IL FUTURISMO E LE AVANGUARDIE STORICHE

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Futurismo

Tra l’avvento della prima guerra mondiale ed il primo dopoguerra e oltre, si svilupparono in Europa una serie di movimenti culturali, i quali non si fermarono ad un unico genere, ma abbracciarono la quasi totalità sia delle arti che, più genericamente, del vivere.

Essi sono detti generalmente “avanguardia” a cui si aggiunge l’aggettivo storiche per differenziarle da quelle nate intorno al 1960 che prendono appunto il nome di neoavanguardie.

Se vi è una data alla quale possiamo fare riferimento per la nascita dei movimenti avanguardistici, essa è il 1907 e riguarda la pittura: a dipingere in modo completamente rivoluzionario rispetto ai canonici estetici allora esistenti (pur se non dobbiamo dimenticare che forme di modernità avevano avuto luogo sin dall’impressionismo) è Pablo Picasso, artista spagnolo, che con Les demoiselles d’Avignon, realizzato a Parigi, segna la rottura traumatica della raffigurazione tradizionale, rompendo la concezione dell’unico punto di vista prospettico, per dare la visione, tutta intellettuale, della resa simultanea di più punti di vista, con effetti spigolosi e piani taglienti.

In letteratura la avanguardia venne inaugurata dall’italiano Filippo Tommaso Marinetti.

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Filippo Tommaso Marinetti

Nato ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani nel 1876, studia a Parigi, città che rimarrà per lui, nei primi anni, punto di riferimento culturale. Conosce la poesia simbolista francese e, una volta tornato in Italia, se ne fa banditore. Ma la sua fortuna avviene nel 1909, dove, nelle pagine della rivista parigina Le Figaro, pubblica il Manifesto del Futurismo. Il fatto che venga divulgato nelle pagine di un giornale francese, vuol dire dare a questa operazione valore internazionale. Qui è presentata nella versione italiana che lui stesso curò, nello stesso anno, nella rivista Poesia:

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La pagina de Le Figaro in cui venne pubblicato il Manifesto Futurista

MANIFESTO DEL FUTURISMO

  1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.
  2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
  3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
  4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
  5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
  6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.
  7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.
  8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!… Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.
  9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
  10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.
  11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne, canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano, le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

Come si può notare il Manifesto ha un contenuto ideologico più che artistico: in esso vi è l’esaltazione della modernità, della macchina, della tecnica, della città industriale, della folla, delle rivoluzioni urbane; vuole inoltre celebrare gli istinti, i giovani, la danza, la gioia della distruzione, l’amore per la guerra, la velocità, l’aggressività, l’azione violenta, gli atteggiamenti militareschi, virili ed eroici, a cui, come corollario, segue il disprezzo della donna e del femminismo. Sul piano culturale ed artistico, mentre si propone provocatoriamente la distruzione della tradizione e del passato, (Uccidiamo il chiaro di luna!, dirà ancora Marinetti, in suo pamhlet del 1912) delle accademie, delle biblioteche, dei musei, delle città antiche e «venerate», si afferma un nuovo criterio di bellezza, da ritrovare nella velocità e nella macchina, nella tecnologia e nella industria e, dunque, nel moderno. Il moderno è, in quanto tale, estetico. La perentorietà delle dichiarazioni mira a stupire e a scandalizzare, a provocare un effetto di shock violento. Si tratta di uno stile-azione, di una scrittura che riproduce il gesto violento ed è dunque omogenea al proprio messaggio.

Tale ideologia deve quindi tradursi in programma:

MANIFESTO TECNICO DELLA LETTERATURA FUTURISTA

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  1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono.
  2. Si deve usare il verbo all’infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all’io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all’infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l’elasticità dell’intuizione che la percepisce.
  3. Si deve abolire l’aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L’aggettivo, avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione.
  4. Si deve abolire l’avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l’una all’altra le parole. L’avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono.
  5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto. Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza del mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l’uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l’oggetto coll’immagine che esso evoca, dando l’immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale.
  6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s’impiegheranno segni della matematica: + – x : = >

Questo manifesto viene pubblicato dopo 3 anni da quello del futurismo. Esso presenta un programma tecnico con proposte riguardanti lo stile, la sintassi, l’uso delle parole (distruzione della sintassi, verbi all’infinito, abolizione della punteggiatura ecc.) e un programma ideologico, che rivela compiutamente la poetica di Marinetti.
Il programma ideologico si suddivide in una parte distruttiva e in una costruttiva. La parte distruttiva comprende:

  • la critica della psicologia e del culto dell’interiorità (bisogna «distruggere nella letteratura l’“io”»);
  • la critica della sacralità dell’Arte, della sua autonomia, del suo valore supremo e separato, del Sublime estetico;
  • la critica dell’intelligenza e del calcolo razionale a cui viene contrapposta la «divina intuizione, dono caratteristico delle razze latine».

La parte costruttiva muove appunto dall’esaltazione del potere dell’intuizione e dell’immaginazione che, percependo le analogie fra fenomeni diversi, possono cogliere l’essenza della materia. Quest’ultima si esprime attraverso l’energia delle «forze cosmiche», che agisce nella natura, nel corpo umano e nella macchina. L’uomo stesso deve diventare sempre più espressione di tale energia, trasformandosi in macchina, in «uomo meccanico dalle parti cambiabili».
La connessione fra programma tecnico e programma ideologico è evidente: distruggendo la sintassi si distruggono i legami logici, con la conseguenza di porre in primo piano l’intuizione e l’immaginazione. Ne derivano però teorie niente affatto nuove e già messe in luce e praticate dal Simbolismo: l’esaltazione della analogia e della sinestesia, l’illusione di cogliere un significato universale, una supposta sostanza unica del tutto.
E’ evidente che da tale premesse il concetto di letteratura, come veniva ancora inteso, viene spazzato, annientato da un vero e proprio colpo di cannone, cannone descritto in modo nuovo, nel testo più esemplificativo di Marinetti stesso, in cui difficile è individuare (d’altra parte è nella loro stessa essenza tale soluzione) ciò e come dover leggere e/o recitare e/o guardare il testo:

LA BATTAGLIA DI ADRIANOPOLI

ogni  5  secondi   cannoni  da    assedio  sventrare
spazio  con  un  accordo   tam-tuuumb
ammutinamento  di   500    echi   per   azzannarlo
sminuzzarlo   sparpagliarlo   all´infinito
nel  centro  di  quei  tam-tuuumb
spiaccicati  (ampiezza  50  chilometri  quadrati)
balzare    scoppi    tagli      pugni      batterie    tiro
rapido    violenza     ferocia     regolarità    questo
basso   grave    scandere    gli    strani   folli  agita-
tissimi     acuti    della     battaglia     furia    affanno
orecchie                  occhi
narici                       aperti           attenti
forza   che    gioia    vedere    udire   fiutare   tutto
tutto    taratatatata    delle   mitragliatrici   strillare
a   perdifiato   sotto   morsi    shiafffffi    traak-traak
frustate        pic-pac-pum-tumb      bizzzzarrie
salti      altezza       200     m.     della        fucileria

Giù   giù   in    fondo   all’orchestra    stagni
diguazzare                        buoi       buffali
pungoli    carri     pluff    plaff                     impen-
narsi   di   cavalli  flic   flac   zing  zing sciaaack
ilari     nitriti     iiiiiii…   scalpiccii     tintinnii          3
battaglioni   bulgari   in   marcia   croooc-craaac

[ LENTO   DUE   TEMPI ]        Sciumi         Maritza
o    Karvavena    croooc-craaac   grida    delgli
ufficiali    sbataccccchiare  come   piatttti  d’otttttone
pan   di   qua    paack   di    là    cing   buuum
cing    ciak    [ PRESTO ]     ciaciaciaciaciaak
su    giù    là     là    intorno    in    alto   attenzione

sulla    testa     ciaack    bello                Vampe

vampe

vampe                                       vampe

vampe                                         vampe

vampe          ribalta   dei   forti   die-

vampe

vampe

tro  quel   fumo   Sciukri    Pascià    comunica   te-
lefonicamente   con   27   forti   in   turco   in    te-
desco     allò     Ibrahim    Rudolf    allò    allò
attori    ruoli                           echi       suggeritori
scenari      di    fumo     foreste
applausi   odore   di   fieno   fango   sterco   non
sento   più   i   miei   piedi   gelati   odore   di   sal-
nitro   odore   di   marcio                      Timmmpani
flauti    clarini    dovunque    basso    alto    uccelli
cinguettare  beatitudine   ombrie   cip-cip-cip   brezza
verde  mandre            don-dan-don-din-bèèè                  tam-tumb-
tumb tumb-tumb-tumb-tumb-tumb-
tumb        Orchestra                        pazzi   ba-
stonare   professori    d’orchestra   questi   bastona-
tissimi   suooooonare  suooooonare   Graaaaandi
fragori  non  cancellare   precisare    ritttttagliandoli
rumori     più     piccoli    minutisssssssimi   rottami
di   echi   nel   teatro   ampiezza   300    chilometri
quadri                                         Fiumi      Maritza
Tungia    sdraiati                              Monti    Ròdopi
ritti                               alture    palchi     logione
2000       shrapnels        sbracciarsi     esplodere
fazzoletti    bianchissimi    pieni    d’oro    Tumb-
tumb                     2000     granate  protese
strappare       con      schianti        capigliature
tenebre            zang-tumb-zang-tuuum
tuuumb    orchestra    dei   rumori    di   guerra
gonfiarsi    sotto   una   nota    di        silenzio
tenuta      nell’alto     cielo                   pal-
lone   sferico   dorato   sorvegliare     tiri     parco
aeroatatico     Kadi-Keuy
BILANCIO  DELLE  ANALOGIE

(1»   SOMMA )

Marcia    del    cannoneggiamento    futurista
colosso-leitmotif-maglio-genio-novatore-ottimismo
fame-ambizione     ( TERRIFICO  ASSOLUTO  SOLENNE EROICO      PESANTE   IMPLACABILE    FECONDANTE )
zang-tuumb tumb tumb

(2» SOMMA )

difesa    Adrianopli     passatismo      mi-
nareti    dello    scetticismo     cupole- ventri    dell’in-
dolenza   vigliaccheria   ci-penseremo-domani  non-
c’è-pericolo   non-è-possibile   a-che-serve    dopo-
tutto-me-ne-infischio      consegna     di     tutto     lo
stock    in   stazione-unica   =     cimitero

( 3» SOMA)

intorno   ad   ogni   obice-passo   del    co-
losso-accordo   cadere   del   maglio-creazione  del
genio-comando  correre  ballo   tondo   galoppante
di  fucilate    mitragliatrici    violini     monelli     odori-
di-bionda-trentenne    cagnolini     ironie    dei    critici
ruote   ingranaggi    grida   gesti    rimpianti   (ALLE-
GRO  AEREO  SCETTICO  FOLLEGGIANTE  AEREO
CORROSIVO   VOLUTTUOSO )

(4» SOMMA )

intorno  a  Adrianopoli   +  bombardamento
+ orchestra  +   passeggiata-del-colosso  +  offi-
cina  allargarsi  cerchi   concentrici  di  riflessi   plagi
echi   risate   bambine   fiori  fischi-di-vapore  attese
piume    profumi     fetori     angoscie   ( INFINITO
MONOTONO  PERSUASIVO  NOSTALGICO )

Questi  pesi  spessori  rumori  odori  turbini  moleco-
lari  catete   reti  corridoi  di  analogie   comcorrenze
e    sincronismi     offrirsi     offrirsi     offrirsi    offrirsi
in     dono     ai      miei     amici      poeti       pittori
musicisti       e      runositi     futuristi
zang-tumb-tumb-zang-zang-tuuumb   tatatatatatatata   picpacpam
pacpacpicpampampac           uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu

ZANG-TUMB
TUMB-TUMB
TUUUUUM

Il testo può considerarsi come una esemplificazione di quello che Marinetti aveva teorizzato nei due manifesti: in primo luogo l’importanza data alla grafica che permette di considerare il significante più importante del significato. Le parole in grassetto vogliono infatti rendere il “rumore” della guerra, così come le parole in carattere piccolissimo tendono a rendere l’idea di come i rumori bellici coprono totalmente quelli della natura. Il mettere in forma ascendente il termine “vampe” vuole significare l’ascendere dei fuochi, come il ritmo scandito dai sostantivi e dai verbi (tutti rigorosamente all’infinito) vogliono darci la velocità delle azioni militari, l’uso insistito dell’analogia, la presenza del + matematico.

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Un’altra immagine di Filippo Tommaso Marinetti

Il variegato mondo che circola intorno al futurismo, crea una serie di opere che, tutte derivanti da un superamento netto dell’estetica dannunziana e pascoliana, fiancheggianti temi e soluzioni futuriste, le “personalizzano” e le risolvono in modo originale:

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Corrado Govoni con ai lati sue due opere

CORRADO GOVONI: IL PALOMBARO

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L’opera s’ispira al paroliberismo marinettiano, ma:

  1. vi è un accentuata dimensione grafica, che prevale sulla parola;
  2. non vi è alcuna forma violenta, quanto piuttosto onirica;
  3. tale poesia grafica nella sua semplicità, nonostante le parole siano piuttosto forti, ci chiariscono la sua preistoria tra il Pascoli e i coevi crepuscolari.

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Aldo Palazzeschi

Anche Aldo Palazzeschi, con le sue raccolte Poemi e L’incendiario, ambedue del 1910, si avvicina al futurismo:

LA FONTANA MALATA

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchete,
chchch…
È giù nel
cortile
la povera
fontana
malata;
che spasimo
sentirla
tossire.
Tossisce,
tossisce,
un poco
si tace…
di nuovo
tossisce.
Mia povera
Fontana,
il male
che hai
il cuore
mi preme.
Si tace,
non getta
più nulla.
Si tace,
non s’ode
rumore
di sorta,
che forse
che forse
sia morta?
Orrore!
Ah! No.
Rieccola
ancora
tossisce.
Clof, clop, cloch
cloffete, cloppete, clocchete
chchch…
La tisi
l’uccide.
Dio santo, quel suo
Eterno
Tossire
Mi fa
Morire,
un poco
va bene,
ma tanto…
che lagno!
Ma Habel!
Vittoria!
Andate,
correte,
chiudete
la fonte,
mi uccide
quel suo
eterno
tossire!
Andate,
mettete
qualcosa
per farla
finire
magari…
magari
morire.
Madonna!
Gesù!
Non più!
Non più.
Mia povera
fontana,
col male
che hai finisci,
vedrai,
che uccidi
me pure.
Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete
clocchete
chchch…

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Ugo Nespolo: La fontana malata (1996)

In questa lirica, l’autore si propone di infrangere le regole della poesia tradizionale e lo fa, sul piano formale, con un trionfo di suoni, di onomatopee, di ritmi. In questo modo costruisce una specie di filastrocca, dove i numerosissimi versi di tre sillabe, quasi inesistenti nella poesia tradizionale, imitano i getti della fontana malata e mandano all’aria tutte le convenzioni e gli schemi del passato. Il poeta si prende gioco anche della musicalità malinconica di liriche celebri del suo tempo, come La pioggia nel pineto di D’Annunzio, alla quale sembra fare il verso, come un bambino dispettoso (tossisce, un poco si tace). Ne nasce un gioco esilarante e ingegnoso di suoni, ritmi, temi, che ben riflette il gusto dissacrante dei futuristi.

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Un’altra immagine di Aldo Palazzeschi

Ma ancora più dissacratoria ci appare E lasciatemi divertire!

 E LASCIATEMI DIVERTIRE!

 Tri, tri tri
Fru fru fru,
ihu ihu, ihu,
uhi uhi uhi.

Il poeta si diverte,
pazzamente,
smisuratamente.
Non lo state a insolentire,
lasciatelo divertire
poveretto,
queste piccole corbellerie
sono il suo diletto.

Cucù rurù,
rurù cucù,
cuccuccurucù!

Cosa sono queste indecenze?
Queste strofe bisbetiche?
Licenze, licenze,
licenze poetiche,
Sono la mia passione.

Farafarafarafa,
Tarataratarata,
Paraparaparapa,
Laralaralarala!

Sapete cosa sono?
Sono robe avanzate,
non sono grullerie,
sono la… spazzatura
delle altre poesie,

Bubububu,
fufufufu,
Friù!
Friù!

Se d’un qualunque nesso
son prive,
perché le scrive
quel fesso?

Bilobilobiobilobilo
blum!
Filofilofilofilofilo
flum!

Bilolù. Filolù,
U.

Non è vero che non voglion dire,
vogliono dire qualcosa.
Voglion dire…
come quando uno si mette a cantare
senza saper le parole.
Una cosa molto volgare.
Ebbene, così mi piace di fare.

Aaaaa!
Eeeee!
liii!
Qoooo!
Uuuuu!
A! E! I! O! U!

Ma giovinotto,
diteci un poco una cosa,
non è la vostra una posa,
di voler con cosi poco
tenere alimentato
un sì gran foco?

Huisc… Huiusc…
Huisciu… sciu sciu,
Sciukoku… Koku koku,
Sciu
ko
ku.

Come si deve fare a capire?
Avete delle belle pretese,
sembra ormai che scriviate
in giapponese,

Abi, alì, alarì.
Riririri!
Ri.

Lasciate pure che si sbizzarrisca,
anzi, è bene che non lo finisca,
il divertimento gli costerà caro:
gli daranno del somaro.

Labala
falala
falala
eppoi lala…

e lala, lalalalala lalala.

Certo è un azzardo un po’ forte
scrivere delle cose così,
che ci son professori, oggidì,
a tutte le porte.

Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!
Ahahahahahahah!

Infine,
io ho pienamente ragione,
i tempi sono cambiati,
gli uomini non domandano più nulla
dai poeti:
e lasciatemi divertire!

Il testo palazzeschiano qui va oltre il precedente perché a ben guardare la vera poesia è quella riportata da semplici suoni, dalle figure foniche, non usate qui in senso onomatopeico, come in fondo lo erano ancora in La fontana malata, ma come un vero e proprio nonsense, significante puro, che nulla significa e nulla insegna. La carica eversiva è stata ben colta da Marinetti stesso: “Coll’apparente incoscienza di un bambino, guidato però da un fiuto sicuro, il poeta Palazzeschi ha insegnato all’Italia a ridere allegramente dei professori, infischiandosi, meglio e più di ogni altro, di tutte le regole, di tutti i divieti stilistici e linguistici. E lasciatemi divertire! è il più bel trattato d’arte poetica, e insieme lo schiaffo più poderoso che abbiano mai ricevuto i passatisti d’Italia”.

Una simile riflessione la troviamo in un’altra celeberrima poesia di Aldo Palazzeschi:

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Anna Moro: Illustrazione per “Chi sono?”

CHI SONO?

Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.

Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.

Un musico, allora?

Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.

Son dunque… che cosa?

Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.

Chi sono?

Il saltimbanco dell’anima mia.

Sin dall’incipit ciò che viene messo in discussione è proprio l’essere poeta. Quale ruolo ha oggi la poesia? Superata l’idea di poeta vate, non rimane che costruirla in negativo, dire che non ha più senso, alcun valore.

Una volta costretta a farsi interprete delle velleità piccolo borghesi incarnate dalle pose dannunziane o dal buonismo pascoliano, per ribellarsi bisogna farne terra bruciata. Marinetti dà ancora ad essa un ruolo e non per niente finirà con essere inglobato dal sistema tanto da diventare Accademico d’Italia per volontà mussoliniana. Ben più problematico il discorso di Aldo Palazzeschi: partito dal Crepuscolarismo, affiancherà, con le raccolte poetiche intorno agli anni Dieci del secolo, il futurismo, ma dando ad esso quella nota di ilarità che al fondatore, certamente, mancava.

Ma l’ilarità di Palazzeschi sfocia poi in un discorso che, condiviso dai crepuscolari Moretti, Corazzini e Gozzano, rimette in gioco il ruolo di poeta in un momento storico in cui anche la parola intellettuale o sta abdicando al suo ruolo di “illuminare” la mente umana: la deflagrazione della prima guerra mondiale ne è un esempio, come ne è un esempio la deflagrazione verbale, sonora, visiva che ne consegue.

In conclusione si può certamente dire che il futurismo rappresentò una vera e propria deflagrazione culturale a cui guardò con interesse anche Antonio Gramsci. Egli vedeva in Marinetti e affini l’esplicitarsi di una possibile rivoluzione “culturale” antiborghese (pur se vicini all’idea superomistica dannunziana sono da lui lontanissimi riguardo l’estetismo): naturalmente interventisti i futuristi  finiro per compromettersi con i nascenti movimenti squadristi e per essere inglobati dal fascismo.

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Il verbo futurista fu tuttavia portato in giro per il mondo dallo stesso Marinetti ed ebbe varie conseguenze.

Guillaume_Apollinaire-1280x720.jpgIl futurismo italiano, come detto, nacque in Francia su Le Figaro, ed è proprio in questa terra che ebbe uno dei più originali ed importanti poeti del primo Novecento, Guillaime Apollinaire, pseudonimo per Wilhelm Apollinaris de Kostrowitzky, nato nel 1880 a Roma da nobildonna polacca e ufficiale borbonico. Dopo aver viaggiato per le capitali europee si stabilì a Parigi. Qui visse intensamente la cultura della capitale francese intervenendo a favore delle avanguardie artistiche. Grazie all’incontro con Marinetti, pubblicò L’antitradition futuriste (1913) diventando il protagonista del futurismo in Francia. Partecipò alla guerra, rimanendo ferito alla testa. Nel 1918 fu stroncato dalla peste spagnola.

Le sue opere più importanti sono poetiche Alcools (1913) e Calligrammes (1918). E’ in quest’ultima che vediamo le più ardite soluzioni formali come Piove:

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Piovono voci di donna come se fossero morte anche nel ricordo. Siete anche voi che piovete meravigliosi incontri della mia vita o gocciolette. E quelle nuvole impennate cominciano a nitrire tutto un universo di città auricolari. Ascolta se piove mentre il rimpianto e lo sdegno piangono una musica antica Ascolta cadere i legami che ti trattengono in alto e in basso.

Dove le parole vengono disposte come fossero una serie di gocce cadenti dall’alto in basso, come fa appunto la pioggia.

Guillaume-Apollinaire-Reconnais-toi-da-Poème-du-9-février-1915..png

Riconosciti.  Questa adorabile persona sei tu  sotto il grande cappello da canottiere. Occhio, naso , la bocca.  Ecco l’ovale del tuo viso. Il tuo collo bellissimo. Ecco infine l’immagine non completa del tuo busto adorato visto come attraverso una nuvola. Un po’ più basso è il tuo cuore che batte

Poesia scritta per una donna Lou, di cui ne era certamente innamorato, sebbene la stessa, Louise de Coligny-Chatillon, prediligesse l’amore libero ad un serio rapporto.

Vediamo proprio in questa produzione di Apollinaire quell’operazione che in Italia era già stata fatta da Govoni nel 1915. Si tratta anche qui di spezzare quelle divisioni che rendevano i generi culturali distinti e non comunicanti: l’istantaneità futurista richiedeva parola e immagini in uno stesso tratto, facendo sì che il fruitore fosse coinvolto sinesteticamente in una immediata complementarietà sensoriale. 

Cubofuturismo

In Russia, su sollecitazione dell’intellettuale italiano, nacque, un anno dopo,  il cubofuturismo. Esso riprende l’idea di un arte “rivoluzionaria” che esprima le grandi trasformazioni sociali allora operanti in Russia; ma proprio per questo essa accompagnerà l’esperienza della Rivoluzione del ’17.

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Vladimir Majakovskj

Il più importante scrittore di tale espressione culturale è Vladimir Majakovskij (1893 – 1930), per il quale l’espressione poetica deve propagandare e diffondere gli ideali rivoluzionari. Infatti s’iscrive sin da giovane al partito bolscevico (quand’era ancora illegale) e aderisce da subito al movimento futurista cui dà espressione con la tragedia Vladimir Majakovskij. Allo scoppio della Rivoluzione, nel 1917, si dedica ad opere fortemente impegnate come Mistero buffo del 1918 e il poema celebrativo Lenin (1924). L’involuzione della spinta rivoluzionaria, che verrà testimoniata dall’opera La cimice (1928), l’arrivo di Stalin, l’esigenza da parte del potere di una cultura allineata, lo porteranno al suicidio nel 1930.

Secondo Majakovskij due sono gli obiettivi che l’intellettuale russo deve perseguire: l’abbattimento delle strutture politiche aristocratiche della Russia del tempo e il rinnovarsi completo della letteratura che tale abbattimento deve accompagnare. Per questo in lui c’è il rifiuto della guerra in quanto tale e l’esaltazione, invece, dell’atto rivoluzionario.

hDyOVIo9OBE.jpgIntellettuali futuristi russi

SCHIAFFO AL GUSTO DEL PUBBLICO

A chi legge il nuovo, il primigenio, l’imprevisto.
Soltanto noi siamo il volto del nostro tempo. Il corno del tempo risuona nella nostra arte verbale.
Il passato è angusto. L’accademia e Puskin sono più incomprensibili dei geroglifici.
Gettare Puskin, Dostoevskij, Tolstoj, ecc., ecc., dalla nave del nostro tempo.
Chi non dimenticherà il primo amore non conoscerà mai l’ultimo.
Chi, credulo, concederà l’ultimo amore alla profumata libidine di Balmont? Si riflette forse in essa l’anima virile del giorno d’oggi?
Chi, pusillanime, si rifiuterà di strappare la corazza di carta dal nero frac del guerriero Brjusov? O forse si riflette in essa un’aurora di inedite bellezze?
Lavatevi le mani, sudice della lurida putredine dei libri scritti da questi innumerevoli Leonid Andreev.
A tutti questi Maksim Gorkij, Kuprin, Blok, Sologub, Remizov, Avercenko, Cernyj, Kuzmin, Buni, ecc., ecc., occorre solo una villa sul fiume. Questa ricompensa riserba il destino ai sarti.
Dall’alto dei grattacieli scorgiamo la loro nullità!
Ordiniamo che si rispetti il diritto dei poeti:

  1. ad ampliare il volume del vocabolario con parole arbitrarie e derivate (neologismi);
  2. a odiare inesorabilmente la lingua esistita prima di loro
  3. a respingere con orrore dalla propria fronte altèra la corona di quella gloria a buon mercato, che vi siete fatta con le spazzole del bagno;
  4. a stare saldi sullo scoglio della parola “noi” in un mare di fischi e indignazione.

E, se nelle nostre righe permangono tuttora i sudici marchi del vostro “buon senso” e “buon gusto”, in esse tuttavia già palpitano, per la prima volta, i baleni della nuova bellezza futura della parola autonoma (autoattorta)

Lo schiaffo al gusto del pubblico nasce certamente su sollecitazione del Manifesto futurista italiano. Pubblicato nel 1912 riprese, infatti, il gusto iconoclasta per la distruzione dell’arte del passato, rappresentata dai grandi autori del passato da Puskin a Dostoevskij per rifondare un arte nuova, capace di raffigurare il tempo contemporaneo. Troviamo tuttavia più che un manifesto ideologico e “puramente tecnico” un’attenzione particolare alla parola, consapevoli che è la parola, nuova inusuale a determinare il dettato poetico, autoattorta infatti indica la parola poetica.

L’impegno di Majakovskij  a far combaciare dettato poetico e slancio rivoluzionario si può commisurare nel poemetto Lenin, dedicato appunto al grande leader del bolscevismo russo:

LA MORTE DEL COMPAGNO LENIN

Ieri alle sei e cinquanta minuti,
è morto il compagno Lenin.

Ciò che ha visto quest’anno
cent’anni insieme non riusciranno a vedere.
Il giorno entrerà nella dolente memoria
dei secoli. Lo sgomento strappò un gemito al ferro:
tra i bolscevichi passò il singhiozzo
della cupa oppressione e dalle viscere li sconvolse.
Come e quando Lenin si spense?

Sulle strade e sui vicoli
navigava il Grande Teatro.
Simile a un catafalco.

La gioia si ritira come una lumaca.
Follemente corre il terrore. Nè sole nè ghiaccio,
soltanto neve nera,
nera che penetra ogni cosa
attraverso la carta dei giornali.

La notizia colpì l’operaio al tornio
come una fucilata;
come un bicchiere rovesciato di colpo sulla macchina
furono le sue lacrime.
E i contadini
che cento volte la morte
avevano fissato negli occhi,
si vergognavano del pianto davanti alle donne,
ma li tradiva l’impronta
della mano terrosa sulla guancia.

E lui che portano alla stazione
per la città che egli strappò ai signori.
La strada come un’aperta ferita
tanto dolore e in essa e tanto geme.
Qui ogni pietra conosce Lenin
fin dai primi furiosi assalti
dell’ottobre. Qui tutto ciò
di cui le bandiere sono simbolo
è stato pensato da Lenin. Qui ogni torre
ha udito la sua voce
e con lui sarebbe balzata nel fuoco. Qui
tutti gli operai conoscono Lenin:
a lui offrirono i cuori come rami di sempre verdi
gettati sulla via.

Egli guidava alla lotta prevedendo la vittoria,

egli portò i proletari al potere.
Qui il contadino
scrisse il nome di Lenin nel suo cuore
con più venerazione
che per i santi del proprio paese
perchè Lenin
comandò di chiamare nostra la terra,
la terra che gli avi fustigati
sognavano ancora nella tomba.

lenin.jpgLenin

E’ qui riportata la pare dedicata alla morte di Lenin. Il poeta usa l’iperbole per descrivere il capo rivoluzionario e lo fa attraverso uno stile che potremo definire, più che futuristico, certamente epico. La successione dei versi, per lo più in successione paratattica, tuttavia, non fanno a meno di ardite similitudini:  La gioia si ritira come una lumaca oppure come un bicchiere rovesciato di colpo sulla macchina furono le sue lacrime a determinare sia il senso quasi d’incredulità, che quello di dolore, accompagnato tuttavia dalla consapevolezza di esser stati liberati. Sebbene sia Lenin il protagonista del poemetto, sono i bolscevichi ad essere in primo piano che accompagnano e piangono verso l’ultima dimora il loro eroe. 

LA GUERRA E’ DICHIARATA

«Edizione della sera! Della sera! Della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E sulla piazza, lugubremente listata di nero,
si effuse un rigagnolo di sangue purpureo!

Un caffè infranse il proprio muso a sangue,
imporporato da un grido ferino:
«Il veleno del sangue nei giuochi del Reno!
I tuoni degli obici sul marmo di Roma!»

Dal cielo lacerato contro gli aculei delle baionette
gocciolavano lacrime di stelle come farina in uno staccio,
e la pietà, schiacciata dalle suole, strillava:
«Ah, lasciatemi, lasciatemi, lasciatemi!»

I generali di bronzo sullo zoccolo a faccette
supplicavano: «Sferrateci, e noi andremo!»
Scalpitavano i baci della cavalleria che prendeva commiato,
e i fanti desideravano la vittoria-assassina.

Alla città accatastata giunse mostruosa nel sogno
la voce di basso del cannone sghignazzante,
mentre da occidente cadeva rossa neve
in brandelli succosi di carne umana.

La piazza si gonfiava, una compagnia dopo l’altra,
sulla sua fronte stizzita si gonfiavano le vene.
«Aspettate, noi asciugheremo le sciabole
sulla seta delle cocottes nei viali di Vienna!»

Gli strilloni si sgolavano: «Edizione della sera!
Italia! Germania! Austria!»
E dalla notte, lugubremente listata di nero,
scorreva, scorreva un rigagnolo di sangue purpureo.

Poesia  nella quale Majakovskij contrappone all’eccitazione per la guerra la sua inaudita barbarie. Si osservi con quanta capacità agli strilli iniziali dei banditori di riviste risponda il rigagnolo di sangue, la ferinità del popolo che schiaccia la libertà sotto le scarpe e ancora le immagini delle baionette, brandelli di carne per terminare con il lancinante scorrere di sangue. Quanto lontana “la guerra sola igiene del mondo” di marinettiana memoria! Qui Majakovskij vuole denunciare come dietro ogni guerra ci siano interessi imperialistici e lo fa con una serie d’incredibili analogie attraverso le quali, con forza invitano ad una lettura politica del testo, dedicata cioè a quel popolo che non deve ancora una volta cadere nella trappola che il potere, generalmente parlando, gli ha preparato.

Guardias_Rojos_junto_al_palacio_de_invierno,_otoño_de_1917.jpgLe guardie rosse al palazzo d’inverno

Velimir Chlebnikov
Altro importantissimo poeta russo futurista è Velimir Chlebnikov (1885 – 1922). Laureato in matematica egli è il teorizzatore dello zaum, tecnica attraverso la quale si riesce a creare nuove parole e nuovi suoni frutto di un processo mentale (transmentale) che egli associa alla logica cognitiva matematica. “Poeta per i poeti” come lo definì Majakovskji fece una vita errabonda e nomade, finendo per morire in giovane età per l’avvenuta paralisi e inedia.

IMPARARE LE PAROLE

Preposto al servizio delle stelle,
io giro, come una ruota,
che s’invola all’istante sull’abisso,
che finisce sull’orlo del precipizio,
io imparo le parole.

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Come possiamo notare da questo brevissimo testo il poeta, al servizio dell’immaginazione, in uno spazio che varia sull’abisso e sul suo limite cerca e impara parole nuove per il suo nuovo dettato poetico (processo transmentale).

BOBEÒBI SI CANTAVANO LE LABBRA

Bobeòbi si cantavano le labbra
Veeòmi si cantavano gli sguardi
Pieéo si cantavano le ciglia.
Lieeéi si cantava l’aspetto
Gsì gsì gséo si cantava la catena.
Così, sulla tela di alcune corrispondenze
fuori della continuità viveva il Volto.

Poesia del 1909, in anticipo sullo schiaffo ma proprio per questo assolutamente geniale: sentiamo in essa un’eco simbolista, determinata dall’idea di corrispondenze di baudeleriana memoria cui corrispondono suoni dell’alfabeto russo (qui, chiaramente non riprodotti) associati a parti del volto allo stesso modo con cui Rimbaud si riferiva a suoni vocalici associati ad immagini, il tutto riportato all’interno di una scomposizione del volto che sembra a sua volta rimandare alle esperienze dell’avanguardia pittorica cubista di Picasso. In un breve testo l’intera rivoluzione culturale del Novecento.  

Dadaismo

Il dadaismo nasce a Zurigo nel ’16 da Tristan Tzara. Questo movimento si caratterizza per il rifiuto della politica ed il rifiuto del modernismo.

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MANIFESTO DADA

Per lanciare un manifesto bisogna volere: A, B, C, scagliare invettive contro 1, 2, 3, eccitarsi e aguzzare le ali per conquistare e diffonder grandi e piccole a, b, c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta, irrifiutabile, dimostrare il proprio non-plus-ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri l’essenza di Dio.

Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono contro i principi (misurini per il valore morale di qualunque frase). Scrivo questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contradittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non sono né favorevole né contrario e non dò spiegazioni perchè detesto il buon senso.

DADA non significa nulla.

Se lo si giustifica futile e non si vuol perdere tempo per una parola che non significa nulla. Il primo pensiero che ronza in questi cervelli è di ordine batteriologico: trovare l’origine etimologica, storica, o per lo meno psicologica. Si viene a sapere dai giornali che i negri Kru chiamano la coda di una vacca sacra DADA. Il cubo e la madre di non so quale regione italiana: DADA. Il cavallo a dondolo, la balia, doppia conferma russa e romena: DADA. Alcuni giornalisti eruditi ci vedono un arte per i neonati, per latri santoni, versione attuale di Gesùcheparlaaifanciulli, è il ritorno ad un primitivismo arido e chiassoso, chiassoso e monotono. Non si può costruire tutta la sensibilità su una parola, ogni costruzione converge nella perfezione che annoia, idea stagnante di una palude dorata, prodotto umano relativo.

L’opera d’arte non deve rappresentare la bellezza che è morta. Un’opera d’arte non è mai bella per decreto legge, obiettivamente, all’unanimità. La critica è inutile, non può esistere che soggettivamente, ciascuno la sua, e senza alcun carattere di universalità. Si crede forse di aver trovato una base psichica comune a tutta l’umanità? Come si può far ordine nel caos di questa informa entità infinitamente variabile: l’uomo? Parlo sempre di me perché non voglio convincere nessuno, non ho il diritto di trascinare gli altri nella mia corrente, non costringo nessuno a seguirmi e ciascuno si fa l’arte che gli pare.

Così nacque DADA da un bisogno d’indipendenza. Quelli che dipendono da noi restano liberi. Noi non ci basiamo su nessuna teoria. Ne abbiamo abbastanza delle accademie cubiste e futuriste: laboratori di idee formali: Forse che l’arte si fa per soldi e per lisciare il pelo dei nostri cari borghesi? Le rime hanno il suono delle monete. Il ritmo segue e il ritmo della pancia vista di profilo.

Tutti i gruppi di artisti sono finiti in banca, cavalcando differenti comete. Una porta aperta ha la possibilità di crogiolarsi nel caldo dei cuscini e nel cibo. Il pittore nuovo crea un mondo i cui elementi sono i suoi stessi mezzi, un’opera sobria e precisa, senza oggetto. L’artista nuovo si ribella: non dipinge più (riproduzione simbolica e illusionistica) ma crea direttamente con la pietra, il legno, il ferro, lo stagno, macigni, organismi, locomotive che si possono voltare da tutte le parti, secondo il vento limpido della sensazione del momento.

Qualunque opera pittorica o plastica è inutile; che almeno sia un mostro capace di spaventare gli spiriti servili, e non la decorazione sdolcinata dei refettori degli animali travestiti da uomini, illustrazioni della squallida favola dell’umanità .Un quadro è l’arte di fare incontrare due linee, parallele per constatazione geometrica, su una tela, davanti ai nostri occhi, secondo la realtà di un mondo basato su altre condizioni e possibilità. Questo mondo non è specificato, né definito nell’opera, appartiene alle sue innumerevoli variazioni allo spettatore.

La spontaneità dadaista.

L’arte è una cosa privata. L’artista lo fa per se stesso. L’artista, il poeta, apprezza il veleno della massa che si condensa nel caporeparto di questa industria. E’ felice quando si sente ingiuriato: una prova della sua incoerenza. Abbiamo bisogno di opere forti, dirette e imcomprese, una volta per tutte. La logica è una complicazione. La logica è sempre falsa. Tutti gli uomini gridano: c’è un gran lavoro distruttivo, negativo da compiere: spazzare, pulire. Senza scopo né progetto alcuno, senza organizzazione: la follia indomabile, la decomposizione. Qualsiasi prodotto del disgusto suscettibile di trasformarsi in negazione della famiglia è DADA; protesta a suon di pugni di tutto il proprio essere teso nell’azione distruttiva: DADA; presa di coscienza di tutti i mezzi repressi fin’ora dal senso pudibondo del comodo compromesso e della buona educazione: DADA ; abolizione della logica; belletto degli impotenti della creazione: DADA ; di ogni gerarchia ed equazione sociale di valori stabiliti dai servi che bazzicano tra noi: DADA ; ogni oggetto, tutti gli oggetti, i sentimenti e il buoi, le apparizioni e lo scontro inequivocabile delle linee parallele sono armi per la lotta: DADA ; abolizione della memoria: DADA ; abolizione dell’archeologia: DADA ; abolizione dei profeti: DADA ; abolizione del futuro: DADA ; fede assoluta irrefutabile inogni Dio che sia il prodotto immediato della spontaneità: DADA .”

74.49-d1-2_o2.jpgTristan Tzara

Egli è animato dall’idea che l’arte sia un prodotto cosmopolita concepito in chiave ludica. L’arte, infatti, per Tzara, è il prodotto della spontaneità, della primitività creatrice, della libertà, dell’attimo immediato e aleatorio. Ciò porta l’artista dada a rifiutare qualsiasi logica dell’espressione e della comunicazione (dada, infatti, non significa nulla). Pertanto i prodotti artistici sono frutto di giochi verbali, onomatopee, non sense. Essi cioè rendono attuale l’idea della “sregolatezza” di Rimbaud: per questo più che le opere artistiche sono importanti i gesti provocatori.

PER FARE UNA POESIA DADAISTA

Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia lunghezza
che voi dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo
E mettete tutte le parole in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nel-
l’ordine con cui le estrarrete.
Copiatele coscienziosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e
fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, in-
compresa dalla gente volgare.

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E’ una poesia programmatica, cioè una poesia nella quale Tzara illustra il modo attraverso cui costruire un testo. Dice il critico delle avanguardie storiche De Micheli riguardo a Per fare una poesia dadaista, che essa rappresenta: “l’aspirazione dei dadaisti verso una società che non fosse soggetta alle regole stabilite da una società sgradevole e nemica dell’uomo: regole politiche, morali, ma anche artistiche. Questa poetica infine era ancora un “gesto”, apparteneva a quei modi energici, intransigenti, esclusivi coi quali Dada dava battaglia alla mentalità piccolo borghese, accademica, codina, che s’annidava spesso anche tra quegli artisti che si credevano all’avanguardia”

Il surrealismo nasce in Francia nel ’24 e dichiara, nel suo primo manifesto, il rifiuto per ogni tipo di realismo.

