all’armi: essi e i nipoti combattano.

E quindi si prepara a morire, trafiggendosi con la spada che Enea le aveva donato.
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Claude Augustin Cayot: La morte di Didone (Museo del Louvre, 1711)

LA MORTE DI DIDONE
(vv. 651 – 671) 

«Dulces excuviae, dum fata deusque sinebat,
accipite hanc animam meque his exsolvite curis.
Vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,
et nunc magna mei sub terras ibit imago.
Urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,
ulta virum poenas inimico a frate recepi:
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae»
Dixit, et os inpressa toro: «Moriemur inultae,
sed moriamur», ait,«sic, sic iuvat ire sub umbras.
Hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus et nostrae secum ferat omina mortis».
Dixerat, atque illam media inter talia ferro
conlapsam aspiciunt comites ensemque cruore
spumantem sparsasque manus. It clamor ad alta
atria: concussam bacchatur Fama per urbem.
Lamentis gemituque et femineo ululatu
tecta fremunt, resonat magnis plangoris aether,
non aliter quam si immissis ruat hostibus omnis
Carthago aut antiqua Tyros flammaeque furentes
culmina perque hominum volvantur perque deorum. 

«O spoglie, dolci fin che il fato, un dio permetteva, / la vita mia ricevete, da queste pene scioglietemi: / ho vissuto, ho compiuto la strada che m’ha dato Fortuna, / e ora sotto la terra grande andrà la mia immagine. / Città bellissima ho fatto, ho visto mie mura, / vendicato lo sposo, punito il fratello nemico: / felice, oh troppo felice, solo che le mie spiagge / mai navi dardane fossero giunte a toccare»: / Disse e premendo sul letto le labbra: «Morirò invendicata, / ma voglio morire» gridò, «così voglio scendere all’ombre. / Beva con gli occhi dal mare questo fuoco il crudele / Dardano, maledizione la morte mia con sé porti». / Parlava, e fra tali parole sul ferro la vedono / gettarsi le ancelle, e scorrer la spada di sangue / schiumante, e piene le mani. Un grido ai soffitti / altissimi sale, impazza la Fama per la città costernata. / Di lamenti, di gemiti, d’ululi freme femminei / tutto il palazzo, l’aria è tutta un gran pianto, / non altrimenti che se, entrati i nemici, crollasse / Cartagine intera, o Tiro antica, e le fiamme ruggenti / intorno ai tetti degli uomini, ai templi dei numi salissero.

Di questo quarto libro non si è voluta seguire l’analisi brano per brano, ma vederlo, attraverso diversi passi nella sua interezza e complessità. In primo luogo notiamo uno spostamento sul piano dei personaggi non senza significato: il protagonista qui, infatti, non è Enea, che invece viene relegato nel ruolo di deuteragonista, ma Didone, la donna innamorata e abbandonata. (Questo personaggio Virgilio lo riprende da Nevio, la cui infelice storia d’amore con Enea fornisce il motivo – significato eziologico – della guerra contro Cartagine). Virgilio costruisce il testo basandosi più sull’exemplum della tragedia, soprattutto quella di Euripide, e della nuova epica “patetica” di Apollonio Rodio, che su quella “classica”, “omerica” appunto. Ne sono esempio il climax ascendente con cui viene strutturato il brano: esso viene diviso in tre parti, l’innamoramento, la rottura e l’abbandono: ogni parte è progressivamente più ampia per poter quindi concentrare tutta l’attenzione sul “dramma” vissuto dalla regina, che pertanto al pari di Medea e di Fedra, analizza dentro se stessa il sentimento e il dissidio interiore che ne deriva. Per far questo il poeta Virgilio cessa d’essere obiettivo, cioè quella capacità già espressa nei primi tre canti ottenuta attraverso una narrazione di secondo grado, per concentrarsi esclusivamente sulla figura di Didone con cui s’immedesima. Tale immedesimazione può avvenire in quanto permane, in lui, la concezione dell’amore vissuto come furor, quindi, epicureisticamente, lontano dal raggiungimento dell’atarassia. E’ chiaro che, per quanto il nucleo del suo pensiero sia filosofico, questa concezione rimanga quasi una costanza nel poetare virgiliano: si va dall’impazzimento per l’abbandono in amore di Cornelio Gallo nella decima egloga, all’esaltazione dell’amore “asessuato” delle api nelle Georgiche. Ma non bisogna neppure dimenticare il suo passaggio attraverso la conoscenza e l’apprendimento della poesia neoterica: ciò per dire che se, perlomeno limitandoci a quanto sappiamo della sua scarsa biografia, egli l’amore come passione non lo visse, ebbe la fortuna e la capacità di farlo “letterariamente suo”, attraverso la conoscenza di carmina catulliani.

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Giochi sacri in Onore di Anchise (miniatura del 1430 ca)

Libro V

I Troiani, ormai in mare, vedano dalle nave innalzarsi i fumi che dalla città di Troia: sono le fiamme che si sprigionano dalla pira di Didone e, sebbene Enea non ne abbia la certezza, è preso da un certo sgomento. Quindi veleggia ancora verso la Sicilia e si ritrova nel luogo dove il padre era morto. Quindi in suo onore compie i riti funebri e i giochi sacri. Questi vengono descritti con perizia di particolari, richiamandosi alla stessa descrizione che Omero fa in onore di Patroclo, nel XXIII canto dell’Iliade. Proclamato il vincitore, Giunone decide nel frattempo di suscitare la rabbia nelle donne troiane, stanche per il lungo viaggio. Quindi decidono di bruciare un certo numero di navi. Non sapendo se lasciare le donne nell’isola, Enea si rivolge ad un oracolo, che lo esorta a proseguire il viaggio. Enea riprende il cammino, ma durante il viaggio, Palinuro, vinto dal sonno, muore e viene rapito dal mare.

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Giovanni Vasso: Mito di Palinuro (2016)

LA MORTE DI PALINURO
(vv.835-861)

Iamque fere mediam caeli Nox umida metam
contigerat, placida laxabant membra quiete
sub remis fusi per dura sedilia nautae:
cum levis aetheriis delapsus Somnus ab astris
aera dimovit tenebrosum et dispulit umbras
te, Palinure, petens, tibi somnia tristia portans
insonti; puppique deus consedit in alta
Phorbanti similis funditque has ore loquelas:
«Iaside Palinure, ferunt ipsa aequora classem,
aequatae spirant aurae, datur hora quieti.
pone caput fessosque oculos furare labori.
Ipse ego paulisper pro te tua munera inibo.»
Cui vix attollens Palinurus lumina fatur:
«Mene salis placidi vultum fluctusque quietos
ignorare iubes? mene huic confidere monstro?
Aenean credam quid enim? fallacibus auris
et caeli totiens deceptus fraude sereni?»
Talia dicta dabat, clavumque adfixus et haerens
nusquam amittebat oculosque sub astra tenebat.
Ecce deus ramum Lethaeo rore madentem
vique soporatum Stygia super utraque quassat
tempora, cunctantique natantia lumina solvit.
Vix primos inopina quies laxaverat artus,
et super incumbens cum puppis parte revulsa
cumque gubernaclo liquidas  proiecit in undas
praecipitem ac socios nequiquam saepe vocantem;
ipse volans tenuis se sustulit ales ad auras. 

E già il mezzo del cielo l’umida Notte toccava, / in placida quiete abbandonavano i corpi, / sotto i remi, e pei duri sedili distesi, le ciurme. / Ed ecco leggero dagli astri celesti il Sonno scendendo / agitò l’aria oscura e dissipò l’ombre, / te, Palinuro, cercando, a te portando il mal sogno, / o innocente. Sull’alta poppa il dio si posò, / e sembrando Forbante queste parole diceva: / «Iaside Palinuro, il mare porta le navi / da solo, uguale spira la brezza: ecco un’ora pel sonno. / Appoggia il capo, strappa gli occhi stanchi al tormento: / io posso, per poco, sostener la tua parte». / E a lui Palinuro, levando a stento le palpebre: / «E vuoi che la faccia del mare tranquillo, che l’onde assopite / io non conosca? E che d’un simile mostro mi fidi? / Enea, ma sei pazzo?, lasciarlo alle brezze bugiarde, / proprio io, tante volte ingannato dal cielo sereno?» / Queste parole diceva, e fisso e attaccato al timone, / non lo lasciava un momento, gli occhi tesi alle stelle. / Ma un ramo stillante di acqua di Lete, veleno / di stigia potenza, gli scuote il dio sulle tempie, / e mentre invano resiste gli occhi oscillanti gli chiude.  / Quel sonno improvviso gli ebbe appena sciolto le membra: / volandogli addosso, strappato un pezzo di poppa, / giù con tutto il timone lo gettò il dio nell’acqua / a capofitto, che invano chiamava e richiamava i compagni. / Poi come uccello a volo s’alzò, nell’aria sparendo.

L’episodio di Palinuro, ricco di pathos, sottolinea ancora una volta il rapporto conflittuale tra il mondo del divino e Virgilio: anche qui infatti l’insons Palinuro, fidato nocchiero del nostro eroe, sarà vittima sacrificale del patto tra Nettuno e Venere stipulato per favorire il viaggio tranquillo di Enea.

Enea, accortosi che la nave non ha più guida, ne prende il comando, mentre piange l’amico scomparso.

Libro VI

E’ questo il canto della catabasi, cioè della discesa agli inferi di Enea.

I troiani giungono a Cuma, e mentre i suoi compagni si fermano nella spiaggia alla ricerca di legna e di acqua, Enea si dirige nel tempio di Apollo e l’antro della Sibilla. Qui gli verrà confermata la permanenza nel Lazio, dove dovrà subire ancora stragi e lutti. Quindi Enea chiede di poter vedere il padre nell’Ade: per farlo dovrà trovare un ramoscello d’oro, offerta per Proserpina e seppellire Miseno, suo compagno, che contamina la flotta. Compiuti tali riti si dirige nell’Ade (regno dei morti), nel cui vestibolo sono tutti i mali che affliggono l’uomo. Al centro c’è un grande olmo, in cui sono racchiusi i sogni vani; lo dovrà seguire: e là che troverà la via che lo porterà all’Acheronte:

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Enea e la Sibilla salgono sulla barca di Caronte

CARONTE
(vv.298-316)

Portitor has horrendus aquas et flumina servat
terribili squalore Charon, cui plurima mento
canities inculta iacet, stant lumina flamma,
sordidus ex umeris nodo dependet amictus.
Ipse ratem conto subigit velisque ministrat
et ferruginea subvectat corpora cumba,
iam senior, sed cruda deo viridisque senectus.
Huc omnis turba ad ripas effusa ruebat,
matres atque viri defunctaque corpora vita
magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae,
impositique rogis iuvenes ante ora parentum:
quam multa in silvis autumni frigore primo
lapsa cadunt folia, aut ad terram gurgite ab alto
quam multae glomerantur aves, ubi frigidus annus
trans pontum fugat et terris immittit apricis.
Stabant orantes primi transmittere cursum
tendebantque manus ripae ulterioris amore.
Navita sed tristis nunc hos nunc accipit illos,
ast alios longe summotos arcet harena.

Traghettatore orrendo, guarda quest’acque ed il fiume / Caronte, irto, pauroso: a lui la lunga dal mento, / bianca scende la barba incolta, sbarra occhi di fiamma; / sordido dalle spalle gli pende, annodato, il mantello. / Da solo spinge col palo la barca e le vele governa, / dentro il suo livido scafo i corpi trasporta, / vecchissimo. Ma cruda e salda è la vecchiezza del dio. / Qui tutta una folla ammassandosi sulle rive accorreva, / donne e uomini, corpi liberi ormai dalla vita, / di forti eroi, fanciulli e non promesse fanciulle, / giovani messi sul rogo davanti agli occhi dei padri: / tante così nei boschi, al primo freddo d’autunno, / volteggiano e cadono foglie, o a terra dal cielo profondo / tanti uccelli s’addensano, quando, freddo ormai, l’anno / di là del mare li spinge verso le terre del sole. / Stavano là, sperando d’essere i primi a passare, / e tendevan, per brama dell’altra riva, le mani. / Ma il triste nocchiero or questi accoglie, ora quelli, / altri tiene lontani e caccia via dalla spiaggia.

La Sibilla spiega ad Enea che potranno essere traghettate solo le anime dei sepolti: Palinuro, morto in mare, dovrà attendere cento anni. Enea lo incontrerà tre le anime, e sarà lo stesso Palinuro a dirci di aver raggiunto la riva, ma gli abitanti di quel luogo lo avevano ucciso e lasciato insepolto. La Sibilla gli assicurerà che avverrà anche per lui il rito funebre e il luogo riceverà il suo nome. Convinto dal ramo d’oro, (che Enea aveva precedentemente raccolto) i due vengono traghettati da Caronte e giungono all’altra riva. Qui incontrano Cerbero e Minosse.

CERBERO E MINOSSE
(vv.417-423; 432-439)

Cerberus haec ingens latratu regna trifauci
personat adverso recubans immanis in antro.
Cui vates horrere videns iam colla colubris
melle soporatam et medicatis frugibus offam
obicit. Ille fame rabida tria guttura pandens
corripit obiectam atque immania terga resolvit
fusus humi totoque ingens extenditur antro.
Quaesitor Minos urnam movet; ille silentum
consiliumque vocat vitasque et crimina discit.
Proxima deinde tenent maesti loca, qui sibi letum
insontes peperere manu lucemque perosi
proiecere animas. quam vellent aethere in alto
nunc et pauperiem et duros perferre labores.
Fas obstat, tristisque palus inamabilis undae
alligat et novies Styx interfusa coercet.

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John Martin: Enea e la Sibilla nell’Ade (1817)

Cerbero qui, gigantesco, con tre gole latrando, / rintrona quei regni, steso ferocemente nell’antro. / A lui la Sibilla, vedendo già i serpi drizzati sui colli, / gettò una focaccia sonnifera, di miele e drogata farina. / Con fame rabbiosa, tre gole aprendo, l’afferra / quello a volo: ed ecco il corpo pauroso crollò, / sdraiato in terra, immenso per tutto l’antro si stese. / Inquisitore è Minosse e scuote l’urna: di muti / egli aduna un concilio, le colpe indaga e le vite. / I luoghi vicini, in angoscia tengono quelli che morte / innocenti si dettero, di loro mano, in odio alla luce / la vita buttarono via. Oh come adesso vorrebbero / su nella luce e miseria e dure pene soffrire! / Il Fato s’oppone, e la trista palude dell’onda esecrabile / li lega, li stringe e li fascia per nove volte lo Stige.

Superati i due mostri, in una specie d’Antinferno incontrano i morti anzitempo (bambini, suicidi, condannati a morte ingiustamente;); poco lontano i morti per amore: qui incontra Didone:

ENEA E DIDONE NELL’ADE
(vv. 450-476)

Inter quas Phoenissa recens a vulnere Dido
errabat silva in magna; quam Troius heros
ut primum iuxta stetit agnovitque per umbras
obscuram, qualem primo qui surgere mense
aut videt aut vidisse putat per nubila lunam,
demisit lacrimas dulcique adfatus amore est:
«Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo
venerat exstinctam ferroque extrema secutam?
Funeris heu tibi causa fui? per sidera iuro,
per superos et si qua fides tellure sub ima est,
invitus, regina, tuo de litore cessi.
Sed me iussa deum, quae nunc has ire per umbras,
per loca senta situ cogunt noctemque profundam,
imperiis egere suis; nec credere quivi
hunc tantum tibi me discessu ferre dolorem.
Siste gradum teque aspectu ne subtrahe nostro.
Quem fugis? extremum fato quod te adloquor hoc est.»
Talibus Aeneas ardentem et torva tuentem
lenibat dictis animum lacrimasque ciebat.
Illa solo fixos oculos aversa tenebat
nec magis incepto vultum sermone movetur
quam si dura silex aut stet Marpesia cautes.
Tandem corripuit sese atque inimica refugit
in nemus umbriferum, coniunx ubi pristinus illi
respondet curis aequatque Sychaeus amorem.
Nec minus Aeneas casu percussus iniquo
prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem.

Tra l’altre, fresca ancor di ferita, Didone fenicia / vagava per la foresta immensa. Ed ecco l’eroe / teucro le fu vicino, e la conobbe, fra l’ombre / incerta, come chi sorgere, al principiare del mese, / vede, o crede vedere, fra nubi luna; / e lasciò correr le lagrime e la chiamò con amore: / «Didone misera! e dunque era vero l’annunzio / che t’eri uccisa col ferro, che avevi voluto morire. / Di morte io ti fui causa? Per le stelle ti giuro, / pei superi, per quale valga mai pegno sotto la terra profonda, / io non volevo, regina, lasciar la tua spiaggia. / Ma la legge dei numi, che or mi fa andare tra l’ombre, / per luoghi squallidi, mucidi, entro la notte profonda, / con la sua forza mi urgeva: e non potevo, no, credere / che t’avrei dato, partendo, così disperato dolore. / Ferma il passo, oh non sottrarti al mio sguardo. / Chi fuggi? Per fato, è l’ultima volta che posso parlarti!» / Così quell’anima ardente, che torvo guardava, / Enea tentava lenir con le parole, e piangeva. / Ma lei gli occhi a terra, nemica, fissi teneva. / Né al suo parlare cambia espressione del volto, / più che se rigida roccia o scoglio marpesio là stesse. / Si scosse alla fine, e corse, nemica, a nascondersi / nel bosco ombroso: là dove il primo marito / al suo affanno risponde, uguaglia il suo amore, Sicheo. / Tanto più Enea, sconvolto dall’ingiusta sciagura, / la segue con lagrime a lungo, mentre fugge, e ne piange.

Questo passo si lega strutturalmente al IV, offrendo, così la chiusura dell’incontro/scontro/incomunicabilità, attraverso cui si delinea l’arco della storia d’amore tra Didone ed Enea. Di fronte alle crude parole rinfacciate al perfidus inimicus, cui nulla riesce a ribattere in modo convincente l’eroe troiano, qui vi è finalmente la “spiegazione” alle quale lei assiste sdegnando l’interlocutore: il passo si chiude, tuttavia, verso un segno di speranza per la donna: nell’Ade non è sola, ma è accompagnata da Sicheo, suo marito, cui si rifugia, ritrovando la fides rotta per un amore impuro.

Continuando nel cammino nell’Ade, Enea dapprima incontra i caduti in guerra, quindi, si trova di fonte ad un bivio, una strada conduce al Tartaro, dove sono puniti i malvagi, l’altra ai campi Elisi, dove risiedono i beati. Tra essi vi è Anchise. Qui il vecchio padre mostra le anime che si sarebbero reincarnate; dopo aver spiegato il mistero della metempsicosi, mostra al figlio le anime che sarebbero diventate i suoi discendenti.

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Ferdinand Bol: Enea accolto dal re Latino (Amsterdam, 1661-1663 ca)

Libro VII  

Il canto inizia con i riti funebri per Caieta, nutrice di Enea. Ripreso il viaggio, costeggiano Creta, finché giungono alla foce del Tevere. Qui il narratore, dopo una nuova invocazione, racconta la gente latina: vi è re Latino, alla cui unica figlia, Lavinia, aspirava Turno, re dei Rutuli. Il re si mostra ostile a questo matrimonio, perché troppi presagi appaiono negativi. Intanto i Troiani, giunti nel Lazio, si rendono conto che è questo il posto a cui erano destinati: infatti si avvera la profezia delle Arpie, quella per cui avrebbero mangiato le loro mense (preparate focacce di farina, vi pongono i cibi, quindi si nutrono anche di esse). Vengono accolti benevolmente dal re Latino, che si rende conto che sarà Enea destinato per sua figlia. Giunone accortasi di ciò, manda la furia Aletto per creare discordia tra i protagonisti: dapprima va da Amata, moglie di Latino, e gli intima di non dare sua figlia ad Enea, quindi si reca da Turno e lo spinge a prender le armi contro i troiani ed infine eccita i pastori del re, facendo uccidere una splendida cerva della figlia da una freccia di Ascanio. Vengono, forzando la volontà del re, aperte le porte di Giano. Nella presentazione appare, splendida, la descrizione della vergine Camilla:

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Niccolò dell’Abate: Camilla sorretta da Acca (Palazzo Poggi, Firenze)

LA VERGINE CAMILLA
(vv. 803-807; 812-817)

Hos super advenit Volsca de gente Camilla
agmen agens equitum et florentis aere catervas,
bellatrix, non illa colo calathisve Minervae
femineas adsueta manus, sed proelia virgo
dura pati cursuque pedum praevertere ventos.

(…)

Illam omnis tectis agrisque effusa iuventus
turbaque miratur matrum et prospectat euntem,
attonitis inhians animis ut regius ostro
velet honos levis umeros, ut fibula crinem
auro internectat, Lyciam ut gerat ipsa pharetram
et pastoralem praefixa cuspide myrtum.

Dopo tutti costoro, Volsca di stirpe, ecco Camilla: / squadre a cavallo guidava, caterve fiorite di bronzo, / guerriera, che mai conocchia o cestello toccò di Minerva / con le mani femminee, ma, vergine, lotte / dure imparò a sopportare, a vincere il vento correndo. (…)  Lei tutti i giovani, dalle case, dai campi, accaldandosi, / e una folla di madri ammira, e la guardano andare / a bocca aperta, stupiti, come l’onore regale / della porpora, veli le belle spalle e d’oro la fibbia / s’intrecci ai capelli, e come la licia faretra / e il pastorale mirto, armato di punta lei porti.

Appare qui la donna guerriera, quella che Dante stesso cita nel I canto dell’Inferno, madre di quelle vergine guerriere di cui, più che il poeta medievale, si nutriranno i poemi cavallereschi di Ariosto, nella figura di Bradamante e soprattutto di Tasso, disegnando, con Clorinda, forse l’apice di questa figura femminile.

Libro VIII

Sia Enea che i suoi nemici cercano alleanze per la guerra. Enea si dirige dal vecchio Evandro, che ricevutolo rivede in lui le fattezze di Anchise, e lo accoglie con benevolenza. Quindi il re racconta la storia di quella terra e in seguito gli consiglia di cercare anche l’alleanza con gli Etruschi. Nel frattempo lui garantirà un numero congruo di cavalieri, una parte dei quali verrà guidata dal suo giovane figlio Pallante. Venere, nel frattempo, preoccupata per l’imminente guerra, si rivolge a Vulcano, affinché costruisse armi invincibili per il figlio. Quando Enea le riceverà potrà ammirare, disegnate nello scudo, le future vicende di Roma, sino alla battaglia di Azio:

AGIOGRAFIA DI AUGUSTO
(vv. 671-681)

Haec inter tumidi late maris ibat imago
aurea, sed fluctu spumabant caerula cano;
et circum argento clari delphines in orbem
aequora verrebant caudis aestumque secabant.
In medio classis aeratas, Actia bella,
cernere erat, totumque instructo Marte videres
fervere Leucaten auroque effulgere fluctus.
Hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar
cum patribus populoque, penatibus et magnis dis,
stans celsa in puppi, geminas cui tempora flammas
laeta vomunt patriumque aperitur vertice sidus.

Tra queste figure scorreva del gonfio mar vastamente / l’immagine aurea, ma spumeggiava cerulea di bianchi frangenti: / e intorno, argentei splendendo in cerchio, i delfini / spazzavano il mar con le code e il flutto solcavano. / In mezzo, flotte armate di bronzo, l’Aziaca battaglia / si poteva vedere, e sotto le belliche schiere scorgevi / spumeggiar tutto il Leucate, splendere d’oro le onde. / Cesare Augusto, di qui, gli Itali in guerra guidando, / coi padri, col popolo, con i penati e i gran dei, / ritto sull’alta poppa: e due fiamme le tempie / fortunate lampeggiano, appare sul cupo la stella paterna.

Libro IX

Mentre Enea sta cercando alleati per la guerra, Giunone spinge Turno ad attaccare battaglia; non riuscendo ad assalire le mura, dentro le quali i Troiani si sono asserragliati, pensa di bruciarne le navi, ma una magia di Cibele, con cui tale navi furono costruite, le trasforma in ninfe marine. Sbigottiti i Rutuli meditano l’attacco per il giorno seguente. Vengono pertanto predisposte le guardie: sotto le mura troiane ci sono Eurialo e Niso. Niso dice all’amico che vuole andare da Enea per avvertirlo del nemico, ma Eurialo non è disposto a lasciarlo andare solo, anche se nel campo rimane la vecchia madre.

INSIEME AD OGNI COSTO
(vv. 197-223; 367-445)

Obstipuit magno laudum percussus amore
Euryalus, simul his ardentem adfatur amicum:
«Mene igitur socium summis adiungere rebus,
Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam?
Non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes,
Argolicum terrorem inter Troiaeque labores
sublatum erudiit, nec tecum talia gessi
magnanimum Aenean et fata extrema secutus:
est hic, est animus lucis contemptor et istum
qui vita bene credat emi, quo tendis, honorem.»
Nisus ad haec: «Equidem de te nil tale verebar
nec fas, non; ita me referat tibi magnus ovantem
Iuppiter aut quicumque oculis haec aspicit aequis.
Sed si quis, quae multa vides discrimine tali,
si quis in adversum rapiat casusve deusve,
te superesse velim, tua vita dignior aetas.
Sit qui me raptum pugna pretiove redemptum
mandet humo, solita aut si qua id Fortuna vetabit,
absenti ferat inferias decoretque sepulcro.
Neu matri miserae tanti sim causa doloris,
quae te sola, puer, multis e matribus ausa
persequitur, magni nec moenia curat Acestae.»
Ille autem: «Causas nequiquam nectis inanis
nec mea iam mutata loco sententia cedit:
adceleremus» ait. Vigiles simul excitat, illi
succedunt servantque vices: statione relicta
ipse comes Niso graditur regemque requirunt.

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Jean Baptiste Louis Roman: Eurialo e Niso (Museo del Louvre, 1827)

Restò senza fiato, dal grande amore di gloria, / Eurialo: e così subito parla all’amico eccitato: / «Me dunque compagno alle imprese più grandi non vuoi / prendere, Niso? Ti lascerò solo in tanto pericolo? / Non così il padre Ofelte avvezzo alle guerre / m’educò, poiché in mezzo al terrore dei Danai, allo strazio / di Troia io son nato: non con te vissi / e del magnanimo Enea seguii fino in fondo il destino: / c’è qui, c’è un cuore che disprezza la luce, che crede / buon prezzo pagar con la vita l’onore a cui tendi». / E Niso: «No, certo, non questo di te potevo  temere, / sarebbe stata ingiustizia; così a te mi riporti in trionfo / il gran Giove, o chi altro guarda benigno l’impresa! / Ma se, tu vedi che molte sono le cose in tali frangenti, / se un caso, se un dio dovesse gettarmi nel peggio, / te vorrei vivo, più degni di vita i tuoi anni. / E poi ci sarebbe chi, vinto in battaglia o comprato con oro, / m’affidi alla terra, o se la Fortuna s’oppone, / faccia l’esequie all’assente e di tombe m’onori. / E alla tua misera madre non voglio essere causa di pianto, / a lei che sola, fra tante donne, fanciullo, / osò seguirti, e nulla per lei furon le mura d’Alceste.» / Ma quello: «Scene inutili intessi, senza costrutto; / non cede, non muta comunque la mia decisione, / facciamo presto», dice. E sveglia le scolte, e subentrano / quelli a prendere la guardia: egli lascia il suo posto, / compagno a Niso si muove e cercano il re.

Quindi insieme i due amici, dopo aver ottenuto il permesso per la loro impresa, s’infiltrano nel campo dei nemici che trovano addormentati; ne uccidono tanti e si impossessano di alcune delle loro armi, tra cui un elmo.

Interea praemissi equites ex urbe Latina,
cetera dum legio campis instructa moratur,
ibant et Turno regi responsa ferebant,
ter centum, scutati omnes, Volcente magistro.
Iamque propinquabant castris murosque subibant
cum procul hos laevo flectentis limite cernunt,
et galea Euryalum sublustri noctis in umbra
prodidit immemorem radiisque adversa refulsit.
Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Volcens:
«State, viri. Quae causa viae? quive estis in armis?
quove tenetis iter?» Nihil illi tendere contra,
sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.
Obiciunt equites sese ad divortia nota
hinc atque hinc omnemque aditum custode coronant.
Silva fuit late dumis atque ilice nigra
horrida, quam densi complerant undique sentes;
rara per occultos lucebat semita callis.
Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
impediunt, fallitque timor regione viarum.
Nisus abit; iamque imprudens evaserat hostis
atque locos qui post Albae de nomine dicti
Albani (tum rex stabula alta Latinus habebat),
ut stetit et frustra absentem respexit amicum:
«Euryale infelix, qua te regione reliqui?
quave sequar?» rursus perplexum iter omne revoluens
fallacis silvae simul et vestigia retro
observata legit dumisque silentibus errat.
Audit equos, audit strepitus et signa sequentum;
nec longum in medio tempus, cum clamor ad auris
pervenit ac videt Euryalum, quem iam manus omnis
fraude loci et noctis, subito turbante tumultu,
oppressum rapit et conantem plurima frustra.
Quid faciat? qua vi iuvenem, quibus audeat armis
eripere? an sese medios moriturus in enses
inferat et pulchram properet per vulnera mortem?
Ocius adducto torquet hastile lacerto
suspiciens altam Lunam et sic voce precatur:
«Tu, dea, tu praesens nostro succurre labori,
astrorum decus et nemorum Latonia custos.
Si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus aris
dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi
suspendive tholo aut sacra ad fastigia fixi,
hunc sine me turbare globum et rege tela per auras».
Dixerat et toto conixus corpore ferrum
conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras
et venit aversi in tergum Sulmonis ibique
frangitur, ac fisso transit praecordia ligno.
Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
frigidus et longis singultibus ilia pulsat.
Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem
ecce aliud summa telum librabat ab aure.
Dum trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque
stridens traiectoque haesit tepefacta cerebro.
Saevit atrox Volcens nec teli conspicit usquam
auctorem nec quo se ardens immittere possit.
«Tu tamen interea calido mihi sanguine poenas
persolves amborum» inquit; simul ense recluso
ibat in Euryalum. Tum vero exterritus, amens,
conclamat Nisus nec se celare tenebris
amplius aut tantum potuit perferre dolorem:
«Me, me, adsum qui feci, in me convertite ferrum,
o Rutuli! mea fraus omnis, nihil iste nec ausus
nec potuit; caelum hoc et conscia sidera testor;
tantum infelicem nimium dilexit amicum.»
Talia dicta dabat, sed viribus ensis adactus
transadigit costas et candida pectora rumpit.
Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per artus
it cruor inque umeros cervix conlapsa recumbit:
purpureus veluti cum flos succisus aratro
languescit moriens, lassove papavera collo
demisere caput pluvia cum forte gravantur.
At Nisus ruit in medios solumque per omnis
Volcentem petit, in solo Volcente moratur.
Quem circum glomerati hostes hinc comminus atque hinc
proturbant. Instat non setius ac rotat ensem
fulmineum, donec Rutuli clamantis in ore
condidit adverso et moriens animam abstulit hosti.
Tum super exanimum sese proiecit amicum
confossus, placidaque ibi demum morte quievit.

Intanto, mandati avanti dal borgo latino, ché altro / esercito, pronto, resta in attesa nel piano, / cavalieri venivano, e a Turno re risposte portavano; / trecento, tutti armati di scudi, e Volcente era il capo. / E già si avvicinavano al campo e alle mura arrivavano, / quando lontano, costoro vedon girare a sinistra, / e l’elmo, nell’ombre della notte lunare, tradì / l’immemore Eurialo, colpito dai raggi splendette. / Non impunemente fu visto. / Volcente gridò alla schiera: «Fermi, uomini, che cosa vi muove? chi siete in armi? / dove siete diretti?». Essi nulla rispondono, / ma rapidi fuggono al bosco e alla notte si affidano. / I cavalieri si lanciano ai passaggi ben noti / di qua, di là, tutti i bivii con guardie coronano. / La selva era vasta, di macchie e d’elci nerastri / foltissima, e densi spineti per tutto l’empivano: / radi sentieri lucevano fra intrichi nascosti. / Eurialo, l’ombra dei rami, la preda onerosa / impaccia, l’inganna l’orrore nel tentare la via. / Niso andava: già senza accorgersene ha passato i nemici, / e i boschi sacri, che poi dal nome d’Alba si dissero / Albani (allora il re Latino, pascoli folti, li aveva): / come ristette, e invano a cercar l’amico si volse, e non c’era: / «Eurialo infelice, dove mai t’ho lasciato? dove ti cerco / tutto facendo di nuovo il confuso cammino / dell’ingannevole selva?» E scruta all’indietro / le impronte recenti e le segue, s’aggira tra mute boscaglie. / Ecco, ode cavalli, strepito ode, e gli inseguitori, e i richiami: / e molto non passa, che un urlo agli orecchi / gli arriva, e vede Eurialo; già tutta la schiera / (colpa della notte e del luogo) con subito confuso tumulto / lo raggiunge, lo tiene, che tutto invano pur tenta. / Che fare? con quale forza, con quali armi oserà / strappar loro il fanciullo? o è meglio gettarsi a morire, / su quelle spade, affrettare la bella morte nel sangue? / Rapidamente flettendo il braccio palleggia l’astile, / e in alto, alla Luna rivolto, la prega così: / «Tu, dea, tu valido aiuto, soccorri il nostro pericolo, / o bellezza degli astri, o dei boschi Latonia custode. / Se mai per me sui tuoi altari il padre mio Irtaco / portò doni, se anch’io con le mie cacce ne aggiunsi, / e ne appesi alla cupola, e ai sacri fastigi ne affissi, / fammi sconvolgere tu quella folla, reggi l’arma per aria». / Disse, e con tutto il corpo tendendosi il ferro / lanciò. L’asta volando straccia l’ombra notturna, / e vien nella schiena a Sulmone, voltato, e lì stesso / s’infrange, ma passa col legno rotto i precordi. / Rotola quello, dal petto un caldo fiume versando; / già freddo, gli ultimi aneliti con lunghi singulti dà ancora. / di qua, di là guardano. E Niso, più ardente, / ancora scoccava dall’orecchio una picca: / stavan quelli confusi, e l’asta passò a Tago le tempie / stridendo, restò a intiepidirsi nel cervello trafitto. / Volcente infuria, feroce: non riesce a vedere l’autore / del colpo, né dove possa pieno di rabbia scagliarsi. / «Tu intanto, però, col sangue vendetta / mi pagherai per entrambi», gridò e col ferro sguainato / piombava su Eurialo. Allora folle, sconvolto, / Niso scoppia a gridare, non può più nel buio nascondersi, / non può sopportare così orrendo dolore. / «Me, me! qui son io che ho colpito, su me il ferro volgete / o Rutuli! Mio è tutto l’inganno, nulla osò questo, / nè avrebbe potuto: il cielo lo attesti e, consce, le stelle. Soltanto, amò troppo il suo misero amico». / Queste parole gridava, ma spinta a forza la spada / tagliò le costole, il candido petto sfondò. / S’accasciò Eurialo morto, per il bel corpo / scorreva il sangue, cadde la testa sulla spalla, pesante: / così purpureo fiore, che l’aratro ha tagliato, / languisce morendo, o chinano il capo i papaveri / sul collo stanco, quando la pioggia li grava. / Ma Niso si butta nel mezzo, solo fra tutti / Volcente ricerca, Volcente solo egli vuole. / Intorno i nemici si stringono / di qua di là tentano / di ributtarlo: e nondimeno resiste, e ruota la spada / fulminea, finché al Rutulo urlante la cacciò nella gola / e tolse, morendo, al suo nemico la vita. / Allora si buttò in terra, sull’amico già esamine, / e lì, trafitto, trovò in placida morte riposo.

Episodio celeberrimo questo di Eurialo e Niso, non solo perché viene ripresa pedissequamente da Ariosto, nelle figure di Cloridano e Medoro, ma perché ci pone il problema del superamento, in chiave concettuale, dell’idea di amicizia della filosofia di Cicerone, che aveva dedicato ad essa un libro: infatti, per il pensatore repubblicano, l’amicizia è un sentimento che, per quanto altissimo, dev’essere subordinato al bene della res publica, per Virgilio l’amicitia, va al di là e significa sacrificio, abnegazione, generosità, lo stesso concetto cui disegnerà nella sua filosofia morale lo stoico Seneca. Inoltre non bisogna dimenticare che qui Virgilio adombri le figure di Achille e Patroclo con il concetto di amore “alla greca” – ancora un omaggio al padre dell’epica Omero.

Preparandosi all’assalto, i cavalieri portano sulle lance le teste dei due giovani, così che della loro morte viene a sapere la povera madre di Eurialo. S’accende la battaglia, morti da ambedue le parti. Turno, circondato dai nemici, fugge, gettandosi nel Tevere.

Libro X 

I Rutuli continuano la battaglia, mentre tra i Troiani emerge la figura del giovane Ascanio che lotta gloriosamente. Enea s’affretta a tornare, spronato dalle ninfe marine, barche già state trasformate, con l’esercito degli alleati. Nella lotta spicca Pallante, figlio di Evandro. Ma contro lui si fa forte Turno: inutile la preghiera del giovane ad Ercole, che piange per la sua morte; il re dei Rutuli riesce a sopraffarlo e gli ruba, trionfante, il balteo. Il dolore di Enea è grande, che si vendica uccidendo moltissimi nemici: Giunone, per far sfuggire Turno dalla sua ira, prende le sembianze del Troiano e l’allontana. Intanto Enea si trova a combattere col giovane Lauso che aveva preso le difese del padre Mesenzio ferito. Quando quest’ultimo s’allontana per detergere la ferita, Enea uccide il ragazzo. Grande è il dolore del padre, che si scaglia contro Enea, ma non cerca la vita: dopo la morte del figlio essa non ha più alcuno scopo.

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Turno uccide Pallante

MESENZIO A ENEA
(vv. 900-906)

Hostis amare, quid increpitas mortemque minaris?
nullum in caede nefas, nec sic ad proelia veni,
nec tecum meus haec pepigit mihi foedera Lausus.
unum hoc per si qua est victis venia hostibus oro:
corpus humo patiare tegi. Scio acerba meorum
circumstare odia: hunc, oro, defende furorem
et me consortem nati concede sepulcro.

Nemico amaro, che gridi? che morte minacci? / Non è empio l’uccidermi, non così venni in guerra, / non con te questo patto mi ha pattuito il mio Lauso. / Solo, se esiste pietà pei vinti nemici, ti prego: / il corpo mio, che la terra lo copra. So che acerbo dei miei / m’è intorno l’odio: ti prego, dal loro furore difendendimi, / me pure concedi compagno alla tomba del figlio.

Pochissimi versi, a chiusura del canto a sollolinare l’aspetto dellas pietas, pur di fronte alla morte del guerriero: le parole usate, venia e furor (perdono e furore) sembrano sollecitare infatti la virtù del grande eroe che sa esercitare pure sui vinti (victis) un alto senso di giustizia, rendendo il padre al figlio.

Libro XI

Si raggiunge una tregua tra i due contendenti, durante la quale vengono rese esequie funebri ai morti delle due parti. Intanto nel campo dei Latini serpeggia un certo malcontento nei confronti di Turno con alcune defezioni. Enea propone, per risolvere la guerra, un duello con Turno, il quale, pur non rinunciando a combattere contro i Troiani, accetta come ultima ratio. Sa, d’altra parte, che se alcuni hanno rinunciato alla lotta, ancora valorosi eroi stanno al suo fianco, come la vergine Camilla. Cu viene raccontata la sua vita (Il padre fuggito dopo esser stato cacciato per crudeltà, porta la piccola figlia con sé. Di fronte ad un fiume in piena, la lega su una lancia e la lancia nell’altra sponda chiedendo la protezione di Diana. Dopo averla raggiunta, la nutre nei boschi, dove cresce conservando la sua verginità e dedicando la sua vita alla dea). Ma è arrivato il suo momento:

MORTE DI CAMILLA
(vv. 768-804)

Forte sacer Cybelo Chloreus olimque sacerdos
insignis longe Phrygiis fulgebat in armis
spumantemque agitabat equum, quem pellis aënis
in plumam squamis auro conserta tegebat.
Ipse peregrina ferrugine clarus et ostro
spicula torquebat Lycio Gortynia cornu;
aureus ex umeris erat arcus et aurea vati
cassida; tum croceam chlamydemque sinusque crepantis
carbaseos fulvo in nodum collegerat auro
pictus acu tunicas et barbara tegmina crurum.
Hunc virgo, sive ut templis praefigeret arma
Troia, captivo sive ut se ferret in auro
venatrix, unum ex omni certamine pugnae
caeca sequebatur totumque incauta per agmen
femineo praedae et spoliorum ardebat amore,
telum ex insidiis cum tandem tempore capto
concitat et superos Arruns sic voce precatur:
«Summe deum, sancti custos Soractis Apollo,
quem primi colimus, cui pineus ardor acervo
pascitur, et medium freti pietate per ignem
cultores multa premimus vestigia pruna,
da, pater, hoc nostris aboleri dedecus armis,
omnipotens. Non exuvias pulsaeve tropaeum
virginis aut spolia ulla peto, mihi cetera laudem
facta ferent; haec dira meo dum vulnere pestis
pulsa cadat, patrias remeabo inglorius urbes.»
Audiit et voti Phoebus succedere partem mente dedit,
partem volucris dispersit in auras:
sterneret ut subita turbatam morte Camillam
adnuit oranti; reducem ut patria alta videret
non dedit, inque Notos vocem vertere procellae.
Ergo ut missa manu sonitum dedit hasta per auras,
convertere animos acris oculosque tulere
cuncti ad reginam Volsci. Nihil ipsa nec aurae
nec sonitus memor aut venientis ab aethere teli,
hasta sub exsertam donec perlata papillam
haesit virgineumque alte bibit acta cruorem.

Sacro al Cìbelo un tempo e sacerdote, splendeva / Clorèo lontano, vistoso in frigia armatura. / Spronava schiumante cavallo: lo copriva una pelle /  irta di bronzee squame simili a penne, trapunta in oro. / Bello d’esotico turchino e di porpora, frecce scagliava / cortesi da lieto arco: e d’oro era l’arco / agli omeri appeso, d’oro l’elmetto del vate; / le pieghe fruscianti di mussola della clamide crocea / teneva raccolte con fulvo oro in un nodo; / e tunica aveva a richiami e gambiere barbariche. / Questo la vergine, o che armi troiane appender volesse / nel tempio, o per far pompa lei stessa all’oro predato, / della battaglia fra tutte le mischie, qual cacciatrice, / rincorre, lui solo, senza guardarsi, per tutte le schiere, / ardendo di brama femminea per quelle spoglie e la preda. / Ed ecco, l’arma, insidioso, trovato finalmente il momento, / scaglia Arrunte, e i superi così invoca in preghiere: / «Sommo fra i numi, Apollo, del sacro Soratte custode, / che noi sopra gli altri onoriamo; per te resinosa la fiamma / la catasta divora, e tra il fuoco, nella pietà fiduciosi, / su molta brace noi, tuoi cultori, poniamo le piante; / dammi, padre, ch’io possa con le mie armi abolir la vergogna, / tu che puoi tutto. Non spoglie o trofeo dell’uccisa / vergine, nessuna preda domando, la gloria a me l’altre / imprese daranno: soltanto, dal mio colpa abbattuta, la peste / crudele cada, e tornerò senza onore alla patria città.» / Udì Febo, e in cuore concesse che parte del voto / fosse compiuta, parte tra i soffi dell’aria disperse: / che, in subita morte travolta, abbattesse Camilla / diede all’orante, che reduce vedesse la nobile patria / non diede, e le procelle rapirono tra i venti la voce. / E dunque, come scagliata sibilò l’asta in aria, / animi e sguardi febbrili tutti rivolsero / alla regina i suoi Volsci. Ma lei non di soffio, /  non di sibilo è accorta o d’arma che corra per l’aria, / finché l’asta, venuta sotto la nuda mammella, / s’infisse, e fonda entrò e bevve sangue virgineo.

Si conclude con questo passo la raffigurazione di Camilla, donna guerriera. E’ questa la seconda rappresentazione femminile, creata dalla mente virgiliana: ma se la prima Didone, la cui figura occupa un intero canto, discende direttamente dalle grandi eroine greche ed ellenistiche, innamorate ed abbandonate; Camilla, invece, appartiene alla schiera dei giovani “eroi” sia latini che troiani portati via dalla guerra. Camilla è discendente, diversamente da Didone, dalle grandi figure guerriere mitiche, le Amazzoni, le quali, nella letteratura classica greca, vengono rappresentate “simili ai maschi”; in Virgilio invece tale figura viene addolcita da un piccolo tocco di femminilità: il desiderio di possedere un’“armatura”, non per gloria, ma per vanità (femineo praedae et spoliorum ardebat amore). Ciò non toglie, come già abbiamo visto precedentemente, l’humanitas con la quale Virgilio descrive la morte di ambedue i fronti.

Appena Turno sa della morte della bellatrix, si reca a Laurento, sua città, per difenderla. Si dirige verso essa anche Enea. Si sarebbero certamente scontrati a duello se non fosse sopraggiunta la notte.

Libro XII

 Si prepara il duello: Latino cerca di dissuadere Turno, sapendo che per destino dovrà cedere ad Enea. Anche Giunone sa della sorte dei re dei Rutuli e tenta di procrastinarne la morte. Preso l’aspetto di un guerriero di Turno, rimprovera i compagni di lasciar solo il loro re. Un prodigio spinge i Latini a riprendere coraggio, uno dei quali, scagliando una freccia uccide un troiano. Si riprende a lottare, Enea viene ferito. Guarito dalla madre, cerca Turno, che ancora una volta viene difeso da Giunone. Ma questa volta interviene Giove, che ordina alla dea di cessare di voler fermare l’esito del destino. Ella acconsente a patto che i latini conservino il nome, la lingua e i costumi, e Troia scompaia per sempre. Giove promette e afferma che la nuova città sarà il frutto della comunione tra i due popoli. Abbandonato da Giunone, può iniziare il redde rationem:

LA MORTE DI TURNO
(vv. 919-952) 

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat
sortitus fortunam oculis et corpore toto
eminus intorquet. Murali concita numquam
tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti
dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar
exitium dirum hasta ferens orasque recludit
loricae et clipei extremos septemplicis orbes.
Per medium stridens transit femur: incidit ictus
ingens ad terram duplicato poplite Turnus.
Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit
mons circum et vocem late nemora alta remittunt.
Ille humilis supplex oculos dextramque precantem
protendens «Equidem merui nec deprecor» inquit:
«utere sorte tua; miseri te si qua parentis
tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis
Anchises genitor), Dauni miserere senectae
et me seu corpus spoliatum lumine mavis
redde meis. Vicisti et victum tendere palmas
Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx;
ulterius ne tende odiis». Stetit acer in armis
Aeneas volvens oculos dextramque repressit;
et iam iamque magis cunctantem flectere sermo
coeperat, infelix umero cum apparuit alto
balteus et notis fulserunt cingula bullis
Pallantis pueri, victum quem volnere Turnus
straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.
Ille, oculis postquam saevi monumenta doloris
exuviasque hausit, furiis accensus et ira
terribilis: «Tunc hinc spoliis indute meorum
eripiare mihi? Pallas te hoc volnere, Pallas
immolat et poenam scelerato ex sangue sumit».
Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit
fervidus; ast illi solvuntur frigore membra
vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.

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Luca Giordano: Enea uccide Turno (1600 ca)

E mentre esita, Enea vibra l’asta fatale, / scelta la sua fortuna con gli occhi, e con tutte le forze / di lontano la scaglia. Mai lanciati da macchina / murale così rombano sassi, né a scoppio di fulmine tanto / rimbomban tuoni. Vola come turbine nero, / dura morte l’asta portando, e della lorica / straccia l’orlo, e dello scudo settemplice l’ultimo giro: / penetra in pieno, stridendo, nel femore. Cade colpito / il grande Turno, sulle ginocchia, per terra. / Balzan con gemito i Rutuli in piedi e tutto rimbomba / il monte intorno e i boschi profondi ripetono l’eco. / Lui supplice tende da terra gli occhi e la destra a pregare: / «L’ho meritato, sì», esclama «e non maledico. Tu puoi / usar la tua sorte. Ma se del misero padre un pensiero / può ancora toccarti, ti prego (anche tu il vecchio padre / Anchise avesti), pietà della vecchiezza di Dauno, /  e, sia pur corpo privo di vita, se questo ti piace, / rendimi ai miei. Hai vinto, e vinto tender le mani / m’hanno visto gli Ausoni: è Lavinia tua sposa. / Di più non voglia il tuo odio». S’arrestò, aspro in armi, / Enea, rotando gli occhi, lasciò cadere la destra: / e sempre e sempre di più le parole piegavano / il cuore esitante, ma ecco brillò sulla spada, fatale, / il balteo, brillaron le cinghie dalle borchie ben note, / del fanciullo Pallante, che Turno colpì di ferita / e calpestò: e il trofeo del nemico sulle spalle portava. / Enea, come con gli occhi, ricordo d’atroce dolore, /  toccò quell’insegna, acceso di furia e nell’ira /  terribile: «Tu dunque, vestito delle spoglie dei miei, / mi sfuggirai dalle mani? Pallante con questo mio colpo, /  Pallante t’immola, e si vendica del tuo sangue assassino!» /  Così gridando, gl’immerge nel petto la spada / senza pietà. Con un fremito s’abbandonò allora il corpo, /  e la vita gemendo fuggì, angosciata fra l’ombre.

Così, allo stesso modo in cui Omero aveva terminato la sua Iliade con il duello tra Achille ed Ettore, allo stesso modo Virgilio chiude il suo poema con il duello tra Enea e Turno. Anche in questo epilogo tuttavia Virgilio non vuole smettere di sottolineare l’ambivalenza tra il ritratto tradizionale dell’eroe vittorioso (stetit acer in armis, eretto con le armi in pugno) e il nuovo concetto, seppure sfiorato solo per un attimo dell’humanitas (iam iamque magis cunctantem flectere sermo coeperat, e sempre più le parole di Turno avevano cominciato a piegare lui esitante). Ma alla fine del ritratto, forse per obbedire al modello achilleo, ecco Enea riprendere il ruolo del vendicatore, ruolo che stride col personaggio quale sinora abbiamo conosciuto.

Dopo averne percorso la trama, si tratta ora di andare a cogliere il significato che tale opera ha significato non solo per la letteratura latina in sé, ma anche, come si è cercato di dimostrare, per l’intera cultura “occidentale”.

Ciò può sembrare strano a partire dal fatto che l’opera, sin dall’incipit si presenta come non originale. Essa infatti si vuole porre sullo stesso piano, per la letteratura latina, di quella che per la letteratura greca erano stati i poemi omerici, passando attraverso la mediazione alessandrina: infatti è ellenisticamente breve, dodici canti al posto dei quarantotto complessivi omerici, ma è anche “modernamente” fedele rispetto a quelli che sono i topoi del genere epico: il viaggio (Odissea) nei primi sei libri e la guerra (Iliade) in quelli successivi; l’intervento degli dei nelle vicende degli uomini, la catabasi posta al centro della vicenda, la rassegna delle schiere combattenti e lo scudo su cui sono narrate le vicende della successiva storia di Roma. Ma tale ossequio rivolto alla grandissima epica greca lo costruisce anche facendo Roma figlia di quella civiltà (Enea è un Troiano), cioè legando il mythos romano a quello greco.

Eppure il poema si pone come assolutamente nuovo rispetto non solo ai precedenti omerici, ma anche a quei poemi che, prima di lui, erano considerati come “nazionali” nell’allora cultura romana, si pensi solo agli Annales di Ennio (non è un caso che l’uscita del poema virgiliano abbia cancellato quelli precedenti). Esso vuole porsi infatti non solo come continuatore, ma anche come “fondante” la nuova civiltà augustea: il mondo latino, infatti, è figlio di quello greco, ma lo ha superato, ponendosi su un livello più alto e maggiormente universale. Tutto questo lo incarna Enea: è lui che incarna una nuova Weltanschauung sulla quale si vuole costruire la Roma di Augusto: la pietas cioè quel profondo rispetto verso la patria, la famiglia, le tradizioni, sorretta da una profonda humanitas. Tutto ciò, tuttavia, non viene rappresentato in modo monolitico, senza alcun tentennamento da parte dell’eroe: sin dall’esordio Enea è caratterizzato dal participio passus (che sopporta, da patior), infatti molti critici hanno sottolineato l’aspetto “paziente” di Enea, di colui che sa attendere e aspettare il volere degli dei, o più correttamente del destino cui lui obbedisce. Infatti il poema sembra quasi costruirsi intorno alla crescita di Enea, crescita che tuttavia avviene sempre attraverso una rinuncia, ripercorriamole: dapprima Creusa, poi Anchise, Didone, Palinuro, Eurialo e Niso ed infine Pallante. Egli infatti sembra crescere attraverso il dolore dell’assenza; ma è l’assenza che lo fortifica lo fa “prendere” fors’anche con violenza, come negli ultimi versi, la terra e la donna che gli dei gli hanno assegnato.

Questo ci spiega perché l’Eneide è costruita attraverso la triangolazione che contrappone, nella prima parte, gli dei Giunone e Venere con la mediazione di Giove; nella seconda gli uomini Turno ed Enea, con la mediazione di Latino. All’interno di queste triangolazioni si sviluppano le vicende, per meglio dire le azioni che contrappongono la storia ed il Fato, di cui Enea è portatore. E’ proprio il peso del destino che Enea porta con sé, ma è un peso necessario, in quanto, pur profugus, iactatus, passus, (aggettivi e participi passati con valori fortemente negativi) egli riuscirà nel compito che gli hanno affidato, un pò come la Roma, sconvolta, depredata, tradita, alla fine ritrova se stessa con la figura di Augusto.

Certo, non è possibile dimenticare un altro aspetto fondamentale: Virgilio, scrivendo un testo la cui funzione è quella di esaltare la Roma di Ottaviano/Augusto, corre il rischio del’agiografia: lo supera brillantemente, facendo sì che il suo poema raccontasse una storia mitica e non storica.

MARCO FABIO QUINTILIANO

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Statua di Quintiliano nella sua città natale

Cenni biografici

Marco Fabio Quintiliano, come i grandi suoi predecessori Seneca e Lucano, a dire il vero da lui non proprio amati, è spagnolo. Nacque infatti in un paese iberico, Calhorra, nel 35 circa. Il suo destino sembra segnato sin da piccolo: infatti il padre era un retore che lo mandò a Roma a studiare con i più grandi grammatici del tempo. Tornato in Spagna vi svolse attività forense, ma fu Galba, uno dei quattro imperatori, che lo riportò a Roma, dove iniziò ad esercitare il lavoro di maestro. Passò indenne nelle turbolenze del 69, tanto da affermarsi, nell’intera età dei Flavi, da Vespasiano, che gli consentì di diventare il primo docente pagato dallo Stato, a Domiziano che gli affidò l’educazione dei figli e lo innalzò fino agli ornamenta consolaria. Dall’88 cominciò a lavorare alla sua opera principale, l’Institutio Oratoria, nella quale s’inserisce, come era già successo nell’epoca neroniana, nel dibattito sulla decadenza di tale scienza nell’età imperiale. Muore, forse, nello stesso anno in cui Domiziano fu assassinato, nel 96.

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Calhorra nel periodo romano

Institutio oratoria

L’Institutio oratoria è un trattato didascalico in dodici libri dedicata a Vitorio Marcello (oratore) ed è certamente uno delle opere più complete che ci sia giunta sull’argomento. Riprendendo in parte il suo amato Cicerone, nonché le opere di autori successivi, come quella del retore Seneca (padre del filosofo), Quintiliano inserisce la sua disciplina in un quadro maggiormente organico, in cui descrive non solo il modo in cui strutturare l’oratoria in sé, ma anche il modo in cui trasmetterla. Infatti egli sembra mosso nel ricercare i motivi che abbiano portato al declino tale scienza. Se alcuni avevano sottolineato l’impossibilità della stessa in un organizzazione politica che non prevede la libertà di parola, altri ancora avevano visto il suo declino nell’uso delle declamationes, quindi nella ricerca del successo facile ed immediato. Quintiliano invece individua la decadenza dell’oratoria soprattutto nell’educazione.

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Pagina dell’Institutio oratoria in un libro del 1772

La sua opera si struttura in dodici libri:

  1. Il I libro parla dell’istruzione elementare e del corso di grammatica;
  2. Il II libro affronta i problema della scuola di retorica e del fondamentale rapporto di fiducia che si deve instaurare tra gli allievi e l’insegnante;
  3. Il III affronta i tre generi dell’orazione: la celebrativa o epidittica (conferenza), deliberativa (politica) e la giudiziaria;
  4. Dal IV al VI, l’inventio (reperimento degli argomenti);
  5. Nel VII è affrontata la dispositio (l’ordine in cui presentarli)
  6. Nei libri VIII-IX la locutio (lo stile da utilizzare);
  7. Il X presenta un excursus in cui cita gli autori più importanti (secondo il suo giudizio) cui attingere per ottenere la facilitas dicendi;
  8. L’XI riprende la tecnica oratoria affrontando la memoria e l’actio (la mnemotecnica e l’impostazione della voce);
  9. Nel XII e ultimo vi è il ritratto ideale dell’oratore.

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Frontespizio di un’edizione del 1720

L’opera, da come si vede, ricalca in modo piuttosto omogeneo con le quelle che l’hanno preceduta, ad eccezione dei primi due libri e del decimo, in cui troviamo, in nuce, una piccola storia della letteratura dell’età classica.

Iniziamo dall’inizio, quando Quintiliano, parla dell’educazione necessaria sin da quando si è fanciulli per diventare oratore:

GLI EDUCATORI
(I, 1-8, con tagli)

Igitur nato filio pater spem de illo primum quam optimam capiat: ita diligentior a principiis fiet. (…) Ante omnia ne sit vitiosus sermo nutricibus: quas, si fieri posset, sapientes Chrysippus optavit, certe quantum res pateretur optimas eligi voluit. Et morum quidem in his haud dubie prior ratio est, recte tamen etiam loquantur. Has primum audiet puer, harum verba effingere imitando conabitur. (…) In parentibus vero quam plurimum esse eruditionis optaverim. Nec de patribus tantum loquor: nam Gracchorum eloquentiae multum contulisse accepimus Corneliam matrem, cuius doctissimus sermo in posteros quoque est epistulis traditus. (…) Nec tamen ii quibus discere ipsis non contigit minorem curam docendi liberos habeant, sed sint propter hoc ipsum ad cetera magis diligentes. De pueris inter quos educabitur ille huic spei destinatus idem quod de nutricibus dictum sit. De paedagogis hoc amplius, ut aut sint eruditi plane, quam primam esse curam velim, aut se non esse eruditos sciant.

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La maternità a Roma

Dunque, dopo che gli è nato un figlio, un padre concepisca in merito a lui le migliori speranze, così lo seguirà più attentamente sin dall’inizio. (…) Innanzitutto le nutrici non abbiano un linguaggio scorretto: Crisippo, per quanto possibile, si augurava che fossero persone colte, o almeno, per quanto concesso dalle circostanze, voleva che si scegliessero le migliori. E se la priorità della scelta per prima va data alla loro moralità, tuttavia è importante che parlino anche in modo corretto. Sono loro quelle che il bambino ascolterà per prime, sono le loro parole che cercherà di ripetere imitandole. (…) Auspicherei che nei genitori ci fosse il livello maggiore di cultura. E non mi riferisco soltanto ai padri: sappiano infatti che un contributo significativo all’eloquenza dei Gracchi fu dato loro dalla madre Cornelia, il cui eloquio forbitissimo è stato trasmesso anche ai posteri grazie alle sue lettere. (…) Non trascurino l’educazione dei figli coloro che non hanno a loro volta avuto modo di studiare; anzi proprio per questo stiano più attenti a tutto l’altro. In merito ai ragazzi con i quali sarà istruito il l giovane, oggetto delle nostre speranze, valga ciò che si è detto riguardo le nutrici. Quanto ai pedagoghi auspicherei, in più, o che fossero particolarmente colti, e questa è la cosa che dovrebbe importare maggiormente, oppure che fossero consapevoli di non esserlo.

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Cornelia con i figli

E’ evidente la differenza che Quintiliano introduce nella sua opera: egli ha ben chiara la visione secondo cui per raggiungere il massimo grado dell’oratoria non serve la tecnica, ma la continua educazione. Infatti nei testi che lo avevano preceduto, tale scienza si apprendeva in età già scolarizzata, attraverso un preciso percorso e una ferrea techné. Lui, invece, tra i metodi d’apprendimento, colloca, in modo geniale, anche il gioco:

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Una fanciulla gioca agli astrogali (dado di ossa animali)

IL GIOCO NELL’EDUCAZIONE
(I, 3 10-11)

Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. 

Né potrebbe offendermi il gioco nei fanciulli (anche questo è segno di vivacità), né potrei sperare che l’alunno triste e sempre in disparte sarà verso gli studi di mente aperta, non aprendosi anche verso quell’impeto estremamente naturale a quell’età. Tuttavia ci sia moderazione verso i momenti di riposo, affinché, se negati non procurino odio dello studio o, se eccessivi, la consuetudine all’ozio. Ci sono alcuni giochi non inutili per migliorare le attitudini dei fanciulli, quando preparati alcuni quesiti di poca importanza su ogni genere gareggiano a turno (a rispondere).

In questo passo, infatti, sembra precorrere di molto le tecniche educative che saranno poi sviluppate in età moderna. L’idea che il gioco possa essere motivo d’apprendimento, ma, soprattutto l’idea di un giusto riposo ed un giusto impegno non lasciano adito a dubbi che ci troviamo di fronte ad un “teorico” le cui “teorie”, tuttavia, lasciano grande spazio anche ad una assidua pratica sul campo.

Tutto ciò lo intuiamo quando sviluppa il rapporto che deve intercorrere tra fanciullo e il maestro:

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Bassorilievo in cui si mostra un magister cum duobus discipulis

TRA MAESTRO E DISCEPOLO
(II, 1 – 3) 

Plura de officiis docentium locutus discipulos id unum interim moneo, ut praeceptores suos non minus quam ipsa studia ament et parentes esse non quidem corporum, sed mentium credant. Multum haec pietas conferet studio; nam ita et libenter aiudient et dictis credent et esse similes concupiscent, in ipsos denique coetus scholarum laeti alacres convenient, emendati non iracetur, laudati gaudebunt, ut sint carissimi studio merebuntur. Nam ut illorum officium est docere, sic horum praebere se dociles: aliqui neutrum sine altero sufficit; et sicut hominis ortus ex utroque gignentium confertur, et frustra sparseris semina nisi illa praemollitus foverit sulcus, ita eloquentia coalescere nequit nisi sociata tradentis accipientisque concordia.

Dopo aver parlato molto sui compiti dei docenti raccomando ai discenti solamente quest’unica cosa, che amino i loro precettori non meno degli stessi studi e credano che loro non siano padri soltanto del corpo, ma della mente. Questa devozione gioverà molto allo studio; infatti così sia ascolteranno lietamente, sia crederanno alle parole, sia desidereranno essergli simili; ed infine nelle stesse adunanze delle scuole si riuniranno lieti e veloci; corretti non si arrabbieranno, lodati gioiranno, con lo studio meriteranno di essere molto stimati. Infatti come il compito di quelli è insegnare, così di questi è di offrire se stessi disponibili all’apprendimento: del resto nessuna delle due cose è sufficiente senza l’altra; e come la nascita di un uomo è procurata da ognuno dei genitori ed inutilmente si semineranno i semi se il solco, precedentemente preparato, non li coverà, così l’eloquenza non può svilupparsi se non con la concordia unione di chi offre e chi riceve.

L’integrazione “intellettuale” (e perché no?, affettiva) che si deve istaurare tra docente e discenti apre, anche dopo le precedenti letture, all’apertura di una vera e propria pedagogia, ovverosia una scienza dell’educazione. E’ il primo autore, nella letteratura latina ad aver intuito l’importanza della psiche del bambino e del fanciullo non solo come ricettiva nozioni, ma anche come ricettiva momenti in cui l’apprendimento è continuo, nella parola affettuosa di una nutrice, in un gioco comune e sociale, nella stima verso un docente, che solo tali cose faranno sì che l’oratore non sia freddo “conferenziere”, ma un uomo la cui conoscenza del suo simile gli dia la possibilità di por-tarlo, con la parola, dalla sua parte.

Solo dopo la formazione il ragazzo, ormai preparato, potrà avvicinarsi alle tecniche dell’arte del dire. Ma quest’ultime dopo averle attentamente imparate le dovrà poi affinare con lo studio dei grandi autori, affinché li consideri modelli insuperabili cui sempre ispirarsi per ottenere un ottimo discorso. Per questo il primo che bisogna studiare è certamente Cicerone:

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Edizione del 1775

ELOGIO DI CICERONE
(X, 108-109)

Nam mihi videtur M. Tullius, cum se totum ad imitationem Graecorum contulisset, effinxisse vim Demosthenis, copiam Platonis, iucunditatem Isocratis. Nec vero quod in quoque optimum fuit, studio consecutus est tantum, sed plurimas vel potius omnes ex se ipso virtutes extulit immortalis ingenii beatissima ubertate. Non enim pluvias, ut ait Pindarus, aquas con-ligit, sed vivo gurgite exundat, dono quodam providentiae genitus, in quo totas vires suas eloquentia experiretur.

A me pare infatti che Marco Tullio nel suo dedicarsi interamente all’imitazione dei Greci, abbia prodotto la forza di Demostene, la ricchezza di Platone e la gradevolezza di Isocrate. Ma tutti i pregi che si trovano in quegli autori non li ha raggiunti soltanto con lo studio: la maggior parte delle sue virtù, o meglio tutte, le ha prodotte la felicissima ricchezza del suo talento immortale, traendole da se stesso. Non si limita, infatti, come dice Pindaro, a raccogliere le acque piovane, ma trabocca con la sua viva corrente: la sua nascita è stata un dono della provvidenza, affinché l’eloquenza potesse mettere alla prova in lui tutte le proprie possibilità.

Cicerone diventa agli occhi di Quintiliano l’oggetto sacro da aemulare, su cui plasmare il proprio dettato, perfezionare il proprio stile. Ma qual è, allora, il limite che noi moderni sentiamo in questo elogio? E’ che Cicerone è stato sì forse il più grande prosatore romano, ma se la sua prosa era così perfetta e “emotivamente” forte, era perché in essa “vibrava” un anelito di libertà repubblicana che certo Quintiliano non può riprodurre. Ecco allora che la sua venerazione verso lo scrittore d’Arpino non può che fermarsi a un semplice, seppur sincero, ossequio formale.

GIUDIZIO SU SENECA
(X, 129-130)

Multae in eo claraeque sententiae, multa etiam morum gratia legenda; sed in eloquendo corrupta pleraque atque eo perniciosissima, quod abundant dulcibus vitiis. Velles eum suo ingenio dixisse, alieno iudicio; nam si ali-qua contempsisset, si pravum non concupisset, si non omnia sua amasset, si rerum pondera minutissimis sententiis non fregisset, consensu potius eruditorum quam puerorum amore comprobaretur. 

Le sue frasi sentenziose sono molte e famose, e molte sono anche le opere che devono esser lette per la moralità; lo stile, però, è particolarmente corrotto, e molto più pericoloso proprio perché i difetti di cui abbonda sono attraenti. Vorresti che avesse parlato con la sua testa, ma con i gusti stilistici di un’altra persona: se avesse disprezzato qualcosa, se non avesse desiderato ciò che era disonesto, se non avesse amato tutte le sue inclinazioni, se non avesse spezzettato in frasi brevissime argomenti complessi, si sarebbe guadagnato il consenso degli eruditi, e non soltanto l’amore dei ragazzi.

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Codice dell’opera di Quintiliano nella Biblioteca medicea

Che, come si è detto, si tratti solo di amore formale per lo stile, lo si capisce proprio da questo giudizio su Seneca. Egli infatti apprezza la moralità dell’autore spagnolo (anche se, in un passo non riportato, afferma che essa non è supportata da una approfondita conoscenza filosofica) ma condanna senza appello il modo in cui scrive. Infatti le molte sentenze mal tollerate da Quintiliano, ma amate tantissimo dai giovani, non rientravano nel rispetto di quell’eloquio tipico della tradizione su cui l’autore (e chi allora era al potere) si richiamava, e potevano essere strumento di corruzione dei giovani.

ITALO SVEVO

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Italo Svevo

Aaron Hector Schmitz nasce, quinto di otto figli, il 19 dicembre 1861 a Trieste da una famiglia di origine ebraica benestante, proveniente dalla Germania: il padre Franz Schmitz, commerciante di vetrami, la madre, italiana, Allegra Moravia.

Nel 1874, viene mandato dal padre a studiare, assieme ai due fratelli Adolfo ed Elio al collegio di Segnitz, in Baviera, dove studia il tedesco e altre materie utili per l’attività commerciale. Dopo quattro anni torna a Trieste e finisce il suo percorso di studi commerciali; ma è già da quando risiedeva in terra germanica, grazie soprattutto a Elio, che morirà a 22 anni, che coltiva un profondo interesse per la cultura letteraria e musicale, cercando d’impare a suonare il violino e leggendo prima i classici tedeschi e successivamente quelli italiani.

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Trieste nel 1885

Nel 1880, dopo il fallimento dell’azienda paterna, inizia a lavorare presso la filiale cittadina della Banca Union di Vienna, impiego che, sebbene mai amato, manterrà per diciotto anni. Sono anni in cui maturerà l’amicizia con il pittore Umberto Veruda, mentre inizia una difficile relazione con Giuseppina Zergol: tale esperienza verrà poi descritta nel secondo romanzo. Nello stesso periodo ha inizio la collaborazione con L’Indipendente, giornale d’ispirazione socialista dove pubblica recensioni e saggi teatrali e letterari. Qui riesce anche a far pubblicare, rispettivamente nel 1888 e nel 1890, i suoi racconti Una lotta e L’assassinio di via Belpoggio, scritti in lingua italiana con lo pseudonimo di Ettore Samigli. 

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La prima pagina de L’indipendente di Trieste nel 1898

Nel 1892, anno in cui muore il padre, avviene la pubblicazione del primo romanzo Una vita, firmato con il definitivo pseudonimo Italo Svevo; l’opera viene sostanzialmente ignorata dalla critica e dal pubblico. Nel ’95 perde la madre e nel ’96 sposa la cugina Livia Veneziani, figlia di un commerciante di vernici per sottomarini cattolico, da cui ha una figlia, Letizia.