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MANIFESTO DEL SURREALISMO

La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l’antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la MASSIMA LIBERTA’ dello spirito. Sta a noi non farne cattivo uso. Ridurre l’immaginazione in schiavitù, fosse anche a costo di ciò che viene chiamato sommariamente felicità, è sottrarsi a quel tanto di giustzia suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi. La sola immaginazione mi rende conto di ciò che PUO’ ESSERE,  e questo basta a togliere un poco il terribile interdetto; basta, anche, perchè io mi abbandoni ad essa senza paura di essere tratto in inganno (come se fosse possibile un inganno maggiore). Dove comincia a diventare nociva e dove si ferma la sicurezza dello spirito? Per lo spirito, la possibiltà di errare non è piuttosto la contingenza del bene?

Resta la follia, la follia “da rinchiudere”, come è stato detto giustamente. Questa o l’altra…Ognuno sa infatti che i pazzi devono il loro internamento ad un certo numero di azioni legalmente reprensibili, e che, in mancanza di queste azioni, la loro libertà (quello che si può vedere della loro libertà) non può essere messa in causa. Che essi siano, in qualche misura, vittime della loro immaginazione, sono pronto a concederlo, nel senso che essa li spinge all’inosservanza di certe regole, fuori delle quali il genere si sente leso, come ogni uomo sa a proprie spese. Ma il profondo distacco che dimostrano nei confronti della nostra critica e persino dei diversi castighi che vengono loro inflitti, lascia supporre che attingano un grande conforto dall’immaginazione, che apprezzino abbastanza il loro delirio per sopportare che sia valido soltanto per loro. E, in effeti, le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti………

Viviamo ancora sotto il regno della logica: questo, naturalmente, è il punto cui volevo arrivare. ma ai giorni nostri, i procedimenti logici non si applicano più se non alla soluzione di problemi di interesse secondario. Il razionalismo assoluto che rimane di moda ci permette di considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici, invece, ci sfuggono. Inutile aggiungere che l’esperienza stessa si è vista assegnare dei limiti. Gira dentro una gabbia dalla quale è sempre più difficile farla uscire. Anch’essa poggia sull’utile immediato, ed è sorvegliata dal buon senso. In nome della civiltà, sotto pretesto di progresso, si è arrivati a bandire dallo spirito tutto ciò che, a torto o a ragione, può essere tacciato di superstizione, di chimera; a proscrivere qualsiasi modo di ricerca della verità che non sia conforme all’uso. Si direbbe che si debba a un caso fortuito se di recente è stata riportata alla luce una parte del mondo intellettuale, a mio parere di gran lunga la più importante, di cui si ostentava di non tenere più conto. Bisogna rendere grazie alle scoperte di Freud. In forza di queste scoperte, si delinea finalmente una corrente d’opinione grazie alla quale l’esploratore umano potrà spingere più avanti le proprie investigazioni, sentendosi ormai autorizzato a non considerare soltanto le realtà sommarie. L’immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti……….

L’uomo propone e dispone. Sta soltanto in lui appartenersi interamente, cioè mantenere allo stato anarchico la banda di giorno in giorno più temibile dei suoi desideri. La poesia glielo insegna. Essa porta in se il compenso perfetto delle miserie che sopportiamo. Può essere anche un’ordinatrice se soltanto, sotto il colpo di una delusione meno intima, ci lasciamo andare a prenderla sul tragico. Venga un tempo in cui essa decreti la fine del denaro e spezzi da sola il pane del cielo per la terra! Ci saranno ancora delle assemblee sulle pubbliche piazze, e dei MOVIMENTI cui non avete sperato di prendere parte. Addio selezioni assurde, sogni d’abisso, rivalità, lunghe pazienze, fuga delle stagioni, ordine artificiale delle idee, rampa del pericolo, tempo per tutto! Che ci si dia soltanto la pena di PRATICARE la poesia. Non sta a noi, che già ne viviamo, cercare di far prevalere quel che ci sembra di essere riusciti a scoprire fin qui!………..

Soupault ed io designammo col nome di SURREALISMO il nuovo modo di espressione pura che avevamo a nostra disposizione, e che eravamo impazienti di trasmettere ai nostri amici. Credo che oggi non sia più necessario tornare su questa parola………..

Bisognerebbe essere in mala fede per contestare il diritto che abbiamo di usare la parola SURREALISMO nel senso particolararissimo in cui l’intendiamo perchè è chiaro che prima di noi questa parola non aveva avuto fortuna. La definisco dunque una volta per tutte.

SURREALISMO, n. m. Automatismo tipico puro col quale ci si propone di esprimere, sia verbalmete, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.

ENCICL. Filos. Il surrealismo si fonda sull’idea di un grado di realtà superiore connesso a certe forme d’associazione finora trascurate, sull’onnipotenza del sogno, sul gioco disinteressato del pensiero. Tende a liquidare definitivamente tutti gli altri meccanismi psichici e a sostituirsi ad essi nella risoluzione dei principali problemi della vita. Hanno fatto atto di SURREALISMO ASSOLUTO Aragon, Baron, Boiffard, Breton, Carrive, Crevel, Delteil, Desnos, Eluard, Gérard, Limbour, Malkine, Morise, Naville, Noll, Péret, Picon, Soupault e Vicrat.”

A-picture-of-André-Breton..jpgAndré Breton

Dal manifesto si evince che il surrealismo nega qualsiasi rapporto con la razionalità; viene infatti reciso ogni legame logico frutto di un pensiero determinato. Esso, sottolineando l’importanza della scoperta dell’inconscio da parte di Freud, intende l’arte come registrazione dei moti psichici inconsci dell’individuo (artista), infatti vede l’inconscio come il luogo dell’autentico, della libertà, dell’assenza delle contraddizioni e tesoro d’immagini e associazioni assolutamente originali. In questo senso il surrealismo elabora, per la letteratura, il concetto di scrittura automatica. Tuttavia essa non ha nulla a che fare con il non-sense dadaista: l’autore surrealista ha coscienza che le parole hanno un senso, suo compito sarà quello di conservarlo e rendere “visionariamente” intuibile l’inconscio del poeta.

Non è un caso che il suo fondatore André Breton (1896 – 1966) ebbe con la neuropsichiatria una fecondo rapporto: studiata all’Università di Parigi, durante la guerra prestò servizio presso ospedali di psichiatrici. La sua intuizione fu quella di coniugare la dissociazione psichica ed il flusso di coscienza alle avanguardie culturali del tempo, fondando appunto, insieme ad altri intellettuali francesi, il movimento del surrealismo. 

Predicando in un certo qual modo la piena libertà d’espressione e quindi il concetto più esteso, se si vuole, della libertà, il movimento non poteva non avere rapporti con i movimenti politici, ma furono rapporti sempre difficili. Breton si iscrisse al Partito Comunista, ma ne uscì nel 1933.

LA STRADA DI SAN ROMANO

La poesia si fa in un letto come l’amore
le sue lenzuola sfatte sono l’aurora delle cose
la poesia si fa nei boschi

Ha lo spazio che le occorre
non questo ma quello che condizionano

                    l’occhio del nibbio
                    la rugiada sull’equiseto
                    il ricordo di una bottiglia di Traminer appannata su un vassoio d’argento
                    un’alta colonna di tormalina sul mare
                    e la strada dell’avventura mentale
                    che sale a picco
                    si ferma e subito s’ingarbuglia

Non è cosa da gridare dai tetti
È sconveniente lasciare la porta aperta
o chiamare dei testimoni

                    I banchi di pesci le siepi di cinciallegre
                    i binari all’entrata di una grande stazione
                    i riflessi delle due rive
                    i solchi del pane
                    le bolle del ruscello
                    i giorni del calendario
                    l’iperico

l’atto d’amore e l’atto poetico
sono incompatibili
con la lettura del giornale ad alta voce

                    Il senso del raggio di sole
                    il luccichio azzurro che rilega i colpi d’ascia del taglialegna
                    il filo dell’aquilone a forma di cuore o di nassa
                    il battito ritmico della coda dei castori
                    la diligenza del lampo
                    il lancio di confetti dall’alto di vecchie scalininate
                    la valanga

La camera degli incantesimi
no signori non si tratta dell’ottava Camera
né dei vapori della camerata la domenica sera

                    Le figure di danza eseguite in trasparenza sopra gli stagni
                    la delimitazione di un corpo di donna contro il muro al lancio dei coltelli
                    le volute chiare del fumo
                    la curva della spugna delle Filippine
                    le gemme del serpente corallo
                    il varco dell’edera tra le rovine
Lei ha tutto il tempo davanti a sé

La stretta poetica come la stretta carnale
finché dura
impedisce le prospettive di miseria del mondo

11216632_photo-portable-jj-004.jpgJerome Brian: ritratto di André Breton

Il testo poetico inizia con un enunciazione associando l’atto creativo come atto erotico. E’ evidente come la scoperta surrealista di Freud debba in qualche modo necessariamente riferirsi al sesso. Circolarmente la poesia, come detto inizia con l’immagine di poesia simile ad un atto sessuale  (La poesia si fa in un letto come l’amore le sue lenzuola sfatte sono l’aurora delle cose la poesia si fa nei boschi) e finisce nel ribadire l’identità dell’atto poetico con lo stesso atto fisico La stretta poetica come la stretta carnale finché dura impedisce le prospettive di miseria del mondo). Al centro lo spazio poetico/sessuale frutto di una potente immaginazione individuale che rinnega la razionalità o qualsiasi riferimento al reale, descritto attraverso un rapporto di pura e sola analogia,  (l’atto d’amore e l’atto poetico sono incompatibili con la lettura del giornale ad alta voce… impedisce le prospettive del mondo) infatti l’atto d’amore e poetico non si delimitano spazialmente né temporalmente (ha lo spazio che le occorre… ha tutto il tempo davanti a sé), ma hanno come confini soltanto l’onirico. 

Paul_Eluard_1.jpgPaul Éluard

Il più grande poeta surrealista, per meglio dire le migliori raccolte poetiche L’amour de la poésie e Capitale de la dolueur nate all’interno di questo movimento appartengono a Paul Éluard, pseudonimo di Eugéne Grindel (1895 – 1952). La sua particolarità sta nella ricerca di una limpidezza stilistica dettata dalla ricerca di un’espressività immediata, senza per questo rinnegare o tradire il senso della complessità del reale e del profondo dell’individuo. La semplicità in Éluard è figlia della sua fiducia nella vita che si traduce nell’amore, capace di sconfiggere la solitudine e il senso d’alienazione. L’incontro con la donna rappresenta infatti l’apertura verso un mondo altro in cui si ci conosce/scopre a vicenda, alla ressemblance, dice Éluard che scoperta della somoglianza che ci conduce alla fedeltà dell’amore. Questo è quello che si evince nella poesia che segue:

LA CURVA DEI TUOI OCCHI

La curva dei tuoi occhi intorno al cuore
ruota un moto di danza e di dolcezza,
aureola di tempo, arca notturna e fida
e se non so più quello che ho vissuto
è perchè non sempre i tuoi occhi mi hanno visto.

Foglie di luce e spuma di rugiada
canne del vento, risa profumate,
ali che il mondo coprono di luce,
navi che il cielo recano ed il mare,
caccia dei suoni e fonti dei colori,

profumi schiusi da una cova di aurore
sempre posata su paglia degli astri,
come il giorno vive di innocenza,
così il mondo vive dei tuoi occhi puri
e va tutto il mio sangue in quegli sguardi.

67544.HR.jpgPaul Éluard e Gala (musa dei surrealisti)

E’ nella capacità di guardarsi, sembra dirci il poeta, che c’è vita, perché si è vicini. Il tutto descritto con un rapimento sensoriale di cui testimonianza sono le sinestesie e le iperboli. 

La presenza di una forte tradizione classicista cui corrisponde la mancanza di una cultura del mistero e dell’inesprimibile come nel romanticismo nordico, hanno fatto sì che le avanguardie letterarie improntate sul gioco combinatorio e sul non sense (il dadaismo) e sulla pura espressione dell’inconscio non trovarono terreno stabile nella cultura italiana, ma influenzarono pochi autori che, suggestionati o meno che fossero, produssero, intorno agli anni ’30, opere che potremo definire “surrealiste”. Non è un caso che i due più rappresentativi autori che si avvicinarono all’avanguardia di André Breton, Alberto Savinio e Tommaso Landolfi, furono piuttosto isolati.

Andrea_de_Chirico.jpgAlberto Savinio

Alberto Savinio (1891 – 1952), fratello del famoso pittore metafisico Giorgio De Chirico, si dedicò, grazie anche a frequentazioni francesi, a rifondare le arti in genere a partire dalla musica (aveva studiato pianoforte ad Atene, dov’era nato) dando vita al “sincerismo” basato sulla non-armonia. Fu anche un prolifico autore, inaugurando il genere onirico-grottesco con il testo teatrale francese Les chants de la mi-mort. A livello pittorico  partecipò insieme al fratello alla scuola metafisica, collaborando alla rivista Valori plastici. In Italia scrisse per la La voce e La Ronda.

DOMESTICA SELVA

La stampa di tutta Europa ha salutato nel dottor Eleuterio Mikalis, il primo “nudista” in ordine di tempo. Di passaggio nella capitale della Grecia, mi punse vaghezza di conoscere di persona un uomo così pittorescamente famoso. Ignoro in quale ramo dello scibile Eleuterio Mikalis fosse addottorato, posso attestare per converso che questo signore è costumatissimo e preciso. Gli spedii la mia lettera con l’ultima levata di giovedì, l’indomani ricevei la risposta del “dottor” che m’invitava a casa sua per il pomeriggio tardo.
Mi preparai a quella visita come a un convegno d’amore. Non mancava neppure il dubbio pungente, che il nostro incontro si avesse a risolvere in una bolla di sapone. “In via del Pireo di fronte al Conservatorio” precisava la lettera cortese.
Il pomeriggio era estivamente caldo. Le finestre del Conservatorio esalavano un fiato sonoro. Vi si mischiavano gli accordi scattanti di una polacca di Chopin, i liquidi arpeggi di un concerto di Saint-Saëns, una catarrosa scala cromatica, che un invisibile trombone tirava giù a stento.
Stavo per chiedere l’ascensore al portiere gallonato come un generale e seduto maestosamente nella guardiola di vetro, ma non so quale istinto di difesa mi suggerì di preferire le scale, sia per studiare attentamente la zona d’operazioni, sia per guardarmi le spalle, sia per prepararmi all’eventualità di una fuga.
L’aspetto era quello degli immobili adibiti ad uffici nei piani inferiori, ad abitazioni negli altri. Muri rivestiti a statura d’uomo di mattonelle bianche, porte prive di mistero che davano, questa nello studio legale dell’avvocato Spiridione Papanastassiu, quella nell’ufficio dell’ingegnere Protopapadakis, rappresentante di una ditta di pompe e stadere, quell’altra nella clinica di Sofrosine Koromilàs, levatrice patentata. Ma via via che m’inalzavo sul livello stradale, le porte diventavano sempre più gelose del segreto domiciliare. Dal terzo piano in su, le targhe rivelavano ancora un nome e un cognome, ma sulla professione e qualità serbavano il più rigoroso silenzio. Sul pianerottolo supremo, mi trovai faccia a faccia con un usciolino senza nome, contrassegnato dal numero tredici.
Un servo pelato come una pillola m’introdusse dentro una stanza adibita a studio, dal fondo della quale il dottor Mikalis mi mosse incontro con glaciale affabilità. Questi mi si mostrò come un signore barbuto e severamente vestito di nero, ma superata la prima impressione, mi avvidi che sotto il suo vestito “naturale”, Eleuterio Mikalis era completamente nudo.
«E’ per la foresta?» domandò il dottore, e alla mia risposta affermativa accennò una porticina che si apriva tra due rami dell’ampia biblioteca.
«Si rinfili il soprabito» mi consigliò il dottore. «Tenga pure il cappello in testa».
«E lei?»
«Io sono abituato».
Nel corridoio spirava un’arietta di campagna.
«Cominciamo dall’orto» annunciò il dottore, e in così dire aprì una porticina verde. Fave, piselli, fagiolini, scorzonere, ravanelli, pastinache, navone, barbe di prete, stavano schierati in bell’ordine. Stuoie e rompiventi riparavano le pianticelle più delicate. Uno spaventapasseri dominava l’esercito vegetale.
«Rende bene?».
«Rifornisco il mercato della Capnicaréa. Ma lo scarabeo melolonte, che malanno!».
«Immagino che avrà pure da combattere i bruchi, le formiche, i ratti traponi…».
Ma già il dottore era passato nel frutteto, e abbracciando con largo gesto la pomifera distesa dei peri, dei ciliegi ramosi, dei pruni, dei nespoli, delle spiree, disse: «Sto procedendo alla spampinazione».
Levai gli occhi al soffitto: pitture a fresco, illustravano l’ingresso di Alcide nel giardino delle Esperidi.
«Come lei vede», commentò il dottore, «la pittura quassù è altrettanto scadente quanto nel mondo onde lei proviene». E accennò col dito fuori dalla finestra.
Seguii con gli occhi il dito del dottore, nella via del Pireo una lunga fila di funghi lucidi e neri correvano con agitazione.
«Piove!» esclamai.
«Non importa,» rispose Mikalis «qui c’è il “mio” sole».
Infatti, una luce dorata brillava sulle foglie increspate delle lattughe, e nei roseti di un giardino all’italiana usignoli e cardellini gorgheggiavano a gara.
«Ora cominciano le foreste» disse il dottore con una certa quale solennità, e aprì una porticina bianca che dava su un prato sparso di gigli.
Feci per entrare: Mikalis mi fermò.
«Qui non si entra». Mostrò una membrana tesa nel telaio dell’uscio, ma così sottile e trasparente che a tutta prima non l’avevo notata.
«Questa» soggiunse il dottore nel richiudere con delicatezza la porticina bianca «è la foresta vergine».
La luce si andava velando. Una sottile ramificazione elettrica si spargeva nell’aria. Questa si appesantiva sulla foresta di abeti. La selva ronzava di armonie wagneriane. Un uccello cantava con voce di soprano.
«Vuole imbarcarsi?» domandò il dottore, e accennò una canoa ammarata alla riva di un ruscello. Ma io ricusai e continuammo a camminare. Le trombe delle automobili, lo scampanio dei tram si affievolivano nel lontano.
Traversammo una foresta di pini. Buttai un occhio fuori dalla finestra. Non so perché, pensai che era il mio ultimo sguardo al mondo degli uomini. Le prime luci si accendevano nella via del Pireo. Brillavano le finestre del Conservatorio. Volevo non staccarmi da quelle luci. Ma già le finestre «vere» cedevano il passo alle finestre finte. Il fischio del vento nei pini, annunziava il temporale. Le cornacchie fuggivano a frotte con volo basso. Un corvo solitario sparì, in alto fra i nembi del soffitto.
Mikalis mi procedeva. Camminava curvo per tenere testa alla bufera. Il vento curvava le cime dei cipressi, agitava l’argento dei pioppi, piegava gli arbusti, suscitava crisi isteriche nei canneti che fremevano di rabbia e scotevano la barba.
Mi tirai su il bavero, mi calcai il cappello in testa. Pensavo che là, a due passi, dietro quelle finestre «false» ci fosse la città, le luci, le vetrine, i negozi, i caffè, la gente, i veicoli, le guardie, la sicurezza. I primi lampi guizzavano lontano, sotto l’infoschito soffitto delle stanze forestali. Un vasto brontolìo di tuono si mischiava all’urlo crescente del vento. Bisognava parlare, ma che dire? Mikalis camminava davanti, senza curarsi di me. Era il caso di profittare della frase più stupida: «La manutenzione di questa foresta le costerà un occhio?»
«No, qui le piante crescono spontaneamente. E’ stata una fortuna trovare nel cuore di Atene e coi tempi che corrono, una casa come questa. La qualità stessa dei pavimenti è favorevole allo sviluppo degli alberi più robusti, dei giganti della foresta».
In così dire m’indicò nel mezzo della stanza  una quercia enorme che traeva le radici dagli spacchi del piantito, spandeva i rami nodosi sotto il soffitto a volta e tutto lo copriva col vasto fogliame.
«Questo temporale, lei, dottore, lo può regolare a volontà».
«No!» gridò il dottore. «Ho raccolto la natura intera nella mia casa, ma questo tour de force ha qualche svantaggio, sugli elementi non ho la più piccola autorità. spero più tardi di riuscire a dominarli, ma per ora sono gli elementi che dominano me».
Un lampo mi accecò, uno spaventoso fragore mi percosse lo stomaco.
Il dottore non c’era più. La voce di mio padre, morto vent’anni prima, mi chiamava da una stanza vicina.
Era deserta: abitata da una quercia solitaria, che l’uragano squassava e il bagliore delle saette rischiarava sinistramente.
La voce chiamava da un’altra stanza, sempre più lontana. Io correvo per quella fuga di stanze tutte uguali, tutte abitate da una quercia solitaria, in mezzo alla bufera, dietro la voce di mio padre, morto vent’anni fa…

Preoccupato della mia sparizione, il console italiano iniziò le ricerche in collaborazione con la questura locale. Mi trovarono ai piedi di una quercia. Il temporale si era placato. Un sole radioso illuminava la foresta del dottor Mikalis. Ero svenuto ma salvo.

alberto-savinio-pensiero-azione-olio-su-tela-828x1024.jpgAlberto Savinio: Pensiero e azione

Il racconto presenta un andamento tipico del “surrealsmo” di Savinio: inizio realistico (dimora normale per un incontro apparentemente normale) quindi, piccole “incongruenze” quasi casuali: una porta con un numero (come faceva il protagonista ha sapere che quella era la porta, mancando un nome?), un servo pelato come una pasticca (descrizione certo non abituale) l’uomo lo riceve in abito nero ma sotto è nudo (chi di noi sotto gli abiti non è nudo?). Il fatto è che Savinio dissemina indizi che possono apparire insignificanti ma che ci portano verso, dopo l’apertura di una porta, l’esplosione della fantasia, certamente di tipo onirico, senza venir meno mai ad un linguaggio ricercato (si pensi alla nomenclatura vegetale così precisa). La capacità che dopo tale esplosione, sempre all’interno del sogno, emerge con forza la psicoanalisi, con questa figura paterna che lo chiama da lontano e che lui rincorre. Come chiude? Non chiude: il lettore non sa se si sia svegliato (ma sarebbe irreale) o se ancora sogna un sogno da sveglio.

Alberto-Savinio-Autoritratto-come-gufo-1936-tempera-e-cartoncino-su-carta-applicato-su-compensato-cm-50x70.-GAM-Torino.jpgAlberto Savinio: Autoritratto come fugo

Tommaso Landolfi, nato a Pico Farnese, in provincia di Frosinone nel 1908, si laureò in Lingua e Letteratura russa all’Università di Firenze. Alla collaborazione con diverse riviste e quotidiani, tra cui «Il Mondo» e il «Corriere della Sera», affiancò l’attività di traduttore dal russo, dal tedesco e dal francese, traducendo, tra gli altri, Gogol’, Pusˇkin, Novalis, Hofmann sthal, la cui produzione gli offrì spunti importanti per la sua opera. Nel 1937 uscì la prima raccolta di racconti, Dialogo dei massimi sistemi. Il suo interesse per il mistero e il magico si rivelarono già nel primo romanzo, La pietra lunare (1939), dove si narra la vita di un piccolo centro di provincia nel quale si diffonde l’inquietante presenza della stregoneria. Seguirono diversi altri racconti tra il fantastico e il grottesco, tra i quali la novella gotica Racconto d’autunno (1947), il romanzo fantascientifico Cancroregina (1950), che racconta di un astronauta prigioniero in una capsula spaziale, e i Racconti impossibili (1966). Altre opere sono caratterizzate da una vena di orrore, come le raccolte Il Mar delle blatte (1939) e In società (1962), mentre prevalgono motivi autobiografici in La bière du pécheur (1953), Rien va (1963) e Des mois (1967). Fu anche poeta, critico letterario e drammaturgo. Evidente già dalle prime opere è il tema della vanità dell’agire umano, trattato con una apparente e spesso divertita leggerezza. La validità del suo lavoro venne riconosciuta da Eugenio Montale e da Italo Calvino, che ne curò una antologia nel 1982. Vinse il premio Strega nel 1975 con A caso. Morì a Roma nel 1979.

Tommaso-Landolfi.jpgTommaso Landolfi

IL RACCONTO DEL LUPO MANNARO

L’amico ed io non possiamo patire la luna: al suo lume escono i morti sfigurati dalle tombe, particolarmente donne avvolte in bianchi sudari, l’aria si colma d’ombre verdognole e talvolta s’affumica d’un giallo sinistro, tutto c’è da temere, ogni erbetta ogni fronda ogni animale, in una notte di luna. E quel che è peggio, essa ci costringe a rotolarci mugolando e latrando nei posti umidi, nei braghi dietro ai pagliai; guai allora se un nostro simile ci si parasse davanti! Con cieca furia lo sbraneremmo, ammenoché egli non ci pungesse, più ratto di noi, con uno spillo. E, anche in questo caso, rimaniamo tutta la notte, e poi tutto il giorno, storditi e torpidi, come uscissimo da un incubo infamante. Insomma l’amico ed io non possiamo patire la luna.
Ora avvenne che una notte di luna io sedessi in cucina, ch’è la stanza più riparata della casa, presso il focolare; porte e finestre avevo chiuso, battenti e sportelli, perché non penetrasse filo dei raggi che, fuori, empivano e facevano sospesa l’aria. E tuttavia sinistri movimenti si producevano entro di me, quando l’amico entrò all’improvviso recando in mano un grosso oggetto rotondo simile a una vescica di strutto, ma un po’ più brillante. Osservandola si vedeva che pulsava alquanto, come fanno certe lampade elettriche, e appariva percorsa da deboli correnti sotto pelle, le quali suscitavano lievi riflessi madreperlacei simili a quelli di cui svariano le meduse.
«Che è questo?» gridai, attratto mio malgrado da alcunché di magnetico nell’aspetto e, dirò, nel comportamento della vescica.
«Non vedi? Son riuscito ad acchiapparla…» rispose l’amico guardandomi con un sorriso incerto.
«La luna!» esclamai allora. L’amico annuì tacendo. Lo schifo ci soverchiava: la luna fra l’altro sudava un liquido ialino che gocciava di tra le dita dell’amico. Questi però non si decideva a deporla.
«Oh mettila in quell’angolo» urlai, «troveremo il modo di ammazzarla!»
«No», disse l’amico con improvvisa risoluzione, e prese a parlare in gran fretta, «ascoltami, io so che, abbandonata a se stessa, questa cosa schifosa farà di tutto per tornarsene in mezzo al cielo (a tormento nostro e di tanti altri); essa non può farne a meno, è come i palloncini dei fanciulli. E non cercherà davvero le uscite più facili, no, su sempre dritta, ciecamente e stupidamente: essa, la maligna che ci governa, c’è una forza irresistibile che regge anche lei. Dunque hai capito la mia idea: lasciamola andare qui sotto la cappa, e, se non ci libereremo di lei, ci libereremo del suo funesto splendore, giacché la fuliggine la farà nera quanto uno spazzacamino. In qualunque altro modo è inutile, non riusciremmo ad ammazzarla, sarebbe come voler schiacciare una lacrima d’argento vivo».
Così lasciammo andare la luna sotto la cappa; ed essa subito s’elevò colla rapidità d’un razzo e sparì nella gola del camino.
«Oh», disse l’amico «che sollievo! quanto faticavo a tenerla giù, così viscida e grassa com’è! E ora speriamo bene»; e si guardava con disgusto le mani impiastricciate.
Udimmo per un momento lassù un rovellio, dei fiati sordi al pari di trulli, come quando si punge una vescia, persino dei sospiri: forse la luna, giunta alla strozzatura della gola, non poteva passare che a fatica, e si sarebbe detto che sbuffasse. Forse comprimeva e sformava, per passare, il suo corpo molliccio; gocce di liquido sozzo cadevano friggendo nel fuoco, la cucina s’empiva di fumo, giacché la luna ostruiva il passaggio. Poi più nulla e la cappa prese a risucchiare il fumo.
Ci precipitammo fuori. Un gelido vento spazzava il cielo terso, tutte le stelle brillavano vivamente; e della luna non si scorgeva traccia. Evviva urràh, gridammo come invasati, è fatta! e ci abbracciavamo. Io poi fui preso da un dubbio: non poteva darsi che la luna fosse rimasta appiattata nella gola del mio camino? Ma l’amico mi rassicurò, non poteva essere, assolutamente no, e del resto m’accorsi che né lui né io avremmo avuto ormai il coraggio d’andare a vedere; così ci abbandonammo, fuori, alla nostra gioia. Io, quando rimasi solo bruciai sul fuoco, con grande circospezione, sostanze velenose, e quei suffumigi mi tranquillizzarono del tutto. Quella notte medesima, per gioia, andammo a rotolarci un po’ in un posto umido nel mio giardino, ma così, innocentemente e quasi per sfregio, non perché vi fossimo costretti.
Per parecchi mesi la luna non ricomparve in cielo e noi eravamo liberi e leggeri. Liberi no, contenti e liberi dalle triste rabbie, ma non liberi. Giacché non è che non ci fosse in cielo, lo sentivamo bene invece che c’era e ci guardava; solo era buia, nera, troppo fuligginosa per potersi vedere e poterci tormentare. Era come il sole nero e notturno che nei tempi antichi attraversava il cielo a ritroso, fra il tramonto e l’alba.
Infatti, anche quella nostra misera gioia cessò presto; una notte la luna ricomparve. Era slabbrata e fumosa, cupa da non si dire, e si vedeva appena, forse solo l’amico ed io potevamo vederla, perché sapevamo che c’era; e ci guardava rabbuiata di lassù con aria di vendetta. Vedemmo allora quanto l’avesse danneggiata il suo passaggio forzato per la gola del camino; ma il vento degli spazi e la sua corsa stessa l’andavano gradatamente mondando della fuliggine, e il suo continuo volteggiare ne riplasmava il molle corpo. Per molto tempo apparve come quando esce da un’eclisse, pure ogni giorno un po’ più chiara; finché ridivenne così, come ognuno può vederla, e noi abbiamo ripreso a rotolarci nei braghi.
Ma non s’è vendicata, come sembrava volesse, in fondo è più buona di quanto non si crede, meno maligna più stupida, che so! Io per me propendo a credere che non ci abbia colpa in definitiva, che non sia colpa sua, che lei ci è obbligata tale e quale come noi, davvero propendo a crederlo. L’amico no, secondo lui non ci sono scuse che tengano.

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Con Landolfi ci muoviamo tra l’onirico ed il fantastico e questo l’ottiene attraverso un rovesciamento curioso, condotto qui in modo ironico: se i lupi mannari sono coloro che soffrono per la presenza della luna, qui è luna ad essere catturata per a sua volta subire le azioni dell’uomo. Ma quello che colpisce è che, come spesso avviene nei racconti dello scrittore laziale, egli accenna e non dice. Ci parla di due amici, ma non ci dice che sono lupi mannari, come non ci dice che ciò che è catturato è la luna. Se dovessimo leggerla con più attenzione potremo analizzare il rapporto tra i protagonisti, uomini tormentati, incapaci di accettare se stessi e le proprie manchevolezze, e la luna, personalizzazione simbolica dei loro incubi, di cui ci si può impadronire, ma non si può distruggere. 

 

PETRONIO ARBITRO

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Incisione con ritratto idealizzato di Petronio

Notizie biografiche

Di questo autore della letteratura latina non si sa quasi nulla. Testimonianze sulla vita di un certo Petronio, vissuto in età neroniana, ne abbiamo in Tacito, Plinio il Vecchio e Plutarco. Ma è soprattutto il primo a darci un ritratto che la maggior parte dei critici ritiene attendibile, infatti ci parla di un certo Petronio che “passava il giorno a dormire e di notte si dedicava ai propri impegni ed ai piaceri; e se altri erano stati elevati alla fama grazie alla propria laboriosità, costui vi era giunto grazie all’indolenza e non era considerato né un crapulone né un dissipatore”; quindi lo definisce un “raffinato gaudente”. Ci informa inoltre che, nonostante queste sue caratteristiche fu un bravo proconsole in Bitinia e, invece proprio per il suo essere un dandy ante litteram, fu accolto nella corte di Nerone. La sua disgrazia fu l’invidia di Tigellino che lo mise in cattiva luce tanto che l’imperatore lo imprigionò. Quindi ancora Tacito ci ricorda come fu costretto alla morte: “Tuttavia non si precipitò a suicidarsi, ma, dopo essersi tagliato le vene, come decise, fasciatele le apriva di nuovo e parlava con gli amici non di argomenti seri o tali da cercarvi gloria di stoico. E li ascoltava mentre parlavano non dell’immortalità e delle decisioni dei saggi, ma di poesie non impegnate e versi divertenti. Ad alcuni servi consegnò delle somme di denaro, altri li fece frustare. Andò a pranzo, si abbandonò al sonno, perché quella morte – che pure era obbligata – risultasse simile ad una accidentale. Nemmeno nelle postille testamentarie – cosa abituale per la maggior parte di coloro che cadono in disgrazia – volle adulare Nerone, Tigellino o qualche altro potente, anzi descrisse, nascondendole sotto i nomi di amasi e prostitute, le malefatte dell’imperatore, le violenze da lui inventate e, dopo aver apposto il suo sigillo, consegnò le sue carte a Nerone. Poi spezzò l’anello, perché non servisse in futuro a creare pericoli”.

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Guardia pretoriana a cui appartenne Tigellino

Che questo Petronio possa corrispondere all’autore dell’opera giunta a noi mutila, sembra attendibile; tale attendibilità nasce soprattutto dal fatto che i pochi codici a noi pervenuti recano come autore un Petronius Arbiter (elegantiae arbiter, lo definisce Tacito); ma anche lo stile della sua vita, nonché la modalità della sua morte appaiono così in linea con la sua opera che, in mancanza di ogni altra fonte più attendibile, non sembra inopportuno identificare il “personaggio” tacitiano con l’autore del Satyricon.

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Edizione del Satyricon del 1863

Datazione dell’opera

Che d’altra parte l’opera vada inserita nell’età neroniana, e quindi in linea con quanto afferma lo storico, ce lo dicono:

  1. I riferimenti precisi a nomi di personaggi, come gladiatori, liberti ed altri, vissuti nel tempo di Nerone;
  2. I riferimenti precisi ad opere coeve il Satyricon, come l’Apokolokintosis di Seneca ed il Bellum civile di Lucano;
  3. Le discussioni letterarie (Agamennone contro la decadenza dell’oratoria, Eumolpo contro la decadenza dell’eloquenza) che erano topoi di quell’età;
  4. L’ambientazione sembra riflettere quella di una città tipica del I° sec. d.C.

A questa datazione si contrappongono coloro che la ritengono più tarda perché:

  1. Alcuni termini “bassi” presenti nell’opera appaiono in testi databili II° o addirittura III° secolo d.C.
  2. Tacito, parlando del suo “personaggio” Petronio, non fa alcun riferimento all’opera da lui scritta.

D’altra parte si può rispondere a costoro che in Tacito vi è la stessa descrizione della morte di Seneca, ma anche di quest’autore non cita alcuna opera; i termini “bassi”, usati nel Satyricon corrispondono ad una vera e propria scelta stilistica dell’autore, che vuole rappresentare non il sermo cotidanius, usato da Orazio (cioè quel sermo usato dalle persone colte nella quotidianità), ma il sermo plebeius, parlato appunto dagli ignoranti e/o arricchiti.

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Pompei: una graeca urbs

Satyricon

Possiamo dividere il Satyricon in cinque blocchi narrativi:

  1. Le avventure di Encolpio, Ascilto e Gitone in una Graeca urbs (molto probabilmente Cuma o Pozzuoli);
  2. La cena di Trimalcione;
  3. Ritorno nella Graeca urbs dove Encolpio conosce Eumolpo ed Ascilto sparisce di scena;
  4. Sulla nave di Lica e Trifena;
  5. L’arrivo a Crotone.

Dai dati interni possiamo immaginare, o supporre, quali fossero gli antefatti: per meglio dire, forse, l’antecedente perduto aveva come argomento:

Encolpio, narratore della vicenda, studente squattrinato, durante la sua permanenza a Marsiglia, subisce la persecuzione del dio Priapo (dio della fecondità e del sesso), perché ha profanato i suoi templi e rivelato un culto misterico. Fuggito giunge in Italia e, dopo aver rapinato un tempio, viene condannato ad bestias (all’arena gladiatoria). Si salva per un terremoto o per il crollo dell’anfiteatro; quindi conosce Gitone, bellissimo fanciullo, ne fa il suo amasio, e scappano insieme verso sud. Vivono probabilmente un’avventura erotica con Trifena, cortigiana insaziabile, e Lica, mercante di schiavi. Di nuovo soli, fanno la conoscenza di Ascilto, un avventuriero che si rivela da subito un rivale in amore perché insidia il compiacente Gitone. I tre, insieme, arrecano disturbo alle cerimonie del dio Priapo, compiute dalla sacerdotessa Quartilla.

Inizia invece qui la narrazione pervenutaci, corrispondente, secondo la critica al XIV, XV e XVI capitolo:

Primo blocco:

Encolpio, Ascilto e Gitone si trovano in una città. Il primo frequenta Agamennone, un retore, con il quale ha una disputa sulla decadenza dell’oratoria.

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L’eloquenza a Roma

LA CORRUZIONE DELL’ELOQUENZA
(1, 1-9)

Num alio genere Furiarum declamatores inquietantur, qui clamant: “Haec vulnera pro libertate publica excepi; hunc oculum pro vobis impendi: date mihi ducem, qui me ducat ad liberos meos, nam succisi poplites membra non sustinent”? Haec ipsa tolerabilia essent, si ad eloquentiam ituris viam facerent. Nunc et rerum tumore et sententiarum vanissimo strepitu hoc tantum proficiunt ut, cum in forum venerint, putent se in alium orbem terrarum delatos. Et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa. Qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt quam bene olere qui in culina habitant. Pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. Levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet. Nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit. Nuper ventosa istaec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit? Ac ne carmen quidem sani coloris enituit, sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere. Pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit.

E’ forse un altro tipo di Furie quello che tormenta i declamatori, quiando gridano i loro proclami: «Queste ferite le ho assunte per la libertà dello Stato, quest’occhio per voi lo sacrificato; datemi una guida che mi conduca dai figli miei, perché i popliti, recisi, non reggono le membra?» Questi bei discorsi sarebbero in sé tollerabili, se almeno riuscissero a spianare agli allievi la via che porta all’eloquenza. Ora come ora, invece, tanto con l’enfasi dei temi che col baccano fraseologico assolutamente privo di significato, l’unico progresso che i ragazzi fanno è ch, al loro ingresso in tribunale, si credono trasferiti di peso su un altro pianeta. E perciò io penso che questi poveri ragazzi nelle scuole diventino altrettanti scemi patentati, perchè non si fa loro ascoltare o vedere niente che abbia rapporto con la realtà che ci è familiare: ma solo pirati in agguato sulla spiaggia con le catene in mano, solo tiranni nell’atto di vergare editti coi quali intimano ai figli di moxxare il capo del proprio padre, solo oracoli, emessi per far cessare una pestilenza, che prescrivono il sacrificio di tre vergini o anche più, solo parole come confetti dolciastri di miele e tutto, espressioni e contenuti, quasi asperso da una polvere di papavero e di sesamo. Chi vien pasciuto a forza di roba simile, non può avere buon gusto; non più di quanto può esalare un profumo gradevole chi sta in casa in cucina. Sia detto con vostra buona pace, siete stati voi la rovina prima dell’eloquenza. Volendo infatti dar corpo a qualche vostro capriccio fasntastico, con involucri verbali fatti d’aria e privi di contenuto, avete fatto del discorso una carcassa sfiancata e floscia. I giovani non erano ancora irretiti dalle declamazioni, quando un Sofocle o un Euripide  fondarono il modello di lingua con cui esprimersi, il maestro delle ombre non aveva ancora fatto strage di talenti, quando Pindaro e i nove lirici si peritarono a cantare in versi omerici. E, per non limitarmi alla testimonianza dei poeti, mi consta che di certo né Platone né Demostene si siano accostati a questo tipo di esercitazioni. La grande e, vorrei dire, virginale oratoria non ha chiazze di trucco né ampollosità posticce, ma si erge in alto mostrando un volto naturalmente bello. Non è molto che codesta garrulità albagiosa e senza misura si è traferita dall’Asia per prendere stanza ad Atene e, come con la forza di una cometa malefica, ha alitato sugli animi dei giovani che con slancio si preparavano a grandi traguardi: una volta corrotisi i principi, l’eloquenza romase inerte e senza voce. Insomma, dopo questa migrazione, chi è riuscito ad uguagliare la fama di un Tucidide, di un Iperide? e neppure nella poesia risplendette il colore della buona salute, ma tutte le produzioni poetiche, come sottoposte ad un medesimo regime alimentare, non arrivarono a metter su i capelli bianchi della vecchiaia. Anche la pittura non ebbe destino diverso, dopo che l’impudenza degli egittizzanti escogitò una scorciatoia stilistica per un’arte tanto grande.
(trad. A. Aragosti)

Ci troviamo nella scuola di retorica del maestro Agamennone. Encolpio discetta sulle cause della decadenza della poesia e della retorica, individuandole nella pratica scolastica di “declamare” cose fuori dalla realtà, formando così “scemi patentati”. Petronio gioca con il suo personaggio: infatti applica il doppio registro sia sull’oggetto della critica (in questo caso l’eloquenza) sia sul personaggio che la pronuncia (Encolpio). Quest’ultimo infatti, deprecando l’uso scolastico, lo fa mettendo in luce la stessa sua “preparazione” scolastica:  stile ampolloso e ridondante, stilemi forti, con i quali egli stesso critica chi fa “oratoria” utizzando tali mezzi. Ma come se non bastasse egli criticando lo stile, critica a sua volta i contenuti: ma, nel proseguo della lettura del romanzo, egli cadrà in situazioni altrettanto paradossali. E’ quindi duplice, e assai scaltra, l’ironia petroniana, verso un personaggio che si lamenta della scarsa moralità degli oratori e della scuola, quando lui stesso, in quanto a moralità, lascia molto a desiderare.

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Una locanda romana conservatoci a Pompei

Il primo blocco prosegue poi con la separazione tra Encolpio ed Ascilto, perché rivali in amore. Ritrovatisi, dopo varie dispute, il cui oggetto è sempre Gitone, si recano ad un mercato per vendere un mantello rubato, recuperano una tunica piena di monete d’oro, che avevano precedentemente perduto. Tornano felici alla locanda, dove incontrano la sacerdotessa Quartilla che li costringe ad una kermesse sessuale per tre lunghi giorni. bordello-visitare-roma-trovamercatini.jpg

Prostitute nell’antica Roma

Secondo blocco:

Sfuggiti dalla sacerdotessa, i tre si recano ad una cena, nella casa del liberto Trimalcione. Quest’ultimo fa il suo ingresso in portantina. All’episodio fa da sottofondo un continuo vocio, canti, suoni, chiacchiericcio di servi e di commensali, fra i quali i nostri tre eroi. Quindi Trimalcione attira su di sé l’attenzione: filosofeggia, recita versi, storie raccapriccianti; racconta il suo passato di schiavo e le enormi ricchezze accumulate; quindi fa le prove generali del suo funerale, e schianta vinto dal vino. Accorrono i pompieri perché per il trambusto hanno pensato ad un incendio. I tre riescono ad allontanarsi.

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 Affresco di un uomo grasso tratta da Pompei

PRESENTAZIONE DI TRIMALCIONE
(32, 1-4)

In his eramus lautitiis, cum ipse Trimalchio ad symphoniam allatus est positusque inter cervicalia munitissima expressit imprudentibus risum. Pallio enim coccineo adrasum excluserat caput circaque oneratas veste cervices laticlaviam immiserat mappam fimbriis hinc atque illinc pendentibus. Habebat etiam in minimo digito sinistrae manus anulum grandem subauratum, extremo vero articulo digiti sequentis minorem, ut mihi videbatur, totum aureum, sed plane ferreis veluti stellis ferruminatum. Et ne has tantum ostenderet divitias, dextrum nudavit lacertum armilla aurea cultum et eboreo circulo lamina splendente conexo.

Eravamo tra queste leccornie, quand’ecco lui, Trimalcione, portato a suon di musica. Come fu deposto tra cuscini tipo mignon, fece sbruffare e ridere chi non se l’aspettava. Infatti da un manto scarlatto faceva sporgere la testa rapata, e intorno al collo infagottato dall’abito si era avvolto un tovagliolo listato di porpora, a frange, penzoloni qua e là. al dito mignolo della mani sinistra aveva un anellone dorato, nell’ultima falange del dito seguente, invece un anello più piccolo, d’oro massiccio mi pareva, con stelle di ferro saldate sopra. E per non sgargiare solo di queste ricchezze, denudò il bicipide destro adorno di un bracciale d’oro e di un cerchio d’avorio chiuso intorno da una lamina lucente.

Non diversa dal marito è la presentazione della moglie, Fortunata:
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Norman Lindsay: Ritratto di Fortunata 

PRESENTAZIONE DI FORTUNATA
(37)

Non potui amplius quicquam gustare, sed conversus ad eum, ut quam plurima exciperem, longe accersere fabulas coepi sciscitarique, quae esset mulier illa quae huc atque illuc discurreret. Uxor, inquit, Trimalchionis, Fortunata appellatur, quae nummos modio metitur. Et modo, modo quid fuit? Ignoscet mihi genius tuus, noluisses de manu illius panem accipere. Nunc, nec quid nec quare, in caelum abiit et Trimalchionis topanta est. Ad summam, mero meridie si dixerit illi tenebras esse, credet. Ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet omnia, et ubi non putes. Est sicca, sobria, bonorum consiliorum: tantum auri vides. Est tamen malae linguae, pica pulvinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat. Ipse Trimalchio fundos habet, quantum milvi volant, nummorum nummos. Argentum in ostiarii illius cella plus iacet, quam quisquam in fortunis habet. Familia vero babae babae! – non mehercules puto decumam partem esse quae dominum suum noverit. Ad summam, quemvis ex istis babaecalis in rutae folium coniciet.

Non riuscii più a gustarmi niente, ma rivolto verso di lui, per raccogliere più notizie che potevo, incominciai a prendere il discorso alla lontana e a chiedere chi fosse la donna che correva qua e la. E’ la moglie di Trimalcione – rispose – si chiama Fortunata, una che il denaro lo misura con lo staio. Eppure prima, prima cos’è stata? Che il tuo genio mi perdoni, dalla sua mano non avresti voluto ricevere neanche un tozzo di pane. Ora, ne perché ne percome, è salita alle stelle ed è il tuttofare di Trimalcione. Insomma, se, in pieno mezzogiorno, lei dicesse a lui che ci sono le tenebre, le crederebbe. Lui non sa neanche quanto ha, tanto è straricco; ma questa puttana vede tutto prima, anche dove non crederesti. E’ assennata, economa, di buon senso; tutto oro quel che vedi. Però è una malalingua, una gazza da letto. Chi ama, ama; chi non ama, non ama. Lui, Trimalcione, ha poderi quanto ci volano i nibbi, e soldi a palate. Nello stanzino del suo portinaio c’è più argenteria di quanta nessun altro ne abbia nel suo patrimonio. La servitù poi – accidentaccio! – io credo, per Ercole, che non c’è la decima parte che abbia visto il padrone. Insomma, uno qualsiasi di questi parassiti lui potrebbe cacciarlo in una foglia di ruta.

Appena giunti nella casa di Trimalcione Encolpio ride sulla cafoneria del protagonista; infatti, prima che egli giunga a tavola, lo vede giocare a palla con eunuchi dall’aspetto, per Encolpio, estremamente gradevole, poi farsi portare da uno di loro un orinale si cui, coram populo caga, e s’asciuga le mani sulla barba di uno di questi due. Quindi entra in casa e l’aspetto dell’antipasto è “grandiosamente” pacchiano, ma già la certezza di Encolpio comincia a vacillare, in quanto tale “cafonaggine” è frutto di una spaventosa ricchezza; per poi infine rimanere “prigioniero” di tale “meccanismo scenografico”. Is vult, si potrebbe dire, ma è ben guardare chi è la “regista”? Certamente Fortunata, la moglie che gli fa credere qualunque cosa lui voglia. E’ pieno ed è vuoto; pieno di forma, vuoto nell’anima, ma sembra proprio accorgersene, quando gli appare l’ombra della propria morte:

TRIMALCIONE E LA RIFLESSIONE SULLA MORTE
34, 6-10

Statim allatae sunt amphorae vitreae diligenter gypsatae, quarum in cervicibus pittacia erant affixa cum hoc titulo: FALERNUM OPIMIANUM ANNORUM CENTUM. Dum titulos perlegimus, complosit Trimalchio manus, et: «Eheu – inquit – ergo diutius vivit vinum quam homuncio! Quare tangomenas faciamus. Vita vinum est. Verum Opimianum praesto. Heri non tam bonum posui, et multo honestiores cenabant». Potantibus ergo nobis et accuratissime lautitias mirantibus larvam argenteam attulit servus sic aptatam, ut articuli eius vertebraeque laxatae in omnem partem flecterentur. Hanc cum super mensam semel iterumque abiecisset, et catenatio mobilis aliquot figuras exprimeret, Trimalchio adiecit:

“Eheu nos miseros! Quam totus homuncio nil est!
Sic erimus cuncti, postquam nos auferet Orcus.
Ergo vivamus, dum licet esse bene”.
Subito dopo vennero portate anfore di vetro diligentemente sigillate, sul collo delle quali erano affisse etichette con questa iscrizione: FALERNO OPIMIANO DI CENT’ANNI. Mentre leggiamo attentamente le iscrizioni, Trimalcione batté le mani e disse: «Ahimé, vive più a lungo il vino di un omicciatolo! Perciò facciamo le spugne. Il vino è vita. Qui è l’autentico Opimiano. Ieri non (lo) ho offerto così buono, e cenavano (ospiti) molto più ragguardevoli». Mentre bevevamo e guardavamo attentamente il lusso un servo portò uno scheletro d’argento così costruito, che le sue giunture e le sue vertebre allentate si flettevano in ogni parte. Avendolo gettato sopra il tavolo una ed un’altra volta e esprimendo altrettante figure grazie ai legamenti liberi, Trimalcione aggiunse:
“Ahimé, poveri noi, quanto niente è l’omicciatolo tutto!
Così saremo tutti, dopo che l’Orco ci prenderà.
Dunque viviamo, mentre si può star bene”.

Infatti l’idea di morte non manca nel lungo episodio della cena di Trimalcione, come un lugubre presagio che marca un’epoca sì ostentata, ma nel contempo vuota di valori, morta in sé. Il protagonista, infatti, ama giocare con essa, quasi ad esorcizzarla, facendo sì che venisse presentato, addirittura durante il pasto, il suo funerale (o meglio, le grandi prove dello svolgersi di esso). In questo passo, quello che invece notiamo è una riflessione che, per come viene illustrata, non stona col personaggio, ma reca in sé echi più profondi, ed è il discorso della fragilità e un epicureo come Trimalcione sembra concluderlo con una specie (parodia?) di carpe diem oraziano.

Terzo blocco:

Encolpio e Ascilto si affrontano a causa di Gitone. Richiesto a quest’ultimo chi dei due volesse come amante, il ragazzo indica Ascilto, lasciando Encolpio affranto di dolore.

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Affresco di amore omoerotico nella cultura classica

MELODRAMMA D’AMORE
(80, 1-7)

Iocari putabam discedentem. At ille gladium parricidali manu strinxit et: «Non frueris», inquit, «hac praeda super quam solus incumbis. Partem meam necesse est vel hoc gladio contemptus abscindam». Idem ego ex altera parte feci, et intorto circa brachium pallio, composui ad proeliandum gradum. Inter hanc miserorum dementiam infelicissimus puer tangebat utriusque genua cum fletu, petebatque suppliciter ne Thebanum par humilis taberna spectaret, neve sanguine mutuo pollueremus familiaritatis clarissimae sacra. «Quod si utique, proclamabat, facinore opus est, nudo ecce iugulum, convertite huc manus, imprimite mucrones. Ego mori debeo, qui amicitiae sacramentum delevi». Inhibuimus ferrum post has preces, et prior Ascyltos: «Ego», inquit, finem discordiae imponam. Puer ipse, quem vult, sequatur, ut sit illi saltem in eligendo fratre salva libertas». Ego qui vetustissimam consuetudinem putabam in sanguinis pignus transisse, nihil timui, immo condicionem praecipiti festinatione rapui, commisique iudici litem. Qui ne deliberavit quidem, ut videretur cunctatus, verum statim ab extrema parte verbi consurrexit fratrem Ascylton elegit. Fulminatus hac pronuntiatione, sic ut eram, sine gladio in lectulum decidi, et attulissem mihi damnatus manus, si non inimici victoriae invidissem. Egreditur superbus cum praemio Ascyltos, et paulo ante carissimum sibi commilitonem fortunaeque etiam similitudine parem in loco peregrino destituit abiectum.

Io pensavo volesse congedarsi con una battuta di spirito. Ma lui sguaina la spada con mano fratricida e si mette a gridare: «Non te lo godrai questo tesoro, su cui vorresti buttarti da solo. Bisogna proprio che ci esca la mia parte, a costo di tagliarmela con questa spada, visto il disprezzo in cui mi tieni!». Dall’altra parte io faccio lo stesso, mi avvolgo il braccio col mantello e mi metto in guardia in attesa dello scontro. Nel pieno di questo accesso di follia a due, quel poveraccio di Gitone ci abbracciava in lacrime le ginocchia, implorandoci di non trasformare quella locanda in una seconda Tebe e di non macchiare col nostro sangue il sacro vincolo di un’amicizia tanto bella. «Ma se il morto ci deve scappare comunque» urlava, «eccovi la mia gola: rivolgete qui le vostre mani, infilateci dentro le spade fino all’elsa. Chi deve morire sono io, perché ho distrutto il sacro vincolo dell’amicizia». Di fronte a quelle suppliche rimettiamo a posto le spade, e il primo a parlare è Ascilto: «Io voglio mettere fine alla lite: il ragazzo vada pure con chi gli pare, perché sia libero di optare per chi vuole almeno nella scelta del “fratellino”». Pensando che l’amicizia di lunga data tra me e Gitone si fosse ormai trasformata in un legame di sangue, non ho nulla da temere, anzi aderisco subito alla proposta con uno slancio rabbioso, lasciando che a giudicare della lite sia il solo Gitone. Che non ci pensa su nemmeno un attimo, tanto per far vedere di essere un po’ indeciso, e mentre io sono ancora là che devo finire l’ultima parola, lui si alza di scatto e si sceglie Ascilto come fratellino. Fulminato da quella decisione, così com’ero, senza nemmeno più la spada, cado sul letto, e mi sarei ammazzato con le mie mani, non fosse stato per il trionfo del nemico. E così Ascilto se ne va tutto ringalluzzito da quella preda, piantando lì su due piedi e in un posto sconosciuto l’uomo che fino a poco prima era stato il suo migliore amico nella buona e nella cattiva sorte.

Vediamo qui un “classico” triangolo amoroso, tipico, in questo periodo nei romanzi d’importazione greca, in cui una scena così apparteneva a quelle che oggi vengono definite “scene madri”. L’antefatto è dato dal ritorno dalla casa di Trimalchione, in cui i tre, (Encolpo Ascilto e Gitone) ubriachi, si ritirano nella locanda. I due amanti, chiaramente, passano una gioiosa notte d’amore, ma quando Encolpio si sveglia, si trova solo. Infatti Ascilto, mentre lui dormiva, prende Gitone con sé e se lo porta a letto. Encolpio, alzatosi si scaglia contro l’amico, chiede di dividere le cose che hanno in comune e d’andarsene. Ascilto accetta e chiede a sua volta che sia diviso anche il ragazzo. Ecco qui quindi la lotta per il possesso dell’oggetto amato, che viene confrontato con l’episodio di Eteocle e Polinice in lotta per il possesso di Tebe e Gitone, novella Giocasta, in mezzo a loro due offre la gola. E’ evidente che vi sia qui il capovolgimento parodico: la tragedia della moglie e della madre di Edipo, viene qui rivissuta da un omosessuale ubriaco, un suo amico ben dotato che vuol farsi (e si fa) il ragazzo, e quest’ultimo, “checca” melodrammatica, che al momento giusto, sceglie, tuttavia, quello che offre “maggiori mezzi”

Quindi, si dirige ad una pinacoteca dove incontra un vecchio poeta, Eumolpo, con cui discute sulla decadenza della poesia. Per consolare Encolpio, il poeta gli racconta una novella. Quindi, di fronte ad una pittura comincia a recitare un poemetto sulla presa di Troia. Viene preso a sassate dai presenti. Fuggono. Encolpio incontra Gitone, ma geloso di Ascilto, decide di lasciare la città insieme ad Eumolpo.

Quarto blocco:

I tre si ritrovano sulla nave di Lica e Trifone (Encolpio e Gitone si sono mascherati per non farsi riconoscere). Ma, con un sogno premonitore, la donna li smaschera e promette loro terribili punizioni. La contesa si fa aspra, finché il pilota della nave propone una tregua. Eumolpo riesce a placare gli animi e ad imporre un vero e proprio trattato di pace, che si festeggia con un allegro banchetto in cui il vecchio poeta narra la vicenda della matrona di Efeso:

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Norman Lindsay: La matrona di Efeso

LA MATRONA DI EFESO
(111, 1–4)

Matrona quaedam Ephesi tam notae erat pudicitiae, ut vicinarum quoque gentium feminas ad spectaculum sui evocaret. Haec ergo cum virum extulisset, non contenta vulgari more funus passis prosequi crinibus aut nudatum pectus in conspectu frequentiae plangere, in conditorium etiam prosecuta est defunctum, positumque in hypogaeo Graeco more corpus custodire ac flere totis noctibus diebusque coepit. Sic adflictantem se ac mortem inedia persequentem non parentes potuerunt abducere, non propinqui; magistratus ultimo repulsi abierunt, complorataque singularis exempli femina ab omnibus quintum iam diem sine alimento trahebat. Adsidebat aegrae fidissima ancilla, simulque et lacrimas commodabat lugenti, et quotienscunque defecerat positum in monumento lumen renovabat.

C’era una certa matrona ad Efeso di così rinomata virtù da spingere persino le donne dei popoli confinanti a farle attenzione. Costei, dunque, dopo aver perso il marito, non contenta di seguire, secondo il costume popolare, il corteo funebre con i capelli sciolti o di percuotersi il petto nudo di fronte alla gente, seguì il marito anche quando venne messo nella bara, e quando venne deposto, secondo l’usanza greca, nella tomba, prese a vegliare il corpo ed a piangere notte e giorno. Né i genitori, né i parenti riuscirono a distoglierla dall’affliggersi in quel modo e dall’andare incontro alla morte per fame. Da ultimo i magistrati se ne andarono respinti; e la donna di eccezionale esempio compianta da tutti non toccava cibo da quattro giorni. Assisteva la disperata un’ancella fedelissima, e quando piangeva la accompagnava nel pianto, ed allo stesso tempo provvedeva a sostituire il lume posto sulla lapide ogni volta che si consumava.

IL SOLDATO E LA MATRONA DI EFESO
(112, 1–3)

Ceterum scitis quid plerumque soleat temptare humanam satietatem. Quibus blanditiis impetraverat miles ut matrona vellet vivere, isdem etiam pudicitiam eius aggressus est. Nec deformis aut infacundus iuvenis castae videbatur, conciliante gratiam ancilla ac subinde dicente:
“Placitone etiam pugnabis amori?
Nec venit in mentem quorum consederis arvis?”
Quid diutius moror? Ne hanc quidem partem corporis mulier abstinuit, victorque miles utrumque persuasit. Iacuerunt ergo una non tantum illa nocte, qua nuptias fecerunt, sed postero etiam ac tertio die, praeclusis videlicet conditorii foribus, ut quisquis ex notis ignorisque ad monumentum venisset, putasset expirasse super corpus viri pudicissimam uxorem.

Voi sapete cos’altro è solito tentare un essere umano quando è sazio. Il soldato, con le medesime lusinghe grazie alle quali aveva fatto tornare a vivere la matrona, tentò anche la sua castità. E alla casta matrona egli non pareva né brutto né stupido, anche perché l’ancella lo metteva in buona luce e diceva: “vuoi dunque tu combattere un amore che ti aggrada? Non ti ricordi in che territorio ti trovi?”. Perché farla tanto lunga? La matrona non seppe tenere a digiuno neppure quella parte del suo corpo, ed il soldato vincitore riuscì nella sua impresa di persuasione entrambe le volte. Dormirono dunque insieme non solo quella notte, in cui venne consumato il loro amore, ma anche il secondo ed il terzo giorno, dopo aver sbarrato, come è logico, le porte del sepolcro, perché chiunque fosse capitato, noto o sconosciuto, presso la tomba pensasse che la castissima moglie fosse spirata sopra il cadavere del marito.

Abbiamo qui riportato due soli episodi della “fabula milesia” meglio conosciuta con il nome de La matrona di Efeso, la cui trama è riportata, in forma più semplicistica e in versi, da Fedro. Essa ci offre l’opportunità di fare alcune considerazioni, di carattere generale sia sul contenuto dell’intera storia che sul modo attraverso cui la racconta:

  • possiamo notare che essa potrebbe essere considerata come un esempio di una certa misoginia dell’autore e. in questo caso, del narratore Eumolpo; tuttavia la leggerezza della donna nasconde altro: come Fortunata, di fronte a uomini imbelli, sono loro a imporre i modi con cui affrontare un evento (Fortunata è colei che gestisce il patrimonio di Trimalchione, la matrona di Efeso salva il soldato da sicura impiccagione);
  • il lessico di Petronio è sempre ricco e articolato, molto giocato (nei due brani proposti) sull’amplificatio riguardo il personaggio della donna (da tam pudica del primo brano al suo superlativo nel secondo) ad accentuare, invece il suo essere “leggera” e arrendevole”; ma soprattutto è ricco di riferimenti ai termini usati per descrivere l’amore di Didone (e questa volta ci riferiamo all’intero brano) nel VI canto di Virgilio, o a termini militari, creando così una vera mescolanza cui l’effetto è certamente, nel complesso, ironico.

L’episodio prosegue con il sopraggiunge di una violenta tempesta: Lica muore e i tre riescono a fuggire.

Quinto blocco:

Un contadino da un’altura mostra loro una città, Crotone e li informa sugli strani costumi dei suoi abitanti: infatti la popolazione si divide in due, i cacciatori di eredità e uomini ricchissimi che non hanno eredi. Eumolpo decide di farsi passare per un possidente, mentre Encolpio e Gitone fingeranno di essere suoi schiavi. Sulla strada il vecchio poeta offre una lezione sul poema epico, cui fa seguire un brano poetico sulla guerra fra Cesare e Pompeo (parodia del Pharsalia di Lucano). Intanto Encolpio, colpito dalla maledizione di Priapo non riesce a soddisfare le voglie di una matrona, di nome Circe, che, inviperita ordina ai servi di frustarlo. Il nostro declama una vera e propria invettiva contro il suo membro, ma giunge in suo aiuto Mercurio che gli ridà la virilità. Intanto Eumolpo, che teme d’essere scoperto, detta le sue condizioni affinché i cacciatori d’eredità possano ottenerla: dovranno mangiare il suo cadavere. Il romanzo si chiude con un crotonese che accetta la proposta.

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La città di Crotone: resti della città greco-romana

Modelli

La difficoltà nel descrivere cosa sia il Satyricon risulta dal fatto che oggi usiamo un termine assolutamente improprio per definirlo, cioè “romanzo”. Invece il Satyricon utilizza al suo interno vari generi letterari che possiamo così schematizzare:

  1. Satira Menippea (da Menippo di Gadara, III sec. a.C.): componimento misto di prosa e poesia (prosimetrum), utilizzato già da Seneca nell’Apokolokintosis. In Petronio esso non risulta essere un “espediente formale”, ma un vero e proprio strumento attraverso cui costruisce il racconto;
  2. Fabula Milesia (da Aristide di Mileto, II sec. a.C.): narrazione comica d’argomento erotico con il tema dominante del desiderio sessuale e del denaro, in cui i valori morali vengono sovvertiti e ridicolizzati. Tipico riferimento di fabula milesia nell’opera petroniana è l’inserto narrativo de La matrona di Efeso;
  3. Il romanzo greco: caratterizzato da una narrazione in terza persona, con argomento amoroso a schema fisso e riferimento a un contesto di valori idealizzati. La loro finalità era edonistica per far sì che il lettore s’identificasse con la vicenda narrata. Qui Petronio opera un vero e proprio stravolgimento: la narrazione è in prima persona, i protagonisti sono omosessuali, e la realtà è rappresentata in modo realistico e grottescamente critico, tale da allontanare il lettore dai personaggi;
  4. Poema epico: Omero, Virgilio e Lucano. I primi due Petronio li utilizza soprattutto per il tema del “viaggio” che determina le peripezie dell’“eroe”; del poema del terzo opera una parodia in stile virgiliano;
  5. Satira: Lucilio e Orazio, di cui riprende la descrizione disincantata della realtà romana del suo tempo, senza alcun commento moralistico.
  6. Mimo e Atellana: proto forme teatrali italiche, con la rappresentazione farsesca di situazioni triviali.

I temi dominanti

In un’opera che, pur così frammentaria è così ricca di spunti, possiamo trovare dei temi dominanti che costituiscono un vero e proprio filo rosso che sottende tutti gli episodi a noi pervenuti e che sono la rappresentazione realistica della Roma neroniana, il riso e l’eros. Petronio infatti ci descrive una Roma inconsapevolmente rivolta verso un periodo di crisi politica e valoriale. Protagonisti infatti sono un piccolo gruppo di fannulloni, non cattivi, ma la cui vita sembra non avere alcuno scopo (è da sottolineare che sono loro, tuttavia, a possedere un briciolo di cultura), a cui si contrappone un mondo di latifondisti e arrampicatori sociali incolti, beceri, arroganti nel mostrare il loro potere economico. Trimalcione ne costituisce l’esempio più eclatante, essendo un liberto arricchito come ne pullulavano parecchi durante la dinastia giulio-claudia. Tutto ciò ci viene tuttavia presentato con ironia dissacrante che non può non suscitare il riso nel lettore: infatti il ricorrere dei personaggi a atti maliziosi, dissoluti, disonesti e il liberarsi di essi attraverso una fragorosa risata è il segno di una consapevolezza disillusa di Petronio che solamente ne può ridere e far ridere il fruitore dell’opera. Questo riso coinvolge anche l’eros, che pur dissacrante, non appare mai descritto in modo morboso, ma semplicemente colto nei suoi eccessi.

Questi temi non nascondono tuttavia una meditazione più “profonda” dell’autore: l’opera è percorsa infatti da un senso di disfacimento che trova la sua espressione attraverso il tema della morte, del teatro e del labirinto. La morte non viene solo descritta all’interno della narrazione (il marito morto ne La matrona di Efeso, il naufragio di Efeso, il cannibalismo a Crotone) ma anche metaforizzata: durante la cena di Trimalcione, infatti viene presentato uno scheletro che fa pronunciare all’anfitrione: “Ahimé, poveri noi, quanto niente è l’omicciatolo tutto! Così saremo tutti, dopo che l’Orco ci prenderà. Dunque viviamo, mentre si può star bene”. Anche la teatralizz-zione – ancora nell’episodio della Cena Trimalchionis – rappresenta l’inautenticità del vivere che, d’altra parte si esprime in una realtà labirintica ed incomprensibile che ci fa intuire l’amarezza profonda dell’autore.

Per quanto riguarda la lingua è necessario sottolineare che Petronio usa uno stile mimetico a seconda dei personaggi rappresentati, per cui il linguaggio dell’io narrante, Encolpio, è quello di un uomo non privo di cultura, mentre quello di Eumolpo – essendo un poeta – è letterariamente alto. Viceversa quello di Trimalcione e dei suoi commensali è basso, volgare, tipico dei personaggi incolti.

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Encolpio e Adilto nel Fellini-Satirycon

Federico Fellini, il più visionario tra i nostri registi italiani, decise, nel 1969, di girare un film sull’opera di Petronio, che egli volle intitolare Fellini Satyricon, quasi a sottolineare che la sua non era una trattazione filmica (cosa peraltro impossibile visto la frammentarietà del testo) ma una riduzione libera, legata alla sua idea del mondo, tanto che il titolo rimanda a una vera e propria riscrittura. Infatti il testo petroniano è utilizzato come pretesto sui cui s’innestano altri ricordi classici (come il petomane Varricchio, personaggio inesistente nel romanzo il cui gesto ricorda più un diavolo dantesco e la presenza di un Minotauro da circo che combatte contro Encolpio) o vere e proprie invenzioni sui personaggi petroniani (come la non morte di Ascilto). Ma l’intento dell’autore non era certo rendere con belle immagini le pagine latine, quanto trattarle in modo onirico, come un sogno fatto sulla romanità, facendo della sua opera un’operazione metafilmica in cui se il cinema è sogno egli lo rappresenta cinematograficamente. Ci dice Fellini: “Il racconto ci è giunto a frammenti, e il racconto sarà solo a frammenti, con l’alogicità dei sogni, colmo di vuoti improvvisi. Qualcosa come un mosaico dissepolto. La realtà presentata non sarà storica, ma onirica”. Esso infatti si presenta trattando i personaggi come volti riscoperti da un pittura pompeiana, mentre la scenografia sembra uscire da un sogno di fantascienza fatto da un antico Romano (si pensi alla scenografia dell’incipit).

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Immagine tratta da una sequenza  del film di Fellini

Cosa ci lascia oggi il film? In primo luogo non dobbiamo dimenticare l’anno in cui fu presentato: siamo nell’indomani del ’68 e la pellicola sembra proprio voler sottolineare il concetto di una fine, di un mondo in decadenza in cui la Roma neroniana con i suoi arricchiti liberti sembrava preannunciare nel suo vuoto barocchismo un senso di fine, di morte valoriale a cui si oppongono i due protagonisti, Encolpio e Ascilto, che, nella loro “libertà” sembrano richiamare, a loro volta, il mondo hippy che proprio in quella età prendeva forma; dall’altro la riflessione su una Roma caotica e disordinata che sembra città indistruttibile nella sua vacuità. Fellini ce lo aveva detto già nella Dolce vita, ma lo sottolineerà in una memorabile scena di un’opera successiva Roma, in cui nel momento in cui si scoprirà un affresco romano, l’aria penetrante nel luogo liberato lo polverizzerà.

 

GAIO VALERIO CATULLO

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Busto di Catullo a Sirmione

Il più grande poeta lirico latino pervenutoci, Catullo è riuscito a fare del suo Liber un testo fondamentale dove trasuda irruenza, giovinezza, amore e odio; ma l’opera non è solo questo, è anche un grande affresco di capacità poetica dove il nostro mostra i suoi gusti letterari e il modo straordinario d’interpretarli, dalla poesia di Saffo del V sec. a quella, raffinatissima e colta, dell’ellenista Callimaco.

 Notizie biografiche 

Catullo ci racconta tutto di sé, ma solo del suo mondo interiore; quando si tratta di notizie biografiche egli è molto parco: ci dice che è originario di Verona, certamente di ricca famiglia se il padre può ospitare, quando si trova da quelle parti, un personaggio del rango di Giulio Cesare. Certamente passa la giovinezza a Roma, di cui ci offre un vivido quadro e dove partecipa, insieme ad amici intellettuali, a quegli incontri dove si poeta giocosamente, ma non superficialmente, sulle proprie emozioni e su occasioni tali da essere cantate (i neoteroi).

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Un immagine di Catullo

Ma in questa città fu fondamentale l’amore che lo legò a colei che egli chiamò poeticamente Lesbia, ma che Apuleio, autore dell’età degli Antonini, ci svela essere quella Clodia, sorella di Clodio, nemico di Cicerone, che per questo lasciò di lei un ritratto in cui la descrisse come una donna disinvolta e dai liberi costumi sessuali. Ancora i suoi versi ci parlano di un viaggio nella Troade, dove visitò la tomba del fratello morto (versi ripresi in modo piuttosto puntuale da Foscolo). Non avendo notizie attendibili, ma dai dati emersi dai suoi scritti, sembra che la sua vita deve essere compresa tra l’84 e il 54, e la giovane morte sembra ben accordarsi con il mito romantico cui venne infine circondato.

La poesia neoterica

I poeti neoterici, come già accennato, mettono in primo piano della loro produzione la vita interiore delle passioni, che sembra poi diventare il fulcro del loro modus vivendi. Questo modo di considerare la letteratura li fa vivere in una cerchia in cui mostrano di conoscersi, frequentarsi, di condividere momenti privati propri e dei propri amici. Tale atteggiamento li fa considerare ostili da Cicerone, in quanto vedeva nel loro atteggiamento il più completo disinteresse riguardo lo Stato e una minaccia per l’educazione dei giovani, più che altro attirati da quest’atteggiamento edonistico e disimpegnato. Ma sembra proprio questo atteggiamento che fa parlare qualche critico di consapevolezza epicurea, quella che ritiene la philìa uno degli aspetti più importanti di questi poeti. Ma si direbbe che piuttosto di “amicizia” intesa in senso epicureo, bisognerebbe parlare di loro come di bohemiens, sperimentatori di vita e, come Catullo, poi dalla vita ingoiati.

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Charles Meynier: Erato, musa della poesia erotica

Liber
Il Liber che ci è pervenuto consta di 116 liriche così suddivise:

  • 1 – 60: componimenti brevi di metri diversi, definiti dall’autore nugae (sciocchezzuole, cose di poca importanza), presentano svariati temi, come l’amore, la morte del passerotto dell’amata, un invito a cena, e così via);
  • 61 – 68: carmina docta, componimenti più impegnativi che rispettano il gusto erudito della poesia ellenistica;
  • 69 – 116: epigrammi (distici elegiaci), che presentano la stessa varietà tematica della prima parte.

Dalla divisione qui presentata appare evidente che essa sia stata eseguita da copisti che secondo le usanze dell’epoca l’hanno suddivisa per generi metrici e non contenutistici. Tuttavia, anche da alcune tracce che appaiono nel testo, immaginiamo che tale suddivisione non sia quella operata da Catullo stesso e che probabilmente alcune liriche composte dal nostro autore siano infine, andate perdute.

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Marco Antonio Mureto, Catullus et in eum commentarius, Venetiis, apud Paulum Manutium, 1554

La poetica

Iniziamo il percorso sul Liber di Catullo dalla poetica, le cui tracce possiamo già individuarle nella prima lirica:

DEDICA
(I)

Cui dono lepidum novum libellum

arida modo pumice expolitum?
Corneli, tibi: namque tu solebas
meas esse aliquid putare nugas
iam tum cum ausus es unus Italorum
omne aevum tribus explicare cartis
doctis, Iuppiter, et laboriosis.
Quare habe tibi quidquid hoc libelli
qualecumque; quod, o patrona virgo,
plus uno maneat perenne saeclo.

220px-Cornelio_Nepote.jpg Cornelio Nepote, destinatario delle nugae catulliane

A chi dedicherò questo libretto che l’arsa pomice ha appena lucidato? A te, Cornelio, che solevi dar qualche peso alle mie iniziative, tu che tra gli itali eri il solo a condensare la storia universale in tre volumi, dotti, per Giove, e straordinari. Sia tuo il libretto, per quel che è, per quel che vale: ma ch’esso viva, vergine Musa, più del tempo di un uomo.

La lettura di questo carme, oltre a dirci che essa è dedicata a all’amico Cornelio Nepote, famoso per l’opera De viris illustribus, a noi pervenuta seppure non completamente, ci offre anche alcune considerazioni sul modo con cui i neoterici consideravano il lavoro poetico:

  • La brevitas: spiegare la storia universale in solo tre libri è il concetto chiave secondo cui la vera arte va ricercata nella brevità, dove solo si può rintracciare l’erudizione (libri dotti) e l’eleganza formale;
  • I carmina che ci offre non sono che nugae, che Cornelio sembrava apprezzare, tuttavia, seppur (falsamente) di poco conto, estremamente rifinite (pulite con l’arida pomice), a dimostrazione dell’importanza della purezza formale.

Se la dedica contiene alcuni topoi caratteristici di un carmen proemiale, la poetica catulliana viene espressa anche in altri momenti come in questo:

LA ZMYRNA DEL MIO CINNA
(XCV)

Zmyrna mei Cinnae nonam post denique messem
quam coeptast nonamque edita post hiemem,
milia cum interea quingenta Hortensius uno
…………………………………………………
Zmyrna cavas Satrachi penitus mittetur ad undas,
Zmyrnam cana diu saecula pervolvent.
At Volusi annales Paduam morientur ad ipsam
et laxas scombris saepe dabunt tunicas.
Parva mei mihi sint cordi monumenta sodalis,
at populus tumido gaudeat Antimacho.

Infine la Smirna del mio Cinna dopo nove estati da che è iniziata e dopo nove inverni è stata pubblicata, mentre nel frattempo Ortensio cinquemila in un solo (mese?) ….. La Smirna sarà mandata fino alle onde profonde del Satrachi, le canute generazioni leggeranno assiduamente a lungo la Smirna. Ma gli annali di Volusio moriranno nella stessa foce del Po e daranno spesso ampie coperture agli sgombri. A me siano al cuore i piccoli “monumenti” del mio compagno, ma il popolo goda del grasso Antimaco.

Anche questo carmen riprende il tema della brevitas, attraverso l’incitamento al suo amico Elvio Cinna e al suo raffinato poemetto, contro il turgido epos di Volusio. Quello che qui interessa non è tuttavia ripetere quanto detto rispetto alla poesia della dedica, quanto piuttosto l’imitatio che egli fa verso un genere greco: infatti già Callimaco aveva, in una sua opera, annunziato la pubblicazione dei Fenomeni di Arato. Ma Catullo, rispetto al poeta alessandrino, fa qualcosa di più: utilizza tale espediente per criticare con sarcasmo i suoi avversari letterari, augurando che le loro opere finiscano a far da involucro a pesci maleodoranti.

Temi vari

Nell’opera dell’autore di Verona l’elemento centrale è l’io e le sue impressioni su ciò che vive rispetto all’amicizia, l’amore e la politica. Tra i vari temi presenti iniziamo con il tema dell’epicurea philia, che, come già detto sembra più da attribuirsi ad un atteggiamento di Catullo e dei suoi sodali:

UN INVITO A CENA
(XIII)

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene: nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores
seu quid suavius elegantiusvest:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque,
quod cum tu olfacies, deos rogabis,
totum ut te faciant, Fasulle, nasum.

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Affresco pompeiano raffigurante un momento del pasto romano

Cenerai bene, o mio Fabullo, presso di me fra pochi giorni, se gli dei ti saranno favorevoli, se con te porterai una buona e abbondante cena, non senza una splendida fanciulla e vino e motti di spirito e tutta l’allegria. Se porterai queste cose, dico, o mio caro amico, cenerai bene: infatti il borsellino del tuo Catullo è pieno di ragni. Ma in cambio riceverai un graziosa delizia o qualcosa di più soave o di più elegante infatti (ti) offrirò un unguento che alla mia fanciulla donarono gli Amori ed i Cupidi, quando tu lo proverai, pregherai gli dei, che ti facciano tutto naso.

Qui il tema dell’amicizia è risolto nel classico “invito a tavola” che Catullo rivolge al suo amico, classico perché è un tema già presente nella poesia greca. Egli lo risolve in modo scherzoso, insistendo sulla sua povertà e chiedendo all’amico di portare cibo e donne. Ma ciò che interessa è il clima che qui ci viene rappresentato e che ci offre, nel contempo, un quadro della vita di questi raffinati bohemiens. Appare inoltre un piccolo accenno al suo smisurato amore: sebbene egli sia povero, potrà donare al suo amico il profumo più inebriante che egli abbia mai sentito, in quanto fabbricato dallo stesso Amore e a lui donato dalla donna che ama. Ciò permetterà di chiudere il carme con una battuta scherzosa (aprosdòketon, procedimento per cui si suscita nel lettore un’aspettativa che verrà delusa o sovvertita) del tutto inattesa dal lettore.

Ancora su questo tema egli ci offre la sua gioia nel poter rivedere un amico:

IL RITORNO DI UN AMICO
(IX)

Verani, omnibus e meis amicis
antistans mihi milibus trecentis,
venistine domum ad tuos penates
fratresque unanimos anumque matrem?
venisti. o mihi nuntii beati!
visam te incolumem audiamque Hiberum
narrantem loca, facta nationes,
ut mos est tuus, applicansque collum
iucundum os oculosque suaviabor.
o quantum est hominum beatiorum,
quid me laetius est beatiusve?

Veranio, che per me tra tutti i miei amici ne superi mille trecento, sei giunto a casa dai tuoi penati, dai fratelli unanimi e la vecchia madre? Sei giunto, o belle notizie per me! Ti rivedrò incolume e ti sentirò narrare i luoghi degli Iberi, le imprese, i popoli, come è tuo stile, aggrappandomi al dolce collo bacerò il volto e gli occhi. Oh quanto c’è di uomini più felici, cosa c’è di più allegro e felice di me?

Se Catullo viene ricordato per la passionalità con cui esprime il suo sentimento d’amore, non si può trascurare che tale passionalità è costituiva del suo essere. Infatti anche in questo canto egli si fa trasportate dall’infinita gioia che prova nel rivedere un amico. Ma tale gioia non è scevra dalla curiosità: Catullo non vuole solo riabbracciarlo, ma conoscere ciò che ha visto e imparato.

Un altro tema affrontato, ma non principale nel Liber, è quello politico, o per meglio dire di sottolineatura apolitica rispetto a due grandi uomini di potere:

A CESARE
(XCIII) 

Nil nimium studeo, Caesar, tibi velle placere,
nec scire utrum sis albus an ater homo.

Non mi preoccupo troppo di volerti piacere, né di sapere se tu sia un uomo bianco o nero.

In questo unico distico elegiaco (si definisce così l’unione di due versi di cui uno in esametro e l’altro in pentametro) l’autore vuole mostrare completa indifferenza verso l’uomo che, durante la sua vita, era al culmine del potere politico. Tale indifferenza, d’altra parte, era pienamente condivisa dai poeti neoterici; viene qui, tuttavia, sottolineata attraverso l’ironia, con cui  Catullo sembra alludere all’ambiguità sessuale dell’uomo politico.

Ora se, una scuola poetica fortemente “aristocratica” nel percepire la realtà ed il mondo attraverso il culto della bellezza, e quindi di per sé lontana dai populares, non per questo egli è vicino agli optimati come si può vedere in questo passo:

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Giocatori di dadi 

A CICERONE
(IL)

Disertissime Romuli nepotum,
quot sunt quotque fuere, Marce Tulli,
quotque post aliis erunt in annis,
gratias tibi maximas Catullus
agit pessimus omnium poeta,
tanto pessimus omnium poeta,
quanto tu optimus omnium patronus.