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Svevo il giorno del suo matrimonio

E’ del 1898 il suo secondo romanzo, Senilità; anche quest’opera passa però quasi sotto silenzio. L’insuccesso letterario lo spinge quasi ad abbandonare del tutto la letteratura. Dimessosi dalla banca, nel 1899 Svevo entra nell’azienda del suocero, accantonando la sua attività letteraria, che diventa marginale e segreta. Costretto per lavoro a numerosi viaggi all’estero, dove si porta un violino senza riuscire a esercitarsi che raramente, ha tuttavia ancora qualche voglia di scrivere e si trova a comporre qualche pagina teatrale e alcune favole, che tuttavia non mostra pubblicamente. Per esigenze lavorative decide di frequentare un corso d’inglese alla Berlitz School di Trieste nel 1907: suo insegnante sarà lo scrittore irlandese James Joyce, che proprio in quegli anni frequentava la città austriaca. Dopo che Joyce ebbe modo di conoscere le due prime opere letterarie di Svevo (non amò particolarmente Una vita, ma rimase entusiasta di Senilità) lo incoraggiò a scrivere un nuovo romanzo. Data intorno al 1910, grazie al cognato, Bruno Veneziani, il suo viaggio a Vienna dove si reca per accompagnarlo per sottoporsi ad una terapia psicoanalitica: in questo modo Italo Svevo entra in contatto con le teorie di Sigmund Freud.

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James Joyce

Allo scoppio della prima guerra mondiale, l’azienda nella quale lavora viene chiusa dalle autorità austriache. Durante tutta la durata della guerra lo scrittore rimane nella città natale, mantenendo la cittadinanza austriaca ma cercando di restare il più possibile neutrale di fronte al conflitto; in questo periodo approfondisce la conoscenza della letteratura inglese; e traduce, spinto da un nipote medico, La scienza dei sogni di Sigmund Freud.
Nel 1919 Svevo comincia a scrivere La coscienza di Zeno, poi pubblicato nel 1923, ancora senza successo, fino al 1925, quando lo invia a Joyce che lo propone ai critici italianisti francesi, Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux, mentre in Italia Eugenio Montale, in anticipo su tutti, ne afferma la grandezza. Spinto dal successo internazionale comincia il suo quarto romanzo, Il vecchione o Le confessioni del vegliardo, una continuazione de La Coscienza di Zeno, che rimarrà incompiuto a causa della morte dello scrittore, avvenuta nel 1928 a seguito di un incidente stradale.

L’attività letteraria di Italo Svevo (pseudonimo che appare per la prima volta nell’intestazione del suo primo romanzo Una vita) è inserita in un clima per così dire periferico: Trieste è infatti una città di confine, non dell’Italia, ma dell’Impero Austroungarico, che fa della città il suo sbocco marino. Trieste, in quel periodo presenta un vero e proprio crogiolo di etnie e culture che possono essere così sintetizzate:

  • Austriaca, etnia che rappresenta in quella città il potere politico ed amministrativo;
  • Italiana, formata soprattutto da una borghesia imprenditoriale, fortemente influenzata dal nazionalismo e che costituirà una componente fondamentale dell’irredentismo;
  • Ebraica, che si colloca trasversalmente, con una forte cultura identitaria, che detiene il potere finanziario;
  • Slava, che costituisce il nerbo del proletariato cittadino.

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Cartina della Mitteleuropa (in verde scuro i confini politici, in chiaro i culturali)

Da quanto detto è evidente che la città si presenti come un centro la cui vocazione è fortemente cosmopolita, dove si accentrano gli influssi dell’intera cultura europea sebbene vi predominino la cultura tedesca e quella italiana. Trieste potrebbe a buon diritto dirsi uno dei centri di quella cultura mitteleuropea, che vive il suo momento a cavallo della dissoluzione dell’impero asburgico e possiede al suo interno esperienze che, pur differenziate per lingua e cultura, possono essere accomunate da una profonda sfiducia sull’uomo e sulla sua forza d’intervenire nella realtà (si ricordino Robert Musil e il suo Uomo senza qualità, Franz Kafka e il racconto La metamorfosi, Elias Canetti con Autodafé)

Anche Italo Svevo appartiene a buon diritto a questa élite intellettuale, il cui nome, scelto per la pubblicazione del romanzo, vuole appunto indicare la duplicità della sua cultura: italiana da una parte (Italo) e germanica in senso lato (Svevo).

Prima d’iniziare a conoscere l’attività letteraria, ci pare opportuno analizzare le basi culturali entro le quali il nostro sviluppò la sua idea di mondo:

  1. conosce, per questioni lavorative e culturali ben quattro lingue (oltre il dialetto triestino parlato in famiglia): tedesco, italiano, francese ed inglese. Ciò vuol dire che poté approcciarsi alla maggiore cultura europea in modo diretto, senza l’ausilio di traduzioni;
  2. la conoscenza e lo studio della filosofia di Arthur Schopenhauer: se per il filosofo tedesco a farci vivere è una sorta di forza vitalistica che ognuno di noi possiede, al di là della nostra volontà, veniamo di conseguenza privati della libertà; ciò dà vita a due tipologie umane: da una parte i “lottatori” (sani, per Svevo), che si gettano nella vita lasciandosi trascinare, in modo irrazionale, da tale forza vitalistica e quindi godendo dei suoi frutti senza chiedersi perché; dall’altra i contemplatori (malati, secondo Svevo), che, sottraendosi talvolta a tale flusso, possono guardarlo criticamente, ma ne deriva una sorta d’infelicità, di uno spostamento alla condizione d’inettitudine, e quindi non riuscendo a godere dei suoi frutti (vedremo poi come maturerà tale concetto nel suo maggiore romanzo);
  3. la conoscenza della teoria scientifica di Charles Darwin, con la quale raffronta il discorso della selezione naturale sugli animali (e quindi sullo stesso uomo) a quello dei gruppi sociali. Per Svevo non si tratta soltanto di cancellazione delle specie inferiori, ma anche di come esse, talvolta, possono ricrearsi per difendersi. Egli infatti mette sullo stesso piano il concetto schopenhaueriano del contemplatore con quello del debole, che tuttavia trova in sé le motivazioni per esistere;
  4. l’incontro, grazie al nipote, con la filosofia freudiana: egli non crede affatto al suo effetto terapeutico, ma la trova estremamente efficace per l’analisi degli uomini e quindi dei personaggi letterari (Grande uomo quel Freud, ma più per i romanzieri che per gli ammalati);
  5. il marxismo (sebbene in misura minore): egli, più che interessarsi alla soluzione rivoluzionaria per l’affermazione del proletariato, crede nell’ “alienazione” che la società capitalistica provoca nell’uomo, con tutte le conseguenze negative che ne derivano.  

Vedremo più specificatamente come le componenti culturali entrino a far parte della sua produzione letteraria.
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Statua che la città di Trieste ha dedicato all’autore

Come detto esordisce, nel 1892, con il romanzo Una vita:

Alfonso Nitti, giovane intellettuale con aspirazioni letterarie, lascia il paese natale, dove vive con la madre; si trasferisce a Trieste, in affitto presso la famiglia Lamberti, trovando un avvilente impiego come bancario. Come altri suoi colleghi viene invitato a casa del banchiere Maller, e qui conosce Macario, un giovane sicuro di sé con cui Alfonso fa amicizia, e Annetta, figlia di Maller, anch’ella interessata di letteratura, con la quale Alfonso inizia una relazione. Sul punto di sposarla però, fugge, così da poter cambiare vita, e torna al paese d’origine, dove la madre, già gravemente malata, muore. Alfonso torna quindi a Trieste, e decide di vivere una vita di contemplazione, lontano dalle passioni. Tuttavia, alla scoperta che Annetta si è fidanzata con Macario, Alfonso si sente ferito e cerca in tutti i modi di ritornare alla situazione precedente, ma non solo fallisce in questo proposito, bensì riesce persino ad aggravare ulteriormente la situazione. Quando, in seguito all’ennesimo equivoco con la famiglia Maller, si trova a dover sfidare a duello il fratello di Annetta, sceglie di suicidarsi e di porre così fine alla sua vita di disadattato.

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Edizione del 1893

Scritto nel 1888, ma pubblicato nel 1892, il romanzo racconta la vita di Alfonso Nitti, nel quale si possono leggere alcune caratteristiche dello stesso Svevo (prime fra tutte quelle di avere velleità letterarie). Influenzato dai naturalisti francesi Svevo vuole raccontare l’intera esistenza di un piccolo impiegato di provincia, come già aveva descritto, in parte, il nostro Emilio De Marchi, e sceglie come titolo Un inetto (in aptus, cioè inadatto), cambiato dall’editore in Una vita. La scelta definitiva del titolo ricalca quella di un romanzo di Guy De Maupassant e ciò, al di là della scelta dell’editore ci dice i rapporti che l’opera dello scrittore triestino aveva con la cultura naturalista.

Già in questo primo romanzo vediamo come l’elemento schopenhaueriano operi in modo palese nella struttura del racconto. Lo vediamo in questo passo:
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Trieste: Riviera di Barcola

IL GABBIANO

La sua compagnia doveva piacere a Macario. La cercava di spesso; qualche sera gli usò anche la gentilezza di andarlo a prendere all’ufficio. Ad Alfonso non sfuggì la causa di quest’affetto improvviso. Lo doveva alla sua docilità e, pensò, anche alla sua piccolezza. Era tanto piccolo e insignificante, che accanto a lui Macario si trovava bene.
Non si compiacque meno di tale amicizia. Le cortesie, anche se comperate a caro prezzo, piacciono.
Non disistimava Macario. Per certe qualità ammirava quel giovine tanto elegante, artista inconscio, intelligente anche quando parlava di cose che non sapeva.
Macario possedeva un piccolo cutter e frequentemente invitò Alfonso a gite mattutine nel golfo. Nella sua vita triste, quelle gite furono per Alfonso vere feste. In barca gli era anche più facile di dare il suo assenso alle asserzioni di Macario e in gran parte non le udiva. Si trovava ancora sempre alla conquista della solida salute che gli occorreva, riteneva, per sopportare la dura vita di lavoro a cui faceva proponimento di sottoporsi, e gli effluvi marini dovevano aiutarlo a trovarla.
Una mattina soffiava un vento impetuoso e alla punta del molo, ove si trovavano per attendere la barca che doveva venirli a prendere, Alfonso propose a Macario di tralasciare per quella mattina la gita che gli sembrava pericolosa. Macario si mise a deriderlo e non ne volle sapere.
Il cutter si avvicinava. Piegato dalle vele bianche gonfiate dal vento, sembrava ad ogni istante di dover capovolgersi e di raddrizzarsi all’ultimo estremo sfuggendo al pericolo imminente. Alfonso da terra era colto da quei tremiti nervosi che si hanno al vedere delle persone in pericolo di cadere e fu solo per la paura delle ironie di Macario che non seppe lasciarlo partir solo.
Ferdinando, un facchino ch’era stato marinaio, dirigeva la barca. Lasciò il posto al timone a Macario il quale sedette dopo toltasi la giubba quasi per prepararsi a grandi fatiche: «Ora fuoco alla macchina,» gridò a Ferdinando.
Ferdinando scese a terra e trascinò il cutter per l’albero di prora da un angolo del molo all’altro; poi, un piede puntellato a terra, l’altro sul cutter, lo spinse al largo.
Alfonso lo guardò tremando; temeva di vederlo piombare in acqua e, per quanto piccolo, l’imminenza di un pericolo lo faceva sussultare.
«Che agile!» disse a Ferdinando.
Gli pareva d’essere in mano sua e aveva il desiderio quasi inconscio d’amicarselo. Ferdinando alzò il capo, giovanile ad onta del grigio nella barba e della calvizie abbastanza inoltrata, e ringraziò. Non essendo suo il mestiere, ci teneva molto ad apparire abile. Comprese però male lo scopo della raccomandazione. Trasse con forza a sé la vela e la fissò, aiutando poscia a tenderla con tutto il peso del suo corpo. Immediatamente il vento che pareva sorgesse allora la gonfiò e la barca si piegò con veemenza proprio dalla parte ove sedeva Alfonso.
S’era proposto di far mostra di grande sangue freddo, ma i propositi non bastarono all’improvviso spavento. Poté trattenersi dal gridare ma balzò in piedi e si gettò dall’altra parte sperando di raddrizzare la barca con il suo peso. Si tranquillò alquanto sentendosi più lontano dall’acqua e sedette afferrandosi con le mani alla banchina.
Macario lo guardò con un leggero sorriso. Si sentiva bene nella sua calma accanto ad Alfonso e per rendere più evidente il distacco tenne il cutter sotto la piena azione del vento. Alfonso vide il sorriso e volle prendere l’aspetto di persona calma. Segnalò a Macario all’orizzonte delle punte bianche di montagne di cui non si vedevano le basi.
Passando accanto al faro poté misurare la rapidità con la quale tagliavano l’acqua; diede un balzo sembrandogli che la barca andasse a sfracellarsi sui sassi che la contornavano.
«Sa nuotare?» gli chiese Macario con tranquillità. «Alla peggio ritorneremo a casa a nuoto. Ma», e finse grande preoccupazione «anche se si sentisse andare a fondo non si aggrappi a me perché saremmo perduti in due. Penseremo a lei io e Nando. Nevvero, Nando?
Ridendo sgangheratamente, costui lo promise.
Coi suoi modi da pensatore, Macario si dilungò in considerazioni sugli effetti della paura. Ogni dieci parole alzava la mano aristocratica, l’arrotondava e tutti i sottintesi che quel gesto segnava, cui nel vuoto della mano creava il posto, Alfonso lo sapeva, dovevano andare a colpire lui e la sua paura.
«Muore maggior numero di persone per paura che per coraggio. Per esempio in acqua, se vi cadono, muoiono tutti coloro che hanno l’abitudine di afferrarsi a tutto quello che loro è vicino», e fece una strizzatina d’occhio verso le mani di Alfonso che si chiudevano nervosamente sulla banchina. E passarono accanto al verde Sant’Andrea senza che Alfonso potesse padroneggiarsi. Guardava, ma non godeva.
La città, quando al ritorno la rivide, gli parve triste. Sentiva un grande malessere, una stanchezza come se molto tempo prima avesse fatto tanta via e che poi non lo si fosse lasciato riposare mai più. Doveva essere mal di mare e provocò l’ilarità di Macario dicendoglielo.
«Con questo mare!»
Infatti il mare sferzato dal vento di terra non aveva onde. Vi erano larghe strisce increspate, altre incavate, liscie liscie precisamente perché battute dal vento che sembrava averci tolto via la superficie. Nella diga c’era un romoreggiare allegro come quello prodotto da innumerevoli lavandaie che avessero mosso i loro panni in acqua corrente.
Alfonso era tanto pallido che Macario se ne impietosì e ordinò a Ferdinando di accorciare le vele.
Si era in porto, ma per giungere al punto di partenza si dovette passarci dinanzi due volte. Si udivano i piccoli gridi dei gabbiani. Macario per distrarlo volle che Alfonso osservasse il volo di quegli uccelli, così calmo e regolare come la salita su una via costruita, e quelle cadute rapide come di oggetti di piombo. Si vedevano solitarii, ognuno volando per proprio conto, le grandi ali bianche tese, il corpicciuolo sproporzionatamente piccolo coperto da piume leggiere.
«Fatti proprio per pescare e per mangiare», filosofeggiò Macario. «Quanto poco cervello occorre per pigliare pesce! Il corpo è piccolo. Che cosa sarà la testa e che cosa sarà poi il cervello? Quantità da negligersi! Quello ch’è la sventura del pesce che finisce in bocca del gabbiano sono quelle ali, quegli occhi, e lo stomaco, l’appetito formidabile per soddisfare il quale non è nulla quella caduta così dall’alto. Ma il cervello! Che cosa ci ha da fare il cervello col pigliar pesci? E lei che studia, che passa ore intere a tavolino a nutrire un essere inutile! Chi non ha le ali necessarie quando nasce non gli crescono mai più. Chi non sa per natura piombare a tempo debito sulla preda non lo imparerà giammai e inutilmente starà a guardare come fanno gli altri, non li saprà imitare. Si muore precisamente nello stato in cui si nasce, le mani organi per afferrare o anche inabili a tenere».
Alfonso fu impressionato da questo discorso. Si sentiva molto misero nell’agitazione che lo aveva colto per cosa di sì piccola importanza.
«Ed io ho le ali?» chiese abbozzando un sorriso.
«Per fare dei voli poetici sì!» rispose Macario, e arrotondò la mano quantunque nella sua frase non ci fosse alcun sottinteso che abbisognasse di quel cenno per venir compreso.

Nella scena vediamo i due personaggi, amici dall’indole contrapposta, attraverso i quali possiamo individuare le due tipologie schopenhaueriane già citate:

  • Alfonso è il contemplatore, colui che guarda la vita dall’esterno, non riuscendo a partecipare ad essa. Non è solo la paura a frenarlo, quanto il rendersi conto di non saper “volare” (come gli dice Macario) e la paura che tale incapacità venga letta, capita, facendone un perdente, un inetto, appunto;
  • Macario è il lottatore, non pensa agisce. Si mostra sempre padrone delle azioni che compie e la voluptas vivendi non riesce a frenarlo: egli è il gabbiano dalla testa piccola ma dal corpo grande, che risponde, senza chiederselo ai bisogni della vita.

E’ evidente che in una struttura così le coordinate ti tipo naturalistico vengano infrante: permane la narrazione in terza persona, la descrizione degli ambienti, l’analisi sociale, ma a dominare è l’approfondimento psicologico del comportamento di Alfonso, che appare un inetto (oggi potremo dire un disadattato) più per scelta che determinato da circostanze esterne.

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Prima edizione di Senilità con dedica dell’autore

La sua figura permane nella narrativa sveviana e appare approfondita nel secondo romanzo, pubblicato nel 1898, Senilità, passato sotto il più completo silenzio e che farà sì che, almeno pubblicamente, il nostro abbandoni ogni velleità letteraria.

A trentacinque anni, autore di un romanzo ormai dimenticato, Emilio Brentani pare rassegnato a un’esistenza grigia, accanto alla sorella Amalia, non più giovane né bella, ma semplice e buona. Incontra Angiolina, una popolana che non si potrebbe dire “per bene”, ma che è vivace e intelligente. Intreccia con lei una relazione, ma non riesce a contenerla nei suoi limiti naturali; si sforza invece di attribuirle n contenuto che l’indole morale di Angiolina non sostiene. Coinvolge nella vicenda l’amico Balli, artista allegro e spensierato, col risultato che di lui s’innamorano sia l’amante sia la sorella: Angiolina gli si dà, Amalia cerca do stordirsi con l’etere e, intossicata, muore. Emilio si acquieterà nell’arida inerzia della senilità.

Il romanzo riprende e approfondisce tematiche già apparse in Una vita: anche qui vi è un autobiografismo di fondo: Emilio Brentani, oltre che essere un “fratello” dell’inettitudine di Alfonso Nitti, è anche l’alter-ego di Italo Svevo (si pensi che è un letterato con alle spalle un romanzo che gli aveva procurato una certa notorietà all’interno della cittadina triestina); l’incontro tra personalità differenti: il protagonista con il Balli (la cui figura appare modellata sul reale amico di Svevo, il pittore Umberto Veruda), l’uso ancora della terza persona.

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Umberto Veruda e Italo Svevo (1890 circa)

Tuttavia il secondo romanzo sveviano appare già a Montale un vero capolavoro: la complicazione del binomio tra “lottatori” e “contemplatori” si arricchisce con le figure di femminili di Amalia ed Angiolina. Il loro ingresso forma un perfetto quadrilatero in cui si specchiano i protagonisti:

Emilio                         Angiolina

Balli                            Amalia

Ma il quadrilatero potrebbe leggersi anche in modo chiasmatico non soltanto per la similarità delle “categorie sveviane”, ma perché, narrativamente, Emilio vuol far di Angiolina una donna ideale, buona e pura come sua sorella; Stefano la tratta per quel che è ed ottiene da lei quel corpo, senza rifletterci più di quanto fosse necessario. E’ che Emilio è “senile”, non per età, ma per propensione psichica: non agisce e come tutti coloro che, non agendo, guardano la vita, nel momento in cui essa s’impossessa di lui lo soggioga.

UNA RELAZIONE NON TROPPO SERIA

Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: «T’amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d’accordo di andare molto cauti.» La parola era tanto prudente ch’era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po’ più franca avrebbe dovuto suonare così: «Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia.»
La sua famiglia? Una sola sorella non ingombrante né fisicamente né moralmente, piccola e pallida, di qualche anno più giovane di lui, ma più vecchia per carattere o forse per destino. Dei due, era lui l’egoista, il giovane; ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa, ma ciò non impediva a lui di parlarne come di un altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così, sentendosi le spalle gravate di tanta responsabilità, egli traversava la vita cauto, lasciando da parte tutti i pericoli ma anche il godimento, la felicità. A trentacinque anni si ritrovava nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore, e già l’amarezza di non averne goduto, e nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza.
La carriera di Emilio Brentani era più complicata perché intanto si componeva di due occupazioni e due scopi ben distinti. Da un impieguccio di poca importanza presso una società di assicurazioni, egli traeva giusto il denaro di cui la famigliuola abbisognava. L’altra carriera era letteraria e, all’infuori di una riputazioncella, – soddisfazione di vanità più che d’ambizione – non gli rendeva nulla, ma lo affaticava ancor meno. Da molti anni, dopo di aver pubblicato un romanzo lodatissimo dalla stampa cittadina, egli non aveva fatto nulla, per inerzia non per sfiducia. Il romanzo, stampato su carta cattiva, era ingiallito nei magazzini del libraio, ma mentre alla sua pubblicazione Emilio era stato detto soltanto una grande speranza per l’avvenire, ora veniva considerato come una specie di rispettabilità letteraria che contava nel piccolo bilancio artistico della città. La prima sentenza non era stata riformata, s’era evoluta.
Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della nullità della propria opera, egli non si gloriava del passato, però, come nella vita così anche nell’arte, egli credeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione, riguardandosi nel suo più segreto interno come una potente macchina geniale in costruzione, non ancora in attività. Viveva sempre in un’aspettativa non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal cervello, l’arte, di qualche cosa che doveva venirgli di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse tramontata.
Angiolina, una bionda dagli occhi azzurri grandi, alta e forte, ma snella e flessuosa, il volto illuminato dalla vita, un color giallo di ambra soffuso di rosa da una bella salute, camminava accanto a lui, la testa china da un lato come piegata dal peso del tanto oro che la fasciava, guardando il suolo ch’ella ad ogni passo toccava con l’elegante ombrellino come se avesse voluto farne scaturire un commento alle parole che udiva. Quando credette di aver compreso disse: «Strano» timidamente guardandolo sottecchi. «Nessuno mi ha mai parlato così.» Non aveva compreso e si sentiva lusingata al vederlo assumere un ufficio che a lui non spettava, di allontanare da lei il pericolo. L’affetto ch’egli le offriva ne ebbe l’aspetto di fraternamente dolce.
Fatte quelle premesse, l’altro si sentì tranquillo e ripigliò un tono più adatto alla circostanza. Fece piovere sulla bionda testa le dichiarazioni liriche che nei lunghi anni il suo desiderio aveva maturate e affinate, ma, facendole, egli stesso le sentiva rinnovellare e ringiovanire come se fossero nate in quell’istante, al calore dell’occhio azzurro di Angiolina. Ebbe il sentimento che da tanti anni non aveva provato, di comporre, di trarre dal proprio intimo idee e parole: un sollievo che dava a quel momento della sua vita non lieta, un aspetto strano, indimenticabile, di pausa, di pace. La donna vi entrava! Raggiante di gioventù e bellezza ella doveva illuminarla tutta facendogli dimenticare il triste passato di desiderio e di solitudine e promettendogli la gioia per l’avvenire ch’ella, certo, non avrebbe compromesso.
Egli s’era avvicinato a lei con l’idea di trovare un’avventura facile e breve, di quelle che egli aveva sentito descrivere tanto spesso e che a lui non erano toccate mai o mai degne di essere ricordate. Questa s’era annunziata proprio facile e breve. L’ombrellino era caduto in tempo per fornirgli un pretesto di avvicinarsi ed anzi – sembrava malizia! – impigliatosi nella vita trinata della fanciulla, non se n’era voluto staccare che dopo spinte visibilissime. Ma poi, dinanzi a quel profilo sorprendentemente puro, a quella bella salute – ai rétori corruzione e salute sembrano inconciliabili – aveva allentato il suo slancio, timoroso di sbagliare e infine s’incantò ad ammirare una faccia misteriosa dalle linee precise e dolci, già soddisfatto, già felice.
Ella gli aveva raccontato poco di sé e per quella volta, tutto compreso del proprio sentimento, egli non udì neppure quel poco. Doveva essere povera, molto povera, ma per il momento – lo aveva dichiarato con una certa quale superbia – non aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò rendeva l’avventura anche più gradevole, perché la vicinanza della fame turba là dove ci si vuol divertire. Le indagini di Emilio non furono dunque molto profonde ma egli credette che le sue conclusioni logiche, anche poggiate su tali basi, dovessero bastare a rassicurarlo. Se la fanciulla, come si sarebbe dovuto credere dal suo occhio limpido, era onesta, certo non sarebbe stato lui che si sarebbe esposto al pericolo di depravarla; se invece il profilo e l’occhio mentivano, tanto meglio. C’era da divertirsi in ambedue i casi, da pericolare in nessuno dei due.
Angiolina aveva capito poco delle premesse, ma, visibilmente, non le occorrevano commenti per comprendere il resto; anche le parole più difficili avevano un suono di carattere non ambiguo. I colori della vita risaltarono sulla bella faccia e la mano di forma pura, quantunque grande, non si sottrasse a un bacio castissimo d’Emilio.
Si fermarono a lungo sul terrazzo di S. Andrea e guardarono verso il mare calmo e colorito nella notte stellata, chiara ma senza luna. Nel viale di sotto passò un carro e, nel grande silenzio che li circondava, il rumore delle ruote sul terreno ineguale continuò a giungere fino a loro per lunghissimo tempo. Si divertirono a seguirlo sempre più tenue finché proprio si fuse nel silenzio universale, e furono lieti che per tutt’e due fosse scomparso nello stesso istante. «Le nostre orecchie vanno molto d’accordo,» disse Emilio sorridendo. Egli aveva detto tutto e non sentiva più alcun bisogno di parlare. Interruppe un lungo silenzio per dire: «Chissà se quest’incontro ci porterà fortuna!» Era sincero. Aveva sentito il bisogno di dubitare della propria felicità ad alta voce.
«Chissà?» replicò essa con un tentativo di rendere nella propria voce la commozione che aveva sentita nella sua. Emilio sorrise di nuovo ma di un sorriso che credette di dover celare. Date le premesse da lui fatte, che razza di fortuna poteva risultare ad Angiolina dall’averlo conosciuto?

Il romanzo inizia subito in medias res presentandoci tre focalizzazioni:

  • narratore esterno, che interviene “ironizzando” sia su Emilio che Angiolina;
  • Emilio, che dice bugie a se stesso, ma al contempo “capisce” i suoi limiti: potremo definirlo sull’orlo di un crinale in cui ciò che desidera cerca di pianificarlo, ma proprio la pianificazione ed il raziocinio con cui tenta di dirigere se stesso, lo conduce ad una inevitabile sconfitta (e qui interviene l’ironia del narratore)
  • Angiolina è semplice, ma più direttamente è ignorante; non capisce quello che lui dice e lo interpreta a modo suo. Il problema che il suo modo, proprio perché non pianifica nulla, ma vive, risulta certamente a proprio vantaggio.

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Terrazzo sul mare a Trieste (1910)

Emilio ci dice da subito che vuole un’avventura con una ragazza facile, a tale scopo premette a lei impegni che gli impediscono una relazione “impegnativa”: le dice che ha una famiglia da mantenere ed un lavoro. Già con il parlare della famiglia egli dice una bugia, ma più che dirla ad Angiolina sembra dirla a se stesso: Amalia, pur fragile, cui egli sente un dovere paterno, è nella realtà colei che gli fa da madre, che lo accudisce nel vero senso della parola, accettando le sue confidenze. L’altra bugia è nell’aspirazione letteraria: è consapevole dell’insuccesso toccatogli, ma vive sempre come nell’attesa che un guizzo d’ispirazione lo porti alla grande opera: ma, dentro di lui sa che ciò non avverrà mai. Non dimentichiamoci, per ultimo, che ciò che Emilio tenta è d’imitare i “sani”, non di “vivere come i sani”: c’è già nel suo atteggiamento un fondo di “malattia” che lo contraddistinguerà per l’intera vicenda. Il prossimo brano ci racconta quel che succede, nell’animo di Emilio, dopo aver lasciato per la prima volta Angiolina, anche su consiglio del Balli, per un palese tradimento:

DESIDERIO E SOGNO

Tanto il suo dolore quanto il suo rimorso divennero miti, miti. Gli elementi di cui si componeva la sua vita erano gli stessi, ma s’erano attenuati quasi visti attraverso una lente fosca che li privasse di luce e di violenza. Una grande calma e una grande noia incombevano su lui. Aveva percepito con piena chiarezza quanto strana fosse stata in lui l’esagerazione sentimentale, e al Balli che lo studiava con qualche ansietà, disse, credendo d’essere sincero: «Sono guarito.»
Poteva crederlo perché non si poteva pretendere ch’egli ricordasse esattamente lo stato d’animo in cui s’era trovato prima di aver conosciuta Angiolina. La differenza era tanto piccola! Aveva sbadigliato meno, e non aveva conosciuto l’impaccio doloroso che lo coglieva quando si trovava accanto ad Amalia.
Anche la stagione era molto fosca. Da settimane non s’era visto raggio di sole, e perciò, quando egli pensava ad Angiolina, associava nel suo pensiero la dolce faccia, il caldo color dei capelli biondi, all’azzurro del cielo, alla luce del sole, tutte cose ch’erano scomparse insieme dalla sua vita. Egli era però giunto alla convinzione che l’abbandono di Angiolina fosse stato molto salutare per lui. «È preferibile d’essere liberi» diceva con convinzione.
Tentò anche di approfittare della riconquistata libertà. Sentiva e si doleva d’essere inerte, e ricordava che, anni prima, l’arte gli aveva colorita la vita sottraendolo all’inerzia in cui era caduto dopo la morte del padre. Aveva scritto il suo romanzo, la storia di un giovane artista il quale da una donna veniva rovinato nell’intelligenza e nella salute. Nel giovane aveva rappresentato se stesso, la propria ingenuità e la propria dolcezza. Aveva immaginato la sua eroina secondo la moda di allora: un misto di donna e di tigre. Del felino aveva le movenze, gli occhi, il carattere sanguinario. Non aveva mai conosciuta una donna e l’aveva sognata così, un animale ch’era veramente difficile fosse mai potuto nascere e prosperare. Ma con quale convinzione l’aveva descritta! Aveva sofferto e goduto con essa sentendo a volte vivere anche in sé quell’ibrido miscuglio di tigre e di donna.
Riprese ora la penna e scrisse in una sola sera il primo capitolo di un romanzo. Trovava un nuovo indirizzo d’arte al quale volle conformarsi, e scrisse la verità. Raccontò il suo incontro con Angiolina, descrisse i propri sentimenti, – subito però quelli degli ultimi giorni – violenti e irosi, l’aspetto di Angiolina ch’egli vide al primo incontro guastato dall’animo basso e perverso, e infine il magnifico paesaggio che aveva contornato agli esordii il loro idillio. Stanco e annoiato, abbandonò il lavoro, contento di aver steso in una sola sera tutto un capitolo.
La sera appresso si rimise al lavoro avendo nella mente due o tre idee che dovevano bastare per una sequela di pagine. Prima però rilesse il lavoro fatto: «Incredibile!» mormorò. L’uomo non somigliava affatto a lui, la donna poi conservava qualche cosa della donna-tigre del primo romanzo, ma non ne aveva la vita, il sangue. Pensò che quella verità che aveva voluto raccontare era meno credibile dei sogni che anni prima aveva saputi gabellare per veri. In quell’istante si sentì sconsolatamente inerte, e ne provò un’angoscia dolorosa. Depose la penna, richiuse tutto in un cassetto, e si disse che l’avrebbe ripreso più tardi, forse già il giorno appresso. Questo proposito bastò a tranquillarlo; ma non ritornò più al lavoro. Voleva risparmiarsi ogni dolore e non si sentiva forte abbastanza per studiare la propria inettitudine e vincerla. Non sapeva più pensare con la penna in mano. Quando voleva scrivere, si sentiva arrugginire il cervello, e rimaneva estatico dinanzi alla carta bianca, mentre l’inchiostro s’asciugava sulla penna.

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Trieste ai tempi di Svevo

Gli venne il desiderio di rivedere Angiolina. Non prese la decisione di andarla a cercare; s’era detto soltanto che ora veramente non ci sarebbe stato alcun pericolo a rivederla. Anzi, se si fosse voluto attenere esattamente alle parole che aveva dette lasciandola, sarebbe dovuto andare subito da lei. Non era forse calmo abbastanza per stringerle la mano da amico? Comunicò questo suo proposito al Balli, e in questa forma: «Vorrei soltanto vedere se, riavvicinandola, saprei contenermi da persona più accorta.»
Il Balli aveva riso troppo spesso dell’amore di Emilio per non credere ora nella sua perfetta guarigione. Per di più, da qualche giorno, egli stesso aveva il più vivo desiderio di rivedere Angiolina. Aveva immaginato una figura su quei tratti e con quei vestiti. Lo raccontò ad Emilio il quale gli promise che con le prime parole che avrebbe rivolte alla fanciulla, l’avrebbe pregata di posare per il Balli. Non v’era da dubitare della sua guarigione. Ormai egli non era neppur geloso del Balli.
Parve poi che il Balli pensasse ad Angiolina non meno di Emilio stesso. Aveva dovuto distruggere un bozzetto su cui aveva spesi sei mesi di lavoro. Anch’egli era in un periodo d’esaurimento e non ritrovava in sé altra idea che quella nata la prima sera in cui Emilio gli aveva fatto conoscere Angiolina. Una sera, lasciando Emilio, gli chiese: «Tu non ti sei ancora riavvicinato?» Non voleva essere lui a riunirli, ma voleva sapere se Emilio non si fosse rappattumato con Angiolina a sua insaputa. Sarebbe stato un tradimento!
La calma d’Emilio era aumentata ancora. Tutti gli permettevano di fare quello ch’egli voleva ed egli in fondo non voleva niente. Proprio niente. Avrebbe cercato di rivedere Angiolina perché voleva provarsi a parlare e pensare con calore. Doveva venirgli dal di fuori il calore ch’egli non aveva trovato in sé, e sperava di vivere il romanzo che non sapeva scrivere.
La sola inerzia gl’impedì d’andare a cercare la fanciulla. Gli sarebbe piaciuto che altri si fosse incaricato di riunirli, e pensò perfino che avrebbe potuto invitare il Balli a farlo. Tutto infatti sarebbe stato più facile e più semplice se il Balli si fosse procurato da solo la modella, e gliel’avesse poi consegnata quale amante. Ci avrebbe pensato. Esitava soltanto perché non voleva concedere al Balli una parte importante nel proprio destino.
Importante? Oh, Angiolina rimaneva sempre una persona molto importante per lui. In proporzione al resto se non altro. Tutto era tanto insignificante, ch’ella tutto dominava. Ci pensava continuamente come un vecchio alla propria giovinezza. Come era stato giovane quella notte in cui avrebbe dovuto uccidere per tranquillarsi! Se avesse scritto invece di arrovellarsi prima sulla via e poi altrettanto affannosamente nel letto solitario, avrebbe certo trovata la via all’arte che più tardi aveva cercata invano. Ma tutto era passato per sempre. Angiolina viveva, ma non poteva più dargli la giovinezza.
Una sera, accanto al Giardino Pubblico, la vide camminare dinanzi a sé. La riconobbe al noto passo. Ella teneva sollevate le gonne per preservarle dalla fanghiglia, e, alla luce di un gramo fanale, egli vide rilucere le scarpe nere di Angiolina. Ne fu subito turbato. Ricordò che al culmine della sua angoscia amorosa, egli aveva pensato che il possesso di quella donna gli avrebbe data la guarigione. Ora invece pensò: «Mi animerebbe!»
«Buona sera, signorina» disse con quanta calma poté trovare nell’affanno del desiderio che lo colse dinanzi a quella faccia da bambino roseo, con gli occhi grandi dai contorni precisi, che parevano tagliati allora allora. Ella si fermò, afferrò la mano che le era stata offerta e rispose lieta e serena al saluto: «Come sta? È tanto che non ci vediamo.»
Egli rispose, ma era distratto dal proprio desiderio. Aveva forse fatto male a dimostrare tanta serenità, e, peggio, a non aver pensato al contegno da seguire per arrivare subito dove voleva, alla verità, al possesso. Le camminò accanto tenendola per mano, ma, dopo scambiate quelle prime frasi da persone che sono liete di ritrovarsi, egli tacque esitante. Il tono elegiaco usato altre volte con piena sincerità, sarebbe stato fuori di posto, ma anche un’indifferenza troppo grande non l’avrebbe portato allo scopo.
«Mi ha perdonato, signor Emilio?» disse lei fermandosi e gli porse da stringere anche l’altra mano. L’intenzione era stata ottima e il gesto sorprendentemente originale per Angiolina.
Egli trovò: «Sa che cosa io non le perdonerò mai? Di non aver fatto alcun tentativo per riavvicinarsi a me. Tanto poco le importava di me?» Era sincero e s’accorse ch’egli cercava inutilmente di far la commedia. Forse la sincerità gli sarebbe servita meglio di qualunque finzione.
Ella si confuse un poco e, balbettando, assicurò che se egli non si fosse avvicinato, l’indomani ella gli avrebbe scritto. «Già, in fondo che cosa ho fatto?» e non ricordava d’aver chiesto scusa poco prima.
Emilio credette opportuno mostrarsi dubbioso. «Debbo crederle?» Disse poi un rimprovero: «Con un ombrellaio!»
La parola li fece ridere di gusto entrambi. «Geloso!» esclamò lei stringendo la mano che continuava a tenere «geloso di quel sudicio uomo!». Infatti se egli aveva fatto bene a rompere la relazione con Angiolina, certo aveva avuto torto di cogliere a pretesto quella stupida storia con l’ombrellaio. L’ombrellaio non era il più temibile dei suoi rivali. E perciò ebbe lo strano sentimento che doveva imputare a se stesso tutti i mali che lo avevano colpito dacché aveva abbandonata Angiolina.
Ella tacque lungamente. Non poteva essere di proposito, perché per Angiolina sarebbe stata un’arte troppo fine. Ella taceva probabilmente perché non trovava altre parole per scolparsi, e camminarono in silenzio uno accanto all’altra nella notte strana e fosca, il cielo tutto coperto di nubi sbiancate in un solo punto dalla luce lunare.
Arrivarono dinanzi alla casa d’Angiolina ed ella si fermò, forse per prendere congedo. Ma egli la costrinse a procedere: «Camminiamo ancora, ancora, così muti!» Allora, naturalmente, ella lo compiacque e continuò a camminare tacendo a lui da canto. Ed egli l’amò di nuovo, da quell’istante, o da quell’istante ne fu consapevole. Gli camminava accanto la donna nobilitata dal suo sogno ininterrotto, da quell’ultimo grido d’angoscia ch’egli le aveva strappato lasciandola, e che per lungo tempo l’aveva personificata tutta; persino dall’arte, perché ormai il desiderio fece sentire ad Emilio d’aver accanto la dea capace di qualunque nobiltà di suono o di parola. Oltrepassata la casa d’Angiolina, essi si trovarono sulla via deserta e oscura chiusa dalla collina da una parte, dall’altra da un muricciuolo che la separava dai campi. Ella vi sedette ed egli s’appoggiò a lei cercando la posizione che aveva preferita in passato, durante i primi tempi del loro amore. Gli mancava il mare. Nel paesaggio umido e grigio imperò la biondezza d’Angiolina, l’unica nota calda, luminosa.
Era tanto tempo ch’egli non sentiva quelle labbra sulle sue che n’ebbe una commozione violenta. «Oh, cara e dolce!» mormorò baciandole gli occhi, il collo e poi la mano e le vesti. Ella lo lasciò fare dolcemente, e tanta dolcezza era talmente inaspettata ch’egli si commosse e pianse prima con sole lagrime, poi con singhiozzi. Gli pareva che non fosse dipeso che da lui di continuare per tutta la vita quella felicità. Tutto si scioglieva, tutto si spiegava. La sua vita non poteva più consistere che di quel solo desiderio.
«Tanto bene mi vuoi?» mormorò essa commossa e meravigliata. Anche lei aveva delle lagrime agli occhi. Gli raccontò che l’aveva visto sulla via, pallido e smunto, sul volto i segni evidenti della sua sofferenza, e le si era stretto il cuore dalla compassione. «Perché non sei venuto prima?» gli chiese rimproverandolo.
S’appoggiò a lui per discendere dal muricciuolo. Egli non capiva perché ella troncasse quella dolce spiegazione ch’egli avrebbe voluto continuare in eterno. «Andiamo a casa mia» disse ella, risoluta. Egli ebbe le vertigini e l’abbracciò e baciò non sapendo come dimostrarle la propria riconoscenza. Ma la casa d’Angiolina era lontana e, camminando, Emilio si ritrovò intero con i suoi dubbi e la sua diffidenza. Se quell’istante l’avesse legato per sempre a quella donna? Fece le scale lentamente e tutt’ad un tratto le domandò: «E Volpini?»
Ella esitò e si fermò: «Volpini?» Poi, risoluta, superò i pochi scalini che la dividevano da Emilio. Si appoggiò a lui, nascose la faccia sulla sua spalla con un’affettazione di pudore che gli ricordò l’antica Angiolina e la sua serietà da melodramma, e gli disse: «Nessuno lo sa, neppure mia madre.» Un po’ alla volta ricompariva tutto il vecchio bagaglio, anche la dolce madre. Ella s’era data al Volpini; costui l’aveva voluto, l’aveva anzi posto a condizione per continuare i loro rapporti. «Sentiva che non era amato» bisbigliava Angiolina «e volle una prova d’amore.» Essa non aveva ottenuto in compenso altra garanzia all’infuori di una promessa di matrimonio. Fece, con la solita sconsideratezza, il nome di un giovane avvocato il quale le aveva dato il consiglio d’accontentarsi di quella promessa perché la legge puniva la seduzione in quelle forme.
Così allacciati, quelle scale non terminavano più. Ogni scalino rendeva Angiolina più simile alla donna ch’egli aveva fuggita. Perché ora ciarlava, incominciando già ad abbandonarsi. Ora poteva essere finalmente sua perché – questo era detto e ridetto – era per lui ch’ella s’era data al sarto. A quella responsabilità non si sfuggiva più neppure rinunziando a lei. Ella aperse la porta e, per il corridoio oscuro, lo diresse alla propria stanza. Da un’altra s’udì la voce nasale della madre: «Angiolina! sei tu?»
«Sì« rispose Angiolina trattenendo una risata. «Mi corico subito. Addio, mamma.»
Accese una candela e si levò il mantello e il cappello. Poi gli si abbandonò o, meglio, lo prese.
Emilio poté esperimentare quanto importante sia il possesso di una donna lungamente desiderata. In quella memorabile sera egli poteva credere d’essersi mutato ben due volte nell’intima sua natura. Era sparita la sconsolata inerzia che l’aveva spinto a ricercare Angiolina, ma erasi anche annullato l’entusiasmo che lo aveva fatto singhiozzare di felicità e di tristezza. Il maschio era oramai soddisfatto ma, all’infuori di quella soddisfazione, egli veramente non ne aveva sentita altra. Aveva posseduto la donna che odiava, non quella ch’egli amava. Oh, ingannatrice! Non era né la prima, né – come voleva dargli ad intendere – la seconda volta ch’ella passava per un letto d’amore. Non valeva la pena di adirarsene perché l’aveva saputo da lungo tempo. Ma il possesso gli aveva data una grande libertà di giudizio sulla donna che gli si era sottomessa. “Non sognerò mai più” pensò uscendo da quella casa. E poco dopo, guardandola, illuminata da pallidi riflessi lunari: “Forse non ci ritornerò mai più.” Non era una decisione. Perché l’avrebbe dovuta prendere? Il tutto mancava d’importanza.

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Anthony Franciosa e Claudia Cardinale interpretano Emilio e Angiolina nel film “Senilità” di Mauro Bolognini del 1962

Emilio, all’inizio del brano, si sente guarito dall’amore, anzi il voler rivedere Angiolina vuol dire che ormai l’innamoramento è cessato e il fatto non dovrebbe arrecarle nessun dolore. Eppure la sua decisione egli la deve prendere solo perché gli altri glielo permettono (Tutti gli permettevano di fare quello ch’egli voleva ed egli in fondo non voleva niente. Proprio niente.). Allo stesso modo egli, che decide di rivedere la ragazza, non la cerca (La sola inerzia gl’impedì d’andare a cercare la fanciulla), ma solo il caso gli permette di rincontrarla. L’incostanza di Emilio si rivela sin da subito (Ne fu subito turbato): si è riempito la testa di bugie e ciò lo dimostra “riamandola”, in un solo attimo: La sua inerzia viene riempita dai suoi occhi azzurri, dai capelli biondi, ma soprattutto dal suo agire. Emilio non porta Angiolina a letto: (Poi gli si abbandonò o, meglio, lo prese.) e l’azione che da donna trasforma la ragazza in femmina, gli fa cambiare un’altra volta la concezione che Emilio ha di lei; la vede forse nella più cruda realtà e l’ideale che si era fatto cade miseramente tra le sfatte lenzuola. Ancora una volta il protagonista (vecchio nell’anima, senile, dunque) non riesce a cogliere la vita: la sente, l’analizza; ma la grandezza di Svevo è proprio in questa lotta che l’uomo contemplatore fa contro questa vita, la voglia d’essere di essere lottatore e l’incapacità di riuscirci.

Careless-film-images-ea901205-91a9-4f7d-898e-2765b5a9841.jpgLocandina del film del 1962

Siamo arrivati, nell’economia del romanzo, alla malattia d’Amalia (potremo dire alla morte cercata attraverso l’etere, per dimenticare la sua inettitudine al vivere). Vicino a lei la signora Elena e Stefano Balli, che si dimostra veramente legato nel vincolo d’amicizia ad Emilio. Quest’ultimo ha un ultimo appuntamento con Angiolina e, nonostante il tragico momento, decide di andare per mettere fine alla storia, cercando di essere calmo e rassegnato:

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Emilio ed Amalia

L’ADDIO DEFINITIVO

L’aria rigida della sera lo scosse, lo refrigerò fino in fondo all’anima. Lui usare delle violenze ad Angiolina! Perché era lei la causa della morte d’Amalia? Ma quella colpa non poteva esserle rimproverata. Oh, il male avveniva, non veniva commesso. Un essere intelligente non poteva essere violento perché non v’era posto a odii. Per l’antica abitudine di ripiegarsi su se stesso e analizzarsi, gli venne il sospetto che forse il suo stato d’animo era risultato dal bisogno di scusarsi e di assolversi. Ne sorrise come di cosa comicissima. Come erano stati colpevoli lui e Amalia di prendere la vita tanto sul serio!
Alla riva, dopo di aver guardato l’orologio, si fermò. Qui il tempo appariva peggiore che non in città. Al sibilare del vento si univa imponente il clamore del mare, un urlo enorme composto dall’unione di varie voci più piccole. La notte era fonda; del mare non si vedeva che qua e là biancheggiare qualche onda che il caos aveva voluto infranta prima di giungere a terra. Sui battelli, alla riva, si era sull’attenti e si vedeva qualche figura di marinaio, in alto, su quegli alberi che facevano la solita varia danza nelle quattro direzioni, lavorare nella notte e nel pericolo.
Ad Emilio parve che quel tramestìo si confacesse al suo dolore. Vi attingeva ancora maggiore calma. L’abito letterario gli fece pensare il paragone fra quello spettacolo e quello della propria vita. Anche là, nel turbine, nelle onde di cui una trasmetteva all’altra il movimento che aveva tratto lei stessa dall’inerzia, un tentativo di sollevarsi che finiva in uno spostamento orizzontale, egli vedeva l’impassibilità del destino. Non v’era colpa, per quanto ci fosse tanto danno.
Accanto a lui un grosso marinaio piantato solidamente sulle gambe coperte di stivaloni, urlò verso il mare un nome. Poco dopo gli rispose un altro grido; egli allora si gettò su una colonna vicina, ne slegò una gomena che v’era attortigliata, l’allentò e la saldò di nuovo. Lentamente, quasi impercettibilmente, uno dei maggiori bragozzi si allontanò dalla riva ed Emilio comprese ch’era stato attaccato ad una boa vicina per salvarlo dalla terra. Il grosso marinaio prese ora tutt’altra attitudine; s’era appoggiato alla colonna, aveva accesa la pipa e in quel diavoleto si godeva il suo riposo.
Emilio pensò che la sua sventura era formata dall’inerzia del proprio destino. Se, una volta sola nella sua vita, egli avesse avuto da slegare e riannodare in tempo una corda; se il destino di un bragozzo, per quanto piccolo, fosse stato affidato a lui, alla sua attenzione, alla sua energia; se gli fosse stato imposto di forzare con la propria voce i clamori del vento e del mare, egli sarebbe stato meno debole e meno infelice.
Andò all’appuntamento. Il dolore sarebbe ritornato subito dopo; per il momento egli amava ad onta di Amalia. Non c’era dolore in quell’ora in cui egli poteva fare proprio quello che la sua natura esigeva. Assaporava con voluttà quel sentimento calmo di rassegnazione e di perdono. Non pensò nessuna frase per comunicare il suo stato d’animo ad Angiolina; anzi il loro ultimo abboccamento doveva esserle assolutamente inesplicabile, ma egli avrebbe agito come se qualche essere più intelligente fosse stato presente a giudicare lui e lei.
Il tempo s’era risolto in un vento freddo e violento, ma continuo, uguale; nell’aria non c’era più alcuna lotta.
Angiolina gli venne incontro dal viale di Sant’Andrea. Vedendolo esclamò con grande stizza – una stonatura dolorosa nello stato d’animo di Emilio: «Son qui da mezz’ora. Ero in procinto di andarmene.»
Egli, dolcemente, la trasse accanto ad un fanale e le fece vedere l’oriuolo che segnava precisamente l’ora stabilita per l’appuntamento. «Allora mi sono ingannata» disse ella, non molto più dolcemente. Mentre egli andava studiando il modo con cui dirle che quello sarebbe stato l’ultimo loro incontro, ella si fermò e gli disse: «Per questa sera dovresti lasciarmi andare. Ci vedremo domani; fa freddo e poi…»
Egli fu strappato all’indagine che sempre continuava su se stesso e la guardò, la osservò; comprese subito che non era il freddo che le faceva desiderare d’andarsene. Lo colpì inoltre di trovarla vestita con maggior accuratezza del solito. Un vestito bruno che non le aveva mai visto, elegantissimo, sembrava tirato fuori per qualche grande occasione; anche il cappello gli sembrò nuovo, e osservò persino delle scarpettine poco adatte per camminare a Sant’Andrea con quel tempo. «E poi?» ripeté egli fermandosele accanto e guardandola negli occhi.
«Senti, voglio dirti tutto» disse lei assumendo un aspetto di confidenza risoluta, assolutamente fuori di posto e continuò imperterrita, senz’accorgersi che lo sguardo di Emilio si faceva sempre più torvo: «Ho ricevuto un dispaccio dal Volpini con cui m’annunzia il suo arrivo. Non so che cosa egli voglia da me; ma a quest’ora, certo, si trova già a casa mia.»
Ella mentiva, non v’era alcun dubbio. Il Volpini cui, nella mattina, egli aveva scritto quella lettera, eccolo che, prima di riceverla, arrivava, contrito, a chiedere scusa. Sconvolto, rise triste: «Come? Colui che ieri ti scrisse quella lettera, oggi capita a ritirarla in persona ed anzi ti avvisa la sua venuta telegraficamente. Grandi affari! Grandi affari! Da dover ricorrere al telegrafo! E se tu ti ingannassi e in luogo del Volpini fosse un altro?»
Ella sorrise ancora sicura di sé: «Ah, a te è stato raccontato dal Sorniani, che due sere fa mi ha visto a ora tarda sulla via, accompagnata da un signore? Avevo lasciata la casa dei Deluigi in quel momento, e avendo paura di camminar sola di notte, quella compagnia mi riuscì comoda.» Egli non l’udiva, ma l’ultima frase di quella ch’ella credeva fosse una giustificazione, la udì e, per la sua stranezza, la ritenne: «Quello era un Deo gratias qualunque.» Poi continuò: «Peccato che ho dimenticato a casa il dispaccio. Ma se non mi vuoi credere, tanto peggio. Non vengo forse sempre puntuale a tutti gli appuntamenti? Perché oggi avrei da inventare delle frottole per mancarvi?»
«È facile capirlo!» disse Emilio ridendo rabbiosamente. «Oggi tu hai un altro appuntamento. Vattene presto! C’è qualcuno che t’attende.» –
«Ebbene, se credi di me questa cosa, è meglio ch’io me ne vada!» Parlava risoluta, ma non si mosse.
Le parole fecero a lui lo stesso effetto come se fossero state accompagnate dall’atto immediato. Ella voleva lasciarlo! «Aspetta prima un istante, che ci spieghiamo!» Anche nell’ira enorme che lo pervadeva tutto, egli pensò un momento se non fosse tuttavia possibile di ritornare allo stato di calma rassegnata in cui s’era trovato poco prima. Ma non sarebbe stato giusto di atterrarla e calpestarla? L’afferrò per le braccia per impedirle di andare, s’appoggiò al fanale che aveva dietro di sé e avvicinò la propria faccia sconvolta a quella di lei rosea e tranquilla. «È l’ultima volta che ci vediamo!» urlò.
«Sta bene, sta bene» disse ella occupata soltanto a liberarsi di quella stretta che le faceva male.
«E sai perché? Perché tu sei una…» Esitò un istante, poi urlò quella parola che persino alla sua ira era sembrata eccessiva, la urlò vittorioso, vittorioso del suo stesso dubbio.
«Lasciami» gridò ella sconvolta dalla rabbia e dalla paura «lasciami o chiamo aiuto.»
«Tu sei una…» replicò egli che finalmente, vedendola irritata, poteva rinunziare a percuoterla. «Ma credi dunque che io da lungo tempo non mi sia accorto con chi abbia avuto da fare? Quando ti trovavo vestita da serva, sulle scale di casa tua – rammentò quella sera in tutti i particolari – con quello scialle grezzamente colorito sulla testa, le braccia calde di alcova, pensai subito la parola che ora t’ho detta. Non volli dirtela e giuocherellai con te come facevano tutti gli altri, Leardi, Giustini, Sorniani e… e… il Balli.
«Il Balli!» rise ella urlando per farsi udire attraverso al rumore del vento e della voce d’Emilio. «Il Balli si vanta; non è vero niente.»
«Perché lui non volle, quello sciocco, per riguardo a me come se a me potesse importare che t’abbia posseduta un uomo di meno, te…» e per la terza volta le disse quella parola. Ella raddoppiò gli sforzi per svincolarsi, ma lo sforzo di trattenerla era ora per Emilio lo sfogo migliore; le cacciava con voluttà le dita nelle braccia morbide. Egli sapeva che il momento in cui l’avrebbe lasciata libera, ella se ne sarebbe andata e tutto sarebbe stato finito, tutto e in modo tanto differente da quello ch’egli aveva sognato.
«Ed io ti ho voluto bene» disse, forse tentando di mitigarsi, ma aggiunse subito: «Sempre però sapevo quello che tu sei. Sai quello che sei?» Oh, aveva trovata infine una soddisfazione bisognava obbligarla a confessare quello ch’ella era: «Di’ su. Che cosa sei?»
Ella ora, apparentemente estenuata, aveva paura; la faccia sbiancata, lo fissava con uno sguardo che chiedeva compassione. Si lasciava scuotere senza resistenza e a lui parve ch’ella stesse per cadere. Allentò la stretta e la sostenne. Tutt’ad un tratto ella si svincolò e si mise a correre disperatamente. Ella dunque aveva mentito ancora! Egli non avrebbe saputo raggiungerla; si chino, cercò un sasso, e non trovandone raccolse delle pietruzze che le scagliò dietro. Il vento le portò e qualcuna dovette colpirla perché ella gettò un grido di spavento; altre furono arrestate dai rami secchi degli alberi e produssero un rumore sproporzionatissimo all’ira che le aveva lanciate.
Che fare ora? L’ultima soddisfazione cui aveva anelato, gli era stata negata. Ad onta di tanta sua rassegnazione tutto intorno a lui rimaneva rude, senza dolcezza; egli stesso era brutale! Le arterie gli battevano dalla sovraeccitazione; in quel freddo egli ardeva d’ira, di febbre, immobile sulle gambe paralitiche e già era rinato in lui l’osservatore calmo che lo rimproverava.
«Non la rivedrò mai più» disse come per rispondere ad un rimprovero. «Mai! Mai!» E quando poté camminare, questa parola gli risuonò nel rumore dei propri passi e nel sibilo del vento sul paesaggio sconsolato. Sorrise da solo ripassando per i luoghi per cui era venuto e ricordando le idee che lo avevano accompagnato a quell’appuntamento. Come rimaneva sorprendente la realtà!
Non andò subito a casa. Gli sarebbe stato impossibile d’atteggiarsi ad infermiere in quello stato d’animo. Il sogno lo possedeva intero, tanto che non avrebbe saputo dire per quali vie fosse poi rincasato. Oh! Se l’abboccamento con Angiolina fosse stato quale egli l’aveva voluto, avrebbe potuto andare diritto al letto d’Amalia senz’alterare neppure l’espressione della propria faccia.
Scoperse una nuova analogia fra la sua relazione con Angiolina e quella con Amalia. Da entrambe egli si distaccava senza poter dire l’ultima parola che avrebbe addolcito almeno il ricordo delle due donne. Amalia non poteva udirla; ad Angiolina egli non aveva saputo dirla.

Senilità lobbycard.pngAltra locandina del film del 1962

Il passo inizia mettendo in risalto il senso di colpa: se la relazione con Angiolina non può essere confrontata con la malattia d’Amalia, lo stesso si può dire riguardo la fine del loro rapporto: il male non si decide, avviene. Egli non vuole assumersi nessuna responsabilità, ma tale decisione è determinata dal volersi a sua volta scusare della situazione in cui ha lasciato Amalia. Insomma in lui prevale un senso di rimozione, attraverso cui non basta autoassolversi mentendo sulle reali condizioni. Infatti anche l’autoinganno di dire a se stesso che egli non ha colpa, perché malato, secondo la definizione di Schopenhauer, non può essere valida, in quanto non vi è un rapporto di causa ed effetto tra i due elementi. La descrizione del marinaio è sintomatica: Emilio pensa che se avesse meno pensato alla vita, forse questa stessa gli si sarebbe presentata in forma meno “castrante”: non è così; la vita non si decide come ci appare nell’immagine dell’onda, che si rompe prima di frangersi, è un meccanismo duro, determinato, dalla quale il suo destino non può essere modificato. Anche l’incontro con Angiolina prende una piega inaspettata: lo voleva calmo, rilassante, ma pulsioni interiori lo trasformano in uomo rabbioso; ma questa rabbia, ad osservarla con occhi distaccati, è data dalla non conoscenza della vita e quindi di Angiolina; l’eros seppur vissuto da Emilio è stato idealizzato, tanto che, vissuto realmente lo disgusta. Ci dice Baldi (critico letterario) che alla fine il suo comportamento è da adolescente, con il lancio di pietre verso colei che lo ha deluso. Ma Angiolina è stata la giovinezza, la sua perdita la senilità. L’aveva voluta in bellezza come le era apparsa, ma con l’indole di Amalia, e così gli piace immaginarla:

umberto-veruda-ritratto-di-svevo-con-la-sorella-ortensia.jpgUmberto Veruda: Svevo con la sorella Ortensia

LA METAMORFOSI DI ANGIOLINA

Lungamente la sua avventura lo lasciò squilibrato, malcontento. Erano passati per la sua vita l’amore e il dolore e, privato di questi elementi, si trovava ora col sentimento di colui cui è stata amputata una parte importante del corpo. Il vuoto però finì coll’essere colmato. Rinacque in lui l’affetto alla tranquillità, alla sicurezza, e la cura di se stesso gli tolse ogni altro desiderio. Anni dopo egli s’incantò ad ammirare quel periodo della sua vita, il più importante, il più luminoso. Ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù. Nella sua mente di letterato ozioso, Angiolina subì una metamorfosi strana. Conservò inalterata la sua bellezza, ma acquistò anche tutte le qualità d’Amalia che morì in lei una seconda volta. Divenne triste, sconsolantemente inerte, ed ebbe l’occhio limpido ed intellettuale. Egli la vide dinanzi a sé come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore e l’amò sempre, se amore è ammirazione e desiderio. Ella rappresentava tutto quello di nobile ch’egli in quel periodo avesse pensato od osservato. Quella figura divenne persino un simbolo. Ella guardava sempre dalla stessa parte, l’orizzonte, l’avvenire da cui partivano i bagliori rossi che si riverberavano sulla sua faccia rosea, gialla e bianca. Ella aspettava! L’immagine concretava il sogno ch’egli una volta aveva fatto accanto ad Angiolina e che la figlia del popolo non aveva compreso. Quel simbolo alto, magnifico, si rianimava talvolta per ridivenire donna amante, sempre però donna triste e pensierosa. Sì! Angiolina pensa e piange! Pensa come se le fosse stato spiegato il segreto dell’universo e della propria esistenza; piange come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque.

E’ passato un anno. Angiolina è scappata con un cassiere infedele di una banca. E’ finita. Ora che non c’è più, la può pensare, immaginare. L’assenza è più semplice da sopportare, così come il ricordo più dolce da pensare. E’ stata infedele, leggera, ignorante, bella certo, ma vuota. Ed è proprio il vuoto, l’immagine esteriore che permane, che immagina riempito dei buoni sentimenti della purezza d’Amalia a farne una sola immagine, cogli occhi rivolti verso “il sol dell’avvenire”, come aveva tentato d’insegnarle, senza alcun risultato. Ma ciò porta Emilio ad autoingannarsi ancora: la mistificazione che fa di Angiolina, vedendola come simbolo del socialismo, non è che l’affermazione di chi non sa vivere o non accetta vivere e di fronte al dolore di questa incapacità continua a mentirsi e a autosuggestionarsi per eliminare i particolari sgradevoli di una realtà e sostituirvi una visione confortante ma falsa.

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Svevo

Il capolavoro di Italo Svevo è La coscienza di Zeno, che lo proietta fra i grandi del romanzo europeo.

Zeno Cosini ha deciso di smettere il fumo e tenta, come estrema risorsa, la psicoanalisi. Seguendo il consiglio del medico fissa perciò sulla carta gli episodi della sua vita che gli paiono salienti: il fumo, la penosa fine del padre, che male intendendo un gesto del figlio alza la mano contro di lui proprio un attimo prima di morire; la gelosia per l’amico Guido; il matrimonio con una delle sorelle Malfenti, quella che meno gli piaceva; il suicidio di Guido; la relazione con una povera figliola, di cui, però, si stanca presto. Alla radice di tutti questi avvenimenti c’è una personalità abulica, incapace di vera partecipazione attiva, che diventa simbolo dell’elusiva, inguaribile malattia dell’uomo moderno; mentre nelle ultime righe del romanzo è contenuta la profezia di “una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni” attraverso la quale l’umanità, forse, guarirà dai germi di cui si nutre e troverà la salute in un mondo asettico.

Viene iniziato nel 1919 e pubblicato nel 1923 ed anche questo, come gli altri due, passa assolutamente inosservato. Vogliamo qui ricordare che James Joyce, rimasto a Trieste dal 1904 al 1914, fece lezioni d’inglese a Italo Svevo e ne nacque un’amicizia. Proprio tale amicizia portò Svevo a mandare copia del romanzo allo scrittore irlandese che, impressionato dalla forza della narrazione, lo fece leggere ai parigini, studiosi di italianistica, Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux, che definendo il testo di Svevo “libro ammirevole” lo tradussero e lanciarono in Europa. Intanto in Italia anche Eugenio Montale si accorse della capacità dirompente del testo e nel 1926, all’interno della rivista L’Esame scrisse Omaggio a Italo Svevo, iniziando così la sua fortuna critica anche nel nostro paese.

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Svevo e Joyce

L’opera è strutturata da sei capitoli, definiti nella trama del libro, preceduti da altri due Prefazione e Preambolo, e seguiti da quello intitolato Psicoanalisi. Già dal titolo l’opera presenza problemi di non facile definizione. Cosa vuol dire, infatti coscienza? Problema posto soprattutto dai traduttori:

  • coscienza morale;
  • attività psicologica;
  • presa di coscienza;
  • inconscio;

il problema è che Svevo utilizza tale termine in tutti i significati sopra esposti, non fornendo una spiegazione, pertanto un solo modo di intendere l’opera, ma di lasciare il lettore di fronte all’ambiguità dell’intero testo, ambiguità che prosegue proprio all’inizio dell’opera stessa:

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Svevo

PREFAZIONE

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!…

DOTTOR S.

 L’incipit non viene lasciato ad un narratore interno (vedremo che questa è la tecnica con cui verrà scritto il romanzo), ma ad un ipotetico dottor S(igmund) il quale ci pone di fronte a tre problemi:

  1. ciò che leggeremo è il frutto di una terapia psicoanalitica imposta dal medico al paziente al fine di rievocare i fatti salienti della sua vita per fini terapeutici;
  2. essendo la scrittura di tipo mnemonico razionale, a volte inconscia, e dettata inoltre dall’odio del paziente per il medico, non sapremo mai quanto egli razionalmente voglia dire o nascondere o inventare al terapeuta e quali suoi ricordi, rivelatasi inconsciamente, siano stati invece “censurati”: in una parola, ciò che dice Zeno è fortemente inattendibile;
  3. se inattendibile è Svevo, altrettanto lo è il medico: un terapeuta non si vendica contro il paziente (tutt’al più lo licenzia) e meno che mai, per deontologia professionale, pubblica il suo diario.

Dopo aver ricordato la difficoltà del ricordo ab ovo, come ci dice nel preambolo, non senza ironia, comincia dal problema per cui ha iniziato la terapia:

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Immagine ispirata al fumo di Zeno

IL FUMO

Il dottore al quale ne parlai mi disse d’iniziare il mio lavoro con un’analisi storica della mia propensione al fumo: «Scriva! Scriva! Vedrà come arriverà a vedersi intero.»
Credo che del fumo posso scrivere qui al mio tavolo senz’andar a sognare su quella poltrona. Non so come cominciare e invoco l’assistenza delle sigarette tutte tanto somiglianti a quella che ho in mano. Oggi scopro subito qualche cosa che più non ricordavo. Le prime sigarette ch’io fumai non esistono più in commercio. Intorno al ’70 se ne avevano in Austria di quelle che venivano vendute in scatoline di cartone munite del marchio dell’aquila bicipite. Ecco: attorno a una di quelle scatole s’aggruppano subito varie persone con qualche loro tratto, sufficiente per suggerirmene il nome, non bastevole però a commovermi per l’impensato incontro. Tento di ottenere di più e vado alla poltrona: le persone sbiadiscono e al loro posto si mettono dei buffoni che mi deridono. Ritorno sconfortato al tavolo.
Una delle figure, dalla voce un po’ roca, era Giuseppe, un giovinetto della stessa mia età, e l’altra, mio fratello, di un anno di me più giovine e morto tanti anni or sono. Pare che Giuseppe ricevesse molto denaro dal padre suo e ci regalasse di quelle sigarette. Ma sono certo che ne offriva di più a mio fratello che a me. Donde la necessità in cui mi trovai di procurarmene da me delle altre. Così avvenne che rubai. D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo panciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procuravo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fumavo una dopo l’altra le dieci sigarette che conteneva, per non conservare a lungo il compromettente frutto del furto.
Tutto ciò giaceva nella mia coscienza a portata di mano. Risorge solo ora perché non sapevo prima che potesse avere importanza. Ecco che ho registrata l’origine della sozza abitudine e (chissà?) forse ne sono già guarito. Perciò, per provare, accendo un’ultima sigaretta e forse la getterò via subito, disgustato.
Poi ricordo che un giorno mio padre mi sorprese col suo panciotto in mano. Io, con una sfacciataggine che ora non avrei e che ancora adesso mi disgusta (chissà che tale disgusto non abbia una grande importanza nella mia cura) gli dissi che m’era venuta la curiosità di contarne i bottoni. Mio padre rise delle mie disposizioni alla matematica o alla sartoria e non s’avvide che avevo le dita nel taschino del suo panciotto. A mio onore posso dire che bastò quel riso rivolto alla mia innocenza quand’essa non esisteva più, per impedirmi per sempre di rubare. Cioè… rubai ancora, ma senza saperlo. Mio padre lasciava per la casa dei sigari virginia fumati a mezzo, in bilico su tavoli e armadi. Io credevo fosse il suo modo di gettarli via e credevo anche di sapere che la nostra vecchia fantesca, Catina, li buttasse via. Andavo a fumarli di nascosto. Già all’atto d’impadronirmene venivo pervaso da un brivido di ribrezzo sapendo quale malessere m’avrebbero procurato. Poi li fumavo finché la mia fronte non si fosse coperta di sudori freddi e il mio stomaco si contorcesse.
Non si dirà che nella mia infanzia io mancassi di energia.  
(…)
Ricordo di aver fumato molto, celato in tutti i luoghi possibili. Perché seguito da un forte disgusto fisico, ricordo un soggiorno prolungato per una mezz’ora in una cantina oscura insieme a due altri fanciulli di cui non ritrovo nella memoria altro che la puerilità del vestito: Due paia di calzoncini che stanno in piedi perché dentro c’è stato un corpo che il tempo eliminò. Avevamo molte sigarette e volevamo vedere chi ne sapesse bruciare di più nel breve tempo. Io vinsi, ed eroicamente celai il malessere che mi derivò dallo strano esercizio. Poi uscimmo al sole e all’aria. Dovetti chiudere gli occhi per non cadere stordito.
Mi rimisi e mi vantai della vittoria. Uno dei due piccoli omini mi disse allora: «A me non importa di aver perduto perché io non fumo che quanto m’occorre».
Ricordo la parola sana e non la faccina certamente sana anch’essa che a me doveva essere rivolta in quel momento. Ma allora io non sapevo se amavo o odiavo la sigaretta e il suo sapore e lo stato in cui la nicotina mi metteva. Quando seppi di odiare tutto ciò fu peggio. E lo seppi a vent’anni circa. Allora soffersi per qualche settimana di un violento male di gola accompagnato da febbre. Il dottore prescrisse il letto e l’assoluta astensione dal fumo. Ricordo questa parola assoluta! Mi ferì e la febbre la colorì: Un vuoto grande e niente per resistere all’enorme pressione che subito si produce attorno ad un vuoto.
Quando il dottore mi lasciò, mio padre (mia madre era morta da molti anni) con tanto di sigaro in bocca restò ancora per qualche tempo a farmi compagnia. Andandosene, dopo di aver passata dolcemente la sua mano sulla mia fronte scottante, mi disse: «Non fumare, veh!»
Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: “Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta”. Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: «Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!»
Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta.
Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo.
Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.
Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato: “Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!”.
Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge.
Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.
Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.