O Marco Tullio, il più fecondo tra i nipoti di Romolo, di quanti sono, di quanti furono e di quanti saranno negli anni futuri, Catullo ti ringrazia moltissimo, il peggiore poeta fra tutti, quanto tu il migliore avvocato fra tutti.

Anche qui, sebbene attraverso un linguaggio più ricercato ed enfatico, scopriamo un vero e proprio intento ironico, contro colui che aveva rimproverato i neoteroi di “criticare” il sommo Ennio, padre della patria e i cui versi servivano ad educare i bambini Romani al rispetto delle leggi e della famiglia. Ma d’altra parte Catullo cosa può condividere con un uomo un po’ borioso, ma sincero nel suo impegno per salvare la repubblica ed un gruppo di giovani, di cui fa parte, ormai così ellenizzato ed internazionale che della patria e dei suoi valori non importa nulla? Cosa ha ancora da condividere con chi, inoltre, si era scagliato in modo così violento contro la sua donna nella Pro Caelio da definirla una “mangiatrice d’uomini” e “poco di buono”?

Un altro tema importantissimo è quello della morte, che possiamo riassumere in due diversi atteggiamenti, quello giocoso e quello biografico e triste:
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Edward Pointer: Lesbia con il suo passerotto (1908)

Il primo è quello della morte del passero, tuttavia non si può leggere tale passo senza introdurlo con il carme II in cui tale uccellino ci viene presentato:

IL PASSEROTTO DI LESBIA
(II)

Passer, deliciae meae puellae,
quicum ludere, quem in sinu tenere,
cui primum digitum dare appetenti
et acris solet incitare morsus,
cum desiderio meo nitenti
carum nescioquid lubet iocari,
et solaciorum sui doloris,
credo, ut tum gravis acquiescat ardor:
tecum ludere sicut ipsa possem
et tristis animi levare curas!

Passero, gioia della mia ragazza, con cui è solita giocare, tenerlo in grembo, offrirgli la punta del dito a lui che gli si avventa contro e provocare pungenti beccate, quando al mio splendido amore piace giocare non solo quale gioco gradito e di piccolo sollievo del suo suo dolore, credo, affinché plachi poi la bruciante passione: potessi giocare con te come lei stessa (gioca con te) e dimenticare i tristi affanni!

LA MORTE DEL PASSERO
(III)

Lugete, o Veneres Cupidinesque,
et quantum est hominum venustiorum:
passer mortuus est meae puellae,
passer, deliciae meae puellae,
quem plus illa oculis suis amabat.
nam mellitus erat suamque norat
ipsam tam bene quam puella matrem,
nec sese a gremio illius movebat,
sed circumsiliens modo huc modo illuc
ad solam dominam usque pipiabat.
Qui nunc it per iter tenebricosum
illuc, unde negant redire quemquam.
At vobis male sit, malae tenebrae
Orci, quae omnia bella devoratis:
tam bellum mihi passerem abstulistis
o factum male! o miselle passer!
Tua nunc opera meae puellae
flendo turgiduli rubent ocelli.

Piangete Veneri, piangete Amori, e chiunque abbia un animo gentile. E’ morto il passero della mia donna, il passero, gioia della mia donna, che lei più dei suoi occhi amava; era tutto miele, e la conosceva come una bimba conosce la madre, e dal suo seno mai si distaccava, ma saltellando qui e là solo per lei pigolava. Ma adesso va per il cammino oscuro, da cui, si dice, non torni più nessuno. Maledizione a voi, tenebre cattive, che ogni cosa bella divorate: un amore di passero avete annientato. Fatto orrendo! Passero infelice! Per causa tua la mia donna piange, e gli occhi belli sono rossi e gonfi.

I due carmi, messi uno a fianco all’altro dopo la dedica, costituiscono quasi un unicum: dapprima vediamo l’uccellino in atteggiamento fortemente amoroso con la sua donna, il secondo è un epicedio (componimento poetico funebre) per la morte del passerotto di Lesbia. Anche la morte di un animale, come molti altri, è un tema assai presente nella lirica greca, che Catullo qui riprende sia con giusta mestizia, ma anche con graziosa leggerezza. D’altra parte l’episodio funebre serve al poeta per parlare di Lesbia, qui ritratta con semplice freschezza, piena d’attenzioni per il suo passerotto ed inconsolabile quando lui non c’è più.

Ben diverso tono ha la poesia per la morte del fratello:
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Tomba romana

PER LA MORTE DEL FRATELLO
(CI)
Multas per gentes et multa per aequora vectus
advenio has miseras, frater, ad inferias,
ut te postremo donarem munere mortis
et mutam nequiquam alloquerer cinerem.
quandoquidem fortuna mihi tete abstulit ipsum.
heu miser indigne frater adempte mihi,
nunc tamen interea haec, prisco quae more parentum
tradita sunt tristi munere ad inferias,
accipe fraterno multum manantia fletu,
atque in perpetuum, frater, ave atque vale. 

Di gente in gente, di mare in mare ho viaggiato,  o fratello, e giungo a questa squallida tomba per consegnarti il dono supremo di morte e per parlare invano con le tue ceneri mute, poiché la sorte mi ha rapito te, proprio te, o infelice fratello precocemente strappato al mio affetto. Ed ora queste offerte, che ti porgo come comanda l’antico rito degli avi, dono dolente alla tomba, gradisci; sono madide di molto pianto fraterno; e ti saluto per sempre, o fratello, addio.

Carme famosissimo, grazie anche alla “mediazione” che Foscolo ne fece nel celeberrimo sonetto In morte del fratello Giovanni. Si tratta infatti della tomba che Catullo visitò nel 57 nel suo viaggio nella Troade al seguito del pretore Gaio Memmio. A ben guardare sin dall’inizio del carme la distanza tra la tomba e il poeta sembra presagire la stessa distanza tra la vita e la morte. La cenere è infatti muta, impenetrabile. Al poeta non rimane che, tradizionalmente, offrire riti funebri e dare un addio definitivo, rimarcando (seguendo la filosofia epicurea?) il vuoto dopo la morte.

L’amore

Ma il tema centrale, quello che, come un filo rosso percorre l’intero Liber, è il tema d’amore, rivestito con incredibile letterarietà, ma sempre con innegabile passione. Tale concetto lo si può notare nel bellissimo rifacimento che egli compì di una lirica di Saffo:

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Saffo

LA POTENZA DELL’EROS
(LI)
Ille mi par esse deo videtur,
ille, si fas est, superare divos,
qui sedens adversus identidem te
spectat et audit
dulce ridentem, misero quod omnis
eripit sensus mihi: nam simul te,
Lesbia, aspexi, nihil est super mi
(vocis in ore),
lingua sed torpet, tenuis sub artus
flamma demanat, sonitu suopte
tintinant aures, gemina et teguntur
lumina nocte.
Otium, Catulle, tibi molestum est;
otio exsultas nimiumque gestis.
Otium et reges prius et beatas
perdidit urbes

Pari a un dio mi sembra, o più ancora, se è lecito dire, chi ti siede di fronte, e ti guarda, e ascolta, ridere dolcemente, ed io, infelice, smarrisco ogni senso: al primo vederti, Lesbia, non mi resta un filo di voce, la lingua s’annoda, sotto pelle trascorre fiamma sottile, un suono dentro mi romba nelle orecchie, gli occhi si coprono di duplice notte. L’ozio, Catullo, ti fa male; in ozio t’agiti troppo, t’esalti. L’ozio ha già rovinato re e città intere.

Come già detto si tratta di una traduzione/emulazione di una lirica della poetessa Saffo, cui si allontana solo nell’ultima parte, quella dedicata alla riflessione sull’ozio. Tale carme ci offre la possibilità di ragionare sul concetto del vertere poetico, cui i neoteroi e chiaramente Catullo, danno notevolissima importanza. Qui infatti egli riprende non solo il tema ma anche la versificazione della poetessa greca, versificazione difficile e rara che egli utilizza qui, quasi questo fosse l’atto dell’innamoramento e nel testo 11 che sembra invece alludere alla fine di un amore. Tale corrispondenza non sembra casuale, come ad indicare che la scelta metrica obbedisca a momenti topici e fondamentali (il principio e la fine della sua storia d’amore).

Dopo essersene innamorato il poeta la desidera con tutta la forza, volendole dare tutti i baci possibili: 

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Auguste Rodin: Il bacio (1886)

MILLE BACI
(V)
Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
Soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
Dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.

Viviamo, mia Lesbia, e amiamoci e le chiacchiere dei vecchi brontoloni stimiamole tutte un soldo! Il sole può morire e può rinascere: ma quando per noi cade la breve luce dobbiamo dormire insieme una notte eterna. Dammi mille baci, poi cento, poi altri mille, poi un’altra volta cento, e ancora altri mille e ancora cento. Infine, quando ce ne saremo dati migliaia, li confonderemo per non sapere quanti sono, o perché nessun malvagio possa invidiarci dopo aver saputo quanti baci ci siamo dati.

Lirica quanto mai passionale: un vero e proprio invito all’amore spinge il poeta e l’amante a sfinirsi di baci; ma non è solo amore. Vi è in Catullo una sottile malinconia, che lo spinge a vivere con estrema intensità visto che al di là c’è il vuoto, come già abbiamo visto nel canto dedicato al fratello. La compulsività del numero dei baci, infatti, sembra voler nascondere la brevis lux della vita, sottolineata dall’ambiguità del dover dormire una notte eterna e che non finisce mai.

Ma come intendeva l’amore Catullo? Alla base di tutto fra i due amanti è necessario un foedus (patto) che sancisca per ambedue la fides (la fiducia) tra l’uno e l’altro:

FOEDUS ET FIDES
(LXXXVII)
Nulla potest mulier tantum se dicere amatam
vere, quantum a me Lesbia amata mea est.
Nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta,
quanta in amore tuo ex parte reperta mea est. 

Nessuna donna può dire d’essere stata tanto amata veramente, quanto tu Lesbia sei stata amata da me. In nessun patto ci fu mai tanta fiducia che questo mio amore verso te ha rivelato.

E’ abbastanza importante l’utilizzo dei due termini sopra riportati nel riferirsi al rapporto d’amore: infatti Catullo utilizza il termine foedus che ha radice politica: esso indicava l’alleanza tra due stati; fides aveva diverse accezioni, ma veniva soprattutto usata in campo coniugale. Il fatto che il poeta veronese spostasse il campo semantico dei due termini in un rapporto erotico dal loro significato “ufficiale” tende da un lato a voler rendere ufficiale e quindi riconoscibile una vera, così come Catullo intendeva viverla, storia d’amore e dall’altra l’impossibilità di realizzarla.

Un’altra importante terminologia che Catullo ci svela sul piano della poesia erotica è quella di amare e voler bene:

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Coppia romana

AMARE ET BENE VELLE
(LXXII)
Dicebas quondam solum te nosse Catullum,
Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.
Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,
sed pater ut gnatos diligit et generos.
Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror,
multo mi tamen es vilior et levior.
«Qui potis est?», inquis, quod amantem iniuria talis
cogit amare magis, sed bene velle minus.

Dicevi un tempo d’amare il solo Catullo, Lesbia, e che non avresti voluto amare neppure Giove al posto mio. Ti ho amato non soltanto come la gente ama un’amante, ma come un padre ama i suoi figli e i suoi generi. Ora ho capito: perché anche se brucio più intensamente, sei meno degna di stima e d’amore. «Com’è possibile?», dici. Perché un’ingiuria tale costringe un amante ad amare di più, ma a voler meno bene.

E’ un carmen dove già comincia ad apparire la disillusione catulliana. Il tradimento di Lesbia, qui adombrato, fa sì che il poeta chiarisca bene il concetto di cosa sia per lui l’amore e cosa il semplice affetto. E’ infatti utile dividere il brano in due periodi: un prima in cui Catullo ama stimando la persona umana e quindi circondarla d’affetto e chi, ferito, continui ad amare ma soltanto per soddisfare un bisogno fisico. Infatti per Catullo si brucia d’amore (uri) per possedere, ma si ama quando si vuole bene (bene velle).

La delusione e dissociazione dell’autore verso la donna cui dedica ogni attimo della sua vita, viene riassunta in modo mirabile in un distico famosissimo:

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Pittura contemporanea

ODI ET AMO
(LXXXV)
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse mi chiedi come io faccia. Non lo so, ma sento che ciò accade, e ne sono tormentato.

Qui viene sintetizzato in modo mirabile il conflitto interiore, esemplificato nei due verbi odi/amo che in parte rispecchia il amare/bene velle. Ma non c’è un ripiegamento psichico, quanto una situazione fenomenica: i tradimenti di lei lo portano a odiarla e amarla.

D’altra parte ormai Lesbia si sta lasciando completamente andare:
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John Reinhard Weguelin – Lesbia

L’ESTREMA DEGRADAZIONE
(LVIII)
Caeli, Lesbia nostra, Lesbia illa,
illa Lesbia, quam Catullus unam
plus quam se atque suos amavit omnes,
nunc in quadriviis et angiportis
glubit magnanimi Remi nepotes.

Celio, la nostra Lesbia, la bella Lesbia. la bella Lesbia, che lei sola Catullo amò più di se stesso e tutti i suoi, ora negli incroci e nei vicoli scortica i nipoti del magnanimo Remo.

Catullo si rivolge ad un amico, (i critici azzardano forse un Celio di Verona) per riferirgli la più completa degradazione della sua donna che ormai s’accompagna nei bassifondi con un tutti gli uomini di Roma. E’ certamente una visione soggettiva dettata da forte ira, con una chiusa sarcastica che chiude in modo osceno il carme. Infatti glubo riveste qui un significato osceno di “smungere, vuotare”.

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Stefano Bakalovich: Catullo legge versi ai suoi amici

Ma anche Catullo tradisce Lesbia con altre donne e non solo, se si lascia irretire dalla greca pederastia, dedicando, con le stesse parole che usa per l’amata, più di un carme per il giovinetto Giovenzio:

VERSI PER GIOVENZIO
(XLVIII)
Mellitos oculos tuos, Iuventi,
si quis me sinat usque basiare,
usque ad milia basiem trecenta
nec numquam videar satur futurus,
non si densior aridis aristis
sit nostrae seges osculationis.

I tuoi occhi, o Giovenzio, dolci come il miele, se qualcuno mi lasciasse liberamente baciare, io li bacerei migliaia di volte, né mi parrebbe di essere mai sazio, anche se più fitta delle spighe mature fosse la messe dei miei baci.

La difficoltà di questo carme non è tanto attestare la veridicità dell’amore di Catullo per questo ragazzo, in quanto sappiamo che la pratica omosessuale da parte di questi poetae novi e della classe intellettuale era abbastanza diffusa ed accettata, quanto piuttosto se il verseggiare sopra di essa non sia una ripresa della poesia greca arcaica, cui il nostro faceva riferimento. Basti pensare che quella in cui egli comincia a provare il desiderio verso Lesbia, il carme 51, chiamato qui La potenza dell’eros, sia una ripresa piuttosto puntuale di una lirica della poetessa Saffo dedicata ad una ragazza.

Ma come proprio tale lirica, cui Catullo riprende la versificazione, aveva indicato l’inizio del suo amore, ora sarà un’altra lirica, nello stesso verso, ad indicarne la fine:
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Lawrence Alma-Tadema: Catullo da Lesbia (1865)

AMICI MIEI DITE A LESBIA…
(XI)
Furi et Aureli comites Catulli,
sive in extremos penetrabit Indos,
litus ut longe resonante Eoa
tunditur unda,
sive in Hyrcanos Arabesve molles,
seu Sagas sagittiferosve Parthos,
sive quae septemgeminus colorat
aequora Nilus,
sive trans altas gradietur Alpes,
Caesaris visens monimenta magni,
Gallicum Rhenum horribile aequor ulti-
mosque Britannos,
omnia haec, quaecumque feret voluntas
caelitum, temptare simul parati,
pauca nuntiate meae puellae
non bona dicta.
cum suis vivat valeatque moechis,
quos simul complexa tenet trecentos,
nullum amans vere, sed identidem omnium
ilia rumpens;
nec meum respectet, ut ante, amorem,
qui illius culpa cecidit velut prati
ultimi flos, praetereunte postquam
tactus aratro est.

Furio ed Aurelio, compagni di Catullo, sia se penetrerà tra gli ultimi Indi, dove il lido è battuto dall’onda orientale che risuona, sia tra gli Ircani o i lenti Arabi, sia tra i Saghi o i Parti armati di frecce, sia tra le acque che colora il Nilo dalle sette foci, sia se entrerà tra le alti Alpi, visitando le opere del grande Cesare, il gallico Reno, il mare orrendo e gli ultimi Britanni, tutte queste realtà, qualunque volontà dei celesti deciderà, pronti ad affrontarle insieme, annunciate alla mia ragazza poche parole non buone. Viva e goda coi suoi ganzi: ne tiene trecento insieme abbracciandoli, non amandone nessuno veramente, ma ugualmente rompendo i fianchi di tutti; e non aspetti, come prima, il mio amore, che per sua colpa è caduto come un fiore dell’ultimo prato, dopo esser stato tranciato da un aratro che passava.

Il carme indica l’estrema amarezza con cui Catullo sembrerebbe chiudere la storia (o un momento di essa). Un viaggio lontano, per andare via, verso luoghi favolosi; tutto questo per dimenticarla e allontanare da sé quest’amore che non ha fatto altro che spezzargli il cuore.

A tale allontanamento, forse definitivo, si avvicina uno dei testi più elaborati, ma certamente tra i più belli, in cui, cessata la rabbia, nasce quasi la consapevolezza della fine di una storia: non occorre più adirarsi verso colei che gli ha occupato la mente in modo totale, ma trovare la pace con se stesso.

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Immagine di Catullo

PREGHIERA AGLI DEI
(LXXVI)
Siqua recordanti benefacta priora voluptas
est homini, cum se cogitat esse pium,
nec sanctam violasse fidem, nec foedere nullo
divum ad fallendos numine abusum homines,
multa parata manent in longa aetate, Catulle,
ex hoc ingrato gaudia amore tibi.
Nam quaecumque homines bene cuiquam aut dicere possunt
aut facere, haec a te dictaque factaque sunt:
omnia quae ingratae perierunt credita menti.
Quare cur te iam amplius excrucies?
Quin tu animo offirmas atque istinc teque reducis,
et deis invitis desinis esse miser?
Difficile est longum subito deponere amorem;
difficile est, verum hoc qua lubet efficias.
Una salus haec est, hoc est tibi pervincendum;
hoc facias, sive id non pote sive pote.
O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam
extremam iam ipsa in morte tulistis opem,
me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi,
quae mihi subrepens imos ut torpor in artus
expulit ex omni pectore laetitias.
Non iam illud quaero, contra me ut diligat illa,
aut (quod non potis est) esse pudica velit;
ipse valere opto et taetrum hunc deponere morbum.
O di, reddite mi hoc pro pietate mea.

Se il ricordo del bene compiuto in passato dà piacere al pensiero d’essere stati giusti, di non avere mai tradito e offeso il nome degli dei per ingannare l’uomo, mai in nessun rapporto, molte gioie t’aspettano, e per molti anni, o Catullo, per questo amore senza gratitudine. Perché quanto gli uomini possono ad una persona dire o fare di bene tu l’hai detto e l’hai fatto. Tutto è morto, donato a uno spirito ingrato. Perché allora continui a torturarti? Perché non ti fai forte e ti stacchi da questo, ritorni, senza essere più infelice, se gli Dei non lo vogliono? È difficile, a un tratto, un lungo amore, lasciarlo. È difficile, sì, ma devi farlo. E come vuoi tu. È la sola salvezza. E tu devi vincere, devi. Cerca di farlo, se puoi, e anche se non puoi. O Dei, se è qualità divina avere pietà, se mai soccorreste qualcuno sulla terra nell’ora della morte guardatemi. Io sono infelice. E se la mia vita fu pura, strappate questa malattia mortale, che penetra nelle fibre acuta come un torpore e mi toglie dal cuore tutto il gusto di vivere. Non chiedo, no, che lei mi possa riamare, e che diventi pura, perché non è capace: io ho voglia di star bene, guarire dal mio tetro male.Concedetemi questo, Dei, per la mia fede.

Tale carme rispecchia il tormento interiore del poeta, tormento, tuttavia, di cui è oggetto e non soggetto. Egli elaborando la sua storia d’amore, ricorda la fides ed il foedus con cui l’ha condotta; poi, nella seconda parte del carme, sottolinea la difficoltà di liberarsi dal sentimento, perché non sa come fare ed infine chiude con l’invocazione agli dei affinché lo liberino dal tormento e lo conducano alla serenità.

Certo, una poesia sul discidium come questa non poteva essere che avere Catullo protagonista: lui ha conservato l’amore, lui ha procurato quindi del bene a lei, è lei l’ingrata che lo ha lasciato. Ma ora basta. Solo una cosa è rimasta da chiedere, da volere, e non la chiede a lei, sorda ad ogni atto che lui le ha dato, ma agli dei: che lo liberino, una volta per tutte da questo taetrum morbum, reddite pacem misero Catullo.

 

 

AULO PERSIO FLACCO

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Aulo Persio Flacco

Come un gran numero di autori latini, anche le notizie su questo giovane scrittore sono poche e provengono quasi tutte da Marco Valerio Probo che, sempre in età neroniana, ci lasciò una sua biografia. Da tali notizie sappiamo che nacque nel 34 d.C. a Volterra da un’importante famiglia etrusca d’origine equestre e che a dodici anni si trasferì a Roma, dove fu seguito da importanti maestri, tra i quali troviamo quel famoso Anneo Cornuto, di cui divenne un fidato amico e che gli permise di conoscere Seneca e di diventare sodale con il più o meno coetaneo Lucano. L’immagine che si tramanda di lui è quella di un ragazzo ombroso, poco sociale, integerrimo nel seguire i precetti stoici che l’amico Cornuto gli trasmetteva. Ma ci dice anche di una sua precocissima capacità intellettiva, grazie anche alla sua grande biblioteca, che gli permise di scrivere una praetexta, un libro di viaggi, una biografia di una donna che seguiva il marito nella scelta del suicidio per la libertà, ma soprattutto delle Satire. Come il suo amico Lucano anch’egli non fece in tempo a godere del successo, ma fu questa volta la natura ad opporsi al suo affermarsi quand’era in vita: lo stroncò una malattia di stomaco ad appena 28 anni. Lasciò la sua ricca biblioteca a Cornuto e nessun testo pubblicato. A scegliere, pertanto, ciò che poteva esser letto del lavoro di Persio fu l’amico Cesio Basso e Cornuto stesso, che non fecero pubblicare nulla che apparisse troppo acerbo o che potesse diventare pericoloso per i parenti del poeta. Lasciò solo che venissero rese pubbliche le satire, dopo avervi apportato “necessarie” modifiche. Il successo del libro, una volta che fu in circolazione, fu enorme ed il nome di Persio s’impose come grande poeta.

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Vecchissima edizione delle Satire pubblicata ad Amsterdam nel 1650

Satire 

Il libro delle Satire è composto da sei componenti in esametri (verso ormai canonico per tale genere) a cui si aggiunge, all’inizio o alla fine, a seconda del manoscritto pervenutoci, un breve componimento in coliambi (verso dell’invettiva) in cui rivendica il suo essere semipaganus (rustico) e di lasciare l’alta poesia ai sommi poeti o a chi s’illude di saperli imitare.

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Joos de Momper: Minerva visita le Muse nel Monte di Elicona

COLIAMBO

Nec fonte labra prolui caballino
nec in bicipiti somniasse Parnaso
memini, ut repente sic poëta prodirem.
Heliconidasque pallidam Pirenem
illis remitto, quorum imagines lambunt
hederae sequaces: ipse semipaganus
ad sacra vatum carmen adfero nostrum.
Quis expedivit psittaco suum chaere
picamque docuit verba nostra conari?
Magister artis ingenique largitor
Venter, negatas artifex sequi voces.
Quod si dolosi spes refulserit nummi,
corvos poëtas et poëtridas picas
cantare credas Pegaseium nectar.

Non ho bagnato le labbra sulla fonte del cavallino / né ricordo di aver sognato sulla duplice cima del Parnaso, / per diventare così immediatamente un poeta. / Le Muse abitatrici dell’Elicona e la pallida Pirene / lascio a quelli le cui immagini ricoprono / l’edere rampicanti: io stesso semirustico / porto il nostro canto ai sacri riti dei vati. / Chi ha suggerito al pappagallo il suo “Salve!” / e ha insegnato alla gazza a ripetere le nostre parole? / Maestro delle arti e donatore d’ingegno, / il ventre, artefice nell’imitare le voci negate (dalla natura). / Ma se risplenderà la speranza dell’ingannatore denaro, / tu crederai che i corvi poeti / e le gazze poetesse cantino il nettare di Pegaso.

Per la natura di questi versi, ci piace immaginare che questi 14 coliambi fossero più introduttivi che finali. Infatti qui il poeta si scaglia contro la poesia dei suoi tempi, ritenuta ampollosa e vuota e afferma con forza il fatto di non essersi imbevuto nelle fonti care alle Muse. Ma cominciamo, attraverso lo stile, a capire come egli intenda attaccare i “vizi” dei suoi contemporanei, con acrimonia, piuttosto che “simpatica ironia” com’era in Orazio. Si veda a tal proposito l’insistenza con cui paragona gli animali il cui suono risulta o ripetitivo o estremamente rauco (pappagalli, gazze, corvi). Capiamo già da questa piccola introduzione, come in Persio non ci sia condivisione e sorriso tra amici, ma la voce arcigna e un po’ pedante di un maestro che, infarcito di sapienza stoica, riprende e irride ai poeti suoi contemporanei.

Quindi inizia il vero e proprio testo con la prima satira, in cui si scaglia contro la mediocrità della poesia contemporanea che non sa mordere, fustigare, come dovrebbe, i vizi della gente di Roma.

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Maschera di un satiro

LA SATIRA NON VA DI MODA
(I, vv. 1-12)

O curas hominum! O quantum est in rebus inane!
“Quis leget haec?” min tu istud ais? Nemo hercule.
Vel duo vel nemo. “Turpe et miserabile!” quare?
Ne mihi Polydamas et Troiades Labeonem
praetulerint? Nugae! Non, si quid turbida Roma
elevet, accedas examenve inprobum in illa
castiges trutina nec te quaesiveris extra.
Nam Romae quis non – a, si fas dicere – sed fas
tum cum ad canitiem et nostrum istud vivere triste
aspexi ac nucibus facimus quaecumque relictis,
cum sapimus patruos, tunc tunc ignoscite… nolo…
quid faciam? Sed sum petulanti splene: cachinno.

O cure degli uomini! O quanto vuoto c’è nelle cose! / “Chi leggerà queste cose?” Tu dici questo a me? Nessuno, per Ercole. / O due o nessuno. “Vergognoso e miserabile” Perché? / Che le Polidemanti e le Troiane preferiscano a me Labeone? / Sciocchezze! Non, se la torbida Roma (ti) screditi / qualcosa, non avvicinarti né correggi lo storto ago / in quella bilancia né cerca te fuori (di te). / Infatti a Roma chi non – ah, se fosse lecito parlare – ma è lecito… / Allora quando ho rivolto lo sguardo alla canizie / e a quel nostro vivere triste e, lasciato il gioco con le noci / facciamo qualcosa, quando abbiamo l’aria di zii, / allora allora vogliatemi scusare… non voglio… / che farò? Ma sono con la milza indolente: rido smoderatamente.

L’inizio della I satira si struttura con un dialogo tra il poeta e un personaggio fittizio, a cui il nostro rivendica la sua libertà di poter ridere, appunto smoderatamente, contro le storture della società. Ed è qui che, tuttavia si segna la differenza con quelli che, sempre nella stessa satira, definisce i suoi maestri:

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Gli strumenti per scrivere nell’antichità

I MODELLI: LUCILIO ED ORAZIO
(I, vv. 114-123)

(…) Secuit Lucilius urbem,
te Lupe, te Muci, et genuinum fregit in illis;
omne vafer vitium ridenti Flaccus amico
tangit et admissus circum praecordia ludit
callidus excusso populum suspendere naso;
me muttire nefas? nec clam? nec cum scrobe? nusquam?
hic tamen infodiam. Vidi, vidi ipse, libelle:
auriculas asini quis non habet? (…)

(…) Lucilio fustigò a sangue la città, / colpì te, o Lupo, te o Mucio, fino a ficcare in loro un dente; / Flacco punge scaltro ogni vizio all’amico, facendolo ridere / e ammesso nel suo cuore, gioca / furbo e appende il popolo sul (suo) naso pulito. / Ed io è necessario che zittisca? Neppure di nascosto? Neanche in una buca? Sempre? / Allora lo sotterrerò. Lo visto, io stesso lo visto, il mio libretto: / chi non ha le orecchie d’asino?

E’ palese qui il richiamo verso i suoi predecessori: l’inventore del genere, Lucilio, e colui che portò lo stesso all’apogeo, facendolo diventare un classico, Orazio Flacco. Infatti qui appaiono i veri temi dei due verso cui egli si rivolge: la mordacità di Lucilio e alcuni modelli strutturali e stilistici di Orazio. Ma, bisogna pur notare come egli, molto più dei suoi predecessori, sia infarcito di filosofia stoica che lo porta verso un rigorismo moralistico che appartiene solo a lui. Attenzione all’ultimo verso: sembra che il testo “originale” di Persio recitasse auriculas asini Mida rex non habet? Ma l’illusione troppo diretta a Nerone nella figura di re Mida sconsigliò l’editore a pubblicarla e fu così emendata.

Nella II satira, scritta sotto forma di epistola, il nostro attacca coloro che pregano gli dei in modo interessato. Infatti non viene ascoltato chi prega davanti a una culla affinché il fanciullo diventi ricco e potente, al contrario di chi si pone di fronte al dio in modo puro e sincero. Si veda, in questi pochi versi, come prenda in giro la richiesta a gran voce della salute e preghi disgrazie per averne vantaggi:

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Mosaico pompeiano raffigurante la Morte

PREGHIERA
(II, 8-14)

“Mens bona, fama, fides”, haec clare et ut adiat hospes;
illa sibi introrsum et sub lingua murmurat: “O si
ebulliat patruus, praeclarum funus!” et “O si
sub rastro crepet argenti mihi seria dextro
Hercule; pupillumve utinam, quem proximus heres
inpello, expungam: nam et est scabiosus et acri
bile timet; Nerio iam tertia conditur uxor”.

“Mente sana, fama, credito”: ben chiaro e che si senta; / ma dentro di sé e tra i denti mormora: “ Oh, se morisse lo zio, che splendido funerale!” e “Oh, se / sotto la zappa risuonasse un forziere d’argento, con il favore / di Ercole; o potessi cancellare il mio pupillo, che incalzo / come prossimo erede: infatti è pieno di scabbia ed è gonfio / di bile nera; a Nerio è già morta la terza moglie”.

Famosa la terza satira perché sembra abbia ispirato l’attacco di Parini al “giovin signore”: infatti anche qui si prende di mira un indolente che conduce vita dissipata per indurlo a intraprendere il cammino della retta via, attraverso la virtù stoica.

CONSIGLI STOICI
(III, 66-72)

Discite, o miseri, causas cognoscite rerum:
quid sumus et quidnam victuri gignimur, ordo
quis datus, aut metae qua mollis flexus et unde,
quis modus argento, quid fas optare, quid asper
utile nummus habet, patriae carisque propinquis
quantum elargiri deceat, quem te deus esse
iussit et humana qua parte locatus es in re.

Imparate, o dissennati, a conoscere le ragioni delle cose; / ciò che siamo, per quale vita nasciamo, il luogo / assegnato, come e da dove aggirare lievemente la méta, / la misura delle ricchezze, ciò cui è lecito aspirare, l’utilità / della ruvida moneta serbata, quanto convenga donare / alla patria e ai cari congiunti, chi volle dio che tu fossi, / e quale il ruolo a te assegnato nella condizione umana.

E’ questa la dimostrazione di come qui il giovane Persio stia lontano dal sorriso indulgente oraziano e, perché no?, dal suo modo di proporsi, che fa dire allo stesso d’esser parte del gregge epicureo, contro la virtus stoica che qui si erge ad insegnare il modus vivendi del saggio. Possiamo anche notare come, pur con tutte le notazioni senecane e, quindi, del suo amico Cornuto, egli non riesca a condividerle, a sorridere insegnando, ma ad impartire una lezione morale verso chi, ingiustamente, si gode la vita.

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Nosce te ipsum in greco

Nella IV satira egli sottolinea l’importanza del “nosce te ipsum” conosci te stesso, per chi voglia interessarsi di politica e impartire, così, direttive etiche per gli altri (direttive molto simili a quelle poste al “giovin signore”).

Altro tenore hanno le ultime due Satire: la V rivolta a Cornuto, svolge il tema della libertà stoica, contrapponendola ai vizi umani; la VI, invece, dedicata a Cesio Basso, deplora il vizio dell’avarizia mostrando l’uso giusto dei beni posseduti.

Già in questi ultimi esempi possiamo dire come, all’interno della Satira di Persio, si segni una leggera evoluzione. Partito con un forte spirito polemico, che lo avvicina più alla diatriba che allo stoicismo senecano, egli pare guidato dall’ira, dall’incapacità di credere che ci fosse qualcuno incapace di rispettare la virtus, come se ciò fosse naturale e quindi per lui incomprensibile, in quanto “proprio” contro natura. Ma è proprio nelle ultime satire che invece non si pone più come colui che, raggiunta la saggezza può porsi al di sopra degli altri ma, posto allo stesso livello dei suoi maestri/amici Cornuto e Cesio Basso, possa egli stesso mettersi alla ricerca della libertà stoica.

Stile

E’ evidente che tale carica critica e moralista ad un tempo, così come s’allontana dal sorriso oraziano, s’allontana dallo stile del maestro di Venosa: Orazio, infatti, critica in Lucilio proprio lo stile “fangoso”, per così dire non fluido, spezzettato, e ricerca invece l’eleganza, l’armonia, avvenga pur essa con la mirabile mescolanza tra sermo cotidianus e sermo elegans. Egli utilizza infatti la callida iunctura, cioè l’ardito accostamento delle parole, dando ad esse un nuovo significato, lasciando, così, sorpreso il lettore. Persio, invece, insegue la acris iunctura, cioè il difficile ed aspro accostamento di parole, affinché il lettore non sia più soltanto sorpreso, ma, anche e soprattutto sferzato da esse e costretto, pertanto, a trarne un insegnamento morale. Per questo il suo stile riesce spesso “difficile”; è d’altra parte volontaristico il fatto che Persio oggettivizzi il suo moralismo nello stile: ad una realtà caotica, che ha perduto i valori e non sa seguire la virtus, segue uno stile altrettanto “irato” che, per questo, non può essere certo ironico.

GIOVANNI PASCOLI

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Giovanni Pascoli

Se il Decadentismo e il Simbolismo sono per D’Annunzio un evento letterario cui rifarsi in modo, tutto sommato, esteriore, diventando così mediatore culturale delle più recenti esperienze europee, in Giovanni Pascoli la nuova sensibilità viene percepita in modo più interiore, come forma di una risposta necessaria alla complessa psicologia del nostro autore. Sarà la vita stessa a far sì che il suo mondo, così problematico e messo a dura prova da tragici avvenimenti, veda nel nuovo atteggiamento con cui gli intellettuali (soprattutto francesi) percepiscono il reale, la soluzione più adatta per affrontare/non affrontare (a volte a livello conscio altre inconscio) la difficile situazione biografica del nostro e a fare della sua poesia uno dei vertici più alti della letteratura decadente e simbolista in Italia.

Nato a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli, in suo onore) nel 1855, quarto di dieci figli, Pascoli vive una giovinezza piuttosto felice, frutto anche di una certa agiatezza familiare. Sin da giovane mostra le sue eccezionali capacità: infatti a sette anni viene mandato in un prestigioso collegio d’Urbino dove si distingue nell’apprendimento delle lingue classiche. Ma un tragico avvenimento segna, definitivamente, la sua adolescenza: il 10 agosto del 1867 il padre, Ruggero, amministratore dei principi Torlonia, viene assassinato, ma nessuno saprà mai né l’autore né il movente di tale omicidio. L’anno seguente la sorella maggiore, Margherita, muore di tifo, seguita, dopo pochi giorni, dalla morte della madre.

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Villa Torlonia, dove lavorava Ruggero Pascoli

I fratelli, rotto definitivamente il nucleo familiare si disperdono tra il collegio di Urbino, scuole tecniche e casa della zia, mentre le due più piccole, Ida e Maria, verranno mandate come educande in un convento. Alla morte di un altro fratello, Luigi, per meningite, il fratello più grande, Giacomo, deve assumere il comando della rimanente famiglia, fattasi improvvisamente povera, richiama tutti i fratelli e lascia il solo Giovanni, viste le sua capacità, a proseguire gli studi liceali.

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Papà Ruggero con i figli 

Nel 1873 Pascoli ottiene una borsa di studio che gli permette di iscriversi all’Università di Bologna, dove diventa allievo di Giosue Carducci. Nel 1875 gli viene revocata la borsa di studio per aver partecipato ad una dimostrazione contro il Ministro della Pubblica Istruzione. Nel 1876 perde anche il fratello Giacomo: il senso di frustrazione lo fa entrare in contatto con i circoli socialisti guidati da Andrea Costa e a causa di un volantinaggio viene arrestato e rimane in prigione per tre mesi, siamo nel 1879.

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Pascoli giovane: problemi giudiziari

Uscito di prigione Giovanni entra in depressione: lascia la politica e, grazie a Carducci, riesce a laurearsi in lettere nel 1882.

Diventa insegnante di latino e greco presso un liceo di Matera, poi verrà trasferito dapprima a Massa, poi a Livorno. Qui si riunisce con le sorelle Ida e Maria. Il matrimonio di Ida provoca in lui un forte turbamento e stabilisce un forte legame affettivo con Mariù (così come la chiama lui), che rinuncerà a sposarsi e diverrà la curatrice di tutte le opere pascoliane.

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Pascoli tra Ida e Maria

Comincia a pubblicare varie raccolte poetiche: del 1891 è Myricae, apprezzate da D’Annunzio. L’anno seguente vince la medaglia d’oro al concorso internazionale di poesia latina (prima di tredici).

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La Barga di Giovanni Pascoli nella pittura di Umberto Vittorini

Nel 1895 si trasferisce insieme alla sorella Maria a Castelvecchio di Barga, in Toscana, e viene chiamato come docente ordinario di grammatica latina e greca presso l’università di Bologna. Dopo due anni viene trasferito a Messina come docente di letteratura latina e dà inizio alla sua carriera di critico letterario, soprattutto della poesia dantesca (Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione).

E’ il 1903 quando viene trasferito a Pisa, quindi l’anno successivo a Bologna, dove prende il posto, come docente di Letteratura italiana di Giosue Carducci. Sono anni cosiddetti ufficiali dove il nostro, pur lontano dalla sua sensibilità, si dedica alla poesia civile.

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Giovanni Pascoli con la sorella Maria

All’entrata della guerra in Libia del 1911 Pascoli pronuncia il discorso, tra nazionalismo e umanitarismo La grande proletaria si è mossa, convinto della necessità del colonialismo per risolvere il problema dell’occupazione dei lavoratori italiani.

Muore nel 1912, stanco e debilitato per una cirrosi epatica complicata da un cancro allo stomaco. La sorella Maria curerà la pubblicazione delle ultime poesie e dell’intera produzione latina del fratello.

L’uomo

Prima di affrontare un discorso sulla sua poesia ci sembra opportuno, alla luce proprio dei risultati poetici del nostro, così intrisi di un autobiografismo consapevole o inconsapevole, affrontare un po’ la personalità e quindi la psicologia dell’autore romagnolo. Così lo descrive Elio Gioanola, critico psicoanalitico, nella sua storia letteraria (1987): “Corpulento, sedentario, trasandato, di carattere astioso e piuttosto gretto, avaro per paura della fame patita in gioventù, il Pascoli presenta l’immagine di chi si fa solitario e misantropo per paura della vita, chiudendosi nel giro brevissimo dei luoghi di lavoro e soprattutto della casa, unico spazio di sicurezza entro il cerchio degli affetti domestici offerti dalla famiglia d’origine: anche l’amore rimase lontano dalla vita di Giovannino, che finì per riversare tutta la tenerezza sulla sorella Mariù, la corrispondenza con la quale ha le caratteristiche di quella di un fidanzato, mentre la sua vita reale era chiusa in una castità forzosa, causa di rimpianti, curiosità ed ansie. «Ho vissuto senza amore», scrive alle sorelle, «non per incapacità d’amare ma perché mi dovevo dedicare solo a voi»: e poi, compiangendo la propria condizione: «sarà nevrastenia, sarà autosuggestione, sarà effetto della mia vita forzatamente casta e orribilmente mesta, ma io passo certe ore, meglio certi giorni, in cui mi pare di dover morire». Il blocco affettivo alla famiglia originaria, padre, madre, fratelli e sorelle, vivi e morti, pare la caratteristica più vistosa della condizione esistenziale del poeta, causa di profonda sofferenza psicologica e principio ispiratore di tanta materia poetica, la più importante dell’opera”. 