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Un’altra immagine ispirata al fumo di Zeno

Il racconto inizia con un ricordo preciso: la forma del pacchetto (scatoline di cartone) con le aquile bicipiti, chiaramente sigarette austroungariche. Da qui, quasi con un processo analogico, rievoca i primi furti, il senso di nausea che la sigaretta gli procura, le proibizione del medico di fumare e il suo non rispetto.

Nella seconda parte del brano, il sancire in modo perentorio che quella fumata era “l’ultima sigaretta”, il prendere consapevolezza che il sapore dell’ultima, proprio perché ultima, era il più buono e quindi continuare a fumare, in un circolo vizioso che, fino alla scrittura del diario, non ha ancora fine, denota l’inazione come elemento costitutivo della mente di Zeno  (anche  adesso, anche se lo smettere dal vizio del fumo non sia affatto una necessità, rinuncia a “decidere”).

L’avere iniziato dal fumo vuol dire che è qui che Zeno vede l’inizio della sua nevrosi, di cui il fumo ne è un sintomo. Ma è proprio nel proposito e nel disattendere ad esso che si misura la vera nevrosi di Zeno: consapevole che il fumo fa male, non è disposto però a rinunciarvi, anzi esso sembra alfine l’elemento che lo mette contro il volere del padre e del medico (l’autorità costituita) e il promettere e la successiva smentita alla promessa stessa sembra rinviare ad una ciclicità temporale in cui ciò che accade continua a ripetersi.

Sembra che in questo brano il nostro ironizzi sia sul tempo, come detto prima, ma anche sulla psicoanalisi: il rubare nel panciotto paterno o rubare i sigari lasciati a metà rimandano a un rapporto conflittuale (o edipico dirà il dottor. S) col padre, svelato anche dal rifiuto all’obbedienza quando è malato; indizi troppo palesi, a livello psicoanalitico, che sembrano scritti apposta per far piacere al medico.

Nel IV capitolo Zeno rivive il momento in cui il padre muore. Esso è preceduto dall’analisi del loro rapporto conflittuale, il Cosini vecchio, borghese sano e ben piantato nella realtà, contro un figlio svagato e perlopiù nevrotico. Ma il momento della morte paterna rappresenta per il trentenne Zeno una “vera catastrofe” psichica:

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Italo Svevo anziano

LA MORTE DEL PADRE

Una sera della fine di marzo arrivai un po’ più tardi del solito a casa. Niente di male: ero caduto nelle mani di un dotto amico che aveva voluto confidarmi certe sue idee sulle origini del Cristianesimo. Era la prima volta che si voleva da me ch’io pensassi a quelle origini, eppure m’adattai alla lunga lezione per compiacere l’amico.
Piovigginava e faceva freddo. Tutto era sgradevole e fosco, compresi i Greci e gli Ebrei di cui il mio amico parlava, ma pure m’adattai a quella sofferenza per ben due ore. La mia solita debolezza! Scommetto che oggi ancora sono tanto incapace di resistenza, che se qualcuno ci si mettesse sul serio potrebbe indurmi a studiare per qualche tempo l’astronomia.
Entrai nel giardino che circonda la nostra villa. A questa si accedeva per una breve strada carrozzabile. Maria, la nostra cameriera, m’aspettava alla finestra e sentendomi avvicinare gridò nell’oscurità: «È lei, signor Zeno?»
Maria era una di quelle fantesche come non se ne trovano più. Era da noi da una quindicina d’anni. Metteva mensilmente alla Cassa di Risparmio una parte della sua paga per i suoi vecchi anni, risparmi che però non le servirono perché essa morì in casa nostra poco dopo il mio matrimonio sempre lavorando.
Essa mi raccontò che mio padre era ritornato a casa da qualche ora, ma che aveva voluto attendermi a cena. Allorché essa aveva insistito perché egli intanto mangiasse, era stata mandata via con modi poco gentili. Poi egli aveva domandato di me parecchie volte, inquieto e ansioso. Maria mi fece intendere che pensava che mio padre non si sentisse bene. Gli attribuiva una difficoltà di parola e il respiro mozzo. Debbo dire ch’essendo sempre sola con lui, essa spesso s’era fitto in testa il pensiero ch’egli fosse malato. Aveva poche cose da osservare la povera donna nella casa solitaria e – dopo l’esperienza fatta con mia madre – essa s’aspettava che tutti avessero da morire prima di lei.
Corsi alla camera da pranzo con una certa curiosità e non ancora impensierito. Mio padre si levò subito dal sofà su cui giaceva e m’accolse con una grande gioia che non seppe commovermi perché vi scorsi prima di tutto l’espressione di un rimprovero. Ma intanto bastò a tranquillarmi perché la gioia mi parve un segno di salute. Non scorsi in lui traccia di quel balbettamento e respiro mozzo di cui aveva parlato Maria. Ma, invece di rimproverarmi, egli si scusò d’essere stato caparbio.
«Che vuoi farci?» mi disse bonariamente. «Siamo noi due soli a questo mondo e volevo vederti prima di coricarmi.»
Magari mi fossi comportato con semplicità e avessi preso fra le mie braccia il mio caro babbo divenuto per malattia tanto mite e affettuoso! Invece cominciai a fare freddamente una diagnosi: Il vecchio Silva si era tanto mitigato? Che fosse malato? Lo guardai sospettosamente e non trovai di meglio che di fargli un rimprovero: «Ma perché hai atteso finora per mangiare? Potevi mangiare, eppoi attendermi!»
Egli rise assai giovanilmente: «Si mangia meglio in due.»
Poteva questa lietezza essere anche il segno di un buon appetito: io mi tranquillai e mi misi a mangiare. Con le sue ciabatte di casa, con passo malfermo, egli s’accostò al desco e occupò il suo posto solito. Poi stette a guardarmi come mangiavo, mentre lui, dopo un paio di cucchiaiate scarse, non prese altro cibo e allontanò anche da sé il piatto che gli ripugnava. Ma il sorriso persisteva sulla sua vecchia faccia. Soltanto mi ricordo, come se si trattasse di cosa avvenuta ieri, che un paio di volte ch’io lo guardai negli occhi, egli stornò il suo sguardo dal mio. Si dice che ciò è un segno di falsità, mentre io ora so ch’è un segno di malattia. L’animale malato non lascia guardare nei pertugi pei quali si potrebbe scorgere la malattia, la debolezza.
Egli aspettava sempre di sentire come io avessi impiegato quelle tante ore in cui egli m’aveva atteso. E vedendo che ci teneva tanto, cessai per un istante di mangiare e gli dissi secco, secco, ch’io fino a quell’ora avevo discusse le origini del Cristianesimo.
Mi guardò dubbioso e perplesso: «Anche tu, ora, pensi alla religione?»
Era evidente che gli avrei dato una grande consolazione se avessi accettato di pensarci con lui. Invece io, che finché mio padre era vivo mi sentivo combattivo (e poi non più) risposi con una di quelle solite frasi che si sentono tutti i giorni nei caffè situati presso le Università: «Per me la religione non è altro che un fenomeno qualunque che bisogna studiare.»
«Fenomeno?» fece lui sconcertato. Cercò una pronta risposta e aperse la bocca per darla. Poi esitò e guardò il secondo piatto, che giusto allora Maria gli offerse e ch’egli non toccò. Quindi per tapparsi meglio la bocca, vi ficcò un mozzicone di sigaro che accese e che lasciò subito spegnere. S’era così concessa una sosta per riflettere tranquillamente. Per un istante mi guardò risoluto: «Tu non vorrai ridere della religione?»
Io, da quel perfetto studente scioperato che sono sempre stato, con la bocca piena, risposi: «Ma che ridere! Io studio!»
Egli tacque e guardò lungamente il mozzicone di sigaro che aveva deposto su un piatto. Capisco ora perché egli mi avesse detto ciò. Capisco ora tutto quello che passò per quella mente già torbida, e sono sorpreso di non averne capito nulla allora. Credo che allora nel mio animo mancasse l’affetto che fa intendere tante cose. Poi mi fu tanto facile! Egli evitava di affrontare il mio scetticismo: una lotta troppo difficile per lui in quel momento; ma riteneva di poter attaccarlo mitemente di fianco come conveniva ad un malato. Ricordo che quando parlò, il suo respiro mozzava e ritardava la sua parola. È una grande fatica prepararsi ad un combattimento. Ma pensavo ch’egli non si sarebbe rassegnato di coricarsi senza darmi il fatto mio e mi preparai a discussioni che poi non vennero.
«Io» disse, sempre guardando il suo mozzicone di sigaro oramai spento, «sento come la mia esperienza e la scienza mia della vita sono grandi. Non si vivono inutilmente tanti anni. Io so molte cose e purtroppo non so insegnartele tutte come vorrei. Oh, quanto lo vorrei! Vedo dentro nelle cose, e anche vedo quello ch’è giusto e vero e anche quello che non lo è.»
Non c’era da discutere. Borbottai poco convinto e sempre mangiando: «Sì! Papà!»
Non volevo offenderlo.
«Peccato che sei venuto tanto tardi. Prima ero meno stanco e avrei saputo dirti molte cose.»
Pensai che volesse ancora seccarmi perché ero venuto tardi e gli proposi di lasciare quella discussione per il giorno dopo.
«Non si tratta di una discussione» rispose egli trasognato «ma di tutt’altra cosa. Una cosa che non si può discutere e che saprai anche tu non appena te l’avrò detta. Ma il difficile è dirla!»
Qui ebbi un dubbio: «Non ti senti bene?»
«Non posso dire di star male, ma sono molto stanco e vado subito a dormire.»
Suonò il campanello e nello stesso tempo chiamò Maria con la voce. Quand’essa venne, egli domandò se nella sua stanza tutto era pronto. S’avviò poi subito strascicando le ciabatte al suolo. Giunto accanto a me, chinò la testa per offrirmi la sua guancia al bacio di ogni sera.
Vedendolo moversi così malsicuro, ebbi di nuovo il dubbio che stesse male e glielo domandai. Ripetemmo ambedue più volte le stesse parole ed egli mi confermò ch’era stanco ma non malato. Poi soggiunse: «Adesso penserò alle parole che ti dirò domani. Vedrai come ti convinceranno.»
«Papà» dichiarai io commosso «ti sentirò volentieri.»
Vedendomi tanto disposto a sottomettermi alla sua esperienza, egli esitò di lasciarmi: bisognava pur approfittare di un momento tanto favorevole! Si passò la mano sulla fronte e sedette sulla sedia sulla quale s’era appoggiato per porgermi la sua guancia al bacio. Ansava leggermente.
«Curioso!» disse. «Non so dirti nulla, proprio nulla.» Guardò intorno a sé come se avesse cercato di fuori quello che nel suo interno non arrivava ad afferrare.
«Eppure so tante cose, anzi tutte le cose io so. Dev’essere l’effetto della mia grande esperienza.»
Non soffriva tanto di non saper esprimersi perché sorrise alla propria forza, alla propria grandezza.
Io non so perché non abbia chiamato subito il dottore. Invece debbo confessarlo con dolore e rimorso: considerai le parole di mio padre come dettate da una presunzione ch’io credevo di aver più volte constatata in lui. Non poteva però sfuggirmi l’evidenza della sua debolezza e solo perciò non discussi. Mi piaceva di vederlo felice nella sua illusione di essere tanto forte quand’era invece debolissimo. Ero poi lusingato dall’affetto che mi dimostrava manifestando il desiderio di consegnarmi la scienza di cui si credeva possessore, per quanto fossi convinto di non poter apprendere niente da lui. E per lusingarlo e dargli pace gli raccontai che non doveva sforzarsi per trovare subito le parole che gli mancavano, perché in frangenti simili i più alti scienziati mettevano le cose troppo complicate in deposito in qualche cantuccio del cervello perché si semplificassero da sé.
Egli rispose: «Quello ch’io cerco non è complicato affatto. Si tratta anzi di trovare una parola, una sola e la troverò! Ma non questa notte perché farò tutto un sonno, senza il più piccolo pensiero.»
Tuttavia non si levò dalla sedia. Esitante e scrutando per un istante il mio viso, mi disse: «Ho paura che non saprò dire a te quello che penso, solo perché tu hai l’abitudine di ridere di tutto.»
Mi sorrise come se avesse voluto pregarmi di non risentirmi per le sue parole, si alzò dalla sedia e mi offerse per la seconda volta la sua guancia. Io rinunziai a discutere e convincerlo che a questo mondo v’erano molte cose di cui si poteva e doveva ridere e volli rassicurarlo con un forte abbraccio. Il mio gesto fu forse troppo forte, perché egli si svincolò da me più affannato di prima, ma certo fu da lui inteso il mio affetto, perché mi salutò amichevolmente con la mano.
«Andiamo a letto!» disse con gioia e uscì seguito da Maria.
E rimasto solo (strano anche questo!) non pensai alla salute di mio padre, ma, commosso e – posso dirlo – con ogni rispetto filiale, deplorai che una mente simile che mirava a mete alte, non avesse trovata la possibilità di una coltura migliore. Oggi che scrivo, dopo di aver avvicinata l’età raggiunta da mio padre, so con certezza che un uomo può avere il sentimento di una propria altissima intelligenza che non dia altro segno di sé fuori di quel suo forte sentimento. Ecco: si dà un forte respiro e si accetta e si ammira tutta la natura com’è e come, immutabile, ci è offerta: con ciò si manifesta la stessa intelligenza che volle la Creazione intera. Da mio padre è certo che nell’ultimo istante lucido della sua vita, il suo sentimento d’intelligenza fu originato da una sua improvvisa ispirazione religiosa, tant’è vero che s’indusse a parlarmene perché io gli avevo raccontato di essermi occupato delle origini del Cristianesimo. Ora però so anche che quel sentimento era il primo sintomo dell’edema cerebrale.
Maria venne a sparecchiare e a dirmi che le sembrava che mio padre si fosse subito addormentato. Così andai a dormire anch’io del tutto rasserenato. Fuori il vento soffiava e urlava. Lo sentivo dal mio letto caldo come una ninna nanna che s’allontanò sempre di più da me, perché mi immersi nel sonno.
(…)
Poco dopo ero a letto, ma non seppi chiuder occhio. Guardavo nell’avvenire indagando per trovare perché e per chi avrei potuto continuare i miei sforzi di migliorarmi. Piansi molto, ma piuttosto su me stesso che sul disgraziato che correva senza pace per la sua camera.
Quando mi levai, Maria andò a coricarsi ed io restai accanto a mio padre insieme all’infermiere. Ero abbattuto e stanco; mio padre più irrequieto che mai.
Fu allora che avvenne la scena terribile che non dimenticherò mai e che gettò lontano lontano la sua ombra, che offuscò ogni mio coraggio, ogni mia gioia. Per dimenticarne il dolore, fu d’uopo che ogni mio sentimento fosse affievolito dagli anni.
L’infermiere mi disse: «Come sarebbe bene se riuscissimo di tenerlo a letto. Il dottore vi dà tanta importanza!»
Fino a quel momento io ero rimasto adagiato sul sofà. Mi levai e andai al letto ove, in quel momento, ansante più che mai, l’ammalato s’era coricato. Ero deciso: avrei costretto mio padre di restare almeno per mezz’ora nel riposo voluto dal medico. Non era questo il mio dovere?
Subito mio padre tentò di ribaltarsi verso la sponda del letto per sottrarsi alla mia pressione e levarsi. Con mano vigorosa poggiata sulla sua spalla, gliel’impedii mentre a voce alta e imperiosa gli comandavo di non moversi. Per un breve istante, terrorizzato, egli obbedì. Poi esclamò: «Muoio!»
E si rizzò. A mia volta, subito spaventato dal suo grido, rallentai la pressione della mia mano. Perciò egli poté sedere sulla sponda del letto proprio di faccia a me. Io penso che allora la sua ira fu aumentata al trovarsi – sebbene per un momento solo – impedito nei movimenti e gli parve certo ch’io gli togliessi anche l’aria di cui aveva tanto bisogno, come gli toglievo la luce stando in piedi contro di lui seduto. Con uno sforzo supremo arrivò a mettersi in piedi, alzò la mano alto alto, come se avesse saputo ch’egli non poteva comunicarle altra forza che quella del suo peso e la lasciò cadere sulla mia guancia. Poi scivolò sul letto e di là sul pavimento. Morto!
Non lo sapevo morto, ma mi si contrasse il cuore dal dolore della punizione ch’egli, moribondo, aveva voluto darmi. Con l’aiuto di Carlo lo sollevai e lo riposi in letto.
Piangendo, proprio come un bambino punito, gli gridai nell’orecchio: «Non è colpa mia! Fu quel maledetto dottore che voleva obbligarti di star sdraiato!»
Era una bugia. Poi, ancora come un bambino, aggiunsi la promessa di non farlo più: «Ti lascerò movere come vorrai.»
L’infermiere disse: «È morto.»
Dovettero allontanarmi a viva forza da quella stanza. Egli era morto ed io non potevo più provargli la mia innocenza!
Nella solitudine tentai di riavermi. Ragionavo: era escluso che mio padre, ch’era sempre fuori di sensi, avesse potuto risolvere di punirmi e dirigere la sua mano con tanta esattezza da colpire la mia guancia. Come sarebbe stato possibile di avere la certezza che il mio ragionamento era giusto? Pensai persino di dirigermi a Coprosich. Egli, quale medico, avrebbe potuto dirmi qualche cosa sulle capacità di risolvere e agire di un moribondo. Potevo anche essere stato vittima di un atto provocato da un tentativo di facilitarsi la respirazione! Ma col dottor Coprosich non parlai. Era impossibile di andar a rivelare a lui come mio padre si fosse congedato da me. A lui, che m’aveva già accusato di aver mancato di affetto per mio padre!
Fu un ulteriore grave colpo per me quando sentii che Carlo, l’infermiere, in cucina, di sera, raccontava a Maria: «Il padre alzò alto alto la mano e con l’ultimo suo atto picchiò il figliuolo.» Egli lo sapeva e perciò Coprosich l’avrebbe risaputo.
Quando mi recai nella stanza mortuaria, trovai che avevano vestito il cadavere. L’infermiere doveva anche avergli ravviata la bella, bianca chioma. La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. Non volli, non seppi più rivederlo. Poi, al funerale, riuscii a ricordare mio padre debole e buono come l’avevo sempre conosciuto dopo la mia infanzia e mi convinsi che quello schiaffo che m’era stato inflitto da lui moribondo, non era stato da lui voluto. Divenni buono, buono e il ricordo di mio padre s’accompagnò a me, divenendo sempre più dolce. Fu come un sogno delizioso: eravamo oramai perfettamente d’accordo, io divenuto il più debole e lui il più forte.
Ritornai e per molto tempo rimasi nella religione della mia infanzia. Immaginavo che mio padre mi sentisse e potessi dirgli che la colpa non era stata mia, ma del dottore. La bugia non aveva importanza perché egli oramai intendeva tutto ed io pure. E per parecchio tempo i colloqui con mio padre continuarono dolci e celati come un amore illecito, perché io dinanzi a tutti continuai a ridere di ogni pratica religiosa, mentre è vero – e qui voglio confessarlo – che io a qualcuno giornalmente e ferventemente raccomandai l’anima di mio padre. È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto di cui qualche volta – raramente – non si può fare a meno.

Nella prima parte del brano ci viene presentato l’ultimo colloquio tra padre e figlio. Esso muove, sin da subito, da un processo di rimozione: Zeno, pur “sapendo che è malato”, (ciò ci viene detto nelle pagine precedenti) arriva tardi a casa, dove il padre l’aspetta, forse già sapendo che sarà una delle ultime cene fatte insieme. E’ una situazione che pesa a Zeno e Svevo lo sottolinea, dicendo che il protagonista s’aspetta o immagina che lo sguardo paterno sia di rimprovero.

Il modo di Zeno di rapportarsi con il padre è quasi d’irrisione, egli irride alla religione, al cui padre, sul punto di morire sembra rivolgersi, ma non riesce ad aiutarlo quando lo stesso padre vuole comunicargli l’ultima parola, quella che potrebbe racchiudere il significato di un’intera vita da trasmettere al figlio. Non la trova, e forse capisce che non gliela dirà.

La seconda parte del brano (fra le più famose del romanzo) ci descrive l’ultimo atto di vita del papà che si racchiude nel famoso “schiaffo”. Molto presumibilmente si tratta di un fatto involontario. Ma non importa conoscere la verità: interessa sapere come tale gesto sa stato interpretato dall’inconscio di Zeno. Egli vede nello schiaffo paterno un atto punitivo, sia del momento stesso in cui “sembrava” che il figlio gli stesse togliendo l’aria, sia più generalmente per la sua vita di perfetta inettitudine. Non è un caso che la reazione del trentenne Zeno sia di regressione infantile, quasi a volere dire al padre “non lo faccio più”, ma tale regressione non risolve i problemi conflittuali che egli ha con il genitore, anzi l’accentua. Si osservi il modo con cui descrive il padre ormai morto: La morte aveva già irrigidito quel corpo che giaceva superbo e minaccioso. Le sue mani grandi, potenti, ben formate, erano livide, ma giacevano con tanta naturalezza che parevano pronte ad afferrare e punire. E’ ancora un padre potente che lo sovrasta e che gli ha assestato quello schiaffo per punirlo di quel senso di colpa che ora prova perché egli ha desiderato, sin dalla giovane età in cui gli rimproverava il suo fallimento mostrandogli la sua tenace forza e sanità, la sua morte. Dal senso di colpa alla rimozione dello stesso. Dimenticare il padre severo e vederlo debole e buono, e quindi il venir meno ad ogni aspetto conflittuale, io divenuto il più debole e lui il più forte. Solo così può immaginare che quel gesto sia stato involontario e quindi senza colpa e regredendo ancora come un fanciullo, dire al padre che non era colpa sua, ma del dottore. Inoltre può solo ora placare il suo senso di colpa, a cui contrappone una irreligiosità di facciata, ma raccomanda l’anima paterna a Dio, che solo in sua assenza può stare “in pace” nei suoi pensieri.

Altro passo fondamentale è quello del fidanzamento:

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Una foto con Svevo giovane, la moglie e la figlia

ZENO SI FIDANZA

Allora avvenne una cosa di minima importanza, ma che fu per me decisiva. Da una stanza abbastanza lontana da noi echeggiarono le urla della piccola Anna. Come si seppe poi, era caduta insanguinandosi le labbra. Fu così ch’io per qualche minuto mi trovai solo con Ada perché tutti uscirono di corsa dal salotto. Guido, prima di seguire gli altri, aveva posto il suo prezioso violino nelle mani di Ada.
«Volete dare a me quel violino?» domandai io ad Ada vedendola esitante se seguire gli altri. Davvero che non m’ero ancora accorto che l’occasione tanto sospirata s’era finalmente presentata.
Ella esitò, ma poi una sua strana diffidenza ebbe il sopravvento. Trasse il violino ancora meglio a sé: «No» rispose, «non occorre ch’io vada con gli altri. Non credo che Anna si sia fatta tanto male. Essa strilla per nulla.»
Sedette col suo violino e a me parve che con quest’atto essa m’avesse invitato di parlare. Del resto, come avrei potuto io andar a casa senz’aver parlato? Che cosa avrei poi fatto in quella lunga notte? Mi vedevo ribaltarmi da destra a sinistra nel mio letto o correre per le vie o le bische in cerca di svago. No! Non dovevo abbandonare quella casa senz’essermi procurata la chiarezza e la calma. Cercai di essere semplice e breve. Vi ero anche costretto perché mi mancava il fiato.
Le dissi: «Io vi amo, Ada. Perché non mi permettereste di parlarne a vostro padre?»
Ella mi guardò stupita e spaventata. Temetti che si mettesse a strillare come la piccina, là fuori. Io sapevo che il suo occhio sereno e la sua faccia dalle linee tanto precise non sapevano l’amore, ma tanto lontana dall’amore come ora, non l’avevo mai vista. Incominciò a parlare e disse qualcosa che doveva essere come un esordio. Ma io volevo la chiarezza: un sì o un no! Forse m’offendeva già quanto mi pareva un’esitazione. Per fare presto e indurla a decidersi, discussi il suo diritto di prendersi tempo: «Ma come non ve ne sareste accorta? A voi non era possibile di credere ch’io facessi la corte ad Augusta!»
Volli mettere dell’enfasi nelle mie parole, ma, nella fretta, la misi fuori di posto e finì che quel povero nome di Augusta fu accompagnato da un accento e da un gesto di disprezzo.
Fu così che levai Ada dall’imbarazzo. Essa non rilevò altro che l’offesa fatta ad Augusta: «Perché credete di essere superiore ad Augusta? Io non penso mica che Augusta accetterebbe di divenire vostra moglie!»
Poi appena ricordò che mi doveva una risposta: «In quanto a me… mi meraviglia che vi sia capitata una cosa simile in testa.»
La frase acre doveva vendicare l’Augusta. Nella mia grande confusione pensai che anche il senso della parola non avesse avuto altro scopo; se mi avesse schiaffeggiato credo che sarei stato esitante a studiarne la ragione. Perciò ancora insistetti:« Pensateci, Ada. Io non sono un uomo cattivo. Sono ricco… Sono un po’ bizzarro, ma mi sarà facile di correggermi.»
Anche Ada fu più dolce, ma parlò di nuovo di Augusta. «Pensateci anche voi, Zeno: Augusta è una buona fanciulla e farebbe veramente al caso vostro. Io non posso parlare per conto suo, ma credo…»
Era una grande dolcezza di sentirmi invocare da Ada per la prima volta col mio prenome. Non era questo un invito a parlare ancora più chiaro? Forse era perduta per me, o almeno non avrebbe accettato subito di sposarmi, ma intanto bisognava evitare che si compromettesse di più con Guido sul conto del quale dovevo aprirle gli occhi. Fui accorto, e prima di tutto le dissi che stimavo e rispettavo Augusta, ma che assolutamente non volevo sposarla. Lo dissi due volte per farmi intendere chiaramente: «io non volevo sposarla». Così potevo sperare di aver rabbonita Ada che prima aveva creduto io volessi offendere Augusta. «Una buona, una cara, un’amabile ragazza quell’Augusta; ma non fa per me».
Poi appena precipitai le cose, perché c’era del rumore sul corridoio e mi poteva essere tagliata la parola da un momento all’altro. «Ada! Quell’uomo non fa per voi. È un imbecille! Non v’accorgeste come sofferse per i responsi del tavolino? Avete visto il suo bastone? Suona bene il violino, ma vi sono anche delle scimmie che sanno suonarlo. Ogni sua parola tradisce il bestione…»
Essa, dopo d’esser stata ad ascoltarmi con l’aspetto di chi non sa risolversi ad ammettere nel loro senso le parole che gli sono dirette, m’interruppe. Balzò in piedi sempre col violino e l’arco in mano e mi soffiò addosso delle parole offensive. Io feci del mio meglio per dimenticarle e vi riuscii.
Ricordo solo che cominciò col domandarmi ad alta voce come avevo potuto parlare così di lui e di lei! Io feci gli occhi grandi dalla sorpresa perché mi pareva di non aver parlato che di lui solo. Dimenticai le tante parole sdegnose ch’essa mi diresse, ma non la sua bella, nobile e sana faccia arrossata dallo sdegno e dalle linee rese più precise, quasi marmoree, dall’indignazione. Quella non dimenticai più e quando penso al mio amore e alla mia giovinezza, rivedo la faccia bella e nobile e sana di Ada nel momento in cui essa m’eliminò definitivamente dal suo destino.
Ritornarono tutti in gruppo intorno alla signora Malfenti che teneva in braccio Anna ancora piangente. Nessuno si occupò di me o di Ada ed io, senza salutare nessuno, uscii dal salotto; nel corridoio presi il mio cappello. Curioso! Nessuno veniva a trattenermi. Allora mi trattenni da solo, ricordando ch’io non dovevo mancare alle regole della buona educazione e che perciò prima di andarmene dovevo salutare compitamente tutti. Vero è che non dubito io non sia stato impedito di abbandonare quella casa dalla convinzione che troppo presto sarebbe cominciata per me la notte ancora peggiore delle cinque notti che l’avevano preceduta. Io che finalmente avevo la chiarezza, sentivo ora un altro bisogno: quello della pace, la pace con tutti. Se avessi saputo eliminare ogni asprezza dai miei rapporti con Ada e con tutti gli altri, mi sarebbe stato più facile di dormire. Perché aveva da sussistere tale asprezza? Se non potevo prendermela neppure con Guido il quale se anche non ne aveva alcun merito, certamente non aveva nessuna colpa di essere stato preferito da Ada!
Essa era la sola che si fosse accorta della mia passeggiata sul corridoio e, quando mi vide ritornare, mi guardò ansiosa. Temeva di una scena? Subito volli rassicurarla. Le passai accanto e mormorai: «Scusate se vi ho offesa!»
Essa prese la mia mano e, rasserenata, la strinse. Fu un grande conforto. Io chiusi per un istante gli occhi per isolarmi con la mia anima e vedere quanta pace gliene fosse derivata.
Il mio destino volle che mentre tutti ancora si occupavano della bimba, io mi trovassi seduto accanto ad Alberta. Non l’avevo vista e di lei non m’accorsi che quando essa mi parlò dicendomi: «Non s’è fatta nulla. Il grave è la presenza di papà il quale, se la vede piangere, le fa un bel regalo.»
Io cessai dall’analizzarmi perché mi vidi intero! Per avere la pace io avrei dovuto fare in modo che quel salotto non mi fosse mai più interdetto. Guardai Alberta! Somigliava ad Ada! Era un po’ di lei più piccola e portava sul suo organismo evidenti dei segni non ancora cancellati dell’infanzia. Facilmente alzava la voce, e il suo riso spesso eccessivo le contraeva la faccina e gliel’arrossava. Curioso! In quel momento ricordai una raccomandazione di mio padre: “Scegli una donna giovine e ti sarà più facile di educarla a modo tuo”. Il ricordo fu decisivo. Guardai ancora Alberta. Nel mio pensiero m’industriavo di spogliarla e mi piaceva così dolce e tenerella come supposi fosse.
Le dissi: «Sentite, Alberta! Ho un’idea: avete mai pensato che siete nell’età di prendere marito?»
«Io non penso di sposarmi!» disse essa sorridendo e guardandomi mitemente, senz’imbarazzo o rossore. «Penso invece di continuare i miei studii. Anche mamma lo desidera.»
«Potreste continuare gli studii anche dopo sposata.»
Mi venne un’idea che mi parve spiritosa e le dissi subito: «Anch’io penso d’iniziarli dopo essermi sposato.»
Essa rise di cuore, ma io m’accorsi che perdevo il mio tempo, perché non era con tali scipitezze che si poteva conquistare una moglie e la pace. Bisognava essere serii. Qui poi era facile perché venivo accolto tutt’altrimenti che da Ada. Fui veramente serio. La mia futura moglie doveva intanto sapere tutto.
Con voce commossa le dissi: «Io, poco fa, ho indirizzata ad Ada la stessa proposta che ora feci a voi. Essa rifiutò con sdegno. Potete figurarvi in quale stato io mi trovi.»
Queste parole accompagnate da un atteggiamento di tristezza non erano altro che la mia ultima dichiarazione d’amore per Ada. Divenivo troppo serio e, sorridendo, aggiunsi: «Ma credo che se voi accettaste di sposarmi, io sarei felicissimo e dimenticherei per voi tutto e tutti.»
Essa si fece molto seria per dirmi: «Non dovete offendervene, Zeno, perché mi dispiacerebbe. Io faccio una grande stima di voi. So che siete un buon diavolo eppoi, senza saperlo, sapete molte cose, mentre i miei professori sanno esattamente tutto quello che sanno. Io non voglio sposarmi. Forse mi ricrederò, ma per il momento non ho che una mèta: vorrei diventare una scrittrice. Vedete quale fiducia vi dimostro. Non lo dissi mai a nessuno e spero non mi tradirete. Dal canto mio, vi prometto che non ripeterò a nessuno la vostra proposta.»
«Ma anzi potete dirlo a tutti!» la interruppi io con stizza.
Mi sentivo di nuovo sotto la minaccia di essere espulso da quel salotto e corsi al riparo. C’era poi un solo modo per attenuare in Alberta l’orgoglio di aver potuto respingermi ed io l’adottai non appena lo scopersi. Le dissi: «Io ora farò la stessa proposta ad Augusta e racconterò a tutti che la sposai perché le sue due sorelle mi rifiutarono!»
Ridevo di un buon umore eccessivo che m’aveva colto in seguito alla stranezza del mio procedere. Non era nella parola che mettevo lo spirito di cui ero tanto orgoglioso, ma nelle azioni.
Mi guardai d’intorno per trovare Augusta. Era uscita sul corridoio con un vassoio sul quale non v’era che un bicchiere semivuoto contenente un calmante per Anna. La seguii di corsa chiamandola per nome ed essa s’addossò alla parete per aspettarmi. Mi misi a lei di faccia e subito le dissi: «Sentite, Augusta, volete che noi due ci sposiamo?»
La proposta era veramente rude. Io dovevo sposare lei e lei me, ed io non domandavo quello ch’essa pensasse né pensavo potrebbe toccarmi di essere io costretto di dare delle spiegazioni. Se non facevo altro che quello che tutti volevano!
Essa alzò gli occhi dilatati dalla sorpresa. Così quello sbilenco era anche più differente del solito dall’altro. La sua faccia vellutata e bianca, dapprima impallidì di più, eppoi subito si congestionò. Afferrò con la destra il bicchiere che ballava sul vassoio.
Con un filo di voce mi disse: «Voi scherzate e ciò è male.

Temetti si mettesse a piangere ed ebbi la curiosa idea di consolarla dicendole della mia tristezza.»
«Io non scherzo,» dissi serio e triste. «Domandai dapprima la sua mano ad Ada che me la rifiutò con ira, poi domandai ad Alberta di sposarmi ed essa, con belle parole, vi si rifiutò anch’essa. Non serbo rancore né all’una né all’altra. Solo mi sento molto, ma molto infelice.»
Dinanzi al mio dolore essa si ricompose e si mise a guardarmi commossa, riflettendo intensamente. Il suo sguardo somigliava ad una carezza che non mi faceva piacere.

«Io devo dunque sapere e ricordare che voi non mi amate?» domandò.
Che cosa significava questa frase sibillina? Preludiava ad un consenso? Voleva ricordare! Ricordare per tutta la vita da trascorrersi con me? Ebbi il sentimento di chi per ammazzarsi si sia messo in una posizione pericolosa ed ora sia costretto a faticare per salvarsi. Non sarebbe stato meglio che anche Augusta m’avesse rifiutato e che mi fosse stato concesso di ritornare sano e salvo nel mio studiolo nel quale neppure quel giorno stesso m’ero sentito troppo male?
Le dissi: «Sì! Io non amo che Ada e sposerei ora voi…»
Stavo per dirle che non potevo rassegnarmi di divenire un estraneo per Ada e che perciò mi contentavo di divenirle cognato. Sarebbe stato un eccesso, ed Augusta avrebbe di nuovo potuto credere che volessi dileggiarla. Perciò dissi soltanto: «Io non so più rassegnarmi di restar solo.»
Essa rimaneva tuttavia poggiata alla parete del cui sostegno forse sentiva il bisogno; però pareva più calma ed il vassoio era ora tenuto da una sola mano. Ero salvo e cioè dovevo abbandonare quel salotto, o potevo restarci e dovevo sposarmi? Dissi delle altre parole, solo perché impaziente di aspettare le sue che non volevano venire: «Io sono un buon diavolo e credo che con me si possa vivere facilmente anche senza che ci sia un grande amore. Questa era una frase che nei lunghi giorni precedenti avevo preparata per Ada per indurla a dirmi di sì anche senza sentire per me un grande amore.
Augusta ansava leggermente e taceva ancora. Quel silenzio poteva anche significare un rifiuto, il più delicato rifiuto che si potesse immaginare: io quasi sarei scappato in cerca del mio cappello, in tempo per porlo su una testa salva.
Invece Augusta, decisa, con un movimento dignitoso che mai dimenticai, si rizzò e abbandonò il sostegno della parete. Nel corridoio non largo essa si avvicinò così ancora di più a me che le stavo di faccia. Mi disse: «Voi, Zeno, avete bisogno di una donna che voglia vivere per voi e vi assista. Io voglio essere quella donna».
Mi porse la mano paffutella ch’io quasi istintivamente baciai. Evidentemente non c’era più la possibilità di fare altrimenti. Devo poi confessare che in quel momento fui pervaso da una soddisfazione che m’allargò il petto. Non avevo più da risolvere niente, perché tutto era stato risolto. Questa era la vera chiarezza.
Fu così che mi fidanzai. Fummo subito festeggiatissimi. Il mio somigliava un poco al grande successo del violino di Guido, tanti furono gli applausi di tutti. Giovanni mi baciò e mi diede subito del tu. Con eccessiva espressione di affetto mi disse: «Mi sentivo tuo padre da molto tempo, dacché cominciai a darti dei consigli per il tuo commercio. La mia futura suocera mi porse anch’essa la guancia che sfiorai. A quel bacio non sarei sfuggito neppure se avessi sposato Ada. «Vede ch’io avevo indovinato tutto», mi disse con una disinvoltura incredibile e che non fu punita perché io non seppi né volli protestare.
Essa poi abbracciò Augusta e la grandezza del suo affetto si rivelò in un singhiozzo che le sfuggì interrompendo le sue manifestazioni di gioia. Io non potevo soffrire la signora Malfenti, ma devo dire che quel singhiozzo colorì, almeno per tutta quella sera, di una luce simpatica e importante il mio fidanzamento.
Alberta, raggiante, mi strinse la mano: «Io voglio essere per voi una buona sorella».
E Ada: «Bravo, Zeno!» Poi, a bassa voce: «Sappiatelo: giammai un uomo che creda di aver fatta una cosa con precipitazione, ha agito più saviamente di voi».
Guido mi diede una grande sorpresa: «Da questa mattina avevo capito che volevate una o l’altra delle signorine Malfenti, ma non arrivavo a sapere quale».

Zeno cerca moglie, o meglio Zeno cerca un padre. Il signor Malfenti, agente di borsa, conosciuto per affari, ne ha tutte le caratteristiche, infatti verso di lui può in qualche modo proiettare il suo odio verso il suocero/padre (non per niente è capace di dare consigli al suo genero e nel contempo fregarlo).
Il signor Malfenti ha quattro figlie, tutte col nome iniziante per A: Ada, Alberta, Augusta ed Anna.
Così come cerca un padre, Zeno allo stesso modo cerca una moglie, sostituta della madre, persa quando lui aveva appena quindici anni. Le quattro ragazze sono quindi interscambiabili, ma questo certo non può ammetterlo né allo psicoanalista né a se stesso. D’altra parte è evidente nella lettura del brano come egli non cerchi di conquistare una donna, ma solo di “ottenere” una moglie.
Il fidanzamento è preceduto da un episodio fortemente significativo, che avviene durante una seduta spiritica, organizzata, tra l’altro, da colui che diventerà il suo antagonista in amore:

Mi piaceva ch’egli continuasse ad occuparsi del tavolino. Oramai era evidente che Ada si rassegnava di portare quasi tutto il mio peso! Se non m’avesse amato non m’avrebbe sopportato. Era venuta l’ora della chiarezza. Tolsi la mia destra dal tavolino e pian pianino le posi il braccio alla taglia: «Io vi amo, Ada!» dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire meglio. La fanciulla non rispose subito. Poi, con un soffio di voce, però quella di Augusta, mi disse: «Perché non veniste per tanto tempo?» La sorpresa e il dispiacere quasi mi facevano crollare dal mio sedile. Subito sentii che se io dovevo finalmente eliminare quella seccante fanciulla dal mio destino, pure dovevo usarle il riguardo che un buon cavaliere quale son io, deve tributare alla donna che lo ama e sia dessa la più brutta che mai sia stata creata. Come m’amava! Nel mio dolore sentii il suo amore.

Si tratta di un vero e proprio lapsus freudiano, cioè un conflitto psichico per cui vi è un contrasto tra esigente interne e ciò che volontariamente desideriamo; in altre parole una vera e propria rimozione. Questo è per chiarire che l’atteggiamento di Zeno, alquanto goffo all’interno di casa Malfenti, risponde ad una esigenza già maturata al suo interno, ma della quale non si vuole rendere conto.

Egli chiede ad Ada di sposarlo, ma sa che ciò non potrà mai avvenire: è bella, seria, ha qualità impari rispetto alla debolezza di lui, e ciò gli avrebbe richiesto un continuo sforzo morale, che egli non può sostenere. Alberta, che vuole continuare gli studi, lo avrebbe messo di fronte alle sue responsabilità di eterno studente; appunto l’unica è la non bella Augusta, la quale, tuttavia finirà per essere, per lui, la moglie ideale. E lo è in quanto possiede una salute “malata”, così come la definisce nel IV capitolo, quello dedicato alla sua relazione extraconiugale: 
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La famiglia di Svevo al completo

LA PERSONIFICAZIONE DELLA SALUTE

Nella mia vita ci furono varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità. Mai però tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta che mi stupì: io amavo Augusta com’essa amava me. Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e m’aspettavo che la seguente fosse tutt’altra cosa. Ma una seguiva e somigliava all’altra, luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche – ciò ch’era la sorpresa – mia. Ogni mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco diretto da altri, ma un uomo abilissimo. E vedendomi stupito, Augusta mi diceva: «Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che il matrimonio è fatto così? Lo sapevo pur io che sono tanto più ignorante di te!»
Non so più se dopo o prima dell’affetto, nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad Augusta ch’era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi capelli di Augusta.
Altro che il suo rossore! Quando questo sparve con la semplicità con cui i colori dell’aurora spariscono alla luce diretta del sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra, quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell’ordine o che altrimenti a tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia che usavo quando si trattava di spiritismo. Questo poteva essere e poteva perciò esistere anche la fede nella vita.
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola, da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicesse tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s’intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall’infettare chi a me s’era confidato. Anche perciò, nello sforzo di proteggere lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.
Essa sapeva tutte le cose che fanno disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non occorreva mica avere il mal di mare! Tutt’altro! La terra girava, ma tutte le altre cose restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano un’importanza enorme: l’anello di matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto indossare di giorno, né quando io non m’adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si trovavano sempre al loro posto.
Di domenica essa andava a Messa ed io ve l’accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l’immagine del dolore e della morte. Per lei non c’era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi andava anche in certi giorni festivi ch’essa sapeva a mente. Niente di più, mentre se io fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C’erano un mondo di autorità anche quaggiù che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a quel suo rispetto. Poi v’erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii regolari per salvarci quando – Dio non voglia – ci avesse a toccare qualche malattia. Io ne usavo ogni giorno di quell’autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio atroce destino quando la malattia mortale m’avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche allora, appoggiata solidamente lassù e quaggiù, per lei vi sarebbe stata la salvezza.
Io sto analizzando la sua salute, ma non ci riesco perché m’accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone, comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d’istruzione per guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.

Augusta, (come il padre d’altronde) rappresenta le certezza, sicura ad ogni verità precostituita: non domanda il perché delle cose, le vive. A Zeno ciò lo conforterebbe, potrebbe, se così si può dire, approdare anche lui a tutte quelle certezze che la moglie gli mette di fronte: l’istituzione matrimoniale, la Chiesa e lo Stato: se il protagonista ci fosse arrivato, sarebbe diventato un ottimo borghese e padre di famiglia (come il signor Cosini). Ma notiamo come nel narratore Svevo e quindi anche nel protagonista, vi sia quasi una forma d’irrisione nel mettere in rilievo la sua limitatezza culturale: Augusta non ha profondità, non ha pensiero, vive ne presente, contentandosi di ciò che questo presente le offre.
Ma per Svevo, chi rimane ancorato a tale presente, risulterà infine perdente, perché rimarrà inquinato dai veleni, non avendo possibilità di difendersi; ecco allora come la personificazione della salute, alla fine, sia una vera e propria “malattia”. Zeno, rimanendo fuori, cioè sapendo criticare il meccanismo di tale vita, potrà infine salvarsi.
Di vero e proprio atto mancato si parla al VII capitolo, dedicato all’associazione commerciale. Infatti, dopo il suo matrimonio e quello di Ada e Guido, quest’ultimo si dimostra un pessimo uomo d’affari. Giocando in borsa, dilapida il patrimonio lasciatogli dal padre e quindi finge un tentativo di suicidio per ottenere un aiuto finanziario dalla famiglia di lei; oltre agli affari, anche il matrimonio con Ada sembra vada verso una irreparabile crisi. Si rimette a giocare in borsa e le cose, invece di migliorare, peggiorano. Con le dovute precauzioni simula di nuovo un tentativo di suicidio, a cui, questa volta, la moglie non crede. Accortasi del reale pericolo cui corre il marito, nel momento in cui chiama il dottore, è troppo tardi. Tutti i debiti di Guido sono ora sulle spalle di Zeno. Lo stesso assicura a sua cognata il suo aiuto e la partecipazione ai funerali di suo marito:

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Vecchia foto di un funerale dei fratelli Alinari 

AL FUNERALE

Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini* di proseguire nel gioco iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodì e fu subito accettata da me. L’accettai con una gioia tale come se così fossi riuscito di far rivivere il mio amico. Finì che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro: Rio Tinto, South French e così via.
Così s’iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita. Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giù l’ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti.
Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse più ritenuto buono per impegni ulteriori. Invece per varii giorni non si attribuì quella morte a suicidio.
Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti, fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante. Ricordo quell’agitazione come un vero e proprio lavoro. Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte. Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile. Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva. Persino le mie notti furono insonni.
Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l’opera di salvataggio cui m’ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse. Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione. Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m’aveva subito assecondato. Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l’esposizione del mio danaro. Fin qui m’accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui. Soffersi tanto di quell’agitazione, che non giuocai mai più in Borsa per conto mio.
Ma a forza di “succhiellare” (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido. La cosa avvenne così. Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto. Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita. Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio. Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensì ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta. Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario. Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch’egli restasse nell’affare con la sua ambizione.
Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.
Partimmo dall’ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti. All’altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada. Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale. E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare. Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell’andatura lenta della vettura. Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.
«Per il momento» dissi io, e non so perché arrossissi, «io non lavoro che per conto del mio povero amico.» Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi: «Poi penserò a me stesso.» Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico.
Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: “Non mi metterò mai in mano tua!” Egli si mise a predicare.
«Chissà se si può cogliere un’altra simile occasione!» Dimenticava d’avermi insegnato che alla Borsa v’era l’occasione ad ogni ora.
Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa. La vettura continuava a procedere dietro al funerale che s’avviava al cimitero greco. «Il signor Guido era greco?» domandò sorpreso.
Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s’avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.
«Può essere che sia stato protestante!» dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d’aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.
«Dev’essere un errore!» esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.
Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.
«Ci siamo sbagliati!» esclamò.
Quando arrivò a frenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri. Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l’ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro!
Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m’era difficile di sopportare i suoi rimproveri. Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva più la Borsa, che il funerale. Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l’entrata del cimitero cattolico. La vettura ci seguì. M’accorsi che i superstiti dell’altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell’estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul più bello.
Il Nilini spazientito mi precedeva. Domandò al portiere dopo una breve esitazione: «Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?»
Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica.
Rispose che non lo sapeva. Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell’ultima mezz’ora due funerali.
Perplessi ci consultammo. Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori. Allora decisi per mio conto. A me non era permesso d’intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla.
Dunque non sarei entrato in cimitero. Ma d’altronde non potevo rischiare d’imbattermi nel funerale, ritornando. Rinunziavo perciò ad assistere all’interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola.
Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch’egli conosceva.
Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio. Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva: dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli. Quando avrei informata Ada ch’ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio. Era perciò esatto. Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m’avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale.
Quel giorno il tempo s’era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l’aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel movimento che non m’ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto salute e forza. La salute non risalta che da un paragone.
Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me, anche la campagna dall’erba giovine. L’estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell’altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata.
Era certo che quanto più ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto più discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo. Ma questa era la previsione dell’esperienza ed io non la ricordai; m’afferra solo ora che scrivo. In quel momento c’era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.
Il mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero.
Scendendo dalla collina di Servola s’affrettò fin qui quasi alla corsa. Giunto al passeggio di Sant’Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità. L’aria mi portava.
Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso. Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.
*Sensale negli affari commerciali di Guido

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La famosa frase che Zeno rivolge a Guido

Il rapporto che Zeno prova per Guido è forte di valenze psicanalitiche e questo passo ce le svela tutte. Lo abbiamo incontrato al tempo del fidanzamento di Zeno: sappiamo che sin da subito gli è apparso come il rivale, colui che gli ha strappato l’amore per la più bella e che a mostrato a lei la sua capacità di perfetto suonatore di Bach col violino, facendo a lui fare una figura ben più penosa come semplice dilettante. E’ il momento forse del massimo odio nei suoi confronti, odio certo provato a livello inconscio, che viene ribaltato nelle più eclatanti proteste d’amicizia. Si dichiara tanto amico di Guido, ma non fa nulla per salvarlo dal suo disastro finanziario (e lo poteva ben fare, lo rimprovera, in seguito, Ada): è come volesse vedere il suo trionfo rispetto al fallimento dell’amico e lo riscattasse, nei confronti di Ada, verso quell’amore sin dall’inizio non accettato.
Ed è proprio l’immane senso di colpa, che, dopo morto, prova nei confronti del cognato, che lo porta a farsi carico di tutti i suoi problemi finanziari: è che Zeno ha una fortuna sfacciata e giocando in Borsa, riesce a recuperare la metà di quanto dilapidato da Guido. E’ talmente preso dai conti finanziari che, presa una carrozza, solo alla fine si rende conto che sta seguendo un funerale sbagliato.
E’ evidente che consciamente può dire che, distratto, ha sbagliato funerale (le carrozze sono tutte nere), ma è certo che consapevolmente al funerale del suo nemico (per non essere scoperto) non voglia andare.
E’ evidente dal senso di gioia che prova ad allontanarsi da quel luogo, dal sentirsi pienamente libero e vitale, lontano da qualsiasi antagonista in vista. Ma sotto è il senso di trionfo che lo eccita: ora può dire a tutta la famiglia Malfenti, che non può perdonare la sua assenza al funerale, che lo ha fatto per salvare la memoria di Guido e la sorte di Ada, che ora è lui l’unico e vero signore della casa che ha preso il posto, in forma anche autorevole, del signor Malfenti.
Ma quando Ada gli dirà la verità, egli inutilmente protesterà la sua innocenza, perché inconsciamente sa che è vera, se da vecchio ancora gli pesa.

La verità della scrittura psicoanalitica sveviana è nell’ultimo capitolo, intitolato Psico-analisi, passo fondamentale per comprendere l’intero romanzo. Egli, dopo aver ricevuto la diagnosi dal dottor S. (alla quale non crede neanche un po’), il complesso edipico, cioè l’innamoramento verso la madre e il desiderio d’ammazzare il padre, decide di smettere la psicoanalisi, convinto di non essere affatto guarito.

LA MEMORIA

Il dottore presta una fede troppo grande anche a quelle mie benedette confessioni che non vuole restituirmi perché le riveda. Dio mio! Egli non studiò che la medicina e perciò ignora che cosa significhi scrivere in italiano per noi che parliamo e non sappiamo scrivere il dialetto. Una confessione in iscritto è sempre menzognera. Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo! Se egli sapesse come raccontiamo con predilezione tutte le cose per le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle che ci obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! È proprio così che scegliamo dalla nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto.
Il dottore mi confessò che, in tutta la sua lunga pratica, giammai gli era avvenuto di assistere ad un’emozione tanto forte come la mia all’imbattermi nelle immagini ch’egli credeva di aver saputo procurarmi. Perciò anche fu tanto pronto a dichiararmi guarito.
Ed io non simulai quell’emozione. Fu anzi una delle più profonde ch’io abbia avuta in tutta la mia vita. Madida di sudore quando l’immagine creai, di lagrime quando l’ebbi. Io avevo già adorata la speranza di poter rivivere un giorno d’innocenza e d’ingenuità. Per mesi e mesi tale speranza mi resse e m’animò. Non si trattava forse di ottenere col vivo ricordo in pieno inverno le rose del Maggio? Il dottore stesso assicurava che il ricordo sarebbe stato lucente e completo, tale che avrebbe rappresentato un giorno di più della mia vita. Le rose avrebbero avuto il loro pieno effluvio e magari anche le loro spine.
È così che a forza di correr dietro a quelle immagini, io le raggiunsi. Ora so di averle inventate. Ma inventare è una creazione, non già una menzogna. Le mie erano delle invenzioni come quelle della febbre, che camminano per la stanza perché le vediate da tutti i lati e che poi anche vi toccano. Avevano la solidità, il colore, la petulanza delle cose vive. A forza di desiderio, io proiettai le immagini, che non c’erano che nel mio cervello, nello spazio in cui guardavo, uno spazio di cui sentivo l’aria, la luce ed anche gli angoli contundenti che non mancarono in alcuno spazio per cui io sia passato.
Quando arrivai al torpore che doveva facilitare l’illusione e che mi pareva nient’altro che l’associazione di un grande sforzo con una grande inerzia, credetti che quelle immagini fossero delle vere riproduzioni di giorni lontani. Avrei potuto sospettare subito che non erano tali perché, appena svanite, le ricordavo, ma senz’alcun’eccitazione o commozione. Le ricordavo come si ricorda il fatto raccontato da chi non vi assistette. Se fossero state vere riproduzioni avrei continuato a riderne e a piangerne come quando le avevo avute. E il dottore registrava. Diceva: “Abbiamo avuto questo, abbiamo avuto quello”. In verità, noi non avevamo più che dei segni grafici, degli scheletri d’immagini.
Fui indotto a credere che si trattasse di una rievocazione della mia infanzia perché la prima delle immagini mi pose in un’epoca relativamente recente di cui avevo conservato anche prima un pallido ricordo ch’essa parve confermare. C’è stato un anno nella mia vita in cui io andavo a scuola e mio fratello non ancora. E pareva fosse appartenuta a quell’anno l’ora che rievocai. Io mi vidi uscire dalla mia villa una mattina soleggiata di primavera, passare per il nostro giardino per scendere in città, giù, giù, tenuto per mano da una nostra vecchia fantesca, Catina. Mio fratello nella scena che sognai non appariva, ma ne era l’eroe. Io lo sentivo in casa libero e felice mentre io andavo a scuola. Vi andavo coi singhiozzi nella gola, il passo riluttante e, nell’animo, un intenso rancore. Io non vidi che una di quelle passeggiate alla scuola, ma il rancore nel mio animo mi diceva che ogni giorno io andavo a scuola ed ogni giorno mio fratello restava a casa. All’infinito, mentre in verità credo che, dopo non lungo tempo, mio fratello più giovine di me di un anno solo, sia andato a scuola anche lui. Ma allora la verità del sogno mi parve indiscutibile: io ero condannato ad andare sempre a scuola mentre mio fratello aveva il permesso di restare a casa. Camminando a canto a Catina calcolavo la durata della tortura: fino a mezzodì! Mentre lui è a casa! E ricordavo anche che nei giorni precedenti dovevo essere stato turbato a scuola da minaccie e rampogne e che io avevo pensato anche allora: a lui non possono toccare. Era stata una visione di un’evidenza enorme. Catina che io avevo conosciuta piccola, m’era parsa grande, certamente perché io ero tanto piccolo. Vecchissima m’era sembrata anche allora, ma si sa che i giovanissimi vedono sempre vecchi gli anziani. E sulla via che io dovevo percorrere per andare a scuola, scorsi anche i colonnini strani che arginavano in quel tempo i marciapiedi della nostra città. Vero è che io nacqui abbastanza presto per vedere ancora da adulto quei colonnini nelle nostre vie centriche. Ma nella via che io con Catina quel giorno percorsi, non ci furono più non appena io uscii dall’infanzia.
La fede nell’autenticità di quelle immagini perdurò nel mio animo anche quando, presto, stimolata da quel sogno, la mia fredda memoria scoperse altri particolari di quell’epoca. Il principale: anche mio fratello invidiava me perché io andavo a scuola. Ero sicuro d’essermene avvisto, ma non subito ciò bastò ad infirmare la verità del sogno. Più tardi gli tolse ogni aspetto di verità: la gelosia in realtà c’era stata, ma nel sogno era stata spostata.
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Il divano nello studio di Freud

Fra scrittura e memoria Svevo individua subito una frattura, tanto più quando la scrittura non è nella lingua madre: l’autore ricorda in triestino, traduce in italiano: già il tradurre è un tradire o meglio scegliere dalla memoria ciò che si è in grado di dire. Ora se l’intero suo testo è memoriale per ordine del dottor S. sarà pieno di rimozioni o volontarie bugie. Su quest’ultima espressione bisogna tuttavia sottolineare che, se bugia esiste, essa non nasce come consapevole menzogna, ma come trasfigurazione che la memoria opera nel presente. La memoria infatti viene alterata nel momento in cui viene rievocata, fondendosi in una realtà psichica, capace di nascondere gli impulsi psichici di volta in volta disturbanti. Questo può produrre delle vere e proprie “invenzioni” che, in quanto frutto di un processo mentale, diventano delle vere e proprie realtà.
A tale scopo rievoca un episodio infantile: Zeno e il fratello di un anno più piccolo; all’inizio dell’attività scolastica, accompagnato dalla fantesca, Zeno si reca a scuola, struggendosi dall’invidia, perché suo fratello sta, tranquillo a casa. La gelosia provata si deposita nell’inconscio e non si cancella sapendo che, passato un anno, anche lui andrà a scuola. Tale immagine permane, per meglio dire, permane il sentimento: possono cambiare alcuni dettagli di contorno, ma l’impressione psichica no, anche se, in età adulta viene a sapere che anche il fratello era geloso di lui, perché Zeno andava a scuola mentre lui doveva rimane rinchiuso a casa.
E’ la risposta di Svevo al problema della memoria posto, negli stessi anni, nella À la recherche du temps perdu (Alla ricerca del tempo perduto) di Marcel Proust. Per l’autore triestino passato e presente coesistono, come anche il tempo della rievocazione: si ci porta sempre dentro qualcosa di sé e si è oggi la fusione di passato e presente, si è cioè essere molteplici, dalle più sfacciate personalità.

L’ultima pagina del romanzo è forse quella più famosa:

LA VITA E’ INQUINATA ALLE RADICI

La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza… nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Questa pagina è preceduta dalla presa d’atto della guarigione di Zeno, o meglio della sua “creduta” guarigione. In fondo è proprio della psicoanalisi fingersi guarito per interrompere la terapia o per dichiarare incompetente il terapeuta stesso (resistenza).
A guarirlo è stata l’attività commerciale, che lo ha reso speculatore durante il periodo bellico e post bellico e lo ha fatto diventare un ricco borghese, come quelle figure contro cui da giovane si poneva, come il padre o il signor Malfenti. Ora è egli ha raggiunto la serenità, determinata dalla piena consapevolezza che non si può guarire dalla malattia, anzi è la stessa malattia a farlo vincente.
Capovolgendo la teoria schoperanhiana è il “malato”, proprio perché è inserito all’interno di una società completamente malata. Ora se il darwinismo affermava la capacità d’adattamento come quella che porta avanti la specie, soltanto chi, come Zeno, non ha certezze stabili, può mutare e quindi salvarsi. Come ha detto in un passo precedente, Augusta possiede una salute “malata”.
La società si è ammalata, da quando ha smesso di essere natura ed è diventata cultura: da quando cioè ha costruito il progresso e con esso le armi di distruzione.
Basterà quindi che uno, più malato degli altri, faccia deflagrare l’intero mondo e il seme della malattia si estinguerà, per ricrearsi “vergine”, senza alcuna malattia.

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 Johnny Dorelli nella parte di Zeno Cosini in uno sceneggiato televisivo del 1988

 

MARCO VALERIO MARZIALE

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Marco Valerio Maestrale

Epigramma
Etimologicamente la parola “epigramma” significa “scrivo sopra” quindi iscrizione. Sin dai tempi dall’antica Grecia, troviamo attestata tale forma, in vario metro, con intenti pratici e celebrativi (funerari, votivi, di commemorazione di persone o eventi).
Solamente in età tarda, tuttavia, esso viene codificato:

  • Componimento breve;
  • Libertà metrica (con prevalenza del distico elegiaco);
  • Argomenti vari (soprattutto d’argomento privato o soggettivo)
  • Estrema eleganza formale.

A Roma l’epigramma appare tra il II ed il I sec. a. C. nel cosiddetto circolo dei neoterici, tra i quali spicca la poesia di Catullo; ed è a questo tipo di poesia che si ispira Marziale, che adotta, proprio per la sua opera, il termine “epigramma”, codificandolo sia nel contenuto che nella varietà metrica.

Notizie biografiche
Le notizie biografiche di Marco Valerio Marziale le deduciamo sia dalla sua opera che dal contemporaneo ed amico Plinio il Giovane attraverso una lettera.
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Bilbilis (oggi Catalayud) città natale di Marziale: teatro romano

Nasce nella Spagna Terraconense nella città di Bìlbilis tra il 38 e il 41. Dopo aver appreso i primi rudimenti nella terra d’origine, intorno ai vent’anni giunge a Roma, per intraprendere, forse, studi notarili. Viene accolto in città dalla colonia spagnola, che faceva riferimento alla famiglia dei Pisoni. Diviene pertanto amico di Seneca, Lucano e Persio. Ma la scure nerioniana che si era abbattuta sui principali esponenti della colonia spagnola, gli fa assumere un basso profilo; inizia per lui un oscuro periodo in cui, diventato cliens, cerca protezione in uomini facoltosi che gli permettono di sostentarsi.

E’ intorno agli 80, sotto l’impero di Tito, che ottiene successo attraverso il Liber de spectaculis o Liber spectaculorum. La notorietà acquisita fa sì che l’imperatore gli conceda il ius trium liberorum (un beneficio in denaro per chi aveva tre figli, poi esteso anche ad altre categorie); sotto Domiziano divenne addirittura tribunus militum che gli concedeva l’accesso alla classe dei cavalieri. Nonostante il successo dei suoi libri, che pubblica ogni anno, e le cariche ricoperte, egli rimane sia economicamente che psicologicamente un subordinato. Si allontana per un breve periodo in Emilia, ma sente nostalgia per la città in cui torna a vivere. La morte di Domiziano, verso cui si era speso in sperticati elogi, lo rende, se non proprio inviso, indifferente alla nuova dinastia, quella di Nerva e di Traiano. Decide pertanto di tornare a Bìlbis, con i soldi dell’amico Plinio e, con l’aiuto di una ricca vedova, entrerà in possesso di una casa in campagna, dove continuerà a scrivere (produrrà l’ultimo libro di epigrammi) e dove chiuderà gli occhi tra il 101 e il 104.

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Edizione del 1617

Epigrammi
L’opera di Marziale ci è giunta suddivisa in quindici libri:

  • Liber de spectaculis, composto per l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio, consta di circa una trentina di epigrammi, in cui elogia l’opera, i giochi ce vi si effettuano e l’imperatore che ne ha permesso e terminato la realizzazione.

ESALTAZIONE DEL COLOSSEO
(1, 1)

Barbara pyramidum sileat miracula Memphis,
Assyrius iactet nec Babylona labor;
nec Triviae templo molles laudentur Iones,
dissimulet Delon cornibus ara frequens
aere nec vacuo pendentia Mausolea
laudibus inmodicis Cares in astra ferant.
Omnis Caesareo cedit labor Amphitheatro,
unum pro cunctis fama loquetur opus.

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Il Colosseo in un disegno del Piranesi (1720- 1778)

La barbara Menfi non parli dei miracoli delle piramidi, / la fatica degli Assiri non si vanti dei giardini di Babilonia; / i molli Ioni non siano lodati per il tempio di Diana, / l’altare ricco di corna non esalti Delo; / il Mausoleo sospeso nell’aria vuota / non sollevi i Carii fino alle stelle con lodi senza misura. / Tutte le meraviglie del mondo cedono all’anfiteatro di Cesare: / la fama ricorderà un solo capolavoro per tutti.

L’epigramma proemiale del primo libro ci dà la misura sia dell’esaltazione del manufatto che dell’artefice: se il Colosseo è inserito nelle canoniche meraviglie dell’antichità, non manca l’esaltazione del tempio di corna di cervo da parte di Apollo, quindi, a livello mitico, di un dio; ne nasce il parallelismo Apollo-Tito da cui la divinizzazione in vita dell’imperatore.

La seconda parte dell’opera è invece costituita da 12 libri di epigrammi, pubblicati uno per anno. Non vi è una particolarità tematica tra i vari libri, ma una unità del “sentire” e quindi del costruire lessicalmente e stilisticamente il suo dettato poetico.

Vediamo, innanzitutto, la sua poetica:
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Copertina di un saggio per il centenario di Marziale, pubblicato in Spagna (2004)

HOMINEM PAGINA NOSTRA SAPIT
(X, 4)

Qui legis Oedipoden caligantemque Thyesten,
Colchidas et Scyllas, quid nisi monstra legis?
Quid tibi raptus Hylas, quid Parthenopaeus et Attis,
quid tibi dormitor proderit Endymion?
Exutusve puer pinnis labentibus? aut qui
odit amatrices Hermaphroditus aquas?
Quid te vana iuvant miserae ludibria chartae?
Hoc lege, quod possit dicere vita “Meum est.”
Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyiasque
invenies: hominem pagina nostra sapit.
Sed non vis, Mamurra, tuos cognoscere mores
nec te scire: legas “Aetia” Callimachi.

Tu che leggi la storia di Edipo e di Tieste il tenebroso, / di Colchide e di Scilla, perché leggi solo cose orribili? / Che ci guadagni col rapimento di Ila, con Partenopeo, con Attis / e con il mito di Endimione addormentato? / E con Icaro nudo che perde le penne? E con / Ermafrodito che odia le acque innamorate? / Cosa ci trovi in queste storie false di miseri libri? / Leggi questo di cui la vita possa dire “E’ mio”. / Qui non troverai né Centauri, né Gorgoni, né Arpie: / se la mia pagina ha un sapore, è quello dell’uomo. / Ma tu, Mamurra, non vuoi conoscere le tue abitudini, / non vuoi conoscere te stesso: e allora leggiti gli “Aitia” di Callimaco.

Epigramma estremamente importante perché ci informa esattamente a quale fine tende giungere il nostro poeta: in primo luogo la netta distanza verso la tragedia e l’epica, qui richiamate da personaggi che le caratterizzano ad indicarne l’origine. Infatti per lui tale letteratura non serve, non migliora la vita dell’uomo.

Detto questo la sua poesia, quindi, si pone un fine didattico, di miglioramento della vita umana? A leggere attentamente si direbbe di no: infatti Marziale non intende educare, ma solo rappresentare i vizi, tra i quali inserisce quelli di coloro che leggono monstra per essere intellettuali. D’altra parte è proprio il realismo la cifra stilistica che lo caratterizza sintetizzata da quello che può essere definito un vero e proprio motto hominem pagina nostra sapit; per questo la vita se ne appropria, quasi a dire “è cosa mia”.

PIACERE AL LETTORE
(IX, 81)

Lector et auditor nostros probat, Aule, libellos,
sed quidam exactos esse poëta negat.
Non nimium curo. Nam cenae fercula nostrae
malim convivis quam placuisse cocis. 

O Aulo, un lettore e un uditore approva i nostri libricini, / ma un certo poeta nega che siano perfetti. / Non me ne curo affatto. Infatti le portate della nostra cena / preferirei che risultassero gradite ai convitati piuttosto che ai cuochi.

Altro epigramma che potremmo definire di poetica: si tratta infatti di individuare i lettori. Se bene si riflette sull’epigramma precedente, è evidente che chi apprezza la sua poesia, cioè chi vi cerca in essa il realismo, non può che gradire di più il contenuto, come un commensale, piuttosto che il modo in cui esso è stato preparato, appunto gli artefici; meglio un poeta “semplice” e “non perfetto”, che un poeta inutile.

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Un libro dell’antica Roma

LIBRO O LIBRETTO
(X, 1)

Si nimius videor seraque coronide longus
esse liber, legito pauca: libellus ero.
Terque quaterque mihi finitur carmine parvo
pagina: fac tibi me quam cupis ipse brevem.

Se ti sembro un libro troppo ampio, ove la parola fine / arriva molto tardi, leggi pochi carmi: così diventerò un libretto. / Molto spesso la mia pagine finisce con un piccolo carme: / rendimi tu stesso, per tuo uso, corto quanto vuoi.

Se abbiamo già visto l’argomento ed il pubblico, qui viene trattata l’ampiezza, di cui si rivendica la brevità. Infatti la poesia di Marziale è spesso brevissima, che può chiudersi addirittura in un semplice distico, ma che per questo risulta essere molto icastica, pregnante, capace, cioè, con piccolissimi tratti di penna, d’individuare un tipo, un vizio, una situazione. A tale scopo ricorre spesso, a fine carme ad una piccola clausola, un finale ad effetto si direbbe, con il quale può stravolgere il senso.