Lette queste pagine illuminanti possiamo meglio spiegare non solo gran parte del suo itinerario poetico, a partire da Il fanciullino, ma render maggiormente chiaro il senso con cui abbiamo aperto il discorso sul Pascoli. La sua poesia è interiore perché nasce da un groviglio interno determinato dalla morte improvvisa del padre (di cui non si saprà né l’assassino né il motivo) e quindi a seguire quella della madre e dei fratelli e dal suo tentativo di ricostruire la “famiglia” disgregata in una nuova unità, dapprima con le due sorelle, poi, sposata Ida, con la sola Mariù.

Psicologicamente parlando è come se la crescita fosse rimasta bloccata all’età adolescenziale: niente sesso, nessun futuro, nessuna prospettiva; al contrario un “amore” quasi incestuoso, il rifiuto verso la modernità, il culto per i morti e, quindi, per il latino, la lingua morta dei nostri padri.

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L’opera

Le raccolte poetiche pascoliane sono Myricae, Primi poemetti, Nuovi poemetti, Poemi conviviali, Canti di Castelvecchio, Odi e Inni. Tutte queste opere vengono alla luce tra il 1903 ed il 1909 e rispondono ad un unico progetto deducibile da un verso del poeta latino Virgilio: paulo maiora canamus. Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae (Cantiamo cose un po’ più grandi. Non a tutti piacciono gli arboscelli e le umili tamerici).

Infatti Myricae e i Canti di Castelvecchio recano come motto, all’inizio del libro: Arbusta iuvant humilesque myricae (Piacciono gli arboscelli e le umili tamerici) ad indicare che i temi trattati riguarderanno le piccole cose, la vita di campagna, il mondo dei semplici contadini; il motto di Primi e Nuovi Poemetti è Paulo maiora (Cose un po’ più grandi) ad indicare che le poesie racconteranno temi di maggior ampiezza ed interesse sociale; ancora, il motto di Odi e Inni è Canamus (Cantiamo), che dice che le poesie di questa raccolta saranno presenti temi in cui il poeta vuole farsi interprete della realtà sociale in movimento con la volontà di “cambiare il mondo”; mentre il motto dei Poemi conviviali (Non omnes arbusta iuvant: non a tutti piacciono gli arboscelli) sta ad indicare il registro alto e classicheggiante delle poesie contenute in essi.

Tuttavia per comprendere nel modo migliore la poesia pascoliana dobbiamo partire da un piccolo saggio, da lui composto nel 1897, intitolato Il fanciullino in cui vengono esposte le sue idee sul fare e sul significato della poesia.

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Giacomo e Giovanni bambini

IL FANCIULLINO

Il piccolo saggio con cui Pascoli descrive la sua poetica è del 1897, pubblicato sulla rivista Il Marzocco (rivista letteraria – il cui nome venne scelto da D’Annunzio – di tendenze estetizzanti e simboliste, che accolse e difese l’opera pascoliana):

E’ dentro di noi un fanciullino che non solo ha brividi, (…) ma lagrime ancora e tripudi suoi. Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello.
(…)
In alcuni non pare che egli sia; alcuni non credono che sia in loro; e forse è apparenza o credenza falsa. Forse gli uomini s’aspettano da lui chi sa quali mirabili dimostrazioni o operazioni; e perché non le vedono, o in altri o in sé, giudicano che egli non ci sia. Ma i segni della sua presenza e gli atti della sua vita al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l’ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. Egli è quello che nella morte degli esseri amati esce a dire quel particolare puerile che ci fa sciogliere in lacrime, e ci salva. Egli è quello che nella gioia pazza pronunzia, senza pensarci, la parola grave che ci frena. Egli rende tollerabile la felicità e la sventura, temperandole d’amaro e di dolce, e facendone due cose egualmente soavi al ricordo. Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio di due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.
(…)
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza di lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l’Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. E a ogni modo dà un segno, un suono, un colore, a cui riconoscere sempre ciò che vide una volta.
(…)
Il poeta, se è e quando è veramente poeta, cioè tale che significhi solo ciò che il fanciullo detta dentro, riesce perciò ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano. Quindi la credenza e il fatto, che il suon della cetra adunasse le pietre a far le mura delle città, e animasse le piante e ammansasse le fiere della selva primordiale; e che i cantori guidassero e educassero i popoli. Le pietre, le piante, le fiere, i popoli primi, seguivano la voce dell’eterno fanciullo, d’un dio giovinetto, del più piccolo e tenero che fosse nella tribù d’uomini selvatici.

Cominciamo dal titolo: il fanciullino. L’uso del diminutivo richiama l’idea del piccolo e della dimensione infantile, per meglio dire quella realtà in cui la razionalità – la consapevolezza conoscitiva – non è ancora apparsa (chiaro l’aspetto anti-positivista) 

Inoltre in questi passi (che potremo considerarli piuttosto esaustivi per la conoscenza della poetica pascoliana) quello che immediatamente appare è il legame che il Pascoli attua con la contemporanea poesia simbolista: il poeta non è quello che spiega la realtà ma la guarda meravigliato, come un fanciullo, cercando in essa le relazioni e dando ad essa parole che solo chi è guidato dallo stupore sa trovare. In questo atteggiamento è evidente che l’opposizione fanciullo/adulto nasconda un atto regressivo, ma nel contempo capace di cogliere la “naturalità delle forme”, attraverso una scoperta capace di suscitare meraviglia, come se si vedesse per la prima volta (come un fanciullo, appunto) e quindi non più di decifrarla attraverso la scienza positivistica capace d’annullare, appunto lo stupore infantile.

Il poeta-fanciullo inoltre dà il nome alle cose, come novello Adamo. Fuor di metafora egli toglie alle cose quel senso d’abitudinario che il loro nome d’uso esclude dalla poesia per farle rientrare grazie alla scoperta che l’essere prerazionale sa fare di esse (democrazia lessicale e di ciò che è poetabile).

Inoltre questo atteggiamento “fanciullesco” del poeta porta la poesia ad avere un ruolo sociale, in quanto essa è destinata ad insegnare la bontà e la fratellanza, di contro le guerre del mondo adulto.

Non manca, in questa pagina, un’altra caratteristica, questa volta psichica, fondamentale per la comprensione del simbolismo pascoliano: il tabù sessuale, segnato da quel Egli fa umano l’amore, perché accarezza esso come sorella (oh! il bisbiglio di due fanciulli tra un bramire di belve), accarezza e consola la bambina che è nella donna.

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Copia autografa di Myricae del 1894

Myricae

La prima raccolta pascoliana, dedicata al padre, è Myricae iniziata sin dal 1890 ma la cui edizione che potremo definire già definitiva, che data 1900 e con leggeri aggiustamenti 1911, è composta da 156 liriche. Il  titolo deriva dal nome latino delle tamerici e proviene da un verso delle Bucoliche virgiliane arbusta iuvant humilesque myricae (a noi piacciono gli arbusti e le umili tamerici). Esse sono legate da diversi nuclei tematici tra cui ricordiamo quelli che riguardano la descrizione naturale (l’alba ed il tramonto, la campagna) e quelli personali (ricordi, pene e gioie del poeta). Pur essendo la prima raccolta pascoliana, troviamo in essa le principali caratteristiche della sua poesia, che oltre che contenutistiche sono soprattutto formali. Ricordiamo:

  1. varietà di metri (tra cui il novenario, poco usato nella poesia italiana);
  2. linguaggio grammaticale e pregrammaticale (Contini), cioè un linguaggio aderente alle cose (da qui la precisione lessicale con cui nomina piante ed uccelli) ed un linguaggio evocativo fatto di onomatopee, richiami analogici, ardite sinestesie (fonosimbolismo).   

Per i temi ricordiamo:

  1. il tema del nido, da cui deriva la dialettica tra il chiuso e l’aperto, il dentro e fuori: il primo membro a determinare l’idea della sicurezza, l’altro la paura, l’angoscia e la morte;
  2. il tema della natura cantata evocativamente come luogo di solitudine ed indeterminatezza (l’idea della nebbia che scolora e, coprendole, rende le cose indeterminate) o gli uccelli, cantori che mettono in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti

Quello detto si può evincere da una serie di testi. Cominciamo dalla poesia Arano:

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Foto Orlandini e Figli, fine Ottocento inizio Novecento

ARANO

Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente

vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra pazïente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro.

E’ un madrigale, composto da due terzine ed una quartina in versi endecasillabi. Questo semplice testo ci pone di fronte ad un bozzetto descritto in maniera impressionistica, che richiamerebbe la visione positivistica della realtà: tuttavia già dalla prima strofa a dominare la scena vi è un antitesi, il pampano rosso che brilla e la nebbia che fuma, il primo che emerge, la seconda che nasconde; in questa dicotomia visiva si staglia il verso della seconda terzina in posizione forte arano che fa entrare il lato umano: l’enjambement di entrambi i versi ci dice la lentezza del loro operare, con l’ipallage del paziente; la terza strofa cambia di prospettiva: è il passero che riesce a cogliere il mistero (non per lui) del paesaggio ed il pettirosso con l’onomatopea (tintinno) e la sinestesia (suono / color oro) chiude la poesia con un colorismo che la riporta alla prima strofe.

E’ una poesia simbolista dove Pascoli sembra suggerirci che le cose si richiamino tra loro, i colori i gesti, in un rapporto misterioso che solo la natura stessa dall’interno può cogliere.

Lo stesso accade in un’altra celeberrima poesia, Lavandare:
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Lavandaie in una vecchia fotografia

LAVANDARE

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggiero.

E cadenzato dalla gora viene

lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.

Un altro madrigale e anche in questo, come nel precedente, il tutto sembra sfumato dalla nebbia. Ma a be guardare la vera protagonista è l’assenza: nella prima strofe il campo è mezzo grigio e mezzo nero (metà arata e metà no, assenza di un compiuto lavoro), un aratro solo, lasciato in mezzo alla nebbia; il suono delle lavandare (non la visione) arriva dal canale, per finire con due detti popolari, dove si sottolinea la partenza, l’assenza. Al di là delle soluzioni formali come la coraggiose onomatopee di sciabordare e di tonfi quello che si può leggere è la frattura tra interno ed esterno. L’assenza indica infatti un andar via, fuori, ribadito dall’ultima strofe e questo causa dolore, sofferenza per chi resta, l’aratro senza buoi, le voci delle donne senza donne e da cui il poeta è escluso. Emerge di già la paura per ciò che sta al di là del “nido”

Significativa per i temi che presenta e per le soluzioni formali che adotta è L’assiuolo:

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Assiuolo (Otus Scopus)

L’ASSIUOLO

Dov’era la luna? chè il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù

Anche ne L’assiuolo ritroviamo i temi già presenti nelle precedenti poesie: la nebbia, un uccello, le piante, a cui s’aggiunge un richiamo temporale che sembra rifarsi a Leopardi (Dov’era la luna?). Nel testo emerge, nella prima stanza, un’opposizione tra il vicino ed il lontano, il finito e l’indefinito: il biancheggiare della luna, in primo piano il mandorlo ed il melo, di spalle i lampi…; dal descrittivo all’io poeta che entra in primo piano nella seconda strofa con l’anafora dei versi centrali (Sentivo), il cullare ed il fruscio sempre legati alla strofa precedente. Quindi un richiamo di dolore, che nasce proprio dal rumore marino (si noti il verbo che l’accompagna che rimanda asd un gesto d’affetto materno) ed il frusciare che diventa puro suono, mentre nel cielo le stelle brillavano rare, testimoni silenziose.  Lo svelamento nella terza: il richiamo al culto di Iside per la resurrezione ci illustra come l’intera lirica giri intorno alla morte. La conferma ci viene dal climax ascendente dal suono onomatopeico del verso dell’assiuolo (uccello notturno): voce, singulto, pianto di morte.
Per Pascoli gli uccelli rappresentano simbolicamente un elemento di contatto tra il mondo dei morti e quello dei vivi; in questo caso il canto non fa che richiamare un’idea di morte che permea di sé l’intera esistenza.

Più indicative sul simbolismo pascoliano ci sono sembrate Temporale e Lampo:

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TEMPORALE

Un bubbolìo lontano…

Rosseggia l’orizzonte,

come affocato, a mare:
nero di pece, a monte,
stracci di nubi chiare:

tra il nero un casolare:

un’ala di gabbiano.

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LAMPO

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;
il cielo ingombro, tragico, disfatto:
bianca bianca nel tacito tumulto
una casa apparì sparì d’un tratto;
come un occhio, che, largo, esterrefatto,
s’aprì si chiuse, nella notte nera.

In ambedue la descrizione degli eventi metereologici.

Nella prima la descrizione è nel verso isolato uditiva, per poi diventare coloristica: il cielo rosso, infuocato, il nero che preannuncia il temporale, le macchie più chiare delle nuvole. Quindi quando il cielo annerisce appare una casa, che in un processo analogico richiama l’ala di un gabbiano; sembra quasi che la poesia si chiuda positivamente con l’immagine di un nido capace di resistere, con l’idea di un’ala che rimanda al volo, al contatto col padre ormai morto.

La seconda sottolinea invece sin da subito un senso d’ansietà: com’erano il cielo e la terra? La personificazione che ne fa nei due versi successivi non chiarisce, umanizza (ansia, sussulto, tragico). Ancora una casa, ma l’analogia questa volta è con un occhio, che si apre e si richiude subito. La casa non è più in rifugio, il male del mondo la circonda in un eterno silenzio di morte.

In X Agosto, invece, il simbolismo si fa chiaro, luminoso, senza bisogno di ricorrere ad interpretazioni, tanto da risultare un po’ troppo scoperto: è forse un simbolismo ragionato e per questo forse meno inquietante, seppure i rimandi nella poesia seguente siano comunque “forti”:

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X AGOSTO

San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli occhi aperti un grido:
portava due bambole in dono…

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall’alto dei monti
sereno, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!

E’ infatti evidente il parallelismo tra la rondine e il padre, così come quello tra il nido e la casa. La poesia infatti si apre con la consapevolezza del poeta che “sa” il motivo delle stelle cadenti. Nella seconda e terza la protagonista è la rondine che porta il cibo ai suoi rondinini, ma viene uccisa lasciandoli pigolare. Terza e quarta descrivono simmetricamente un uomo, stesso gesto, con l’immagine di una morte non descritta, e le ragazze che lo aspettano. La quarta chiude ricollegandosi alla prima, il cielo piange per il male che vi è nel mondo.

E’ chiara la metafora del nido, col suo senso di protezione, così com’è chiaro l’esterno al nido, l’incognito, lo sconosciuto, il male. Elementi fortemente caratterizzanti la psicologia del Pascoli, che spiega in parte la rabbia per il matrimonio di Ida e la ricostruzione di un “nido” con Maria.

Concludere il discorso su Myricae significa tirare la somma su temi fondamentali: già dall’inizio, inserendo un lungo componimento Il giorno dei morti, ci dice che il nucleo intorno cui gira il tema principale è quello della morte: la rievocazione in questo testo della figura del padre, della madre, della sorella maggiore e dei fratelli, sembra voler sottolineare come il mondo abbia dentro di sé il germe del male. Ma questo mondo è capace anche di meravigliare ed è quello della natura, verso cui, con occhio stupito, guarda il fanciullo. Ma anch’essa è minacciata dall’incipiente modernità, dal pericolo della città. Ma l’importante è che tali temi servono soprattutto a guardare dentro se stesso, ad analizzarsi, analisi che si preciserà nelle raccolte successive.

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Prima edizione “Canti di Castelvecchio”

Canti di Castevecchio

I Canti di Castelvecchio riprendono lo schema di Myricae, e, questa volta dedicati alla figura materna, vengono pubblicati nel 1903. I temi e lo stile somigliano a Myricae e nulla aggiungono alla prima raccolta, se non una maggiore presenza di alcuni temi, come appunto quello della morte, del dialogo con i defunti, dell’indefinitezza del reale. D’altra parte l’opera cui Pascoli ora sta lavorando acquista una maggiore consapevolezza degli strumenti poetici e per questo appare a volte meno “sincera”, più “ricercata”: si pensi alla celeberrima Cavalla storna, dove la metafora diventa troppo esplicita.

Chiara, da questo punto di vista è Nebbia, elemento naturale fortemente presente nella lirica pascioliana:

NEBBIA

Nascondi le cose lontane,
tu nebbia impalpabile e scialba,
tu fumo che ancora rampolli,
su l’alba,
da’ lampi notturni e da’ crolli
d’aeree frane!

Nascondi le cose lontane,
nascondimi quello ch’è morto!
Ch’io veda soltanto la siepe
dell’orto,
la mura ch’ha piene le crepe
di valerïane.

Nascondi le cose lontane:
le cose son ebbre di pianto!
Ch’io veda i due peschi, i due meli,
soltanto,
che dànno i soavi lor mieli
pel nero mio pane.

Nascondi le cose lontane
che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Nascondi le cose lontane,
nascondile, involale al volo
del cuore! Ch’io veda il cipresso
là, solo,
qui, solo quest’orto, cui presso
sonnecchia il mio cane.

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La nebbia, già presente in Arano e Lavandare, qui viene a configurarsi quasi come un muro protettivo che tiene lontano i pericoli (simboleggiati da lampi notturni e da crolli d’aeree frane); quello che vuole è che la nebbia gli nascondi il dolore, il pianto, ciò che è al di là, e gli mostri le cose sicure, rassicuranti, la siepe ed il muro (significativamente), gli alberi di frutta che danno dolci marmellate, e il cipresso dove dorme il suo cane.

E’ significativo che l’unica cosa che debba mostrare al poeta sia la strada per il cimitero: l’immagine di lui che s’incammina accompagnato dallo scampanio funebre, è indicativo del continuum che egli istituisce tra la vita e la morte.

Il capolavoro dei Canti di Castelvecchio è:

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IL GELSOMINO NOTTURNO

E s’aprono i fiori notturni,
nell’ora che penso ai miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia.
Sotto l’ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala
l’odore di fragole rosse.
Splende un lime là nella sala.
Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra
trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l’aia azzurra
va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala
l’odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
brilla al primo piano: s’è spento…

E’ l’alba: si chiudono i petali
un poco gualciti; si cova,
dentro l’urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.

“In un arco di tempo, che va dalla sera all’alba, si svolgono due vicende parallele, che si richiamano per analogia attraverso la tecnica dell’accostamento: il ciclo erotico-sessuale della fecondazione dei fiori, che culmina in quell’odor di fragole rosse, che si colloca quasi al centro del componimento, e si conclude, simbolicamente con l’immagine dei petali un poco gualciti; e la storia intima ed equivalente che s’intravede all’interno della casa, adombrata dagli emblemi nuziali dei bisbigli e della lampada” (Nava).

“Abbiamo qui un notturno, gonfio di dolcezza ansiosa e oscuramente felice e insieme preoccupata che pervade l’atmosfera senza effondersi in sospiri. Si potrebbe non interpretarla, non decifrarla questa poesia; fermarci alle apparizioni che si succedono, legate una all’altra da una parentela segreta e ineluttabile, fiorite in una musica di malinconia trepida di una felicità ansiosa, quasi impaurita di se stessa, e tutta tangente con un rimpianto, una nostalgia, una minaccia di precarietà, che la fanno confinare con una imminente disperazione” (Debenedetti).

Poemetti

I Poemetti pascoliani escono con questo titolo nell’edizione del 1897, per poi sdoppiarla ed assumere quello di Primi poemetti del 1904, che si completeranno, nei cinque anni successivi con i Nuovi Poemetti.

In questa nuova poesia Pascoli abbandona la poesia di descrizione campestre, per dar vita ad una narrazione poetica dove prevale la ricerca di un nuovo linguaggio. Egli, attraverso questa raccolta, vuole esaltare la vita contadina, lontana dai cambiamenti “malvagi” che la modernità produce, dove lo scontro tra operai e padronato assume caratteristiche violente. In fondo si tratta di cantare cose paulo maiora, dove i temi sociali e quelli personali trovano più largo respiro.

Tuttavia non bisogna nascondere che questa è la raccolta dove, in un poemetto, meglio si scopre il tabù sessuale del poeta:

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DIGITALE PURPUREA

I
Siedono. L’una guarda l’altra. L’una
esile e bionda, semplice di vesti
e di sguardi; ma l’altra, esile e bruna,

l’altra… I due occhi semplici e modesti

fissano gli altri due ch’ardono. «E mai
non ci tornasti?» «Mai!» «Non le vedesti

più» «Non più, cara» «Io sì: ci ritornai;

e le rividi le mie bianche suore,
e li rivissi i dolci anni che sai;

quei piccoli anni così dolci al cuore…»
L’altra sorrise. «E di’: non lo ricordi
quell’orto chiuso? i rovi con le more?

i ginepri tra cui zirlano i tordi?
i bussi amari? quel segreto canto
misterioso, con quel fiore, fior di…?»

«
Morte: sì, cara.» «Ed era vero? Tanto
io ci credeva che non mai, Rachele,
sarei passata al triste fiore accanto.

Ché si diceva: il fiore ha come un miele
che inebria l’aria; un suo vapor che bagna
l’anima d’un oblio dolce e crudele.

Oh! quel convento in mezzo alla montagna
cerulea!» Maria parla: una mano
posa su quella della sua compagna;

e l’una e l’altra guardano lontano.

II
Vedono. Sorge nell’azzurro intenso
del ciel di maggio il loro monastero,
pieno di litanie, pieno d’incenso.

Vedono; e si profuma il loro pensiero
d’odor di rose e di viole a ciocche,
di sentor d’innocenza e di mistero.

E negli orecchi ronzano, alle bocche
salgono melodie, dimenticate,
là, da tastiere appena tocche…

Oh! quale vi sorrise oggi, alle grate,
ospite caro? onde più rosse e liete
tornaste alle sonanti camerate

oggi: ed oggi, più alto, Ave, ripete,
Ave Maria, la vostra voce in coro;
e poi d’un tratto (perché mai?) piangete…

Piangono, un poco, nel tramonto d’oro,
senza perché. Quante fanciulle sono
nell’orto, bianco qua e là di loro!

Bianco e ciarliero. Ad or ad or, col suono
di vele al vento, vengono. Rimane
qualcuna, e legge in un suo libro buono.

In disparte da loro agili e sane,
una spiga di fiori, anzi di dita
spruzzolate di sangue, dita umane,

l’alito ignoto spande di sua vita.

III
«Maria!» «Rachele!» Un poco più le mani
si premono. In quell’ora hanno veduto
la fanciullezza, i cari anni lontani.

Memorie (l’una sa dell’altra al muto
premere) dolci, come è tristo e pio
il lontanar d’un ultimo saluto!

«Maria!» «Rachele!» Questa piange, «Addio!»
dice tra sé, poi volta la parola
grave a Maria, ma i neri occhi no: «Io -,

mormora, – sì: sentii quel fiore. Sola
ero con le cetonie verdi. Il vento
portava odor di rose e di viole a

ciocche. Nel cuore, il languido fermento
d’un sogno che notturno arse e che s’era
all’alba, nell’ignara anima, spento.

Maria, ricordo quella grave sera.

L’aria soffiava luce di baleni
silenziosi. M’inoltrai leggiera,

cauta, su per i molli terrapieni
erbosi. I piedi mi tenea la folta
erba. Sorridi? E dirmi sentia: Vieni!

Vieni! E fu molta la dolcezza! molta!
Tanta, che, vedi… (l’altra lo stupore
alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta

con un suo lungo brivido…) si muore!». 

Nonostante la materia di questo poemetto sia stata offerta dalla sorella Maria, ricordando gli anni in cui lei e la sorella Ida vivevano in convento, essa si colora subito, fin dalla prima strofe, dell’opposizione tra chi, come angelo, si è tenuta lontana dal “fiore proibito” e chi, l’altra, lo ha invece pregustato.

D’altra parte il primo a parlare di fiore “proibito” fu Baudelaire, a partire proprio dal titolo della sua raccolta poetica. Pertanto il tema non era nuovo e aveva acquistato una forza direi quasi topologica nella letteratura decadente.

Quello che qui lo rende pascoliano è l’ambientazione, un luogo d’educande. E il loro dialogo iniziale, a dirci sin da subito la “purezza” della prima, la voluttà della seconda (occhi che ardono); quindi quel riferimento al fiore di morte (un fiore venefico, nella realtà). Quindi i dolci ricordi nella seconda strofe, immagini rarefatte che ci conducono a quel senso di ignoto, di non afferrato, anticipato da quell’umanizzazione “terribile” di dita sanguinolente, che all’improvviso prende le due fanciulle. Nella terza la confessione, di Rachele. Qui la sensibilità di Pascoli non può che riaffermare la paura dell’eros: se è pur vero che il fiore è pericoloso in sé , è altrettanto vero che l’esperienza tattile su di esso rimanda all’atto sessuale, alla dolcezza orgasmatica e quindi alla perdita di sé.

E’ ben rappresentato qui quello che abbiamo definito il “tabù sessuale” del poeta, che in parte sfiora il “tabù dell’incesto” vissuto, nella vita reale, da Giovanni e sua sorella Maria (c’è chi vede in Rachele la sorella Ida, quella che si sposa, e che rompe, col suo matrimonio, il nido familiare).

Estremamente interessante per gli esiti linguistici è il lungo poemetto Italy, di cui qui si riporta parte del primo canto:

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Emigrati italiani su una nave (fine ‘800 inizio ‘900)

ITALY
(I-V)

I
A Caprona, una sera di febbraio,
gente veniva, ed era già per l’erta,
veniva su da Cincinnati, Ohio.

La strada, con quel tempo, era deserta.
Pioveva, prima adagio, ora a dirotto,
tamburellando su l’ombrella aperta.

La Ghita e Beppe di Taddeo lì sotto
erano, sotto la cerata ombrella
del padre: una ragazza, un giovanotto.

E c’era anche una bimba malatella,
in collo a Beppe, e di su la sua spalla
mesceva giù le bionde lunghe anella.

Figlia d’un altro figlio, era una talla
del ceppo vecchio nata là: Maria:
d’ott’anni: aveva il peso d’una galla.

Ai ritornanti per lunga via,
già vicini all’antico focolare,
la lor chiesa sonò l’Avemaria.

Erano stanchi! avean passato il mare!
Appena appena tra la pioggia e il vento
l’udiron essi or sì or no sonare.

Maria cullata dall’andar su lento
sembrava quasi abbandonarsi al sonno,
sotto l’ombrella. Fradicio e contento

veniva piano dietro tutti il nonno.

II
Salivano, ora tutti dietro il nonno,
la scala rotta. Il vecchio Lupo in basso
non abbaiò: scodinzolò tra il sonno.

E tentennò sotto il lor piede il sasso
davanti l’uscio. C’era sempre stato
presso la soglia, per aiuto al passo.

E l’uscio, come sempre, era accallato.
Lì dentro, buio come a chiuder gli occhi.
Ed era buia la cucina allato.

La mamma? Forse scesa per due ciocchi…
forse in capanna a mòlgere… No, era
al focolare sopra i due ginocchi.

Aveva pulito greppia e rastrelliera;

ora accendeva… Udì sonare fioco:
era in ginocchio, disse la preghiera.

Appariva nel buio a poco a poco.
«Mamma, perché non v’accendete il lume?
Mamma, perché non v’accendete il fuoco?»

«Gesù! che ho fatto tardi col rosume…»
E negli stecchi ella soffiò, mezzo arsi;
e le sue rughe apparvero al barlume.

E raccattava, senza ancora voltarsi,
tutta sgomenta, avanti a sé, la mamma,
brocche, fuscelli, canapugli, sparsi

sul focolare. E si levò la fiamma.

III
E i figli la rividero alla fiamma
del focolare, curva, sfatta, smunta.
«Ma siete trista! Siete trista, o mamma!»

Ed accostando agli occhi, essa, la punta
del pannelletto, con un fil di voce:
«E il Cecco è fiero? E come va l’Assunta?»

«Ma voi! Ma voi!» «Là là, con la mia croce».
I muri grezzi apparvero col banco
vecchio e la vecchia tavola di noce.

Di nuovo, un moro, con non altro bianco
che gli occhi e i denti, era incollato al muro,
la lenza in spalla ed una mano al fianco:

roba di là. Tutto era vecchio, scuro.
S’udiva il soffio delle vacche, e il sito
della capanna empiva l’abituro.

Beppe sedé col capo indolenzito
tra le due mani. La bambina bionda
ora ammiccava qua e là col dito.

Parlava; e la sua nonna, tremebonda,
stava a sentire e poi dicea: «Non pare
un luì quando canta tra la fronda?»

Parlava la sua lingua d’oltremare:
«… a chicken-house» «un piccolo luì»

«… for mice and rats» «che goda a cinguettare,

zi zi» « Bad country, Ioe, your Italy!»

IV
ITALY, penso, se la prese a male.
Maria, la notte (era la Candelora),
sentì dei tonfi come per le scale…

tre quattro carri rotolarono… Ora
vedea, la bimba, ciò che n’era scorso!
the snow! la neve, a cui splendea l’aurora.

Un gran lenzuolo ricopriva il torso
dell’Omo-morto. Nel silenzio intorno
parea che singhiozzasse il Rio dell’Orso.

Parea che un carro, allo sbianchir del giorno
ridiscendesse l’erta con un lazzo
cigolìo. Non un carro, era uno storno,

uno stornello in cima del Palazzo
abbandonato, che credea che fosse
marzo, e strideva: marzo, un sole e un guazzo!

Maria guardava. Due rosette rosse
aveva, aveva lagrime lontane
negli occhi, un colpo ad or ad or di tosse.

La nonna intanto ripetea: «Stamane
fa freddo!» Un bianco borracciol consunto
mettea sul desco ed affettava il pane.

Pane di casa e latte appena munto.
Dicea: «Bambina, state al fuoco: nieva!
nieva!» E qui Beppe soggiungea compunto:

«Poor Molly!» qui non trovi il pai con fleva!

V
Oh! no: non c’era lì né pieflavour
né tutto il resto. Ruppe in un gran pianto:
«Ioe, what means nieva? Never? Never? Never?»

Oh, no: starebbe in Italy sin tanto
ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly!
E Ioe godrebbe questo po’ di scianto!

Mugliava il vento che scendea dai colli
bianchi di neve. Ella mangiò, poi muta
fissò la fiamma con gli occhioni molli.

Venne, sapendo della lor venuta,
gente, e qualcosa rispondeva a tutti
Ioe, grave: «Oh yes, è fiero… vi saluta…

molti bisini, oh yes… No, tiene un frutti-
stendo… Oh yes, vende checche, candi, scrima…
Conta moneta: può campar coi frutti.

Il baschetto non rende come prima…
Yes, un salone, che ci ha tanti bordi…
Yes, l’ho rivisto nel pigliar la stima…»

quando sbarcati dagli ignoti mari
scorrean le terre ignote con un grido
straniero in bocca, a guadagnar danari

per farsi un campo, per farsi un nido…

Il poemetto qui presentato ci permette di fare alcune considerazioni sul socialismo pascoliano, certo più psichico che politico. La sua adesione, infatti, per l’impresa libica di Giolitti, s’inserisce nel drammatico evento dell’emigrazione verso le Americhe. Egli, come afferma nel discorso pronunciato nel 1911 a cui si dà il titolo La grande proletaria si è mossa, crede fortemente che la colonia italiana possa risolvere questo problema, ma possa, altresì, non permettere quell’allontanamento dal nido, così, secondo la sua visione, pericoloso.

Ma l’importanza del testo è nello sperimentalismo linguistico che ne deriva: il poemetto si basa su tre mondi che non comunicano più: il mondo della nonna, dal vecchio dialetto che non ha conosciuto la storia; il mondo dei figli, provenienti da quel mondo ma ormai allontanatosi da esso: la loro lingua, un impasto anglo-dialettale, codice incomprensibile; il mondo della bambina, ormai non facente più parte di quel mondo, tutta tesa verso la modernità. Pascoli la guarda con pietà: l’allontanamento le farà conoscere il male del mondo.

L’ulteriore produzione pascoliana se presenta elementi di novità rispetto quanto abbiamo detto è perché essa si fa più “ufficiale” e forse per questo meno sentita. Si pensi ai Poemi conviviali, così chiamati perché pubblicati nella raffinata rivista di De Bosi, Il Convito”, su cui pubblicava anche D’Annunzio. Qui i temi si fanno “elevati”, richiamandosi a paesaggi lontani e a personaggi mitici. Forse il più importante è Alexandros, in cui il poeta descrive la forza del grande generale macedone. Ma la descrizione vira verso un senso di malinconia, per cui la vittoria si trasforma in sconfitta.

A ciò si aggiungono le ultime raccolte, felicemente dimenticabili: Odi e Inni, Canzoni di re Enzio, Poemi italici, Inno a Roma, Inno a Torino. Tutta questa produzione è lontanissima dalla sensibilità del poeta romagnolo.

Allora, perché la scrive? Perché man mano che aumentavano per lui i “compiti istituzionali” a tali compiti doveva rispondere. D’altra parte, alla morte di Carducci, il governo giolittiano promuove la figura del poeta vate e a contenderselo sono i due maggiori rappresentanti del decadentismo italiano, D’Annunzio e Pascoli, appunto.

Tuttavia è fondamentale la sua poesia nella storia della letteratura del Novecento, per la sua capacità d’innovare, più che D’Annunzio, il linguaggio, raggiungendo quello che un critico ha definito come la democrazia lessicale pascoliana: egli infatti, con la sua precisione ornitologica, botanica, casalinga, onomatopeica rende ogni lemma, suono, accostamento ardito, nonché ogni neologismo, poetabile.

 

GABRIELE D’ANNUNZIO

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Gabriele D’Annunzio

Gabriele D’Annunzio, nato Rapagnetta, e preso il più aulico cognome da uno zio paterno, nasce a Pescara nel 1863, da una famiglia della buona borghesia. A 11 anni viene mandato al Collegio Cicognini di Prato, dove consegue eccellenti risultati; ma il suo temperamento gli fece assumere più volte comportamenti poco rispettosi riguardo le severe norme che vigevano all’interno dell’Istituzione. Ottiene la licenza liceale nel 1881, ma già precedentemente dà alle stampe il suo primo libro di versi, Primo vere (1879), mostrando tutta la sua capacità di farsi press agent di se stesso, sfruttando la morbosità dei lettori delle riviste. Infatti diffuse ad arte la notizia della morte del giovanissimo poeta, per poi smentirla il giorno seguente, inviando copia del libro ad ogni giornale che aveva riportato la “funesta notizia”.

Periodo romano (1881-1891)

Arrivato a Roma, si fa conoscere dalla buona società grazie anche alle “Cronache mondane” pubblicate su riviste (soprattutto nel giornale allora estremante diffuso a Roma La Tribuna) e riesce di armonizzare l’intensa vita mondana, intessuta d’avventure galanti, con un altrettanto intensa attività editoriale: si ricordano qui la prosecuzione dell’attività poetica con Canto novo e l’esordio in quella prosastica (riunendo racconti precedentemente scritti) con Terra vergine, pubblicati ambedue nel 1882. Nel frattempo conosce la contessina Maria Hardouin di Gallese: di contro alla ferma contrarietà della famiglia, escogita la fuga e quindi il matrimonio riparatore. La condurrà con sé in Abruzzo.

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Maria Hardouin di Gallese

Nel 1884 torna a Roma con il primogenito, Mario (1884). Diventa direttore della Tribuna e l’anno successivo della Cronaca Bizantina. In questo periodo l‘attività scrittoria si sposa con l’attività mondana: frequenta la migliore società romana, si dà ad amori fugaci e pubblica libri di versi Intermezzo di rime e (1884) Isotta Gattadàuro (1886) e la raccolta di racconti San Pantaleone (riunita insieme a Terra vergine nel volume Novelle della Pescara, pubblicato in seguito nel 1896). Pur conducendo una vita certamente non morigerata gli nasce il secondo figlio Gabriellino (1886), cui seguirà il terzogenito Veniero (nato nel 1887) Ma la nascita di quest’ultimo figlio l’appenderà in crociera, dove veleggia costeggiando la Grecia con il suo nuovo amore, Barbara Leoni. 

L’opera più importante di questo periodo è certamente Il piacere (1889), libro di enorme successo, nel quale il pubblico identificava nella figura dell’immorale protagonista, Andrea Sperelli, lo stesso Gabriele D’Annunzio. Non per niente lo scrittore ed il personaggio vivono interscambiandosi i ruoli: così come D’Annunzio si trasfigura in Andrea Sperelli, quest’utimo viene costruito nel modus vivendi dello scrittore. E’ talmente eccessiva la vita che D’Annunzio conduce da dover scappare da Roma e rifugiarsi dall’amica Matilde Serao, a Napoli.  

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Barbara Leoni

Periodo napoletano ed abruzzese (1891-1896)

A Napoli, pur riuscendo appena a mantenersi con le collaborazioni giornalistiche, fra cui Il Mattino della Serao, continua a vivere un’intensa vita che egli definirà di “splendida miseria”. Pur continuando il rapporto con Barbara Leoni si lascerà irretire dal fascino di Gravina Cruyllas di Ramacca, da cui avrà una figlia, Renata. Nel frattempo darà alle stampe le raccolte di poesie Elegie romane (1892), Odi navali (primo esempio, per lui di poesie civili) e Poema Paradisiaco (pubblicate entrambe nel 1893), nonché i romanzi Giovanni Episcopo e L’innocente, scritti tra il 1891 ed il 1893. La morte del padre, che oberato di debiti lascerà il poeta ancora in una più drammatica situazione economica lo spingerà a lasciare Napoli e a ricoverarsi in Abruzzo con la nuova amante e l’amata figlia. Nonostante questo dà l’avvio al romanzo Il trionfo della morte che completerà nel 1894. Nel frattempo incontra la filosofia nicciana, conosciuta sotto l’influenza dello scrittore decadente francese Maurice Barrés, autore de Le culte du moi (Il culto dell’io)  e la musica di Wagner: sotto la loro suggestione nascerà il romanzo: Le vergini delle rocce del 1894 (dove verrà adombrata la figura del superuomo) e Il fuoco, pubblicato nel 1900 (la cui figura femminile sembra impietosamente assomigliare alla famosissima allora attrice di teatro Eleonora Duse). Si presenta alle elezioni politiche e viene eletto, con la Destra, nel 1897. Ma rare saranno le sua apparizioni parlamentari.

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Gravina Cruyllas di Ramacca

Alla Capponcina (1896-1910)

Nel 1986 conosce Eleonora Duse, la più grande attrice italiana dell’epoca. Ciò lo spingerà ad avvicinarsi a livello compositivo alla realizzazione di piéce teatrali, di cui ricordiamo, come prima opera La città morta, interpretata per la prima volta a Parigi da Sarah Bernhardt ed Il sogno di un mattino di primavera. La relazione con  la Duse, che gli consentirà di risolvere per il momento i problemi economici, verrà sancito da una convivenza nella sontuosa villa della Capponcina. Per D’Annunzio inizia un periodo in cui alterna la residenza in Toscana con i viaggi in Europa, in cui segue le tournées dell’attrice. Si presenta per la prima volta alle elezioni politiche, ottenendo un seggio nel 1897, a sostegno della Destra nazionalista dopo la sconfitta di Adua. Il rapporto con la Duse, nel momento della più alta passione gli ispireranno il romanzo Il Fuoco (1900), dove dietro la protagonista si cela la grande attrice, il vertice della produzione poetica dannunziana l’Alcyone (1903) e, sempre del 1903 la più importante opera teatrale scritta per la Duse, La figlia di Jorio (1903). Nel 1900 si presenta un’altra volta alle elezioni, ma con un clamoroso voltafaccia, si allea con la Sinistra, per protestare contro le leggi liberticide di Pellaux, ma non verrà eletto. Nel frattempo la relazione con la Duse comincia ad incrinarsi, e lui si lega alla contessa Giuseppina Mancini. L’eccessivo sfarzo con cui si circondava, lo caricavano di un peso insopprimibile di debiti. Per sfuggire a tale situazione, si rifugia in Francia.

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Eleonora Duse

Esilio francese (1910-1914)

Incalzato dai debiti, su suggerimento della nuova amante d’origine russa Natalia de Goloubeff, dopo l’uscita di un nuovo romanzo, Forse che sì, forse che no (1910) si reca in Francia. La vita, pur nell’“esilio francese, per volontà della patria ingrata”, ha motivi ben più banali: il caro D’Annunzio non risolve il suo stato debitorio e non smette di spendere. Guadagna molto (ma chiaramente i soldi non sono sufficienti a risolvere la sua disperata situazione economica) grazie alla composizione di opere teatrali: famosa è Le martyre de Saint Sèbastien musicato poi da Debussy (1911), o scrivendo le didascalie per un kolossal del cinema muto Cabiria, con la regia di Giovanni Pastrone. Ma a risolvere in parte il suoi stato debitorio sarà Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera, a cui D’Annunzio corrisponde pagine di riflessione autobiografica o di argomento politico. Ma il nostro non smette di contrarre debiti. Va a Parigi, ma in Europa cominciano a sentirsi le trombe che annunciano la guerra, ed un personaggio come D’Annunzio, che pur vivendo in Francia, legge il dramma La nave scritto precedentemente nel 1907, nel quale si rivendicano territori ancora in mano all’Austria, diventa un punto di riferimento per i nazionalisti italiani.