Dopo la poetica vediamo i valori di cui è disseminata l’opera: tra i primi vi è l’amicizia, ma quella che qui vediamo è un’amicizia particolare:

GLI AMICI
(1, 54)

Si quid, Fusce, vacas adhuc amari –
nam sunt hinc tibi, sunt et hinc amici –,
unum, si superest, locum rogamus,
nec me, quod tibi sim novus, recuses:
Omnes hoc veteres tui fuerunt.
Tu tantum inspice qui novus paratur
An possit fieri vetus sodalis.

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Un cliente si reca a salutare il suo patrono

Se ti manca ancora qualcuno, o Fusco, dal quale essere amato – / infatti tu hai amici da tutte le parti – / se ti rimane soltanto un posto, / te lo chiedo per me, non mi rifiutare, perché per te sarei nuovo: / per questo tutti i tuoi vecchi sono stati (cioè furono nuovi un tempo). / Tu soltanto guarda chi si presenta nuovo / probabilmente potrebbe diventare un vecchio amico.

Quando i romani parlano d’amicizia si riferiscono sempre a poche persone pauci amici ci ricorda la poesia catulliana, nonché l’epicureismo lucreziano; tale concezione non cambia con il cambiare dell’ideologia filosofica; tale affermazione è rispecchiata anche nel pensiero senecano: l’amicizia pur rivestendo un aspetto maggiormente etico rispetto a quell’affettivo rimane piuttosto ristretta. Qui Fusco, invece, ha amici da tutte le parti. Ciò pertanto ci porta ad affermare che qui Fusco è un patronus a cui Marziale chiede di diventare un nuovo cliens. Perché quando si tratta di amicizia “vera” ecco cosa ci dice il poeta:

VITA FELICE
(10, 47)

Vitam quae faciant beatiorem, 
Iucundissime Martialis, haec sunt:
Res non parta labore, sed relicta;
Non ingratus ager, focus perennis;
Lis numquam, toga rara, mens quieta;
Vires ingenuae, salubre corpus;
Prudens simplicitas, pares amici;
Convictus facilis, sine arte mensa;
Nox non ebria, sed soluta curis;
Non tristis torus, et tamen pudicus;
Somnus, qui faciat breves tenebras:
Quod sis, esse velis nihilque malis;
Summum nec metuas diem nec optes.

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Amici a Roma

Le cose che rendono più bella la vita / sono queste, carissimo Marziale: / un patrimonio non procurato con fatica, ma ereditato; / un campo fertile, un focolare sempre acceso, / mai liti, pochi affari, animo sereno, / forze da uomo libero, salute fisica, / saggia semplicità, amici di pari rango, / conversazione affabile, mensa non sofisticata, / notte senza ubriacature ma anche senza affanni, / non un letto triste, ma non impudico, / un sonno che abbrevi le tenebre, / essere ciò che sei e non preferire nulla, / alla fine né temere né bramare l’ultimo giorno.

Dove appunto gli amici sono di pari grado. Infatti questo epigramma è indirizzato a Giulio Marziale, che egli giudicherà il più saldo tra gli amici. Sono qui presenti elementi oraziani, una prudens simplicitas com’egli dice. Ma non manca nell’ultimo verso un richiamo al carpe diem. Egli inoltre v’inserisce anche la sua vis ironica, nell’affermare, tautologicamente, che è meglio essere ricchi senza lavorare.

In altri epigrammi troviamo la nostalgia per il suo paese , che descriverà con tutti i topoi del locus amoenus.

Ma Marziale ci è noto per il sarcasmo con cui descrive alcuni tipi umani:
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Il matrimonio nell’antica Roma

CACCIATORE D’EREDITA’
(X, 8)

Nubere Paula cupit nobis, ego ducere Paulam
nolo: anus est. Vellem si magis esset anus.

Paola desidera sposarmi. Io sposare Paola / non voglio. Lo vorrei se fosse più vecchia.

Qui il poeta mette in gioco se stesso. Ma la protagonista è la vecchia e l’insaziabile Paola, che vuole il poeta. Ma se così fosse stato, l’epigramma non sarebbe stato che un semplice quadretto di una vecchia laida. Non basta: serve l’arguzia, quel fulmen in clausula che permetta lo scatto “comico” in quanto stravolge l’attesa del lettore.

DA MEDICO A BECCHINO
(I, 47)

Nuper erat medicus, nunc est vispillo Diaulus:
quod vispillo facit, fecerat et medicus.

Diaulo prima era medico, ora becchino, / quello che fa il becchino, era fatto anche dal medico.

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Taberna medicae

Epigramma composto da soli due versi, in cui la satira pungente è determinata dalla duplicità con cui il nostro identifica i due uffici svolti dalla stessa persona, che tuttavia portano alla stessa fine: la morte.

ELIA LA SDENDATA
(I, 19)

Si memini, fuerant tibi quattuor, Aelia, dentes:
expulit una duos tussis et una duos.
Iam secura potes totis tussire diebus:
nil istic, quod agat, tertia tussis habet. 

Se ricordo Elia avevi quattro denti, / un colpo di tosse ne ha espulsi due. / Ormai puoi tossire sicura tutto il tempo / Un terzo colpo di tosse non ha nulla che porti via da lì.

Qui di Marziale emerge il sarcasmo: la descrizione si fa quasi espressionistica con quell’insistere sulla bocca sdentata e quindi sformata della povera donna. Elia sembra quasi sparire: non è la persona, ma propria la bocca a caratterizzarla nella sua bruttezza, quasi a richiamare il senso dell’orrido della satira di Persio.

Altra parte piuttosto ricca della produzione di Marziale occupano gli epigrammi d’amore o espressamente erotici:
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Acquaforte di Enrico Baj per un’edizione degli “Epigramma” di Marziale

DA FANCIULLO A UOMO
(IV, 7)

Cur, here quod dederas, hodie, puer Hylle, negasti,
durus tam subito, qui modo mitis eras?
Sed iam causaris barbamque annosque pilosque.
O nox quam longa es, quae facis una senem!
Quid nos derides? here qui puer, Hylle, fuisti,
Dic nobis, hodie qua ratione vires?

Perchè, giovincello Illo, mi hai negato oggi quello che mi avevi accordato ieri, / crudele così repentinamente tu che poc’anzi eri tanto generoso? / Ma tu già tiri in ballo la barba e l’età che porta la peluria. / O notte, quanto sei lunga tu che da sola rendi uno vecchio! / Che cos’hai da burlarti di me? Dimmi, Illo, tu che fino ad ieri eri un fanciullo, / per qual motivo oggi sei un uomo fatto?

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Acquaforte di Enrico Baj per un’edizione degli “Epigramma” di Marziale

INCOSTANZA D’AMORE
(VI,40)

Femina praeferri potuit tibi nulla, Lycori:
praeferri Glycerae femina nulla potest.
Haec erit hoc quod tu: tu non potes esse quod haec est.
Tempora quid faciunt! Hanc volo, te volui.

Nessuna donna poteva essere preferita a te, o Licoride; / nessuna può essere preferita a Gliceride. / Questa sarà quel che sei tu. Tu non puoi essere quello che è lei. / Che cosa mai fa il tempo! Ho voluto te, (ora) voglio lei.

Come si vede l’amore in Marziale non è mai cantato come sentimento: in lui tutto si riduce a soddisfacimento sessuale, soprattutto rivolto verso i giovinetti piuttosto che verso le donne. Quello che caratterizza tale scelta tematica, a livello stilistico, è in parte la ripresa terminologica, nonché versificatoria, con riferimenti diretti, a quella catulliana (nolo quot basia arguto dedit exorata Catullo Lesbia, non voglio tanti baci quanti Lesbia ha dato all’adorato Catullo che la pregava), in parte l’uso diretto di una terminologia fortemente volgare, dove i termini riferiti al sesso come mentula, vagina, culus o all’atto sessuale vengono a stridere a volte col dettato poetico del nostro. Si ha quasi l’impressione che a volte voglia sollecitare la morbosità del pubblico.

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Antico frontespizio 

Più sincero appare negli epigrammi funerari
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Bassorilievo si sarcofago

PER LA MORTE DI UNA BIMBA
(V, 34)

Hanc tibi, Fronto pater, genitrix Flaccilla, puellam
oscula commendo deliciasque meas,
parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
oraque Tartarei prodigiosa canis.
Impletura fuit sextae modo frigora brumae,
vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi,
terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.

A te padre Fronto, a te madre Flaccilla, questa fanciulla / affido, amore e delizia mia, / affinché il mio piccolo amorino non sia terrorizzata dalle nere ombre / e dalla bocca spaventevole del cane Tartareo. / Sarebbe stata quasi per completare i freddi del sesto inverno / se avesse vissuto altrettanti giorni. / In mezzo a così vecchi patroni giochi allegra / e gridi il mio nome con la bocca balbettante. / I rigidi cespugli non coprano le tenere ossa, né a lei, / terra, sii grave: lei non è stata fatta per te.

E’ proprio all’interno della tradizione epigrammatica seria che Marziale offre le sue prove migliori, in special modo in quelli funerari; si tratta spesso di giovani morti prematuramente, figli di amici o protettori del poeta). Qui il poeta mostra un dolore sincero, una commozione affettuosa che manca nel resto della sua produzione.

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Antoine Callet: Saturnalia (1783)

Gli ultimi due libri, sebbene siano stati composti successivamente il Liber de spectaculis, sono gli Xenia e gli Apophoreta, dedicati, ambedue alla festa dei Saturnali, che si svolgeva dal 17 al 23 dicembre. Durante questa festività si era soliti scambiarsi doni: nel libro degli Xenia vengono raccolti gli scritti, di un solo distico, che accompagnavano i doni degli ospiti, spesso si trattava di cibo. Questi scritti erano richiesti proprio da ricchi facoltosi che i servivano di poeti per accompagnarli con qualche dedica. In quello degli Apophoreta erano invece i doni da portar via, anch’essi accompagnati da brevissime poesiole. Quest’ultimi ci offrono un campionario piuttosto ricco degli oggetti che venivano offerti durante una cena.

L'EPICA NELL'ETA' FLAVIA

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Calliope, musa della poesia epica in un disegno

Uno dei generi che vengono maggiormente curati in età flavia è l’epica: genere alto per definizione. Avrebbe potuto essere necessario per una dinastia “militare” che avrebbe potuto trovare in essa una legittimazione che non poteva certo essere a questo punto garantita dalla gens, ma, come vediamo con la figura di Plinio il Vecchio o Quintiliano, l’interesse del “potere” era maggiormente legato ad opere il cui fine era “pratico” . I principali scrittori epici dell’età flavia, pertanto, legati maggiormente alle recitationes, cercarono attraverso la poesia epica, di riprendere strumenti legati ai topoi di tale genere e chi meglio li aveva utilizzati era certamente Virgilio, e non certo Lucano, che, in qualche modo, ne era stato anche il dissolutore. Guarderanno a lui Silio Italico, Valerio Flacco e, il più importante tra loro, Stazio, ma non riusciranno a liberarsi completamente dell’esperienza precedente, sia a livello tematico che stilistico.

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Silio Italico

Silio Italico, autore campano nato tra il 25/26 d.C., proviene dalla classe senatoria e probabilmente ricopre importanti incarichi sin dai tempi di Nerone (si racconta che in questo periodo svolse la poco onorevole attività di delatore). Sotto Vespasiano è nominato proconsole in Africa; quindi tornato a Roma si ritira a vita privata. La sua opera prende il titolo di Punica ed è il poema epico più lungo della letteratura latina: infatti consta di ben 17 libri che probabilmente in origine dovevano essere 18, ma la malattia dell’autore portò lo stesso a terminarla prima. L’argomento riguarda la seconda guerra punica,  dalla presa di Sagunto da parte dei Cartaginesi alla vittoria di Scipione a Zama, ciò gli permise di utilizzare varie fonti, come il Bellum poenicum di Nevio, gli Annales di Ennio, ma, a livello contenutistico si servì soprattutto del De urbe condita di Livio. A livello stilistico, invece, il suo nume tutelare rimane Virgilio, verso cui prova una vera e propria venerazione, tanto da acquistare un terreno vicino presso Napoli in cui era situato il sepolcro del poeta augusteo, che restaurò. Sin dall’incipit troviamo richiami virgiliani:

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INCIPIT
(1, 1-8)

Ordior arma quibus caelo se gloria tollit
Aeneadum patiturque ferox Oenotria iura
Carthago. Da, Musa, decus memorare laborum
antiquae Hesperiae, quantosque ad bella creavit
et quot Roma viros, sacri cum perfida pacti
gens Cadmea super regno certamina movit,
quaesitumque diu qua tandem poneret arce
terrarum Fortuna caput.

Mi accingo a cantare le armi per cui si eleva al cielo la gloria degli Eneadi e la fiera Cartagine subisce le leggi enotrie. Concedimi, o Musa, di ricordare i gloriosi travagli dell’antica Esperia, e quanti eroi e quanti grandi in guerra Roma creò, quando il popolo di Cadmo slealmente infrangendo il sacro petto mosse guerra per il supremo dominio, e a lungo ci si chiese su quale rocca al-fine la Fortuna ponesse la capitale del mondo.

Già da questo passo si capisce come Silio Italico si rivolgesse a Virgilio: arma del primo verso, ancora memorare del terzo verso e la citazione diretta degli Aeneadum del secondo. Ma non si tratta solo di questo: Silio recupera l’intervento divino nella storia degli uomini, cataloghi di popoli, giochi funebri, cioè tutto l’armamentario attraverso cui l’autore vuole mostrarsi fedele al genere epico sin da quello omerico; ma quello che invece viene a mancare è proprio l’originalità, troppo attento a ripristinare l’epos dopo il terremoto di Lucano. Quello che invece non riesce e a trovare un eroe che desse unitarietà al poema; la figura di Scipione appare sbiadita, rispetto a quella di Annibale: sembra invece quasi ripristinare l’idea liviana che l’unico eroe positivo sia la grandezza dello spirito romano (ma un fatto è che lo dica uno storico, altro un poeta epico).

 Valerio Flacco

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Moneta della Gens Valeria con la vittoria su un lato e Valerio Flacco sull’altro 

Quasi nulla si sa di questo autore se non che visse sotto Vespasiano, a cui dedicò la sua opera, a noi giunta intera: gli Argonautica, rimasto incompiuto all’VIII. Il poeta si rifà alla famosissima opera ellenistica del greco Apollonio Rodio, in cui si racconta la storia di Giasone che, con la sua flotta, va alla ricerca del vello d’oro. La famosissima storia era stata già argomento, oltre che d’Apollonio, dei tragici greci, lo stesso Seneca tragico ci aveva narrato la storia di Medea, follemente innamorata di Giasone e per lui assassina del fratello e dei figli. L’uso dell’epica virgiliana in Valerio è nella ripartizione del suo poema (dapprima il viaggio e poi la guerra), nella descrizione di Medea, che, perde il carattere di maga ed assassina, pur nella sua drammaticità, per acquistare il tono di donna innamorata; ma anche Giasone sembra un novello Enea, ricco di pietas per la patria e gli dei.

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Georg Pencz (1500-1550): Medea and Jason 

VEGLIA DI MEDEA
(VII, 9-20)

“Nunc ego quo casu vel quo sic pervigil usque
ipsa volens errore trahor? Non haec mihi certe
nox erat ante tuos, iuvenis fortissime, vultus,
quos ego cur iterum demens iterumque recordor
tam magno discreta mari? Quid in hospite solo
mens mihi? Cognati potius iam vellera Phrixi
accipiat, quae sola petit quaeque una laborum
causa viro. Nam quam domos has ille reviset
aut meus Aesonias quando pater ibit ad urbes?
Felices mediis qui se dare fluctibus ausi
nec tantas timuere vias talemque secuti
huc qui deinde virum; sed sit quoque talis, abito”.

“Qual è la sorte o meglio la colpa, da cui continuo a volermi far trascinare insonne? Non erano certo così le mie notti prima di vedere il tuo volto, o giovane fortissimo; perché lo richiamo di continuo alla mente io, che un mare così grande divide da lui? Perché i miei pensieri sono solo per lo straniero? A questo punto è meglio che abbia il vello di mio cognato Frisso, unico suo scopo, unica casa delle sue fatiche. Quando mai rivisiterà questa città, quando mio padre si recherà alle città esonie? Felici coloro che hanno osato avventurarsi nel mezzo dei flutti, non hanno avuto timore di intraprendere un viaggio così lungo e hanno seguito fino a qui un eroe così grande; ma, sia pure lui tanto grande, che vada via”.

Il passo ci mostra la ricerca da parte dell’autore di voler capire le traversie psicologiche di Medea, attraverso un’attenta introspezione psicologica. Certo la stessa era già presente nella tragedia di Seneca: ma se in quel monologo (certo dovuto anche al genere) vi era una forte accentuazione drammatica attraverso la dicotomia tra pazzia/amore; in Flacco vi è una maggiore accentuazione patetica, proprio come la Didone virgiliana.

Publio Papinio Stazio

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Dei tre epici dell’età dei Flavi, certamente il più importante è Papinio Stazio, che pur non raggiungendo le vette altissime del mito virgiliano, che egli stesso riteneva ineguagliabile, è, rispetto agli altri due, dotato di maggiore originalità. Napoletano, nacque da un maestro di scuola tra il 40 e il 50 dopo Cristo. Sappiamo che era assai famoso per le recitationes, visto il successo che riusciva ad ottenerne, e che finì la sua vita nella città natale, forse nel 96. E’ autore di due poemi epici, la Tebaide (giunta intera) e l’Achilleide (interrotta all’inizio del II libro a causa del decesso dell’autore); ma fu anche poeta d’occasione, componendo, con estrema facilità, piccole poesiole, che poi furono raccolte sotto il titolo di Silvae.

Le Silvae

Il titolo sembra alludere all’estrema varietà metrica e contenutistica di questi componenti, scritti per lo più per i benefattori e i patroni che il poeta ringrazia in tal modo. Esistono anche componenti dedicati direttamente a Domiziano. E’ una raccolta che, più che per valore letterario, è importante per il preciso quadro sociale della Roma imperiale che ci offre. La capacità di Stazio sta tutta nel saper adattare metri di varia natura a situazioni particolari, dandoci inoltre, nella sua preziosità, il fasto e la ricchezza della “nobiltà” di quell’epoca. Questo ha poi pesato sul giudizio dell’opera, che non è riuscita a trovare particolari estimatori futuri, anche per l’eccessiva adulazione che talvolta vi troviamo, come in questo piccolo frammento:

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Le opere di Stazio in un volume del 1840

RINGRAZIAMENTO PER UN INVITO A CENA
(IV, 2, 12-17)

(…) Steriles transmisimus annos:
haec aevi mihi prima dies, hic limina vitae.
Tene ego, regnator terrarum orbisque subacti
magne parens, te, spes hominum, te, cura deorum,
cerno iacens? datur haec iuxta, datur ora tueri
vina inter mensasque, et non assurgere fas est?

Gli anni da me fin qui trascorsi sono stati vissuti invano. Questo è il primo giorno della mia età, questo è l’inizio della mia vita. Sei proprio tu, re della terra e grande padre del mondo a te sottomesso, sei proprio tu, speranza dell’umanità; sei proprio tu, speranza de-gli dei, quello che io vedo standomene adagiato sulla mensa? Mi è dunque concesso ciò, mi è concesso veder da vicino, tra vini e vivande, il tuo volto, senza che sia considerato atto sacrilego il non levarmi in piedi?

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Giovanni Silvagni (1790 – 1853): Eteocle e Polinice

La Tebaide

La Tebaide è l’opera certamente più famosa di Stazio, un poema epico-mitologico in dodici libri (come quelli dell’“Eneide”). Viene qui ripreso il mito del ciclo tebano che vedeva la maledizione di Edipo abbattersi sui suoi figli, Eteocle e Polinice, che lottarono per il possesso di Tebe. Infatti si era stabilito che la città fosse governata annualmente da uno dei fratelli; ma quando terminò il periodo di Eteocle, quest’ultimo non volle cedere la carica al fratello, che, radunate le forze (si ricorda qui la figura di Capaneo, per il rilievo datogli da Dante), lo assalì. Infine i due fratelli, trovatisi di fronte nel combattimento, si uccisero l’un l’altro e si narra che l’odio continuasse anche dopo la morte, essendosi i due roghi, su cui bruciavano, divisi.

Da ciò che si è detto sinora, notiamo subito come Stazio riprenda, scavalcando Lucano, il mito come argomento fondamentale di un poema epico: infatti egli ripropone, con forza, l’intervento del divino sull’umano: tuttavia, il modo attraverso cui lo fa, lascia intravedere come, in lui, tale intervento non sia così partecipato, viceversa, diventi, “pessimisticamente” sinonimo di fato, destino, di fronte al quale l’uomo difficilmente può opporsi. Inoltre sempre rifacendosi a Virgilio, questa volta a livello formale, egli riprende la sua divisione in dodici libri e la ormai classica ripartizione tra i primi sei, in cui si racconta il viaggio di Polinice e dei suoi verso Tebe, e i secondi sei, in cui si narra la guerra. Inoltre, sempre richiamandosi al poema di Virgilio, che a sua volta si era riferito all’Iliade omerica, ricanta i giochi funebri, i cataloghi degli eserciti, suppliche, elementi che diventeranno veri e propri topoi della tradizione epica “classica”. Questa “classicità” Stazio vuole rifondare e quindi il suo riferimento sarà il grande autore augusteo, come egli dichiara apertamente:

ENEIDE DIVINA
(XII, 816-819)

Vive, precor; nec tu divinam Aeneida tempta,
sed longe sequere et vestigia semper adora.
Mox, tibi si quis adhuc praetendit nubila livor,
occidet, et meriti post me referentur honores.

Possa la tua vita essere lunga! Non cercare però di gareggiare con l’Eneide divina, ma se-guila da lontano, e venera sempre le sue orme. Se ancora l’invidia ti offusca col suo velo, presto avrà fine, e dopo la mia morte, ti saranno resi gli onori che meriti.

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Il poeta Stazio visto da Luca Signorelli

Tuttavia, oltre a Virgilio, Stazio sembra riferirsi anche a chi questo mito lo aveva già raccontato, come i tragici greci e il Seneca tragico. D’altra parte l’argomento, la lotta tra i due fratelli, ci rimanda inevitabilmente, all’altro poema epico, che certamente Stazio, pur non approvandolo, conosceva perfettamente, cioè il Pharsalia di Lucano. L’opera neroniana, infatti, non ha, come questa, un solo protagonista, ma due e se nel primo si parlava di cognatas acies qui si arriva a parlare di fraternas acies:

PROEMIO
(I, 1-6)

Fraternas acies alternaque regna profanis 
decertata odiis sontisque evolvere Thebas,
Pierius menti calor incidit. Unde iubetis
ire, deae? Gentisne canam primordia dirae,
Sidonios raptus et inexorabile pactum
legis Agenoreae scrutantemque aequora Cadmum?

Le lotte fraterne e i regni alterni contesi, e Tebe colpevole, ardore Pierio* m’ispira a narrare. Da dove volete, dee, ch’io cominci? Dovrò cantare l’origine prima della stirpe maledetta, i ratti Sidonii e l’inflessibile patto imposto da Agenore e le ricerche di Cadmo* attraverso i mari?
*Monte Pierio, abitato dalle Muse
*Cadmo, figlio di Agenore, nella ricerca della sorella Europa, rapita da Zeus (ratti Sidonii) fondò la città di Tebe.

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Achille con Tirone

L’Achilleide

Se la Tebaide, come ci testimonia Dante ponendo il suo autore nel Purgatorio (girava la falsa voce che Stazio si fosse, in tarda età, convertito al cristianesimo), ebbe enorme risonanza nel Medioevo, non così fu per l’altro poema, purtroppo appena abbozzato, l’Achilleide. In quest’opera si narra la vita del giovane Achille, quando è nascosto dalla madre Teti a Sciro, affinché non fosse reclutato dai Greci per la battaglia contro i Troiani. Stazio quindi ci racconta solo del fatto che fosse travestito da donna, che si fosse innamorato della figlia del re e che fu infine riconosciuto da Ulisse. E’ certamente un periodo della vita di Achille che meglio si adatta a forme elegiache, a tinte pastello per intenderci, che permettono una leggerezza assai piacevole. Ma sapen-do che aveva intenzione d’arrivare fino alla morte di Ettore e quindi raccontare tutta la vicenda guerresca dell’eroe, lo avrebbe certamente condotto a toccare temi più elevati e a doversi confrontare, pericolosamente, con l’Iliade omerica.

LUIGI PIRANDELLO

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Luigi Pirandello nasce a Girgenti (l’attuale Agrigento) nella notte del 28 giugno nel 1867, da Stefano, speculatore del mercato dello zolfo e Caterina Ricci Gramitto, di famiglia antiborbonica. Studia dapprima all’università di Palermo discipline scientifiche per volere del padre, poi, nel 1887 si trasferisce a Roma dove si iscrive alla facoltà di lettere. Per uno scontro con il professore di latino dell’Università e su consiglio del professore di filologia romanza, deve infine trasferirsi in Germania, e più precisamente a Bonn dove si laurea nel 1891 con una tesi sui dialetti greco-siculi. Sono di questi anni due raccolte di poesie, pubblicate una Palermo, nell’anno del trasferimento a Roma (Mal giocondo) e l’altra per un’infatuazione per una ragazza tedesca (Pasqua di Gea).

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Girgenti

Ritornato a Roma nel 1892 ed entrato a contatto con altri intellettuali meridionali, tra cui Luigi Capuana, intraprende la carriera letteraria, grazie anche ad un assegno che il padre mensilmente gli invia. Il critico sicilano lo incoraggia sia a pubblicare novelle su riviste la cui prima raccolta è Amori senza amore (1894) sia per i romanzi L’esclusa (1901) che, sotto l’apparente struttura verista, mostra già il nucleo del suo pensiero, cioè la contraddittorietà tra ciò che sembra e ciò che è, ed il romanzo breve Il turno (1902). 

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Pirandello giovane

Nel 1894 si sposa, con un matrimonio concordato dalle famiglie, con Maria Antonietta Portulano, da cui avrà, tra il 1895 ed il 1899 tre figli: Stefano, Rosalia, detta Lietta e Fausto e nel 1897 ottiene come supplente la cattedra nel Magistero di Roma come docente di Letteratura italiana. Nel 1903 un grave dissesto economico, a causa dell’allagamento di una miniera di zolfo su cui Luigi aveva investito l’intera dote della moglie, provoca una crisi sul già fragile equilibrio mentale della sua signora che infine sfocerà in una vera e propria pazzia che si concretizza in crisi ossessive di gelosia (questo fatto non sarà senza conseguenze nella sua produzione letteraria).

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Maria Antonietta Portulano

Il suo vero primo capolavoro è Il fu Mattia Pascal (1904), scritto mentre Pirandello assiste alla moglie malata; con questo romanzo Pirandello supera definitivamente la concezione realista della letteratura naturalista e verista. Le difficoltà economiche spingono lo scrittore siciliano ad aumentare la sua attività: scrive su riviste ed intensifica la sua produzione: pubblica I vecchi e i giovani (1908), collabora con il Corriere della Sera sul quale appaiono varie novelle e, spinto dal famoso attore siciliano Angelo Musco, comincerà a scrivere per il teatro.

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Angelo Musco

La vita pirandelliana s’incupisce con lo scoppio della prima guerra mondiale. Il figlio Stefano viene fatto prigioniero dagli austriaci e la moglie, la cui pazzia si fa sempre più palese, lo incolpa di averlo lasciato partire e quindi, direttamente, della sua prigionia. Chiuso in casa continua a pubblicare romanzi, I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1915), ma è soprattutto il teatro ad assorbirlo, Pensaci Giacomino, Così è se vi pare, Il berretto a sonagli per citarne alcune, tutte tra il 1916 ed il 1918.
Tra il 1921 e il 1930 Pirandello attua quella che viene definita una vera rivoluzione teatrale con Sei personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto: saranno proprio queste opere a far risuonare il nome dello scrittore siciliano tra i grandi della letteratura mondiale, che culminerà con il premio Nobel per la letteratura nel 1934. Per la narrativa uscirà nel 1925 forse uno dei suoi romanzi più importanti: Uno, nessuno e centomila.

Precedentemente tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta emergono due episodi piuttosto importanti per la vita di Pirandello:

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Marta Abba

  • il primo di ordine sentimentale (l’innamoramento “platonico” per l’attrice Marta Abba, alla quale dedicherà nuove opere teatrali);
  • il secondo di ordine politico: il rapporto con il regime fascista, con la sua adesione al partito, che verrà sanzionato dalla firma al Manifesto degli intellettuali fascisti nel 1929. Da questo momento farà parte all’Accademia d’Italia.

L’ultima fase della produzione pirandelliana è legata alla frenetica sua attività di attento curatore della messa in scena nonché di alcune riduzioni cinematografiche delle sue opere.
Scrive drammi che lui stesso definirà “miti”, La nuova colonia (1927), Lazzaro (1928) e I giganti della montagna (1934).
Muore per una polmonite nel 1936: per suo desiderio il funerale sarà nudo, solitario, ma con le sue ceneri deposte sulla terra di un antico albero della città in cui è nato, nonostante il suo primo desiderio fosse quello di essere cremato.

Come per Pascoli anche per Pirandello dobbiamo partire da un’opera di poetica, concepita sin dal 1897, come saggio scritto per il Concorso per il Regio Istituto superiore di Magistero femminile; rivisto viene pubblicato con il titolo L’umorismo nel 1908, dove emerge la sua concezione estetica:

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Una delle prime edizioni del saggio pirandelliano

POETICA DELL’UMORISMO

Vediamo dunque, senz’altro, qual è il processo da cui risulta quella particolar rappresentazione che si suol chiamare umoristica; se questa ha peculiari caratteri che la distinguono, e da che derivano: se vi è un particolar modo di considerare il mondo, che costituisce appunto la materia e la ragione dell’umorismo.
Ordinariamente (…) l’opera d’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e le imagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispondenza tra loro e con l’idea-madre che le coordina. La riflessione, durante la concezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamente inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressive e ne gode, raccosta i varii elementi, li coordina, li compara. La coscienza non rischiara tutto lo spirito; segnatamente per l’artista, essa non è un lume distinto dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere in lei come in un tesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, in somma, non è una potenza creatrice; ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può dire anzi ch’essa sia il pensiero che vede sé stesso, assistendo a quello che esso fa spontaneamente. E, d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, la riflessione si nasconde, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artista una forma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non freddamente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola; ma d’un tratto, mercè l’impressione che ne riceve.
Questo, ordinariamente. Vediamo adesso se, per la natural disposizione d’animo di quegli scrittori che si chiamano umoristi e per il particolar modo che essi hanno di intuire e di considerar gli uomini e la vita, questo stesso procedimento avviene nella concezione delle loro opere; se cioè la riflessione vi tenga la parte che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto una speciale attività.
Ebbene, nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’imagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.
Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.

Il concetto artistico pirandelliano si muove su muove su un principio che potremo definire, grosso modo, anticrociano.

Croce, uno dei più grandi filosofi degli inizi del Novecento in Europa, nonché autore/firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti individua, nella creazione della poesia un processo della pura intuizione che trova il suo compimento trasformandosi in forma, per meglio dire assoluta corrispondenza tra intuizione ed espressione. Tutto ciò che è estrinseco a tale processo non rientra propriamente nella definizione di poesia, ma di sovrastrutturale ad essa. Crocianamente si tratta di poesia e non poesia.

Pirandello, al contrario, fa della riflessione un percorso intrinseco al fatto poetico. Tale riflessione se è presente in ogni creazione poetica lo è ancor di più se si guarda con occhio attento a quegli autori o a quelle opere nate espressamente con intento comico o umoristico, si pensi all’attenzione posta da Pirandello stesso alle Operette morali.

Come ci descrive tale momento l’autore siciliano? Attraverso tre processi, uno legato indissolubilmente all’altro:

  • avvertimento del contrario: ciò che provoca normalmente il comico è il rovesciamento di ciò che avviene nella norma (esempio pirandelliano: una donna di una certa età “agghindata” come una “ragazzina”);
  • riflessione: perché è avvenuto tale rovesciamento (esempio pirandelliano: la donna si agghinda da quindicenne per non perdere l’amore di un marito molto più giovane di lei);
  • sentimento del contrario: derivata dalla riflessione che si traduce in comprensione e per un autore in immagine poetica.

Pur non volendo fare del testo di Pirandello la spiegazione onnicomprensiva di tutta la sua opera, è opportuno prenderla come base per cercare di capire il modus con cui lo scrittore siciliano guarda ai suoi personaggi e al loro modo d’agire in società.

I romanzi

Se nella preistoria dell’attività letteraria pirandelliana vi sono due raccolte di poesie Mal Giocondo (1889) La pasqua di Gea (1991), che non portano alcun rinnovamento estetico nella lirica di allora, il vero e proprio primo lavoro è il romanzo L’esclusa (1901):

Marta Ajala viene ripudiata dal marito ed anche dal padre perché creduta adultera, mentre in realtà è innocente. Costretta a lasciare il paese, Marta ripara a Palermo, dove incontra gravi difficoltà economiche, finché non viene aiutata da un amico con il quale inizia una relazione. Quando però la suocera, che era stata la prima ad accusarla, si rende conto, in punto di morte di aver sbagliato e scagiona Marta, ella viene riaccolta in casa dal marito e riabbracciata dai famigliari, ormai tutti convinti della sua innocenza.

Osserviamo questo minuscolo frammento tratto dal romanzo:
«Che sono io ora? Mi vedi? Che sono…Sono ciò che la gente, per causa tua, mi ha creduta e mi crede ancora e sempre mi crederebbe, anche se io accettassi ora il tuo pentimento! E’ troppo tardi: lo intendi? Sono perduta! Ero sola, mi avete perseguitata… ero sola e senza aiuto. Ora sono perduta!».

In esso, nella seconda riga, si usa per tre volte il verbo “credere”: tale verbo sta ad indicare che la realtà non è più quella che si “vede”, ma quella che si “crede”, cioè quella che “appare”: è evidente che in tale teoria vi è un superamento del Positivismo, cui tuttavia il romanzo si iscrive: ambientazione siciliana, vita di provincia, dialoghi realistici; ma è proprio l’ideologia di fondo ad allontanare la narrazione da tale esito.

Il secondo romanzo pirandelliano, anch’esso considerato minore, è Il turno del 1902:
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Film di Tonino Cervi tratto dal romanzo (1981)

Il “turno” è quello di tre personaggi che si succedono come aspiranti mariti di un’avvenente donna. Il primo, don Diego, è un vecchio e ricco gentiluomo che la protagonista, Stellina, spinta dal padre, acconsente a sposare per interesse. Il secondo è don Ciro, un avvocato intrigante e prepotente, che scopre la non validità del matrimonio con don Diego e arriva a farlo annullare per sposare lui la donna. Il terzo è don Pepè, il giovane spasimante di Stellina, che si è visto portar via la donna dagli altri due ed aspetta impaziente il proprio “turno”. Alla fine don Ciro morirà, mentre il vecchio don Diego si risposerà con un’altra giovane.

Anche qui, pur inserendo la storia all’interno di una provincia siciliana e legando il suo racconto al mito della “roba” di verghiana memoria, troviamo uno scarto rispetto alla cultura del romanzo verista: l’imprevedibilità dei casi umani. Per quanto si progetti il futuro, sarà sempre il caso a determinarlo.

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Edizione de “Il fu Mattia Pascal” con la foto dell’autore 

Il primo romanzo che scardina qualsiasi legame sia con il verismo con il quale, per ragioni direi d’ambientazione, Pirandello dovette confrontarsi con le sue due prime prove narrative, sia con la narrativa dannunziana, assolutamente lontana dalla sua idea estetica, è Il fu Mattia Pascal (1904), che proietta il nostro tra i grandi della narrativa europea.

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Ivan Mozzhukhin nel film di Marcel L’Herbier dedicato a Mattia Pascal (1926)

Mattia Pascal, allontanatosi dalla famiglia dopo un litigio, arriva a Montecarlo, dove vince una notevole somma al gioco. Da una notizia di cronaca apprende che è stato ritrovato il cadavere di uno sconosciuto suicida, il quale è stato scambiato per lui: ufficialmente, dunque, Mattia è morto, e ne approfitta per evadere dalla vita sociale. Ma la società, anche quando egli è diventato Adriano Meis, inevitabilmente gli tende intorno la sua inevitabile rete: e quando Mattia scopre che la vera identità è quella che conferisce lo stato civile e che così com’è, praticamente, non esiste – non può fare una denuncia, non può sposarsi – deluso decide di simulare un secondo suicidio, quello di Adriano Meis, e di rivelare la verità ai suoi concittadini. Ma tornato a casa si accorge che la moglie, risposata con altri figli, non può riprenderlo con sé. Non gli resta che il suo vecchio impiego nella polverosa biblioteca della città, dove avrà il tempo di rievocare, da protagonista e narratore, la sua singolare vicenda.

PREMESSA n. 1

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
«Io mi chiamo Mattia Pascal.»
«Grazie, caro. Questo lo so.»
«E ti par poco?»
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: «Io mi chiamo Mattia Pascal.»
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.

Il protagonista del libro quindi descrive la sua precedente ed anche attuale attività di guardiano di un’antichissima biblioteca allogata in una chiesa fuori paese, piena di muffe, tarme e topi:

(…) fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza*, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete.

*Colui che donò la Biblioteca al paese.

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Locandina di un film con Flavio Bucci (1993)

Il passo inizia con il problema dell’identità certificata da un nome: ma tale identità viene sin da subito messa in crisi dall’uso di verbi coniugati al passato: se prima un essere era tale grazie al nome che ne certificata l’esistenza, Mattia Pascal ci dice che lui non è, anzi alla fine del brano sottolinea di essersi già suicidato due volte.

Il fatto interessante è che oltre a non essere, vive in un non luogo, circondato da un non sapere: la vecchia biblioteca è posta al limite, assolutamente non frequentata (pertanto la cultura è muta) ed è piena di un sapere confuso, polveroso, vecchio e stantio. Per meglio dire, come d’altra parte altri intellettuali a lui contemporanei, sottolinea l’emarginazione della cultura nella società del tempo.

PREMESSA n. 2

(…)
«Eh, mio reverendo amico,» gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr’egli attende alle sue lattughe.
«Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!»
«Oh oh oh, che c’entra Copernico!» esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
«C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava…»
«E dàlli! Ma se ha sempre girato!»
«Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole.* Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d’oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?**

*Si riferisce ad un passo del Vecchio Testamento in cui si racconta che “il sole si arrestò in mezzo del cielo e non si affrettò a tramontare quasi per un giorno”. (Giosué, 10)
** Quintiliano nelle Istitutiones oratoriae afferma che compito della storia sia quello di raccontare e non argomentare, che spetta all’arte giuridica.

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Marcello Mastroianni in un film di Monicelli (1985)

Quando a determinare la realtà erano le leggi copernicane non vi era alcuna frattura tra la realtà ed il modo di rappresentarla. Così era successo fino alla cultura positivistica che aveva trovato nel sapere scientifico la base filosofica del suo operare. Pirandello in questo passo sembra dirci che oggi tutto questo non è più possibile: laddove cadono le certezze non resiste più alcuna realtà, ed allora, il modo in cui l’uomo moderno deve operare (e quindi lo stesso Mattia) è un relativismo conoscitivo entro cui coordinare la propria esistenza e muoversi in un mondo dominato dall’“imprevedibilità” o più semplicemente dal caso.

La vera e propria narrazione inizia dal terzo capitolo. Qui vi si narra il modo in cui il nostro povero Pascal, morto il padre quand’era piccolo, vede il tracollo della famiglia, grazie all’amministratore Malagna, che, a poco a poco, ha rosicchiato tutti gli averi dei Pascal. Quindi prosegue a raccontare come si sposi con una giovane ragazza, Romilda, figlia della vedova Pescatrice, più per far dispetto all’amministratore che per amore e di come la suocera, che sperava in un matrimonio più fortunato con lo stesso Malagna, avesse in odio il genero.
Mattia è sull’orlo della disperazione: vive in casa con suocera e la vecchia madre, nonché con il figlio e la moglie, che ormai lo ha in odio. Saputolo nella disperazione un suo amico gli trova posto come bibliotecario. Preferisce quel luogo che vivere in casa. Un giorno le portano la notizia della nascita di due gemelline: moriranno giovanissime, dopo un po’ muore anche la madre. Mattia è solo e disperato. Un amico gli presta 500 lire per il funerale.

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Mattia Pascal nel film di Marcel L’Herbier (vincita a Montecarlo)

Ritroviamo Mattia a Montecarlo con le 500 lire in tasca. Come avesse nell’anima un diavolo che gli vuole bene, preso della febbre del gioco, punta alla roulette e vince. Vince per ben dodici giorni, fino ad 82.000 lire e smette quando la fortuna sembra voltargli le spalle. Prende un treno per tornare a casa:

CAMBIO TRENO!

Pensavo: «Riscatterò la Stìa, e mi ritirerò là, in campagna, a fare il mugnajo. Si sta meglio vicini alla terra; e – sotto – fors’anche meglio.
(…)
Così pensavo, e il treno intanto correva. Non potevo chiudere gli occhi, ché subito m’appariva con terribile precisione il cadavere di quel giovinetto, là, nel viale, piccolo e composto sotto i grandi alberi immobili nella fresca mattina. Dovevo perciò consolarmi così, con un altro incubo, non tanto sanguinoso, almeno materialmente: quello di mia suocera e di mia moglie. E godevo nel rappresentarmi la scena dell’arrivo, dopo quei tredici giorni di scomparsa misteriosa.
(…)
Alla prima stazione italiana comprai un giornale con la speranza che mi facesse addormentare. Lo spiegai, e al lume del lampadino elettrico, mi misi a leggere.
(…)
Avevo il giornale ancora in mano e lo voltai per cercare in seconda pagina qualche dono migliore di quelli del Lama. Gli occhi mi andarono su un SUICIDIO così, in grassetto.
Pensai subito che potesse esser quello di Montecarlo, e m’affrettai a leggere. Ma mi arrestai sorpreso al primo rigo, stampato di minutissimo carattere: “Ci telegrafano da Miragno”.
«Miragno? Chi si sarà suicidato nel mio paese?»
Lessi: “Jeri, sabato 28, è stato rinvenuto nella gora d’un mulino un cadavere in istato d’avanzata putrefazione….” A un tratto, la vista mi s’annebbiò, sembrandomi di scorgere nel rigo seguente il nome del mio podere; e, siccome stentavo a leggere, con un occhio solo, quella stampa minuscola, m’alzai in piedi, per essere più vicino al lume.
“… putrefazione. Il mulino è sito in un podere detto della Stìa, a circa due chilometri dalla nostra città. Accorsa sopra luogo l’autorità giudiziaria con altra gente, il cadavere fu estratto dalla gora per le constatazioni di legge e piantonato. Più tardi esso fu riconosciuto per quello del nostro…” Il cuore mi balzò in gola e guardai, spiritato, i miei compagni di viaggio che dormivano tutti. “Accorsa sopra luogo… estratto dalla gora… e piantonato… fu riconosciuto per quello del nostro bibliotecario…”
«Io?»
“Accorsa sopra luogo… più tardi… per quello del nostro bibliotecario Mattia Pascal, scomparso da parecchi giorni. Causa del suicidio: dissesti finanziarii.”
«Io?… Scomparso… riconosciuto… Mattia Pascal…»
Rilessi con piglio feroce e col cuore in tumulto non so più quante volte quelle poche righe. Nel primo impeto, tutte le mie energie vitali insorsero violentemente per protestare: come se quella notizia, così irritante nella sua impassibile laconicità, potesse anche per me esser vera. Ma, se non per me, era pur vera per gli altri; e la certezza che questi altri avevano fin da jeri della mia morte era su me come una insopportabile sopraffazione, permanente, schiacciante… Guardai di nuovo i miei compagni di viaggio e, quasi anch’essi, lì, sotto gli occhi miei, riposassero in quella certezza, ebbi la tentazione di scuoterli da quei loro scomodi e penosi atteggiamenti, scuoterli, svegliarli, per gridar loro che non era vero.
«Possibile?»
E rilessi ancora una volta la notizia sbalorditoja. Non potevo più stare alle mosse. Avrei voluto che il treno s’arrestasse, avrei voluto che corresse a precipizio: quel suo andar monotono, da automa duro, sordo e greve, mi faceva crescere di punto in punto l’orgasmo. Aprivo e chiudevo le mani continuamente, affondandomi le unghie nelle palme; spiegazzavo il giornale; lo rimettevo in sesto per rilegger la notizia che già sapevo a memoria, parola per parola.
«Riconosciuto! Ma è possibile che m’abbiano riconosciuto?… “In istato d’avanzata putrefazione”… puàh!»
Mi vidi per un momento, lì nell’acqua verdastra della gora, fradicio, gonfio, orribile, galleggiante… Nel raccapriccio istintivo, incrociai le braccia sul petto e con le mani mi palpai, mi strinsi: «Io, no; io, no… Chi sarà stato?… mi somigliava, certo… Avrà forse avuto la barba anche lui, come la mia… la mia stessa corporatura… E m’han riconosciuto!… Scomparso da parecchi giorni… Eh già! Ma io vorrei sapere, vorrei sapere chi si è affrettato così a riconoscermi. Possibile che quel disgraziato là fosse tanto simile a me? vestito come me? tal quale? Ma sarà stata lei, forse, lei, Marianna Dondi, la vedova Pescatore: oh! m’ha pescato subito, m’ha riconosciuto subito! Non le sarà parso vero, figuriamoci! “È lui, è lui! mio genero! ah, povero Mattia! ah, povero figliuolo mio!” E si sarà messa a piangere fors’anche; si sarà pure inginocchiata accanto al cadavere di quel poveretto, che non ha potuto tirarle un calcio e gridarle: “Ma lèvati di qua: non ti conosco”.»
Fremevo. Finalmente il treno s’arrestò a un’altra stazione. Aprii lo sportello e mi precipitai giù, con l’idea confusa di fare qualche cosa, subito: un telegramma d’urgenza per smentire quella notizia.
Il salto che spiccai dal vagone mi salvò: come se mi avesse scosso dal cervello quella stupida fissazione, intravidi in un baleno… ma sì! la mia liberazione la libertà una vita nuova!
Avevo con me ottantaduemila lire, e non avrei più dovuto darle a nessuno! Ero morto, ero morto: non avevo più debiti, non avevo più moglie, non avevo più suocera: nessuno! libero! libero! libero! Che cercavo di più?
Pensando così, dovevo esser rimasto in un atteggiamento stranissimo, là su la banchina di quella stazione. Avevo lasciato aperto lo sportello del vagone. Mi vidi attorno parecchia gente, che mi gridava non so che cosa; uno, infine, mi scosse e mi spinse, gridandomi più forte: «Il treno riparte!» «Ma lo lasci, lo lasci ripartire, caro signore!» gli gridai io, a mia volta. «Cambio treno!»

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Mattia Pascal a teatro (episodio della lettura del proprio suicidio)

L’episodio su riportato ci rimanda a due elementi fondamentali nella narrativa pirandelliana: il caso e lo sdoppiamento. Se è un caso la vincita a Montecarlo è altrettanto un caso l’acquisto di un giornale che lo aiutasse a trovar requie in una notte agitatissima, leggiucchiando qua e là notizie. Potremmo accostare, quasi a “classicheggiare” il romanzo pirandelliano, al topos della “catabasi” di virgiliana memoria, viaggio agli inferi per “rigenerarsi: così è stato per Dante, per l’Innominato, così è per Mattia. Dopo un sonno agitato, dopo aver letto della sua morte, dopo la rabbia per non essere più stesso, l’illuminazione: Mattia si sdoppierà. Ad una prima morte una rinascita. E come rinascerà Mattia?

UN ALTRO UOMO

Subito, non tanto per ingannare gli altri, che avevan o voluto ingannarsi da sé, con una leggerezza non deplorabile forse nel caso mio, ma certamente non degna d’encomio, quanto per obbedire alla Fortuna e soddisfare a un mio proprio bisogno, mi posi a far di me un altr’uomo.
(…)
Già ad Alenga, per cominciare, ero entrato, poche ore prima di partire, da un barbiere, per farmi accorciar la barba: avrei voluto levarmela tutta, lì stesso, insieme coi baffi; ma il timore di far nascere qualche sospetto in quel paesello mi aveva trattenuto. Il barbiere era anche sartore, vecchio, con le reni quasi ingommate dalla lunga abitudine di star curvo, sempre in una stessa positura, e portava gli occhiali su la punta del naso. Più che barbiere doveva esser sartore. Calò come un flagello di Dio su quella barbaccia che non m’apparteneva più, armato di certi forbicioni da maestro di lana, che avevan bisogno d’esser sorretti in punta con l’altra mano. Non m’arrischiai neppure a fiatare: chiusi gli occhi, e non li riaprii, se non quando mi sentii scuotere pian piano. Il brav’uomo, tutto sudato, mi porgeva uno specchietto perché gli sapessi dire se era stato bravo. Mi parve troppo!
«No, grazie,» mi schermii. «Lo riponga. Non vorrei fargli paura.» Sbarrò tanto d’occhi, e: «A chi?» domandò. «Ma a codesto specchietto. Bellino! Dev’essere antico…» Era tondo, col manico d’osso intarsiato: chi sa che storia aveva e donde e come era capitato lì, in quella sarto-barbieria.
Ma infine, per non dar dispiacere al padrone, che seguitava a guardarmi stupito, me lo posi sotto gli occhi. Se era stato bravo! Intravidi da quel primo scempio qual mostro fra breve sarebbe scappato fuori dalla necessaria e radicale alterazione dei connotati di Mattia Pascal! Ed ecco una nuova ragione d’odio per lui! Il mento piccolissimo, puntato e rientrato, ch’egli aveva nascosto per tanti e tanti anni sotto quel barbone, mi parve un tradimento. Ora avrei dovuto portarlo scoperto, quel cosino ridicolo! E che naso mi aveva lasciato in eredità! E quell’occhio! «Ah, quest’occhio,» pensai, «così in estasi da un lato, rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia! Io non potrò far altro che nasconderlo alla meglio dietro un pajo d’occhiali colorati, che coopereranno, figuriamoci, a rendermi più amabile l’aspetto. Mi farò crescere i capelli e, con questa bella fronte spaziosa, con gli occhiali e tutto raso, sembrerò un filosofo tedesco. Finanziera e cappellaccio a larghe tese.» Non c’era via di mezzo: filosofo dovevo essere per forza con quella razza d’aspetto.
(…)
Il nome mi fu quasi offerto in treno, partito da poche ore da Alenga per Torino. Viaggiavo con due signori che discutevano animatamente d’iconografia cristiana, in cui si dimostravano entrambi molto eruditi, per un ignorante come me. Uno, il più giovane, dalla faccia pallida, oppressa da una folta e ruvida barba nera, pareva provasse una grande e particolar soddisfazione nell’enunciar la notizia ch’egli diceva antichissima, sostenuta da Giustino Martire, da Tertulliano e da non so chi altri, secondo la quale Cristo sarebbe stato bruttissimo. Parlava con un vocione cavernoso, che contrastava stranamente con la sua aria da ispirato.
«Ma sì, ma sì, bruttissimo! bruttissimo! Ma anche Cirillo d’Alessandria! Sicuro, Cirillo d’Alessandria arriva finanche ad affermare che Cristo fu il più brutto degli uomini.»
L’altro, ch’era un vecchietto magro magro, tranquillo nel suo ascetico squallore, ma pur con una piega a gli angoli della bocca che tradiva la sottile ironia, seduto quasi su la schiena, col collo lungo proteso come sotto un giogo, sosteneva invece che non c’era da fidarsi delle più antiche testimonianze.
«Perché la Chiesa, nei primi secoli, tutta volta a consustanziarsi la dottrina e lo spirito del suo ispiratore, si dava poco pensiero, ecco, poco pensiero delle sembianze corporee di lui. A un certo punto vennero a parlare della Veronica e di due statue della città di Paneade, credute immagini di Cristo e della emorroissa.»
«Ma sì!» scattò il giovane barbuto. «Ma se non c’è più dubbio ormai! Quelle due statue rappresentano l’imperatore Adriano con la città inginocchiata ai piedi.»
Il vecchietto seguitava a sostener pacificamente la sua opinione, che doveva esser contraria, perché quell’altro, incrollabile, guardando me, s’ostinava a ripetere : «Adriano! … Beronike, in greco. Da Beronike poi: Veronica… Adriano!» (a me).
«Oppure, Veronica, vera icon: storpiatura probabilissima..».
«Adriano!» (a me).
Perché la Beronike degli Atti di Pilato..
«Adriano!»
Ripeté così Adriano! non so più quante volte, sempre con gli occhi rivolti a me. Quando scesero entrambi a una stazione e mi lasciarono solo nello scompartimento, m’affacciai al finestrino, per seguirli con gli occhi: discutevano ancora, allontanandosi. A un certo punto però il vecchietto perdette la pazienza e prese la corsa.
«Chi lo dice?» gli domandò forte il giovane, fermo, con aria di sfida. Quegli allora si voltò per gridargli: «Camillo De Meis! Mi parve che anche lui gridasse a me quel nome, a me che stavo intanto a ripetere meccanicamente: «Adriano…» Buttai subito via quel de e ritenni il Meis. «Adriano Meis! Si… Adriano Meis: suona bene…»
Mi parve anche che questo nome quadrasse bene alla faccia sbarbata e con gli occhiali, ai capelli lunghi, al cappellaccio alla finanziera che avrei dovuto portare.
«Adriano Meis. Benone! M’hanno battezzato.»
Recisa di netto ogni memoria in me della vita precedente, fermato l’animo alla deliberazione di ricominciare da quel punto una nuova vita, io era invaso e sollevato come da una fresca letizia infantile; mi sentivo come rifatta vergine e trasparente la coscienza, e lo spirito vigile e pronto a trar profitto di tutto per la costruzione del mio nuovo io. Intanto l’anima mi tumultuava nella gioja di quella nuova libertà. Non avevo mai veduto così uomini e cose; l’aria tra essi e me s’era d’un tratto quasi snebbiata; e mi si presentavan facili e lievi le nuove relazioni che dovevano stabilirsi tra noi, poiché ben poco ormai io avrei avuto bisogno di chieder loro per il mio intimo compiacimento. Oh levità deliziosa dell’anima; serena, ineffabile ebbrezza! La Fortuna mi aveva sciolto di ogni intrico, all’improvviso, mi aveva sceverato dalla vita comune, reso spettatore estraneo della briga in cui gli altri si dibattevano ancora, e mi ammoniva dentro: «Vedrai, vedrai com’essa t’apparirà curiosa, ora, a guardarla così da fuori! Ecco là uno che si guasta il fegato e fa arrabbiare un povero vecchietto per sostener che Cristo fu il più brutto degli uomini…» Sorridevo. Mi veniva di sorridere così di tutto e a ogni cosa: a gli alberi della campagna, per esempio, che mi correvano incontro con stranissimi atteggiamenti nella loro fuga illusoria; a le ville sparse qua e là, dove mi piaceva d’immaginar coloni con le gote gonfie per sbuffare contro la nebbia nemica degli olivi o con le braccia levate a pugni chiusi contro il cielo che non voleva mandar acqua: e sorridevo agli uccelletti che si sbandavano, spaventati da quel coso nero che correva per la campagna, fragoroso; all’ondeggiar dei fili telegrafici, per cui passavano certe notizie ai giornali, come quella da Miragno del mio suicidio nel molino della Stìa; alle povere mogli dei cantonieri che presentavan la bandieruola arrotolata, gravide e col cappello del marito in capo.
Se non che, a un certo punto, mi cadde lo sguardo su l’anellino di fede che mi stringeva ancora l’anulare della mano sinistra. Ne ricevetti una scossa violentissima: strizzai gli occhi e mi strinsi la mano con l’altra mano, tentando di strapparmi quel cerchietto d’oro, così, di nascosto, per non vederlo più. Pensai ch’esso si apriva e che, internamente, vi erano incisi due nomi: Mattia-Romilda, e la data del matrimonio. Che dovevo farne? Aprii gli occhi e rimasi un pezzo accigliato, a contemplarlo nella palma della mano. Tutto, attorno, mi s’era rifatto nero. Ecco ancora un resto della catena che mi legava al passato! Piccolo anello, lieve per sé, eppur così pesante! Ma la catena era già spezzata, e dunque via anche quell’ultimo anello! Feci per buttarlo dal finestrino, ma mi trattenni. Favorito così eccezionalmente dal caso, io non potevo più fidarmi di esso; tutto ormai dovevo creder possibile, finanche questo: che un anellino buttato nell’aperta campagna, trovato per combinazione da un contadino, passando di mano in mano, con quei due nomi incisi internamente e la data, facesse scoprir la verità, che l’annegato della Stìa cioè non era il bibliotecario Mattia Pascal. «No, no,» pensai, «in luogo più sicuro… Ma dove?» Il treno, in quella, si fermò a un’altra stazione. Guardai, e subito mi sorse un pensiero, per la cui attuazione provai dapprima un certo ritegno. Lo dico, perché mi serva di scusa presso coloro che amano il bel gesto, gente poco riflessiva, alla quale piace di non ricordarsi che l’umanità è pure oppressa da certi bisogni, a cui purtroppo deve obbedire anche chi sia compreso da un profondo cordoglio. Cesare, Napoleone e, per quanto possa parere indegno, anche la donna più bella… Basta. Da una parte c’era scritto Uomini e dall’altra Donne; e lì intombai il mio anellino di fede.

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Mattia Pascal e Adriano Meis nel film del 1925

Mattia si trasforma e diventa un altro. La cosa più banale affinché questo avvenga non può che essere il cambiarsi i connotati. Ed è qui che troviamo l’episodio del barbiere. A ben guardare Mattia non si “ripulisce”, ma scopre il suo vero “io”, che aveva tentato di nascondere con la barba. Dentro quello specchietto quest’io, libero da ogni costrizione sociale può porsi fuori dal mondo e osservarlo, così come fa un filosofo, capace di analizzare la vita, proprio perché è estraneo ad essa (l’atteggiamento tipico dell’avvertimento del contrario). Ed è proprio attraverso questa possibilità che il nostro può osservare il dialogo, acceso e certamente inutile, dei due viaggiatori, che diventano metafora dell’inutilità di determinata cultura erudita, ma addirittura inutilità di qualsiasi forma di raffronto sociale, che certamente non porta ad alcuna felicità.

Scelto il nuovo nome, si accorge di possedere ancora l’anello matrimoniale; piccola riflessione sul caso ed intervento del “comico” più prettamente detto: gettato nel water. Cosa c’è di più contrario alla morale corrente che gettare un anello matrimoniale nel water?

UN PO’ DI NEBBIA

Ma una casa, una casa mia, tutta mia, avrei potuto più averla? I miei denari erano pochini… Ma una casettina modesta, di poche stanze? Piano: bisognava vedere, considerar bene prima, tante cose. Certo, libero, liberissimo, io potevo essere soltanto così, con la valigia in mano: oggi qua, domani là. Fermo in un luogo, proprietario d’una casa, eh, allora: registri e tasse subito! E non mi avrebbero iscritto all’anagrafe? Ma sicuramente! E come? con un nome falso? E allora, chi sa?, forse indagini segrete intorno a me da parte della polizia… Insomma, impicci, imbrogli!… No, via: prevedevo di non poter più avere una casa mia, oggetti miei. Ma mi sarei allogato a pensione in qualche famiglia, in una camera mobiliata. Dovevo affliggermi per così poco?
(…)
E che seguiva da questa riflessione? Ahimè, che io, condannato inevitabilmente a mentire dalla mia condizione, non avrei potuto avere mai più un amico, un vero amico. E dunque, né casa, né amici… Amicizia vuol dire confidenza; e come avrei potuto io confidare a qualcuno il segreto di quella mia vita senza nome e senza passato, sorta come un fungo dal suicidio di Mattia Pascal? Io potevo aver solamente relazioni superficiali, permettermi solo co’ miei simili un breve scambio di parole aliene.
(…)
Là, in un corridojo, sospesa nel vano d’una finestra, c’era una gabbia con un canarino. Non potendo con gli altri e non sapendo che fare, mi mettevo a conversar con lui, col canarino: gli rifacevo il verso con le labbra, ed esso veramente credeva che qualcuno gli parlasse e ascoltava e forse coglieva in quel mio pispissìo care notizie di nidi, di foglie, di libertà… Si agitava nella gabbia, si voltava, saltava, guardava di traverso, scotendo la testina, poi mi rispondeva, chiedeva, ascoltava ancora. Povero uccellino! lui sì m’inteneriva, mentre io non sapevo che cosa gli avessi detto… Ebbene, a pensarci non avviene anche a noi uomini qualcosa di simile? Non crediamo anche noi che la natura ci parli? e non ci sembra di cogliere un senso nelle sue voci misteriose, una risposta, secondo i nostri desiderii, alle affannose domande che le rivolgiamo? E intanto la natura, nella sua infinita grandezza, non ha forse il più lontano sentore di noi e della nostra vana illusione. Ma vedete un po’ a quali conclusioni uno scherzo suggerito dall’ozio può condurre un uomo condannato a star solo con se stesso! Mi veniva quasi di prendermi a schiaffi. Ero io dunque sul punto di diventare sul serio un filosofo? No, no, via, non era logica la mia condotta. Così, non avrei potuto più oltre durarla. Bisognava ch’io vincessi ogni ritegno, prendessi a ogni costo una risoluzione. Io, insomma, dovevo vivere, vivere, vivere.

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Locandina del film del 1925

Un po’ di nebbia s’insinua nella mente di Mattia/Adriano. Egli comincia a percepire se stesso come “forestiere” della vita e quindi a vedersi e a rendersi conto di non “poter” essere, cioè vivere: non può comprare una casa, non può avere veri amici con cui condividere ciò che non ha mai vissuto. Vive in una gabbia, come ci dice l’ultima parte del capitolo, che sembra richiamare una delle Operette morali di Leopardi, cioè in una “stanza della tortura” secondo la definizione del critico Macchia, in cui s’insinua l’opposizione tra vita e forma.

Alcune vicende portano Mattia a trasferirsi a Roma, presso la famiglia Paleari, dove vive il padrone di casa, la sua figliola Adriana, Terenzio marito della sorella morta di Adriana e Silvia Caporale, vecchia pensionante. Le dinamiche oserei dire le forme, cominciano a delinearsi all’interno della casa: il vecchio è appassionato di teosofia, con grande dispiacere della figliola, fervente cattolica. Il Paleari è un uomo, non chiaro, che sembra voglia recare danno a Mattia. Come naturalmente accade, Mattia s’innamora. Un giorno sente in casa uno spagnolo, che aveva già visto a Montecarlo. Per non farsi riconoscere si opera ad un occhio. Durante la convalescenza riceve la visita del signor Paleari:

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Lorenzo Caprioli: interpretazione della lanterninosofia

LA LANTERNINOSOFIA

Quaranta giorni al bujo.
Riuscita, oh, riuscita benissimo l’operazione. Solo che l’occhio mi sarebbe forse rimasto un pochino pochino più grosso dell’altro. Pazienza! E intanto, sì, al bujo quaranta giorni, in camera mia.
Potei sperimentare che l’uomo, quando soffre, si fa una particolare idea del bene e del male, e cioè del bene che gli altri dovrebbero fargli e a cui egli pretende, come se dalle proprie sofferenze gli derivasse un diritto al compenso; e del male che egli può fare a gli altri, come se parimenti dalle proprie sofferenze vi fosse abilitato. E se gli altri non gli fanno il bene quasi per dovere, egli li accusa e di tutto il male ch’egli fa quasi per diritto, facilmente si scusa.
Dopo alcuni giorni di quella prigionia cieca, il desiderio, il bisogno d’esser confortato in qualche modo crebbe fino all’esasperazione.
(…)
Per consolarmi, il signor Anselmo Paleari mi volle dimostrare con un lungo ragionamento che il bujo era immaginario.
«Immaginario? Questo?» gli gridai.
«Abbia pazienza mi spiego.»
E mi svolse (fors’anche perché fossi preparato a gli esperimenti spiritici, che si sarebbero fatti questa volta in camera mia, per procurarmi un divertimento) mi svolse, dico, una sua concezione filosofica, speciosissima, che si potrebbe forse chiamare lanterninosofia.
Di tratto in tratto, il brav’uomo s’interrompeva per domandarmi: «Dorme, signor Meis?»
E io ero tentato di rispondergli: «Sì, grazie, dormo, signor Anselmo.»
Ma poiché l’intenzione in fondo era buona, di tenermi cioè compagnia, gli rispondevo che mi divertivo invece moltissimo e lo pregavo anzi di seguitare.
E il signor Anselmo, seguitando, mi dimostrava che, per nostra disgrazia, noi non siamo come l’albero che vive e non si sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento, non sembra che sieno cose ch’esso non sia: cose amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
E questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti su la terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?
«Dorme, signor Meis?»
«Segua, segua pure, signor Anselmo: non dormo. Mi par quasi di vederlo, codesto suo lanternino.»
«Ah, bene… Ma poiché lei ha l’occhio offeso, non ci addentriamo troppo nella filosofia, eh? e cerchiamo piuttosto d’inseguire per ispasso le lucciole sperdute, che sarebbero i nostri lanternini, nel bujo della sorte umana. Io direi innanzi tutto che son di tanti colori; che ne dice lei? secondo il vetro che ci fornisce l’illusione, gran mercantessa, gran mercantessa di vetri colorati. A me sembra però, signor Meis, che in certe età della storia, come in certe stagioni della vita individuale, si potrebbe determinare il predominio d’un dato colore, eh? In ogni età, infatti, si suole stabilire tra gli uomini un certo accordo di sentimenti che dà lume e colore a quei lanternoni che sono i termini astratti: Verità, Virtù, Bellezza, Onore, e che so io… E non le pare che fosse rosso, ad esempio, il lanternone della Virtù pagana? Di color violetto, color deprimente, quello della Virtù cristiana. Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni.
Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine: chi va di qua, chi di là, chi torna indietro, chi si raggira; nessuna più trova la via: si urtano, s’aggregano per un momento in dieci, in venti; ma non possono mettersi d’accordo, e tornano a sparpagliarsi in gran confusione, in furia angosciosa: come le formiche che non trovino più la bocca del formicajo, otturata per ispasso da un bambino crudele.
Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci? Indietro, forse? Alle lucernette superstiti, a quelle che i grandi morti lasciarono accese su le loro tombe? Ricordo una bella poesia di Niccolò Tommaseo:

La piccola mia lampa

non, come sol, risplende,
né, come incendio, fuma;
non stride e non consuma,
ma con la cima tende
al ciel che me la diè.

Starà su me, sepolto,
viva; né pioggia o vento,
né in lei le età potranno;
e quei che passeranno
erranti, a lume spento,
lo accenderan da me.

Ma come, signor Meis, se alla lampa nostra manca l’olio sacro che alimentava quella del Poeta? Molti ancora vanno nelle chiese per provvedere dell’alimento necessario le loro lanternucce. Sono, per lo più, poveri vecchi, povere donne, a cui mentì la vita, e che vanno innanzi, nel bujo dell’esistenza, con quel loro sentimento acceso come una lampadina votiva, cui con trepida cura riparano dal gelido soffio degli ultimi disinganni, ché duri almeno accesa fin là, fino all’orlo fatale, al quale s’affrettano, tenendo gli occhi intenti alla fiamma e pensando di continuo: «Dio mi vede!» per non udire i clamori della vita intorno, che suonano ai loro orecchi come tante bestemmie. «Dio mi vede…» perché lo vedono loro, non solamente in sé, ma in tutto, anche nella loro miseria, nelle loro sofferenze, che avranno un premio, alla fine. Il fioco, ma placido lume di queste lanternucce desta certo invidia angosciosa in molti di noi; a certi altri, invece, che si credono armati, come tanti Giove, del fulmine domato dalla scienza, e, in luogo di quelle lanternucce, recano in trionfo le lampadine elettriche, ispira una sdegnosa commiserazione. Ma domando io ora, signor Meis: E se tutto questo bujo, quest’enorme mistero, nel quale indarno i filosofi dapprima specularono, e che ora, pur rinunziando all’indagine di esso, la scienza non esclude, non fosse in fondo che un inganno come un altro, un inganno della nostra mente, una fantasia che non si colora? Se noi finalmente ci persuadessimo che tutto questo mistero non esiste fuori di noi, ma soltanto in noi, e necessariamente, per il famoso privilegio del sentimento che noi abbiamo della vita, del lanternino cioè, di cui le ho finora parlato? Se la morte, insomma, che ci fa tanta paura, non esistesse e fosse soltanto, non l’estinzione della vita, ma il soffio che spegne in noi questo lanternino, lo sciagurato sentimento che noi abbiamo di essa, penoso, pauroso, perché limitato, definito da questo cerchio d’ombra fittizia, oltre il breve àmbito dello scarso lume, che noi, povere lucciole sperdute, ci projettiamo attorno, e in cui la vita nostra rimane come imprigionata, come esclusa per alcun tempo dalla vita universale, eterna, nella quale ci sembra che dovremo un giorno rientrare, mentre già ci siamo e sempre vi rimarremo, ma senza più questo sentimento d’esilio che ci angoscia? Il limite è illusorio, è relativo al poco lume nostro, della nostra individualità: nella realtà della natura non esiste. Noi, – non so se questo possa farle piacere – noi abbiamo sempre vissuto e sempre vivremo con l’universo; anche ora, in questa forma nostra, partecipiamo a tutte le manifestazioni dell’universo, ma non lo sappiamo, non lo vediamo, perché purtroppo questo maledetto lumicino piagnucoloso ci fa vedere soltanto quel poco a cui esso arriva; e ce lo facesse vedere almeno com’esso è in realtà! Ma nossignore: ce lo colora a modo suo, e ci fa vedere certe cose, che noi dobbiamo veramente lamentare, perbacco, che forse in un’altra forma d’esistenza non avremo più una bocca per poterne fare le matte risate. Risate, signor Meis, di tutte le vane, stupide afflizioni che esso ci ha procurate, di tutte le ombre, di tutti i fantasmi ambiziosi e strani che ci fece sorgere innanzi e intorno, della paura che c’ispirò!

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Mattia Pascal e Adriano Meis: scissione dell’io 

E’ forse uno dei passi più importanti del romanzo, ovvero uno in cui traspaia in modo diretto la filosofia pirandelliana. Certo, Pirandello non è un filosofo (nel senso che non vi è nella sua opera sistematicità di pensiero), ma ciò non toglie che in alcuni romanzi sia presente la sua personale visione della vita e in questo passo di lanterninosofia essa ci appare in tutta la sua chiarezza.
In questo passo vi è tutto il concetto ontologico e gnoseologico del relativismo del sapere e della scissione dell’io.
L’uomo, contrariamente a tutti gli altri esseri viventi, ha il triste destino di sentirsi vivere. Se la vita, pertanto, si percepisce al di fuori dell’uomo stesso, ne consegue una frattura tra l’io e la vita. Il modo con cui osserviamo la vita esterna a noi c’è offerto dalla piccola luce che emaniamo al di fuori di noi, appunto quella di un lanternino, che avendo la capacità d’illuminare solo una piccola parte intorno a noi, non può che essere relativa: non solo ontologicamente l’uomo è solo, ma gnoseologicamente non ha più verità, se non la propria, in quanto ognuno di noi proietta la sua luce solo intorno a se stesso.
Certo ci sono stati momenti in cui lanternoni hanno illuminato epoche intere, per meglio dire periodi in cui grandi ideologie, virtù morali, credenze religiose hanno permeato di sé l’intera esistenza creando comunanza d’interessi e di passioni. Ma oggi, ci dice Pirandello/Paleari si vive nel buio: buia è la situazione di Mattia/Adriano sul letto, buia è l’epoca in cui vive. Ma è proprio il buio della sua condizione che gli permette di concepire l’essenza stessa dell’esistere: soltanto spegnendo il lanternino egli può superare la frattura l’io e la vita e lasciarsi andare al fluire della stessa, vivendo nell’universo in cui è sempre esistito. Solo la cecità gli offre la possibilità di capire, come solo l’occhio strabico gli aveva offerto la possibilità di osservare, straniandosi, l’assurdità del mondo.

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Disegno giovanile di Edward Hopper

IO E L’OMBRA MIA

Mi è avvenuto più volte, svegliandomi nel cuor della notte (la notte, in questo caso, non dimostra veramente d’aver cuore), mi è avvenuto di provare al bujo, nel silenzio, una strana meraviglia, uno strano impaccio al ricordo di qualche cosa fatta durante il giorno, alla luce, senz’abbadarci, e ho domandato allora a me stesso se, a determinar le nostre azioni, non concorrano anche i colori, la vista delle cose circostanti, il vario frastuono della vita. Ma sì, senza dubbio; e chi sa quant’altre cose! Non viviamo noi, secondo il signor Anselmo, in relazione con l’universo? Ora sta a vedere quante sciocchezze questo maledetto universo ci fa commettere, di cui chiamiamo responsabile la misera coscienza nostra, tirata da forze esterne, abbagliata da una luce che è fuori di lei. E, all’incontro, quante deliberazioni prese, quanti disegni architettati, quanti espedienti macchinati durante la notte non appajono poi vani e non crollano e poi sfumano alla luce del giorno? Com’altro è il giorno, altro la notte, così forse una cosa siamo noi di giorno, altra di notte: miserabilissima cosa, ahimè, così di notte come di giorno.
So che, aprendo dopo quaranta giorni le finestre della mia camera, io non provai alcuna gioja nel riveder la luce. Il ricordo di ciò che avevo fatto in quei giorni al bujo me la offuscò orribilmente. Tutte le ragioni e le scuse e le persuasioni che in quel bujo avevano avuto il loro peso e il loro valore, non ne ebbero più alcuno, appena spalancate le finestre, o ne ebbero un altro al tutto opposto. E invano quel povero me che per tanto tempo se n’era stato con le finestre chiuse e aveva fatto di tutto per alleviarsi la noja smaniosa della prigionia, ora – timido come un cane bastonato – andava appresso a quell’altro me che aveva aperte le finestre e si destava alla luce del giorno, accigliato, severo, impetuoso, invano cercava di stornarlo dai foschi pensieri, inducendolo a compiacersi piuttosto, dinanzi allo specchio, del buon esito dell’operazione e della barba ricresciuta e anche del pallore che in qualche modo mi ingentiliva l’aspetto.
«Imbecille, che hai fatto? Che hai fatto?»
Che avevo fatto? Niente, siamo giusti! Avevo fatto all’amore. Al bujo – era colpa mia? – non avevo veduto più ostacoli, e avevo perduto il ritegno che m’ero imposto. Papiano voleva togliermi Adriana; la signora Caporale me l’aveva data, me l’aveva fatta sedere accanto, e s’era buscato un pugno sulla bocca, poverina; io soffrivo, e – naturalmente – per quelle sofferenze credevo com’ogni altro sciagurato (leggi uomo) d’aver diritto ad un compenso, e – poiché l’avevo allato – me l’ero preso; lì si facevano gli esperimenti della morte, e Adriana, accanto a me, era la vita, la vita che aspetta un bacio per schiudersi alla gioja; ora Manuel Bernandez aveva baciato al bujo la sua Pepita, e allora anch’io…
«Ah!»
Mi buttai su la poltrona, con le mani in faccia. Mi sentivo fremere le labbra al ricordo di quel bacio. Adriana! Adriana! Che speranze le avevo acceso in cuore con quel bacio? Mia sposa, è vero? Aperte le finestre, festa per tutti!
Rimasi, non so per quanto tempo, lì su quella poltrona, a pensare, ora con gli occhi sbarrati, ora restringendomi tutto in me, rabbiosamente, come per schermirmi da un fitto spasimo interno. Vedevo finalmente: vedevo in tutta la sua crudezza la frode della mia illusione: che cos’era in fondo ciò che m’era sembrata la più grande delle fortune, nella prima ebbrezza della mia liberazione.
Avevo già sperimentato come la mia libertà, che a principio m’era parsa senza limiti, ne avesse purtroppo nella scarsezza del mio denaro; poi m’ero anche accorto ch’essa più propriamente avrebbe potuto chiamarsi solitudine e noja, e che mi condannava a una terribile pena: quella della compagnia di me stesso; mi ero allora accostato agli altri; ma il proponimento di guardarmi bene dal riallacciare, foss’anche debolissimamente, le fila recise, a che era valso? Ecco: s’erano riallacciate da sé, quelle fila; e la vita, per quanto io, già in guardia, mi fossi opposto, la vita mi aveva trascinato, con la sua foga irresistibile: la vita che non era più in me. Ah, ora me n’accorgevo veramente, ora non potevo più con vani pretesti, con infingimenti quasi puerili, con pietose, meschinissime scuse impedirmi di assumer coscienza del mio sentimento per Adriana, attenuare il valore delle mie intenzioni, delle mie parole, de’ miei atti. Troppe cose, senza parlare, le avevo detto, stringendole la mano, inducendola a intrecciar con le mie le sue dita; e un bacio, un bacio infine aveva suggellato il nostro amore. Ora, come risponder coi fatti alla promessa? Potevo far mia Adriana? Ma nella gora del molino, là alla Stìa, ci avevano buttato me quelle due buone donne, Romilda e la vedova Pescatore; non ci s’eran mica buttate loro! E libera dunque era rimasta lei, mia moglie; non io, che m’ero acconciato a fare il morto, lusingandomi di poter diventare un altro uomo, vivere un’altra vita. Un altr’uomo, sì, ma a patto di non far nulla. E che uomo, dunque? Un’ombra d’uomo! E che vita? Finché m’ero contentato di star chiuso in me e di veder vivere gli altri, sì, avevo potuto bene o male salvar l’illusione ch’io stessi vivendo un’altra vita; ma ora che a questa m’ero accostato fino a cogliere un bacio da due care labbra, ecco, mi toccava a ritrarmene inorridito, come se avessi baciato Adriana con le labbra d’un morto, d’un morto che non poteva rivivere per lei! Labbra mercenarie, sì, avrei potuto baciarne; ma che sapor di vita in quelle labbra? Oh, se Adriana, conoscendo il mio strano caso… Lei? No… no… che! neanche a pensarci! Lei, così pura, così timida… Ma se pur l’amore fosse stato in lei più forte di tutto, più forte di ogni riguardo sociale… ah povera Adriana, e come avrei potuto io chiuderla con me nel vuoto della mia sorte, farla compagna d’un uomo che non poteva in alcun modo dichiararsi e provarsi vivo? Che fare? che fare?
Due colpi all’uscio mi fecero balzar dalla poltrona. Era lei, Adriana.
Per quanto con uno sforzo violento cercassi di arrestare in me il tumulto dei sentimenti, non potei impedire che non le apparissi almeno turbato. Turbata era anche lei, ma dal pudore, che non le consentiva di mostrarsi lieta, come avrebbe voluto, di rivedermi finalmente guarito, alla luce, e contento… No? Perché no?… Alzò appena gli occhi a guardarmi; arrossì; mi porse una busta:
«Ecco, per lei…»
«Una lettera?»
«Non credo. Sarà la nota del dottor Ambrosini? Il servo vuol sapere se c’è risposta.»
Le tremava la voce. Sorrise.
«Subito,» diss’io; ma un’improvvisa tenerezza mi prese, comprendendo ch’ella era venuta con la scusa di quella nota per aver da me una parola che la raffermasse nelle sue speranze; un’angosciosa, profonda pietà mi vinse, pietà di lei e di me, pietà crudele, che mi spingeva irresistibilmente a carezzarla, a carezzare in lei il mio dolore, il quale soltanto in lei, che pur ne era la causa, poteva trovar conforto. E pur sapendo che mi sarei compromesso ancor più, non seppi resistere: le porsi ambo le mani. Ella, fiduciosa, ma col volto in fiamme, alzò pian piano le sue e le pose sulle mie. Mi attirai allora la sua testina bionda sul petto e le passai una mano su i capelli.
«Povera Adriana!»
«Perché?» mi domandò, sotto la carezza. «Non siamo contenti?»
«Sì…»
«E allora perché povera?»
Ebbi in quel momento un impeto di ribellione, fui tentato di svelarle tutto, di risponderle: «Perché? Senti: io ti amo, e non posso, non debbo amarti! Se tu vuoi, però…». Ma dàlli! Che poteva volere quella mite creatura? Mi premetti forte sul petto la sua testina, e sentii che sarei stato molto più crudele se dalla gioja suprema a cui ella, ignara, si sentiva in quel punto, inalzata dall’amore, io l’avessi fatta precipitare nell’abisso della disperazione che era in me.
«Perché,» dissi, lasciandola, «perché so tante cose, per cui lei non può essere contenta…»
Ebbe come uno smarrimento penosissimo, nel vedersi, così d’un tratto, sciolta dalle mie braccia. Si aspettava forse, dopo quelle carezze, che io le dessi del tu? Mi guardò e, notando la mia agitazione, domandò esitante:
«Cose… che sa lei… per sé, o qui… di casa mia?»
Le risposi col gesto: “Qui, qui” per togliermi la tentazione che di punto in punto mi vinceva, di parlare, di aprirmi con lei.
L’avessi fatto! Cagionandole subito quell’unico, forte dolore, gliene avrei risparmiato altri, e io non mi sarei cacciato in nuovi e più aspri garbugli. Ma troppo recente era allora la mia triste scoperta, avevo ancor bisogno d’approfondirla bene, e l’amore e la pietà mi toglievano il coraggio d’infrangere così d’un tratto le speranze di lei e la mia vita stessa, cioè quell’ombra d’illusione che di essa, finché tacevo, poteva ancora restarmi. Sentivo poi quanto odiosa sarebbe stata la dichiarazione che avrei dovuto farle, che io, cioè, avevo moglie ancora. Sì! sì! Svelandole che non ero Adriano Meis, io tornavo ad essere Mattia Pascal, MORTO E ANCORA AMMOGLIATO! Come si possono dire siffatte cose? Era il colmo, questo, della persecuzione che una moglie possa esercitare sul proprio marito: liberarsene lei, riconoscendolo morto nel cadavere d’un povero annegato, e pesare ancora, dopo la morte, su lui, addosso a lui, così. Io avrei potuto ribellarmi, è vero, dichiararmi vivo, allora… Ma chi, al posto mio, non si sarebbe regolato come me? Tutti, tutti, come me, in quel punto, nei panni miei, avrebbero stimato certo una fortuna potersi liberare in un modo così inatteso, insperato, insperabile, della moglie, della suocera, dei debiti, d’un’egra e misera esistenza come quella mia. Potevo mai pensare, allora, che neanche morto mi sarei liberato della moglie? lei, sì, di me, e io no di lei? e che la vita che m’ero veduta dinanzi libera libera libera, non fosse in fondo che una illusione, la quale non poteva ridursi in realtà, se non superficialissimamente, e più schiava che mai, schiava delle finzioni, delle menzogne che con tanto disgusto m’ero veduto costretto a usare, schiava del timore d’esser scoperto, pur senza aver commesso alcun delitto?
Adriana riconobbe che non aveva in casa, veramente, di che esser contenta; ma ora… E con gli occhi chiusi e con un mesto sorriso mi domandò se mai per me potesse rappresentare un ostacolo ciò che per lei era cagione di dolore. “No, è vero?” chiedeva quello sguardo e quel mesto sorriso.
«Oh, ma paghiamo il dottor Ambrosini!» esclamai, fingendo di ricordarmi improvvisamente della nota e del servo che attendeva di là. Lacerai la busta e, senza por tempo in mezzo, sforzandomi d’assumere un tono scherzoso: «Seicento lire!» dissi. «Guardi un po’, Adriana: la Natura fa una delle sue solite stramberie; per tanti anni mi condanna a portare un occhio, diciamo così disobbediente; io soffro dolori e prigionia per correggere lo sbaglio di lei, e ora per giunta mi tocca a pagare. Le sembra giusto?»
Adriana sorrise con pena.
«Forse,» disse, «il dottor Ambrosini non sarebbe contento se lei gli rispondesse di rivolgersi alla Natura per il pagamento. Credo che si aspetti anche d’esser ringraziato, perché l’occhio…»
«Le par che stia bene?»
Ella si sforzò a guardarmi, e disse piano, riabbassando subito gli occhi,: «Sì… Pare un altro…»
«Io o l’occhio?»
«Lei.»
«Forse con questa barbaccia…»
«No… perché? Le sta bene…»
Me lo sarei cavato con un dito, quell’occhio! Che mi importava più d’averlo a posto?
«Eppure,» dissi, «forse esso per conto suo, era più contento prima. Ora mi dà un certo fastidio… Basta. Passerà!»
Mi recai allo stipetto a muro, in cui tenevo il denaro. Allora Adriana accennò a volersene andare; io stupido la trattenni; ma già, come potevo prevedere? In tutti gli impicci miei, grandi e piccini, sono stato, come s’è visto, soccorso sempre dalla fortuna. Ora ecco com’essa, anche questa volta, mi venne in ajuto.
Facendo per aprire lo stipetto, notai che la chiave non girava entro la serratura: spinsi appena appena e, subito, lo sportellino cedette: era aperto!
«Come!» esclamai. «Possibile ch’io l’abbia lasciato così?»
Notando il mio improvviso turbamento, Adriana era diventata pallidissima. La guardai, e: «Ma qui… guardi, signorina, qui qualcuno ha dovuto metter le mani!»
C’era dentro lo stipetto un gran disordine: i miei biglietti di banca erano stati tratti dalla busta di cuojo, in cui li avevo custoditi, ed erano lì sul palchetto sparpagliati. Adriana si nascose il volto tra le mani, inorridita. Io raccolsi febbrilmente quei biglietti e mi diedi a contarli.
«Possibile?» esclamai, dopo aver contato, passandomi le mani tremanti su la fronte ghiaccia di sudore.
Adriana fu per mancare, ma si sorresse ad un tavolinetto lì presso e domandò con una voce che non mi parve più la sua: «Hanno rubato?»
«Aspetti… aspetti… Com’è possibile?» dissi io.
E mi rimisi a contare, sforzando rabbiosamente le dita e la carta, come se, a furia di stroppicciare, potessero da quei biglietti venir fuori gli altri che mancavano.
«Quanto?» mi domandò ella, scontraffatta dall’orrore, dal ribrezzo, appena ebbi finito di contare.
«Dodici… dodici mila lire…» balbettai. «Erano sessantacinque… sono cinquantatré! Conti lei…»
Se non avessi fatto a tempo a sorreggerla, la povera Adriana sarebbe caduta per terra, come sotto una mazzata. Tuttavia, con uno sforzo supremo, ella poté riaversi ancora una volta, e singhiozzando, convulsa, cercò di sciogliersi da me che volevo adagiarla su la poltrona e fece per spingersi verso l’uscio: «Chiamo il babbo! chiamo il babbo!»
«No!» le gridai, trattenendola e costringendola a sedere. «Non si agiti così, per carità, si calmi. Mi lasci prima accertare, perché… sì, lo stipetto era aperto, ma io non posso, non voglio credere ancora a un furto così ingente… Stia buona, via!»
E daccapo, per un ultimo scrupolo, tornai a contare i biglietti; pur sapendo di certo che tutto il mio denaro stava lì, in quello stipetto, mi diedi a rovistare da per tutto, anche dove non era in alcun modo possibile ch’io avessi lasciato una tal somma, tranne che non fossi stato colto da un momento di pazzia. E per indurmi a quella ricerca che m’appariva a mano a mano sempre più sciocca e vana, mi sforzavo di credere inverosimile l’audacia del ladro. Ma Adriana, quasi farneticando, con le mani sul volto, con la voce rotta dai singhiozzi:
«E’ inutile! è inutile!» gemeva. «Ladro… ladro… anche ladro!… Tutto congegnato avanti… Ho sentito nel bujo… m’è nato il sospetto… ma non volli credere ch’egli potesse arrivare fino a tanto…»
Papiano, sì: il ladro non poteva esser altri che lui; lui, per mezzo del fratello, durante quelle sedute spiritiche…
«Ma come mai,» gemette ella, angosciata, «come mai teneva lei tanto denaro, così, in casa?»
Mi voltai a guardarla, inebetito. Che risponderle? Potevo dirle che per forza, nella condizione mia, dovevo tener con me il denaro? potevo dirle che mi era interdetto d’investirlo in qualche modo, d’affidarlo a qualcuno? che non avrei potuto neanche lasciarlo in deposito in qualche banca, giacché, se poi per caso fosse sorta qualche difficoltà non improbabile per ritirarlo, non avrei più avuto modo di far riconoscere il mio diritto su esso?
«Potevo mai supporre?» dissi.
Adriana si coprì di nuovo il volto con le mani, gemendo, straziata: «Dio! Dio! Dio!»
Lo sgomento che avrebbe dovuto assalire il ladro nel commettere il furto, invase me, invece, al pensiero di ciò che sarebbe avvenuto. Papiano non poteva certo supporre ch’io incolpassi di quel furto il pittore spagnuolo o il signor Anselmo, la signorina Caporale o la serva di casa o lo spirito di Max: doveva esser certo che avrei incolpato lui, lui e il fratello: eppure, ecco, ci s’era messo, quasi sfidandomi.
E io? che potevo far io? Denunziarlo? E come? Ma niente, niente! io non potevo far niente! ancora una volta, niente! Mi sentii atterrato, annichilito. Era la seconda scoperta, in quel giorno! Conoscevo il ladro, e non potevo denunziarlo. Che diritto avevo io alla protezione della legge? Io ero fuori d’ogni legge. Chi ero io? nessuno! Non esistevo io, per la legge. E chiunque, ormai, poteva rubarmi; e io, zitto!
Ma tutto questo, Papiano non poteva saperlo. E dunque?
«Come ha potuto farlo?» dissi quasi tra me. «Da che gli è potuto venire tanto ardire?»
Adriana levò il volto dalle mani e mi guardò stupita, come per dire: “E non lo sai”»
«Ah, già!» feci, comprendendo a un tratto.
«Ma lei lo denunzierà!» eslamò ella, levandosi in piedi. «Mi lasci, la prego, mi lasci chiamare il babbo… Lo denunzierà subito!»
Feci in tempo a trattenerla ancora una volta. Non ci mancava altro, che ora, per giunta, Adriana mi costringesse a denunziare il furto! Non bastava che mi avessero rubato, come niente, dodici mila lire? Dovevo anche temere che il furto si conoscesse; pregare, scongiurare Adriana che non lo gridasse forte, non lo dicesse a nessuno, per carità? Ma che! Adriana – e ora lo intendo bene – non poteva assolutamente permettere che io tacessi e obbligassi anche lei al silenzio, non poteva in verun modo accettare quella che pareva una mia generosità, per tante ragioni: prima per il suo amore, poi per l’onorabilità della casa, e anche per me e per l’odio ch’ella portava al cognato.
Ma in quel frangente, la sua giusta ribellione mi parve proprio di più: esasperato, le gridai: «Lei si starà zitta: gliel’impongo! Non dirà nulla a nessuno, ha capito? Vuole uno scandalo?»
«No! no!» s’affrettò a protestare, piangendo, la povera Adriana. «Voglio liberar la mia casa dall’ignominia di quell’uomo!»
«Ma egli negherà!» incalzai io. «E allora, lei, tutti di casa innanzi al giudice… Non capisce?»
«Sì, benissimo!» rispose Adriana con fuoco, tutta vibrante di sdegno. «Neghi, neghi pure! Ma noi, per conto nostro, abbiamo altro, creda, da dire contro di lui. Lei lo denunzii, non abbia riguardo, non tema per noi… Ci farà un bene, creda, un gran bene! Vendicherà la povera sorella mia… Dovrebbe intenderlo, signor Meis, che mi offenderebbe, se non lo facesse. Io voglio, voglio che lei lo denunzii. Se non lo fa lei, lo farò io! Come vuole che io rimanga con mio padre sotto quest’onta! No! no! no! E poi…»
Me la strinsi fra le braccia: non pensai più al denaro rubato, vedendola soffrire così, disperata: e le promisi che avrei fatto com’ella voleva, purché si calmasse. No, che onta? non c’era alcuna onta per lei, né per il suo babbo; io sapevo su chi ricadeva la colpa di quel furto; Papiano aveva stimato che il mio amore per lei valesse bene dodici mila lire, e io dovevo dimostrargli di no? Denunziarlo? Ebbene, sì, l’avrei fatto, non per me, ma per liberar la casa di lei da quel miserabile: così, via! via! e poi, che mi giurasse su quel che aveva di più caro al mondo, che non avrebbe parlato a nessuno, a nessuno, di quel furto, se prima io non consultavo un avvocato per tutte le conseguenze che, in tanta sovreccitazione, né io né lei potevamo prevedere.
«Me lo giura? Su ciò che ha di più caro?»
Me lo giurò, e con uno sguardo, tra le lagrime, mi fece intendere su che cosa me lo giurava, che cosa avesse di più caro.
Povera Adriana!
Rimasi lì, solo, in mezzo alla camera, sbalordito, vuoto, annientato, come se tutto il mondo per me si fosse fatto vano. Quanto tempo passò prima ch’io mi riavessi? E come mi riebbi? Scemo… scemo!… Come uno scemo, andai a osservare lo sportello dello stipetto, per vedere se non ci fosse qualche traccia di violenza. No: nessuna traccia: era stato aperto pulitamente; con un grimaldello, mentr’io custodivo con tanta cura in tasca la chiave.
“E non si sente lei,” mi aveva domandato il Paleari alla fine dell’ultima seduta, “non si sente lei come se le avessero sottratto qualche cosa?”
Dodici mila lire!
Di nuovo il pensiero della mia assoluta impotenza, della mia nullità, mi assalì, mi schiacciò. Il caso che potessero rubarmi e che io fossi costretto a restar zitto, e finanche con la paura che il furto fosse scoperto, come se l’avessi commesso io e non un ladro a mio danno, non mi s’era davvero affacciato alla mente.
Dodici mila lire? Ma poche! poche! Possono rubarmi tutto, levarmi fin la camicia di dosso; e io, zitto! Che diritto ho io di parlare? La prima cosa che mi domanderebbero, sarebbe questa: “E voi chi siete? Donde vi era venuto quel denaro?”. Ma senza denunziarlo… vediamo un po’! se questa sera io l’afferro per il collo e gli grido: “Qua subito il denaro che hai tolto di là, dallo stipetto, pezzo di ladro!” Egli strilla; nega; può forse dirmi: “Sissignore, eccolo qua, lo preso per isbaglio…”? E allora? Ma c’è il caso che mi dia anche querela per diffamazione. Zitto, dunque, zitto! M’è sembrata una fortuna l’esser creduto morto; ebbene, sono morto davvero. Morto? Peggio che morto; me l’ha ricordato il signor Anselmo: i morti non debbono più morire, e io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita. Che vita infatti può esser più la mia? La noja di prima, la solitudine, la compagnia di me stesso?
Mi nascosi il volto con le mani; caddi a sedere su la poltrona.
Ah, fossi stato almeno un mascalzone! avrei potuto forse adattarmi a restar così, sospeso nell’incertezza della sorte, abbandonato al caso, esposto a un rischio continuo, senza base, senza consistenza. Ma io? Io, no. E che fare, dunque? Andarmene via? E dove? E Adriana? Ma che potevo fare per lei? Nulla… nulla… Come andarmene però così, senz’alcuna spiegazione, dopo quanto era accaduto? Ella ne avrebbe cercato la causa in quel furto; avrebbe detto: “E perché avrebbe voluto salvare il reo, e punir me innocente?”. Ah, no, no, povera Adriana! Ma, d’altra parte, non potendo far nulla come sperare di rendere men trista la mia parte verso di lei? Per forza dovevo dimostrarmi inconseguente e crudele. L’inconseguenza, la crudeltà erano della mia stessa sorte, e io per primo ne soffrivo. Fin Papiano, il ladro, commettendo il furto, era stato più conseguente e meno crudele di quel che pur troppo avrei dovuto dimostrarmi io.
Egli voleva Adriana, per non restituire al suocero la dote della prima moglie: e io avevo voluto togliergli Adriana? e dunque la dote bisognava che la restituissi io, al Paleari.
Per ladro, conseguentissimo!
Ladro? Ma neanche ladro: perché la sottrazione, in fondo, sarebbe stata più apparente che reale: infatti, conoscendo egli l’onestà di Adriana, non poteva pensare ch’io volessi farne la mia amante: volevo certo farla mia moglie: ebbene allora avrei riavuto il mio denaro sotto forma di dote d’Adriana, e per di più avrei avuto una mogliettina saggia e buona: che cercavo di più?
Oh, io ero sicuro che, potendo aspettare, e se Adriana avesse avuto la forza di serbare il segreto, avremmo veduto Papiano attener la promessa di restituire, anche prima dell’anno di comporto, la dote della defunta moglie.
Quel denaro, è vero, non poteva più venire a me, perché Adriana non poteva esser mia: ma sarebbe andato a lei, se ella ora avesse saputo tacere, seguendo il mio consiglio, e se io mi fossi potuto trattenere ancora per qualche po’ di tempo lì. Molta arte, molta arte avrei dovuto adoperare, e allora Adriana, se non altro, ci avrebbe forse guadagnato questo: la restituzione della sua dote.
M’acquietai un po’, almeno per lei, pensando così. Ah, non per me! Per me rimaneva la crudezza della frode scoperta, quella de la mia illusione, di fronte a cui era nulla il furto delle dodici mila lire, era anzi un bene, se poteva risolversi in un vantaggio per Adriana.
Io mi vidi escluso per sempre dalla vita, senza possibilità di rientrarvi. Con quel lutto nel cuore, con quell’esperienza fatta, me ne sarei andato via, ora, da quella casa, a cui mi ero già abituato, in cui avevo trovato un po’ di requie, in cui mi ero fatto quasi il nido; e di nuovo per le strade, senza meta, senza scopo, nel vuoto. La paura di ricader nei lacci della vita, mi avrebbe fatto tenere più lontano che mai dagli uomini, solo, solo, affatto solo, diffidente, ombroso; e il supplizio di Tantalo si sarebbe rinnovato per me.
Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Due ombre!
Là, là, per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l’ombra, zitta.
L’ombra d’un morto: ecco la mia vita…
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.
“Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Su, da bravo, sì, alza un’anca! alza un’anca!”
Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
“E se mi metto a correre,» pensai, «mi seguirà!”
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa d’un ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.

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Pirandello sul set del film con Pierre Blanchar e Isa Miranda

Questo lungo brano rappresenta il climax (o lo spannung) dell’intero romanzo. Esso avviene, non a caso, quando a Mattia/Adriano vengono tolte le bende, cioè quando smette, nel buio, nella cecità di fluire nell’universo e ritorna ad essere estraneo alla vita.

Paradossalmente (molte opere pirandelliane giocheranno proprio sul paradosso) l’inizio del capitolo insiste sul concetto di libertà: il fatto che egli si sia cancellato, e che ciò avrebbe pertanto dovuto costituire la più totale liberazione, rappresenta invece una terribile costrizione; chi invece non si è affatto preoccupata di “liberarsi di sé” lo è effettivamente, Romilda che lo ha riconosciuto cadavere.
Il problema è che lui si è estraniato dalla vita: egli vive fuori dalla vita, osservandola dall’esterno (il tema dell’occhio è centrale: lo strabismo, la cecità) e nel momento in cui tenta di rientrarci non può.
La vita infatti, per Pirandello si vive all’interno di una forma: Andrea Meis non è in quanto mancante di forma. E’ un non esistente in quanto non è stato certificato nella vita, non ha niente che sia riconoscibile alla vita (nome, documento, identità). Non può amare, non può denunciare.
Ecco allora la chiusa, giocata sul doppio: Mattia e la sua ombra (Meis). Potremo definire le due parti intercambiabili: Mattia come ombra di Adriano o viceversa. Ma un uomo “morto” non ha ombra: da qui la disperazione: egli non esiste e quindi deve fuggire dall’ombra che lo perseguita.
Può farlo solo suicidandosi: lascia un cappello, un bastone e un biglietto a firma Adriano Meis.
Quindi torna da dove era partito, vuole ricongiungersi alla sua storia, ma la moglie si è risposata ed ha un figlio con un altro uomo. Mattia decide di rimanere estraneo alla vita:

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Mastroianni nel film di Monicelli

IL FU MATTIA PASCAL

Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialzato d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi. Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione. Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
«Intanto, questo,» egli mi dice: «che fuori della legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.»
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’io mi sia. Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:

COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CVOR GENEROSO ANIMA APERTA
QVI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA’ DEI CONCITTADINI
QVESTA LAPIDE POSE

Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda: «Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?»
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo: «Eh, caro mio… Io sono il fu Mattia Pascal.»

L’importanza, nonché la novità del romanzo pirandelliano è già nel titolo: far precedere un fu (come si usa nella definizione dei defunti) ad un nome significa parlare di un morto, ma la sorpresa è che il libro è in prima persona e non è possibile che un morto scriva, a meno che non si racconti di due non vite quella di Mattia Pascal e quella di Adriano Meis.

A ben guardare è un romanzo apparentemente circolare: inizia nello stesso paese dove in effetti si conclude: eppure il ritorno non corrisponde ad uno scioglimento. E’ un percorso a ritroso dove il protagonista ripercorre le sue vicende: il problema è che nel suo lungo flash-back il narratore non è mai il protagonista di ciò che fa, è sempre più agito che agente, per questo vi è bisogno di uno sdoppiamento non solo tra Mattia ed Adriano, ma tra Mattia, Adriano e l’autore stesso che, assumendo di volta in volta vari ruoli, storicizza, riflette, filosofeggia, con una parola tira le fila. Infatti il racconto si muove in un tempo preciso (6 anni) ma gli episodi narrati hanno una valenza temporale soggettiva, ora sintetizza ora divaga; lo spazio non è lineare (Liguria, Francia, Montecarlo, Roma) è uno zigzagare, come zigzagano i pensieri rappresentati. Ciò determina un andamento non preciso, punteggiato da riflessioni a posteriori, che ne fanno anche un romanzo, come già detto, filosofico. La sua non circolarità è determinata dal fatto che il romanzo comincia con una vita e finisce con una sconfitta una non-vita.

Il romanzo successivo a Il fu Mattia Pascal, fu Suo marito uscito per la prima volta nel 1911, e, dopo essere stato ritirato, riuscito postumo nel 1941 per volontà del figlio Stefano, col titolo Giustino Roncella nato Bocciolo.

Silvia Roncella, giovane scrittrice di Taranto sposa Giustino Boggiolo, un modesto impiegato, fornito di una cultura altrettanto modesta. Egli dimostra di essere, dopo che la moglie diventa celebre, uno straordinario amministratore, prendendo tutte le iniziative di contratto con gli editori, i critici, i giornalisti, i traduttori e il pubblico, per reclamizzare e far fruttare la produzione letteraria della moglie. Questa sua frenetica attività di agente pubblicitario lo espone alla malignità dei colleghi d’ufficio, che lo ridicolizzano appioppandogli il nomignolo di Roncello e facendogli trovare i biglietti da visita intestati a Giustino Roncella nato Boggiolo. Silvia, che vede il ridicolo della situazione, si distacca sempre più dal marito e si separa da lui, cedendo al corteggiamento di un maturo scrittore, Maurizio Gueli, né si ricongiunge più col marito quando perde l’amore del Gueli e le muore il figlio, sicché sia Giustino sia lei restano soli, ciascuno per la propria strada, chiusi nel proprio dramma interiore.

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Grazia Deledda con suo marito

“Il romanzo è sospeso tra propositi satirici e addirittura caricaturali (sia per la vicenda della protagonista, che esplicitamente allude a quella della Deledda, sia per l’impietosa presentazione della società letteraria, delle sue finzioni e delle sue volgarità) e l’intenzione di seguire più da vicino il senso dell’esperienza artistica, il sorgere e lo svilupparsi delle sue forme nella mente dell’artista, il legame (che sempre ha ossessionato Pirandello) tra creazione e gestazione. Tra molte ambiguità e sotterranee lacerazioni, si interroga la natura femminile della creatività, i contrasti e le scissioni che da esse prendono corpo, il suo opporsi alle finzioni e agli artifici sociali motivato dalla ricerca di un “arcano senso” nascono nella “vita delle cose”” (Ferroni).

Se il tema presente nei romanzi finora descritti appartiene a tematiche, ora accennate ora chiaramente espresse, tipicamente pirandelliane come l’imprevedibilità del caso, la labilità tra realtà ed apparenza, l’io diviso tra forma e contenuto, diverso è l’impegno con cui l’autore siciliano dà alle stampe un romanzo storico I vecchi e i giovani (1913), con cui il nostro oltre ad ispirarsi al grande precedente di De Roberto, I viceré del 1891, svolge un’amara riflessione sulla conclusione del processo risorgimentale a cui da giovane aveva creduto. 

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I vecchi e i giovani in Tv (1979)

A Girgenti, nel 1893, si deve eleggere il deputato del collegio da inviare in Parlamento; la contesa politica vede schierati clericali e affaristi, governativi, socialisti e il nuovo movimento dei Fasci siciliani. Flaminio Salvo, banchiere, proprietario di miniere, rappresentante del ceto borghese imprenditoriale, offre al partito clericale il suo appoggio elettorale e, per sancire l’alleanza, combina, il matrimonio della cinquantenne sorella Adelaide con il sessantacinquenne principe Ippolito Laurentano, feudatario di fede borbonica e clericale, candidando Ignazio Capolino, consulente legale e uomo di fiducia di Salvo. I governativi candidano invece un reduce garibaldino, Roberto Auriti, figlio di Caterina Laurentano – sorella del principe Ippolito che aveva scelto con dignità una vita di ristrettezze. Nell’imminenza delle elezioni, Roberto – che vive a Roma dove esercita con modesta fortuna la professione di avvocato – torna a Girgenti. Nei suoi confronti il partito clericale scatena sulla stampa cittadina una campagna diffamatoria, orchestrata da mestatori prezzolati che ne decretano la sconfitta. Nel mentre in tutta la Sicilia monta la protesta sociale di contadini e zolfatari, sullo sfondo della crisi economica e dell’industria zolfifera dell’isola. Nella seconda parte del romanzo l’azione si sposta a Roma, dove Roberto Auriti è ritornato. La capitale è sommersa dal “fango” dello scandalo della Banca Romana in cui l’avvocato rimane coinvolto, ma ne esce scagionato. A Roma si riannodano le vicende di alcuni personaggi girgentini convenuti nella capitale con motivazioni diverse: tra i quali l’onorevole Ignazio Capolino, con la giovane moglie Nicoletta, per svolgere il suo mandato parlamentare; Flaminio Salvo e l’ingegnere minerario Aurelio Costa, per presentare al Ministero un progetto di consorzio fra i produttori di zolfo siciliani; Flaminio Salvo è accompagnato dalla figlia Dianella, per la quale, perseverando nei suoi disegni di alleanze matrimoniali, vorrebbe combinare le nozze con Lando Laurentano (figlio del principe Ippolito), che risiede a Roma impegnato nella causa socialista. Respinto dal Ministero il progetto di consorzio, Aurelio Costa è rimandato a Girgenti per placare l’animo degli zolfatari «inferociti dalla fame per la chiusura delle zolfare»; nel viaggio di ritorno l’accompagna Nicoletta Capolino. Il viaggio si trasforma in una fuga d’amore fra i due giovani. Giunto in Sicilia, Costa, seguito da Nicoletta, si reca ad Aragona per parlamentare con gli zolfatari delle miniere, ma questi, sobillati da un provocatore, assalgono la carrozza dell’ingegnere, lo uccidono insieme con l’amante e ne bruciano i corpi. Alla notizia della morte di Costa, Dianella Salvo, che ne era innamorata, impazzisce. Intanto tutta la Sicilia è in tumulto. Il principe Lando Laurentano lascia Roma e si reca a Palermo, per seguire da vicino gli eventi rivoluzionari. Il governo decreta lo stato d’assedio in Sicilia e procede ad arresti in massa degli esponenti socialisti e degli aderenti ai Fasci. Lando, con alcuni compagni, fugge da Palermo e si dirige verso Porto Empedocle, dove intende imbarcarsi per espatriare. Sulla strada della fuga raggiunge Valsania, il feudo di famiglia dove vive estraniato, in filosofico distacco dal mondo, lo zio don Cosmo Laurentano. Vittima di un’estrema illusione sarà, a conclusione del romanzo, Mauro Mortara, antico garibaldino settantasettenne, uomo di fiducia di don Cosmo Laurentano. Mortara, turbato dalla ribellione dei Fasci che disonora la Sicilia, sconvolgendo l’unità nazionale e disfacendo «l’opera dei vecchi», corre armato, con il petto fregiato di medaglie garibaldine, a unirsi ai soldati inviati a reprimere la rivolta, ma, scambiato per un rivoltoso, viene ucciso dai militari. Con la morte di Mauro Mortara, l’Italia unita, uccidendo il suo passato risorgimentale, sembra aver rinnegato se stessa.

Il romanzo è ambientato in Sicilia durante i sanguinosi moti dei “Fasci” del 1893, in cui emergono con forza le divisioni di classe, da una parte i clericali, tesi ad impedire il consolidamento del nuovo regime liberale, dall’altra la classe dirigente, che disperde nel disordine morale i sacrifici e i meriti acquisiti e ancora a sé la classe popolare che vede dispersa l’illusione di una rigenerazione sociale. Più che casi individuali, i personaggi del romanzo interpretano i diversi aspetti della complessa situazione storica che stanno vivendo. Così il principe don Ippolito di Colimbreta, fedele suddito borbonico; don Flaminio Salvo, esponente della nuova borghesia capitalista; Roberto Auriti, glorioso garibaldino che si spegne in un’esistenza amorfa; il giovane principe Gerlando di Colimbetra, sostenitore delle nuove idee e per questo costretto all’esilio. I personaggi rappresentano un contrasto di concezioni e di ideali che si risolve nel contrasto tra due generazioni: quella che ha fatto l’Unità e che vede perduta l’eredità del Risorgimento, e quella più giovane, che nel gretto conservatorismo dei padri scorge solo la difesa di interessi reazionari.

Nel romanzo ci sono presentate tre generazioni che vivono, nel momento della loro giovinezze tre momenti cruciali della storia siciliana: prendiamo, oltre a quelli citati nella sinossi, tre esempi: don Gerlando Lauretano, uomo che ha combattuto per la libertà contro il regime borbonico; Roberto Auriti, che ha combattuto per l’unificazione nazionale; Lando Lauretano, che ha lottato per una giustizia sociale. Tre identità psicologiche mosse da un valore, un ideale, messo in crisi dalla non realizzazione dello stesso, che ha reso loro mediocri, vuoti, o cristallizzati “fuori tempo” a rimpiangere l’idea per cui aveva combattuto.

Quest’ultima è forse la figura più umoristicamente presente in questo romanzo storico:

NEL CAMERONE DEL GENERALE

Quella visita alla famosa stanza del Generale, detta per antonomasia il Camerone, era una grazia veramente particolare concessa a Dianella. Mauro Mortara, che ne teneva la chiave, non vi lasciava entrar mai nessuno. E non l’uscio soltanto, ma anche le persiane dei due terrazzini e della finestra stavano sempre chiuse, quasi che l’aria e la luce, entrandovi apertamente, potessero fugare i ricordi raccolti e custoditi con tanta gelosa venerazione. Certo, dopo la partenza del vecchio principe per l’esilio, uscio e finestre erano stati spalancati chi sa quante volte; ma il Mortara, da che era ritornato a Valsanìa, aveva tenute almeno le persiane sempre chiuse così, e aveva l’illusione che così appunto fossero rimaste da allora, sempre, e che però quelle pareti serbassero ancora il respiro del Generale, l’aria di quel tempo. Questa illusione era sostenuta dalla vista della suppellettile rimasta intatta, tranne la lettiera d’ottone a baldacchino, che non aveva più né materasse, né tavole, né l’ampio parato a padiglione. Quella penombra era così propizia alla rievocazione dei lontani ricordi! Mauro, ogni volta, girava un po’ per la stanza; si fermava innanzi a questo o a quel mobile decrepito, dall’impiallacciatura gonfia e crepacchiata qua e là; poi andava a sedere sul divano imbottito d’una stoffa verde, ora ingiallita, con due rulli alla base di ciascuna testata, e lì, con gli occhi socchiusi, lisciandosi con la piccola mano tozza e vigorosa la lunga barba bianca, pensava, e più spesso ricordava, assorto, come in chiesa un divoto nella preghiera.
Non lo disturbavano neppure i topi che facevano talvolta una gazzarra indiavolata sul terrazzo di sopra, il cui piano, per impedire che il soffitto del camerone rovinasse, s’era dovuto ricoprire di lastre di bandone. Il rimedio era giovato poco e per poco tempo; le lastre di bandone s’erano staccate e accartocciate al sole, con molta soddisfazione dei topi che, rincorrendosi, vi s’appiattavano; e il soffitto già s’era aggobbato, gocciava d’inverno per due o tre stillicidii, e le pareti serbavano, anche d’estate, due larghe chiose d’umido, grommose di muffa. Don Cosmo non se ne dava pensiero: non entrava quasi mai nel camerone; Mauro non voleva che si riattasse: poco più gli restava da vivere e voleva che tutto lì rimanesse com’era; sapeva che, morto lui, nessuno si sarebbe preso più cura di custodire quel “santuario della libertà”; e il soffitto allora poteva anche crollare o essere riattato. Intanto, ogni anno, al sopravvenire dell’autunno, egli si recava sul terrazzo a rassettare e fissar le lastre di bandone con grosse pietre, e sul pavimento del camerone collocava concole e concoline sotto gli stillicidii. Le gocce vi piombavan sonore, ad una ad una; e quel tin-tan cadenzato pareva gli conciliasse il raccoglimento.
Dianella, entrando, ebbe subito come un urto dalla vista inattesa d’una belva imbalsamata che, nella penombra, pareva viva, là, nella parete di fronte, presso l’angolo, con la coda bassa e la testa volta da un lato, felinamente.
«Che paura!» esclamò, levando le mani verso il volto e sorridendo d’un riso nervoso. «Non me l’aspettavo… Che è?»
«Leopardo.»
«Bello!»
E Dianella abbassò una mano a carezzare quel pelame variegato; ma subito la ritrasse tutta impolverata, e notò che alla belva mancava uno degli occhi di vetro, il sinistro.
«Un altro, compagno a questo,» riprese Mauro «l’ho regalato al Museo dell’Istituto, a Girgenti. Non l’avete mai veduto? C’è una vetrina mia, nel Museo. Accanto al leopardo una jena, bella grossa, e, sopra un’aquila imperiale. Su la vetrina sta scritto: “Cacciati, inbalsamati e donati da Mauro Mortara.” Gnorsì. Ma venite qua, prima. Voglio farvi vedere un’altra cosa. La condusse davanti al vecchio divano sgangherato. Appese alla parete, sopra il divano, eran quattro medaglie, due d’argento, due di bronzo, fisse in una targhetta di velluto rosso ragnato e scolorito. Sopra la targhetta era una lettera, chiusa in cornice, scritta di minutissimo carattere in un foglietto cilestrino, sbiadito.
«Ah, le medaglie!» esclamò Dianella.
«No,» disse Mauro, turbato, con gli occhi chiusi. «La lettera. Leggete la lettera.»
Dianella s’accostò di più al divano e lesse prima la firma: GERLANDO LAURENTANO.
«Del Generale?»
Mauro, ancora con gli occhi chiusi, accenno di sì col capo, gravemente. E Dianella lesse:
“Amici, Le notizie di Francia, il colpo di Stato di Luigi Napoleone recheranno certamente una grave e lunga sosta al momento per la nostra santa causa e ritarderanno, chi sa fino a quando, il nostro ritorno in Sicilia. Vecchio come sono, non so né posso più sopportare il peso di questa vita d’esilio. Penso che non sarò più in grado di prestare il mio braccio alla Patria, quand’essa, meglio maturati gli eventi, ne avrà bisogno. Viene meno pertanto la ragione di trascinare così un’esistenza incresciosa a me, dannosa a’ miei figli. Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro Gerlando Laurentano.” 
Dianella si volse a guardare il Mortara che, tutto ristretto in sé, con gli occhi ora strizzati, il volto contratto e una mano su la bocca, si sforzava di soffocare nel barbone abbatuffolato i singhiozzi irrompenti.
«Non la rileggevo piú da anni,» mormorò quando poté parlare. Tentennò a lungo la testa, poi prese a dire: «Mi fece questo tradimento. Scrisse la lettera e si vestì di tutto punto, come dovesse andare a una festa da ballo. Ero in cucina; mi chiamò. “Questa lettera a Mariano Gioéni, a La Valletta”. C’erano a La Valletta gli altri esiliati siciliani, ch’erano stati tutti qua, in questa camera, prima del Quarantotto, al tempo della cospirazione. Mi pare di vederli ancora: don Giovanni Ricci-Gramitto, il poeta; don Mariano Gioèni e suo fratello don Francesco; don Francesco De Luca; don Gerlando Bianchini; don Vincenzo Barresi: tutti qua; e io sotto a far la guardia. Basta! Portai la lettera… Come avrei potuto supporre? Quando ritornai a Burmula, lo trovai morto.
«S’era ucciso?» domandò, intimidita, Dianella.
«Col veleno,» rispose Mauro. «Non aveva fatto neanche in tempo a tirare sul letto l’altra gamba. Come era bello’ Conoscete don Ippolito? Più bello. Diritto, con un pajo d’occhi che fulminavano: un San Giorgio! Anche da vecchio, innamorava le donne. Richiuse gli occhi e a bassa voce recitò la chiusa della lettera, che sapeva a memoria: “Voi, più giovani, questa ragione avete ancora, epperò vivete per essa e ricordatevi qualche volta con affetto del vostro Gerlando Laurentano.” Vedete? E vissi io, come lui volle. E qua, sotto la lettera, che mi feci restituire da don Mariano Gioèni, ho voluto appendere, come in risposta, le mie medaglie.»

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Immagine della sigla dello sceneggiato televisivo

I personaggi presenti in questo passo sono una ragazza Dianella, figlia di Flaminio Salvo, un banchiere e Mario Mortara, fedele servitore del principe Gerlando Laurentano, morto suicida dopo il fallimento dei moti quarantotteschi.

Ciò che emerge, nonostante il romanzo storico, è che ci troviamo di fronte ad un processo di straniamento: duplice è lo sguardo del narratore, da una parte il narratore che non può che cogliere il lato di piena decadenza del luogo, con i topi sul soffitto superiore, il ticchettio della pioggia che cade dalle fessure dello stesso, dal diffuso odore di muffa e polvere, dall’altro la visione “quasi religiosa” del vecchio servitore che guarda a quello stesso ambiente come luogo sacro, in cui gli oggetti fanno parte di un rito, da celebrare come fosse una messa. La lettura della lettera è ascoltata dal vecchio servitore con tale compunzone, come fosse passo evangelico. E’ evidente che dal contrasto tra ciò che è e ciò che viene nasce quel sentimento del contrario già teorizzato da Pirandello.

Ma il significato del romanzo è proprio nel finale, nelle parole di don Cosmo, fratello intellettuale di Bruno Laurentano, portavoce di Pirandello stesso: 

AVER CAPITO IL GIOCO!

«Una sola cosa è triste, cari miei: aver capito il gioco! Dico il gioco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci degli affanni che per essa ci siamo dati, e deridendoci anche, come avviene a me, del non averci saputo illudere, poiché fuori di queste illusioni non c’è più altra realtà…E dunque non vi lagnate! Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi: lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo finché non si sarà stancato; e pensare che tutto questo passerà… passerà…»

Sono le parole che don Cosmo pronuncia ai figli, costretti a fuggire a Malta, come il nonno, dopo il fallimento della lotta dei Fasci. Egli vedendo quasi l’inutilità dell’azione, se non tirandosi proprio fuori dalla storia, ha imparato ad estraniarsi. Essa non è che il frutto delle illusioni di cui i portatori non hanno mai visto la realizzazione, come un camera in cui si siano riversati tutte le utopie, i desideri di generazioni che le hanno viste tramontare, non realizzarsi. Questo perché la storia non conclude.

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Interpretazione suggestiva del romanzo pirandelliano

Altro grande romanzo pirandelliano è I quaderni di Serafino Gubbio operatore, (uscito nel 1915 con il titolo Si gira!, poi rivisto nel 1925 con il titolo con cui è conosciuto) dove, in modo mirabile, viene amplificato il problema già toccato nelle altre sue opere, ma che qui assume nuove risonanze grazie alla presenza del tema dell’intrecciarsi tra finzione filmica e realtà. Serafino Gubbio, infatti, fa l’operatore cinematografico (è il primo romanzo sul cinema) ed il suo occhio è soprattutto quello della macchina da presa che filma una falsa realtà, che tuttavia, alla fine, diventa l’unica realtà. Il mondo cioè non sa più distinguere tra finzione e verità, ancora, quindi, tra apparenza e realtà e tutto ciò, secondo il nostro autore, è ormai molto più accentuato in un contesto industriale, dove è la macchina a dominare sull’uomo.

Il protagonista, Serafino Gubbio, è un giovane napoletano dalle velleità intellettuali frustrate, di professione operatore cinematografico. Serafino viene prima riconosciuto e poi assunto dal direttore di scena, un suo ex compagno di studi. Serafino viene coinvolto nelle riprese di un film commerciale, uno dei tanti che la nuova industria del cinema sforna per soddisfare i gusti dozzinali del pubblico, amante di storie a tinte fosche dal sapore esotico. Il film, della casa cinematografica Kosmograph, si intitolerà La donna e la tigre e avrà come protagonista Vera Nestoroff, donna-tigre divoratrice di uomini anche nella realtà. Serafino riconosce nella donna una sua vecchia conoscenza dal passato tormentato: l’attrice era stata infatti fidanzata con Giorgio Mirelli, pittore e caro amico di Serafino, ma lo aveva tradito con Aldo Nuti, fidanzato della sorella di Vera. Nuti aveva voluto dare a quest’ultimo la prova dell’infedeltà della Nestoroff: la rivelazione era stata però fatale a Mirelli, che si era suicidato dopo averli scoperti insieme. Ora Nuti, che medita vendetta, è ricomparso, facendosi assumere come attore alla Kosmograph; è armato di fucile, perché deve girare una scena di caccia grossa in cui è prevista l’uccisione di una tigre. Durante le riprese, Aldo Nuti spara alla Nestoroff invece che alla tigre, saldando così il conto; poi, per placare i suoi rimorsi, si lascia sbranare dalla belva. Serafino, quasi in trance, riprende tutta la scena impassibilmente. Portato via di peso dal set, egli consegna alla produzione un film “perfetto”, destinato a soddisfare completamente la morbosità del pubblico. Lo choc subìto lo farà però ammutolire per sempre riducendolo a un “silenzio di cosa”.

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Operatori del cinematografo delle origini

STUDIO LA GENTE

Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’adombrano. Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m’ingiurierebbero o m’aggredirebbero.
No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro né certo neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determinato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voi non volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negli occhi d’un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, vi turbate o irritate.
Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, per essere in tempo là. «No, caro, grazie: non posso!» «Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare…» «Alle undici, la colazione.» «Il giornale, la borsa, l’ufficio, la scuola…» «Bel tempo, peccato! Ma gli affari…» «Chi passa? Ah, un carro funebre… Un saluto, di corsa, a chi se n’è andato.» «La bottega, la fabbrica, il tribunale…».
Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi.
«Svaghiamoci!»
Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento di stanchezza.
Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelli che portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascolto i discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile credere alla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere che tutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più si complica e s’accélera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, che presto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe forse, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo.
Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccenda, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io – modestamente – sono uno degli impiegati a questi lavori “per lo svago”.
Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi alla macchinetta perché possa indicare in fin dove arriva a prendere.
Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro l’azione da svolgere.
Io domando al direttore: «Quanti metri?»
Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativamente il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori: «Attenti, si gira!»
E io mi metto a girar la manovella.
Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io quegli attori, press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando il manubrio. Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e sèguito a girare finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio al direttore: «Diciotto metri, – oppure: – trentacinque.»
E tutto è qui.
Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò: «Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?»
Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizioso. Perché con quella domanda voleva dirmi: “Siete proprio necessari voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste esser soppresso, sostituito da un qualche meccanismo?».
Sorrisi e risposi: «Forse col tempo, signore. A dir il vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movimento secondo l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacché io, caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta – anche questa macchinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore, resta ancora da vedere.

L’incipit del romanzo si presenta sin da subito problematico: noi non sappiamo chi egli sia: la tecnica autodiegetica ci dice che egli osserva la gente: certo non si tratta di un’attività. Ma ci dice ancora che egli la guarda con occhio straniato, la osserva come non facesse egli stesso parte di essa. E si accorge della totale alienazione delle persone, del loro correre e zigzagare senza senso. Solo dopo ci dice che egli fa l’operatore cinematografico e allora capiamo che la sua capacità straniante è determinata dal fatto che tra sé e la realtà osservata c’è un altro occhio oltre il suo. Così come in Mattia era l’occhio strabico, qui è quello della macchina che lo distanzia dalle cose, che gli permette di vedere in modo critico gli effetti della modernità.

Nell’ultima parte vi è l’intervento di un ometto, alcuni critici vi hanno voluto vedere una specie di autoritratto pirandelliano, che si pone una domanda di fondamentale valore ancora oggi: fino a quando il progresso tecnologico non toglierà all’uomo la possibilità di utilizzare la ragione per produrre nuove forme lavorative?

LO SFOGO NELLA SCRITTURA

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente? Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, a metterli sù, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentro ma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone, scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un passo. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!

Se il lavoro è straniante e lo conduce all’impassibilità, il nostro Serafino cerca di vendicarsi nella scrittura. Essa non è registrazione del reale (com’era nell’estetica verista), ma, viceversa libero sfogo, in forma diaristica, in cui ripercorre tutto ciò che l’occhio ha registrato, tracciando impressioni, riflessioni e tutto ciò che “sposta” pirandellianamente l’attenzione dal fatto narrato.

Quindi il brano riprende un po’ la tematica della fine di quello precedente e possiamo assolutamente notare che Pirandello, contro l’estetica imperante nel momento in cui scrive tale romanzo, si scagli contro il futurismo e la sua mitizzazione delle macchine.

Il rapporto tra l’uomo è la macchina percorre tutto il romanzo, ed è normale che trovasse una situazione paradossale “umoristica” (in senso pirandelliano) all’intero romanzo:

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Dziga Vertov: L’uomo con la macchina da presa (1929)

IL SILENZIO DI SERAFINO

Girare, ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’una macchina, di dare in pasto a questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro me. Sta bene. Nessuno intanto potrà negare ch’io non abbia ora raggiunto la mia perfezione.
Come operatore, io sono ora, veramente, perfetto.
Dopo circa un mese dal fatto atrocissimo, di cui ancora si parla da per tutto, conchiudo queste mie note.
Una penna e un pezzo di carta: non mi resta più altro mezzo per comunicare con gli uomini. Ho perduto la voce; sono rimasto muto per sempre. In una parte di queste mie note sta scritto: “Soffro di questo mio silenzio, in cui tutti entrano come in un luogo di sicura ospitalità. Vorrei ora che il mio silenzio si chiudesse del tutto intorno a me”. Ecco, s’è chiuso. Non potrei meglio di così impostarmi servitore d’una macchina.
Ma ecco tutta la scena, come s’è svolta.
Quello sciagurato, la mattina appresso, si recò dal Borgalli a protestare fieramente contro il Polacco per la figura ridicola a cui questi a suo credere intendeva esporlo con quella misura di precauzione. Pretese a ogni costo che fosse revocata, dando un saggio a tutti, se occorreva, della sua ben nota valentia di tiratore. Il Polacco si scusò davanti al Borgalli dicendo d’aver preso quella misura non per poca fiducia nel coraggio o nell’occhio del Nuti, ma per prudenza, conoscendo il Nuti molto nervoso, come del resto ne dava or ora la prova con quella protesta così concitata, in luogo del doveroso, amichevole ringraziamento ch’egli s’aspettava.
«Poi,» soggiunse infelicemente, indicando me, «ecco, commendatore, c’è anche Gubbio qua, che deve entrar nella gabbia… Mi guardò con tale disprezzo quel disgraziato, che subito io scattai, rivolto a Polacco: «Ma no, caro! Non dire per me, ti prego! Tu sai bene ch’io starò a girare tranquillo, anche se vedo questo signore in bocca e tra le zampe della bestia!»
Risero gli attori accorsi ad assistere alla scena; e allora Polacco si strinse nelle spalle e si rimise, o piuttosto, finse di rimettersi. Per mia fortuna, com’ho saputo dopo, pregò segretamente Fantappiè e un altro di tenersi di nascosto armati e pronti al bisogno. Il Nuti andò nel suo camerino a vestirsi da cacciatore; io andai nel Reparto del negativo a preparare per il pasto la macchinetta. Per fortuna della Casa, tolsi là di pellicola vergine molto più che non bisognasse, a giudicare approssimativamente della durata della scena. Quando ritornai su lo spiazzo ingombro, in mezzo del gabbione enorme iscenato da bosco, l’altra gabbia, con la tigre dentro, era già stata trasportata e accostata per modo che le due gabbie s’inserivano l’una nell’altra. Non c’era che da tirar sù lo sportello della gabbia più piccola.
Moltissimi attori delle quattro compagnie s’erano disposti di qua e di là, da presso, per poter vedere dentro la gabbia di fra i tronchi e le fronde che nascondevano le sbarre. Sperai per un momento che la Nestoroff, ottenuto l’intento che s’era proposto, avesse avuto almeno la prudenza di non venire. Ma eccola là, purtroppo. Si teneva fuori della ressa, discosta, in disparte, con Carlo Ferro, vestita di verde gajo, e sorrideva chinando frequentemente il capo alle parole che il Ferro le diceva, benché dall’atteggiamento fosco con cui il Ferro le stava accanto apparisse chiaro che a quelle parole ella non avrebbe dovuto rispondere con quel sorriso. Ma era per gli altri, quel sorriso, per tutti coloro che stavano a guardarla, e fu anche per me, più vivo, quando la fissai; e mi disse ancora una volta che non temeva di nulla, perché quale fosse per lei il maggior male io lo sapevo: ella lo aveva accanto – eccolo là – il Ferro; era la sua condanna, e fino all’ultimo con quel sorriso voleva assaporarlo nelle parole villane, ch’egli forse in quel punto le diceva.
Distogliendo gli occhi da lei, cercai quelli del Nuti. Erano torbidi. Evidentemente anche lui aveva scorto la Nestoroff là in distanza; ma volle finger di no. Tutto il viso gli s’era come stirato. Si sforzava di sorridere, ma sorrideva con le sole labbra, appena, nervosamente, alle parole che qualcuno gli rivolgeva. Il berretto di velluto nero in capo, dalla lunga visiera, la giubba rossa, una tromba da caccia, d’ottone, a tracolla, i calzoni bianchi, di pelle, aderenti alle cosce, gli stivali con gli sproni, il fucile in mano: ecco, era pronto.

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Storyboard di Giampaolo Filomeno per un racconto visuale

Fu sollevato di qua lo sportello del gabbione, per cui dovevamo introdurci io e lui; a facilitarci la salita, due apparatori accostarono uno sgabello a due gradi. S’introdusse prima lui, poi io. Mentre disponevo la macchina sul treppiedi, che m’era stato porto attraverso lo sportello, notai che il Nuti prima s’inginocchiò nel punto segnato per il suo appostamento, poi si alzò e andò a scostare un po’ in una parte del gabbione le fronde, come per aprirvi uno spiraglio. Io solo avrei potuto domandargli: «Perché?»
Ma la disposizione d’animo stabilitasi tra noi non ammetteva che ci scambiassimo in quel punto neppure una parola. Quell’atto poi poteva essere da me interpretato in più modi, che m’avrebbero tenuto incerto in un momento che la certezza più sicura e precisa m’era necessaria. E allora fu per me come se il Nuti non si fosse proprio mosso; non solo non pensai più a quel suo atto, ma fu proprio come se io non lo avessi affatto notato.
Egli si riappostò al punto segnato, imbracciando il fucile; io dissi: «Pronti.» S’udì dall’altra gabbia il rumore dello sportello che s’alzava. Polacco, forse vedendo la belva muoversi per entrare attraverso lo sportello alzato, gridò nel silenzio: «Attenti, si gira!»
E io mi misi a girare la manovella, con gli occhi ai tronchi in fondo, da cui già spuntava la testa della belva, bassa, come protesa a spiare in agguato; vidi quella testa piano ritrarsi indietro, le due zampe davanti restar ferme, unite, e quelle di dietro a poco a poco silenziosamente raccogliersi e la schiena tendersi ad arco per spiccare il salto. La mia mano obbediva impassibile alla misura che io imponevo al movimento, più presto, più piano, pianissimo, come se la volontà mi fosse scesa – ferma, lucida, inflessibile – nel polso, e da qui governasse lei sola, lasciandomi libero il cervello di pensare, il cuore di sentire; così che seguitò la mano a obbedire anche quando con terrore io vidi il Nuti distrarre dalla belva la mira e volgere lentamente la punta del fucile là dove poc’anzi aveva aperto tra le frondi lo spiraglio, e sparare, e la tigre subito dopo lanciarsi su lui e con lui mescolarsi, sotto gli occhi miei, in un orribile groviglio. Più forti delle grida altissime levate da tutti gli attori fuori della gabbia accorrenti istintivamente verso la Nestoroff caduta al colpo, più forti degli urli di Carlo Ferro, io udivo qua nella gabbia il sordo ruglio della belva e l’affanno orrendo dell’uomo che s’era abbandonato alle zanne, agli artigli di quella, che gli squarciavano la gola e il petto; udivo, udivo, seguitavo a udire su quel ruglio, su quell’affanno là, il ticchettìo continuo della macchinetta, di cui la mia mano, sola, da sé, ancora, seguitava a girare la manovella; e m’aspettavo che la belva ora si sarebbe lanciata addosso a me, atterrato quello; e gli attimi di quell’attesa mi parevano eterni e mi pareva che per l’eternità io li scandissi girando, girando ancora la manovella, senza poterne fare a meno, quando un braccio alla fine s’introdusse tra le sbarre armato di rivoltella e tirò un colpo a bruciapelo in un’orecchia della tigre sul Nuti già sbranato; e io fui tratto indietro, strappato dalla gabbia con la manovella della macchinetta così serrata nel pugno, che non fu possibile in prima strapparmela.
Non gemevo, non gridavo: la voce, dal terrore, mi s’era spenta in gola, per sempre.
Ecco. Ho reso alla Casa un servizio che frutterà tesori. Appena ho potuto, alla gente che mi stava attorno atterrita, ho prima significato con cenni, poi per iscritto, che fosse ben custodita la macchina, che a stento m’era stata strappata dalla mano: aveva in corpo quella macchina la vita d’un uomo; gliel’avevo data da mangiare fino all’ultimo, fino al punto che quel braccio s’era proteso a uccidere la tigre. Tesori si sarebbero cavati da quel film, col chiasso enorme e la curiosità morbosa, che la volgare atrocità del dramma di quei due uccisi avrebbe suscitato da per tutto.
Ah, che dovesse toccarmi di dare in pasto anche materialmente la vita d’un uomo a una delle tante macchine dall’uomo inventate per sua delizia, non avrei supposto. La vita, che questa macchina s’è divorata, era naturalmente quale poteva essere in un tempo come questo, tempo di macchine; produzione stupida da un canto, pazza dall’altro, per forza, e quella più e questa un po’ meno bollate da un marchio di volgarità.
Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s’ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d’un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l’agiatezza con la retribuzione che la Casa m’ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch’io ne piangessi, ch’io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch’io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non batto ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un’operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d’eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m’uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei.
No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore.
La scena è pronta?
«Attenti, si gira…»

Il brano ci racconta due morti per amore: quella di Vera Nestoroff per mano di Aldo Nuti e di quest’ultimo nelle fauci della tigre.
Potremmo leggerlo in una duplice chiave:

  • gli esseri umani, in quanto attori, quindi in quanto forme duplicate, hanno avuto la colpa di fare entrare la vita nella rappresentazione di essa e l’hanno pagata perdendola entrambi; la tigre è la vita, è la mancanza di forma, l’unica che ha usato il suo istinto come flusso vitale di vita;
  • l’umorismo: Serafino vede una scena duplicandosi; egli già sa quello che accadrà, lo ha già registrato (ce lo dice Pirandello stesso: il movimento di Aldo visto da Serafino – ma poi rimosso – e la frase Ma no, caro! Non dire per me, ti prego! Tu sai bene ch’io starò a girare tranquillo, anche se vedo questo signore in bocca e tra le zampe della bestia!, che suscita il riso tra gli altri attori). La tecnica umoristica consiste proprio nel sottolineare che Serafino, nel raccontare la scena, ci sembra sia più intenzionato a dirci il suo problema nel rimanere legato alla macchina.

Ed è proprio nel finale che si evince come il tema del romanzo, al di là di una trama piuttosto scontata, sia centrato sul rapporto uomo-macchina. Pirandello ci mostra come sia essa a dominare ormai il mondo a lui contemporaneo, trasformando Serafino in una macchina afasica il cui compito è reiterato. Il problema è che il suo metamorfizzarsi in macchina lo renderà prodotto industriale perfetto.
Ma il silenzio di Serafino non è solo di parola; se Mattia si lascia ancora un istinto di vita nel suo io, trovando pietà per il morto col suo nome, Serafino riduce se stesso al nulla, perché, molto probabilmente, dopo aver scritto queste parole, farà tacere anche il suo diario, per diventare solo una mano che gira la manovella.
Il romanzo presenta delle novità tecniche: è costituito da sette Quaderni senza titoli, divisi per capitoli. La storia è divisa pertanto per quadri, in cui le varie vicende sono filtrate dallo sguardo di Serafino che le trascrive e le analizza, le commenta, viviseziona i sentimenti ed i comportamenti altrui.
Ci si domanda come mai tanta negatività verso il cinematografo, quando Pirandello invece mostrava un certo interesse per questa nuova forma d’arte e collaborava a sceneggiature tratte dalle sue opere. La sua critica verteva nella mera commercializzazione a cui il prodotto filmico era destinato, sperando che ad esso invece, venissero offerte possibilità di sviluppo “artistico”.

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Una delle prime edizioni del romanzo

Il tema dell’essere e dell’apparire viene infine sviluppato in modo definitivo e senza più nessun ulteriore sviluppo nell’ultimo grande romanzo pirandelliano Uno, nessuno e centomila (1926) dove il protagonista Vitangelo Moscarda vive, in un lungo monologo, il dramma dell’uomo contemporaneo in quanto uno, cioè se stesso per sé; nessuno, in quanto la sua personalità viene annullata di fronte alla società ed infine centomila, come sono centomila gli sguardi che incontra e che lo giudicano differentemente uno dall’altro. Quindi, secondo le persone che incontrerà egli sarà di volta in volta ciò che gli altri vogliono che egli sia e mai ciò che veramente egli è. Tale frammentazione si riflette anche nella struttura del romanzo stesso, diviso in otto libri, suddivisi, a loro volta in sessantatré capitoletti ad indicare la scomposizione dell’io del protagonista.

Un’osservazione, di per sé abbastanza irrilevante della moglie circa la conformità del naso di Vitangelo Moscarda, inserisce in lui una serie di riflessioni a catena che metteranno in crisi il suo concetto d’identità. In primo luogo, per scrollarsi da dosso la fama d’usuraio di cui è investito, manda via una coppia di poveri da una topaia di sua proprietà che fin da suo padre non pagavano l’affitto e dona loro una casa molto bella. Se ciò getta nello stupore i suoi compaesani, non fa mutare loro l’impressione precedente: Vitangelo continua ad essere usuraio, solamente che adesso è diventato pazzo. Quando ordina ai suoi fiduciari di liquidare l’unica banca lasciatagli in eredità dal padre, gli stessi e la moglie, dopo i vani tentativi di dissuaderlo, si adoperano affinché gli venga riconosciuta l’infermità mentale. Ciò viene a conoscenza di Vitangelo da Anna Rosa, una sua amica, che in fondo gli vuole bene, ma di fronte ai ragionamenti incalzanti, preda dalle teorie che le mettono in crisi le certezze della sua esistenza, presa da raptus gli spara. Vitangelo, per difenderla, afferma che la reazione di Anna Rosa è stata determinata da una sua aggressione, da ciò ne deriva che ora, a fianco a quella d’usuraio pazzo si accompagni l’attribuzione di maniaco sessuale. Il tutto viene risolto dal vescovo che in cambio di un vero pentimento gli fa devolvere tutti i beni per un ospizio di mendicità, dove anche Vitangelo si ritira a vivere per il resto della sua vita.