D’Annunzio soldato (1914-1918)
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D’Annunzio soldato

E’ lo stesso governo a richiamarlo: la sua prosa vibrante serve per infiammare la folla e convincerla per l’entrata in guerra dell’Italia. (D’Annunzio insegna al fascismo cosa significa saper radunare le folle). Diventa, dopo la morte di Carducci, il nuovo poeta vate dell’Italia. Chiede ed ottiene di far parte delle forze militari. In un volo di ricognizione il nostro si ferisce e perde la vista di un occhio. Ma ciò non lo esimerà dal fare, due anni dopo, azioni che rimarranno celebri, come “la beffa di Buccari” (con la quale volle mostrare la facilità con cui i MAS – Motoscafi Armati Siluranti – riuscirono a penetrare in una baia difesa da forze austriache) o il volo su Vienna, in cui D’Annunzio stesso lancia sulla capitale nemica fogliettini con i suoi versi e invitandola alla resa (1918). Bisogna ricordare che nel periodo d’inattività, dopo l’incidente, il nostro, con l’aiuto della figlia Renata, preparerà un testo fra i più celebrati dell’ultima fase dannunziana, il Notturno.

Il dopoguerra (1918-1938)

Il dopoguerra non lo vede inattivo: irritato per quella che lui stesso definirà come la “vittoria mutilata”, che sanciva la perdita della città di Fiume e della Dalmazia, corroborato da discorsi infuocati a cui accoreranno ferventi nazionalisti, tra cui Mussolini, decide infine per una spedizione paramilitare ed occupa Fiume, dove rimarrà per poco più di un anno (verrà cacciato dal governo italiano stesso, per paura di ripercussioni internazionali).

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D’Annunzio a Fiume tra i suoi legionari

Dopo l’avvento del fascismo, Mussolini (che lo temeva) ne fa un mito vivente, accollandosi tutte le sue faraoniche spese e donandogli la lussuosissima villa di Cargnacco sul Garda (il cosiddetto Vittoriale). In questo luogo, che riempirà dei più svariati oggetti d’arredamento e d’arte e che condividerà con la nuova compagna – fino alla sua morte – Luisa Baccara, egli, oltre a scrivere alcune opere, che non hanno influito sulla sua già copiosa produzione (Il libro segreto (1935) Teneo te Africam (1936), si adopera a sistemare tutti i suoi scritti per l’edizione mondadoriana. Muore all’improvviso nel 1° marzo del 1938.

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Luisa Baccara

L’itinerario letterario

L’importanza di Gabriele D’Annunzio, nella letteratura italiana, sta soprattutto nel fatto che il poeta pescarese ha fatto da tramite tra le più ardite sperimentazioni europee e la cultura del nostro paese. Egli, infatti, più che elaborare una vera e propria poetica personale si è servito, con grande capacità ed intuito, di tutto ciò che l’intellettualità europea andava elaborando, svecchiando le strutture tradizionali della nostra letteratura e permettendo alla stessa di far parte di quel sentire “decadente” che ormai si andava affermando. Tuttavia, pur avendo svolto questa funzione, non si può negare il ruolo profondamente innovativo che egli ha incarnato nell’Italia umbertina, promuovendo un nuovo modo di essere intellettuale nella società e scardinando il lessico e la funzione che l’opera d’arte aveva avuto sin allora; non è un caso che tutta la produzione poetica novecentesca debba, in qualche modo, fare i conti con la sua opera.

D’Annunzio s’affaccia al mondo letterario giovanissimo, pubblicando nel 1879, in piena età scolare, la raccolta poetica Primo vere, che appare poco più che un esercizio letterario, mostrando l’ossequio che non solo l’esuberante e brillante studente del Liceo Cicognini, ma l’intera cultura letteraria mostrava verso il magistero carducciano. Si veda questa traduzione catulliana fatta in “metro barbaro”:

AI MANI DE ‘L FRATELLO

Via per genti innumere, via lunge su’ mari portato,
a quest’esequie tristi, o mio fratello io vengo:

io vengo ad offrirti l’estremo dono di morte
e volgerò i miei detti a un cener muto indarno,

poi che al mio amore te, te strappò la fortuna,
te con forza crudele, o misero fratello!

Pur or que’ doni che a le tristi esequie ho recati,
per prisca usanza, pur or frattanto prendi;

prendi que’ doni di pianto fraterno stillanti,
ed in eterno addio, o fratello mio, addio!…

Come si può notare dalla struttura metrica egli cerca di riprendere il distico, ma non è solo questa caratteristica a rendere il testo traduttivo interessante: troviamo in esso anafore, anastrofi, anadiplosi ed altre figure che vogliono mostrare al lettore la perizia tecnica del giovane poeta; ma è anche la volontà di porsi su quella linea di traduzione d’arte che Foscolo aveva mostrato traducendo lo stesso testo. Risulta tuttavia un’enorme differenza: nel poeta veneziano vi è la ripresa del sentimento catulliano per un avvenimento biografico, in D’Annunzio vi è la scaltrezza di un poeta che, appena uscito dall’adolescenza, già scalpita per affermarsi come nuova grande voce.

Più compiuto e già capace di mostrarci un D’Annunzio più maturo è Canto novo del 1882. In quest’ultima opera il poeta se da una parte riprende il metro barbaro carducciano, il simbolismo francese e suggestioni scapigliate, sue proprie sono invece il gusto già preponderante verso una suggestione verbale ricca ed eccessiva, così come il disegno di una natura sempre vivida e lussureggiante.

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Si veda la seguente poesia:

O FALCE DI LUNA CALANTE

O falce di luna calante
che brilli su l’acque deserte,
o falce d’argento, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

Aneliti brevi di foglie,
sospiri di fiori del bosco
esalano al mare: non canto non grido,
non suono pe ’l vasto silenzio va.

Oppresso d’amor, di piacere,
il popol de’ vivi s’addorme…
O falce calante, qual messe di sogni
ondeggia al tuo mite chiarore qua giù!

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Luna calante

La poesia, che è composta da tre strofe di quattro versi ciascuna, di cui i primi due novenari e gli ultimi dodecasillabi (doppio senario) descrive un notturno a cui non mancano richiami metaforici verso elementi solari (messe, come raccolta; fruire di foglie): si vedano le coppie sinonimiche falce/messe ed amor/piacere; a questa coppia fa da contraltare la notte (la luna, l’acque deserte), ma non vi è alcun sentimento di malinconia ma, viceversa di raggiunta quiete, (oppresso/s’addorme). Già in questa lirica il giovane D’Annunzio accenna ad uno dei temi portanti della sua poesia, quello del panismo, cioè il sentirsi in una comunione/abbraccio con la natura: non per niente è dal silenzio luminoso e notturno che deriva il sommo del piacere sensuale.  E’ da sottolineare inoltre la tecnica compositiva, che si muove su una ricerca di ripetute allitterazioni e ripetizioni che possano rendere la lirica musicale.

Sempre del 1882 sono le raccolte di novelle Terra vergine, mentre del 1886 sono quelle di San Pantaleone, raccolte successivamente nel libro Novelle della Pescara.

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D’Annunzio giovane studente

LA MADIA

Egli giunse alla casa, in un baleno, ansando e palpitando. Salì le scale con cautela infinita, senza rumore. Cercò la chiave a tentoni, in una cavità del muro, dove soleva metterla la matrigna uscendo. La trovò; e prima d’aprire guardò dal buco della serratura. Luca, sul letto, pareva sopito.
Ciro pensò: “Se potessi prendere il pane senza svegliarlo!”
E girò la chiave, piano piano trattenendo il respiro, temendo di svegliare il fratello con i palpiti del cuore. Pareva che quei palpiti empissero tutta la casa, come d’un fragore altissimo.
“E se si sveglia?” pensò Ciro con un brivido nelle midolle, quando sentì che la porta era aperta.
Ma la fame lo rendeva audace. Egli entrò, puntando le grucce delicatamente, non togliendo mai gli occhi di sul fratello.
“E se si sveglia?”
Il fratello, supino, respirava con affanno in quel sopore. Di tratto in tratto gli usciva dalle labbra quasi un fischio lieve. Una sola candela ardeva su la tavola, gittando sulla parete larghe ombre variabili.
Ciro, come fu presso la madia, s’arrestò per vincere il tremore; guardò il dormiente; poi, reggendo ambo le grucce con l’ascelle, si mise a sollevare il coperchio. La madia scricchiolava forte.
D’improvviso Luca diede un balzo, svegliandosi. Vide il fratello in quell’atto, e cominciò a gridargli contro, agitando le braccia, come un ossesso: «Ah, ladro! Ah, ladro! Aiuto!»
Ma il furore lo soffocava. Mentre il fratello, accecato dalla fame, chino sulla madia, cercava con le mani tremanti un pezzo di pane, egli si gettò giù dal letto e gli corse sopra a impedirgli di prendere.
«Ladro! Ladro!» gridava, fuori di sé.
Fuori di sé, trasse il coperchio sul collo di Ciro; che s’agitò come una vittima alla tagliuola, disperatamente. Resisteva Luca contro quegli sforzi, avendo perduto ogni coscienza della cosa, premendo tutta la sua persona, quasi per decapitare il fratello. Il coperchio schricchiolava, penetrando nella viva carne della nuca, schiacciando le canne della gola, pestando le vene e i nervi. Penzolò dalla madia un corpo inerte, che non dava alcun tratto.
Allora, in cospetto dello storpio trucidato, uno sbigottimento pazzo invase l’animo del fratello.
Due o tre volte, barcollando, egli attraversò la stanza che i guizzi della candela empivano di paure; mise le mani su le coperte, le tirò a sé, ci si avvoltolò tutto, coprendosi anche la testa; poi si accovacciò sotto il letto. E nel silenzio i suoi denti stridevano, come fa una lama sul ferro.

La prosa dannunziana parte sin da subito legandosi a tematiche veriste, quel tipo di verismo, però, legato maggiormente ai drammi psicologici di Capuana, che all’analisi antropologica verghiana. Ma tuttavia sentiamo in lui un eccesso descrittivo che sottolinea, quasi, la morbosità con cui presenta il cruento episodio (vittima alla togliuola, viva carne della nuca, storpio trucidato), che non nascondono il compiacimento verbale del giovane autore. E questo modo di raccontare appare tutto nella novellistica giovanile di D’Annunzio.

L’arte poetica e l’arte narrativa non si scindono nel giovane pescarese e già dopo due anni, nel 1884, dà alle stampe Intermezzo di rime, ripubblicato una decina d’anni dopo col solo titolo Intermezzo. L’opera suscitò sin dal suo primo apparire una violenta polemica morale, in quanto era ritenuto dai più di contenuto pornografico:

SED NON SATIATUS

O bei corpi di femmine attorcenti
con le anella di un serpe agile e bianco,
pure io non so da’ vostri allacciamenti
ancora sazio liberare il fianco.

Bei seni da la punta erta fiorenti,
su cui mi cade a l’alba il capo stanco
allor che ne’ supremi abbattimenti
de ‘l piacere io m’irrigidisco e manco;

reni felini pe’ cui solchi ascendo
lascivamente in ritmo con le dita
come su nervi di falcate lire;

denti sotto a’ cui morsi acri mi arrendo,
bocche sanguigne più di una ferita,
pur m’è dolce per voi così sfiorire.

Alfredo Protti: Toni azzurri (1924)

Questo sonetto, in cui la descrizione femminile riprende alcune immagini della donna baudelariane (rapporto donna/serpe), sembra voler sollecitare la morbosità di un pubblico borghese che se da una parte stigmatizza un linguaggio che pur aulico non nasconde il significato, dall’altro invidia il giovane poeta che si era tuffato nel bel mondo salottiero della Roma, in cui era consapevole che versi come questi, proprio perchè scandalosi, avrebbero portato il testo da lui edito al successo. Sin da ora non importa il giudizio estetico, importa l’essere sulla bocca di tutti. D’altra parte lo stesso D’Annunzio diventerà a suo tempo critico di se stesso, definendo l’intera opera come un “documentto umano” di un momento (il suo) in cui predominava una debolezza di volontà in un periodo e in una città completamente falsa.

A questa raccolta segue quella di Isaotta Guttadauro e altre poesie del 1886 che verrà poi scisso in due volumi l’Isotteo e La Chimera nel 1890. Forse in modo ancora più eccessivo, qui D’Annunzio ricerca, sulla linea dei Parnassiani francesi, una purezza del dettato che vuole ricreare la lirica quattrocentesca, ripercorrendo il lessico, la struttura compositiva, che forse può aggiungere qualcosa sulla capacità versificatoria del nostro, ma niente riguardo la sua poetica.

rocaille-sartorio-per-Isaotta-Guttadauro-dannunzioIsaotta Guttadauro e altre poesie (editio picta)

Ma il suo primo grande successo è il romanzo Il piacere del 1889, che, contemporaneamente alla cultura europea, rappresenta uno dei più grandi romanzi europei legati all’estetismo. Ad iniziare, infatti, è l’opera di Joris-Karl Huysmans À rebours del 1884 (tradotta con Controcorrente o A ritroso), in cui il nobile Des Esseintes, stanco della grigia realtà, si crea in provincia un rifugio dove si circonda solamente di cose che lui reputa belle: pareti di seta, finestre con vetri colorati, mobili fastosi, fiori veri da sembrare finti, ma la cui fine non può che portarlo alla nevrosi, da cui cercherà di sollevarsi rivolgendosi a Dio; o ancora, posteriore all’opera dannunziana, il romanzo di Oscar Wilde The Picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray) del 1890, in cui il protagonista vede invecchiare il suo ritratto mentre lui si dà ad una vita dissipata. Tre romanzi tre protagonisti: Des Esseintes, Andrea Sperelli, Dorian Gray, belli ma nevrotici. Attraverso essi gli autori superano la descrizione tipica dei protagonisti “naturalisti” o “veristi”: sebbene inseriscano come sottofondo una critica “morale”, ciò non inficia la fascinazione dei romanzieri stessi verso i loro protagonisti, soprattutto riguardo D’Annunzio che, scrivendo di Andrea Sperelli, scrive di se stesso e dei suoi amori per Maria Hourdin e Barbara Zucconi.

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D’Annunzio al mare in posa da dandy

La vicenda è ambientata in una Roma di lusso, tra papale e umbertina. Protagonista è il conte Andrea Sperelli, “ideal tipo del giovane signore italiano del sec. XIX”, “legittimo campione di una stirpe di gentili uomini e di artisti eleganti”, la cui massima è “bisogna fare la propria vita come si fa un’opera d’arte”. Poeta, pittore e musicista dilettante, ma soprattutto raffinato artefice di piacere, egli ha stabilito la sua dimora nel palazzo Zuccari a Trinità de’ Monti, passa le sue giornate tra occupazioni mondane, si circonda di persone eleganti e di oggetti preziosi lontano dal “grigio diluvio democratico… che molte cose belle e rare sommerge miseramente”. Andrea è però tormentato dal ricordo di una relazione complicata e sensuale con l’enigmatica Elena Muti, bruscamente troncata dall’improvvisa partenza della donna da Roma. Dopo un breve periodo d’isolamento, egli si tuffa in una serie di nuove avventure, finché un rivale geloso lo sfida a duello e lo ferisce. Si abbandona allora in una convalescenza “purificatrice” nella villa di una ricca cugina, a Schifanoia. Qui egli conosce una creatura casta e sensibile; Maria Ferres, moglie d’un ministro del Guatemala: per lei s’illude di nutrire un amore spirituale, ma presto il loro rapporto s’intorbida e nel contatto con Maria egli non cerca che di riprodurre le sensazioni già provate con Elena, sovrapponendo così le immagini delle due donne. Quando, al culmine di un amplesso, Andrea si lascia sfuggire il nome dell’antica amante, Maria fugge inorridita.

 

RITRATTO DI ANDREA SPERELLI
(dal Libro I, cap. 2)

Il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta, unico erede, proseguiva la tradizion familiare. Egli era, in verità, l’ideal tipo del giovine signore italiano del XIX secolo, il legittimo campione d’una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l’ultimo discendente d’una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a’ vent’anni, le lunghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e poté compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d’arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de’ pregiudizii, l’avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borbonica, sapeva largamente vivere; aveva una conoscenza profonda della vita voluttaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Dopo egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniugale. Finalmente s’era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta Europa.
L’educazione di Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto su i libri, quanto in conspetto delle realità umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall’alta cultura, ma anche dall’esperimento; e in lui la curiosità diveniva più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodigo di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond’egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui d’un’altra forza, della “forza morale” che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la riduzion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d’intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui».
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo la propria libertà, fin nell’ebbrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: – Habere, non haberi».
Anche diceva : «Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni».
Ma queste massime “volontarie”, che per l’ambiguità loro potevano anche essere interpretate come alti criterii morali, cadevano appunto in una creatura involontaria, in un uomo, cioè, la cui potenza volitiva era debolissima.
Un altro seme paterno era perfidamente fruttificato nell’animo di Andrea: il seme del sofisma. «Il sofisma» diceva quell’incauto educatore «è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano. Acuire e moltiplicare equivale dunque ad acuire e moltiplicare il proprio piacere o il proprio dolore. Forse, la scienza della vita sta nell’oscurare la verità. La parola è una cosa profonda, in cui per l’uomo d’intelletto son nascoste inesauribili ricchezze. I Greci, artefici della parola, sono infatti i più squisiti goditori dell’antichità. I sofisti fioriscono in maggior numero al secolo di Pericle, al secolo gaudioso.

Il brano proposto potremo analizzarlo alla luce di quattro sequenze:

  • presentazione di Andrea Sperelli e del suo modo di concepire e di vivere l’arte e la bellezza;
  • descrizione del padre di Andrea, unico educatore del figlio;
  • l’educazione paterna ricevuta del protagonista;
  • le “massime” fondamentali che il padre detta come regole di vita.

E’ necessario partire da quest’ultime per comprendere le scelte del protagonista nel corso del romanzo: nella prima infatti, il padre insegna ad Andrea che Bisogna fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte, per meglio dire sottolinea il binomio vita-arte che è caratteristico della poetica decadente. Potremo quasi dire che la vita viene vissuta quasi a livello “attoriale”, meditando gli atteggiamenti per poi viverli (in qualche modo perdendo l’autenticità); nella seconda Bisogna conservare ad ogni costo la propria libertà, fin nell’ebbrezza… Habere, non haberi, l’ammonizione riguarda il senso della libertà, libertà dell’io, che si espande in rapporto oserei dire quasi narcisistico legato tuttavia all’apparire. Habere, cioè possedere, haberi essere posseduto, quindi schiavo. Ma habere non esse: la libertà non è dell’essere, ma del possesso, della ricchezza. Nella terza Il rimpianto è il vano pascolo d’uno spirito disoccupato, il nostro sottolinea la ricerca inesausta di nuove sensazioni, quindi legate al sensi; tale “sensualità” trova la sua esplicitazione nella parola e quindi nell’arte. La vita si deve vivere come fosse un’opera d’arte e il parlare come fosse letteratura. L’ultimo Il sofisma è in fondo ad ogni piacere e ad ogni dolore umano non fa che sottolineare l’idea di D’Annunzio (in questo caso ripresa in modo pedissequo dalla poetica barocca) che la verità non sta nell’oggetto ma nella parola che lo descrive. La parola pertanto in quanto unica realtà deve avere una validità estetica.

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D’Annunzio legge tra le opere d’arte

Ce lo dimostra quest’altro passo tratto da Il piacere:

IL VERSO E’ TUTTO
(dal Libro II, cap. 1)

Il verso è tutto. Nella imitazion della Natura nessuno istrumento d’arte è più vivo, agile, acuto, vario, moltiforme, plastico, obediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d’un fluido, più vibrante d’una corda, più luminoso d’una gemma, più fragrante d’un fiore, più tagliente d’una spada, più flessibile d’un virgulto, più carezzevole d’un murmure, più terribile d’un tuono, il verso è tutto e tutto può.
Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l’oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può infine raggiungere l’Assoluto.
Un verso perfetto è assoluto, immutabile, immortale, tiene in sé le parole con la coerenza d’un diamante; chiude il pensiero come in un cerchio preciso che nessuna forza mai riuscirà a rompere; diviene indipendente da ogni legame e da ogni dominio; non appartiene più all’artefice, ma è di tutti e di nessuno, come lo spazio, come la luce, come le cose immanenti e perpetue.
Un pensiero esattamente espresso in un verso perfetto è un pensiero che già esisteva preformato nell’oscura profondità della lingua. Estratto dal poeta, séguita ad esistere nella conscienza degli uomini. Maggior poeta è dunque colui che sa discoprire, disviluppare, estrarre un maggior numero di codeste preformazioni ideali. Quando il poeta è prossimo alla scoperta d’uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d’improvviso tutto l’essere.

Passo non tanto importante per la capacità di svelarci un nuovo mondo estetico dell’autore, quanto per mostrarci come il poeta Andrea Sperelli non possa essere che D’Annunzio stesso. Allora forse si può maggiormente capire come la velata “critica” (Ma l’espansion di quella sua forza era la distruzione in lui d’un’altra forza, della “forza morale” che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere) espressa, in effetti non abbia forza per imporsi e come vinca invece il compiacimento. Forse la critica verso Andrea Sperelli c’è, ma non verso se stesso; è Andrea a non aver raggiunto il massimo grado di perfezione estetica, D’Annunzio invece è diventato un superuomo della bellezza.

LA ROMA DI ANDREA SPERELLI

Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fari, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l’Arco di Tito per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l’attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Carracci, come quello Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d’Alessandro Albani, dove i bussi profondi, il granito rosso d’Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d’Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».

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Palazzo Farnese

Se la parola è tutto e l’arte della parola è capace di diventare l’unica verità, scoperta certamente dello stoicismo greco, ma ripreso anche dalla poetica barocca in cui l’unica realtà è quella dell’arte; per questo Andrea Sperelli non può che amare la Roma del ‘600, una Roma in cui la magnificenza delle chiese e dei palazzi barocchi, esprimevano una meraviglia del vedere, più che un significato da trasmettere (come avveniva nell’arte classica)

Dopo la parentesi “minore” con il romanzo breve Giovanni Episcopo (1892) D’Annunzio dà alle stampe L’innocente (1893), scritti entrambi a Napoli e pubblicati, a puntate, sul giornale di Matilde Serao.

Il romanzo è la confessione di un delitto, esposta in prima persona dal protagonista. Nuova incarnazione del “superuomo”, l’ex diplomatico Tullio Hermil tradisce cinicamente la moglie Giuliana, relegandola al ruolo di sorella e di consolatrice. Soltanto dopo aver interrotto una burrascosa relazione con la possessiva Teresa Raffo, viene assalito da un’ansia sconosciuta di pace e di dolcezza coniugale: ma a questo punto s’insinua in lui il sospetto che Giuliana lo tradisca con uno scrittore alla moda, Filippo Arborio. Fin qui l’antefatto. Soffocato l’angoscioso dubbio, Tullio va a vivere in campagna, nella casa materna, e un giorno, a Villalisa, (la dimora in cui ha trascorso felicemente i primi anni di matrimonio) ritrova pieno e inebriante l’amore della moglie: poco dopo ha la tremenda rivelazione: Giuliana in un momento di debolezza, l’ha realmente tradito ed ora attende un figlio concepito con Filippo Arborio. Sentimenti contrastanti dividono l’animo di Tullio: consapevole di esser lui l’unico responsabile del tradimento, non può non perdonare colei che infinite volte lo perdonò, e prova anzi per Giuliana una passione nuova, morbosa, mista di rabbia e di pietà. Vorrebbe sfidare Arborio a duello, ma anche questo sfogo gli è vietato perché lo scrittore è stato colpito da paralisi. Nella sua mente corrotta matura allora l’idea del delitto: sopprimere il nascituro, unico ostacolo alla sua felicità. Anche Giuliana, più che mai innamorata del marito, sfinita da una gravidanza dolorosa, accetta tacitamente l’atroce soluzione. Il bimbo nasce, odiato da Tullio e da Giuliana, ma protetto dalle cure dell’ignara nonna e del padrino, Giovanni di Scordio, un contadino fedelissimo di casa Hermil. Una sera, mentre tutti i familiari si sono recati alla novena di Natale, Tullio sacrifica l’“innocente”, esponendolo al gelo invernale.

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Laura Antonelli e Giancarlo Giannini nei panni di Giuliana e Tullio nel film di Luchino Visconti tratto da “L’innocente” di D’Annunzio (1976)

La suggestione per la stesura del romanzo sono le letture di Tolstoj e Dostoevskij, autori che entrano alla fine degli anni ’80 in Europa e, attraverso la mediazione francese, venivano letti e ammirati nell’intera Europa. A far da sfondo alla storia de L’innocente è certamente Delitto e castigo di Dostoevskij:

UNA LUCIDA FOLLIA OMICIDA
(Cap. XXXIX)

Incominciò da quel giorno l’ultimo periodo precipitoso di quella lucida demenza che doveva condurmi al delitto. Incominciò da quel giorno la premeditazione del mezzo più facile e più sicuro per far morire l’Innocente. Fu una premeditazione fredda, acuta e assidua che assorbì tutte le mie facoltà interiori. L’idea fissa mi possedeva intero, con una forza e una tenacità incredibili. Mentre tutto il mio essere si agitava in un orgasmo supremo, l’idea fissa lo dirigeva allo scopo come su per una lama d’acciaio chiara, rigida, senza fallo. La mia perspicacia pareva triplicata. Nulla mi sfuggiva, dentro e fuori di me. La mia circospezione non si rilasciò mai un istante. Nulla io dissi, nulla io feci che potesse destare sospetto, muovere stupore. Simulai, dissimulai senza tregua, non soltanto verso mia madre, mio fratello, gli altri inconsapevoli, ma anche verso Giuliana.
Io mi mostrai a Giuliana rassegnato, pacificato, talvolta quasi immemore. Evitai studiosamente qualunque allusione all’intruso. Cercai in tutti i modi rianimarla, inspirarle fiducia, indurla all’osservanza delle norme che dovevano renderle la salute. Moltiplicai le mie premure.
(…)
Ero convinto che la salvezza della madre stesse nella morte del figliuolo. Ero convinto che, scomparso l’intruso, ella sarebbe guarita. Pensavo: «Ella non potrebbe non guarire. Ella risorgerebbe a poco a poco, rigenerata, con un sangue nuovo. Parrebbe una creatura nuova, scevra d’ogni impurità. Ambedue ci sentiremmo purificati, degni l’uno dell’altra, dopo una espiazione così lunga e così dolorosa. La malattia, la convalescenza darebbero al triste ricordo una lontananza indefinita. E io vorrei cancellare dall’anima di lei perfino l’ombra del ricordo; vorrei darle il perfetto oblio, nell’amore. Qualunque altro amore umano parrebbe futile al confronto del nostro, dopo questa grande prova». La visione dell’avvenire m’accendeva d’impazienza. L’incertezza mi diveniva intollerabile. Il delitto mi appariva scevro di orrore. Io mi rimproveravo acremente le perplessità nelle quali m’indugiavo con troppa prudenza; ma nessun lampo ancóra aveva attraversato il mio cervello, non ero ancor riuscito a trovare il mezzo sicuro.
Bisognava che Raimondo sembrasse morire di morte naturale. Bisognava che anche al medico non potesse balenare alcun sospetto. Dei diversi metodi studiati nessuno mi parve eligibile, praticabile. E intanto, mentre aspettavo il lampo rivelatore, la trovata luminosa, io mi sentivo attratto da uno strano fascino verso la vittima.
(…)
Provavo un sordo rammarico nel notare ch’egli cresceva, ch’egli fioriva, ch’egli non portava in sé alcun indizio d’infermità tranne quelle lievi croste biancastre innocue. Pensavo: «Ma tutte le agitazioni, tutte le sofferenze della madre, mentre egli era ancóra nel ventre, non gli hanno nociuto? O egli ha veramente qualche vizio organico non ancóra manifesto, che potrebbe svilupparsi in seguito e ucciderlo?».
Un giorno, vincendo la ripugnanza, avendolo trovato senza fasce nella culla, lo palpai, lo esaminai dal capo alle piante, misi l’orecchio sul suo petto per ascoltargli il cuore.
(…)
Più volte lo guardai anche mentre dormiva, lo guardai a lungo, pensando e ripensando al mezzo, distratto dalla visione interiore del morticino in fasce disteso su la bara tra corone di crisantemi bianchi, tra quattro candele accese. Egli aveva il sonno calmissimo. Giaceva supino, tenendo le mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A quando a quando le sue labbra umide facevano l’atto di poppare. Se mi giungeva al cuore l’innocenza di quel sonno, se l’atto inconscio di quelle labbra m’impietosiva, io dicevo a me stesso, come per raffermare il mio proposito: «Deve morire». E mi rappresentavo le sofferenze già patite per lui, le sofferenze recenti, le menti, e quanto d’affetto egli usurpava a danno delle mie creature, e l’agonia di Giuliana, e tutti i dolori e tutte le minacce che chiudeva la nuvola ignota sul nostro capo. E così rinfocolavo la mia volontà micidiale, così rinnovavo sul dormente la condanna.
(…)

 (Cap. XLIV)

Anna stava in piedi, presso la sua sedia, atteggiata in modo così vivo ch’io sùbito indovinai ch’ella era allora allora balzata in piedi udendo le cornamuse della sua montagna, il preludio della pastorale antica.
«Dorme?» domandai.
Ella m’accennò di sì col capo.
I suoni continuavano, velati dalla distanza, dolci come in un sogno, un po’ rochi, lunghi, lenti. Le voci chiare delle ceramelle modulavano la melodia ingenua e indimenticabile su l’accompagnamento delle cornamuse.
«Va anche tu alla Novena» io le dissi. «Resto io qui.»
Da quanto tempo s’è addormentato?
«Ora.»
«Va, va dunque alla Novena.»
Gli occhi le brillarono.
«Vado?»
«Sì. Resto io qui.»
Le aprii la porta io stesso; la chiusi dietro di lei. Corsi verso la culla, su la punta dei piedi; guardai da presso. L’Innocente dormiva nelle sue fasce, supino, tenendo le piccole mani chiuse a pugno col pollice in dentro. A traverso il tessuto delle palpebre apparivano per me le sue iridi grige. Ma non sentii sollevarmi dal profondo nessun impeto cieco di odio né d’ira. La mia avversione contro di lui fu meno acre che nel passato. Mi mancò quell’impulso istintivo che più d’una volta avevo sentito correre fino alle estremità delle mie dita pronte a qualunque violenza criminale. Io non obedii se non all’impulso d’una volontà fredda e lucida, in una perfetta consapevolezza.
Tornai alla porta, la riaprii; m’assicurai che l’andito era deserto. Corsi allora alla finestra. Mi vennero alla memoria alcune parole di mia madre; mi balenò il dubbio che Giovanni di Scòrdio potesse trovarsi là sotto nello spiazzo. Con infinite precauzioni aprii. Una colonna d’aria gelata m’investì. Mi sporsi sul davanzale, ad esplorare. Non vidi nessuna forma sospetta, non udii se non i suoni della Novena diffusi. Mi ritrassi, mi avvicinai alla culla, vinsi con uno sforzo l’estrema ripugnanza; presi adagio adagio il bambino, comprimendo l’ansia; tenendolo discosto dal mio cuore che batteva troppo forte, lo portai alla finestra; l’esposi all’aria che doveva farlo morire.

Se Tullio Hermil vuole apparire agli occhi dell’autore e/o lettore come un nuovo Raskol’nikov, l’intento fallisce: è pur vero che non bisogna tacere l’impegno stilistico dannunziano nel tradurre, attraverso l’io narrante, un lungo scavo interiore, un’attenta analisi psicologica, un personaggio che lotta con se stesso (e qui troviamo echi non solo dostoevskiani, ma anche di Poe e di Maupassant); così come anche la figura di suo fratello Federigo e di Giovanni di Scordio ricordano la prosa tolstoiana, vedendo in loro una purezza cristana che fa da contrasto con il protagonista. Ma il fatto è che Tullio Hermil non cessa di essere un “superuomo” (il suo essere superiore alla morale e all’amore borghese) in cui anche la “ricerca dell’omicidio” s’inscrive in un atto superiore, alla ricerca di una “purezza” macchiata dalle sue colpe e dal tradimento di Giuliana. Così come allo stesso modo D’Annunzio non cessa di essere un artefice della parola, quando inscrive, in una storia noir, un pezzo “estetico”:

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Immagine di un usignolo e della musica

L’USIGNUOLO CANTAVA
(cap. 9)

L’usignuolo cantava. Da prima fu come uno scoppio di giubilo melodioso, un getto di trilli facili che caddero nell’aria con un suono di perle rimbalzanti su per i vetri di un’armonica. Successe una pausa. Un gorgheggio si levò, agilissimo, prolungato straordinariamente come per una prova di forza, per un impeto di baldanza, per una sfida a un rivale sconosciuto. Una seconda pausa. Un tema di tre note, con un sentimento interrogativo, passò per una catena di variazioni leggère, ripetendo la piccola domanda cinque o sei volte, modulato come su un tenue flauto di canne, su una fistula pastorale. Una terza pausa. Il canto divenne elegiaco, si svolse in tono minore, si addolcì come un sospiro, si affievolì come un gemito, espresse la tristezza di un amante solitario, un desio accorato, un’attesa vana; gittò un richiamo finale, improvviso, acuto come un grido di angoscia; si spense. Un’altra pausa, più grave. Si udì allora un accento nuovo, che non pareva escire dalla stessa gola, tanto era umile, timido, flebile, tanto somigliava al pigolio degli uccelli appena nati, al cinguettìo d’una passeretta; poi, con una volubilità mirabile, quell’accento ingenuo si mutò in una progressione di note sempre più rapide che brillarono in volate di trilli, vibrarono in gorgheggi nitidi, si piegarono in passaggi arditissimi, sminuirono, crebbero, attinsero le altezze soprane. Il cantore s’inebriava del suo canto. Con pause così brevi che le note quasi non finivano di spegnersi, effondeva la sua ebrietà in una melodia sempre varia, appassionata e dolce, sommessa e squillante, leggera e grave, e interrotta ora da gemiti fiochi, da implorazioni lamentevoli, ora da improvvisi impeti lirici, da invocazioni supreme. Pareva che anche il giardino ascoltasse, che il cielo s’inchinasse su l’albero melanconico dalla cui cima un poeta, invisibile, versava tali flutti di poesia. La selva dei fiori aveva un respiro profondo ma tacito. Qualche bagliore giallo s’indugiava nella zona occidentale; e quell’ultimo sguardo del giorno era triste, quasi lugubre. Ma una stella spuntò, tutta viva e trepida come una goccia di rugiada luminosa.

In questo passo D’Annunzio mette in pratica quanto già detto ne Il piacere: viene messo l’accento appunto su quell’assioma decadente in cui è la sola parola a poter farsi interprete del segreto della natura. La capacità di renderla musicale, la volontà d’interpretare ciò che interpretabile non è, la determinazione attraverso cui la natura s’umanizza e come il letterato la comprenda, rimane uno dei punti fermi della poetica del nostro.

Infatti L’innocente, pur essendo il primo romanzo dannunziano che gli garantirà una sicura e certa fama europea, non si distacca dal Piacere. Tullio è fratello di Andrea (raffinato e cultore di bellezza).

Il ciclo della Rosa, che vuole rappresentare la trilogia noir di D’Annunzio, si conclude con Il trionfo della morte del 1894:

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Edizione dei primi anni del Novecento de “Il trionfo della Morte”

Il protagonista del romanzo è Giorgio Aurispa, un giovane dì origine abruzzese colto e raffinato, che ha abbandonato il paese per trasferirsi a Roma, grazie all’eredità lasciatagli dalla morte del suicida zio Demetrio. Inizia una relazione con una donna sposata, Ippolita Sanzio. Ne nasce una relazione di forte intensità e sensuale, che lega indissolubilmente Giorgio ad Ippolita. Il protagonista torna in Abruzzo, ma qui scopre che la nobile famiglia è ormai in disgrazia perché il padre vive in dissoluzione con una prostituta. Giorgio è scioccato, sia per la sua situazione familiare sia dalla notizia della condizione misera in cui versa la popolazione, abbandonata alla povertà e alla superstizione. Decide di soggiornare allora al mare, affittando una casa su un promontorio. Ippolita lo raggiunge e la coppia vive felicemente, nonostante Giorgio, nei suoi studi nietzschiani, provi repulsione per la vita ancora pastorale e primitiva abruzzese. Ippolita invece ne è affascinata, specialmente quando assiste ad un esorcismo di una bambina. Giorgio diventa sempre più irrequieto e malinconico, e la sua follia esplode durante un pellegrinaggio dove assiste non ad uno scenario di carità cristiana, ma ad uno spettacolo macabro di malati e poveracci in condizioni disumane. Poiché Ippolita si è mostrata molto meravigliata e attratta dalla vita pastorale locale, Giorgio vede distrutti il suo rapporto ed equilibrio, decidendo il suicidio assieme alla sua amata.

Questo romanzo segue la raccolta poetica del Poema paradisiaco e mostra già un primo incontro di D’Annunzio con la filosofia nicciana.

EROS E THANATOS

Ora, più stanca, quasi esanime, dopo le furiose carezze, Ippolita si lasciava prendere a poco a poco dal sonno. A poco a poco su la sua bocca il sorriso divenne inconscio; poi disparve. Le labbra un istante si ricongiunsero; poi con infinita lentezza si riaprirono e dal fondo sorse un candore di gelsomini. Di nuovo, le labbra un istante si ricongiunsero; e ancóra, lentamente, lentamente, le labbra si dischiusero: risorse dal fondo il candore, inumidito.
Giorgio, sollevato sul gomito, la guardava. La vedeva bella bella bella, somigliante alla donna ch’egli aveva veduta la prima volta nell’Oratorio segreto, innanzi l’orchestra del filosofo Alessandro Memmi, tra il profumo vanito dell’incenso e delle violette. Era pallida pallida, come allora.
Era pallida ma di quella singolare pallidezza che Giorgio non aveva ritrovata in nessuna altra donna mai: d’una pallidezza quasi mortale, profonda, cupa, che un poco pendeva nel livido quando s’empiva di ombra. Una lunga ombra segnavano i cigli in sommo delle gote; un’ombra virile, a pena visibile, velava il labbro superiore. La bocca, piuttosto grande, aveva una linea sinuosa, assai molle ma pur triste, intensamente espressiva nel silenzio perfetto.
«Come la sua bellezza si spiritualizza nella malattia e nel languore!» pensava Giorgio. «Così affranta, mi piace di più. Io riconosco la donna sconosciuta che mi passò d’innanzi in quella sera di febbraio: la donna che non aveva una goccia di sangue. Io penso che morta ella raggiungerà la suprema espressione della sua bellezza. Morta! – E s’ella morisse? Ella diventerebbe materia di pensiero, una pura idealità. Io l’amerei oltre la vita, senza gelosia, con un dolore pacato ed eguale.»
Si ricordò che già qualche altra volta egli l’aveva imaginata bella nella pace della morte. – Ah, quella volta delle rose! Nei vasi languivano larghi mazzi di rose bianche: in un giugno, nel principio degli amori. Ella s’era assopita sul divano, immobile, quasi senza respiro. Egli l’aveva contemplata a lungo. Poi, per una improvvisa fantasia, l’aveva coperta di rose, piano piano, cercando di non destarla; le aveva composto su i capelli alcune rose. Ma così infiorata, inghirlandata, ella gli era parsa un corpo esanime, un cadavere. Atterrito dalla parvenza, egli l’aveva scossa per destarla; ed ella era rimasta inerte, tenuta da una di quelle sincopi a cui in quel tempo andava soggetta. Ah il terrore e l’ansia, prima ch’ella avesse ricuperati i sensi, e misto al terrore l’entusiasmo per la sovrana bellezza di quel volto straordinariamente annobilito da quel riflesso di morte! – Egli si risovvenne dell’episodio; ma poiché si indugiava nei pensieri strani, fu preso da un subitaneo moto di rimorso e di pietà. Si chinò a baciare la fronte della dormiente; che non s’accorse del bacio. A stento allora egli si trattenne dal baciarla più forte su la bocca perch’ella se n’accorgesse e rispondesse. Allora sentì tutta la vanità d’una carezza che non fosse per l’oggetto amato una rapida comunicazione di gaudio; sentì tutta la vanità di un amore che non fosse una continua immediata corrispondenza di sensazioni acute. Sentì allora l’impossibilità d’inebriarsi senza che alla sua ebrezza corrispondesse una ebrezza d’intensità eguale.

Il Trionfo della morte è certamente uno dei romanzi più complessi della narrativa dannunziana: in esso s’intrecciano vari temi che in parte, riprendendo quelli già presenti in altre opere, come quello del superomismo, qui si approfondiscono con l’apporto appunto nicciano, lasciando inalterate le suggestioni dostoevskiane con echi addirittura zoliani. Vi si presenta l’incontro tra due spiritualità differenti, ma proprio per questo complementari: il protagonista un superuomo voluttuario, cupo, che cerca nella morte il riscatto di una vita che non riesce ad essere all’altezza dell’Übermensch (Oltre l’uomo, così come lo definisce Nietzsche), per colpa di lei, la Nemica, donna torbida, sensuale che gli succhia l’energia. L’idea della morte (presente già nel titolo dell’opera), attraversa tutto il romanzo, e nel brano citato appare come elemento sensuale, attrattivo, quasi a sfiorare un caso di necrofilia.

L’immagine dannunziana del rapporto eros/thanatos non è tuttavia “solitaria”, ma nasce dal successo di un movimento artistico inglese, quello dei Preraffaeliti, che, in piena età vittoriana, sviluppano temi languidi e sensuali, in cui predomina un’immagine femminile tra evanescente e fatale.