L’incipit (umoristico) del romanzo:
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René Magritte: La rivoluzione vietata

TUTTO COMINCIA DAL NASO

«Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse: «Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: «Mi pende? A me? Il naso?»
E mia moglie, placidamente: «Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.»
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí…
«Che altro?»
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell’altra; e altri difetti…
«Ancora?»
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo “grazie” e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
«Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.»
Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
«Si vede» voi dite, «che avevate molto tempo da perdere».
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre più da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza più di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.

L’incipit del romanzo ci pone, sin da subito a varie strategie narrative messe in atto da Pirandello per quello che, da molti critici, è stato considerato un romanzo-saggio. In primo luogo il monologo con cui si presenta: il narratore non ci dice com’è il personaggio ma ce lo fa scoprire attraverso le osservazioni dello stesso davanti ad uno specchio. Tali osservazioni derivano da un’osservazione ingenua, casuale, della moglie, sul suo naso. Perché il naso? Forse perché questa parte anatomica aveva suscitato un certa rilevanza all’interno della scrittura “umoristica” del tempo, si pensi a Pinocchio o al famoso racconto Il naso di Gogol.

Leggendo poi scopriamo un “voi dite”, quando Vitangelo ci fa partecipi del suo modo, certamente ossessivo, con cui osserva le cose: è che egli dialoga per l’intero romanzo con il lettore, cooperando con lui, alla definizione del concetto d’identità.

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Riduzione teatrale de “Uno, nessuno e centomila” (2005) 

Ed è proprio in questo modo che inizia il secondo Libro del romanzo, in cui troviamo le “elucubrazioni” mentali di Vitangelo che analizza e filosofeggia in un dialogo col lettore:

CI FOSSE UNA SIGNORA REALTA’…

Non voglio offendervi. La vostra coscienza voi dite. Non volete che sia messa in dubbio. Me n’ero scordato, scusate. Ma riconosco, riconosco che per voi stesso, dentro di voi, non siete quale io, di fuori, vi vedo. Non per cattiva volontà. Vorrei che foste almeno persuaso di questo. Voi vi conoscete, vi sentite, vi volete in un modo che non è il mio, ma il vostro; e credete ancora una volta che il vostro sia giusto e il mio sbagliato. Sarà, non nego. Ma può il vostro modo essere il mio e viceversa?
Ecco che torniamo daccapo!
Io posso credere a tutto ciò che voi mi dite. Ci credo. Vi offro una sedia: sedete; e vediamo di metterci d’accordo.
Dopo una buona oretta di conversazione, ci siamo intesi perfettamente.
Domani mi venite con le mani in faccia, gridando:
«Ma come? Che avete inteso? Non mi avevate detto così e così?»
Così e così, perfettamente. Ma il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, non sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.
Eh, storia vecchia anche questa, si sa. E io non pretendo dir niente di nuovo. Solo torno a domandarvi: «Ma perché allora, santo Dio, seguitate a fare come se non si sapesse? A parlarmi di voi, se sapete che per essere per me quale siete per voi stesso, e io per voi quale sono per me, ci vorrebbe che io, dentro di me, vi déssi quella stessa realtà che voi vi date, e viceversa; e questo non è possibile?»
Ahimé, caro, per quanto facciate, voi mi darete sempre una realtà a modo vostro, anche credendo in buona fede che sia a modo mio; e sarà, non dico; magari sarà; ma un “modo mio” che io non so ne potrò mai sapere; che saprete soltanto voi che mi vedete da fuori: dunque un “modo mio” per voi, non un “modo mio” per me.
Ci fosse fuori di noi, per voi e per me, ci fosse una signora realtà mia e una signora realtà vostra, dico per se stesse, e uguali, immutabili. Non c’è. C’è in me e per me una realtà mia: quella che io mi do; una realtà vostra in voi e per voi: quella che voi vi date; le quali non saranno mai le stesse né per voi né per me.
E allora?
Allora, amico mio, bisogna consolarci con questo: che non è più vera la mia che la vostra, e che durano un momento così la vostra come la mia.

La forza pirandelliana è nella forma raziocinante con cui esclude ogni possibilità d’oggettività. Già nella “filosofia del lanternino” in Il fu Mattia Pascal, l’autore siciliano aveva illustrato il concetto relativistico del sapere: ma qui il processo della gnoseologia è portato alle estreme conseguente, negando ogni percorso conoscitivo. Con un processo con cui già Freud (ma sappiamo che Pirandello non ha letto lo psicoanalista tedesco) aveva affermato la presenza di un filtro “singolare” in ogni atto di percezione della realtà, Pirandello lo traduce nella comunicazione: se nella stessa ciò che viene detto viene “filtrato” e quindi personalizzato, è evidente che cessa l’obiettività dell’informazione, ma se tutte le informazioni sono recepite singolarmente, la verità non esiste. Allora molto probabilmente nemmeno quella di Vitangelo che si rappresenta come narratore autodiegetico (stessa operazione farà, negli stessi anni Svevo con il suo romanzo La coscienza di Zeno).

Eppure Vitangelo troverà, proprio nell’assenza di ogni parola che lo denoti, se stesso:

NON CONCLUDE

Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio.
Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse.
Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti. A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così, fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono, che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere più larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraje qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire. Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni.
La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante, in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridío delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muojo ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori.

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Fotografia di Pirandello

Nell’ultimo brano del romanzo troviamo ancora presente la tecnica umoristica: l’apparizione di Vitangelo in tribunale suscita l’“avvertimento del contrario”, e quindi il riso degli astanti. Ma d’altra parte è Moscarda stesso a ridere di sé, definendosi “povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse”. E’ che lui è riuscito non solo a farsi guardare senza lasciarsi condizionare dalle forme che gli altri vedono in lui, ma invece ad uscire fuori di sé per posare gli occhi a questo nuovo io, senza alcun nome, definizione o concetto che, precedentemente, lo tenevano “ingabbiato”. Egli infatti si è liberato ed è diventato “pazzo” per gli altri (il tema della pazzia come libertà è ben presente nella produzione pirandelliana). Ma la sua pazzia consiste nel non avere niente che lo definisca e partecipare in modo totale, avvincente, al ritmo biologico dell’esistere dell’universo: egli è ogni cosa che nasce e che muore nell’attimo stesso, per rinascere un momento dopo, in un ritmo incessante dell’avvicendarsi esistenziale in cui la vita “non conclude”. Non è un caso che la vicenda di Vitangelo si concluda fuori della città, in spazi liberi: solo qui egli trova se stesso: la città e quindi la modernità “ingabbia”.

Le novelle

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Xilografia per il VII volume de “Novelle per un anno” realizzata da Fausto Pirandello

Pirandello scrisse novelle durante l’intera sua esistenza. Cominciò  prestissimo (dal 1894, pubblicazione della prima raccolta Amore senza amori fino ad arrivare a quella postuma, pubblicata nel 1937, Una giornata) e la maggior parte di esse trovò poi distribuzione editoriale nel “Corriere della Sera”. Cominciarono poi ad essere raccolte in quindici volumi, contenenti quindici racconti ognuno e con il titolo di ognuna di esse dalla prima – con eccezione dell’ultima raccolta, il cui titolo si chiamò con l’ultima di esse. In seguito l’autore pensò di riunirle in un unico progetto editoriale che prese il titolo di Novelle per un anno, in cui intendeva scrivere trecentosessantacinque storie, una per ogni giorno, come ad accompagnare il lettore ad una rappresentazione, a volte ironica ed altre tragicomica, o ad una riflessione sulla condizione umana.
Tale progetto non venne completato: infatti riuscì a pubblicare dapprima solo tredici volumi, e, usciti postumi, altri due volumi, per un totale di 251 racconti.
Pur divisi in raccolte separate, ognuna di esse non ha un tema preciso: sembra proprio che Pirandello si sia preso gioco del lettore; prima di pubblicarle le ha scomposte e ricomposte, riscritte, mescolate per offrire al lettore il caos dell’esistenza umana.
Se sul piano formale esse non sono precedute o inserite da nessuna prefazione o cornice che sia, sul piano tematico esse non presentano novità: i temi dell’alienazione del vivere contemporaneo, della frattura tra forma e vita, della imprevedibilità del caso erano stati già trattati precedentemente, ma qui, nella singolarità di una breve vicenda, vengono sottolineati con maggiore evidenza e capacità illustrativa.
Soltanto le ultime novelle, raccolte poi postume, disegnano un’evoluzione (come d’altra parte vedremo nel teatro) verso le forme, allora presenti, dell’avanguardia espressionista e surrealista.

LA GIARA

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Franco Franchi e Ciccio Ingrassia nell’episodio La giara del film Kaos dei fratelli Taviani

Piena anche per gli olivi quell’annata. Piante massaje, cariche l’anno avanti, avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sul fiorire.
Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote a Primosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato che aveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuova raccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano di Camastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e maestosa, che fosse delle altre cinque la badessa.
Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara. E con chi non l’attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche per una pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia, gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furia di carta bollata e d’onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello e pagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato.
Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire davanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato un libricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé il fondamento giuridico alle liti che voleva intentare.
Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli gridavano: «Sellate la mula!» Ora, invece: «Consultate il calepino!»
E Don Lollò rispondeva: «Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane!»
Quella bella giara nuova, pagata quattr’onze ballanti e sonanti, in attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nel palmento. Una giara così non s’era mai veduta. Allogata in quell’antro intanfato di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghi senz’aria e senza luce, faceva pena.
Da due giorni era cominciata l’abbacchiatura delle olive, e Don Lollò era su tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mule cariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuova stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiava come un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, che fosse un’oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una a una sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocato in volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gli occhi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba prepotente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.
Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbacchiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono alla vista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglio netto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto il lembo davanti.
«Guardate! Guardate!»
«Chi sarà stato?»
«Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova, peccato!»
Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne. Ma il secondo: «Siete pazzi? Con Don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel’abbiamo rotta noi. Fermi qua tutti!»
Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò: «Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!»
Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcata al cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a non poterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevano gli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagna con le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell’uomo sempre infuriato.
«Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!»
Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si scagliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò al muro gridando: «Sangue della Madonna, me la pagherete!»
Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestiali, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio, si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli che piangono un parente morto.
«La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non incignata ancora!»
Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qualcuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando? Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dalla fabbrica? Ma che! Sonava come una campana!
Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciarono ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta malamente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l’avrebbe rimessa su, nuova. C’era giusto Zi’ Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, di cui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello ci poteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, alla punta dell’alba, Zi’ Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr’otto, la giara, meglio di prima.
Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch’era tutto inutile; che non c’era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso, all’alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi’ Dima Licasi con la cesta degli attrezzi dietro le spalle.
Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppo antico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino. Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenza che nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d’inventore non ancora patentato. Voleva che parlassero i fatti, Zi’ Dima Licasi. Doveva poi guardarsi davanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.
«Fatemi vedere codesto mastice» gli disse per prima cosa Don Lollò, dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.
Zi’ Dima negò col capo, pieno di dignità.
«All’opera si vede.»
«Ma verrà bene?»
Zi’ Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l’attenzione e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d’occhiali col sellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero. Zi’ Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se li inforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull’aja. Disse: «Verrà bene.»
«Col mastice solo però» mise per patto lo Zirafa «non mi fido. Ci voglio anche i punti.»
«Me ne vado» rispose senz’altro Zi’ Dima, rizzandosi e rimettendosi la cesta dietro le spalle.
Don Lollò lo acchiappò per un braccio.
«Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po’ che arie da Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d’asino, ci devo metter olio, io, là dentro, e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglio i punti. Mastice e punti. Comando io.»
Zi’ Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gli era negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a regola d’arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.
«Se la giara» disse «non suona di nuovo come una campana…»
«Non sento niente,» lo interruppe Don Lollò. «I punti! Pago mastice e punti. Quanto vi debbo dare?»
«Se col mastice solo…»
«Càzzica che testa!» esclamò lo Zirafa. «Come parlo? V’ho detto che ci voglio i punti. C’intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perdere con voi.»
E se ne andò a badare ai suoi uomini.
Zi’ Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira e il dispetto gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembo spaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullo della saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il viso gli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finita quella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò il lembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e in corrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzetti quanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadini che abbacchiavano.
«Coraggio, Zi’ Dima!» gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.
Zi’ Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio, visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito cominciò a spalmarlo tutt’in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese le tenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, così come aveva fatto lui poc’anzi. Prima di cominciare a dare i punti.
«Tira!» disse dall’interno della giara al contadino. «Tira con tutta la tua forza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia! Suona, sì o no, come una campana anche con me qua dentro? Va’, va’ a dirlo al tuo padrone!»
«Chi è sopra comanda, Zi’ Dima», sospirò il contadino «e chi è sotto si danna! Date i punti, date i punti.»
E Zi’ Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso i due fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là della saldatura; e con le tanaglie ne attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana, dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, di fuori, a confortarlo.
«Ora ajutami a uscirne,» disse alla fine Zi’ Dima.
Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’ Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trovava più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, si torceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sanata e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva essere rotta daccapo e per sempre.
Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi’ Dima, dento la giara, era come un gatto inferocito.
«Fatemi uscire!» urlava. «Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemi ajuto!
Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.
«Ma come? Là dentro? S’è cucito là dentro?»
S’accostò alla giara e gridò al vecchio: «Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? Non dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio… così! e la testa… su… no, piano! Che! Giù… aspettate! Così no! Giù, giù… Ma come avete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma!» si mise a raccomandare tutt’intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. «Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo… La mula!»
Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come una campana.
Bella! Rimessa a nuovo… Aspettate!» disse al prigioniero. «Va’ a sellarmi la mula!» ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita la fronte, seguitò a dire tra sé: «Ma vedete un po’ che mi capita! Questa non è giara! Quest’è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!»
E accorse a regger la giara, in cui Zi’ Dima, furibondo, si dibatteva come una bestia in trappola.
«Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l’avvocato! Io non mi fido. La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell’interesse vostro… Intanto, piano! Calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare il mio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata. Cinque lire. Vi bastano?»
«Non voglio nulla!» gridò Zi’ Dima. «Voglio uscire.»
«Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.»
Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò, premuroso: «Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete? Buttatelo ai cani! A me basta che ve l’abbia dato.»
Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in così strano modo gesticolava.
Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell’avvocato; ma gli toccò d’attendere un bel po’, prima che questo finisse di ridere, quando gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.
«Che c’è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!»
Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com’era stato, per farci su altre risate. Dentro, eh? S’era cucito dentro? E lui, don Lollò che pretendeva? Te… tene… tenerlo là dentro… ah ah ah… ohi ohi ohi… tenerlo là dentro per non perderci la giara?
«Ce la devo perdere?» domandò lo Zirafa con le pugna serrate. «Il danno e lo scorno?»
«Ma sapete come si chiama questo?» gli disse infine l’avvocato. «Si chiama sequestro di persona!»
«Sequestro? E chi l’ha sequestrato?» esclamò lo Zirafa. «Si è sequestrato lui da sé! Che colpa ne ho io?»
L’avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, Don Lollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestro di persona; dall’altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veniva a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.
«Ah!» rifiatò lo Zirafa. «Pagandomi la giara!»
«Piano!» osservò l’avvocato. «Non come se fosse nuova, badiamo!»
«E perché?»
«Ma perché era rotta, oh bella!»
«Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signor avvocato!»
L’avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pagare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.
«Anzi,» gli consigliò «fatela stimare avanti da lui stesso.»
«Bacio le mani» disse Don Lollò, andando via di corsa.
Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando. Zi’ Dima s’era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla sua bizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi. Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.
«Ah! Ci stai bene?»
«Benone. Al fresco» rispose quello. «Meglio che a casa mia.»
«Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr’onze nuova. Quanto credi che possa costare adesso?»
«Con me qua dentro?» domandò Zi’ Dima.
I villani risero.
«Silenzio!» gridò lo Zirafa. «Delle due l’una: o il tuo mastice serve a qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione; se serve a qualche cosa, la giara, così com’è, deve avere il suo prezzo. Che prezzo? Stimala tu.»
Zi’ Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse: «Rispondo. Se lei me l’avesse fatta conciare col mastice solo, com’io volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe su per giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che ho dovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo di quanto valeva, sì e no.» «Un terzo?» domandò lo Zirafa. «Un’onza e trentatré?»
«Meno sì, più no.»
«Ebbene,» disse Don Lollò. «Passi la tua parola, e dammi un’onza e trentatré.»
«Che?» fece Zi’ Dima, come se non avesse inteso.
«Rompo la giara per farti uscire,» rispose Don Lollò «e tu, dice l’avvocato, me la paghi per quanto l’hai stimata: un’onza e trentatré.»
«Io pagare?» sghignazzò Zi’ Dima. «Vossignoria scherza! Qua dentro ci faccio i vermi.»
E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l’accese e si mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.
Don Lollò ci restò brutto. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non volesse più uscire dalla giara, né lui né l’avvocato l’avevano previsto. E come si risolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: “La mula”, ma pensò che era già sera.
«Ah, sì» disse. «Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimoni tutti qua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla! Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perché mi impedisce l’uso della giara.
Zi’ Dima cacciò prima fuori un’altra boccata di fumo, poi rispose placido: «Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piacere? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare… neanche per ischerzo, vossignoria!»
Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcio alla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollò tutta, fremendo.
«Vede che mastice?» gli disse Zi’ Dima.
«Pezzo da galera!» ruggì allora lo Zirafa. «Chi l’ha fatto il male, io o tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!»
E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mattina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi’ Dima pensò di far festa quella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente, rimanevano a passare la notte in campagna, all’aperto, su l’aja. Uno andò a far le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c’era una luna che pareva fosse raggiornato.
A una cert’ora Don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccano d’inferno.
S’affacciò a un balcone della cascina, e vide su l’aja, sotto la luna, tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attorno alla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola.
Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come un toro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spintone mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dalle risa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.
E la vinse Zi’ Dima.

A leggerla superficialmente si potrebbe pensarla come una novella d’ambientazione veristica, d’ambiente siciliano, in cui Pirandello, come il suo conterraneo Verga, avesse voluto rappresentare, seppure in modo comico, l’attaccamento alla roba di Don Lollò e come tale mondo, grazie a Zi’ Dima, venga sopraffatto.

Ma la novella è propriamente pirandelliana: i due coprotagonisti rappresentano proprio due mondi e due modi di vedere una stessa realtà; qualche critico ha voluto vedere nell’uomo dentro la giara, l’uomo alienato dentro i meccanismi alienanti della forma, mentre l’esterno di essa la vita; altri ancora, con una lettura di tipo sociale, la rivolta del mondo subalterno contro l’arroganza del potere.

La piacevolezza della novella è dovuta alla rappresentazione dell’ambiente contadino siciliano nel momento dell’abbacchiatura delle olive, in autunno e, soprattutto, alla descrizione di uno dei due personaggi principali, Don Lollò Zirafa, iracondo e litigioso, sempre pronto a ricorrere al codice civile o all’avvocato per risolvere ogni problema. Alla personalità maniacale di Don Lollò si contrappone il carattere chiuso, taciturno e cupo del conciabrocche, anch’egli per certi versi maniaco, torturato dalla scarsa fiducia che gli altri ripongono nel suo mastice. Nella novella compare anche un personaggio corale, collettivo, quello dei contadini, rappresentati non tanto nella fatica del lavoro, quanto nella gioia dei momenti di festa, allietati da un bellissimo paesaggio.

CIÁULA SCOPRE LA LUNA

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Scultura ad Aragona che richiama la novella pirandelliana

I picconieri, quella sera, volevano smettere di lavorare senza aver finito d’estrarre le tante casse di zolfo che bisognavano il giorno appresso a caricar la calcara. Cacciagallina, il soprastante, s’affierò contr’essi, con la rivoltella in pugno, davanti la buca della Cace, per impedire che ne uscissero.
«Corpo di… sangue di… indietro tutti, giú tutti di nuovo alle cave, a buttar sangue fino all’alba, o faccio fuoco!»
«Bum!» fece uno dal fondo della buca. «Bum!» echeggiarono parecchi altri; e con risa e bestemmie e urli di scherno fecero impeto, e chi dando una gomitata, chi una spallata, passarono tutti, meno uno. Chi? Zi’ Scarda, si sa, quel povero cieco d’un occhio, sul quale Cacciagallina poteva far bene il gradasso. Gesú, che spavento! Gli si scagliò addosso, che neanche un leone; lo agguantò per il petto e, quasi avesse in pugno anche gli altri, gli urlò in faccia, scrollandolo furiosamente: «Indietro tutti, vi dico, canaglia! Giú tutti alle cave, o faccio un macello!»
Zi’ Scarda si lasciò scrollare pacificamente. Doveva pur prendersi uno sfogo, quel povero galantuomo, ed era naturale se lo prendesse su lui che, vecchio com’era, poteva offrirglielo senza ribellarsi. Del resto, aveva anche lui, a sua volta, sotto di sé qualcuno più debole, sul quale rifarsi più tardi: Ciàula, il suo caruso.
Quegli altri… eccoli là, s’allontanavano giù per la stradetta che conduceva a Comitini; ridevano e gridavano: «Ecco, sì! tienti forte codesto, Cacciagallì! Te lo riempirà lui il calcherone per domani!»
«Gioventù!» sospirò con uno squallido sorriso d’indulgenza zi’ Scarda a Cacciagallina. E, ancora agguantato per il petto, piegò la testa da un lato, stiracchiò verso il lato opposto il labbro inferiore, e rimase così per un pezzo, come in attesa.

Era una smorfia a Cacciagallina? o si burlava della gioventù di quei compagni là?
Veramente, tra gli aspetti di quei luoghi strideva quella loro allegria, quella velleità di baldanza giovanile. Nelle dure facce quasi spente dal bujo crudo delle cave sotterranee, nel corpo sfiancato dalla fatica quotidiana, nelle vesti strappate, sforacchiate dalle solfare, come da tanti enormi formicai.
Ma no: zi’ Scarda, fisso in quel suo strano atteggiamento, non si burlava di loro, né faceva una smorfia a Cacciagallina. Quello era il versaccio solito, con cui, non senza stento, si deduceva pian piano in bocca la grossa lagrima, che di tratto in tratto gli colava dall’altro occhio, da quello buono. Aveva preso gusto a quel saporino di sale, e non se ne lasciava scappar via neppure una.
Poco: una goccia di tanto in tanto; ma buttato dalla mattina alla sera laggiù, duecento e più metri sotterra, col piccone in mano, che a ogni colpo gli strappava come un ruglio di rabbia dal petto, zi’ Scarda aveva sempre la bocca arsa: e quella lagrima, per la sua bocca, era quel che per il naso sarebbe stato un pizzico di rapè.
Un gusto e un riposo.
Quando si sentiva l’occhio pieno, posava per un poco il piccone e, guardando la rossa fiammella fumosa della lanterna confitta nella roccia, che alluciava nella tenebra dell’antro infernale qualche scaglietta di zolfo qua e là, o l’acciajo del palo o della piccozza, piegava la testa da un lato, stiracchiava il labbro inferiore e stava ad aspettar che la lagrima gli colasse giù, lenta, per il solco scavato dalle precedenti.
Gli altri, chi il vizio del fumo, chi quello del vino; lui aveva il vizio della sua lagrima.
Era del sacco lacrimale malato e non di pianto, quella lagrima; ma si era bevute anche quelle del pianto, zi’ Scarda, quando, quattr’anni addietro gli era morto l’unico figliuolo, per lo scoppio d’una mina, lasciandogli sette orfanelli e la nuora da mantenere. Tuttora gliene veniva giù qualcuna più salata delle altre; ed egli la riconosceva subito: scoteva il capo, allora, e mormorava un nome: «Calicchio…»
In considerazione di Calicchio morto, e anche dell’occhio perduto per lo scoppio della stessa mina lo tenevano ancora lì a lavorare. Lavorava più e meglio di un giovane; ma ogni sabato sera, la paga gli era data, e per dir la verità lui stesso se la prendeva, come una carità che gli facessero: tanto che, intascandola, diceva sottovoce, quasi con vergogna: «Dio gliene renda merito.»
Perché, di regola, doveva presumersi che uno della sua età non poteva più lavorar bene.

Quando Cacciagallina alla fine lo lasciò per correre dietro agli altri e indurre con le buone maniere qualcuno a far nottata, zi’ Scarda lo pregò di mandare almeno a casa uno di quelli che ritornavano al paese, ad avvertire che egli rimaneva alla zolfara e che perciò non lo aspettassero e non stessero in pensiero per lui; poi si volse attorno a chiamare il suo caruso, che aveva più di trent’anni (e poteva averne anche sette o settanta, scemo com’era); e lo chiamò col verso con cui si chiamano le cornacchie ammaestrate: «Te’, pa’! te’, pa’!»
Ciàula stava a rivestirsi per ritornare al paese. Rivestirsi per Ciàula significava togliersi prima di tutto la camicia, o quella che un tempo era stata forse una camicia: l’unico indumento che, per modo di dire, lo coprisse durante il lavoro. Toltasi la camicia, indossava sul torace nudo, in cui si potevano contare a una a una tutte le costole, un panciotto bello largo e lungo, avuto in elemosina, che doveva essere stato un tempo elegantissimo e sopraffino (ora il luridume vi aveva fatto una tal roccia, che a posarlo per terra stava ritto). Con somma cura Ciàula ne affibbiava i sei bottoni, tre dei quali ciondolavano, e poi se lo mirava addosso, passandoci sopra le mani, perché veramente ancora lo stimava superiore a’ suoi meriti: una galanteria. Le gambe nude, misere e sbilenche, durante quell’ammirazione, gli si accapponavano, illividite dal freddo. Se qualcuno dei compagni gli dava uno spintone e gli allungava un calcio, gridandogli: «Quanto sei bello!» egli apriva fino alle orecchie ad ansa la bocca sdentata a un riso di soddisfazione, poi infilava i calzoni, che avevano più d’una finestra aperta sulle natiche e sui ginocchi; s’avvolgeva in un cappottello d’albagio tutto rappezzato, e, scalzo, imitando meravigliosamente a ogni passo il verso della cornacchia – cràh! cràh! – (per cui lo avevano soprannominato Ciàula), s’avviava al paese.
«Cràh! Cràh», rispose anche quella sera al richiamo del suo padrone; e gli si presentò tutto nudo, con la sola galanteria di quel panciotto debitamente abbottonato.
«Va’, va’ a rispogliarti,» gli disse zi’ Scarda. «Rimettiti il sacco e la camicia. Oggi per noi il Signore non fa notte.»
Ciàula non fiatò; restò un pezzo a guardarlo a bocca aperta, con occhi da ebete; poi si poggiò le mani su le reni e, raggrinzando in su il naso, per lo spasimo, si stirò e disse: «Gna bonu!» (Va bene).
E andò a levarsi il panciotto. Se non fosse stato per la stanchezza e per il bisogno del sonno, lavorare anche di notte non sarebbe stato niente, perché, laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso. Ma questo per zi’ Scarda.
Per Ciàula, no. Ciàula, con la lumierina a olio nella rimboccatura del sacco su la fronte, e schiacciata la nuca sotto il carico, andava su e giù per la lubrica scala sotterranea, erta, a scalini rotti, e su, su, affievolendo a mano a mano, col fiato mòzzo, quel suo crocchiare a ogni scalino, quasi in un gemito di strozzato, rivedeva a ogni salita la luce del sole. Dapprima ne rimaneva abbagliato; poi col respiro che traeva nel liberarsi dal carico, gli aspetti noti delle cose circostanti gli balzavano davanti; restava, ancora ansimante, a guardarli un poco e, senza che n’avesse chiara coscienza, se ne sentiva confortare.
Cosa strana; della tenebra fangosa delle profonde caverne, ove dietro ogni svolto stava in agguato la morte, Ciàula non aveva paura; né paura delle ombre mostruose, che qualche lanterna suscitava a sbalzi lungo le gallerie, né del subito guizzare di qualche riflesso rossastro qua e là in una pozza, in uno stagno d’acqua sulfurea: sapeva sempre dov’era; toccava con la mano in cerca di sostegno le viscere della montagna: e ci stava cieco e sicuro come dentro il suo alvo materno.
Aveva paura, invece, del buio vano della notte.
Conosceva quello del giorno, laggiù, intramezzato da sospiri di luce, di là dall’imbuto della scala, per cui saliva tante volte al giorno, con quel suo specioso arrangolío di cornacchia strozzata. Ma il buio della notte non lo conosceva.
Ogni sera, terminato il lavoro, ritornava al paese con zi’ Scarda; e là, appena finito d’ingozzare i resti della minestra, si buttava a dormire sul saccone di paglia per terra, come un cane; e invano i ragazzi, quei sette nipoti orfani del suo padrone, lo pestavano per tenerlo desto e ridere della sua sciocchezza; cadeva subito in un sonno di piombo, dal quale, ogni mattina, alla punta dell’alba, soleva riscuoterlo un noto piede.
La paura che egli aveva del buio della notte gli proveniva da quella volta che il figlio di zi’ Scarda, già suo padrone, aveva avuto il ventre e il petto squarciati dallo scoppio della mina, e zi’ Scarda stesso era stato preso in un occhio.
Giù, nei varii posti a zolfo, si stava per levar mano, essendo già sera, quando s’era sentito il rimbombo tremendo di quella mina scoppiata. Tutti i picconieri e i carusi erano accorsi sul luogo dello scoppio; egli solo, Ciàula, atterrito, era scappato a ripararsi in un antro noto soltanto a lui.
Nella furia di cacciarsi là, gli s’era infranta contro la roccia la lumierina di terracotta, e quando alla fine, dopo un tempo che non aveva potuto calcolare, era uscito dall’antro nel silenzio delle caverne tenebrose e deserte, aveva stentato a trovare a tentoni la galleria che lo conducesse alla scala; ma pure non aveva avuto paura. La paura lo aveva assalito, invece, nell’uscir dalla buca nella notte nera, vana.
S’era messo a tremare, sperduto, con un brivido per ogni vago alito indistinto nel silenzio arcano che riempiva la sterminata vacuità, ove un brulichío infinito di stelle fitte, piccolissime, non riusciva a diffondere alcuna luce.
Il bujo, ove doveva esser lume, la solitudine delle cose che restavan lì con un loro aspetto cangiato e quasi irriconoscibile, quando più nessuno le vedeva, gli avevano messo in tale subbuglio l’anima smarrita, che Ciàula s’era all’improvviso lanciato in una corsa pazza, come se qualcuno lo avesse inseguito.
Ora, ritornato giù nella buca con zi’ Scarda, mentre stava ad aspettare che il carico fosse pronto, egli sentiva a mano a mano crescersi lo sgomento per quel bujo che avrebbe trovato, sbucando dalla zolfara. E più per quello, che per questo delle gallerie e della scala, rigovernava attentamente la lumierina di terracotta.

Giungevano da lontano gli stridori e i tonfi cadenzati della pompa, che non posava mai, né giorno né notte. E nella cadenza di quegli stridori e di quei tonfi s’intercalava il ruglio sordo di zi’ Scarda, come se il vecchio si facesse ajutare a muovere le braccia dalla forza della macchina lontana.
Alla fine il carico fu pronto, e zi’ Scarda ajutò Ciàula a disporlo e rammontarlo sul sacco attorto dietro la nuca.
A mano a mano che zi’ Scarda caricava, Ciàula sentiva piegarsi, sotto, le gambe. Una, a un certo punto, prese a tremargli convulsamente così forte che, temendo di non più reggere al peso, con quel tremitio, Ciàula gridò: «Basta! Basta!»
«Che basta, carogna!» gli rispose zi’ Scarda. E seguitò a caricare.
Per un momento la paura del bujo della notte fu vinta dalla costernazione che, così caricato, e con la stanchezza che si sentiva addosso, forse non avrebbe potuto arrampicarsi fin lassù. Aveva lavorato senza pietà per tutto il giorno. Non aveva mai pensato Ciàula che si potesse aver pietà del suo corpo, e non ci pensava neppur ora; ma sentiva che, proprio, non ne poteva più.
Si mosse sotto il carico enorme, che richiedeva anche uno sforzo d’equilibrio. Sì, ecco, sì, poteva muoversi, almeno finché andava in piano. Ma come sollevar quel peso, quando sarebbe cominciata la salita?
Per fortuna, quando la salita cominciò, Ciàula fu ripreso dalla paura del bujo della notte, a cui tra poco si sarebbe affacciato.
Attraversando le gallerie, quella sera, non gli era venuto il solito verso della cornacchia, ma un gemito raschiato, protratto. Ora, su per la scala, anche questo gemito gli venne meno, arrestato dallo sgomento del silenzio nero che avrebbe trovato nella impalpabile vacuità di fuori.
La scala era cosí erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in alto.
Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassú lassú si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento.
Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaría cresceva, cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
Possibile?
Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento.
Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna.
Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna?
Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva.
Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna!
E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.

Insieme con La giara, anche in questa novella Pirandello si mette in relazione con l’altro grande scrittore siciliano. Rosso Malpelo e Ciàula scopre la luna hanno la stessa ambientazione, le miniere, conosciute da Pirandello sia a livello letterario (con la lettura sia di Verga che del francese Zola) sia a livello personale, avendo assistito alla loro produzione grazie all’attività paterna e a quella di lui stesso per un breve periodo.

Osservando con più attenzione il testo, possiamo dividerlo in tre sequenze:

  1. nella prima il testo si presenta sotto forma naturalistica: il lavoro della maniera, gli operai, le violenze e i soprusi, la vigoria dei giovani, la rassegnazione del vecchio. Quest’ultimo potrebbe richiamare il Mastro Misciu verghiano, con la sua rassegnazione dettata dall’esigenza economica. Tale sequenza termina con il ghigno del vecchio, descritto in un’espressione propriamente espressionistica, che ne mette in rilievo quasi l’osservazione “umoristica” del vecchio verso il padrone, di cui si sottolinea il gesto grottesco.
  2. nella seconda è presente la descrizione, i giovani baldanzosi dediti al vizio del fumo e del vino e lo sguardo di Zi’ Scarda: anche qui il ritratto si riveste di elementi simbolici. L’occhio del narratore infatti indugia sulla lacrima che solca il viso rugoso e dà al palato un sapore acre. Essa è versata per il figlio morto in maniera, che gli ha lasciato sulle spalle sette orfanelle da mantenere. Gli echi tematici verghiani sono ben presenti: Padron ‘Ntoni e Bastianazzo e capovolgendo Rosso Malpelo e Mastro Misciu. A differenziarli è la tecnica narrativa.
  3. La terza è occupata da Ciàula. Il caruso ha trent’anni, ma è scemo e come tutti gli scemi ha un raziocinio talmente semplice che potrebbe essere un bambino. Eppure in questa sua semplicità c’è in embrione la vita, nascosta nell’antro di una miniera, ma pronta ad esplodere. Forse la miniera rappresenta, pur nell’oscurità, il luogo protettivo, l’alveo materno in cui rannicchiarsi. La luce gli fa vedere le cose, non le teme, e poi, ne vede talmente poca, tutto il giorno in miniera. La notte gli fa paura, gli fa “scricchiolare” le gambe, lo riempie di terrore panico. Ma quando è costretto a raffrontarsi con essa, quella vita implosa entra in lui trasformandolo in essere partecipe della vastità dell’universo. Essa è chiara, con la luna che illumina, silenziosa, deificata nel suo biancore, che fa trasparire placidezza, serenità. L’epifania di essa trasforma Ciàula in essere in piena armonia col creato.

IL TRENO HA FISCHIATO

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Valentina Russo: Il treno ha fischiato

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospizio, ov’erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: «Frenesia, frenesia.»
«Encefalite.»
«Infiammazione della membrana.»
«Febbre cerebrale».
E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale.
«Morrà? Impazzirà?»
«Mah!»
«Morire, pare di no…»
«Ma che dice? che dice»
«Sempre la stessa cosa. Farnetica…»
Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso.
Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato al suo capoufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non gli s’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d’una vera e propria alienazione mentale.
Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare.
Circoscritto… sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po’, a fargli almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d’una improvvisa alienazione mentale.
Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capoufficio. Già s’era presentato, la mattina, con un’aria insolita, nuova, e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo.
Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai.
Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato all’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.
La sera, il capoufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: «E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?»
Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza, aprendo le mani.
«Che significa?» aveva allora esclamato il capoufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. «Ohé, Belluca!»
«Niente,» aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impudenza e d’imbecillità su le labbra. «Il treno, signor Cavaliere.»
«Il treno? Che treno?»
«Ha fischiato.»
«Ma che diavolo dici?»
«Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare…»
«Il treno?»
«Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!»
Gli altri impiegati, alle grida del capoufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.
Allora il capo ufficio – che quella sera doveva essere di malumore – urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.
Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti.
Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: «Si parte, si parte… Signori, per dove? per dove?»
E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era mai occupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.
Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa.
Difatti io accolsi in silenzio la notizia
E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: «Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò veduto e avrò parlato con lui.
Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: “A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita impossibile, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell’uomo è impossibile. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev’essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima”.
Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quelle condizioni di vita.
Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto.
Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre.
Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta.
Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé.
Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai.
Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito.
«Magari!» diceva «Magari!»
Signori, Belluca s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino, sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che il mondo esisteva.
Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentarsi subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno.
Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.
S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia… tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui! E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispida angustia della sua computisteria… Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari… Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita impossibile, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti… sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così… c’erano gli oceani… le foreste…
E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.
Gli bastava!
Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.
Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capoufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capoufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo:
«Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato…»

E’ certamente una delle novelle più famose. Forse perché, più di altre, mostra in modo lineare ed esaustivo la poetica presentata nel saggio L’umorismo.
In primo luogo il narratore è rappresentato da un vicino di casa, che, attraverso una indagine conoscitiva, prima immagina, poi viene a sapere il perché del comportamento di Belluca. A leggerlo non è solo il narratore, ma anche i colleghi di lavoro che cercano di definirlo con una terminologia medica che, chiaramente, è completamente erronea (è evidente il tramonto della pretesa scientifica di spiegare il reale per Pirandello), nonché il capoufficio che il Belluca stesso. Il modo di vedere il reale è pertanto molteplice, non unico, quindi relativo.
Il modo di presentarsi di Belluca in ufficio, giorno in cui ha avuto la sua rilevazione, non può che essere letto come “un avvertimento del contrario”, così come lo scontro tra lo stesso impiegato e il capoufficio può essere interpretato come scontro tra vita e forma.
Ad interpretare il “sentimento del contrario” non può che essere il vicino di casa, che rappresenta la riflessione, quindi la spiegazione, dello strano comportamento di Belluca. Quest’ultimo ha ricevuto, come in fondo Ciàula, la sua epifania: il fischio del treno corrisponde al suono di una vita autentica contro ad una vita non vissuta e la esprime con un linguaggio che viene definito poetico immaginoso e bislacco la lingua della letteratura contro la medica dei colleghi. In conclusione sarà essa quindi a rappresentare la vera vita: la scienza ha fallito.

LA CARRIOLA

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La carriola

Quand’ho qualcuno attorno, non la guardo mai; ma sento che mi guarda lei, mi guarda, mi guarda senza staccarmi un momento gli occhi d’addosso.
Vorrei farle intendere, a quattr’occhi, che non è nulla; che stia tranquilla; che non potevo permettermi con altri questo breve atto, che per lei non ha alcuna importanza e per me è tutto. Lo compio ogni giorno al momento opportuno, nel massimo segreto, con spaventosa gioja, perché vi assaporo, tremando, la voluttà d’una divina, cosciente follia, che per un atto mi libera e mi vendica di tutto.
Dovevo essere sicuro (e la sicurezza mi parve di poterla avere solamente con lei) che questo mio atto non fosse scoperto. Giacché, se scoperto, il danno che ne verrebbe, e non soltanto a me, sarebbe incalcolabile. Sarei un uomo finito. Forse m’acchiapperebbero, mi legherebbero e mi trascinerebbero, atterriti, in un ospizio di matti.
Il terrore da cui tutti sarebbero presi, se questo mio atto fosse scoperto, ecco, lo leggo ora negli occhi della mia vittima.
Sono affidati a me la vita, l’onore, la libertà, gli averi di gente innumerevole che m’assedia dalla mattina alla sera per avere la mia opera, il mio consiglio, la mia assistenza; d’altri doveri altissimi sono gravato, pubblici e privati: ho moglie e figli, che spesso non sanno essere come dovrebbero, e che perciò hanno bisogno d’esser tenuti a freno di continuo dalla mia autorità severa, dall’esempio costante della mia obbedienza inflessibile e inappuntabile a tutti i miei obblighi, uno più serio dell’altro, di marito, di padre, di cittadino, di professore di diritto, d’avvocato. Guaj, dunque, se il mio segreto si scoprisse!
La mia vittima non può parlare, è vero. Tuttavia, da qualche giorno non mi sento più sicuro. Sono costernato e inquieto. Perché, se è vero che non può parlare, mi guarda, mi guarda con tali occhi e in questi occhi è così chiaro il terrore, che temo qualcuno possa da un momento all’altro accorgersene, essere indotto a cercarne la ragione.
Sarei, ripeto, un uomo finito. Il valore dell’atto ch’io compio, può essere stimato e apprezzato solamente da quei pochissimi, a cui la vita si sia rivelata come d’un tratto s’è rivelata a me.
Dirlo e farlo intendere, non è facile. Ci proverò.
Ritornavo, quindici giorni or sono, da Perugia, ove mi ero recato per affari della mia professione.
Uno degli obblighi miei più gravi è quello di non avvertire la stanchezza che m’opprime, il peso enorme di tutti i doveri che mi sono e mi hanno imposto, e di non indulgere minimamente al bisogno di un po’ di distrazione, che la mia mente affaticata di tanto in tanto riclama. L’unica che mi possa concedere, quando mi vince troppo la stanchezza per una briga a cui attendo da tempo, è quella di volgermi a un’altra nuova.
M’ero perciò portate in treno, nella busta di cuojo, alcune carte nuove da studiare. A una prima difficoltà incontrata nella lettura, avevo alzato gli occhi e li avevo volti verso il finestrino della vettura. Guardavo fuori, ma non vedevo nulla, assorto in quella difficoltà.
Veramente non potrei dire che non vedessi nulla. Gli occhi vedevano; vedevano e forse godevano per conto loro della grazia e della soavità della campagna umbra. Ma io, certo, non prestavo attenzione a ciò che gli occhi vedevano.
Se non che, a poco a poco, cominciò ad allentarsi in me quella che prestavo alla difficoltà che m’occupava, senza che per questo, intanto, mi s’avvistasse in più lo spettacolo della campagna, che pur mi passava sotto gli occhi limpido, lieve, riposante.
Non pensavo a ciò che vedevo e non pensai più a nulla: restai, per un tempo incalcolabile, come ina sospensione vaga e strana, ma pur chiara e placida. Ariosa. Lo spirito mi s’era quasi alienato dai sensi, in una lontananza infinita, ove avvertiva appena, chi sa come, con una delizia che non gli pareva sua, il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto esser sua, non qua, non ora, ma là, in quell’infinita lontananza; d’una vita remota, che forse era stata sua, non sapeva come né quando; di cui gli alitava il ricordo indistinto non d’atti, non d’aspetti, ma quasi di desiderii prima svaniti che sorti; con una pena di non essere, angosciosa, vana e pur dura, quella stessa dei fiori, forse, che non han potuto sbocciare; il brulichio, insomma, di una vita che era da vivere, là lontano lontano, donde accennava con palpiti e guizzi di luce; e non era nata; nella quale esso, lo spirito, allora sì, ah, tutto intero e pieno si sarebbe ritrovato; anche per soffrire, non per godere soltanto, ma di sofferenze veramente sue.
Gli occhi a poco a poco mi si chiusero, senza che me n’accorgessi, e forse seguitai nel sogno di quella vita che non era nata. Dico forse, perché, quando mi destai, tutto indolenzito e con la bocca amara, acre e arida, già prossimo all’arrivo, mi ritrovai d’un tratto in tutt’altro animo, con un senso d’atroce afa della vita, in un tetro, plumbeo attonimento, nel quale gli aspetti delle cose più consuete m’apparvero come vôtati di ogni senso, eppure, per i miei occhi, d’una gravezza crudele, insopportabile.
Con quest’animo scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa.
Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta.
Io vidi a un tratto, innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome, preceduto dai miei titoli e seguito da’ miei attributi scientifici e professionali, vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita, ma per non riconoscermi e per non riconoscerla come mia.
Spaventosamente d’un tratto mi s’impose la certezza, che l’uomo che stava davanti a quella porta, con la busta di cuojo sotto il braccio, l’uomo che abitava là in quella casa, non ero io, non ero stato mai io. Conobbi d’un tratto d’essere stato sempre come assente da quella casa, dalla vita di quell’uomo, non solo, ma veramente e propriamente da ogni vita. Io non avevo mai vissuto; non ero mai stato nella vita; in una vita, intendo, che potessi riconoscer mia, da me voluta e sentita come mia. Anche il mio stesso corpo, la mia figura, quale adesso improvvisamente m’appariva, così vestita, così messa su, mi parve estranea a me; come se altri me l’avesse imposta e combinata, quella figura, per farmi muovere in una vita non mia, per farmi compiere in quella vita, da cui ero sempre stato assente, atti di presenza, nei quali ora, improvvisamente, il mio spirito s’accorgeva di non essersi mai trovato, mai, mai! Chi lo aveva fatto così, quell’uomo che figurava me? chi lo aveva voluto così? chi così lo vestiva e lo calzava? chi lo faceva muovere e parlare così? chi gli aveva imposto tutti quei doveri uno più gravoso e odioso dall’altro? Commendatore, professore, avvocato, quell’uomo che tutti cercavano, che tutti rispettavano e ammiravano, di cui tutti volevan l’opera, il consiglio, l’assistenza, che tutti si disputavano senza mai dargli un momento di requie, un momento di respiro – ero io? io? propriamente? ma quando mai? E che m’importava di tutte le brighe in cui quell’uomo stava affogato dalla mattina alla sera; di tutto il rispetto, di tutta la considerazione di cui godeva, commendatore, professore, avvocato, e della ricchezza e degli onori che gli erano venuti dall’assiduo scrupoloso adempimento di tutti quei doveri, dell’esercizio della sua professione?
Ed erano lì, dietro quella porta che recava su la targa ovale d’ottone il mio nome, erano lì una donna e quattro ragazzi, che vedevano tutti i giorni con un fastidio ch’era il mio stesso, ma che in loro non potevo tollerare, quell’uomo insoffribile che dovevo esser io, e nel quale io ora vedevo un estraneo a me, un nemico. Mia moglie? i miei figli? Ma se non ero mai stato io, veramente, se veramente non ero io (e lo sentivo con spaventosa certezza) quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta; di chi era moglie quella donna, di chi erano figli quei quattro ragazzi? Miei, no! Di quell’uomo, di quell’uomo che il mio spirito, in quel momento, se avesse avuto un corpo, il suo vero corpo, la sua vera figura, avrebbe preso a calci o afferrato, dilacerato, distrutto, insieme con tutte quelle brighe, con tutti quei doveri e gli onori e il rispetto e la ricchezza, e anche la moglie, sì, fors’anche la moglie…
Ma i ragazzi?
Mi portai le mani alle tempie e me le strinsi forte.
No. Non li sentii miei. Ma attraverso un sentimento strano, penoso, angoscioso, di loro, quali essi erano fuori di me, delle mie cure, del mio consiglio, del mio lavoro; attraverso questo sentimento e col senso d’atroce afa col quale m’ero destato in treno, mi sentii rientrare in quell’uomo insoffribile che stava davanti alla porta.
Trassi di tasca il chiavino; aprii quella porta e rientrai anche in quella casa e nella vita di prima.
Ora la mia tragedia è questa. Dico mia, ma chi sa di quanti!
Chi vive, quando vive, non si vede: vive… Se uno può vedere la propria vita, è segno che non la vive più: la subisce, la trascina. Come una cosa morta, la trascina. Perché ogni forma è una morte.
Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti, lottano, s’affannano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala, credono d’aver conquistato la loro vita, e cominciano invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono più a staccarsi da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d’esser vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa: perché se fosse, noi non la vedremmo: la vivremmo, questa forma, senza vederla, e morremmo ogni giorno di più in essa, che è già per sé una morte, senza conoscerla. Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Il mio caso è anche peggiore. Io vedo non ciò che di me è morto; vedo che non sono mai stato vivo, vedo la forma che gli altri, non io, mi hanno data, e sento che in questa forma la mia vita, una mia vera vita, non c’è stata mai. Mi hanno preso come una materia qualunque, hanno preso un cervello, un’anima, muscoli, nervi, carne, e li hanno impastati e foggiati a piacer loro, perché compissero un lavoro, facessero atti, obbedissero a obblighi, in cui io mi cerco e non mi trovo. E grido, l’anima mia grida dentro questa forma morta che mai non è stata mia: “Ma come? io, questo? io, così? ma quando mai?”. E ho la nausea, orrore, odio di questo che non sono io, che non sono stato mai io; di questa forma morta, in cui sono prigioniero, e da cui non mi posso liberare. Forma gravata di doveri, che non sento miei, oppressa da brighe di cui non m’importa nulla, fatta segno di una considerazione di cui non so che farmi; forma che è questi doveri, queste brighe, questa considerazione, fuori di me, sopra di me: cose vuote, cose morte che mi pesano addosso, mi soffocano, mi schiacciano e non mi fanno più respirare.
Liberarmi? Ma nessuno può fare che il fatto sia come non fatto, e che la morte non sia, quando ci ha preso e ci tiene.
Ci sono i fatti. Quando tu, comunque, hai agito, anche senza che ti sentissi e ti ritrovassi, dopo, negli atti compiuti; quello che hai fatto resta, come una prigione per te. E come spire e tentacoli t’avviluppano le conseguenze delle tue azioni. E ti grava attorno come un’aria densa, irrespirabile la responsabilità, che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute e non prevedute, ti sei assunta. E come puoi più liberarti? Come potrei io nella prigione di questa forma non mia, ma che rappresenta me quale sono per tutti, quale tutti mi conoscono e mi vogliono e mi rispettano, accogliere e muovere una vita diversa, una mia vera vita? una vita in una forma che sento morta, ma che deve sussistere per gli altri, per tutti quelli che l’hanno messa su e la vogliono così e non altrimenti? Dev’essere questa, per forza. Serve così, a mia moglie, ai miei figli, alla società, cioè ai signori studenti universitarii della facoltà di legge, ai signori clienti che m’hanno affidato la vita, l’onore, la libertà, gli averi. Serve così, e non posso mutarla, non posso prenderla a calci e levarmela dai piedi; ribellarmi, vendicarmi, se non per un attimo solo, ogni giorno, con l’atto che compio nel massimo segreto, cogliendo con trepidazione e circospezione infinita il momento opportuno che nessuno mi veda.
Ecco. Ho una vecchia cagna lupetta, da undici anni per casa, bianca e nera, grassa, bassa e pelosa, con gli occhi già appannati dalla vecchiaja.
Tra lei e me non c’erano mai stati buoni rapporti. Forse, prima, essa non approvava la mia professione, che non permetteva si facessero rumori per casa; s’era messa però ad approvarla a poco a poco, con la vecchiaja; tanto che, per sfuggire alla tirannia capricciosa dei ragazzi, che vorrebbero ancora ruzzare con lei giù in giardino, aveva preso da un pezzo il partito di rifugiarsi qua nel mio studio da mane a sera, col musetto aguzzo tra le zampe. Tra tante carte e tanti libri, qua, si sentiva protetta e sicura. Di tratto in tratto schiudeva un occhio a guardarmi, come per dire: “Bravo, sì, caro: lavora; non ti muovere da lì, perché è sicuro che, finché stai lì a lavorare, nessuno entrerà qui a disturbare il mio sonno.”
Così pensava certamente la povera bestia. La tentazione di compiere su di lei la mia vendetta mi sorse, quindici giorni or sono, all’improvviso, nel vedermi guardare così.
Non le faccio male; non le faccio nulla. Appena posso, appena qualche cliente mi lascia libero un momento, mi alzo cauto, pian piano, dal mio seggiolone, perché nessuno si accorga che la mia sapienza temuta e ambita, la mia sapienza formidabile di professore di diritto e d’avvocato, la mia austera dignità di marito, di padre, si siano per poco staccate dal trono di questo seggiolone; e in punta di piedi mi reco all’uscio a spiare nel corridojo, se qualcuno non sopravvenga; chiudo l’uscio a chiave, per un momentino solo; gli occhi mi sfavillano di gioja, le mani mi ballano dalla voluttà che sto per concedermi, d’esser pazzo, d’esser pazzo per un attimo solo, d’uscire per un attimo solo dalla prigione di questa forma morta, di distruggere, d’annientare per un attimo solo, beffardamente, questa sapienza, questa dignità che mi soffoca e mi schiaccia; corro a lei, alla cagnetta che dorme sul tappeto; piano, con garbo, le prendo le due zampine di dietro e le faccio fare la carriola: le faccio muovere cioè otto o dieci passi, non più, con le sole zampette davanti, reggendola per quelle di dietro.
Questo è tutto. Non faccio altro. Corro subito a riaprire l’uscio adagio adagio, senza il minimo cricchio, e mi rimetto in trono, sul seggiolone, pronto a ricevere un nuovo cliente, con l’austera dignità di prima, carico come un cannone di tutta la mia sapienza formidabile.
Ma, ecco, la bestia, da quindici giorni, rimane come basita a mirarmi, con quegli occhi appannati, sbarrati dal terrore. Vorrei farle intendere – ripeto – che non è nulla; che stia tranquilla, che non mi guardi così.
Comprende, la bestia, la terribilità dell’atto che compio.
Non sarebbe nulla, se per ischerzo glielo facesse uno dei miei ragazzi. Ma sa ch’io non posso scherzare; non le è possibile ammettere che io scherzi, per un momento solo; e seguita maledettamente a guardarmi, atterrita.

Se l’opposizione forma/vita in Belluca viene rappresentata entro i limiti angusti di una esistenza mediocre, piccolo-borghese, in cui gli affanni economici soffocano l’esplosione della vita vera e che quando questa appare viene trasformata in pazzia, ne La carriola tale esplosione non può che essere sviluppata all’interno di una minuscola partentesi, estremamente privata, che vede il protagonista chiudersi in un momento oserei dire intimo, quasi onanistico.
Per raggiungere tale atto di consapevolezza, l’autore sceglie una narrazione autodiegetica, svolta come lungo monologo, e un personaggio altoborghese.
Tale personaggio non ha nome e si racconta in un presente in cui dice al lettore le condizioni in cui è vissuto e il dover trovare una soluzione (ma non ci dice quale); quindi con un flash-back, il viaggio in treno, ci confida la crisi e la presa di coscienza di non vivere, nella terza, tornando al presente, il modo in cui risolve tale situazione.
Ciò vuol dire che il modo attraverso cui Pirandello costruisce la novella lascia il lettore in suspance: attraverso indizi egli ci fa capire il modo in cui si percepisce, ma solo alla fine svelerà il segreto.
Il dramma del protagonista lo potremmo riassumere con la massima all’interno del testo Chi vive quando vive non si vede, vive: la vita è forma è quindi cancellazione dell’io. Nel momento in cui vivo assumo tante forme quante sono le forme che gli altri vogliono che io assuma: quindi rappresenterò il mio me attraverso le forme assunte. Se si svolge una vita in cui le forme prevalgono in ogni attimo cosciente, non vivo realmente, ma vivo una non vita che, esperendola, mi sembra “normale”.
Quando il protagonista si rende conto di essere un etichetta, il paso successo è straniarsi e straniarsi da sé può viversi come dramma personale e, soprattutto, sociale.
Da qui il bisogno di nascondersi, per fare alla cagnetta la carriola: cioè la libertà (la vita) di fare un gesto infantile, quand’anche stupido ma che permetta di uscire da sé per ritrovarsi.

Stesso tema de La carriola, ma rovesciato, in quanto il protagonista esige paradossalmente la “forma” che gli altri gli hanno assegnato è La patente:

LA PATENTE

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“La patente” nella straordinaria maschera di Totò

Con quale inflessione di voce e quale atteggiamento d’occhi e di mani, curvandosi, come chi regge rassegnatamente su le spalle un peso insopportabile, il magro giudice D’Andrea soleva ripetere: “Ah, figlio caro!” a chiunque gli facesse qualche scherzosa osservazione per il suo strambo modo di vivere!
Non era ancora vecchio; poteva avere appena quaranta anni; ma cose stranissime e quasi inverosimili, mostruosi intrecci di razze, misteriosi travagli di secoli bisognava immaginare per giungere a una qualche approssimativa spiegazione di quel prodotto umano che si chiamava il giudice D’Andrea.
E pareva ch’egli, oltre della sua povera, umile, comunissima storia familiare, avesse notizia certa di quei mostruosi intrecci di razze, donde al suo smunto sparuto viso di bianco eran potuti venire quei capelli crespi gremiti da negro; e fosse consapevole di quei misteriosi infiniti travagli di secoli, che su la vasta fronte protuberante gli avevano accumulato tutto quel groviglio di rughe e tolto quasi la vista ai piccoli occhi plumbei, e scontorto tutta la magra, misera personcina.
Così sbilenco, con una spalla più alta dell’altra, andava per via di traverso, come i cani. Nessuno però, moralmente, sapeva rigar più diritto di lui. Lo dicevano tutti. Vedere, non aveva potuto vedere molte cose, il giudice D’Andrea; ma certo moltissime ne aveva pensate, e quando il pensare è più triste, cioè di notte.
Il giudice D’Andrea non poteva dormire.
Passava quasi tutte le notti alla finestra a spazzolarsi una mano a quei duri gremiti capelli da negro, con gli occhi alle stelle, placide e chiare le une come polle di luce, guizzanti e pungenti le altre; e metteva le più vive in rapporti ideali di figure geometriche, di triangoli e di quadrati, e, socchiudendo le palpebre dietro le lenti, pigliava tra i peli delle ciglia la luce d’una di quelle stelle e tra l’occhio e la stella stabiliva il legame d’un sottilissimo filo luminoso, e vi avviava l’anima a passeggiare come un ragnetto smarrito.
Il pensare così di notte non conferisce molto alla salute. L’arcana solennità che acquistano i pensieri produce quasi sempre, specie a certuni che hanno in sé una certezza su la quale non possono riposare, la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo qualche seria costipazione. Costipazione d’anima, s’intende. E al giudice D’Andrea, quando si faceva giorno, pareva una cosa buffa e atroce nello stesso tempo, ch’egli dovesse recarsi al suo ufficio d’Istruzione ad amministrare – per quel tanto che a lui toccava – la giustizia ai piccoli uomini feroci.
Come non dormiva lui, così sul suo tavolino nel suo ufficio d’Istruzione non lasciava mai dormire nessun incartamento, anche a costo di ritardare di due o tre ore il desinare e di rinunciare la sera, prima di cena, alla solita passeggiata coi colleghi per il viale attorno alle mura del paese.
Questa puntualità, considerata da lui come dovere imprescendibile, gli accresceva terribilmente il supplizio. Non solo d’amministrare la giustizia; ma d’amministrarla così, su due piedi.
Per poter essere meno frettolosamente puntuale, credeva d’ajutarsi meditando la notte. Ma, neanche a farlo apposta, la notte, spazzolando la mano a quei suoi capelli da negro e guardando le stelle, gli venivano tutti i pensieri contrari a quelli che dovevano fare al caso per lui, data la sua qualità di giudice istruttore; così che, la mattina dopo, anziché ajutata, vedeva insidiata e ostacolata la sua puntualità da quei pensieri della notte e cresciuto enormemente lo stento di tenersi stretto a quell’odiosa sua qualità di giudice istruttore.
Eppure, per la prima volta, da circa una settimana, dormiva un incartamento sul tavolino del giudice D’Andrea. E per quel processo che stava lì da tanti giorni in attesa, egli era in preda a un’irritazione smaniosa, a una tetraggine soffocante.
Si sprofondava tanto in questa tetraggine, che gli occhi aggrottati, a un certo punto, gli si chiudevano. Con la penna in mano,, dritto sul busto, il giudice D’Andrea si metteva allora a pisolare, prima racconciandosi, poi attrappandosi come un baco infratito che non possa più fare il bozzolo.
Appena, o per qualche rumore o per un crollo più forte del capo, se ridestava e gli occhi andavano lì, a quell’angolo del tavolino dove giaceva l’incartamento, voltava la faccia e, serrando le labbra, tirava con le nari fischianti aria aria aria e la mandava dentro, quanto più dentro poteva, ad allargar le viscere contratte dall’esasperazione, poi la ributtava via spalancando la bocca con un versaccio di nausea, e subito si portava una mano sul naso adunco a regger le lenti, che, per il sudore, gli scivolavano. Era veramente iniquo quel processo là: iniquo perché includeva una spietata ingiustizia contro la quale un pover’uomo tentava disperatamente di ribellarsi senza alcuna probabilità di scampo. C’era in quel processo una vittima che non poteva prendersela con nessuno. Aveva voluto prendersela con due, lì in quel processo, coi primi due che gli erano capitati sotto mano e – sissignori – la giustizia doveva dargli torto, torto, torto, senza remissione, ribadendo così, ferocemente, l’iniquità di cui quel pover’uomo era vittima.
A passeggio, tentava di parlarne coi colleghi; ma questi, appena egli faceva il nome del Chiàrchiaro, cioè di colui che aveva intentato il processo, si alteravano in viso e si ficcavano subito una mano in tasca a stringervi una chiave, o sotto sotto allungavano l’indice e il mignolo a far le corna, o s’afferravano sul panciotto i gobbetti d’argento, i chiodi, i corni di corallo pendenti a mo’ di ciondoli dalla catena dell’orologio. Qualcuno, più francamente, prorompeva:
«Per la Madonna Santissima, ti vuoi star zitto?»
Ma non poteva starsi zitto il magro giudice D’Andrea. Se n’era fatta proprio una fissazione, di quel processo. Gira gira, ricascava per forza a parlarne, per avere un qualche lume dai colleghi – diceva – per discutere così in astratto il caso.
Perché in verità, era un caso insolito e speciosissimo quello di un jettatore che si querelava per diffamazione contro i primi due che gli erano caduti sotto gli occhi nell’atto di far gli scongiuri di rito al suo passaggio.
Diffamazione? Ma che diffamazione, povero disgraziato, se già da qualche anno era diffusissima in tutto il paese la sua fama di jettatore? se innumerevoli testimoni potevano venire in tribunale a giurare che egli in tante e tante occasioni aveva dato segno di conoscere quella sua fama, ribellandosi con proteste violente? Come condannare, in coscienza, quei due giovanotti quali diffamatori per aver fatto al passaggio di lui il gesto che da tempo solevano fare apertamente tutti gli altri, e primi fra tutti – eccoli là – gli stessi giudici?
E il D’Andrea si struggeva; si struggeva di più incontrando per via gli avvocati, nelle cui mani si erano messi quei due giovanotti, l’esile e patitissimo avvocato Grigli, dal profilo di vecchio uccello di rapina, e il grasso Manin Baracca, il quale, portando in trionfo su la pancia un enorme corno comperato per l’occasione e ridendo con tutta la pallida carnaccia di un biondo majale eloquente, prometteva ai concittadini che presto in tribunale sarebbe stata per tutti una magnifica festa.
Orbene, proprio per non dare al paese lo spettacolo di quella “magnifica festa” alle spalle d’un povero disgraziato, il giudice D’Andrea prese alla fine la risoluzione di mandare un usciere in casa del Chiàrchiaro per invitarlo a venire all’ufficio d’Istruzione. Anche a costo di pagar lui le spese, voleva indurlo a desistere dalla querela, dimostrargli quattro e quattr’otto che quei due giovanotti non potevano essere condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile sarebbe venuto a lui certamente maggior danno, una più crudele persecuzione.
Ahimè, è proprio vero che è molto più facile fare il male che il bene, non solo perché il male si può fare a tutti e il bene solo a quelli che ne hanno bisogno; ma anche, anzi sopra tutto, perché questo bisogno d’aver fatto il bene rende spesso così acerbi e irti gli animi di coloro che si vorrebbero beneficiare, che il beneficio diventa difficilissimo. Se n’accorse bene quella volta il giudice D’Andrea, appena alzò gli occhi a guardare il Chiàrchiaro, che gli era entrato nella stanza, mentr’egli era intento a scrivere. Ebbe uno scatto violentissimo e buttò all’aria le carte, balzando in piedi e gridandogli: «Ma fatemi il piacere! Che storie sono queste? Vergognatevi!»
Il Chiàrchiaro s’era combinata una faccia da jettatore, ch’era una meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata, s’era insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto di un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti.
Allo scatto del giudice non si scompose. Dilatò le nari, digrignò i denti gialli e disse sottovoce:
«Lei dunque non ci crede?»
«Ma fatemi il piacere!» ripeté il giudice D’Andrea. «Non facciamo scherzi, caro Chiàrchiaro! O siete impazzito? Via, via, sedete, sedete qua.»
E gli s’accostò e fece per posargli una mano su la spalla. Subito il Chiàrchiaro sfagliò come un mulo, fremendo: «Signor giudice, non mi tocchi! Se ne guardi bene! O lei, com’è vero Dio, diventa cieco!»
Il D’Andrea stette a guardarlo freddamente, poi disse: «Quando sarete comodo… Vi ho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia, sedete.»
Il Chiàrchiaro sedette, e, facendo rotolar con le mani su le cosce la canna d’India a mo’ d’un mattarello, si mise a tentennare il capo.
«Per il mio bene? Ah, lei si figura di fare il mio bene, signor giudice, dicendo di non credere alla jettatura?»
Il D’Andrea sedette anche lui e disse: «Volete che vi dica che ci credo? E vi dirò che ci credo! Va bene così!»
«Nossignore,» – negò recisamente il Chiàrchiaro, col tono di chi non ammette scherzi. «Lei deve crederci sul serio, e deve anche dimostrarlo istruendo il processo!»
«Questo sarà un po’ difficile,» sorrise mestamente il D’Andrea. «Ma vediamo di intenderci, caro Chiàrchiaro. Voglio dimostrarvi che la via che avete preso non è propriamente quella che possa condurvi a buon porto.»
«Via? porto? Che porto e che via?» domandò, aggrondato, il Chiàrchiaro.
«Né questa d’adesso,» rispose il D’Andrea, «né quella là del processo. Già l’una e l’altra, scusate, sono tra loro così…»
E il giudice D’Andrea infrontò gl’indici delle mani per significare che le due vie gli parevano opposte.
Il Chiàrchiaro si chinò e tra i due indici così infrontati del giudice ne inserì uno suo, tozzo, peloso e non molto pulito.
«Non è vero niente, signor giudice!» disse, agitando quel dito.
«Come no?» esclamò il D’Andrea. «Là accusate come diffamatori due giovani perché vi credono jettatore, e ora qua voi stesso vi presentate innanzi a me in veste di jettatore e pretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura.»
«Sissignore.»
«E non vi pare che ci sia contraddizione?»
Il Chiàrchiaro scosse più volte il capo con la bocca aperta a un muto ghigno di sdegnosa commiserazione.
«Mi pare piuttosto, signor giudice,» poi disse, «che lei non capisca niente.»
Il D’Andrea lo guardò un pezzo, imbalordito.
«Dite pure, dite pure, caro Chiàrchiaro. Forse è una verità sacrosanta questa che vi è scappata dalla bocca. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.»
«Sissignore. Eccomi qua,» disse il Chiàrchiaro, accostando la seggiola.
«Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anche che lei è un mio nemico. Lei, lei, sissignore. Lei che crede di fare il mio bene. Il mio più acerrimo nemico! Sa o non sa che i due imputati hanno chiesto il patrocinio dell’avvocato Manin Baracca?»
«Sì. Questo lo so.»
«Ebbene, all’avvocato Manin Baracca io, Rosario Chiàrchiaro, io stesso sono andato a fornire le prove del fatto: cioè, che non solo mi ero accorto da più di un anno che tutti, vedendomi passare, facevano le corna, ma le prove anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi su cui è edificata incrollabilmente, capisce, signor giudice? la mia fama di jettatore!»
«Voi? Dal Baracca?»
«Sissignore, io.»
Il giudice lo guardò, più imbalordito che mai: «Capisco anche meno di prima. Ma come? Per render più sicura l’assoluzione di quei giovanotti? E perché allora vi siete querelato?»
Il Chiàrchiaro ebbe un proponimento di stizza per la durezza di mente dal giudice D’Andrea; si levò in piedi, gridando con le braccia per aria: «Ma perché io voglio, signor giudice, un riconoscimento ufficiale della mia potenza, non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente riconosciuta questa mia potenza spaventosa, che è ormai l’unico mio capitale!»
E ansimando, protese il braccio, batté forte sul pavimento la canna d’India e rimase un pezzo impostato in quell’atteggiamento grottescamente imperioso.
Il giudice D’Andrea si curvò, si prese la testa tra le mani, commosso, e ripeté: «Povero caro Chiàrchiaro mio, povero caro Chiàrchiaro mio, bel capitale! E che te ne fai? che te ne fai?»
«Che me ne faccio?» rimboccò pronto il Chiàrchiaro. «Lei, padrone mio, per esercitare codesta professione di giudice, anche così male, come la esercita, mi dica un po’, non ha dovuto prender la laurea?»
«La laurea, sì.»
«Ebbene, voglio anch’io la mia patente, signor giudice! La patente di jettatore. Col bollo. Con tanto di bollo legale! Jettatore patentato dal regio tribunale.»
«E poi?»
«E poi? Me lo metto come titolo nei biglietti da visita. Signor giudice mi hanno assassinato. Lavoravo. Mi hanno fatto cacciar via dal banco dov’ero scritturale, con la scusa che, essendoci io, nessuno più veniva a far debiti e pegno; mi hanno buttato in mezzo a una strada, con la moglie paralitica da tre anni e due ragazze nubili, di cui nessuno vorrà più sapere, perché sono figlie mie; viviamo del soccorso che ci manda da Napoli un mio figliuolo, il quale ha famiglia anche lui, quattro bambini, e non può fare a lungo questo sacrifizio per noi. Signor giudice, non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore! Mi sono parato così, con questi occhiali, con quest’abito; mi sono lasciato crescere la barba; e ora aspetto la patente per entrare in campo! Lei mi domanda come? Me lo domanda perché, le ripeto, lei è un mio nemico!»
«Io?»
«Sissignore. Perché mostra di non credere alla mia potenza! Ma per fortuna ci credono gli altri, sa? Tutti, tutti ci credono! E ci son tante case da giuoco in questo paese! Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!
Il giudice D’Andrea, ancora con la testa tra le mani, aspettò un pezzo che l’angoscia che gli serrava la gola desse adito alla voce. Ma la voce non volle venir fuori e allora egli, socchiudendo dietro le lenti i piccoli occhi plumbei, stese le mani e abbracciò il Chiàrchiaro a lungo, forte forte, a lungo.
Questi lo lasciò fare.    