Il periodo in cui D’Annunzio scrive i romanzi, dà vita anche al Poema paradisiaco (1893), una raccolta di poesie dove gli accenti si fanno decisamente meno ridondanti ed il poeta cerca quasi un ripiegamento interiore (non è un caso che sarà a questa raccolta che s’ispireranno i Crepuscolari):

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Luisa De Benedictis, madre di D’Annunzio

CONSOLAZIONE

Non pianger più. Torna il diletto figlio
a la tua casa. È stanco di mentire.
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorire.
Troppo sei bianca: il volto è quasi un giglio.

Vieni; usciamo. Il giardino abbandonato
serba ancora per noi qualche sentiero.
Ti dirò come sia dolce il mistero
che vela certe cose del passato.

Ancóra qualche rosa è ne’ rosai,
ancóra qualche timida erba odora.
Ne l’abbandono il caro luogo ancóra
sorriderà, se tu sorriderai.

Ti dirò come sia dolce il sorriso
di certe cose che l’oblìo afflisse.
Che proveresti tu se ti forisse
la terra sotto i piedi, all’improvviso?

Tanto accadrà, ben che non sia d’aprile.
Usciamo. Non coprirti il capo. È un lento
sol di settembre; e ancor non vedo argento
su ’l tuo capo, e la riga è ancor sottile.

Perché ti neghi con lo sguardo stanco?
La madre fa quel che il buon figlio vuole.
Bisogna che tu prenda un po’ di sole,
un po’ di sole su quel viso bianco.

Bisogna che tu sia forte; bisogna
che tu non pensi a le cattive cose…
Se noi andiamo verso quelle rose,
io parlo piano, l’anima tua sogna.

Sogna, sogna, mia cara anima! Tutto,
tutto sarà come al tempo lontano.
Io metterò ne la tua pura mano
tutto il mio cuore. Nulla è ancor distrutto.

Sogna, sogna! Io vivrò de la tua vita.
In una vita semplice e profonda
io rivivrò. La lieve ostia che monda
io la riceverò da le tue dita.

Sogna, ché il tempo di sognare è giunto.
Io parlo. Di’: l’anima tua m’intende?
Vedi? Ne l’aria fluttua e s’accende
quasi il fantasma d’un april defunto.

Settembre (di’: l’anima tua m’ascolta?)
ha ne l’odore suo, nel suo pallore,
non so, quasi l’odore ed il pallore
di qualche primavera dissepolta.

Sogniamo, poi ch’è tempo di sognare.
Sorridiamo. È la nostra primavera, questa.
A casa, più tardi, verso sera,
vo’ riaprire il cembalo e sonare.

Quanto ha dormito, il cembalo! Mancava,
allora, qualche corda; qualche corda
ancóra manca. E l’ebano ricorda
le lunghe dita ceree de l’ava.

Mentre che fra le tende scolorate
vagherà qualche odore delicato,
(m’odi tu?) qualche cosa come un fiato
debole di viole un po’ passate,

sonerò qualche vecchia aria di danza,
assai vecchia, assai nobile, anche un poco
triste; e il suono sarà velato, fioco,
quasi venisse da quell’altra stanza.

Poi per te sola io vo’ comporre un canto
che ti raccolga come in una cuna,
sopra un antico metro, ma con una
grazia che sia vaga e negletta alquanto.

Tutto sarà come al tempo lontano.
L’anima sarà semplice com’era;
e a te verrà, quando vorrai, leggera
come vien l’acqua al cavo de la mano.

Il ripiegamento interiore corrisponde ad un ritorno alla famiglia. L’atmosfera è segnata dai buoni sentimenti del figlio pentito, intenzionato a rivivere le atmosfere malinconiche di un passato non troppo lontano. La madre è infatti ancora giovane (non c’è argento tra i capelli), ma più antica è l’aria che la circonda: tende scolorite, viole appassite, melodie retrò: tutte cose dette con parole che sembrano sussurrate, ma sono, invece fortemente ricercate. Anche la malinconia ha una sua estetica, ottenuta attraverso ripetizioni, enjambement, assonanze, metonimie (ebano ad indicare i tasti del piano) che vogliono dare, attraverso una retorica insistita,  musicalità al testo.

A leggere la poesia sembra che il poeta ricerchi una nuova verginità, di cui il gesto metaforico è l’ostia consacrata ricevuta dalla madre. Ma ci lascia perplessi la contemporaneità delle tronfie Odi navali, nonché le tematiche dei romanzi.

Dopo aver pubblicato Il trionfo della morte (1894) – che costituisce con i primi due il ciclo I romanzi della rosa – D’Annunzio approfondisce l’ideologia politica il filosofo tedesco Nietzsche, dal quale prende spunto per precisare ancor meglio la sua teoria sul superuomo, trasformandola da colui che s’innalza su gli altri per capacità estetiche, a colui che s’innalza sugli altri per capacità politiche.

Il romanzo, che vuole tradurre la filosofia del pensatore tedesco è Le vergini delle rocce:

Il romanzo è scritto in prima persona. Si apre con un Prologo dove viene evocato un giardino remoto i cui tre nobili vergini aspettano lo sposo. Quindi il protagonista, Claudio Cantelmo, enuncia una teoria del mondo, incentrata sul valore discriminante della bellezza e dell’apparenza magnifica, che pochi creano per i molti, destinati invece alla fatica e alla passività. Disgustato dalla degenerazione egualitaria, lascia Roma, per ritirarsi nelle sue terre ereditarie. Cantelmo progetta di dar vita ad un erede che torni ad incarnare le virtù della sua stirpe aristocratica: perciò sente il fascino delle tre principesse nubili, Violante, Massinissa e Anatolia e prende a frequentare l’antica dimora patrizia. Sulla loro famiglia, i Capece Montaga, già illustri (come gli stessi Cantelmo) all’epoca in cui regnavano sulle Due Sicilie i Borboni, e fedeli al loro passato, gravano tuttavia presagi di decadenza e di morte: la principessa madre, Aldoina, è una demente che Anatolia deve assistere; il principe padre è un sopravvissuto; nei fratelli gemelli Osvaldo e Antonello già si intravedono disperazione, debolezza, pazzia. Massinissa, benché turbata dalla seduzione mistico-sensuale delle parole di Cantelmo, è decisa a farsi monaca; e nel corso di una drammatica ascesa sul monte Corace Claudio si rende conto che anche Anatolia e Violenta, ormai chiuse nel loro destino come tra le rocce, gli sfuggono.

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Tre figure femminili in un disegno preraffaelita

IL PROGRAMMA DEL SUPERUOMO

L’arroganza delle plebi non era tanto grande quanto la viltà di coloro che la tolleravano o la secondavano. Vivendo in Roma, io era testimonio delle più ignominiose violazioni e dei più osceni connubii che mai abbiano disonorato un luogo sacro. Come nel chiuso d’una foresta infame, i malfattori si adunavano entro la cerchia fatale della città divina dove pareva non potesse novellamente levarsi tra gli smisurati fantasmi d’imperio se non una qualche magnifica dominazione armata d’un pensiero più fulgido di tutte le memorie. Come un rigurgito di cloache l’onda delle basse cupidige invadeva le piazze e i trivii, sempre più putrida e più gonfia, senza che mai l’attraversasse la fiamma di un’ambizione perversa ma titanica, senza che mai vi scoppiasse almeno il lampo d’un bel delitto. La cupola solitaria nella sua lontananza transtiberina, abitata da un’anima senile ma ferma nella consapevolezza de’ suoi scopi, era pur sempre il massimo segno, contrapposta a un’altra dimora inutilmente eccelsa dove un re di stirpe guerriera dava esempio mirabile di pazienza adempiendo l’officio umile e stucchevole assegnatogli per decreto fatto dalla plebe. Una sera di settembre, su quell’acropoli quirina custodita dai Tindaridi gemelli, mentre una folla compatta commemorava con urli bestiali una conquista di cui non conosceva l’immensità spaventosa (Roma era terribile come un cratere, sotto una muta conflagrazione di nubi), io pensai: «Qual sogno potrebbero esaltare nel gran cuore d’un Re questi incendii del cielo latino! Tale che sotto il suo peso i cavalli giganteschi di Prassitele si piegherebbero come festuche…. Ah chi saprà mai abbracciare e fecondare la Madre col suo pensiero oltrapossente? A lei sola – al suo grembo di sasso che fu nei secoli l’origliere della Morte – a lei sola è dato generar tanta vita che se ne impregni il mondo un’altra volta.»
E io vedevo, nella mia imaginazione, dietro le vetrate fiammeggianti del balcone regale, una fronte pallida e contratta su cui, come su quella del Còrso, era inciso il segno d’un destino sovrumano.
(…)
Chiedevano intanto i poeti, scoraggiati e smarriti, dopo aver esausta la dovizia delle rime nell’evocare imagini d’altri tempi, nel piangere le loro illusioni morte e nel numerare i colori delle foglie caduche; chiedevano, alcuni con ironia, altri pur senza: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi esaltare in senarii doppii il suffragio universale? Dobbiamo noi affrettar con l’ansia dei decasillabi la caduta dei re, l’avvento delle repubbliche, l’accesso delle plebi al potere? Non è in Roma, come già fu in Atene, un qualche demagogo Cleofonte fabbricante di lire? Noi potremmo, per modesta mercede, con i suoi stessi strumenti accordati da lui, persuadere gli increduli che nel gregge è la forza, il diritto, il pensiero, la saggezza, la luce….»
Ma nessuno tra loro, più generoso e più ardente, si levava a rispondere: «Difendete la Bellezza! È questo il vostro unico officio. Difendete il sogno che è in voi! Poichè oggi non più i mortali tributano onore e riverenza ai cantori alunni della Musa che li predilige, come diceva Odisseo, difendetevi con tutte le armi, e pur con le beffe se queste valgano meglio delle invettive. Attendete ad inacerbire con i più acri veleni le punte del vostro scherno. Fate che i vostri sarcasmi abbiano tal virtù corrosiva che giungano sino alla midolla e la distruggano. Bollate voi sino all’osso le stupide fronti di coloro che vorrebbero mettere su ciascuna anima un marchio esatto come su un utensile sociale e fare le teste umane tutte simili come le teste dei chiodi sotto la percussione dei chiodajuoli. Le vostre risa frenetiche salgano fino al cielo, quando udite gli stallieri della Gran Bestia vociferare nell’assemblea. Proclamate e dimostrate per la gloria dell’Intelligenza che le loro dicerie non sono men basse di quei suoni sconci con cui il villano manda fuori per la bocca il vento dal suo stomaco rimpinzato di legumi. Proclamate e dimostrate che le loro mani, a cui il vostro padre Dante darebbe l’epiteto medesimo ch’egli diede alle unghie di Taide, sono atte a raccattar lo stabbio ma non degne di levarsi per sancire una legge nell’assemblea. Difendete il Pensiero ch’essi minacciano, la Bellezza ch’essi oltraggiano! Verrà un giorno in cui essi tenteranno di ardere i libri, di spezzare le statue, di lacerare le tele. Difendete l’antica liberale opera dei vostri maestri e quella futura dei vostri discepoli, contro la rabbia degli schiavi ubriachi. Non disperate, essendo pochi. Voi possedete la suprema scienza e la suprema forza del mondo: il Verbo. Un ordine di parole può vincere d’efficacia micidiale una formula chimica. Opponete risolutamente la distruzione alla distruzione!»
E i patrizii, spogliati d’autorità in nome dell’uguaglianza, considerati come ombre d’un mondo scomparso per sempre, infedeli i più alla loro stirpe e ignari o immemori delle arti di dominio professate dai loro avi, anche chiedevano: «Qual può essere oggi il nostro officio? Dobbiamo noi ingannare il tempo e noi stessi cercando di alimentare tra le memorie appassite qualche gracile speranza, sotto le volte istoriate di sanguigna mitologia, troppo ampie pel nostro diminuito respiro? O dobbiamo noi riconoscere il gran dogma dell’Ottantanove, aprire i portici dei nostri cortili all’aura popolare, coronar di lumi i nostri balconi di travertino nelle feste dello Stato, diventar soci dei banchieri ebrei, esercitar la nostra piccola parte di sovranità riempiendo la scheda del voto coi nomi dei nostri mezzani, dei nostri sarti, dei nostri cappellai, dei nostri calzolai, dei nostri usurai e dei nostri avvocati?»
Qualcuno tra loro – mal disposto alle rinunzie pacifiche, ai tedii eleganti e alle sterili ironie – rispondeva: «Disciplinate voi stessi come i vostri cavalli da corsa, aspettando l’evento. Apprendete il metodo per affermare e afforzare la vostra persona come avete appreso quello per vincere nell’ippòdromo. Costringete con la vostra volontà alla linea retta e allo scopo fermo tutte le vostre energie, e pur le vostre passioni più tumultuose e i vostri vizii più torbidi. Siate convinti che l’essenza della persona supera in valore tutti gli attributi accessorii e che la sovranità interiore è il principal segno dell’aristòcrate. Non credete se non nella forza temprata dalla lunga disciplina. La forza è la prima legge della natura, indistruttibile, inabolibile. La disciplina è la superior virtù dell’uomo libero. Il mondo non può essere constituito se non su la forza, tanto nei secoli di civiltà quanto nelle epoche di barbarie. Se fossero distrutte da un altro diluvio deucalionico tutte le razze terrestri e sorgessero nuove generazioni dalle pietre, come nell’antica favola, gli uomini si batterebbero tra loro appena espressi dalla Terra generatrice, finchè uno, il più valido, non riuscisse ad imperar su gli altri. Aspettate dunque e preparate l’evento. Per fortuna lo Stato eretto su le basi del suffragio popolare e dell’uguaglianza, cementato dalla paura, non è soltanto una costruzione ignobile ma è anche precaria. Lo Stato non deve essere se non un instituto perfettamente adatto a favorire la graduale elevazione d’una classe privilegiata verso un’ideal forma di esistenza. Su l’uguaglianza economica e politica, a cui aspira la democrazia, voi andrete dunque formando una oligarchia nuova, un nuovo reame della forza; e riuscirete in pochi, o prima o poi, a riprendere le redini per domar le moltitudini a vostro profitto. Non vi sarà troppo difficile, in vero, ricondurre il gregge all’obedienza. Le plebi restano sempre schiave, avendo un nativo bisogno di tendere i polsi ai vincoli. Esse non avranno dentro di loro giammai, fino al termine dei secoli, il sentimento della libertà. Non vi lasciate ingannare dalle loro vociferazioni e dalle loro contorsioni sconce; ma ricordatevi sempre che l’anima della Folla è in balia del Pánico. Vi converrà dunque, all’occasione, provvedere fruste sibilanti, assumere un aspetto imperioso, ingegnar qualche allegro stratagemma.

In questa pagina l’arte oratoria di Claudio Cantelmo (Gabriele D’Annunzio) dà inizio a quello che una parte della critica definisce il “superuomo tribuno”. Tuttavia bisogna sottolineare come, sin dalle prime parole vi sia una sorta di sogno utopico, più che di volontà di potenza, nel vedere lo stato guidato dai poeti (e non dai filosofi, come diceva Platone) sotto il segno del Verbo. Infatti Cantelmo, a differenza di Sperelli, non vive l’arte in modo identificativo (arte = vita), ma come azione (arte = bellezza) che si contrappone al “grigiore democratico”, cui l’Italia di fine ’800 aveva delegato di disegnare l’architettura della nuova capitale del Regno.

Certamente è un atteggiamento che noi leggiamo come antidemocratico, ma è un atteggiamento che il nostro autore condivide con gran parte di un’intera classe intellettuale, nazionalista, irrazionale, con il mito della politica forte d’impronta bismarckiana: si trattava, per l’Italia, della ricerca d’una potenza ch’essa ancora non poteva offrire; un’intellettualità che infine si esprimerà nelle riviste fiorentine di primo Novecento.

Un altro romanzo in cui la componente nicciana, mescolata stavolta con quella altrettanto importante di Wagner è Il fuoco, pubblicato nel 1900 dopo un viaggio in Grecia e dopo aver conosciuto la più grande attrice italiana allora sulle scene, Eleonora Duse, sulla cui figura disegna il personaggio femminile del romanzo:

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L’Opera di Bayreuth (Il teatro totale di Wagner)

Il fuoco è un romanzo incentrato sugli amori di Stelio Effrena e Foscarina ed è ambientato a Venezia (si conclude con i funerali di Wagner, morto, nel 1896, nella città lagunare). Stelio Effrena, giovane intellettuale, vive nel desiderio di far rinascere un’arte totale, capace, così come Wagner era riuscito in Germania, a racchiudere in sé l’intera idea di Bellezza e nel contempo divenire espressione di quel Genio italico, da tempo mancante nella terra patria. La Foscarina (così la chiama Stelio) è un’attrice ormai matura, che vuol diventare e diventa musa per l’intellettuale Stelio. Il romanzo è il racconto del loro rapporto, fatto di avvicinamenti e abbandoni (lei si allontana per lasciare libero il giovane nella sua creazione artistica, ma non riesce a non pensarsi come motivo d’ispirazione per la sua arte). Alla fine Foscarina abbandona Venezia e Stelio, insieme ai suoi amici, assiste al funerale di Wagner, conscio che la sfida della Bellezza contro la decadenza del gusto borghese, non può che portare alla sconfitta.

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Venezia nei primi del Novecento

FOSCARINA

L’animatore, con un altro brivido, sentì sussultare entro di sé l’opera ch’egli nutriva, ancóra informe ma già vitale; e tutta la sua anima s’inclinò con un moto impetuoso, come investita da un soffio lirico, verso la potenza di fecondazione e di rivelazione ch’emanava dalla donna dionisiaca a cui saliva la lode di quegli spiriti ferventi.
Ella a un tratto era divenuta bellissima, creatura notturna foggiata dalle passioni e dai sogni su un’incudine d’oro, simulacro spirante dei fati immortali e degli enigmi eterni. Se bene ella fosse immobile, se bene ella tacesse, i suoi accenti famosi, i suoi gesti memorabili parevano vivere intorno a lei e vibrare indefinitivamente come le melodie intorno alle corde che sogliano ripeterle, come le rime intorno al libro chiuso ove l’amore e il dolore sogliono ricercarle per inebriarsene e per consolarsene. La fedeltà eroica di Antigone, il furore fatidico di Cassandra, la divorante febbre di Fedra, la ferocia di Medea, il sacrifizio d’Ifigenia, Mirra dinanzi al padre, Polissena e Alceste dinanzi alla morte, Cleopatra volubile come il vento e la vampa del mondo, Lady Macbeth veggente carnefice dalle piccole mani, e i grandi gigli imperlati di rugiade e di lacrime, Imogene, Giulietta, Miranda e Rosalinda e Jessica e Perdita, le più dolci anime e le più terribili e le più magnifiche erano in lei, abitavano il suo corpo, balenavano per le sue pupille, respiravano per la sua bocca che sapeva il miele e il veleno, la coppa gemmata e la tazza di scorsa. Così in una vastità senza limiti e in un tempo senza fine pareva ampliarsi e perpetuarsi il contorno della sostanza e dell’età umana; pur tuttavia non da altro se non dal moto di un muscolo, da un cenno, da un segno, da un lineamento, da un battito di palpebre, da una tenue mutazione di colore, da una lievissima reclinazione della fronte, da un fuggevole gioco di ombre e di luci, da una fulminea virtù espressiva irradiata nella carne angusta e frale si generavano di continuo quei mondi infiniti d’imperitura bellezza. I genii stessi dei luoghi consacrati dalla poesia alitavano sopra di lei, la cingevano di visioni alterne. Il piano polversoso di Tebe, l’Argolide sitibonda, i miti arsicci di Trezene, i santi olivi di Colono, il trionfale Cidno, e la pallida campagna di Dunsinana e la caverna di Prospero, e la selva delle Ardenne, i paesi rigati di sangue, travagliati dal dolore, trasfigurati da un sogno o rischiarati da un sorriso inestinguibile, apparivano, lontanavano, dileguavano dietro la sua testa. E altri paesi remoti, le regioni delle brume, le lande settentrionali, i continenti immensi di là degli oceani ov’ella era passata con una forza inaudita tra le moltitudini attonite portando la parola e la fiamma, dileguavano dietro la sua testa; e le moltitudini con i monti con i fiumi con i golfi con le città impure, le stirpi assiderate e antichissime, i popoli forti anelanti al dominio della terra, le genti nuove che strappano alla natura le energie più segrete per asservirle al lavoro onnipossente negli edifizi di ferro e di cristallo, le colonie di razze imbastardite che fermentano e si corrompono , su un suolo vergine tutte le folle barbariche a cui ella era apparsa come una rivelazione sovrana del genio latino, tutte le torme ignare a cui ella aveva parlato la lingua sublime di Dante, tutte le innumerevoli greggi umane ond’era salita verso di lei sopra un flutto di ansie e di speranze confuse l’aspirazione alla Bellezza. Ella era là, creatura di carne caduca, soggetta alle tristi leggi del tempo; e una smisurata massa di vita reale e ideale gravava su di lei, pulsava col ritmo di quel respiro stesso. Non nella finzione soltanto ella aveva gittato i suoi gridi e soffocato i suoi singhiozzi, ma nella vita comune. Violentemente amato, lottano, sofferto ella aveva per sé, per lasua anima, per il suo sangue. Quali amori? quali contrasti? quali spasimi? Da quali abissi di malinconia ella aveva tratto le sublimazioni della sua virtù tragica? A quali fonti d’amaritudine aveva ella abbeverato il suo libero genio? Certo ella era stata testimone delle più truci miserie, delle più cupe ruine, ella aveva conosciuto gli sforzi eroici, la pietà, l’orrore, il limitare della morte. Tutte le sue seti riardevano nel delirio di Fedra, e nella sommessione d’Imogene ritremavano tutte le sue tenerezze. Così la Vita e l’Arte, il passato irrevocabile e l’eternamente presente, la facevano profonda, multanime e misteriosa; magnificavano oltre i limiti umani le sue sorti ambigue; la eguagliavano a templi e alle foreste.
Ed ella era là, respirante, sotto gli occhi dei poeti che la vedevano una e diversa.
«Ah, io ti possederò come in un’orgia vasta; io ti scrollerò come un fascio di tirsi, io scoterò nella tua carne esperta tutte le cose divine e mostruose che t’aggravano, e le cose compiute e quelle in travaglio che crescono entro di te come una stagione sacra» parlava il démone lirico dell’animatore riconoscendo nel mistero della donna presente la potenza superstite del mito primitivo, l’iniziazione rinnovellata del nume che aveva fuso in un sol fermento tutte le energie della natura e col variare dei ritmi aveva sollevato i sensi e gli spiriti umani al sommo della gioia e del dolore nel suo culto entusiastico. «Mi gioverà, mi gioverà, l’avere atteso. Il mutare degli anni, il tumulto dei sogni, i palpiti della lotta, la rapidità dei trionfi, l’impurità degli amori, gli incantesimi dei poeti, le acclamazioni dei popoli, le meraviglie della terra, la pazienza e la furia, i passi nel fango, i ciechi voli, tutto il male, tutto il bene, quel che io so e wquel che ignoro, quel che tu sai e che tu ignori, tutto fu per la pazienza della mia notte».
Egli si sentiva soffocare e impallidire. Il desiderio lo aveva preso alla gola con un impeto selvaggio, per non più lasciarlo. E il cuore gli si gonfiava di quella medesima ansietà che avevano provato entrambi nel vespro navigando su quell’acqua che pareva scorrere per loro in una clessidra spaventosa.
Così per lui vanendo a un tratto la visione smisurata dei luoghi e degli eventi, la creatura notturna riappariva ancor più profondamente commista con la Città dalle mille cinture verdi e dagli immensi monili. Nella città e nella donna egli vedeva ora una forza d’espressione non mai veduta prima. L’una e l’altra ardevano nella notte d’autunno, correndo per le vene e per i canali una medesima febbre.

Foscarina rappresenta non la Nemica, come nel Trionfo della morte, ma un tipo di femminino che alla fin fine soggioga e poi “vince” l’animatore (Stelio Effrena). Infatti ci troviamo nel momento prima di un desiderato amplesso. Lei, più grande di lui, che si è negata fino ad allora e che ora sembra pronta a concederglisi, incarna la Bellezza dell’Arte di ieri, vivendo in quanto attrice, le grandi donne del passato greco e scespiriano; in lei s’attualizzano gli spazi in cui tali donne hanno operato, i gesti, gli sguardi, tutto ciò insomma che hanno appartenuto a queste eroine. Lei infatti è multanime, come dice Effrena (D’Annunzio) e di questo possesso che fa di Foscarina un’unica donna nella varietà che lui s’invaghisce: possedere lei vuol dire possedere tutte le donne, ma donne che, come nell’orgia dionisiaca si liberino e offrano, senza inibizioni, se stesse.

E’ chiaro che per gloriare Foscarina, D’Annunzio usi tutti i suoi strumenti retorici: ripetizioni, latinismi, linguaggio altissimo. E’ il suo stile, sia che descriva il canto di un uccellino, sia che parli di una donna.

Foscarina è un po’ Eleonora Duse, ed infatti dopo Il fuoco, il nostro si ritira nella villa della Capponcina, a fianco a quella dell’attrice, dando luogo ad un intenso rapporto, che avrà anche conseguente artistiche.

Tra le prime, e certamente tra le più felici conseguenze è la realizzazione dei primi tre libri delle Laudi, di cui l’Alcyone rappresenta, a tutt’oggi, uno dei vertici della poesia italiana del primo Novecento.

Le Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, progetto iniziato già negli ultimi anni dell’Ottocento, doveva comprendere sette libri, quante sono le Pleiadi (costellazioni). D’Annunzio compose i primi tre, Maia, Elettra, Alcyone, che pubblica nel 1903, e nei quali dà vita ad un canto musicale, che ha come fine quello di far penetrare l’uomo all’interno della natura, far parte di essa, contemplare estaticamente il mistero della vita per vedere se stesso come mistero.

La poesia dannunziana cerca, quindi, di comprendere l’universalità del mistero, che solo l’Arte, nella sua totalità, può intuire; mistero determinato dalla ricchezza della Natura, che il poeta deve ghermire, fare sua, sperimentando nella vita tutto ciò che “sensualmente” può ottenere, come afferma in questa poesia, pubblicata nel primo libro Maia, costituito da un unico lungo poema di 8.400 versi ineguali:

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Edizione della Laudi per Treves

LA SIRENA DEL MONDO

Nessuna cosa
mi fu aliena;
nessuna mi sarà
mai, mentre comprendo.
Laudata sii, Diversità
delle creature, sirena
del mondo! Talor non elessi
perché parvemi che eleggendo
io t’escludessi,
Diversità, meraviglia
sempiterna, e che la rosa
bianca e la vermiglia
fosser dovute entrambe
alla mia brama,
e tutte le pasture
co’ loro sapori,
tutte le cose pure e impure
ai miei amori;
però io son colui che t’ama
Diversità, sirena
del mondo, io son colui che t’ama.

Vigile ad ogni soffio,
intenta a ogni baleno,
sempre in ascolto,
sempre in attesa,
pronta a ghermire,
pronta a donare,
pregna di veleno
di balsamo, tòrta
nelle sue spire
possenti o tesa
come un arco, dietro la porta
angusta o sul limitare
dell’immensa foresta,
ovunque, giorno e notte,
al sereno e alla tempesta,
in ogni luogo, in ogni evento,
la mia anima visse
come diecimila!
E’ curva la Mira che fila,
poi che d’oro e di ferro pesa
lo stame come quel d’Ulisse.

E’ la lode alla Diversità: la poetica dannunziana che ambisce a cantare la vita nella sua totalità (non per niente tale sezione è detta Laus vitae) non può prescindere dalla sua Diversità. Forte è qui il richiamo al cantico francescano (laudata sii…) e al Nietzsche di Così parlò Zarathrusta (Perché io t’amo, o Eternità): l’idea di fondo, come spesso è nell’accumulo, ma l’accumulo nasconde la dialettica. Il superuomo dannunziano non sceglie, ma vive totalmente (allo stesso modo in cui Effrena voleva dar vita al teatro totale).

Ma il capolavoro della poesia dannunziana è certamente la raccolta Alcyone, dove si esprime in tutta la sua potenzialità, il “gusto della parola” che il nostro sa suscitare.

L’opera occupa la terza parte delle Laudi, (sebbene le ultima due Merope e Asterope, tarde rispetto al progetto originario e lontane per ispirazione al nucleo orginario) e consta di 88 liriche, composte per la maggior parte nell’estate del 1902. E’ un testo lirico e narrativo insieme, un “canzoniere” potremmo dire, in cui il poeta descrive le sue sensazioni tra riflessive e paniche (apollinee e dionisiache) vissute sulla costa della Versilia insieme al suo amore, Eleonora Duse.

Per questo in tale raccolta il poeta esalta l’estate, momento in cui la Natura esplode, coi suoi mille colori e i suoi mille sapori, e dove l’uomo-poeta, inebriato dal calore e dal sole, si lascia andare ad un amplesso cosmico con il mondo del creato.

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Alcyone (costellazione)

Si inizia con l’incanto di una sera d’estate:

LA SERA FIESOLANA

Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscìo che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso e ancor s’attarda a l’opra lenta
su l’alta scala che s’annera
contro il fusto che s’inargenta
con le sue rame spoglie
mentre la Luna è prossima a le soglie
cerule e par che innanzi a sé distenda un velo
ove il nostro sogno si giace
e par che la campagna già si senta
da lei sommersa nel notturno gelo
e da lei beva la sperata pace
senza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,
Sera, e pe’ tuoi grandi umidi occhi ove si tace
l’acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aurea che si perde,
e su ‘l grano che non è biondo ancòra
e non è verde,
e su ‘l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,
Sera, e pel cinto che ti cinge come il salce
il fien che odora.

Io ti dirò verso quali reami
d’amor ci chiami il fiume, le cui fonti
eterne a l’ombra de gli antichi rami
parlano nel mistero sacro dei monti;
e ti dirò per qual segreto
le colline su i limpidi orizzonti
s’incùrvino come labbra che un divieto
chiuda, e perché la volontà di dire
le faccia belle
oltre ogni uman desire
e nel silenzio lor sempre novelle
consolatrici, sì che pare
che ogni sera l’anima le possa amare
d’amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morte,
o Sera, e per l’attesa che in te fa palpitare
le prime stelle!

Al centro della poesia troviamo l’incanto della sera, più evocato che descritto; manca, infatti, un centro narrativo. La sera appare quasi umanizzata, evocatrice dei misteri profondi della natura, mentre l’uomo e la donna rimangono sullo sfondo a percepire i richiami che essa manda al mondo; solo il poeta e capace di raccoglierli (Io ti dirò, dell’ultima strofe), perché in grado di intuire il suo vero senso di mistero, fatto di nascita e di morte.

La lirica è strutturata in tre momenti:

  • Il crepuscolo visto dall’uomo e dalla donna; vi è un tentativo di dialogo nell’immagine, ma l’unico rumore è quello dell’uomo, sulla scala, che s’attarda a sfrascare un gelso. Al sorgere della luna, il cielo si argentea e ricopre con la sua luce silenziosa il piano e il loro sogno d’amore;
  • La pioggia ricopre le parole: cade creando una sinfonia di suoni ed è come se la primavera piangesse il suo addio per dar voce all’estate;
  • Il poeta racconta alla donna di luoghi incantati e regni favolosi dove li chiama il fiume Arno; sottolinea la bellezza delle colline, pronte a dire, ma incapaci di farlo.

Ogni stanza è seguita da una lode: ecco allora che la lirica si trasforma quasi in una liturgia sacrale.

Più celebrata è La pioggia nel pineto:
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Pioggia in un pineto

LA PIOGGIA NEL PINETO

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.

Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitìo che dura
e varia nell’aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura
né il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancòra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d’arborea vita viventi;
e il tuo vòlto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall’umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s’allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s’ode voce dal mare.
Or s’ode su tutta la fronda
crosciare,
l’argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell’aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell’ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.

Piove su le tue ciglia nere
sì che par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pésca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c’intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove sui nostri vòlti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m’illuse, che oggi t’illude,
o Ermione.

In questa famosissima poesia viene celebrato il “mito” più importante della poetica dannunziana, quello della metamorfosi dell’uomo con la natura (panismo), dove forte è il richiamo al poeta latino Ovidio (di cui tradurrà/tradirà, proprio in questa sezione, il mito di Apollo e Dafne). Il tutto è reso con una ricerca linguistica in cui la parola deve farsi musica, ricreare il suono proprio, cioè la voce, della natura. Gli effetti sonori ci sono dati dalle allitterazioni (ripetizioni di suoni), polisindeti (ripetizione di uno stesso suono ad inizio verso) ed altre soluzioni retoriche altamente specialistiche. Ma ciò che emerge è la felicità di un acquazzone estivo, in cui l’uomo e la donna si uniscono in un sottile gioco erotico.

Nell’ultima parte della raccolta poetica, D’Annunzio canta la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, con toni malinconici, come a trasfigurare il sentimento d’abbandono dei miti solari verso colori più tenui; ed ecco allora che egli s’immagina la vita dei pastori, semplice ed onesta, negata al suo genio inquieto:

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I pastori

I PASTORI

Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natìa
rimanga ne’ cuori esuli a conforto,
che lungo illuda lo lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!

Ora lungh’esso il litoral cammina

la greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, capestìo, dolci romori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

Tuttavia questa adesione al mondo pastorale sembra più “evocata” che “sentita”. Quello che interessa al poeta è l’immagine visiva di un incipiente autunno, i suoi riferimenti letterari (si pensi al tremolar della marina d’origine dantesca), nonché la sua capacità musicale di costruire i versi.

La grande stagione poetica di D’Annunzio si complicherà anche con l’avvicinarsi del poeta pescarese al teatro. Questo avvicinamento è dovuto proprio alla relazione con la Duse, per la quale scrive pièce da portare in giro per l’Europa. Ma le opere di questo genere, come la Francesca da Rimini (1901) o La nave ((1908) non hanno retto il passare degli anni. Unica ad essere ricordata e che rappresenta certamente l’esito migliore è La figlia di Jorio, del 1904, ambienta in un Abruzzo primitivo e mitico:

La vicenda si svolge in un Abruzzo mitico. In casa di Lazaro di Roio si festeggiano le nozze del pastore Aligi con Vienda di Giave, quando sopraggiunge Mila di Codra, la meretrice dei campi figlia dello stregone Jorio, inseguita da una turba di mietitori ubriachi. Le donne incitano Aligi a scacciarla, ma egli, aiutato dalla sorella Ornella, la protegge perché ha visto piangere l’“Angelo muto”, simbolo dell’innocenza. Preso da mistico amore, il trasognato giovane lascia la casa e la vergine sposa per andare a vivere con Mila, in castità, sulla cima della montagna: è sua intenzione recarsi a Roma e chiedere al papa l’annullamento delle nozze, non consumate, con Vienda. Ma un giorno sale al loro rifugio Lazaro, il torvo padre di Aligi, che vuole possedere Mila con la forza: e poiché il figlio si oppone, lo fa legare e portar via dai suoi contadini, gettandosi poi brutalmente sulla donna. Sennonché Aligi, liberato dall’ignara Ornella, riappare sulla soglia, e, sconvolto dalla scena disgustosa, uccide Lazaro. Il popolo condanna il parricida a morire affogato, chiuso in un sacco con un mastino; ma Mila si accusa del delitto e giura d’aver stregato l’amante inducendolo a credersi colpevole. Aligi la smentisce; poi, smemorato, sotto gli effetti dei narcotici, somministratogli in previsione del supplizio, si lascia convincere e “maledice” la strega. Tra gli urli e gli insulti della folla, Mila viene trascinata al rogo: soltanto Ornella che “sa”, perché “ha visto”, ha pietà di lei e la chiama “sorella in Gesù”.

IL PARRICIDIO

(Mila starà con gli occhi fissi a quella parte, con l’orecchio teso per cogliere le voci. Nella breve tregua, Lazaro scruterà la caverna insidiosamente. Si udrà in lontananza il cantare di un’altra compagnia trapassante pel valico.)

LAZARO
Femmina, or hai tu veduto
che il padrone son io. Do la legge.
Rimasta sei sola con me.
Si comincia a far sera; e qui dentro
è già quasi notte. Paura
non avere, Mila di Codra,
né di questa mia cicatrice se accesa la vedi,
che ancóra mi ci sento batter la febbre…
Accòstati. Consunta mi sembri.
Nel giaccio del pecoraio non avesti per certo la grassa
pasciona. Da me tu potresti
averla, se tu la volessi,
alla pianura; ché Lazaro di Roio è capoccio fornito…
Ma che guati per là? che aspetti?
MILA:        
Nulla aspetto. Non viene nessuno.
(Vigilerà, nella speranza di vedere apparire Ornella per salvazione. Dissimulando e temporeggiando, tenterà d’ingannare l’uomo).
LAZARO:         
Sei sola con me. Non avere
paura. Ti sei persuasa?
MILA (lentamente):
Ci penso, Lazaro di Roio,
ci penso, a quel che prometti…
Ci penso. Ma chi m’assicura?
LAZARO:           
Non ti scostare. Mantengo
quel che prometto, ti dico,
se Dio mi dà bene. Vien qua.

MILA:                

E Candia della Leonessa?

LAZARO:           

Metta amara saliva e con quella bagni
il filo di canapa e torca.

MILA:                

E tre figlie tu hai nella casa,
e la nuora. Non mi confido.
LAZARO:           
Vien qua. Non ti scostare. Qua, senti:
ho vénti ducati cuciti
dentro la pelle. Li vuoi?
(Palperà l’orlo della sua casacca di pelle di capra. Poi se la toglierà di dosso e la getterà per terra, ai piedi della donna).
Tieni! Non li senti che suonano?
Sono vénti ducati d’argento.
MILA:                
Vo’ prima vedere; vo’ prima
contare, Lazaro di Roio.
Ora prendo le forbici e sdrucio.
LAZARO:           
Ma che guati? Ah, magalda, tu certo
preparando mi vai qualche sorte
e tenermi a bada ti credi.
(Egli l’assalirà per prenderla. La donna gli sfuggirà nell’ombra, andrà a rifugiarsi presso il ceppo di noce).
MILA:                
No! No! No! Lasciami! Lasciami!
Non mi toccare. Ecco, viene!
Ecco, viene la tua figlia… Ornella ora viene.
(Ella si aggrapperà all’Angelo perdutamente, per resistere alla violenza).
No, no! Ornella, Ornella, aiuto!
(D’improvviso, alla bocca della caverna, apparirà Aligi disciolto. Vedrà il viluppo nell’ombra. Si precipiterà contro il padre. Scorgerà nel ceppo rilucere l’asce ancóra infissa. La brandirà, cieco di orrore).
ALIGI:               
Lasciala, per la vita tua!
(Colpirà il padre a morte. Ornella, sopravvenuta, si chinerà a riconoscere nell’ombra il corpo stramazzato a piè dell’Angelo. Gitterà un gran grido). 
ORNELLA:        
Ah! E io t’ho sciolto! E io t’ho sciolto!

Il teatro dannunziano è un teatro in versi: e questo lo richiama alla tradizione preverista, quella, per intenderci, alferiana, soprattutto da un punto di vista linguistico e retorico; il tono è alto, per tutta la tragedia e, se crea una forma di monotonia tonale, tale effetto, in questa pièce s’accorda con l’ambiente mitico, senza tempo, che fa da sfondo alla vicenda.

La storia tra Lazaro ed Aligi, d’altra parte (cui si narra, nel brano presentato) il parricidio, sembrerebbe nascondere, secondo la critica psicoanalitica, un caso edipico, nel quale l’autore avrebbe riversato i suoi difficili rapporti con il genitore; altri, invece, il dissidio tra panismo ed estetismo: se Lazaro, uomo primitivo, sembra ricevere in sé la forza primigenia della natura, Aligi è colui che ne vuole fuggire, in un mondo “più bello” (estetico) insieme a Mia.

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Alberto Franchetti: Quadro per “La figlia di Jorio”

L’ultimo romanzo dannunziano, del 1912, è Forse che sì, forse che no, il primo in cui entrano, come sfondo e non solo, i velivoli:

Il titolo riprende il motto più volte ripetuto all’interno del labirinto che decora il soffitto del palazzo ducale di Mantova ed è il segno dell’ambiguità che lega i protagonisti. Paolo Tarsis, aviatore, pur essendo uomo volitivo, è schiavo dell’amore sensuale di Isabella. Vana, sorella di costei, vergine scontrosa e ultrasensibile, ama a sua volta Paolo, appassionatamente. Tra Isabella e suo fratello Aldo c’è un’intesa segreta ed esclusiva, che turba fortemente Paolo. Vana, gelosa di Paolo non meno che dei fratelli, denuncia a Paolo un rapporto incestuoso tra Isabella e Aldo. Paolo, con tutto il suo orrore, non sa però staccarsi dall’amante. Vana si uccide. Solo l’improvvisa, terribile pazzia di Isabella restituirà Paolo a se stesso e ai suoi compiti di aviatore.