Potremo affermare che in questa novella Pirandello abbia voluto rovesciare la prospettiva di quella de La carriola, facendo del Chiàrchiaro l’emblema di una vita a cui la forma sia necessaria. Per farlo usa la consueta tecnica, quella dell’avvertimento e del sentimento del contrario, ma qui la sviluppa partendo da lontano, caratterizzando già in modo “comico” il personaggio dell’avvocato che occupa una parte importante della narrazione: è “strano”, un cespo di capelli negroidi su un viso piccolo, una spalla più alta dell’altra; insomma è un brutto, brutti sono anche gli altri due avvocati, con lo sguardo di cavallo uno e la pelle color maiale l’altro. E’ l’estetica del brutto pirandelliana che serve ad allontanare il lettore dai personaggi presentatici.

Il giudice però, non dorme, guarda il cielo, le stelle, riesce a fluire lui sulla scia di un ritmo universale, e lui solo può capire il dramma di Chiarchiaro.

A metà novella si presenta, suscitando nell’avvocato l’“avvertimento del contrario”; soltanto capendo la motivazione della richiesta della patente, prevarrà in lui “il sentimento del contrario”. Il gesto dell’abbracciarsi finale sembra sottolineare come gli esclusi dalla vita possono “capirsi”. Infatti è il pregiudizio invalidante ad essere quasi il vero motivo della novella: la forma che ci offrono gli altri è talmente forte da non poter essere sradicata, rimossa, nonostante lo sforzo che si possa fare. Insomma, come ne La carriola anche in questa si vive secondo le costrizioni sociali, che ci riducono, tutte a torturarci, impedendo al nostro vero io d’uscire.

C’E’ QUALCUNO CHE RIDE

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Disegno di un fondale teatrale

Serpeggia una voce in mezzo alla riunione: «C’è qualcuno che ride.»
Qua, là, dove la voce arriva, è come se si drizzi una vipera, o un grillo springhi, o sprazzi uno specchio a ferir gli occhi a tradimento.
Chi osa ridere?
Tutti si voltano di scatto a cercare in giro con occhi fulminanti.
(Il salone enorme, illuminato sopra la folla degli invitati dallo splendore di quattro grandi lampadarii di cristallo, rimane in alto, nella tetraggine della sua polverosa antichità, quasi spento e deserto; solo pare allarmata, da un capo all’altro della volta, la crosta del violento affresco secentesco che ha fatto tanto per soffocare e confondere in un nerume di notte perpetua le truculente frenesie della sua pittura; si direbbe non veda l’ora che ogni agitazione cessi anche in basso e il salone sia sgombrato.)
Qualche faccia lunga, forzata con pietoso stiracchiamento a un afflitto sorriso di compiacenza, forse, a guardar bene, si trova; ma nessuno che rida, propriamente. Ora, sorridere di compiacenza sarà lecito, sarà credo anzi doveroso, se è vero che la riunione – molto seria – vuole anche aver l’aria d’uno dei soliti trattenimenti cittadini in tempo di carnevale.
C’è difatti sulla pedana coperta da un tappeto nero un’orchestrina di calvi inteschiti che suona senza fine ballabili, e coppie ballano per dare alla riunione un’apparenza di festa da ballo, all’invito e quasi al comando di fotografi chiamati apposta. Stridono però talmente il rosso, il celeste di certi abiti femminili ed è così ribrezzosa la gracilità di certe spalle e di certe braccia nude, che quasi quasi vien fatto di pensare quei ballerini non siano stati estratti di sotterra per l’occasione, giocattoli vivi d’altro tempo, conservati e ora ricaricati artificialmente per dar questo spettacolo.
Si sente proprio il bisogno, dopo averli guardati, di attaccarsi a un che di solido e rude: ecco, per esempio, la nuca di questo vicino aggrondato che suda paonazzo e si fa vento con un fazzoletto bianchissimo; la fronte da idiota di quella vecchia signora. Strano intanto: sulla squallida tavola dei rinfreschi, i fiori non sono finti, e allora fa tanta malinconia pensare ai giardini da cui sono stati colti questa mattina sotto una pioggerella chiara che spruzzolava lieve pungente; e che peccato questa pallida rosa già disfatta che serba nelle foglie cadute un morente odore di carne incipriata.
Sperduto qua e là tra la folla, c’è anche qualche invitato in domino, che sembra un fratellone in cerca del funerale.
La verità è che tutti questi invitati non sanno la ragione dell’invito. E’ sonato in città come l’appello a un’adunata. Ora, perplessi se convenga meglio appartarsi o mettersi in mostra (che non sarebbe neanche facile tra tanta folla) l’uno osserva l’altro, e chi si vede osservato nell’atto di tirarsi indietro o di cercare di farsi avanti, appassisce e resta lì; perché sono anche in sospetto l’uno dell’altro e la diffidenza nella ressa dà smanie che a stento riescono a contenere; occhiate alle spalle s’allungano oblique che, appena scoperte, si ritraggono come serpi.
«Oh guarda, sei qua anche tu?»
«Eh, ci siamo tutti, mi pare.»
Nessuno intanto osa chiedere perché, temendo di essere lui solo ad ignorarlo, il che sarebbe colpa nel caso che la riunione sia stata indetta per prendere una grave decisione. Senza farsene accorgere, alcuni cercano con gli occhi quei due o tre che si presume debbano essere in grado di saperlo; ma non li trovano; si saranno riuniti a consulto in qualche sala segreta, dove di tanto in tanto qualcuno è chiamato e accorre impallidendo e lasciando gli altri in un ansioso sbigottimento. Si cerca di desumere dalle qualità di chi è stato chiamato e dalla sua posizione e dalle sue aderenze che cosa di là possa essere in deliberazione, e non si riesce a comprenderlo perché, poco prima, è stato chiamato un altro di qualità opposte e d’aderenze affatto contrarie.
Nella costernazione generale per questo mistero, l’orgasmo va crescendo di punto in punto. Si sa un’inquietudine come fa presto a propagarsi e come una cosa, passando di bocca in bocca, si alteri fino a diventare un’altra. Arrivano così da un capo all’altro del salone tali enormità da far restare tramortiti. E dagli animi così tutti in fermento vapora e si diffonde come un incubo, nel quale, al suono angoscioso e spasimante di quell’orchestrina, tra il brusìo confuso che stordisce e i riverberi dei lumi negli specchi, i più strani fantasmi guizzano davanti agli occhi di ciascuno, e come un fumo che trabocchi in dense volute, dalle coscienze che covano in segreto il fuoco d’inconfessati rimorsi, apprensioni traboccano e paure e sospetti d’ogni genere; in tanti la smania istintiva di correr subito a un riparo ha i più impreveduti effetti: chi sbatte gli occhi di continuo, chi guarda un vicino senza vederlo e teneramente gli sorride, chi sbottona e riabbottona senza fine un bottone del panciotto. Meglio far vista di niente. Pensare a cose aliene. La Pasqua ch’è bassa quest’anno. Uno che si chiama Buongiorno. Ma che soffocazione intanto questa commedia con noi stessi.
Il fatto (se vero) che qualcuno ride non dovrebbe far tanta impressione, mi sembra, se tutti sono in quest’animo. Ma altro che impressione! Suscita un fierissimo sdegno, e proprio perché tutti sono in quest’animo: sdegno come per un’offesa personale, che si possa avere il coraggio di ridere apertamente. L’incubo grava così insopportabile su tutti, appunto perché a nessuno par lecito ridere. Se uno si mette a ridere e gli altri seguono l’esempio, se tutto quest’incubo frana d’improvviso in una risata generale, addio ogni cosa! Bisogna che in tanta incertezza e sospensione d’animi si creda e si senta che la riunione di questa sera è molto seria.
Ma c’è poi veramente questo qualcuno che seguita a ridere, nonostante la voce che serpeggia ormai da un pezzo in mezzo alla riunione? Chi è? Dov’è? Bisogna dargli la caccia, afferrarlo per il petto, sbatterlo al muro, e, tutti coi pugni protesi, domandargli perché ride e di chi ride. Pare che non sia uno solo. Ah sì, più d’uno? Dicono che sono almeno tre. Ma come, di concerto, o ciascuno per sé? Pare di concerto tutt’e tre. Ah sì? venuti dunque col deliberato proposito di ridere? Pare.
E’ stata prima notata una ragazzona, vestita di bianco, tutta rossa in viso, prosperosa, un po’ goffa, che si buttava via dalle risa in un angolo della sala di là. Non ci s’è fatto caso in principio, sia perché donna, sia per l’età. Ha solo urtato il suono inatteso della risata e alcuni si sono voltati come per una sconvenienza, diciamo pure impertinenza, tracotanza là, se si vuole, ma perdonabile, via: un riso da bambina, del resto subito troncato, vedendosi osservata. Scappata via da quell’angolo, curva, comprimendosi, con tutte e due le mani sulla bocca, ha fatto senso – questo sì – udirla ancora ridere di là, in un prorompimento convulso, forse a causa della compressione che fuggendo s’era imposta. Bambina? Ora si viene a sapere che ha, a dir poco, sedici anni, e due occhi che schizzano fiamme. Pare che vada fuggendo da una sala all’altra, come inseguita. Sì, sì, è inseguita difatti, è inseguita da un giovinotto molto bello, biondo come lei, che ride anche lui come un pazzo inseguendola; e di tratto in tratto si ferma sbalordito dall’improntitudine di lei che si ficca da per tutto; vorrebbe darsi
un contegno ma non ci riesce; si volta di qua e di là come sentendosi chiamare, e certo si morde così le labbra per tenere a freno un impeto d’ilarità che gli gorgoglia dentro e gli fa sussultare lo stomaco. Ed ecco che ora hanno scoperto anche il terzo, un certo ometto elastico che va ballonzollando e battendo i due corti braccini sulla pancetta tonda e soda come due bacchette sul tamburo, la calvizie specchiante tra una rossa corona di capelli ricciuti e una faccia beata in cui il naso gli ride più della bocca, e gli occhi più della bocca e del naso, e gli ride il mento e gli ride la
fronte, gli ridono perfino le orecchie. In marsina come tutti gli altri. Chi l’ha invitato? Come si sono introdotti nella riunione? Nessuno li conosce. Nemmeno io. Ma so che è lui il padre di quei due ragazzi, signore agiato che vive in campagna con la figlia, mentre il figlio è agli studii qua in città. Saranno capitati a questa finta festa da ballo per combinazione. Chi sa che cosa, venendo, si saran detta tra loro, che intese e scherzi segreti si saran tra loro da tempo stabiliti, burle note soltanto a loro, polveri in serbo, colorate, da fuochi d’artificio, pronte a esplodere a un minimo incentivo, sia
pure d’uno sguardo di sfuggita: fatto si è che non possono stare insieme: si cercano però con gli occhi da lontano e, appena si sbirciano, voltano la faccia e sotto le mani sbruffano certe risate che sono veramente scandalose in mezzo a tanta serietà.
L’ossessione di questa serietà è così su tutti incombente e soffocante, che nessuno riesce a supporre che quei tre ne possano esser fuori, lontani, e possano avere in sé invece una innocente e magari sciocca ragione di ridere così di nulla; la ragazza, per esempio, solo perché ha sedici anni e perché è abituata a vivere come una puledra in mezzo a un prato fiorito, una puledra che imbizzarrisca a ogni alito d’aria e salti e corra felice, non sa lei stessa di che: si può giurare che non s’accorge di nulla, che non ha il minimo sospetto dello scandalo che sta sollevando insieme col padre e col fratello così anch’essi festanti, alieni e lontani d’ogni sospetto.
Sicché quando, riuniti alla fine tutt’e tre su di un divano della sala di là, il padre in mezzo tra il figlio e la figlia, contenti e spossati, con un gran desiderio di abbracciarsi per il divertimento che si son presi, sgorgato dalla loro stessa gioja in tutte quelle belle risate come in un fragorìo d’effimere spume, si vedono venire incontro dalle tre grandi porte vetrate, come una nera marea sotto un cielo d’improvviso incavernato, tutta la folla degli invitati, lentamente, lentamente, con melodrammatico passo di tenebrosa congiura, dapprima non capiscono nulla, non credono che quella buffa manovra possa esser fatta per loro e si scambiano un’occhiata, ancora un po’ sorridenti; il sorriso però va man mano smorendo in un crescente sbalordimento, finché, non potendo né fuggire e nemmeno indietreggiare, addossati come sono alla spalliera del divano, non più sbalorditi ma atterriti ora, levano istintivamente le mani come a parar la folla che, seguitando a procedere, s’è fatta loro sopra, terribile. I tre maggiorenti, quelli che, proprio per loro e non per altro, s’erano riuniti a consulto in una sala segreta, proprio per la voce che serpeggiava del loro riso inammissibile a cui han deliberato di dare una punizione solenne e memorabile, ecco, sono entrati dalla porta di mezzo e sono avanti a tutti, coi cappucci del domino abbassati fin sul mento e burlescamente ammanettati con tre tovaglioli, come rei da punire che vengano a implorare da loro pietà. Appena sono davanti al divano, una enorme sardonica risata di tutta la folla degli invitanti scoppia fracassante e rimbomba orribile più volte nella sala. Quel povero padre, sconvolto, annaspa tutto tremante, riesce a prendersi sotto braccio i due figli e, tutto ristretto in sé, coi brividi che gli spaccano le reni, senza poter nulla capire, se ne scappa, inseguito dal terrore che tutti gli abitanti della città siano improvvisamente impazziti.

E’ una novella tarda, del 1934. Non è una sorpresa che Pirandello si sia lasciato affascinare dalle correnti avanguardistiche e che approdi anche lui ad esiti che potremo definire sia espressionisti che surrealisti.
La novella non ha tempo (forse carnevale), ma in quale anno?, non ha luogo, (un salone con un orchestrina,) ma dove?, non ha un motivo (un’adunata di persone “dabbene”), perché?
Il tutto sembra sospeso in una serie d’immagini da un narratore interno che sa quanto i personaggi da lui descritti.

La novella si struttura in tre momenti:

  • descrizione del salone, del soffitto, dell’orchestrina che suona; quindi descrizione dei personaggi, i loro sguardi furtivi, il loro interrogarsi sul perché sono lì;
  • descrizione dell’effetto del riso, del suo irrefrenabile svolgersi tra una figlia, un figlio e un padre. Non vi è motivo del loro riso. Ma ciò crea scandalo;
  • descrizione della vendetta terribile che i tre dovranno subire per aver riso.

Quindi Pirandello non ci offre alcuna spiegazione, alcun motivo; ma potremo leggerla come un momento in cui la posizione pirandelliana verso il regime stia mutando e quindi le adunate di gente che soffocano ogni forma di libertà, ma potrebbe anche leggersi, pirandellianamente, come la forma soffochi ogni forma di vita, laddove il riso rappresenti la seconda.

Il teatro

Pirandello approda piuttosto tardi al teatro, dopo la guerra, fra gli anni 1915 e 1936, ma è soprattutto in questo genere letterario che si precisa in modo completo la sua visione del mondo. Le opere teatrali sono più di quaranta e come per le novelle anch’esse vennero racchiuse in volume che prese il nome di Maschere nude. Molte di esse nascono dalle novelle, altre sono certamente originali; ma il loro travaso da un genere all’altro non aggiungono nulla di quanto tematicamente già detto, forse lo approfondiscono. Qualche critico ha parlato, a proposito di alcune di esse, soprattutto quelle nate per Marta Abba, come di un pirandellismo di maniera alla ricerca di una perfezione drammaturgica con un fine più didascalico che letterario.

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Copertina per le opere teatrali pirandelliane

Potremo parlare di quattro fasi per il teatro:

  • Le origini e il teatro siciliano. Esse nascono soprattutto sotto la spinta di un agente teatrale catanese e sono scritte in dialetto (poi, più tardi, riscritte in italiano). Fra le più importanti ricordiamo Lumié di Sicilia, Liolà e Pensaci Giacomino!;
Il professor Agostino Toti è un uomo anziano che non ha moglie né figli. A causa de suo povero stipensio, difatti, non ha potuto farsi una famiglia. Decide però di vendicarsi dello stato che lo ha miseramente ricompensato sposando una ragazza alla quale lascerà la sua pensione. Ma la ragazza scelta è incinta di un giovane, Giacomino, che il professore conosce. Pertanto, non venendo meno alla sua offerta, propone un menage a trois; ma Giacomino viene umiliato dalle cattiverie e risate della gente e vorrebbe interrompere la strana situazione, ma il professore lo fa ricredere, minacciandolo di fargli perdere il lavoro che gli ha procurato e mettendogli in braccio il figlio avuto dalla relazione con la ragazza.

Leo-Gullotta-Pensaci-Giacomino14-e1549610929196.jpgPensaci Giacomino interpretato da Leo Gullotta

ATTO I

LILLINA: Ah, professore, quanto le sono grata! Che peso, che macigno mi leva dal petto! Mi metterei a saltare dalla contentezza, come una ragazzina.
TOTI: (con le lagrime in pelle). Figliuola mia, che dici? Bene? E che bene posso farti io? Bene di padre.
LILLINA: No, più! Un padre fa bene ai suoi figliuoli; ma li ha fatti lui: è suo dovere. Lei è più che padre per me!
TOTI: Sì, ma tu come padre considerami, e basta. Avessi – dico poco – vent’anni di meno! Settanta! E dunque – padre, e nient’altro.
LILLINA: Padre, padre, sì! Lei sarà il nostro vero padre, ecco! Ha bisogno di cura, d’assistenza: bene, ci sarò io; la curerò io! E lei sarà anche il padrone della mia casa e non si pentirà mai del bene che m’avrà fatto!
TOTI: Ma non dire così, figliuola mia! Che vuoi che sia il po’ di bene che ti fo io, di fronte a quello grande che mi farai tu, solo a sentirti ridere contenta accanto a me?
LILLINA: Io sola? Eh, saremo in due, professore, a rider contenti e felici!
TOTI: Tu e io, sì: in due!
LILLINA: E Giacomino, professore? E Giacomino che sarà più contento di me e di lei?
TOTI: (restando). Giacomino? Come, Giacomino?
LILLINA: Eh, scusi, vuole che non sia contento anche Giacomino?
TOTI: (c. s.). Quale Giacomino?
LILLINA: Come! Non è stato lui a pregarla di venire a dire una parolina per noi a mio padre?
TOTI: No, figliuola. Tu sbagli.
LILLINA: Come, sbaglio?
TOTI: (si prende la testa tra le mani). Aspetta… aspetta…
LILLINA: Oh Dio, che ha, professore?
TOTI: Niente. Una legnata in testa. Aspetta. – Padre, eh? Che volevo esser considerato da te soltanto come padre, t’ho detto, è vero?
LILLINA: Sì, certo. Ma mi dica che sbaglio può esserci stato?
TOTI: Aspetta. Dunque, padre… (Forte, a se stesso, con rabbia, come per richiamarsi al sentimento d’una realtà impreveduta): Padre, padre, padre. Non perdiamo la testa, Agostino! (Scrollandosi, come a significare che s’è liberato d’una illusione): Basta, è passato! Eccomi qua, figliuola mia. Sappiamoci intendere. Chi è codesto Giacomino che tu credi sia venuto a pregarmi? Da me non è venuto nessun Giacomino!
LILLINA: Ah, no? E allora? Che ha detto lei, allora, a mio padre per me?
TOTI: Gli ho detto quello che or ora ho finito di dire a te: che sono un povero vecchio, il quale potrebbe levarti da codesto stato, prendendoti con sé come una figliuola, e basta.
LILLINA: Me sola?
TOTI: (con bonomia, senz’ombra d’irrisione). Eh, vorresti che mi pigliassi insieme codesto Giacomino che tu dici? Capirai che per gli occhi del mondo…
LILLINA: Ma se è come figliuola, professore?
TOTI: Come figliuola, va bene. Tra me e te. Ma se debbo darti uno stato, capirai, non basta che tu te ne venga senz’altro a casa mia. Ci sarà pur bisogno…
LILLINA: E non c’è Giacomino?
TOTI: Ci sarà Giacomino, non dico di no! Ma lo stato, in faccia alla legge, non potrà dartelo lui; te lo dovrò dare io.
LILLINA: Professore, io non capisco più niente, allora! Ma come? Scusi… Mio padre m’ha detto ch’era contento, se ero contenta io; per quel che lei gli aveva detto per me.
TOTI: Sì, cara. Ma codesto Giacomino scappa fuori adesso! Io non ne sapevo nulla; non l’ho mai visto, mai sentito nominare.
LILLINA: Mai? Giacomino Delisi, professore!
TOTI: Ah, Giacomino Delisi? Oh guarda! Bravo giovanotto, sì. Fu mio scolaro, tant’anni fa. Lo conosco.
LILLINA: E da allora, appunto…
TOTI: Ah, fate all’amore da allora? È un bel pezzo!
LILLINA: M’ha detto che lei gli vuol bene…
TOTI: Eh, sì, gliene voglio…
LILLINA: E perciò m’ero immaginata che lei avesse parlato a papà per me: per me e per lui! Oh povera me! Che allegrezza in sogno! E ora come faremo? Siamo al punto di prima? E io che non posso più aspettare… che non posso più aspettare, professore! (Si nasconde la faccia.)
TOTI: (stupito, turbato). Perché? (La guarda e comprende.) Ah sì?
LILLINA: Sono perduta, sono perduta! non posso più aspettare! M’ajuti, professore, m’ajuti!
TOTI: E che ajuto potrei darti io, povera figliuola mia?
LILLINA: Parli a mio padre; gli dica… gli dica che conosce Giacomino, che sa che è un buon giovine; che lei farà di tutto per trovargli un posticino…
TOTI: Io?
LILLINA: Sì, tanto da potermi mantenere! E alla fine gli faccia comprendere che non posso più aspettare! Per carità, professore, per carità!
TOTI: Eh, io, per me, sì, figliuola, posso anche dirglielo. Ma ti pare che tuo padre vorrà dare ascolto a me?
LILLINA: Forse le darà ascolto! Lei è qua professore…
TOTI: Che professore, figliuola! Come professore – l’hai visto – non mi rispetta! E poi, ti sembra che possa credere sul serio che io abbia modo di procurare un posto a Giacomino?
LILLINA: Non importa! Si provi a dirglielo! Forse di lei si fiderà!
TOTI: Ma se il posto, per lui, è tutto! Tanto vero che era contento per me.
LILLINA: Come, per lei?
TOTI: Ma sì, figliuola! Siamo giusti, siete ragazzi e non considerate tante cose! Ti sei messa con un giovanotto – buono, non dico di no, educato, ma… senz’arte né parte, sventato… Come vuoi che ti mantenga? Le senti le campane?: «Con che? con che?». Non ne ha i mezzi, e credo neanche la voglia. L’amore? L’amore mangia, figliuola; non si mangia! Come farete a metter su casa? C’è ora anche un bambino per via… La faccenda era già complicata con codesto benedetto Giacomino! Ma, tanto, per me o prima o poi – meglio prima che poi! Ma ora si complica di più! Non bastava Giacomino; anche un Giacominino! Vuoi che diventi padre e nonno, tutt’in una volta?
LILLINA: No, no, professore! Che dice! Lei ha ragione: non avrei dovuto farlo; ma non so più io stessa come sia stato! Ora egli n’è più pentito e disperato di me; non sappiamo nessuno dei due come uscirne! Il tempo stringe. Ah, m’ajuti, professore, per carità, ora che lei sa tutto, ora che, per un caso, mi son trovata a confidarmi con lei, m’ajuti!
TOTI: Ma sì, io sono qua, figliuola mia, tutto per te. Non vedo che potrei fare. Ora che so tutto, non tirarmi indietro, ecco. Padre e nonno. Più di questo?
LILLINA: No, professore! Questo non è possibile!
TOTI: Dici per me? Se è per me – a pensarci (hai inteso ciò che ho detto al Direttore? dato il principio…) forse è meglio così, perché ora un po’ di bene te lo posso fare davvero. E se tu sei contenta, un bene farò io a te; un bene potrai fare tu a me; e potremo vivere in pace. Anche col bambino; anzi! Un bambinuccio a cui darò la mano, da nonno: non c’è meglio compagnia per avviarsi alla fossa.
LILLINA: Ma Giacomino, professore? Giacomino?
TOTI: Giacomino, figliuola… (fa un ampio gesto con la mano, come per dire: nascondilo!) Posso darti anche Giacomino?
LILLINA: No! no! Non dico questo! Oh Dio, mi fa avvampare dalla vergogna, professore!
TOTI: No, che vergogna, figliuola! Puoi far conto che in questo momento ti stai confidando con tuo padre. Mi dici Giacomino; io ti rispondo che Giacomino, sì, ci sarà; ma io… io non devo saperlo… cioè lo so, ma… ma dev’essere come se non lo sapessi, ecco! Amico di casa; antico scolaro. E posso voler bene anche a lui, come a un figliuolo: perché no?
LILLINA: Ma lui, professore, lui? Le sembra possibile che dica di sì? Questo può essere per me, per salvare me, sì; e io gliene sono grata; ma non può essere per lui: non consentirà mai! No, guardi: l’ajuto che m’aspetto da lei è quello che le ho già detto. Parli a mio padre, lo persuada a farmi sposar Giacomino, che non c’è più tempo da perdere. Un posticino lo troverà di certo. Lo sta cercando; lo troverà. E intanto ci facciano sposare! Ecco, questo. Mi faccia questa carità, professore! Io ora entro qua (indica il Gabinetto di Storia Naturale) con la scusa della pulizia. Perché deve venir lui…
TOTI: Giacomino? Là?
LILLINA: Sì, viene quasi ogni giorno, a quest’ora. Credevo che oggi non sarebbe venuto perché aveva parlato con lei; e invece… Ah, com’ero contenta! Credevo d’essermi levato questo peso, questo peso che mi schiaccia! – Vada vada a parlare a papà, professore! Io sono di là. Ma per carità non gli faccia capir niente! E grazie, grazie, professore: mi compatisca! (Lillina entra nel Gabinetto di Storia Naturale e richiude l’uscio.)
(Il professor Toti resta come stordito a considerar l’incarico che Lillina gli ha dato e fa una lunga scena muta, significando per cenni prima la sua sfiducia di riuscire e insieme la sua disillusione, poi come sarebbe stato bello per lui avere un bamboccetto, piccolo così, da portarsi per mano: se lo vede lì davanti; gli fa tanti attucci; ma poi pensa che c’è di mezzo questo benedetto Giacomino! Troppi, troppi a cui dovrebbe pensare il Governo: lui, uno; la moglie, due; Giacomino, tre; il bambino, quattro… Eh, troppi! troppi! E si gratta la testa. Guarda verso l’uscio del Gabinetto; pensa che Lillina e Giacomino forse sono di là insieme; e di nuovo considera la difficoltà dell’incarico; tentenna il capo e scuote le mani con le dita raccolte per le punte, come a dire: «Che posso farci io?». In quest’atto lo sorprende Cinquemani, che ritorna cauto e curioso dal corridoio a sinistra.)

pensaci-giacomino-randone-2.jpgSandro Randone impersona Toni nella commedia di Pirandello

La piéce teatrale nasce da una novella del 1910 ed è stata scritta in pochi giorni nel 1916. Originariamente venne scritta in siciliano per l’attore Angelo Musco e solo in seguito venne poi proposta in italiano. Il vero protagonista, al di là del titolo della commedia, Pensaci Giacomino! è Agostino Toti, figlio del Pirandello più dell’Esclusa che del Mattia Pascal. La commedia infatti ha come tema fondamentale quello della convenzione sociale e di come esso, spesso e volentieri, nasconda ipocrisia e falsità, nonché, e forse più importante, il riscatto di un uomo vinto dall’impietoso meccanismo statale. Certo anche qui Pirandello utilizza mezzi tipicamente tipicamente “borghesi” (la prima parte) e del teatro leggero (il fraintendimento iniziale), ma poi vira mettendo al centro non soltanto la bonomia, ma la moralità del protagonista, moralità che va a frangersi, nell’ultima battuta della commedia, in cui, rivolgendosi al prete, urlerà “Che crede? Lei neanche a Cristo crede!”

  • Il teatro grottesco: è la fase in cui Pirandello analizza e rovescia le convenzioni borghesi e ne svela le contraddizioni. Lo svelamento di esse fa di queste pièce, delle vere e proprie paradossali inchieste giudiziarie, dove a dominare vi è il protagonista filosofo.

Fra esse una delle più importanti è Così è (se vi pare):

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Immagine tratta da una locandina

Lo strano comportamento del signor Ponza e di sua moglie, che comunica con la madre, signora Frola, solo per mezzo di bigliettini calati dalla finestra con un paniere, eccita a curiosità dei vicini. I tre personaggi vengono così, uno alla volta, a spiegare a ciascuno la propria verità. la signora Frola sostiene che il genero proibisce alla moglie di comunicare in altro modo con lei; Ponza implora che non le diano ascolto, perché la suocera è impazzita dopo la morte della figlia che lui si sforza di farle credere viva con l’aiuto della nuova moglie; torna la signora Frola a insistere che il pazzo è lui che ha mandato la moglie in manicomio con la sua gelosia (al suo ritorno Ponza non la riconosceva più: per questo si dovette simulare un nuovo matrimonio). Non resta che chiedere alla signora Ponza quale sia la verità.

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Donna velata (Rossella Falk nella parte della signora Ponza)

FINALE

ATTO III
Scena VII

DETTI, (i personaggi della scena precedente) la SIGNORA AMALIA
AMALIA:  (entra di furia, costernatissima, dall’uscio a sinistra, annunziando) La signora Frola! La signora Frola è qua!
AGAZZI: No! Perdio, chi l’ha chiamata?
AMALIA: Nessuno! È venuta da sé!
IL PREFETTO: No! Per carità! Ora? No! La faccia andar via, signora!
AGAZZI: Subito via! Non la fate entrare! Bisogna impedirglielo a ogni costo! Se la trovasse qua, gli sembrerebbe davvero un agguato!
Scena VIII
DETTI, la SIGNORA FROLA, TUTTI GLI ALTRI.
(La signora Frola s’introdurrà tremante, piangente, supplicante, con un fazzoletto in mano, in mezzo alla ressa degli altri, tutti esagitati.
SIGNORA FROLA: Signori miei, per pietà! per pietà! Lo dica lei a tutti, signor Consigliere!
AGAZZI: (facendosi avanti, irritatissimo) Io le dico, signora, di ritirarsi subito! Perché lei, per ora, non può stare qua!
SIGNORA FROLA (smarrita): E perché? perché? (Alla signora Amalia.) Mi rivolgo a lei, mia buona signora….
AMALIA: Ma guardi…. guardi, c’è lì il Prefetto.
SIGNORA FROLA: Oh! lei, signor Prefetto! Per pietà! Io volevo venire da lei!
IL PREFETTO:  No, abbia pazienza, signora! Per ora io non posso darle ascolto. Bisogna che lei se ne vada! se ne vada via subito di qua!
SIGNORA FROLA: Sì, me ne andrò! Me ne andrò oggi stesso! Me ne partirò, signor Prefetto! per sempre me ne partirò!
AGAZZI:  Ma no, signora! Abbia la bontà di ritirarsi per un momento nel suo quartierino qua accanto!. Mi faccia questa grazia! Poi parlerà col signor Prefetto!
SIGNORA FROLA:  Ma perché?… Che cos’è? Che cos’è?
AGAZZI (perdendo la pazienza): Sta per tornare subito qua suo genero, ecco! Ha capito?
SIGNORA FROLA:  Ah! Sì?…. E allora, sì…. sì, mi ritiro…. mi ritiro subito! Volevo dir loro questo soltanto: che per pietà, la finiscano! Loro credono di farmi bene e mi fanno tanto male! Io sarò costretta ad andarmene, se loro seguiteranno a far così; a partirmene oggi stesso, perché lui sia lasciato in pace! – Ma che vogliono, che vogliono ora qua da lui? Che deve venire a fare qua lui?… – Oh, signor Prefetto!
IL PREFETTO: Niente, signora, stia tranquilla! stia tranquilla, e se ne vada, per piacere!
AMALIA: Via, signora, sì! sia buona!
SIGNORA FROLA:  Ah Dio, signora mia, loro mi priveranno dell’unico bene, dell’unico conforto che mi restava: vederla almeno da lontano la mia figliuola! (Si metterà) a piangere.
IL PREFETTO:  Ma chi glielo dice? Lei non ha bisogno di partirsene! La invitiamo a ritirarsi ora per un momento. Stia tranquilla!
SIGNORA FROLA:  Ma io sono in pensiero per lui! per lui, signor Prefetto! sono venuta qua a pregare tutti per lui, non per me!
IL PREFETTO: Sì, va bene! E lei può star tranquilla anche per lui, gliel’assicuro io. Vedrà che ora si accomoderà ogni cosa.
SIGNORA FROLA:  E come? Li vedo qua tutti accaniti addosso a lui!
IL PREFETTO:  No, signora! Non è vero! Ci sono qua io per lui! Stia tranquilla!
SIGNORA FROLA: Ah, grazie! Vuol dire che lei ha compreso.
IL PREFETTO: Sì, sì, signora, io ho compreso….
SIGNORA FROLA: E io l’ho ripetuto tante volte a tutti questi signori: è una disgrazia già superata, su cui non bisogna più ritornare.
IL PREFETTO:  Sì, va bene, signora…. Se le dico che io ho compreso!
SIGNORA FROLA: Siamo contente di vivere così, la mia figliola è contenta. Dunque… – Ci pensi lei, ci pensi lei…. perché, se no, non mi resta altro che andarmene, proprio! e non vederla più, neanche così da lontano…. Lo lascino in pace, per carità!
(A questo punto, tra la ressa si fa un movimento d’ansia e di sgomento, tutti fanno cenni, alcuni guardano verso l’uscio; qualche voce repressa si fa sentire.)
VOCI: Oh Dio…. eccola, eccola!
SIGNORA FROLA: (notando lo sgomento, lo scompiglio, gemerà perplessa, tremante) Che cos’è?… Che cos’è?
Scena IX
DETTI, la SIGNORA PONZA, poi il SIGNOR PONZA.
(Tutti si scostano da una parte e dall’altra per dar passo alla signora Ponza che si fa avanti rigida, in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo nero, impenetrabile.)
SIGNORA FROLA (cacciando un grido straziante di frenetica gioja ): Ah! Lina…. Lina…. Lina….
(E si precipiterà e s’avvinghierà alla donna velata, con l’arsura d’una madre che da anni e anni non abbraccia più la sua figliuola. Ma contemporaneamente, dall’interno, si udranno le grida del signor Ponza che subito dopo si precipiterà sulla scena.)
PONZA: Giulia!… Giulia!… Giulia!… (La signora Ponza, alle grida di lui, s’irrigidisce tra le braccia della signora Frola che la cingono. Il signor Ponza s’accorge della suocera così perdutamente abbracciata alla moglie, e inveisce, furente.) Ah! Questo hanno fatto! L’avevo detto io! Si sono approfittati così, vigliaccamente, della mia buona fede?
SIGNORA PONZA: (volgendo il capo velato, quasi con austera solennità, verso il marito) Non temete! – Non temete! Andate via.
SIGNORA FROLA: (si stacca subito, da sé, tutta tremante, umile, dall’abbraccio, e accorre, premurosa, a lui) Sì, sì…. andiamo, caro, andiamo…. andiamo….

(E tutti e due abbracciati, carezzandosi a vicenda, tra due diversi pianti, si ritireranno bisbigliandosi tra loro parole affettuose. Silenzio. Dopo aver seguito con gli occhi fino all’ultimo i due, tutti si rivolgeranno, ora, sbigottiti e commossi, alla signora velata.)

SIGNORA PONZA (dopo averli guardati attraverso il velo, dirà con solennità cupa)
Che altro possono voler da me, dopo questo, lor signori? Qui c’è una sventura, come vedono, che deve restar nascosta, perché solo così può valere il rimedio che la pietà le ha prestato.
IL PREFETTO (commosso):  Ma noi vogliamo, vogliamo rispettar la pietà, signora…. Vorremmo però che lei ci dicesse….
SIGNORA PONZA (con un parlare lento e spiccato):  Che cosa? la verità? è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola, –
TUTTI (con un sospiro di soddisfazione): – ah!
SIGNORA PONZA:  (subito c.s.)– e la seconda moglie del signor Ponza –
TUTTI: (stupiti, delusi, sommessamente) – oh, e come?
SIGNORA PONZA: (subito c.s.) – sì, e per me nessuna! nessuna!
IL PREFETTO:  Ah, no, per sé, lei, signora, sarà l’una o l’altra!
SIGNORA PONZA: 
Nossignori. Per me, io sono colei che mi si crede!

(Guarda, attraverso il velo, tutti, per un istante, e si ritirerà. Silenzio.)
LAUDISI
Ecco, o signori, come parla la verità! (Volge attorno uno sguardo di sfida derisoria.) Siete contenti? (Scoppierà a ridere) Ah! ah! ah! ah!
Nella scena vi è lo studio, accanto ad un salotto, di una casa borghese. Qui si svolge quella che si può chiamare una vera e propria inchiesta, ed assume, secondo la definizione del critico Giovanni Macchia, in una vera e propria stanza della tortura in cui scorrono tutti, tutti alla ricerca di una verità oggettiva.
Tuttavia, l’apparizione della signora Ponza certifica che non esiste realtà, sottolineando ancora una volta la relatività di essa (essa è ciò si vuole essa sia), ma ancor di più evidenzia l’inutilità di essa quando fa venir meno la pietà. Pirandello ci dice che non possono sussistere vita e forma, apparenza e realtà, ma fra le due antinomie scegli sempre quella che non porta dolore, il dolore di dover essere, come, appunto, la signora Ponza.

  • Il metateatro. A questa definizione sono ascrivibili tre lavori teatrali (più un quarto): Sei personaggi in cerca d’autore (1921-25); Ciascuno a suo modo (1924-33); Questa sera si recita a soggetto (1930)

Queste opere sono caratterizzate dalla scomparsa della quarta parte, dalla esplicitazione del modus operandi all’interno di uno spazio scenico; della scomparsa di una linearità temporale; dalla struttura aperta e impossibilità del dramma stesso:

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Messa in scena di Pitoeff per i “Sei personaggi in cerca d’autore” nel 1923

Mentre una compagnia drammatica prova Il gioco delle parti , di Pirandello, sulla scena appaiono misteriosamente sei personaggi: il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, due bambini. Essi nascono, spiega il Padre, dalla fantasia di un autore che non seppe o non volle farli vivere in un’opera d’arte; ma smaniano di vivere il loro dramma e vogliono che gli attori lo recitino. E il loro dramma è questo: la Madre, dopo aver dato alla luce il Figlio, si è innamorata del segretario del Padre, creatura dimessa e semplice come lei. Il Padre si è fatto da parte e dalla nuova unione sono nati tre figli. Dopo molti anni il Padre, inconsapevole, incontra la Figliastra in una casa d’appuntamenti: un rapporto incestuoso è evitato solo perché sopravviene la Madre, sconvolta di trovare la figliola in quel luogo, e con il suo legittimo marito. Il Padre, vergognoso, accoglie tutta la famiglia: ma si crea una situazione insostenibile. Il Figlio si chiude in un mutismo ostile; la bambina cade nella vasca e il ragazzo, che l’ha spiata morire senza intervenire, si uccide con una rivoltellata. Il Capocomico è, suo malgrado, affascinato dalla materia teatrale che gli viene proposta: ma qui si crea il secondo dramma dei personaggi. Essi non si riconoscono nella recitazione degli attori; solo loro possono rappresentare, o meglio vivere, la tragedia, che è poi la loro realtà: una realtà che si ripete nell’eternità dell’arte.

L’IRRUZIONE DEI SEI PERSONAGGI

L’Uscere del teatro sarà intanto entrato nella sala, col berretto gallonato in capo e, attraversato il corridojo fra le poltrone, si sarà appressato al palcoscenico per annunziare al Direttore-Capocomico l’arrivo dei Sei Personaggi, che, entrati anch’essi nella sala, si saranno messi a seguirlo, a una certa distanza, un po’ smarriti e perplessi, guardandosi attorno. Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’adoperi con ogni mezzo a ottenere tutto l’effetto che questi “Sei Personaggi” non si confondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositi riflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso di speciali maschere per i personaggi: maschere espressamente costruite d’una materia che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che dovranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le narici e la bocca. S’interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I “Personaggi” non dovranno infatti apparire come “fantasmi”, ma come “realtà create”, costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti della volubile naturalità degli Attori. Le maschere ajuteranno a dare l’impressione della figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressione del proprio sentimento fondamentale, che è il “rimorso” per il Padre, la “vendetta” per la Figliastra, lo “sdegno” per il Figlio, il “dolore” per la Madre con fisse lagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelle immagini scolpite e dipinte della “Mater dolorosa” nelle chiese. E sia anche il vestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganze, con pieghe rigide e volume quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l’idea che sia fatto d’una stoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato e cucito in una qualsiasi sartoria. Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, con baffetti folti quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso a un sorriso incerto e vano. Pallido, segnatamente nell’ampia fronte; occhi azzurri ovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mellifluo, a volte avrà scatti aspri e duri. La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergogna e d’avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero, e quando solleverà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terrà sempre gli occhi bassi. La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, vestirà a lutto anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l’aria timida, afflitta e quasi smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattordici anni, vestito anch’egli di nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorellina, Bambina di circa quattro anni, vestita di bianco con una fascia di seta nera alla vita. Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per il Padre e in un’accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola e una lunga fascia verde girata attorno al collo.

L’USCERE (col berretto in mano): Scusi, signor Commendatore.
IL CAPOCOMICO (di scatto, sgarbato): Che altro c’è?
L’USCERE (timidamente): Ci sono qua certi signori, che chiedono di lei.

Il Capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giù nella sala.

IL CAPOCOMICO (di nuovo sulle furie): Ma io qua provo! E sapete bene che durante la prova non deve passar nessuno! (Rivolgendosi in fondo) Chi sono lor signori? Che cosa vogliono?

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Lamberto Picasso e Marta Abba nelle parti del Padre e della Figliastra (1925)

IL PADRE (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette): Siamo qua in cerca d’un autore.
IL CAPOCOMICO (fra stordito e irato):  D’un autore? Che autore?
IL PADRE: D’uno qualunque, signore.
IL CAPOCOMICO:  Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna commedia nuova.
LA FIGLIASTRA: (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta) Tanto meglio, tanto meglio, allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova.
QUALCUNO DEGLI ATTORI: (fra i vivaci commenti e le risate degli altri) Oh, senti, senti!
IL PADRE: (seguendo sul palcoscenico la Figliastra) Già, ma se non c’è l’autore! (Al Capocomico) Tranne che non voglia esser lei…

La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalini della scaletta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.

IL CAPOCOMICO: Lor signori vogliono scherzare?
IL PADRE: No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso.
LA FIGLIASTRA: E potremmo essere la sua fortuna!
IL CAPOCOMICO: Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi!
IL PADRE (ferito e mellifluo):  Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
IL CAPOCOMICO: Ma che diavolo dice?
IL PADRE: Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione del loro mestiere.

Gli Attori si agiteranno, sdegnati.

IL CAPOCOMICO: (alzandosi e squadrandolo) Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro?
IL PADRE: Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco… Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati?
IL CAPOCOMICO: (subito facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori) Ma io la prego di credere che la professione del comico, caro signore, è una nobilissima professione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci danno da rappresentare stolide commedie e fantocci invece di uomini, sappia che è nostro vanto aver dato vita – qua, su queste tavole – a opere immortali!

Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico.

IL PADRE: (interrompendo e incalzando con foga). Ecco! benissimo! a esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri! Siamo dello stessissimo parere!

Gli Attori si guardano tra loro, sbalorditi.

IL CAPOCOMICO: Ma come! Se prima diceva…
IL PADRE: No, scusi, per lei dicevo, signore, che ci ha gridato di non aver tempo da perdere coi pazzi, mentre nessuno meglio di lei può sapere che la natura si serve da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua opera di creazione.
IL CAPOCOMICO: Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo?
IL PADRE: Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla… o donna. E che si nasce anche personaggi!
IL CAPOCOMICO: (con finto ironico stupore) E lei, con codesti signori attorno, è nato personaggio?
IL PADRE: Appunto, signore. E vivi, come ci vede.

Il Capocomico e gli Attori scoppieranno a ridere, come per una burla.

IL PADRE: (ferito) Mi dispiace che ridano così, perché portiamo in noi, ripeto, un dramma doloroso, come lor signori possono argomentare da questa donna velata di nero.

Così dicendo porgerà la mano alla Madre per aiutarla a salire gli ultimi scalini e, seguitando a tenerla per mano, la condurrà con una certa tragica solennità dall’altra parte del palcoscenico, che s’illuminerà subito di una fantastica luce. La Bambina e il Giovinetto seguiranno la Madre; poi il Figlio, che si terrà discosto, in fondo; poi la Figliastra, che s’apparterà anche lei sul davanti, appoggiata all’arcoscenico. Gli Attori, prima stupefatti, poi ammirati di questa evoluzione, scoppieranno in applausi come per uno spettacolo che sia stato loro offerto.

IL CAPOCOMICO: (prima sbalordito, poi sdegnato) Ma via! Facciano silenzio! (Poi, rivolgendosi ai Personaggi) E loro si levino! Sgombrino di qua! (Al Direttore di scena) Perdio, faccia sgombrare!
IL DIRETTORE DI SCENA: (facendosi avanti, ma poi fermandosi, come trattenuto da uno strano sgomento)Via! Via!
IL PADRE: (al Capocomico) Ma no, veda, noi…
IL CAPOCOMICO: (gridando) Insomma, noi qua dobbiamo lavorare!
IL PRIMO ATTORE: Non è lecito farsi beffe così…
IL PADRE: (risoluto, facendosi avanti) Io mi faccio maraviglia della loro incredulità! Non sono forse abituati lor signori a vedere balzar vivi quassù, uno di fronte all’altro, i personaggi creati da un autore? Forse perché non c’è là (indicherà la buca del Suggeritore) un copione che ci contenga?
LA FIGLIASTRA: (facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice) Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque, sperduti.
IL PADRE: (scartandola) Sì, sperduti, va bene! (Al Capocomico subito) Nel senso, veda, che l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità!
IL CAPOCOMICO: Tutto questo va benissimo! Ma che cosa vogliono loro qua?
IL PADRE: Vogliamo vivere, signore!
IL CAPOCOMICO: (ironico) Per l’eternità?
IL PADRE: No, signore: almeno per un momento, in loro.
UN ATTORE: Oh, guarda, guarda!
LA PRIMA ATTRICE: Vogliono vivere in noi!
L’ATTOR GIOVANE: (indicando la Figliastra) Eh, per me volentieri, se mi toccasse quella lì!
IL PADRE: Guardino, guardino: la commedia è da fare; al Capocomico: ma se lei vuole e i suoi attori vogliono, la concerteremo subito tra noi!
IL CAPOCOMICO: (seccato) Ma che vuol concertare! Qua non si fanno di questi concerti! Qua si recitano drammi e commedie!
IL PADRE: E va bene! Siamo venuti appunto per questo qua da lei!
IL CAPOCOMICO: E dov’è il copione?
IL PADRE: È in noi, signore. (Gli attori rideranno). Il dramma è in noi; siamo noi; e siamo impazienti di rappresentarlo, così come dentro ci urge la passione!

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I sei personaggi in una riduzione teatrale del 2013

Testo fondamentale della drammaturgia novecentesca europea I sei personaggi in cerca d’autore costituiscono un profondo spartiacque tra il modo di far teatro ottocentesco e quello novecentesco, cambiandone completamente la grammatica:

  • l’ampliamento dello spazio scenico che diventa l’intero interno di una costruzione dedicata a questa tipologia artistica (come espliciterà meglio nell’intera trilogia metateatrale);
  • l’utilizzo in un modo “fantastico/simbolico” della luce, che deve cancellare qualsiasi forma realistica;
  • la dicotomia tra arte e vita, tra forma e realtà;
  • l’impossibilità della vita d’essere rappresentata in una forma d’arte;
  • la cristallizzazione della vita nell’arte;
  • la fine della tragedia nell’arte perché la tragedia è nella vita.

Nella pagina presentata questi temi appaiono evidenti: la lunga didascalia (inusuale nel teatro verista, ma anche in quello borghese dello stesso Pirandello) ci dice come, in questa fase sia estremamente necessaria una forma di quasi narratività che si esplicita in una maniacalità di direzione. L’irruzione dei sei personaggi nasce da una novella del 1911 La tragedia di un personaggio che fa di essi la forma più cristallizzata nella loro autonomia; tornando all’esempio pirandelliano diremo che Sancho Panza e Don Abbondio saranno per sempre un servo più intelligente del padrone e un parroco pauroso, ma lo saranno proprio in virtù dell’essere stati resi eterni nella forma dell’arte che li incatena nella eternità della finzione; ora se la vita per Pirandello è un lasciarsi andare al fluido della vita (Vitangelo Moscarda) nessuna delle parti presenti nella pièce è libera: gli attori chiusi nella rappresentatività nel non essere mai stessi, rappresentando personaggi ed essendo conosciuti come tali; i personaggi che, pur essendo ora vivi e quindi veri, vogliono chiudersi in una forma e quindi cristallizzarli. Solo vivendo la loro tragedia potranno essere cristallizzati nell’eternità.

Ma Pirandello, alla fine confonde i piani:

L’ULTIMA SCENA

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Un riduzione teatrale del 2011

IL CAPOCOMICO: Ma dica, dica lei almeno che cosa c’è stato! Lo dica a me! Se n’è uscito dalla sua camera, senza dir nulla?
IL FIGLIO: (dopo un momento d’esitazione) Nulla. Proprio, per non fare una scena!
IL CAPOCOMICO: (incitandolo) Ebbene, e poi? che ha fatto?
IL FIGLIO: (tra l’angosciosa attenzione di tutti, muovendo alcuni passi sul palcoscenico) Nulla…Attraversando il giardino… (S’interromperà, fosco, assorto.)
IL CAPOCOMICO: (spingendolo sempre più a dire, impressionato dal ritegno di lui) Ebbene? attraversando il giardino?
IL FIGLIO: (esasperato, nascondendo il volto con un braccio) Ma perché mi vuol far dire, signore? È orribile!

La Madre tremerà tutta, con gemiti soffocati, guardando verso la vasca.
IL CAPOCOMICO: (piano, notando quello sguardo, si rivolgerà al Figlio con crescente apprensione) La bambina?
IL FIGLIO: (guardando davanti a sé, nella sala) Là, nella vasca…
IL PADRE: (a terra, indicando pietosamente la Madre) E lei lo seguiva, signore!
IL CAPOCOMICO: (al Figlio, con ansia) E allora, lei?
IL FIGLIO: (lentamente, sempre guardando davanti a sè). Accorsi; mi precipitai per ripescarla…Ma a un tratto m’arrestai, perché dietro quegli alberi vidi una cosa che mi gelò: il ragazzo, il ragazzo che se ne stava lì fermo, con occhi da pazzo, a guardare nella vasca la sorellina affogata.

La Figliastra, rimasta curva presso la vasca a nascondere la Bambina, risponderà come un’eco dal fondo, singhiozzando perdutamente.

Pausa.

Feci per accostarmi; e allora…

Rintronerà dietro gli alberi, dove il Giovinetto è rimasto nascosto, un colpo di rivoltella.

LA MADRE: (con un grido straziante, accorrendo col Figlio e con tutti gli Attori in mezzo al subbuglio generale) Figlio! Figlio mio! (E poi, fra la confusione e le grida sconnesse degli altri) Ajuto! Ajuto!
IL CAPOCOMICO: (tra le grida, cercando di farsi largo, mentre il Giovinetto sarà sollevato da capo e da piedi e trasportato via, dietro la tenda bianca) S’è ferito? s’è ferito davvero?

Tutti, tranne il Capocomico e il Padre, rimasto per terra presso la scaletta, saranno scomparsi dietro il fondalino abbassato, che fa da cielo, e vi resteranno un po’ parlottando angosciosamente, poi, da una parte e dall’altra di esso, rientreranno in iscena gli Attori.

LA PRIMA ATTRICE: (rientrando da destra, addolorata) È morto! Povero ragazzo! È morto! Oh che cosa!
IL PRIMO ATTORE: (rientrando da sinistra, ridendo) Ma che morto! Finzione! finzione! Non ci creda!
ALTRI ATTORI DA DESTRA: Finzione? Realtà! realtà! È morto!
ALTRI ATTORI DA SINISTRA: No! Finzione! Finzione!
IL PADRE: (levandosi e gridando tra loro) Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! realtà!

E scomparirà anche lui, disperatamente, dietro il fondalino.

IL CAPOCOMICO: (non potendone più) Finzione! realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!

D’un tratto, tutto il palcoscenico e tutta la sala del teatro sfolgoreranno di vivissima luce. Il capocomico rifiaterà come liberato da un incubo, e tutti si guarderanno negli occhi, sospesi e smarriti.

Ah! Non m’era mai capitata una cosa simile! Mi hanno fatto perdere una giornata! (Guarderà l’orologio). Andate, andate! Che volete più fare adesso? Troppo tardi per ripigliare la prova. A questa sera! (E appena gli Attori se ne saranno andati, salutandolo) Ehi, elettricista, spegni tutto!

Non avrà finito di dirlo, che il teatro piomberà per un attimo nella più fitta oscurità.

Eh, perdio! Lasciami almeno accesa una lampadina, per vedere dove metto i piedi!

Subito, dietro il fondalino, come per uno sbaglio d’attacco, s’accenderà un riflettore verde, che proietterà, grandi e spiccate, le ombre dei Personaggi, meno il Giovinetto e la Bambina. Il Capocomico, vedendole, schizzerà via dal palcoscenico, atterrito. Contemporaneamente si spegnerà il riflettore dietro il fondalino, e si rifarà sul palcoscenico il notturno azzurro di prima. Lentamente, dal lato destro della tela verrà prima avanti il Figlio, seguito dalla Madre con le braccia protese verso di lui; poi dal lato sinistro il Padre. Si fermeranno a metà del palcoscenico, rimanendo lì come forme trasognate. Verrà fuori, ultima, da sinistra, la Figliastra che correrà verso una delle scalette; sul primo scalino si fermerà un momento a guardare gli altri tre e scoppierà in una stridula risata, precipitandosi poi giù per la scaletta; correrà attraverso il corridojo tra le poltrone; si fermerà ancora una volta e di nuovo riderà, guardando i tre rimasti lassù; scomparirà dalla sala, e ancora, dal ridotto, se ne udrà la risata.

Poco dopo calerà la tela.

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(2016)

L’ultima scena terminava nell’edizione del 1921 con le parole del capocomico; nel 1925 Pirandello aggiunse la parte finale. Se nella prima i piani realtà, arte, rappresentazione si confondono (è vero che il bambino sia morto o è finzione scenica), la scelta successiva di far riapparire i personaggi e d’isolare la Figliastra fuori dal palcoscenico con la sua stridula risata, sta ad indicare tre aspetti fondamentali:

  • la vita continua e il teatro la blocca in una fissità;
  • non esiste verità, ma solo una verità relativa;
  • nella tragedia moderna non è possibile la catarsi.

Altro grande capolavoro teatrale è l’Enrico IV, che pur riprendendo forme teatrali tradizionali, s’iscrive tematicamente alla terza fase:

00516869_b.jpgPirandello assieme a degli attori per l’allestimento dell’Enrico IV

Un giovane gentiluomo che impersona Enrico IV di Germania in una sorta di cavalcata storica, cade da cavallo, batte la testa e perde il senno. Per dodici anni si crede davvero l’imperatore; quando rinsavisce scopre che Matilde Spina, la donna che amava, è diventata l’amante di un suo odiato rivale, Tito Belcredi. Decide allora di fingersi ancora pazzo per non rientrare nella realtà: ma quanto Matilde con la figlia Frida, Belcredi e altri vengono a trovarlo, rivela la finzione. Tuttavia il ricordo della giovinezza perduta gli brucia: per di più, sa che la caduta da cavallo non fu accidentale, e vuole vendicarsi. La Matilde di adesso non rappresenta più nulla: per lui la Matilde di allora è la Frida di adesso, ed è Frida che vuole. Ma quando abbraccia la ragazza, Belcredi si avventa su di lui e Enrico lo trapassa con la spada. Ora che ha ucciso è condannato a non abbandonare mai più la finzione.

PAZZO PER SEMPRE

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Franco Branciaroli nella parte di Enrico IV (2015)

ENRICO IV: Guarito, sì! Sono guarito! (A Belcredi) Ah, ma non per farla finita così subito, come tu credi! (Lo investe.) Lo sai che da venti anni nessuno ha mai osato comparirmi davanti qua, come te e codesto signore? (indica il Dottore.)
BELCREDI: Ma sì, lo so! E difatti anch’io, questa mattina, ti comparvi davanti vestito…
ENRICO IV: Da monaco, già!
BELCREDI: E tu mi prendesti per Pietro Damiani! E non ho mica riso, credendo appunto…
ENRICO IV: Che fossi pazzo! Ti viene da ridere, vedendo lei così, ora che sono guarito? Eppure potresti pensare che, ai miei occhi, il suo aspetto, ora s’interrompe con uno scatto di sdegno. Ah! (E subito si rivolge al Dottore) Voi siete un medico?
DOTTORE: Io, sì…
ENRICO IV:  E l’avete parata voi da Marchesa di Toscana anche lei? Sapete, Dottore, che avete rischiato di rifarmi per un momento la notte nel cervello? Perdio, far parlare i ritratti, farli balzare vivi dalle cornici… (Contempla Frida e il Di Nolli, poi guarda la Marchesa ed infine si guarda l’abito addosso.) Eh, bellissima la combinazione…Due coppie…Benissimo, benissimo, dottore: per un pazzo… (Accenna appena con la mano al Belcredi.) A lui sembra ora una carnevalata fuori di tempo, eh? (Si volta a guardarlo.) Via, ormai, anche questo mio abito da mascherato! Per venirmene con te, è vero?
BELCREDI: Con me! Con noi!
ENRICO IV: Dove, al circolo? In marsina e cravatta bianca? O a casa, tutti e due insieme, della Marchesa?
BELCREDI: Ma dove vuoi! Vorresti rimanere qua ancora, scusa, a perpetuare – solo – quello che fu lo scherzo disgraziato d’un giorno di carnevale? È veramente incredibile, incredibile come tu l’abbia potuto fare, liberato dalla disgrazia che t’era capitata!
ENRICO IV: Già. Ma vedi? È che, cadendo da cavallo e battendo la testa, fui pazzo per davvero, io, non so per quanto tempo…
DOTTORE: Ah, ecco, ecco! E durò a lungo?
ENRICO IV: (rapidissimo, al dottore). Sì, dottore, a lungo: circa dodici anni. (E subito, tornando a parlare al Belcredi) E non vedere più nulla, caro, di tutto ciò che dopo quel giorno di carnevale avvenne, per voi e non per me; le cose, come si mutarono; gli amici, come mi tradirono; il posto preso da altri, per esempio… che so! Ma supponi nel cuore della donna che tu amavi; e chi era morto; e chi era scomparso… tutto questo, sai? non è stata mica una burla per me, come a te pare!
BELCREDI: Ma no, io non dico questo, scusa! Io dico dopo!
ENRICO IV: Ah sì? Dopo? Un giorno… (Si arresta e si volge al dottore.) Caso interessantissimo, dottore! Studiatemi, studiatemi bene! (Vibra tutto, parlando) Da sé, chi sa come, un giorno, il guasto qua… si tocca la fronte che so… si sanò. Riapro gli occhi a poco a poco, e non so in prima se sia sonno o veglia, ma sì, sono sveglio; tocco questa cosa e quella: torno a vedere chiaramente…Ah! – come lui dice – (accenna a Belcredi) via, via allora, quest’abito da mascherato! questo incubo! Apriamo le finestre: respiriamo la vita! Via, via, corriamo fuori! Arrestando d’un tratto la foga: Dove? a far che cosa? a farmi mostrare a dito da tutti, di nascosto, come Enrico IV, non più così, ma a braccetto con te, tra i cari amici della vita?
BELCREDI: Ma no! Che dici? Perché?
DONNA MATILDE: Chi potrebbe più…? Ma neanche a pensarlo! Se fu una disgrazia!
ENRICO IV:  Ma se già mi chiamavano pazzo, prima, tutti! (A Belcredi) E tu lo sai! Tu che più di tutti ti accanivi contro chi tentava difendermi!
BELCREDI: Oh, via, per ischerzo!
ENRICO IV: E guardami qua i capelli! (Gli mostra i capelli sulla nuca.)
BELCREDI: Ma li ho grigi anch’io!
ENRICO IV: Sì, con questa differenza: che li ho fatti grigi qua, io, da Enrico IV, capisci? E non me n’ero mica accorto! Me n’accorsi in un giorno solo, tutt’a un tratto, riaprendo gli occhi, e fu uno spavento, perché capii subito che non solo i capelli, ma doveva esser diventato grigio tutto così, e tutto crollato, tutto finito: e che sarei arrivato con una fame da lupo a un banchetto già bell’e sparecchiato.
BELCREDI: Eh, ma gli altri, scusa…
ENRICO IV: (subito) Lo so, non potevano stare ad aspettare ch’io guarissi, nemmeno quelli che, dietro a me, punsero a sangue il mio cavallo bardato…
DI NOLLI: (impressionato) Come, come?
ENRICO IV: Sì, a tradimento, per farlo springare e farmi cadere!
DONNA MATILDE: (subito, con orrore) Ma questo lo so adesso, io!
ENRICO IV: Sarà stato anche questo per uno scherzo!
DONNA MATILDE: Ma chi fu? Chi stava dietro alla nostra coppia?

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Marcello Mastroianni nella versione filmica dell’Enrico IV (1984)

ENRICO IV: Non importa saperlo! Tutti quelli che seguitarono a banchettare e che ormai mi avrebbero fatto trovare i loro avanzi, Marchesa, di magra o molle pietà, o nel piatto insudiciato qualche lisca di rimorso, attaccata. Grazie! (Voltandosi di scatto al Dottore) E allora, dottore, vedete se il caso non è veramente nuovo negli annali della pazzia! – preferii restar pazzo – trovando qua tutto pronto e disposto per questa delizia di nuovo genere: viverla – con la più lucida coscienza – la mia pazzia e vendicarmi così della brutalità d’un sasso che m’aveva ammaccato la testa! La solitudine – questa – così squallida e vuota come m’apparve riaprendo gli occhi – rivestirmela subito, meglio, di tutti i colori e gli splendori di quel lontano giorno di carnevale, quando voi (guarda Donna Matilde e le indica Frida) eccovi là, Marchesa, trionfaste! – e obbligar tutti quelli che si presentavano a me, a seguitarla, perdio, per il mio spasso, ora, quell’antica famosa mascherata che era stata – per voi e non per me – la burla di un giorno! Fare che diventasse per sempre – non più una burla, no; ma una realtà, la realtà di una vera pazzia: qua, tutti mascherati, e la sala del trono, e questi quattro miei consiglieri segreti, e – s’intende – traditori! Si volta subito verso di loro. Vorrei sapere che ci avete guadagnato, svelando che ero guarito! – Se sono guarito, non c’è più bisogno di voi, e sarete licenziati! – Confidarsi con qualcuno, questo sì, è veramente da pazzo! – Ah, ma vi accuso io, ora, a mia volta! – Sapete? – Credevano di potersi mettere a farla anche loro adesso la burla, con me, alle vostre spalle. (Scoppia a ridere. Ridono ma sconcertati, anche gli altri, meno Donna Matilde.)
BELCREDI: (al Di Nolli) Ah, senti… non c’è male…
DI NOLLI: (ai quattro giovani) Voi?
ENRICO IV: Bisogna perdonarli! Questo, (si scuote l’abito addosso) questo che è per me la caricatura, evidente e volontaria, di quest’altra mascherata, continua, d’ogni minuto, di cui siamo i pagliacci involontarii (indica Belcredi) quando senza saperlo ci mascheriamo di ciò che ci par d’essere – l’abito, il loro abito, perdonateli, ancora non lo vedono come la loro stessa persona. (Voltandosi di nuovo a Belcredi) Sai? Ci si assuefà facilmente. E si passeggia come niente, così, da tragico personaggio – eseguisce – in una sala come questa! – Guardate, dottore! – Ricordo un prete – certamente irlandese – bello – che dormiva al sole, un giorno di novembre, appoggiato col braccio alla spalliera del sedile, in un pubblico giardino: annegato nella dorata delizia di quel tepore, che per lui doveva essere quasi estivo. Si può star sicuri che in quel momento non sapeva più d’esser prete, né dove fosse. Sognava! E chi sa che sognava! – Passò un monello, che aveva strappato con tutto il gambo un fiore. Passando, lo vellicò, qua al collo. – Gli vidi aprir gli occhi ridenti; e tutta la bocca ridergli del riso beato del suo sogno; immemore: ma subito vi so dire che si ricompose rigido nel suo abito da prete e che gli ritornò negli occhi la stessa serietà che voi avete già veduta nei miei; perché i preti irlandesi difendono la serietà della loro fede cattolica con lo stesso zelo con cui io i diritti sacrosanti della monarchia ereditaria. – Sono guarito, signori: perché so perfettamente di fare il pazzo, qua; e lo faccio, quieto! -Il guajo è per voi che la vivete agitatamente, senza saperla e senza vederla la vostra pazzia.
BELCREDI:  Siamo arrivati, guarda! alla conclusione, che i pazzi adesso siamo noi!
ENRICO IV (con uno scatto che pur si sforza di contenere): Ma se non foste pazzi, tu e lei insieme, (indica la Marchesa) sareste venuti da me?
BELCREDI: Io, veramente, sono venuto credendo che il pazzo fossi tu.
ENRICO IV: (subito forte, indicando la Marchesa) E lei?
BELCREDI: Ah lei, non so…Vedo che è come incantata da quello che tu dici… affascinata da codesta tua «cosciente» pazzia! (Si volge a lei) Parata come già siete, dico, potreste anche restare qua a viverla, Marchesa…
DONNA MATILDA: Voi siete un insolente!
ENRICO IV: (subito, placandola) Non ve ne curate! Non ve ne curate! Seguita a cimentare. Eppure il dottore glie l’ha avvertito, di non cimentare. (Voltandosi a Belcredi) Ma che vuoi che m’agiti più ciò che avvenne tra noi; la parte che avesti nelle mie disgrazie con lei (indica la Marchesa e si rivolge ora a lei indicandole il Belcredi) la parte che lui adesso ha per voi! – La mia vita è questa! Non è la vostra! – La vostra, in cui siete invecchiati, io non l’ho vissuta! – (A Donna Matilde) Mi volevate dir questo, dimostrar questo, con vostro sacrificio, parata così per consiglio del dottore? Oh, fatto benissimo, ve l’ho detto, dottore: – «Quelli che eravamo allora, eh? e come siamo adesso?» – Ma io non sono un pazzo a modo vostro, dottore! Io so bene che quello (indica il Di Nolli) non può esser me, perché Enrico IV sono io: io, qua, da venti anni, capite? Fisso in questa eternità di maschera! Li ha vissuti lei (indica la Marchesa) se li è goduti lei, questi venti anni, per diventare – eccola là – come io non posso riconoscerla più: perché io la conosco così indica Frida e le si accosta – per me, è questa sempre… Mi sembrate tanti bambini, che io possa spaventare. (A Frida) E ti sei spaventata davvero tu, bambina, dello scherzo che ti avevano persuaso a fare, senza intendere che per me non poteva essere lo scherzo che loro credevano; ma questo terribile prodigio: il sogno che si fa vivo in te, più che mai! Eri lì un’immagine; ti hanno fatta persona viva – sei mia! sei mia! mia! di diritto mia! (La cinge con le braccia, ridendo come un pazzo, mentre tutti gridano atterriti; ma come accorrono per strappargli Frida dalle braccia, si fa terribile, e grida ai suoi quattro giovani) Tratteneteli! Tratteneteli! Vi ordino di trattenerli! (I quattro giovani, nello stordimento, quasi affascinati, si provano a trattenere automaticamente il Di Nolli, il dottore, il Belcredi.)
BELCREDI: (si libera subito e si avventa su Enrico IV) Lasciala! Lasciala! Tu non sei pazzo!
ENRICO IV: (fulmineamente, cavando la spada dal fianco di Landolfo che gli sta presso). Non sono pazzo? Eccoti! (E lo ferisce al ventre. È un urlo d’orrore. Tutti accorrono a sorreggere il Belcredi, esclamando in tumulto)
DI NOLLI: T’ha ferito?
BERTOLDO: L’ha ferito! L’ha ferito!
DOTTORE: Lo dicevo io!
FRIDA: Oh Dio!
DI NOLLI: Frida, qua!
DONNA MATILDE: È pazzo! È pazzo!
DI NOLLI: Tenetelo!
BELCREDI (mentre lo trasportano di là, per l’uscio a sinistra protesta ferocemente): No! Non sei pazzo! Non è pazzo! Non è pazzo!

Escono per l’uscio a sinistra, gridando, e seguitano di là a gridare finché sugli altri gridi se ne sente uno più acuto di Donna Matilde, a cui segue un silenzio.
ENRICO IV:  (rimasto sulla scena tra Landolfo, Arialdo e Ordulfo, con gli occhi sbarrati, esterrefatto dalla vita della sua stessa finzione che in un momento lo ha forzato al delitto) Ora sì… per forza… li chiama attorno a sé, come a ripararsi, qua insieme, qua insieme… e per sempre!

Il tema, fondamentale della pièce è il labile confine che vi è tra “pazzia” e “normalità”. D’altra parte tale tema è più volte rappresentato nella scrittura pirandelliana (si pensi a Vitangelo Moscarda) ma ogni volta Pirandello traccia su di essa una labile linea che più che definire contribuisce, invece, a confondere, oserei dire, mescolare i piani.

Dal passo emerge, in primo luogo, la nostalgia per la giovinezza perduta nella pausa vitale della pazzia: non è quindi quest’ultima a tormentarlo, ma il non aver vissuto mentre gli altri (prendendosi beffe di lui) continuavano la loro esistenza.

Quando rinsavisce si spacca il velo d’ipocrisia della vita cosiddetta “normalità”: è più pazzo lui che finge di esserlo e loro che per “compiacerlo” si mascherano da pazzi? Se in lui, fermandosi il tempo, ha potuto, per un attimo, vivere senza apparenza o forma che lo determinasse, la finzione che gli altri hanno vissuto fingendosi pazzi, li ha resi ancora più pazzi, costretti a prendere una forma. Allora la pazzia di Enrico IV diventa elemento straniante per leggere la realtà e vederla nella sua apparenza, negatrice, quindi, della vita.

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Tom Stoppard nella versione americana dell’Enrico IV

  • Il teatro dei miti: è l’ultima fase, quella forse maggiormente influenzata dall’esperienza surrealista. Fanno parte di questa fase tre opere La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929) e I giganti della montagna (incompleto e pubblicato postumo nel 1937). E’ proprio quest’ultimo, sebbene non terminato, a destare la maggiore attenzione a livello critico:

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Locandina

Una compagnia di attori girovaghi, guidata dalla contessa Ilse, avendo deciso di recitare La favola del figlio cambiato (una opera altamente drammatica dello stesso Pirandello) e non trovando accoglienza nei comuni teatri, giunge ad una villa che sembra abbandonata. Gli strani e misteriosi abitanti della villa, il mago Cotrone e gli Scalognati, cercano dapprima di allontanarli con tuoni, fulmini, apparizioni di fantasmi e altro, infine, poiché i commedianti non si lasciano intimorire, li accolgono, e Cotrone cerca di convincere la contessa a recitare per gli ospiti della villa il suo dramma, una storia scritta per lei da un giovane poeta che, innamorato e da lei respinto, si è ucciso.

LA MAGIA DI CROTONE

COTRONE: La Contessa ha una voce che incanta… Io credo che, se volesse entrare un po’ nella villa, si sentirebbe subito riconfortata.
IL CONTE: Su, Ilse, su, cara, ti riposerai almeno un poco.
COTRONE: Manca forse il necessario, ma di tutto il superfluo abbiamo una tale abbondanza… Stiano a vedere. Anche di fuori. Il muro di questa facciata. Basta ch’io dia un grido… (Si pone le mani attorno alla bocca e grida) Olà! (Subito al grido la facciata della villa s’illumina d’una fantastica luce d’aurora) E i muri mandano luce!
ILSE: (incantata, come una bambina) Oh bello!
IL CONTE: Come ha fatto?
COTRONE: Mi chiamano il mago Cotrone. Vivo modestamente di questi incantesimi. Li creo. E ora, stiano a vedere. (Si rimette le mani attorno alla bocca e grida Nero! (Si rifà il tenue barlume lunare di prima, spenta la luce della facciata) Questo nero la notte pare lo faccia per le lucciole, che volando – non s’indovina dove – ora qua ora là vi aprono un momento quel loro languido sprazzo verde. Ebbene, guardino: … là … là … là…

Appena dice e indica col dito in tre punti diversi, dove indica, s’aprono per un momento, fin laggiù in fondo alle falde della montagna, tre apparizioni verdi, come di larve evanescenti.)

ILSE: Oh, Dio, com’è?
IL CONTE: Che sono?
COTRONE: Lucciole! Le mie. Di mago. Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… tutto l’infinito ch’è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa.
(…)
COTRONE: (…) Non bisogna più ragionare. Qua si vive di questo. Privi di tutto, ma con tutto il tempo per noi: ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere. Le cose che ci stanno attorno parlano e hanno senso soltanto nell’arbitrario in cui per disperazione ci viene di cangiarle. Disperazione a modo nostro, badiamo! Siamo piuttosto placidi e pigri; seduti, concepiamo enormità, come potrei dire? mitologiche; naturalissime, dato il genere della nostra esistenza. Non si può campare di niente; e allora è una continua sborniatura celeste. Respiriamo aria favolosa. Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore. Udiamo voci, risa; vediamo sorgere incanti figurati da ogni gomito d’ombra, creati dai colori che ci restano scomposti negli occhi abbacinati dal troppo sole della nostra isola. Sordità d’ombra non possiamo soffrirne. Le figure non sono inventate da noi; sono un desiderio dei nostri stessi occhi

it_giganti-della-montagnaa-simone-cecchetti-j-cover-ok_original.jpgSimone Cecchetti nella parte di Cotroneo (2016)

L’ULTIMA SCENA

COTRONE: A tempo! E hanno detto a tempo ciò che dovevano dire; non vi basta? Tutto il resto, come siano apparse e se siano vere o no, non ha nessuna importanza! Io le ho voluto dare un saggio, Contessa, che la sua Favola può vivere soltanto qua; ma lei vuol seguitare a portarla in mezzo agli uomini, e sia! Fuori di qua io però non ho più potere di valermi in suo servizio altro che dei miei compagni, e li metto con me stesso a sua disposizione.

Si ode, a questo punto, potentissimo da fuori, il frastuono della cavalcata dei Giganti della Montagna che scendono al paese per la celebrazione delle nozze di Uma di Dòrnio e Lopardo d’Arcifa, con musiche e grida quasi selvagge. Ne tremano i muri della villa. Irrompono sulla scena eccitatissimi Quaquèo, Doccia, MaraMara, La Sgricia, Milordino, Maddalena.

QUAQUÈO: Ecco i giganti! Ecco i giganti!
MILORDINO: Scendono dalla montagna!
MARA-MARA: Tutti a cavallo! Parati a festa!
QUAQUÈO: Sentite? Sentite? Pajono i re del mondo!
MILORDINO: Vanno alla chiesa per la consacrazione delle nozze!
DIAMANTE: Andiamo, andiamo a vedere!
COTRONE: (arrestando con voce imperiosa e potente tutti gli accorrenti dietro l’invito di Diamante) No! Nessuno si muova! Nessuno si faccia vedere, se dobbiamo andar su a proporre la recita! Restiamo qua tutti a concertare la prova!
IL CONTE: (tirandosi a parte la Contessa) Ma tu non hai paura, Ilse? Li senti?
SPIZZI: (atterrito, accostandosi) Tremano i muri!
CROMO: (accostandosi anche lui atterrito) Pare la cavalcata d’un’orda di selvaggi!
DIAMANTE: Io ho paura! ho paura!

Tutti restano ad ascoltare con l’animo sospeso dallo sgomento, mentre le musiche e il frastuono si vanno allontanando.

1-LOW-I-Giganti-Gabriele-Lavia-con-Gli-Scalognati_-ph.-Tommaso-Le-Pera.jpgI giganti della montagna con la compagnia di Gabriele Lavia (2019)

Con l’ultima opera che, pur lavorandoci sino alla fine dei suoi giorni, pur non riuscendo a portarla a termine, Pirandello mette fine ad ogni finzione di tipo realistico:

  • tale dramma non ha né tempo né spazio;
  • i personaggi assumono un aspetto simbolico.

Forse i Giganti raffigurano l’aspetto della civiltà moderna, potenti grazie al progresso, ma rozzi ed insensibili; dall’altra parte Crotone, con i suoi Scalognati (che vivono nella sua villa), dediti soltanto a vivere nella fantasia dell’arte ed infine gli attori che vogliono far uscire l’arte dall’isolamento e portarla in mezzo al popolo. Ma è veramente arduo tentare una lettura esaustiva, nonostante le indicazioni date al figlio Stefano. Ma forse la forza de I giganti della montagna è proprio nella non voluta ambiguità.

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Pirandello in un disegno di Tullio Pericoli

 

L'ETA' DEI FLAVI

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Ricostruzione dell’Anfiteatro Flavio

Alla morte di Nerone, con cui si conclude la dinastia Giulio-Claudia, Roma rivive, con terrore, anche se per un solo anno, un periodo di guerre civili per determinare il nuovo imperatore.

L’anno 69 d.C. è ricordato come l’anno dei “quattro imperatori”:

Subito dopo la morte di Nerone, viene nominato Galba, rappresentante del partito filo senatorio;

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Galba

Ciò provoca l’opposizione dei pretoriani, che, ucciso Galba, nominano a loro volta Otone, ex governatore della Lusitania;
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Otone

In Germania, intanto, le truppe lì stanziate, eleggono come imperatore Vitellio; sceso in Italia sconfigge Otone presso Cremona;

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Vitellio

Insorgono però le legioni orientali, che nominano come imperatore il loro generale Vespasiano, impegnato nella guerra giudaica. Lascia il comando a suo figlio Tito, entra in Italia e conquista Roma, dopo aver catturato e ucciso Vitellio.

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Vespasiano

Vespasiano è stato il primo imperatore di origine italica e di rango equestre, accettato (d’altra parte non poteva essere altrimenti) dal Senato. Uno fra i suoi primi atti fu la promulgazione della lex de imperio Vespasiani attraverso la quale designava le sfere d’intervento riservate all’imperatore e al Senato, determinando così un periodo di pace fra i due massimi poteri dello stato.

Fu anche un abilissimo amministratore, risistemò le finanze dell’erario grazie anche al tributo che venne imposto agli sconfitti Ebrei. Ciò gli permise di avviare la costruzione di nuove opere pubbliche (l’anfiteatro Flavio, più conosciuto come il Colosseo, terminato da suo figlio Tito). Regolò anche il problema della successione, scegliendo il modello ereditario.

Alla sua morte, nel 79, gli successe suo figlio Tito. Intorno alla sua figura circolavano gravi timori, il più importante dei quali era il suo rapporto con la principessa ebrea Berenice, che prospettava un bilanciamento verso oriente (il ricordo di Antonio e Cleopatra era ancora vivo). Egli seppe stornare da lui i sospetti e si comportò talmente bene da essere definito come deliciae generis humani. Regnò soltanto tre anni, ma durante la sua reggenza l’Impero fu colpito da gravi calamità, come l’eruzione del Vesuvio con la distruzione di Ercolano e Pompei e un gravissimo incendio nella città di Roma. Muore per malattia.

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Tito

Il potere quindi passa a suo fratello, Domiziano, sotto il cui regno ripresero vigore le tendenze autoritarie, che in ultima analisi, volevano dire la subordinazione del Senato al volere del princeps. Ripristinò la divinizzazione dell’autorità imperiale, riportando a Roma mode e modelli orientali. Una congiura di aristocratici pone fine alla sua vita nel 96.

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Domiziano

La cultura

Gli imperatori di questa età non erano intellettuali, né volevano che li si ritenesse tali, visto il loro immediato predecessore e il fine “pubblico” che egli fece di tale intellettualità, Nerone. Tuttavia non erano sprovveduti, tanto che lo stesso Vespaspasiano sembra conoscesse sia la lingua che la cultura greca. Diciamo pure  che erano perfettamente consapevoli che la cultura poteva loro garantire legittimità e consenso. Per questo il potere si circondò e quindi controllò gli intellettuali, in quanto essi dovevano fornire quella classe di funzionari atti a garantire l’efficacia amministrativa dello stato: si pensi ad intellettuali come Plinio il Vecchio e Quintiliano. Il fatto che uno fosse un “enciclopedista” e che la sua opera contenesse l’intero scibile sulla natura e l’altro fosse un “letterato” la cui Institutio oratoria non certo serviva a formare persone strumentalmente preparate per l’agone politico, fa sì che il fine fosse soprattutto pedagogico. Perché? Soprattutto per il fatto che la dinastia Flavia operò soprattutto alla ricerca di un numero di “provinciali” da educare affinché potessero diventare validi funzionari per l’impero. Saranno anche loro a promuovere il ritorno a un certo ordine e quindi un allontanamento da alcuni esiti eccessivamente sperimentali e a spingere verso una formalità e pulizia stilistica della fine della repubblica e dell’età augustea. Per questo si parla di questo periodo come di un ritorno al classicismo, anche se questo ritorno non ebbe esiti definitivi e se per alcuni autori, come gli “epici” esso ebbe esiti per alcuni “risibili”, per altri un maggiore “eclettismo” come nell’opera di Marziale.

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Calliope, musa della poesia epica

Per quanto riguarda la filosofia, i Flavi ebbero la stessa diffidenza dei loro predecessori: coagulandosi intorno alla filosofia stoica l’opposizione antimperiale è naturale che la loro presenza a Roma fosse poco gradita.

Per quanto riguarda i generi abbiamo:

  • La ripresa del genere epico nel nome di Virgilio, il cui rappresentante principale è, e non solo, Stazio.
  • L’erudizione, che vede il suo affermarsi con la Naturalis historia di Plinio il Vecchio;
  • L’oratoria, che ha perso completamente il ruolo politico del tempo di Cicerone: l’Institutio oratoria di Quintiliano è comunque un testo base dal quale ha inizio la scienza della pedagogia;
  • L’epigramma con Marziale.

I generi che forse più di altri avrebbero certamente creato problemi al potere, non furono trattati sotto questi tre imperatori: non è un caso che la storiografia di Tacito e le satire di Giovenale appaiono soltanto dopo la morte di Domiziano.

ETA' AUGUSTEA

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Ritratto di Augusto

Convenzionalmente con l’età di Augusto si suole indicare quel periodo che va dal 44 a. C (anno dell’uccisione di Cesare) al 14 d. C. (anno della morte del princeps).

Pertanto potremmo dividere tale periodo in due momenti:

  • Quello dello scontro tra Marco Antonio e Ottaviano (43 – 30 a. C.);
  • Quello dell’edificazione del Principato (Impero) augusteo vero e proprio (29 a. C. – 14 d. C.).

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Marco Antonio e Cleopatra

La prima potremo indicarla come il prosieguo di quel lungo periodo delle guerre civili che ha visto il suo inizio con la morte dei Gracchi (121 a.C.) e che termina grazie ad Ottaviano stesso; la seconda vede invece l’affermarsi di un lungo periodo di pace e quindi un periodo in cui risulta possibile strutturare su nuove basi lo “stato romano” e il modo in cui esso, attraverso l’arte, debba riflettere se stesso nel mondo.

Vicende politiche

Per riassumere velocissimamente l’ultimo periodo della Repubblica ricorderemo:

  • lo scontro dapprima sull’eredità di Cesare, conteso tra Marco Antonio e Ottaviano: infatti se alla morte del grande condottiero romano alla plebs sembrava naturale che fosse il suo più fedele luogotenente a raccoglierne l’eredità, l’apertura del testamento lo sconfessò; infatti venne nominato il giovane figlio della sorella di Giulia, Ottaviano, di appena 19 anni, che se ne assunse l’intera responsabilità e prese il nome di Gaio Cesare a rimarcare sia di chi fosse figlio per adozione ed il suo diritto a prendere il posto.  
  • lo scontro tra il Senato, che voleva che Ottaviano si unisse con i cesaricidi (e quindi gli uccisori del padre) che, invece lo spinsero ad accordarsi con Antonio formando, anche con Lepido, il secondo triumvirato (43 a. C.); infatti in poche parole, se dapprima i due si scontrarono, alla fine, mossi da diversi interessi, ma che tuttavia li opponevano all’immobilismo del senato, superarono gli attriti e diedero vita ad una nuova magistratura, a cui associarono anche Lepido (triumviri rei publicae costituendae): ricostituire la repubblica oppure decretarne la fine? 
  • la relazione tra Antonio e Cleopatra e la guerra conclusa con la vittoria di Azio nel 31 a. C. che lasciò Ottaviano solo a gestire il potere; infatti, dopo un primo periodo di crisi, il triumvirato venne riconfermato: ad Antonio l’Oriente, l’Occidente a Ottaviano, la meno importante Africa a Lepido. Proprio alla morte di quest’ultimo assunse anche la carica di Pontifex Maximus. Lo scontro era inevitabile, scontro che, assumendo un valore quasi identitario, diede la vittoria all’Occidente influenzando l’operato e il progetto culturale di Augusto.

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Palazzo Arese Borromeo: Augusto chiude le porte di Giano

Nel 29 a. C. Ottaviano torna a Roma e, dopo aver chiuso le porte di Giano e garantita la pace, inizia l’edificazione dello stato imperiale che tuttavia, sotto il suo governo, continuerà a mantenere l’aspetto formale della Repubblica in cui egli si fece garante; il nome che diedero gli storici al periodo fu principato.
Vediamo da vicino, proprio sull’aspetto politico, le trasformazioni che porteranno Ottaviano da condottiero ad Augusto e dalla Repubblica al Principato.

  • dal 31 al 23 a. C. ricopre continuativamente la carica di console;
  • nel 27 a. C. gli viene assegnato il titolo di princeps senatus (il primo tra i senatori) in quanto detentore di un auctoritas che lo poneva al di sopra di tutti i patres conscripti; infatti gli era stato attribuito il titolo di Augustus (colui che aumenta “augeo” il benessere dello Stato) perché dei filius (figlio di un dio, Cesare era stato divinizzato);
  • nel 23 a. C. gli viene confermato l’imperium proconsulare (che gli garantiva il controllo di tutto l’esercito) e la postestas tribunicia (che gli permette sia il diritto di veto che l’inviolabilità);
  • nel 12 a. C., alla morte di Lepido diviene pontifex maximus (capo della sfera religiosa).
  • risulta pertanto evidente che nel giro di un ventennio egli sarà l’indiscusso capo del senato, del tribunato della plebe e dei riti religiosi. Ciò lo farà l’unicus dello stato a detenere il potere effettivo su ogni aspetto e che pertanto darà vita, con il suo successore, all’Impero vero e proprio.

Come organizzò Ottaviano-Augusto il nuovo stato?

Vediamo velocemente i punti salienti:

  • trasformazione di Roma in vera e propria capitale dell’Impero, attraverso opere strutturali e monumentali che ne sanciscono la centralità: tra queste ricordiamo l’Ara pacis e il Forum Augusti;

 
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  • riorganizzazione dell’esercito che, tolto dalle mani degli ufficiali, ridiventava esercito di stato con arruolamento volontario. Al termine ai militari veniva assegnato un premio in denaro o un appezzamento di terreno. A tale scopo venne creato un aerarium militare, le cui casse erano fornite da una nuova tassa di successione;
  • l’istituzione del praefectus praetorii a capo appunto dei praetoriani (guardia personale del princeps); praefectus urbi (con compiti di polizia per la città di Roma); praefectus annonae (per l’approvvigionamento dei viveri a Roma) e in ultimo praefectus Egypti (governatore dell’Egitto, proprietà privata di Augusto);
  • la risistemazione delle province in provinciae populi (governate dal Senato attraverso la nomina – come un tempo – di governatori provenienti dalle sue fila, e la cui riscossione delle entrate terminava nell’aerarium, cassa dello stato e in provinciae Caesaris (poste ai confini o di nuova acquisizione controllate dallo stesso Augusto attraverso governatori, (legati detti procuratori);
  • per quanto riguarda la politica estera il compito di Augusto fu quello, soprattutto, di rafforzare i confini, che determinò, invero, in un epoca di pace, qualche guerra: si ricordano qui la formazione dell’Augusta Praetoria (Aosta) e la riduzione in province della Rezia, (posta tra l’attuale Svizzera e l’Italia nord-orientale), del Norico e della Pannonia (l’Austria e l’Ungheria di oggi).

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Augusta Praetoria (Aosta)

Morale e religione

Un compito non propriamente militare ma politico era dover giustificare il fatto di essersi guadagnato il titolo di princeps. Tale giustificazione doveva passare, per essere accettata, attraverso il concetto di una “restaurazione” degli antiqui mores. Era come se il loro venir meno avesse creato quel disordine, quell’amoralità, quella ingiustificata prepotenza che avevano caratterizzato gli ultimi anni della Repubblica. Non si tratta soltanto di ripensare e rivivere la storia della Roma antica, ma d’imporla attraverso divieti (l’adulterio, il lusso, l’indifferenza religiosa) ed il rafforzamento e la riproposizione (come la costruzione di nuovi templi, la riaffermazione degli antichi collegi sacerdotali e di antichi riti propiziatori).

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La tradizionale lupa di Roma con Romolo e Remo

Certamente tale compito richiese uno sforzo notevole, soprattutto da un punto di vista urbanistico; ma non riuscì del tutto da un punto di vista etico; è impossibile “obbligare” la gente a “credere”, ma soprattutto è impossibile cancellare la storia.

Cultura

La volontà di fare di Roma la nuova capitale dell’Impero, il tentativo di presentare se stesso al mondo come il perno su cui ruotava il modo d’essere e il modo di fare, fece sì che Augusto s’impegnasse, in modo non banale, a sollecitare un impegno diretto e vivo degli intellettuali al suo progetto.

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Busto di Agrippa conservato al Louvre

Piuttosto facile era magnificare la nuova era attraverso la monumentalità: Agrippa, il suo “architetto”, gli disegnò una nuova Roma e fece sì che tutte le città dell’Impero, nel loro piccolo, la imitassero. Allo stesso modo non difficile fu, per gli scultori e l’arte figurativa, ricoprire le città d’immagini e statue che celebrassero la raggiunta pace augustea. Ma anche lui non si risparmiò scrivendo un’opera apologetica su stesso in cui magnificava le sue imprese, il Res gestae divi Augusti.

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Iscrizione delle Res Gestae nel Mausoleo di Augusto

Più problematico era operare dal punto di vista letterario. Ma se Agrippa gli fu di grande aiuto nel costruire la città e artigiani di gran classe a ricoprire le strade di Roma con sue statue e a dipingere affreschi privati e/o pubblici, Mecenate lo fu altrettanto nel creare intorno ad Augusto una rete di fini intellettuali che lo coadiuvarono (senza tuttavia piegarsi ad una mera e “falsa” adulazione) nel suo progetto.

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Busto raffigurante Mecenate

Chi è stato realmente Mecenate? Un finissimo intellettuale, certamente autore di apprezzati componimenti di cui niente ci resta, che nella sua vita condivise le attese e le aspirazioni di molti giovani che, spinti o chiamati, giunsero a Roma grazie al loro talento. La sua estrema bravura fu quella di far incontrare questi intellettuali con le volontà di Augusto, facendo in modo che né i primi si sentissero utilizzati, né il secondo ignorato dalle loro produzioni.

Ciò fu possibile perché le esigenze del princeps e quelle di questi intellettuali conversero tutte verso una “rifondazione”. Se infatti Augusto voleva rifondare, attraverso la tradizione, la nuova capitale dell’Impero e fare di essa il centro intorno al quale l’intero mondo ruotava, gli intellettuali volevano “rifondare” la cultura, facendo di essi, distogliendo lo sguardo da Atene, il nuovo punto di riferimento. Non si sa quanto questo avvenne: certamente nella cultura romana (e, quindi, occidentale) sì.

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Charles François Jalabert: Virgilio e Varo a casa di Mecenate

E’ che le riconquistata “pace”, dopo i lunghi anni di guerre civili, il tremare ancora e la trepidazione nell’attesa e nel compiersi di una nuova età, (Virgilio); il riguardare senza più odio, ma con “ironia” e saggezza il cives Romanus (si pensi ad Orazio), raccontare liricamente la propria biografia in estrema purezza stilistica (gli elegiaci) non era soltanto un fare letteratura ma un “viverla” nel senso più proprio. Per rendere ancora meglio il concetto è che non si percepisce, ancora oggi, distanza tra l’io narrante e il narrato degli autori citati. Ciò fa delle opere di questa età dei “classici”, intendendo con questo termine la capacità delle stesse di andare al di là del tempo (e dello spazio) in cui esse vennero alla luce.

Ora ancora da noi l’epica omerica o la lirica greca arcaica, come quella di Alceo o di Saffo, ci fanno, al di là della nostra capacità critica, indicarle come classici: ecco, gli autori augustei, soprattutto i due più importanti, non si limitarono, per così dire a rifare o a rendere, personalmente, o a diffondere la cultura greca (si pensi ai grandi dell’età cesariana, Lucrezio, Catullo, Cicerone), ma a diventare essi stessi novelli poeti epici o lirici da mettere al fianco con i grandi greci, cioè partire da loro per prima affiancarli e poi superarli. Si pensi a Virgilio: la sua Eneide parte dalla poesia omerica, ma non imita, la affianca e in qualche modo la supera in quanto se le prime erano la voce della Grecia arcaica, egli è il nuovo vate dell’età aurea della pace universale, perché l’impero è universale.

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Giovan Battista Tiepolo: Mecenate presenta le arti ad Augusto

Certo, tale altissima produzione cancella la precedente: all’arrivo della poesia epica virgiliana, piano piano l’epica di Livio Andronico scompare, allo stesso modo la satira di Orazio soppianta quasi del tutto quella di Lucilio; per questo motivo delle opere precedenti, non ci è giunto quasi nulla.

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Stefan Bakałowicz: Circolo di Mecenate (1890)

E allora c’è da chiedersi: perché l’opera di Lucrezio, Cicerone, Cesare, Catullo, Sallustio ci è invece pervenuta come essa stessa “classica”?

Vediamo di dare una risposta per ogni singolo autore:

Lucrezio è una tarda scoperta in clima umanistico-rinascimentale (e quindi laico); non ci fosse stata molto probabilmente del poema epicureo sapremo poco o nulla, ed inoltre rispecchiava quel sentire “antropocentrico” che il ‘400 ed il ‘500 esprimevano;

Catullo ci giunge perché alessandrino nella forma, come è ellenistico-alessandrino tutto il fare poetico dei lirici augustei, con altro intento. Così come sono personali e legati alla temperie storica i carmi catulliani, allo stesso modo sono così universali e “classiche” le odi di Orazio;

Cesare ci giunge in quanto padre del Divo Augusto e simbolo dell’unità cristiana dell’Impero e quindi della Chiesa;

Cicerone ci giunge perché è un oratore e l’oratoria al tempo di Augusto, naturalmente, scompare; quindi esso appare l’ultimo grande in cui il periodo storico gli garantisse la “libertà” della parola stessa, accompagnata da una maestria stilistica riconosciutagli in ogni tempo (d tanto da essere preso ad esempio da Boccaccio per la sua Introduzione al Decameron)

Sallustio è un caso strano: è uno storico che scrive quasi contemporaneamente a Virgilio e quindi facilmente inseribile nell’età augustea: ma se le sue opere, composte tra il 43 e il 40 a. C., sono tutte legate all’età cesariana è perché il loro sguardo è rivolto al passato, le Bucoliche virgiliane, di poco posteriori (38 a. C.), invece, sono completamente proiettate al futuro; ma la sua grandezza sta nella descrizione, oserei dire, tragica, dei suoi personaggi, che sarà un modello per il grandissimo Tacito.

 

DOLCE STIL NOVO

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Firenze tra il ’200 e il ’300

A seguito della sconfitta di Manfredi, figlio di Federico II, i ghibellini furono cacciati dalla città di Firenze ed i Guelfi poterono governare, in un periodo di relativa pace, dal 1267 sino al 1280. Dopo quella data, terminato il conflitto che divideva i filo imperiali (ghibellini)  ed i filo papali (guelfi), la città vide un forte affermazione delle componenti popolari, arrivando così alla formazione del priorato delle arti nel 1282, che prevedeva la partecipazione alla vita politica soltanto se ci si iscrivesse ad una corporazione. 

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Tale processo portò nel 1293 la creazione degli Ordinamenti di Giustizia, il cui ideatore, Giano Della Bella, allargò il numero delle Arti e decretò che solo chi fosse iscritto ad esse potesse essere eletto nelle cariche pubbliche, escludendo de facto ai grandi magnati della città o a chi non risultasse iscritto ad un’arte di partecipare alla vita pubblica. Queste innovazioni politiche accompagnarono la città durante una vera e propria sottomissione delle altre e ad un arricchimento tale che trovò la sua esplicitazione in un aumento vertiginoso della popolazione. Ma proprio questo acuì di nuovo i contrasti politici che opponevano ora i Guelfi Neri, capitanati dalla famiglia dei Donati, espressione dei grandi magnati e della nobiltà cittadina, molto legati al Papato e i Guelfi Bianchi, guidati dalla famiglia dei Cerchi, che promuovevano una maggiore presenza del popolo nel governo della città ed una maggiore autonomia rispetto all’ingerenza papale. Tale divisione non era solamente politica, ma nascondeva anche rancori e gelosie tra le due famiglie. A darcene dimostrazione fu la zuffa di Calendimaggio nella primavera del 1300: sembra che i giovani della famiglia dei Donati fossero andati in piazza a provocare una lite con i Cerchi, tanto che, durante la rissa Ricoverino de Cerchi si trovò con il naso mezzo tagliato. Tale episodio inasprì talmente i rapporti che dovette intervenire Bonifacio VIII che fece occupare la città dalle truppe di Carlo di Valois e che impose il governo dei Neri. I Bianchi vennero cacciati e tra di essi vi furono sia ser Petracco Dante Alighieri. 

 Il nome

All’interno di questa vivace politica cittadina, un gruppo di giovani, figli di una piccola nobiltà o borghesia più o meno benestante, partendo dall’insegnamento di Guido Guinizzelli, che ritengono il loro padre sia per la forma che per il contenuto, s’incontrano per dar vita ad un cenacolo intellettuale per parlare d’amore e di pensiero. Il nome da essi assunto viene loro assegnato da Dante Alighieri che da giovane fece parte di questo gruppo che, più tardi, nel suo Purgatorio, al canto XXIV, incontrando Bonagiunta Orbicciani, così scrisse:

«Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”».

E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».

«O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

«Ma dimmi se io vedo qui colui che iniziò / il nuovo modo di scrivere poesia / con la canzone Donne che avete intelletto d’amore. // E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore mi ispira, annoto, e nel modo in cui mi detta nell’animo, lo esprimo in versi». «O fratello, adesso capisco, l’ostacolo che il Notaio (Iacopo da Lentini), Guittone d’Arezzo e me (Bonagiunta Orbicciani) al di qua del dolce stil novo di cui adesso sento parlare!»

Furono proprio questi versi a far sì che, successivamente, sulle parole fatte dire a Bonagiunta da Dante, si suole “nominare” questo gruppo di intellettuali con la definizione di “stilnovisti”, per meglio dire “poeti del dolce stil novo”.

Il contenuto
3.-Averroè_MariaNovellaFirenze.jpgAverroé

Consapevoli di aver dato vita ad una vera e propria scuola, la cui attività può inquadrarsi tra il 1280 ed il 1330, gli stilnovisti da una parte si riallacciano alla tradizione cortese (la poesia trobadorica, siciliana e toscana), dall’altra la superano. Tale superamento avviene alla stregua di una maggiore “intellettualizzazione”, grazie anche agli studi che la vicina Università di Bologna propone e che colui che viene considerato il “maestro” adotta nella sua poesia “manifesto”. In tale Università si approfondisce lo studio dell’aristotelismo che, grazie al commento di Averroè, fornisce le basi per la “Scolastica”, scuola filosofica in cui eccelle il pensiero di San Tommaso: egli tenta di superare la speculazione agostiniana, secondo la quale la conoscenza di Dio non può essere razionale e quindi l’amore verso di Lui è solo un atto di fede e pertanto mistico, quindi puro, (applicando il modo conoscitivo platonico). Tommaso, viceversa, recupera Aristotele e quindi attraverso il suo metodo scientifico tende a spiegare razionalmente l’esistenza di Dio, attraverso le famose cinque prove:

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  • Motore immobile: se tutte le cose sono in movimento, procedono da un punto e attraverso una “spinta” arrivano ad un altro, e se si considera tale processo un continuo mutamento da un qualcosa ad un’altra, possiamo altrettanto dire che questo qualcosa sia in potenza ciò che nel divenire si trasforma in atto. Andando indietro definitivamente si arriverà all’atto/movimento coincidenti in quanto primi, quindi Dio;
  • Causa non causata: tutto il reale è composto da effetti, che a loro volta diventano cause di nuovi effetti. Se dovessimo percorrere il concetto di causalità nel tempo, si raggiungerebbe il punto in cui l’effetto e la causa coincideranno in una causa di qualcosa che non è causata, appunto una causa prima, quindi Dio;
  • Concetto di possibile e necessario: Tommaso per tale dimostrazione fa riferimento, alla dottrina di Avicenna (intellettuale arabo) che distingue tra ciò che è necessario per sé, e ciò che è necessario in rapporto ad altro come effetto o causa. Da questo si può dedurre che ogni cosa è necessaria solo che Dio lo è per sé mentre le cose dipendono necessariamente da Dio come effetti e al contempo cause di altre cose e sono per questo possibili: il bene o male della terra sono possibili, le intelligenze motrici del cielo sono il necessario “per altro”, quindi, con la stessa logica, ragionamento in verticale, avremo un necessario per sé, che regole le intelligenze angeliche, che a loro volta danno a noi la possibilità di essere buoni o malvagi;
  • Assioma del comparativo: se l’idea che esiste una cosa più calda, rimanda all’idea che ce ne sia una “caldissima”, allo stesso modo l’idea di bontà, virtù, carità, presuppongono un assoluto in cui esse possono essere racchiuse, cioè Dio.
  • Assioma dell’ordine: ogni cosa tende ad un proprio fine, ma tutte poi si dispongono ad un fine che le trascende: tale ordine non può essere che divino.

Quali effetti ha tale speculazione filosofica nella produzione poetica stilnovista? Se già nelle poesie precedenti si era metaforizzato il rapporto tra “donna” e “amante” come specchio dei rapporti esistenti nella corte (poesia, appunto, cortese), ora si tratta di metaforizzare l’“amore” attraverso le cinque tesi che dimostrano l’esistenza di Dio: basta fare l’esempio di potenza e atto, tratto proprio dalla poesia di Guinizzelli o ancora dell’assioma del comparativo, della causa e via discorrendo.

Stile

Cos’è che tuttavia rende questa poesia unica e nuova nel panorama della tradizione italiana fino ad allora prodotta? Che nonostante la “concettosità” dottrinale dei maggiori esponenti, essa non cesserà mai di ricercare l’eufonia e la perfezione formale, inseguendo la “bellezza” del verso. Inoltre le parole dovranno rispondere a concetti lontani dal reale e dalla quotidiana (appartenenti, come vedremo, allo stile “comico”) per rimandare maggiormente a “concetti”, che devono riflettere il pensiero dell’autore.

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Guido Guinizzelli

GUIDO GUINIZZELLI

Di lui si sa che fu avvocato, formatosi nell’Università di Bologna e che scrive poesia per puro diletto, come facevano, a tempo loro i siciliani. Egli forse non si rende conto della novità del suo poetare, se chiama Guittone d’Arezzo “padre mio”, ma se ne renderà conto proprio un ferreo “guittoniano” che lo accuserà di “aver mutato lo stile”. Ne è un esempio la canzone che sarà considerata il manifesto del dolce stil novo:

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Codice della poesia guinizzelliana

AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE

Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.

Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’ adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo

Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

In un cuore nobile, si rifugia sempre, come sua sede naturale, l’amore, / così come l’uccello si rifugia in un bosco tra il verde della vegetazione; / né la natura creò l’amore prima di un cuore gentile, né il cuore gentile prima dell’amore: / come, non appena apparve il sole, / subito lo splendore rifulse, / né apparve prima del sole; / l’amore prende il suo posto nell’animo nobile / così naturalmente / come il calore nello splendore del fuoco. // La fiamma dell’amore si accende nel cuore nobile, / così come la virtù, nella pietra preziosa, / perché dalla stella non discende in essa la particolare virtù / prima che il sole non l’abbia resa gentile, (cioè pura, libera da ogni impurità); / dopo che il sole ha tratto da essa, con la sua potenza, ciò che in essa è impuro, / la stella le infonde il valore: / così il cuore che dalla natura è stato creato / eletto, puro e nobile / una donna, come la stella nel suo operare, lo innamora. // L’amore risiede in un cuor gentile per la stessa ragione / per la quale la fiamma sta sulla sommità della torcia: / vi splende a suo piacere, luminosa, sottile, non vi starebbe in un modo diverso tanto è sdegnosa. / Una natura cattiva, (un animo volgare), / respinge l’amore così come l’acqua il fuoco / per la sua freddezza. L’amore ancora prende dimora in cuor gentile, / perché è il luogo più simile ad esso, / come il diamante nel minerale del ferro. // Il sole colpisce il fango tutto il giorno: / il fango resta vile, né il sole perde il suo valore. / Dice un uomo superbo: “Io sono nobile per discendenza”; / io paragono lui al fango il valore gentile al sole: / perché l’uomo non deve credere / che la nobiltà esista al di fuori dell’animo, nella dignità dell’eredità, / se non possiede un cuore nobile incline alla virtù, / come l’acqua si lascia attraversare dal raggio / e il cielo trattiene le stelle e la luce. // Risplende nell’intelligenza celeste / Dio creatore del cielo più del sole nei nostri occhi, / ed essa riconosce il proprio Fattore oltre il cielo che presiede / e, facendolo girare, prende a obbedire a Lui, / e ne consegue immediatamente la beata realizzazione di Dio, / così in verità dovrebbe comunicare / la bella donna, dopo che risplende agli occhi / del suo innamorato, il desiderio / di non distogliersi mai dall’obbedire a lei. // O donna, Dio mi dirà “Quale è stata la tua presunzione?” quando la mia anima dopo la morte starà davanti a Lui: “Oltrepassasti il cielo e arrivasti fino a me // e prendesti Me come termine di paragone in un amore frivolo, / perché le lodi si addicono soltanto a Me e alla regina del vero regno, / per la cui virtù svanisce ogni inganno del demonio”. / Allora io potrò dire: “La donna che ho amato aveva l’aspetto di un angelo, / che appartenesse al Tuo regno; / non peccai, se io riposi il mio amore in lei.

Questa famosa canzone del Guinizzelli è considerata il manifesto “dolce stil novo”, perché in essa possiamo trovare quegli elementi dottrinali che la rendono nuova pur se conserva concetti già presenti nella giovane tradizione poetica. Basti pensare alla nuova definizione di nobiltà, maggiormente coerente col carattere antifeudale della civiltà comunale. Inoltre adopera un linguaggio più aderente al sentimento, più limpido, caratterizzato da una musicalità più semplice “dolce” appunto, come richiedeva il nuovo stile. Gli elementi dottrinali possono ridursi essenzialmente a due: il primo è che l’amore ha la sua sede naturale nel cuor gentile, cioè nell’animo nobile, che è tale non per ereditarietà di stirpe, ma per qualità naturali, e per conquista individuale grazie all’intelligenza e alla cultura; il secondo elemento è il concetto della donna che con la sua bontà e bellezza traduce in atto l’amore che potenzialmente risiede nel cuore gentile, esaltando le migliori qualità dell’uomo, liberandolo così da ogni bassezza e impurità e perfezionandolo moralmente. Così operando sull’uomo, la donna assolve una funzione in più o meno simile a quella di Dio, che risplende davanti all’intelligenza angelica, rendendo poetico il concetto di potenza/atto.

Quest’altro brano, un sonetto, Guinizzelli analizza l’effetto del “saluto” della donna, motivo ripreso, in seguito, da Guido Cavalcanti:

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Il “saluto” della donna

LO VOSTRO BEL SALUTO E ‘L GENTIL SGUARDO

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha riguardo
s’elli face peccato over merzede,

ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo

ched oltre ’n parte lo taglia e divide;
parlar non posso, ché ’n pene io ardo
sì come quelli che sua morte vede.

Per li occhi passa come fa lo trono,

che fer’ per la finestra de la torre
e ciò che dentro trova spezza e fende:

remagno come statüa d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d’omo rende

Il vostro soave saluto e il gentile sguardo / che mi fate quando vi incontro, mi uccide: / l’amore mi assale e non si cura / se mi reca danno oppure piacere, // perché attraverso il cuore mi ha lanciato una freccia / che lo divide a metà da parte a parte / non posso parlare perché brucio nel dolore / così come colui che vede la sua morte. // (L’amore) passa attraverso gli occhi come fa un fulmine, / che ferisce entrando da una finestra di una torre / e spezza e taglia ciò che trova dentro; // rimango immobile come una statua d’ottone, / dove non scorre né vita né anima / se non per il fatto che raffigura l’immagine umana.

Come si vede nelle due quartine s’ introduce il tema della sofferenza, mentre, nelle due terzine, l’amante si è trasformato in una statua di ottone, non più percorsa da alcuno spirito né flusso vitale e di umano ha solo le sembianze esterne. Infatti il sonetto è divisibile in due parti: nelle quartine emergono gli effetti diretti del saluto e dello sguardo della donna sull’amante; nelle terzine si notano anche eventi naturali, atti, in qualche modo a “paragonare” l’effetto dell’amore a quello del mondo circostante; anche qui, infatti, si tratta di un atto che non riesce a tradursi in potenza. Il concetto di statua d’ottone contiene in sé, a ben vedere, il concetto dell’immobilità che è contrario a quello appunto del motore aristotelico. Non c’è negazione ma la non trasformazione, proprio perché l’atto non ha colpito il poeta.

Se, come detto, è la sofferenza, il tema del sonetto precedente, questo invece presenta l’alto importantissimo tema della “lauda”, anch’esso sviluppato in modo importante dallo stilnovismo maturo:

IO VOGLIO DEL VER LA MIA DONNA LAUDARE

Io voglio del ver la mia donna laudare
ed assembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro a l’are,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la crede:

e no ‘lle po’ apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om po’ mal pensar fin che la vede.

Io voglio lodare la mia donna in modo veritiero / e paragonarla alla rosa e al giglio; / splende e appare luminosa più della stella Venere / e per me ciò che lassù è bello è simile a lei. // A lei paragono la verde campagna e l’aria, / tutti i colori dei fiori, giallo e rosso, / oro e azzurro e gioielli da donare: / perfino Amore per merito suo si perfeziona. // Passa per la strada ornata e così gentile / che abbassa l’orgoglio a colui che la saluta / e se non crede lo converte alla nostra fede; // e non le si può avvicinare chi non sia gentile: / in più vi dirò che ha un potere ancora più grande; / nessuno può pensare male fino a che la guarda.

Sia a livello stilistico che contenutistico questo sonetto appare come una “summa” dell’arte stilnovistica: la “similarità” tra la donna e Dio, pare dimostrata proprio dall’arte del paragone, arte già presente sia nella canzone dello stesso Guinizzelli che nella poesia francescana; poi l’effetto dell’apparizione della donna è visto come un processo salvifico, (“salute”) costruito con la tecnica del climax: dapprima abbassa l’orgoglio, quindi lo converte ed infine fa in modo che non pensi alcuna cosa malevola. Anche il lessico rimanda a concetti stilnovisti, come l’aggettivazione rivolta alla donna “adorna”, “gentile”; i sostantivi come “virtute” ed il verbo “laudare”.

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Guido Cavalcanti

GUIDO CAVALCANTI

Guido Cavalcanti è il poeta più importante dello stil novo ed anche della nostra letteratura prima di Dante. Con lui l’arte si trasferisce, per così dire, dall’Università bolognese a Firenze, ma, nello stesso tempo, approfondisce e rende più rigorosi i procedimenti stilistici del suo fondatore Guinizzelli. E’ uno degli uomini più importanti nella città Toscana, nato da nobile famiglia intorno al 1250. Si schiera con la parte dei Guelfi Bianchi e fa parte del governo cittadino. Allontanato dalla politica con gli Ordinamenti di Giustizia, rimane attivo, conducendo un aspra battaglia con i rappresentanti dei Guelfi Neri, capitanati dai Donati. Proprio per evitare disordini i priori della città, fra cui lo stesso Dante, esilia i più “esagitati” fra le due fazioni, fra cui il suo amico Cavalcanti. Dopo pochi mesi trascorsi a Sarzana, torna a Firenze per spegnersi in questa città dopo pochi mesi, nel 1300.

La particolarità di Cavalcanti è proprio nell’approfondimento filosofico che vede nell’amore un’esperienza drammatica che, lasciando liberi gli spiriti vitali, annienta l’uomo. Quindi l’uomo, la cui anima diventa “cosa” informe, si spezza, si dilania, non riesce più a “controllarsi” razionalmente: se ciò avviene egli non è più padrone di sé. Può un uomo simile giungere alla conoscenza? Questi temi sono espressi, in forma assai concettuale in una delle canzoni più difficili di tutta la nostra tradizione poetica:

DONNA ME PREGA

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

In quella parte – dove sta memora
prende suo stato, – sì formato, – come
diaffan da lume, – d’una scuritate
la qual da Marte – vène, e fa demora;
elli è creato – ed ha sensato – nome,
d’alma costume – e di cor volontate.
Vèn da veduta forma che s’intende,
che prende – nel possibile intelletto,
come in subietto, – loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha possanza
perché da qualitate non descende:
resplende – in sé perpetüal effetto;
non ha diletto – ma consideranza;
sì che non pote largir simiglianza.

Non è vertute, – ma da quella vène
ch’è perfezione – (ché si pone – tale),
non razionale, – ma che sente, dico;
for di salute – giudicar mantene,
ch la ’ntenzione – per ragione – vale:
discerne male – in cui è vizio amico.
Di sua potenza segue spesso morte,
se forte – la vertù fosse impedita,
la quale aita – la contraria via:
non perché oppost’ a naturale sia;
ma quanto che da buon perfetto tort’è
per sorte, – non pò dire om ch’aggia vita,
ché stabilita – non ha segnoria.
A simil pò valer quand’om l’oblia.

L’essere è quando – lo voler è tanto
ch’oltra misura – di natura – torna,
poi non s’adorna – di riposo mai.
Move, cangiando – color, riso in pianto,
e la figura – con paura – storna;
poco soggiorna; – ancor di lui vedrai
che ’n gente di valor lo più si trova.
La nova – qualità move sospiri,
e vol ch’om miri – ’n non formato loco,
destandos’ ira la qual manda foco
(imaginar nol pote om che nol prova),
né mova – già però ch’a lui si tiri,
e non si giri – per trovarvi gioco:
né cert’ ha mente gran saver né poco.

De simil tragge – complessione sguardo
che fa parere – lo piacere – certo:
non pò coverto – star, quand’ è sì giunto.
Non già selvagge – le bieltà son dardo,
ché tal volere – per temere – è sperto:
consiegue merto – spirito ch’è punto.
E non si pò conoscer per lo viso:
compriso – bianco in tale obietto cade;
e, chi ben aude, – forma non si vede:
dunqu’ elli meno, che da lei procede.
For di colore, d’essere diviso,
assiso – ’n mezzo scuro, luce rade.
For d’ogne fraude – dico, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede.

Tu puoi sicuramente gir, canzone,
là ’ve ti piace, ch’io t’ho sì adornata
ch’assai laudata – sarà tua ragione
da le persone – c’hanno intendimento:
di star con l’altre tu non hai talento.

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Città medievale

Una donna mi invita a dire, e quindi parlo di un accidente, che spesso è crudele e violento da chiamarsi amore: chi lo nega lo possa sperimentare nella sua vera natura! E a questo fatto chiedo un esperto, poiché non mi attendo che, chi è di animo vile, possa comprendere un tale argomento: perché, senza una dimostrazione della filosofia naturale, non riesco a provare dove l’amore risiede e chi lo fa agire, quale sia la sua virtù e quale il suo potere, l’essenza, e i moti che provoca, l’attrazione che lo fa definire amore, e se lo si può raffigurare visibilmente. // L’amore si insedia in quella parte dove risiede la memoria e s’insedia stabilmente, formato da un’oscurità che procede dall’influsso di Marte, così come il corpo trasparente si trasforma in luminoso per la luce (potenza ad atto); l’amore è creato e, poiché è colto dai sensi, assume un nome, è disposizione naturale dell’anima e desiderio del cuore. Esso muove dalla visione di una figura, che si percepisce nell’intelletto possibile (intelletto che rimane in potenza, senza trasformarsi in atto) così come nel soggetto pronto ad accoglierla, ed in esso assume stabile dimora. Nell’intelletto possibile l’amore non può nulla, poiché esso è indipendente dai quattro elementi essenziali (terra, acqua, aria e fuoco): risplende in lui l’eterna capacità d’intendere attraverso l’intelletto; non accoglie il piacere ma contempla, tanto da non produrre elementi di confronto. // L’amore non è virtù ma proviene da quella capacità che è perfezione (tale è considerata) e non perfezione razionale ma sensitiva; l’amore sottrae il giudizio al sano ragionare, poiché il desiderio prende il posto della razionalità: fa cattivo uso del discernimento chi si lega alla passione. Dal potere di amore deriva spesso morte, se talora la virtù vitale venga ostacolata; e non perché l’amore si opponga a leggi naturali, ma [per il fatto che] quanto più ci si allontani dalla perfetta felicità, non si può dire che si viva veramente, poiché non si ha fermo autocontrollo. Lo stesso avviene quando qualcuno dimentica del bene perfetto. // L’essenza dell’amore si ha quando il desiderio è tanto intenso che supera i limiti naturali e non si accompagna mai al riposo. Esso muta colore e l’aspetto esteriore per paura, trasformando il riso in pianto e facendo mutare colore al volto; è incostante e lo si può vedere stabilmente in persone d’animo nobile. La novità della sensazione provoca sospiri e impone che si contempli un oggetto che non ha ancora ricevuto forma dall’intelletto possibile, per cui si genera ira che fa avvampare (non lo può immaginare chi non lo prova direttamente), ed impone che non ci si muova, per quanto attratti da lui, e che non ci si distolga, al fine di trovarvi gioia, né tanto meno una sapienza piccola o grande. // L’amore trae lo sguardo da un essere simile per natura, così da far sembrare certo il piacere: non può rimaner nascosto quando è giunto a questo punto. Le bellezze, non però quello scontrose,  sono frecce capaci di provocare le ferite d’amore, poiché il desiderio è messo alla prova dalla capacità di resistere al timore (provocato dalle ferite d’amore): chi ne è colpito trae valore, si autoperfeziona. E l’amore non si manifesta mediante la vista; concepito dall’anima sensitiva, la bianchezza (l’assolutezza) viene meno in tale oggetto; e, per chi comprende correttamente, la forma non si intuisce: tanto meno l’amore che da essa procede. Privo di colore, distaccato dalla sostanza, collocato in un mezzo oscuro, respinge la luce. Sinceramente affermo, meritevole di fiducia, che solo da un tale amore nasce ricompensa. // Tu canzone, puoi andartene in tutta sicurezza, ovunque ti piaccia, poiché io ti ho elaborata in modo tale che la tua argomentazione sia lodata da chiunque è competente in materia: non hai desiderio di startene con chi è estraneo a tali argomenti.

Ci troviamo di fronte ad un periodare che è formato da una ferrea argomentazione, tutta tratta dalla filosofia naturale averroistica, in cui si esplicita “scientificamente” la “fenomenologia dell’amore”. Essa può essere riassunta nelle risposte agli otto quesiti posti nella prima stanza:

  • quale sia la sede di Amore;
  • da chi è stato creato, qual è la sua origine;
  • a quale facoltà dell’anima esso si riferisca;
  • la sua potenza;
  • la sua essenza;
  • i suoi effetti;
  • il piacere che lo caratterizza;
  • se amore possa essere reso sensibilmente.

Attraverso le risposte a queste domande avremo la concezione dell’amore cavalcantiana:

  1. L’amore non è eterno ed incorruttibile, ma proviene da Marte e si situa dove sta la memoria, attraverso un processo di potenza (Marte) ed atto (il soggetto che lo riceve).
  2. L’amore è creato dalla percezione di una forma, che diventa intellegibile quando è situata nell’intelletto possibile; quest’ultimo non essendo attivo, rende l’amore statico, inoperante, in quanto la “visione” non lo rende comprensibile, non trasformandolo in azione, perché tale visione ha prodotto solo la facoltà di percepirlo in modo perfetto.
  3. L’amore, una volta attivato, va all’anima sensitiva: qui la percezione diventa azione, ma non vi è tuttavia l’anima razionale ad accompagnarla; esso è trainato dal desiderio per raggiungere la sua perfezione, così come lo ha percepito nell’animo possibile. Tale processo può portare alla non distinzione del “bene”;
  4. La potenza dell’amore può arrivare sino alla morte in quanto contrasta con lo spirito vitale che è naturalmente portato al bene. Infatti esso è piena consapevolezza del sé, che il desiderio della perfezione dell’amore, che pur non contrastando con natura, allontana dal fine del sommo bene.
  5. L’essenza dell’amore è nella passione che travalica i limiti della natura: cambiamento aspetto, colore…
  6. Nel momento in cui l’uomo guarda con passione (e non con ragione) l’oggetto dell’amore, non lo vede né può raggiungerlo nella sua realtà (mancanza di appagamento del desiderio), da ciò ira e sconforto.
  7. Il piacere che se ne determina è nel riconoscersi nell’altro attraverso lo sguardo che rimanda amore. La gioia che ne deriva si deve alla capacità di resistere alle “frecce” d’amore che costituiscono ferite “mortali”: da ciò si deduce il coraggio dell’uomo;
  8. L’amore non è rappresentabile: derivando dall’oscurità di Marte, passando dall’anima possibile, che lo contempla, all’anima sensitiva, che lo agisce, esso non può essere visto.

La canzone qui presente è tutta in endecasillabi, a sottolineare l’elevatezza di contenuto, rimarcata nei primi versi dall’indirizzo verso cui è rivolta perch’io no spero – ch’om di basso core e negli ultimi da le persone – c’hanno intendimento: ciò indica che la costruzione è ad anello (finisce come comincia). Sin dall’inizio la concezione dell’amore cavalcantiano entra in collisione con quello di Guinizelli: tanto per quest’ultimo l’amore è luce, quanto per il poeta fiorentino è oscuro. Sarà proprio il Cavalcanti a definirlo una guerra (proviene da Marte). Infatti l’amore nasce dalla visione di una forma perfetta (la donna) – come tradizionalmente dicevano già i siciliani; tale visione si situa nella memoria, che secondo la filosofia medievale è una delle tre parti dell’anima (vegetativa, sensitiva, intellettiva); ma la conoscenza, per Averroè non deriva da organi corporei – per cui conoscenza e amore sono antitetici. Nella poesia di Cavalcanti tale concetto ha una precisa ragione filosofica. Secondo la dottrina averroistica la conoscenza non comporta né dolore né piacere: essa è contemplazione del vero: è facile capire che l’innamorato, sospeso tra il dolore e il piacere sensuale, non può mai pervenire ad essa. L’intelletto, sede della conoscenza non può essere turbato dalla passione d’amore. L’anima sensitiva, sconvolta dalla passione d’amore determinata dal continuo ricordo della della donna, non può elevarsi alla conoscenza.  In ultima analisi ad un contenuto oscuro Cavalcanti risponde con uno stile che conserva la caratteristica dell’“eufonia” che caratterizza tale movimento, e lo fa con il ricorso di rime al mezzo – inusuali all’interno del genere canzone – accidente : sovente v. 2.; dimostramento : talento v. 8/9; l’intera sequenza dei versi 21/23: Vèn da veduta forma che s’intende, / che prende – nel possibile intelletto, / come in subietto, – loco e dimoranza. Per non parlare delle continue assonanze e consonanze di cui è intessuta l’intera canzone, composta da 5 stanze con la fronte di due piedi ciascuna con rima ABC, ABC; cui segue la sirma ognuna di 4 versi DEFG; DEFF.

In questo sonetto, invece, si può misurare la differenza che vi è tra Guinizzelli e Cavalcanti, pur esprimendosi entrambi nel genere della “lode”:

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CHI E’ QUESTA CHE VEN

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’are
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,

dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.

Chi è questa che avanza, che ciascuno l’ammira / che crea un tremolio di luminosità nell’aria / e conduce con sé l’Amore / così che nessun uomo può parlare / ma ciascuno sospira? // Oh Dio, che cosa sembra quando gira intorno gli occhi! / Lo dica Amore, che io non lo saprei esprimere / mi pare la signora stessa dell’umiltà / che ogni altra, rispetto a lei, la definirei superba. // Non si potrebbe descrivere la sua bellezza, / dato che davanti a lei si china ogni virtù / e la bellezza la indica come sua dea. // La nostra mente non fu così elevata / e non fu posta in noi tanta capacità / da poterne avere una conoscenza perfetta.

Il tema di questo sonetto (schema delle rime: incrociata nelle due quartine ABBA ABBA; invertita nelle terzine CDE EDC) è quello, già guinizzelliano, della lode della donna. Ma il Cavalcanti va oltre, facendo della donna un essere quasi sovrumano. Già l’interrogazione iniziale  con il riferimento alla figura femminile, si richiama a quello della Bibbia per Maria (Quis est ista, quae progreditur?), ma l’inserimento di Amore già nel terzo verso, l’allontana subito dalla sfera religiosa. Infatti altro tema importante è quello dell’incapacità della parola nel descriverla, in quanto ella, pur conservando tratti angelici, sembra rimandare ad un’idea di perfezione e di umiltà, tale da non potersi rappresentare. Infatti vedendo il modo attraverso cui in Donna me prega tale idea si formava nell’anima intellettiva, essa nel momento in cui passa nell’anima sensitiva toglie all’uomo la capacità di intenderla (non si poria contar la sua piagenza) e quindi di conoscerla (metafora donna/conoscenza). Non è a caso che a livello polisemantico qui il termine salute acquisti un ulteriore significato (gesto di saluto, salvezza, capacità di raggiungerla).

La costruzione si può definire in crescendo; ogni tema presente nelle stanze viene ripreso in quella successiva, ad eccezione dell’ultima che, sul tema dell’ineffabilità, si lega alla seconda. 

Tale fallimento è spiegato in modo ancor più radicale in un altro sonetto modellato sempre da Guinizzelli:

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VOI CHE PER LI OCCHI

Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.

Voi che attraverso gli occhi mi trapassaste il cuore / e risvegliaste la mente che dormiva, / guardate a questa mia vita angosciosa / che, a causa dei sospiri, l’Amore distrugge. // Egli mi colpisce con tanta forza / che gli spiriti indeboliti scappano / rimane solo il corpo in suo potere / e poca voce, che esprime dolore. // Questa virtù d’amore che mi ha disfatto / veloce si dirizzò verso di me dai vostri nobili occhi: / una freccia mi gettò sin dentro il fianco. // Così giunse dritta fino al fianco sinistro, / che l’anima tremando per paura, si riscosse / vedendo morto il cuore nel lato sinistro.

In questo sonetto (schema delle rime: incrociata nelle due quartine ABBA ABBA; ripetuta nelle terzine CDE CDE) fa uso di una terminologia precisa che risponde all’esigenza di oggettivare il sentimento amoroso come un vero e proprio evento. Per far questo egli rappresenta le conseguenze che produce sull’amante la visione della donna: nella prima quartina descrive il processo di innamoramento. Al principio di tale processo è la donna, la cui immagine arriva fino al “cuore” e desta la “mente” dal suo sonno (passaggio dell’amore dalla potenza all’atto per opera di una causa, la donna). Poi l’azione che si svolge nel cuore è rappresentata come una battaglia: l’amore, penetrato all’interno dell’uomo, ferisce con forza e mette in fuga gli “spiriti”, che sovrintendono le facoltà sensoriali dell’uomo e che quindi ci sostengono in vita. Cavalcanti tuttavia, personifica anche questi elementi costitutivi dell’organismo dell’uomo. Essi si raccolgono a difesa del cuore, ma poi sono sgominati e messi in fuga dall’Amore. Rimangono soltanto la “figura”, cioè l’aspetto fisico dell’amante, e la sua “voce”. Il sonetto si conclude con la constatazione della “morte” del cuore. Si tratta ovviamente di una morte metaforica, risultato dello sconvolgimento portato nell’uomo dalla passione, che come nel sonetto precedente vede l’amore come ostacolo alla conoscenza.

Stessa sensazione di amore come dolore ce la offre lo straordinario sonetto seguente, nel quale il nostro non si presenta come io lirico che, oggettivando la fenomenologia dell’amore come annichilimento, condivide con il lettore la sensazione distruttiva. Qui a definire tale situazione sono gli oggetti che sono il mezzo attraverso cui nasce la poesia d’amore:

NOI SIAN LE  TRISTE PENNE SBIGOTTITE

Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non n’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegn[i]ate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

Noi siamo le tristi penne sbigottite, le forbicine e il dolente coltellino, che abbiamo scritto con dolore quelle parole che voi avete ascoltato. // Ora vi diciamo perché ci siamo allontanati e siamo giunti adesso qui di fronte a voi: la mano che si è servita di noi afferma che sente nel cuore gli appaiono cose paurose; // le quali lo hanno a tal punto debilitato da averlo portato così vicino alla morte, che non è di lui rimasto altro che sospiri. // Ora vi preghiamo per quanto possiamo più caldamente, che non vi sdegnate di tenerci finché siate un po’ toccate da pietà per noi.
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Questo sonetto pone al centro tematico gli strumenti dello scrivere, quindi con un solo termine, la parola poetica. Essi sono i veri protagonisti tanto cancellare la figura dell’autore e oggettivare in essi il suo dolore: sono infatti le penne e i mezzi per appuntirle che agiscono: si allontano, vanno dalla donna che ha provocato dolore e le chiedono pietà. Iol tutto risolto attraverso una “drammatizzazione” teatrale, svolta con tale leggerezza stilistica da colpire il più grande scrittore italiano della seconda metà del ‘900: Italo Calvino.

L’oggettivazione cavalcantiana dello stato psichico dell’anima e della mente trova il suo capolavoro nella ballatetta (piccola ballata) Perch’io no spero:

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PERCH’IO NO SPERO

Perch’i’ no spero di tornar giammai
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri

piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch’i’ non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l’anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate

quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore».

 Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
darle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.

Poiché io non spero di tornare più / piccola ballata, in Toscana, / vai tu, leggiadra e dolce, / direttamente alla mia donna / che, grazie alla sua grazia, / ti farà degna accoglienza. // Tu porterai notizie di sospiri / piene di dolori e di grandi timori; / ma bada che non ti osservi nessuno / perché certamente per la mia disavventura / tu saresti contrastata / e tanta oltraggiata da lei / che ciò mi angoscerebbe, / e anche dopo la morte, / pianto e nuovo dolore. // Tu senti, piccola ballata, che la morte, / m’incalza in tal modo, che la vita mi abbandona / e senti come il cuore si agita con forza / a causa di ciò che tutti gli spiriti gli dicono. / La mia integrità personale e già talmente distrutta / che ormai non sono più in grado di resistere: / Se tu mi vuoi rendere un servizio / porta la mia anima con te (e di ciò ti prego molto) quando uscirà dal cuore. // Oh, piccola ballata mia, alla tua amicizia / raccomando quest’anima tremante / portala con te, nella sua angosciosa situazione / a quella bella donna alla quale ti mando. / Oh, piccola ballata, dille con sospiri / quando ti trovi di fronte a lei: / “Questa vostra serva fedele / viene per stare con voi, / separatasi da lui / che fu vostro servo d’Amore. // Tu, mia voce turbata e flebile / che esci piangendo del mio cuore affranto, / insieme all’anima e a questa ballatetta, parla della mia mente distrutta. / Voi troverete una bella donna, / dal pensiero tanto gentile, / che sarà per voi una gioia / starle accanto. / Anche tu, anima, adorala sempre, per il suo valore.

La piccola ballata, schema ritmico inusuale e non semplicissimo (all’inizio una ripresa di 6 versi di cui un endecasillabo e 5 settenari con rime Abbccd, tale ripresa sarà ripetuta in tutte le sirme delle altre 4 stanze in cui la fronte – formata da due piedi – di ognuna presenta versi endecasillabi; ultimo verso rima con tutti gli ultimi versi della ripresa e delle stanze) non inficia su uno stile chiaro e lineare dal lessico abbastanza semplice, tipico del “dolce stil novo”. Anche qui, pur non affrontando in modo diretto il tema dell’amore, ma soprattutto quello della lontananza (si pensa possa essere stato scritto a Sarzana, dov’era esiliato) siamo di fronte a una sconfitta. Il poeta è infatti consapevole di non poter ricevere in cambio felicità o consolazione dal momento che, quando la ballata si allontanerà da lui, lo farà per sempre. La ballata è quindi solo una testimonianza di amore. Nel testo viene oggettivato il soggetto, è proiettata la personalità del poeta su degli elementi esterni. E’ la ballata che deve prendere il posto del poeta, rappresentarlo nel suo avvicinamento e servire la donna amata: vediamo l’anafora del “tu”, rivolto dal dolente poeta (deh, ripetuto nella quarta stanza) alla stessa ballatetta. Ma è proprio la distanza che non permette l’immaginazione, quindi il passaggio all’anima sensibile e il dolore per l’impossibilità della conoscenza: ecco perché la malinconia; l’uomo sconfitto in presenza della donna, ma quando è in assenza della donna è sconfitto in modo analogo, perché non provando tensione, non prova dolore e quindi il desiderio di conoscenza: ciò equivale alla morte. 

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Immagine della cortesia in Folgòre

All’interno della scuola stilnovista, non possiamo dimenticare che sorge, affiancandola e in parte capovolgendo i temi, un’altra lirica, alle volte meno intellettualizzata (così detta “realista”) e l’altra con accenti più crudi e parodistici (cosiddetta “comica).

Tra i primi ci piace ricordare Folgòre da San Gimignano (1270 – 1330), di cui si riporta qui un sonetto:

INTRODUZIONE

A la brigata nobele e cortese
en tutte quelle parte, dove sono
con allegrezza stando, sempre dono
cani, uccelli e danari per ispese,

ronzin portanti, quaglie a volo prese,
bracchi levar, correr veltri a bandono:
in questo regno Niccolò corono,
per ch’ell’è ‘l fior de la città sanese;

Tengoccio e Min di Tengo ed Ancaiano,
Bartolo con Mugàvero e Fainotto,
che paiono figliuoi del re Priàno,

prodi e cortesi più che Lancilotto;
se bisognasse, con le lance in mano
fariano tarneamenti a Camelotto.

Alla brigata nobile e cortese, dovunque se ne stia in allegria, donerò sempre cani, uccelli e denari per il mangiare, buoni cavalli, quaglie prese al volo, e il divertimento di liberare i bracchi e di far correre i veltri in libertà. Di questo regno do la corona a Niccolò di Nigi, perché egli è il fiore della città di Siena; e poi Tengoccio de’ Tolomei, Mino di Tengo, Ancaiano, Bartolo, Mogavero del Balza e Fainotto Squarcialupi, che sembrano figli del re Priamo, prodi e cortesi più di Lancillotto, se fosse necessario andrebbero con le lance in mano a fare tornei a Camelot.

La poesia, dal cui titolo si capirà essere introduttiva ad una collana dedicata ai dodici mesi, ognuno del quale era riportato in un sonetto, ci mostra come il poeta si discosti dalla poesia del dolce stil novo per un più semplice e diretto uso della lingua. Si tratta infatti di un brano lirico in cui, nei primi otto versi viene descritta una lieta brigata, cui si raccomanda una vita allegra e gaudente. L’ultima terzina porta questi giovani a “immaginarsi” in un regno in cui la loro vita s’impreziosisce di modelli nobili e quindi gentili, dove rifulge la virtù del torneo.

Metricamente la lirica è un sonetto, in cui le rime delle prime due quartine è detta incrociata (ABBA, ABBA), le terzine presentano invece una rima alternata CDC, DCD.

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Cecco Angiolieri

Sul versante comico è invece da ricordare Cecco Angiolieri (1260 – 1310), la cui vita sembra corrispondere alla sua poesia: nato da famiglia nobile a Siena, sperpera tutti i denari, tra multe ed infrazioni. Muore in povertà.

S’I FOSSE FOCO

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.

s’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

Se fossi il fuoco, brucerei il mondo; se fossi il vento, lo colpirei con tempeste; se fossi l’acqua, lo annegherei; se fossi Dio, lo farei sprofondare; se fossi il papa, allora sarei contento, poiché metterei nei guai tutti i cristiani; se fossi l’imperatore, sai cosa farei? Taglierei a tutti la testa di netto. Se fossi la morte, andrei da mio padre; se fossi la vita, fuggirei da lui: farei una cosa simile con mia madre. Se fossi Cecco, come sono e sono sempre stato, prenderei le donne giovani e belle; lascerei agli altri quelle vecchie e brutte.

Anche questo è un sonetto con una struttura metrica simile alla precedente (ABBA ABBA, CDC, DCD). Tuttavia qui appare più marcato il senso dello stravolgimento di “significato” della poesia precedente. In primo luogo dobbiamo riconoscere a Cecco Angiolieri una buona perizia letteraria: l’anafora dei primi quattro versi che si ripete poi nel quinto e nel settimo, sta quasi ad indicare il desiderio ipotetico di essere qualcosa di diverso da quello che è per colpire, in modo imperioso, i suoi nemici che sono il mondo, tutti gli uomini cristiani, a tutti indistintamente. E’ chiaro che la “rabbia” all’inizio della poesia, gioca sull’assurdo. Cessa di essere tale al nono verso dove l’ipotesi di essere si scaglia contro le figure genitoriali (che non essendo propriamente generose nei suoi confronti, gli impongono una vita di stenti), e l’ultima, quasi con un colpo “giullaresco”, quando torna ad essere se stesso, il suo desiderio si dimostra essere quello di godersi le donne giovani e belle e di lasciare ad altri le vecchie e zoppe.

Bordello medievale

Ma il manifesto di Cecco Angiolieri viene espresso in questo sonetto:

TRE COSE SOLAMENTE M’ENNO IN GRADO

Tre cose solamente m’ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Ma sì·mme le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’ al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.

E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.

Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
la man di Pasqua che·ssi dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro

Tre cose solamente mi sono gradite, che non posso raggiungere come vorrei, cioé le femmine, il vino, ed il gioco d’azzardo, che mi fanno sentire il cuore allegro. // Ma così sono costretto a permettermele raramente, che la mia borsa, che contiene pochi soldi, me le nega, e quando mi capita mi metto a sbraitare perché devo rinunciare per mancanza di denaro. // E dico: «Sia trafitto con una lancia!» questo a mio padre, che mi tiene a stecchetta, che tornerei senza dimagrire dalla Francia, // perché sarebbe più difficile togliergli un denaro la mattima di Pasqua quando si dà la mancia, che far catturare una gru da una poiana. 

Tale poesia (sonetto con una struttura metrica ABBA ABBA, CDC, DCD) risulta essere un “consapevole” capovolgimento rispetto a quella stilnovista: al suo essere eterea si risponde con la massima materialità. Cecco infatti dichiara apertamente la sua anti-intellettualità negando qualsiasi richiamo spirituale; ma quello che più emerge è da una parte il conflitto, già presente in  S’i’ fosse foco, tra padri e figli, ma soprattutto l’elemento economico, a dimostrazione della raggiunta stabilità finanziaria raggiunta dal ceto mercantile fiorentino. La fonte è certamente la poesia goliardica, il lessico è realistico, le rime aspre, con un ritmo piuttosto marcato che dà vita ad un andamento piuttosto frantumato.