DENTRO UN LABIRINTO

Ella andava andava, esitando tra l’una e l’altra stanza, non sapendo in quale l’anima sua fosse per trarre un più profondo sospiro. E le stanze si moltiplicavano; e la bellezza si avvicendava con la ruina, e la ruina era più bella della bellezza. E gli occhi si dilatavano per tutto vedere, per tutto accogliere; e l’intero viso viveva la vita dello sguardo. E l’anima si ricordava; ché le forme scomparse rinascevano e si ricomponevano in lei musicalmente, e traeva essa la gioia della perfezione da ciò ch’era imperfetto, la gioia della pienezza da ciò ch’era menomato. E il giorno era protratto dal prodigio ma nessun indugio era concesso; e su ogni soglia il piede si posava temendo il divieto ma lontana era tuttavia la soglia della sera.
«C’è in là un altro giardino», – diceva ella errando «un altro giardino.»
E attraverso una grata apparve una corte ingombra di macerie e d’erbe fra mura fendute ove rimanevano tracce di ornati dipinti a nodi; e oltre le mura una zona di palude rifulse, e riudito fu lo stridio delle rondini, e traudito fu il gracidio delle rane nel cielo nell’acqua in un solo ardore indistinto. E la straziante Estate chiamò, tra l’una e l’altra voce.
«Non è questo.»
Ella vacillava sul pavimento sconnesso, ancor qua e là inverdito dallo stillicidio; e sopra lei le macchie pluviali scurivano i lacunari azzurri del soffitto ove un oro più nobile e più solido di tutti gli ori s’ammassava in volute in rosoni in pigne scolpite con robustezza romana. Le Sirene s’incurvavano, tra i fogliami sporgenti come le mammelle dei bei mostri marini, in un fregio di così forte rilievo che eguagliava la misura dei grandi versi memorabili. Lungo gli stipiti delle alte finestre le Vittorie tendevano all’estremità dei moncherini i cerchi di ferro rugginoso.
«No, Paolo, no! Non qui, non qui! Vi supplico.»
Ella sfuggiva alle mani tremanti del compagno. Gli mostrava un viso che pareva decomporsi e ricomporsi come nella vicenda del terrore e dell’ebrezza. Ed entrambi, da una soglia all’altra, dalla luce all’ombra, dall’ombra alla luce, perseguitavano la loro angoscia senza fine.
«E’ questo?» disse Paolo chinandosi a un davanzale.
Era la squallida memoria d’un altro giardino pensile, ingombro di ortiche di rottami di vecchie docce contorte. Un Tritone sonava la buccina su una parete forata e maculata; qualche papavero ardeva qua e là come una fiammella spersa. Più nere parevano le rondini in un cielo più lontano.
«Ci può essere una cosa più triste in terra?» disse la donna ritraendosi.
Ricominciava la desolazione: la cappa demolita d’un camino nera di fumo; una serie di finestre murate; un corridoio cosparso di calcinacci; un’aula biancastra con su le pareti le tracce del lordume umano e dei tramezzi sovrapposti; una scala di pietra consunta; e un altro corridoio simile alla corsia d’un ospedale evacuato; e poi un’altra scala immensa, discendente fra nicchie deserte a un’orrida porta fatta di assi sconnesse e di travi traverse, che pur pareva più inespugnabile del triplice bronzo, inchiodata sopra un varco senza nome.
«Isabella!»
«Ho paura, ho paura.»
Ella aveva in sommo della gola l’atroce pulsazione della sua vita. Perduta era entro di sé, fuori di sé.
«Dove siamo? Si fa sera?»
Egli l’aveva ancora presa per la mano come per condurla; e dentro di sé e fuori di sé era perduto. Camminavano sul loro stesso tremito come su una corda tesa e oscillante.
«Ah, non posso più.»
Chi dei due aveva esalato quell’anelito? Ancor due erano le bocche ma una era l’ambascia, e le loro due forze confuse non la sostenevano.
«Non posso più.»
D’improvviso rientravano nell’azzurro e nell’oro, riudivano la melodia dominante, rivedevano splendere il più lungo giorno.
«Forse forse forse…»
Verso l’oro e l’azzurro ella aveva levato la faccia; e la sua stessa anima era diffusa sul suo capo ricca e inestricabile, effigiata nelle sue mille ambagi. Ella leggeva con gli occhi torbidi la parola spaventosa inscritta innumerevoli volte, tra le vie dedàlee, nei campi oltremarini.
«Forse forse forse…»
Gli disse quella parola entro la bocca, sotto la lingua; gliela disse entro la gola, alla sommità del cuore; ché egli le aveva preso con le dita il mento e con le labbra il fiato, il più profondo fiato, quello che sanno le vene i sogni i pensieri.

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D’Annunzio dentro ad un biplano

Il romanzo, ultimo del genere nella prosa dannunziana, nasce dopo dodici anni da Il fuoco. Probabilmente D’Annunzio sentiva l’esigenza di “modernizzare” il romanzo e il tentativo che egli compie è quello di inserire la macchina (automobile, aereo) ad indicare la contemporaneità tecnologica entro cui i protagonisti si muovono. D’altra parte l’eroe protagonista non sarà più né un esteta, né un tribuno, né un genio letterario, ma semplicemente un aviatore (non bisogna dimenticare che è del 1909 la rivoluzione futurista di Marinetti.)

Eppure il brano sembra richiamare la prosa precedente: dopo una corsa in automobile, Paolo ed Isabella raggiungono il palazzo ducale e si perdono nel labirinto, metafora della mente disturbata, labirintica della donna. Ma il luogo, un tempo ritrovo della splendida vita rinascimentale dei Gonzaga, è oggi lasciato all’incuria, alla putrefazione: è il simbolo della morte della Bellezza, ma a volte, la sua degradazione risulta quasi più bella della Bellezza in sé (il fascino del torbido o, più banalmente, degli opposti).

L’ultima produzione dannunziana è legata o alla guerra o al primo dopoguerra, e raccoglie una serie di scritti vari, tra cui spicca Il Notturno quando il poeta, ferito in un incidente di guerra, perde l’occhio sinistro e, rimanendo a lungo nell’immobilità, scrive su striscioline di carta, tagliate amorosamente da sua figlia Barbara, impressioni e ricordi, tutti raccolti in una prosa frammentaria, dove la retorica lascia il posto ad una prosa riflessiva, senza alcuna enfasi, che i critici hanno definita “impressionistica” e che D’Annunzio stesso definirà come “esplorazione d’ombra”.

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D’Annunzio ferito agli occhi

L’INFERMO

Ho gli occhi bendati.
Sto supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi.
Sollevo leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v’è posata.
Scrivo sopra una stretta lista di carta che contiene una riga. Ho tra le dita un lapis scorrevole. Il pollice e il medio della mano destra, poggiati sugli orli della lista, la fanno scorrere via via che la parola è scritta.
Sento con l’ultima falange del mignolo destro l’orlo di sotto e me ne servo come d’una guida per conservare la dirittura.
I gomiti sono fermi contro i miei fianchi. Cerco di dare al movimento delle mani una estrema leggerezza in modo che il loro giuoco non oltrepassi l’articolazione del polso, che nessun tremito si trasmetta al capo fasciato.
Sento in tutta la mia attitudine la rigidità di uno scriba egizio scolpito nel basalto.
La stanza è muta d’ogni luce. Scrivo nell’oscurità. Traccio i miei segni nella notte che è solida contro l’una e l’altra coscia come un’asse inchiodata.
Imparo un’arte nuova.

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Il Notturno in una edizione del 1921

Anche qui D’Annunzio, non diversamente dalle altre opere, fa sì che i sensi percepiscano e la parola li traduca: di fronte alla cecità, non è più la solarità che D’Annunzio percepisce come in Alcyone, ma il buio a colpire l’uomo che lo spinge verso una condizione conoscitiva nuova, che lo spinge verso la propria interiorità che fa sì inoltre che essa gli detti un’arte nuova.

TITO LUCREZIO CARO

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Tito Lucrezio Caro

Tito Lucrezio Caro è il primo grande autore della poesia didascalica che incontriamo nella storia della letteratura latina. Poche le sue notizie certe, ma sicura è l’enfasi e la volontà di mostrare al mondo che lo circonda la verità dei meccanismi che regolano la vita, combattendo contro le superstizioni per affermare la ragione. Tale compito, per lui, così fedele alla teorie terrene epicuree, diventerà un vero e proprio lavoro compositivo che produrrà il De Rerum natura.

 Notizie biografiche

Come già detto le notizie biografiche su questo autore sono scarse e non propriamente attendibili: sembra esser nato intorno al 98 a.C.; si credette che impazzì dopo aver bevuto un filtro d’amore, e che nei momenti di lucidità scrivesse il suo capolavoro e che morì, suicida, intorno ai 40 anni d’età, si presume nel 55 a. C. Altre notizie non ne abbiamo, nemmeno da parte di Cicerone che, sicuramente, si fece editore dell’opera, come dimostra nella lettera al fratello Quinto, in cui recensendola dice:

Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis

Il poema di Lucrezio è così come scrivi, ricco di talento, tuttavia molto meditato (o pieno d’artifici)

né da parte di Virgilio e Orazio che mostrarono di conoscerla perfettamente. E’ evidente che le notizie su riportate possano produrre qualche perplessità, in quanto:

  • ad offrircele è stato un cristiano, san Gerolamo, al quale parve giusto affidare l’idea “atea” del De Rerum Natura ad un autore in qualche modo pazzo e suicida;
  • come già successe a Plauto, laddove mancano indizi certi, si riprendono elementi dell’opera e si attribuiscono all’autore stesso (in questo caso il forte pessimismo che si può notare in alcuni punti dell’opera potrebbero in qualche modo giustificare la sua pazzia).

L’epicureismo

Essendo il De Rerum natura un testo di grande impegno filosofico, non sembra inopportuno affrontare in primis la teoria e in secundis l’impatto che l’epicureismo ebbe a Roma. Nel secondo secolo, infatti, nell’epoca per intenderci di Catone il Censore e del Circolo degli Scipioni, l’epicureismo era stato letteralmente bandito dalla città: il suo “disinteresse” per la politica e per l’impegno civile, nonché la teoria dell’indifferenza divina, metteva in serio pericolo il mos maiorum tradizionale. Diverso fu l’atteggiamento nel I secolo: l’apertura di una scuola epicurea a Napoli di risonanza internazionale, fecero convogliare nella città partenopea una gran massa di giovani figli della più ricca aristocrazia della capitale, ma anche l’esistenza di libercoli più semplici in cui le speculazioni epicuree venivano banalizzate e ridotte alla sola ricerca di piaceri esteriori, stavano diffondendosi in modo preoccupante. Sappiamo che furono in qualche modo epicurei sia Cesare che Cassio (ucciso ed uccisore), e, nella prima età imperiale, sebbene in modo più problematico, Virgilio e Orazio, che si definì proprio uno del gruppo del gregge d’Epicuro. Ma cosa affermava la teoria del filosofo greco?

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Busto di Epicuro

Teoria fisica

In primo luogo riprendeva la teoria degli atomi di Empedocle, ma aggiungeva ad essi un peso. Infatti per il primo gli atomi si aggregavano, pur liberi, muovendosi “vorticosamente nell’aria” e quindi incontrandosi. Epicuro, aggiungendo ad essi un peso, li faceva cadere perpendicolarmente e, per aggregarsi in forme, faceva sì che essi, durante la loro caduta, s’inclinassero: è questo il cosiddetto παρέγκλισις (parénclisis), tradotto da Lucrezio clinàmen.

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Teoria del clinamen

Teoria morale

Se ciò è semplicisticamente ciò che possiamo dire rispetto alla fisica di Epicuro/Lucrezio, più importante è la parte riguardante la morale. Infatti tutta la filosofia epicurea è inserita su un piano morale. La sua speculazione infatti si basa sul tetrafarmaco:

  • Gli dei non devono essere temuti;
  • Non bisogna aver paura della morte;
  • Il piacere è facile a procurarsi;
  • Il dolore è facile a sottostarsi.

Importante è il concetto di voluptas (hedoné, in greco): essa si fonda dalla netta separazione tra ciò che è necessario e ciò che accessorio per la felicità umana; essendo la prima di piccolissima entità, l’uomo divenuto saggio, è felice in quanto privo di falsi bisogni: è questa la cosiddetta autarkeia.

Teoria gnoseologica

Alla teoria morale, Epicuro aggiunge quella sulle sensazioni a cui affida l’assoluta verità in quanto esse sono determinate dal contatto tra soggetto e oggetto; da qui l’assoluta fiducia nell’empirismo.

Il De rerum natura
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Apertura del De rerum natura , 1483 copia di Girolamo di Matteo de Tauris per papa Sisto IV

Il De Rerum natura è un poema didascalico in sei libri, in cui s’illustra la teoria epicurea, strutturato in tre diadi:

  • Nella prima (libro I e II), dopo l’invocazione a Venere, simbolo della natura rigeneratrice, si affronta il tema fisico, cioè degli atomi epicurei e sul loro modo d’aggregarsi. Nel secondo Lucrezio illustra la teoria del clinamen (inclinazione) degli atomi, che permette loro una varia aggregazione. Il testo si chiude con la digressione sulla progressiva decadenza della natura;
  • Nella seconda diade (libro III e IV) invece il discorso si fa antropologico: si analizza la differenza di peso degli atomi che si sono aggregati intorno al corpo e a quelli dell’anima; è evidente che i secondi siano più leggeri. Ma tale teoria arriva a determinare, come per il corpo, la morte dell’anima. Il quarto affronta la teoria dei simulacra cioè di quelle sottili membrane che si staccano dai corpi e colpiscono i nostri sensi apparendo come veri: sono essi i sogni. Fra essi vi è anche il desiderio d’amore, che. secondo Lucrezio, è solo sublimazione di un più vero bisogno d’attrazione fisica;
  • Nella terza diade (V e VI libro) il tema è la cosmologia: nel V si parla della mortalità del nostro mondo e di tutti gli altri mondi esistenti. Vi è poi la spiegazione del moto degli astri e delle stelle. Nel VI e ultimo libro Lucrezio cerca di spiegare razionalmente l’origine di eventi naturali come i fulmini o terremoti. Chiude con la famosa descrizione della peste d’Atene.

A questa struttura seguono altre simmetrie come quella per cui l’epos inizia in modo gioioso (l’inno a Venere) e termina in modo tragico (la peste d’Atene) e ancora quella d’iniziare ogni diade con l’elogio di Epicuro.

L’opera inizia come già si è detto con un famosissimo omaggio alla dea Venere:

INNO A VENERE
(I, 1 – 43)

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis.
Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tullus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.
Nam simul ac species patefactast verna diei
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aëriae primum volucres te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.
Inde ferae pecudes persultant pabula laeta
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis,
omnibus incutiens blandum per pectora amorem,
efficis ut cupide generatim saecla propagent.
Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.
Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem,
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reicit aeterno devictus volnere amoris,
atque ita suspiciens teriti cervice reposta
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.
Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circumfusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem,
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

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Sandro Botticelli: Venere e Marte

Madre degli Eneadi, voluttà degli uomini e degli dèi, // alma Venere, che sotto gli astri vaganti del cielo // popoli il mare solcato da navi e la terra feconda // di frutti, poiché per tuo mezzo ogni specie vivente si forma, // e una volta sbocciata può vedere la luce del sole: // te, o dea, te fuggono i venti, te e il tuo primo apparire // le nubi del cielo, per te la terra industriosa // suscita i fiori soavi, per te ridono le distese del mare, // e il cielo placato risplende di luce diffusa. // Non appena si svela il volto primaverile dei giorni, // e libero prende vigore il soffio del fecondo zefiro, // per primi gli uccelli dell’aria annunziano te, nostra dea, // e il tuo arrivo, turbati i cuori dalla tua forza vitale. // Poi anche le fiere e gli armenti balzano per i prati in rigoglio, // e guadano i rapidi fiumi: così, prigioniero al tuo incanto, // ognuno ti segue ansioso dovunque tu voglia condurlo. // E infine pei mari e sui monti e nei corsi impetuosi dei fiumi, // nelle frondose dimore degli uccelli, nelle verdi pianure, // a tutti infondendo in petto la dolcezza dell’amore, // fai sì che nel desiderio propaghino le generazioni secondo le // stirpi. Poiché tu solamente governi la natura delle cose, // e nulla senza di te può sorgere alle divine regioni della luce, // nulla senza te prodursi di lieto e di amabile, // desideroso di averti compagna nello scrivere i versi // che intendo comporre sulla natura di tutte le cose, // per la prole di Memmio diletta, che sempre tu, o dea, // volesti eccellesse di tutti i pregi adornata. // Tanto più concedi, o dea, eterna grazia ai miei detti. // E fa’ che intanto le feroci opere della guerra // per tutti i mari e le terre riposino sopite. // Infatti tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, // poiché le crudeli azioni guerresche governa Marte // possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, // vinto dall’eterna ferita d’amore, // e così mirandoti con il tornito collo reclino, // in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi, // e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino. // Quando egli, o divina, riposa sul tuo corpo santo, // riversandoti su di lui effondi dalle labbra soavi parole, // e chiedi, o gloriosa, una placida pace per i Romani. // Poiché io non posso compiere la mia opera in un’epoca // avversa alla patria, né l’illustre stirpe di Memmio // può mancare in tale discrimine alla salvezza comune.
(Luca Canali)

Tale proemio ha posto sin da sin da subito delle forti perplessità: come mai un poeta che proclama una teoria nella quale si prodiga l’indifferenza degli dei nei confronti dell’uomo, inizia proprio con un inno ad una dea? Molte e diverse sono state le risposte a tale quesito e, seppur diversamente, ognuna di esse portatrice di verità:

  • Si è voluto vedere in Venere il simbolo della Primavera e quindi della Natura progenitrice, di contro alla guerra, e quindi Marte, che, in una bellissima immagine, si china, innamorato e adorante sul grembo della dea;
  • Altri propendono a vedere in lei la personificazione dell’hedoné epicureo;
  • Altri ancora credono che la sua figura emerga come simbolo della pace, considerata da tale filosofia, una delle principali virtù.

Non dobbiamo neanche dimenticare in questo proemio, in cui Venere, oltre ad essere le cose qui ricordate, rappresenta la musa ispiratrice, la dedica a Memmio, forse identificato con Gaio Memmio, tribuno della plebe, che pur aspirando al consolato, non lo raggiunse mai. Avendo tale famiglia come patrona la stessa Venere, questo fatto può costituire un ulteriore indizio per la scelta di cominciare il poema sotto il suo nome.

Subito dopo l’inno a Venere Lucrezio ci presenta il suo nume tutelare, Epicuro, tessendone un vibrante elogio:

ELOGIO DI EPICURO
(I, 62-79)

Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans,
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra,
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acrem
irritat animi virtutem effringere ut arta
naturae primus portarum claustra cupiret.
Ergo vivida vis animi pervicit, et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri,
quid nequeat, finita potestas denique cuique
quanam sit ratione atque alte terminus haerens.
quare religio pedibus subiecta vicissim
obteritur, nos exaequat victoria caelo.

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Immagine di Epicuro

Mentre la vita umana giaceva sulla terra, // turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione, // che mostrava il suo capo dalle regioni celesti con orribile // aspetto, incombendo dall’alto sugli uomini, // per primo un uomo di Grecia ardì sollevare gli occhi // mortali a sfidarla, e per primo drizzarlesi contro: // non lo domarono le leggende degli dèi, né i fulmini, né // il minaccioso brontolio del cielo; anzi tanto più ne stimolarono // il fiero valore dell’animo, così che volle // infrangere per primo le porte sbarrate dell’universo. // E dunque trionfò la vivida forza del suo animo // e si spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo, // e percorse con il cuore e la mente l’immenso universo, // da cui riporta a noi vittorioso quel che può // nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa // ha un potere definito e un termine profondamente connaturato. // Perciò a sua volta abbattuta sotto i piedi la religione // è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al cielo.
(Luca Canali)

Gli elogia della figura del pensatore greco sono presenti all’inizio di ogni diade (I, III e V) Questo, nel I canto, è condotto sotto il segno dell’esaltazione: infatti viene riconosciuto a lui il fatto d’essere il primus ad aver sfidato apertamente il mondo degli dei. Egli, infatti si è comportato in modo eroico, molto più e in modo migliore degli eroi bellici; se questi, infatti, hanno acquisito nuovi territori per i Romani, lui ha liberato estese forme di conoscenza, indirizzando la mente dei giovani aristocratici alla verità che consiste, appunto, nel non avere alcuna paura.

IL SACRIFICIO DI IFIGENIA
(I, 80 – 102)

Illud in his rebus vereor, ne forte rearis
impia te rationis inire elementa viamque
indugrendi sceleris. Quod, contra, saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Cui simul infula virgineos circumdata comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras
deductast, non ut solemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur.
Tantum religio potuit suadere malorum.

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Affresco: Il sacrificio di Ifigenia (Pompei)

In questo argomento temo ciò, che per caso // tu creda d’iniziarti ai principi di un’empia dottrina // e di entrare in una via scellerata. Poiché invece più spesso // fu proprio la religione a produrre scellerati delitti. // Così in Aulide l’altare della vergine Trivia // turpemente violarono col sangue d’Ifianassa gli scelti // duci dei Danai, il fiore di tutti i guerrieri. // Non appena la benda ravvolta alle chiome virginee // le ricadde eguale sull’una e l’altra gota, // ed ella sentì la presenza del padre dolente // presso l’altare, e che vicino a lui i sacerdoti celavano il ferro, // e alla sua vista i cittadini non potevano trattenere le lacrime, // muta per il terrore cadeva in terra in ginocchio. // Né in quel momento poteva giovare alla sventurata // l’avere per prima donato al re il nome di padre. // Infatti, sorretta dalle mani dei guerrieri, è condotta tremante // all’altare, non perché dopo il rito solenne // possa andare fra i cori dello splendente Imeneo, // ma empiamente casta, proprio nell’età delle nozze, // perché cada, mesta vittima immolata dal padre, // affinché una fausta e felice partenza sia data alla flotta. // Tanto male poté suggerire la religione.
(Luca Canali)

Posto come immediato seguito del brano precedente, questo passo ci vuole illustrare fino a quale punto può condurre la religione: viene qui infatti raccontato l’episodio di Ifigenia (Ifianassa, secondo la terminologia greca). Infatti tutti i re con le loro navi erano radunati in Aulide da più di tre mesi, e, per il persistere della bonaccia, non potevano salpare. Ciò per colpa di Agamennone, come gli rileva l’indovino Calcante, in quanto lui, alcuni anni prima, aveva offeso gravemente la dea Artemide (Diana), avendo trafitto un bel cervo, e quindi si era vantato d’essere un cacciatore più bravo della stessa dea. E ora Artemide pretendeva, se si voleva far partire la flotta, che Agamennone le sacrificasse sull’altare la propria figlia Ifigenia. E’ chiaro come qui Lucrezio sottolinei l’idea “strumentale” della religione, che proprio perché così vissuta, è contraria all’idea di bene, come predicano i suoi fautori, che la vogliono come elemento indispensabile per la conservazione del mos maiorum. La loro contraddittorietà viene espressa da Lucrezio insistendo sugli aspetti patetici, soprattutto sul contrasto fra il rito delle nuptiae e del sacrificio umano: vestita e agghindata come fosse portata dai parenti alle nozze, allo stesso modo viene condotta per essere uccisa e placare, in questo orrendo modo, gli dei. E’ eccessivo lo scarto tra i due riti, è intollerabile il volere della dea, ma così è creduto dagli infelici; per Lucrezio, infatti, essi vivono al di là di noi, indifferenti alle nostre gioie e ai nostri dolori.

Dopo aver mostrato ciò che vuole combattere, Lucrezio si scusa con i lettori per la difficoltà con cui deve rendere concetti filosofici greci in versi latini:

DIFFICOLTA’ DELL’IMPRESA
(I, 136 – 145)

Nec me animi fallit Graiorum obscura reperta
difficile illustrare Latinis versibus esse,
multa novis verbis praesertim cum sit agendum
propter egestatem linguae et rerum novitatem;
sed tua me virtus tamen et sperata voluptas
suavis amicitiae quemvis efferre laborem
suadet et inducit noctes vigilare serenas
quaerentem dictis quibus et quo carmine demum
clara tuae possim praepandere lumina menti,
res quibus occultas penitus convisere possis.

E non sfugge al mio animo che difficile è dar luce // in versi latini alle oscure scoperte dei Greci, // soprattutto perché è necessario trattare molte cose con nuove parole, // a causa della povertà della lingua e della novità dell’argomento; // ma il tuo valore, tuttavia, ed il piacere sperato // di una tenera amicizia mi persuadono a sopportare ogni fatica // e mi inducono a vegliare durante le notti serene, // cercando con quali parole e con quale poesia, // infine, possa diffondere davanti alla tua mente luci splendenti, // grazie alle quali tu possa vedere a fondo le cose nascoste.

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Dal greco al latino

Non solo Lucrezio esprime la difficoltà nel voler trattare, nella lingua di Roma, argomenti filosofici; sarà una viva preoccupazione anche per Cicerone. Tuttavia l’autore del De rerum natura vuole evitare troppi tecnicismi che mal s’accorderebbero ad un’opera in versi e al pubblico cui lui si rivolge. Egli infatti, seguendo anche i dettami della filosofia epicurea, lavora per immagini dandoci appunto delle semplificazioni tratte dal mondo sensibile. Questo lo fa per due motivi:

  • Perché non dimentica che egli sta redigendo un poema che pur essendo didascalico non può tralasciare momenti lirici;
  • Perché le immagini, essendo proiezioni sensibili e quindi parti di verità che si staccano dal soggetto e diventano oggetto vero in quanto visto dal soggetto stesso, sono rappresentazione della verità, come già affermato.
  • Inoltre esse possono rendere dolce l’acquisizione di una verità il cui percorso può presentarsi a volte erto e difficile.

L’AMARA MEDICINA
(IV, 11-25)

Nam vel uti pueris absinthia taetra medentes
cum dare conantur, prius oras pocula circum
contigunt mellis dulci flavoque liquore,
ut puerorum aetas improvida ludificeretur
labrorum tenus, interea perpotet amarum
absinthi laticem deceptaque non capiatur,
sed potius tali facto recreata valescat,
sic ego nunc, quoniam haec ratio plerumque videtur,
tristior esse quibus non est tractata, retroque
volgus aborre ab hac, volui tibi suaviloquenti
carmine Pierio rationem expo nere nostram
et quadi musaeo dulci con tingere melle,
si tibi forte animum tali ratione tenere
versibus in nostri possem, dum percipis omnem
naturam rerum ac persentis utilitatem.

Come i medici, quando cercano di somministrare // ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono // l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, // affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa // fino alle labbra, e intanto beva l’amaro // succo dell’assenzio, senza che l’inganno le nuoccia, // e anzi al contrario in tal modo rifiorisca e torni in salute, // così io, poiché questa dottrina appare // spesso troppo ostica a quanti non l’abbiano // conosciuta a fondo, e il volgo ne rifugge e l’aborre, // ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio // e quasi aspergerla del dolce miele delle Muse, // se per caso in tal modo potessi trattenere il tuo animo // con questi miei versi, fin quando tu attinga l’intera // natura dell’universo, e intenda l’utile che puoi trarne.
(Luca Canali)

Questo della medicina è un tema che diverrà, per alcuni autori, vero e proprio topos: qui infatti Lucrezio istituisce un paragone tra la gente ignorante (in quanto non sa la filosofia epicurea per raggiungere la felicità) e il bambino malato, quindi fra lui, come medico e l’opera come necessaria medicina. Tale concetto, se da una parte spiega la scelta lucreziana di “insegnare” la verità epicurea attraverso la poesia, rifiutata da Epicuro, sarà ripreso da Orazio e verrà, invece, quasi tradotto nel poema tassiano:

Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve.

Uno dei temi che contraddistingue in modo particolare la teoria epicurea è la liberazione della paura della morte, a cui dedica più di un passo. Se infatti la vita non è che l’aggregazione di atomi, la morte non è nient’altro che il loro disgregarsi per formare nuova vita. Inoltre se la morte è assenza di sensazioni, perché temerla se, non essendoci più non proveremo mai più alcun timore o dolore? In questo passo la morte è vista come parte integrante del divenire cosmico

LA MORTE E’ PARTE DEL DIVENIRE DEL MONDO
(II, 991-1009)

Denique caelesti sumus omnes semine oriundi;
omnibus ille idem pater est, unde alma liquentis
umoris guttas mater cum terra recepit,
feta parit nitidas fruges arbustaque laeta
et genus humanum, parit omnia saecla ferarum
pabula cum praebet, quibus omnes corpora pascunt
et dulcem ducunt vitam prolemque propagant;
qua propter merito maternum nomen adepta est.
cedit item retro, de terra quod fuit ante,
in terras, et quod missumst ex aetheris oris,
id rursum caeli rellatum templa receptant.
nec sic interemit mors res ut materiai
corpora conficiat, sed coetum dissupat ollis;
inde aliis aliud coniungit et efficit, omnis
res ut convertant formas mutentque colores
et capiant sensus et puncto tempore reddant;
ut noscas referre earum primordia rerum
cum quibus et quali positura contineantur
et quos inter se dent motus accipiantque,
neve putes aeterna penes residere potesse
corpora prima quod in summis fluitare videmus
rebus et interdum nasci subitoque perire.

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Thanatos, dio della morte, come un giovane alato armato di spada. 

Infine noi siamo tutti nati da seme celeste;  a tutti è padre quello stesso, da cui la terra, la madre che ci alimenta, quando ha ricevuto le limpide gocce di pioggia, concepisce e genera le splendide messi e gli alberi rigogliosi e il genere umano, genera tutte le stirpi delle fiere, offrendo i cibi con cui tutti nutrono i corpi e conducono una piacevole vita e propagano la progenie; perciò a ragione essa ha ricevuto il nome di madre. Del pari ritorna alla terra ciò che un tempo uscì dalla terra, e quel che fu mandato giù dalle plaghe dell’etere, ritorna alle volte del cielo che nuovamente lo accolgono. Né la morte distrugge le cose sì da annientare i corpi della materia, ma di questi dissolve l’aggregazione; poi congiunge altri atomi con altri e fa che tutte le cose così modifichino le loro forme e mutino i loro colori e acquistino i sensi e in un attimo li perdano, sì che puoi conoscere come importi con quali altri i medesimi primi principi, e in quale disposizione, siano collegati, e quali movimenti a vicenda imprimano e ricevano, e non devi credere che negli eterni corpi primi possa aver sede ciò che vediamo fluire alla superficie delle cose e talora nascere e sùbito perire.

A ben guardare il testo mescola alla materialità del contenuto delle immagini liriche, si veda come al “seme celeste” corrisponda l’accoglienza della madre terra e da questi due nasca la vita. L’atomo qui prende il posto di dio, è lui infatti il di creatore e di fronte alla “mortalità” della vita è solo lui l’elemento immortale, quindi non può essere che lui che dà la vita e che la toglie, ma sarà ancora lui a farla rinascere.

Il tema, legato a quello precedente, che anzi lo spiega, è la struttura e l’aggregazione dell’animo, la necessità del vuoto affinché sia proprio esso a permettere l’unione degli animi, il concetto di infinito degli astri e dei cieli e via dicendo. Qui Lucrezio riesce a dar vita ad un vero e proprio linguaggio tecnico, così come quando parla degli innumerevoli altri mondi:

PLURALITA’ DEI MONDI
(II, 1067-1076)

Praeterea cum materies est multa parata,
cum locus est praesto nec res nec causa moratur
ulla, geri debent nimirium et confieri res.
Nunc et seminibus si tanta est copia, quantam
enumerare aetas animantum non queat omnis,
vis(que) eadem (et) natura manet, quae semina rerum
conicere in loca quaeque queat simili ratione
atque huc sunt coniecta, necesse est confiteare
esse alios aliis terrarum in parti bus orbis 
et varias hominum gentis et saecla ferarum.

Quando inoltre vi è molta materia approntata, // quando si offre uno spazio, né cosa né causa si oppone, // è evidente che i corpi si formano e compiono il loro sviluppo. // E ora se il numero degli atomi è così sterminato // che un’intera età dei viventi non basterebbe a contarli, // e persiste la medesima forza e natura che possa // congiungere gli atomi dovunque nella loro stessa maniera // in cui si congiunsero qui, è necessario per te riconoscere // che esistono altrove nel vuoto altri globi terrestri // e diverse razze di uomini e specie di fiere.

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Cielo stellato nel Mausoleo di Galla Placidia (V sec.)

Questo passo ci dimostra l’atteggiamento didascalico dell’autore che vuole dimostrare, appunto, che se esistono innumerevoli atomi, vi sono altrettanti mondi. In questa affermazione si nasconde un atteggiamento assolutamente “radicale” nel dibattito filosofico greco riguardo “il mondo”. Infatti egli qui si schiera non soltanto contro l’unicità del nostro pianeta, ma addirittura contro la sua centralità.

L’AMORE
(IV, 1093-1120)

Ex hominis vero facie pulchroque colore
nil datur in corpus praeter simulacra fruendum
tenvia; quae vento spes raptast saepe misella.
Ut bibere in somnis sitiens quom quaerit et umor
non datur, ardorem qui membris stinguere possit,
sed laticum simulacra petit frustraque laborat
in medioque sitit torrenti flumine potans,
sic in amore Venus simulacris ludit amantis,
nec satiare queunt spectando corpora coram
nec manibus quicquam teneris abradere membris
possunt errantes incerti corpore toto.
Denique cum membris conlatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
ne quiquam, quoniam nihil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto;
nam facere inter dum velle et certare videntur.
usque adeo cupide in Veneris compagibus haerent,
membra voluptatis dum vi labefacta liquescunt.
tandem ubi se erupit nervis coniecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
inde redit rabies eadem et furor ille revisit,
cum sibi quod cupiant ipsi contingere quaerunt,
nec reperire malum id possunt quae machina vincat.
usque adeo incerti tabescunt volnere caeco.

Ma dell’umano sembiante, d’un leggiadro incarnato, // nulla penetra in noi da godere, se non diafane immagini, // misera speranza che spesso è rapita dal vento. // Come in sogno un assetato che cerchi di bere, // e bevanda non trovi che estingui nelle sue membra l’arsura, // ma liquidi miraggi insegua in un vano tormento, // o immerso in un rapido fiume ne beva, ma la sete non plachi, // così in amore Venere con miraggi illude gli amanti // che non sanno appagarsi mirando le svelate forme, // né a una carezza involare qualcosa dalle tenere membra, // irrequieti vagando per l’intera superficie del corpo. // Quando infine con le membra avvinte godono del fiore // della giovinezza, e già il corpo presagisce il piacere, // e Venere è sul punto di riversare il seme nel campo femmineo, // comprimono avidamente i petti, confondono la saliva nelle bocche, // e ansimano mordendosi a vicenda le labbra; // invano, perché nulla possono distaccare dalla persona amata, // né penetrarla e perdersi con tutte le membra nell’altro corpo. // Infatti talvolta sembrano voler fare ciò e ingaggiare una lotta: // a tal punto si serrano cupidamente nella stretta di Venere, // finché le membra, stremate dall’intensità del piacere, si struggono. // Infine, quando il piacere raccolto si effonde dai nervi, // per un po’ si produce una breve pausa dell’ardore, // poi torna la medesima rabbia, di nuovo quella smania li assale, // mentre gli amanti vorrebbero sapere che cosa desiderano, // e non riescono a trovare un rimedio che plachi il tormento: // in tale incertezza si consumano per una piega segreta.

E’ un passo fondamentale sulla teoria dell’amore: infatti pochissime teorie del maestro Epicuro ci sono giunte e pertanto la deriviamo soprattutto da Lucrezio. La descrizione che egli fa dell’amplesso amoroso è estremamente “realistica” e “sensuale”: l’epicureismo, infatti, divide il sesso e l’amore; se il primo è positivo in quanto risponde ad un esigenza normale dell’uomo, l’amore, in quanto simulacra, cioè proiezioni, atomi leggerissimi, e quindi soggetti a colui che “ama”, non determinano l’appagamento, in quanto l’amplesso nega l’unione, ma ricrea, al suo fine, la separazione: per questo la passione d’amore rappresenta una piaga inestinguibile per l’uomo.

L’opera si conclude con la scena apocalittica della peste d’Atene:
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La peste di Atene

LA PESTE DI ATENE
(VI, 1138-1162)

Haec ratio quondam morborum et mortifer aestus
finibus in Cecropis funestos reddidit agros
vastavitque vias, exhausit civibus urbem.
Nam penitus veniens Aegypti finibus ortus,
aëra permensus multum camposque natantis,
incubuit tandem populo Pandionis omni.
Inde catervatim morbo mortique dabantur.
Principio caput incensum fervore gerebant
et duplicis oculos suffusa luce rubentis.
Sudabant etiam fauces intrinsecus atrae
sanguine et ulceribus vocis via saepta coibat
atque animi interpres manabat lingua cruore
debilitata malis, motu gravis, aspera tactu.
Inde ubi per fauces pectus complerat et ipsum
morbida vis in cor maestum confluxerat aegris,
omia tum vero vitai claustra lababant.
Spiritus ore foras taetrum volvebat odorem,
rancida quo perolent proiecta cadavera ritu.
Atque animi prorsum vires totius et omne
languebat corpus leti iam limine in ipso.
Intolerabilibusque malis erat anxius angor
adsidue comes et gemitu commixta querella.
Singultusque frequens noctem per saepe diemque
corripere adsidue nervos et membra coactans
dissolvebat eos, defessos ante, fatigans.

Questo tipo di malattia e il flusso mortifero un tempo // nei confini di Cecrope rese i campi funestati di cadaveri // devastò le contrade e svuotò la città di cittadini. // Infatti venendo dal profondo dell’Egitto (dov’era) nato // dopo aver attraversato molti cieli e i campi fluttuanti // gravò sull’intero popolo di Pandione. // Quindi a mucchi si erano offerti alla malattia e alla morte. // In principio avevano la testa infiammata di calore // e i due occhi rosseggianti di luce diffusa (arrossati). // Dall’interno delle fauci annerite usciva fuori // sangue e la via della voce costretta dalle ferite si chiudeva // e la lingua interprete della mente emetteva sangue raffermo // debilitata dal male, gravata nel movimento, ruvida al tatto. // Così non appena per mezzo delle fauci aveva riempito il petto // la forza malata era confluita nello stesso cuore triste dei malati, // ogni cosa in verità allora minacciavano le barriere della vita. // L’alito fuori dalla bocca esalava un odore mortifero // nello stesso modo puzzolente dei cadaveri lasciati insepolti. // E subito le forze di tutto l’animo e ogni elemento // del corpo languiva ormai sulla stessa soglia della morte. // E all’intollerabile male era compagna assidua // un angoscia ansiosa e un pianto misto a lamenti. // E spesso il singulto frequente di giorno e di notte // continuamente costringendo a contrarre i nervi e le membra // tormentava sfibrando quelli, già prima spossati.
(Luca Canali)

E’ questo l’incipit dell’episodio che chiude il De Rerum natura, un’incredibile descrizione della peste che fu letta con attenzione, insieme a quella boccacciana, da Manzoni. Ci si pone il problema del perché l’autore decida di terminare con un tema in cui protagonista è la morte l’opera. Qualcuno, in un finale così pessimistico, afferma che l’opera risulta interrotta, in quanto manca in essa la descrizione delle sedi degli dei, preannunciato e non svolto; qualcun altro, invece, afferma che esso è un necessario pendant alla teoria della morte e dell’indifferenza degli dei espressa nell’intera opera.

MARCO ANNEO LUCANO

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Busto Di Marco Anneo Seneca

Lucano appartiene alla famiglia degli Annei. Infatti è nipote di Seneca, figlio di Anneo Mela, fratello minore del filosofo.

Nasce come lo zio a Cordova, in Spagna, nel 39 d.C. In giovane età è condotto a Roma, dove studia presso il famoso filosofo Anneo Cornuto, che pur non parente, apparteneva alla stessa gens. Nella sua scuola Lucano conosce il poeta Persio, con il quale stringe un’importante amicizia. Mostra subito una brillante intelligenza che spinge Nerone ad inserirlo tra i suoi più stretti amici (cohors amicorum): ci viene raccontato che durante i Neronia (festività istituita dallo stesso imperatore) egli recitasse lodi a lui rivolte. Fu così apprezzato da ottenere la questura prima dell’età necessaria per iniziare il cursus honorum. E’ in questo periodo che alcuni vogliono far cominciare la stesura del suo poema, pensando che egli abbia composto i primi tre libri. All’improvviso, avviene la rottura con Nerone: i motivi, sulla base degli storici successivi, possono essere tre: l’invidia dell’imperatore per la straordinaria capacità del giovane, capace di oscurare le sue doti; la rottura dello zio Seneca con Nerone e quindi anche del giovane nipote; il troppo palese atteggiamento filo repubblicano, che mette in discussione l’assetto assolutistico che Nerone vuole dare a Roma. Fatto sta che Lucano si trova al di fuori della corte, cosa che può averlo portato ad aderire alla congiura dei Pisoni. Accusato, per scagionarsi incolpa la madre Anicia (in rotta con lui ed il padre), ma senza successo. Gli viene ordinato di uccidersi e morirà, a soli ventisei anni, senza aver terminato il suo poema.

Opere

Di lui si dice che avesse scritto, grazie anche un ingegno precocissimo, alcune opere, tra cui una tragedia, Medea, ad imitazione dello zio, ed una raccolta di poesie; inoltre si esercitò anche su una Iliacòn (carme sull’incendio di Troia) che sembra fosse stata scritta anche da Nerone stesso. Ma l’unica opera da noi conservata è il poema Bellum civile o Pharsalia, interrotto al decimo libro. Esso è l’unico poema di tipo storico che possediamo nella quasi interezza.

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Frontespizio di un’edizione del 1665, pubblicata ad Amsterdam

Bellum civile

E’ un poema, d’argomento storico, il cui tema è la guerra civile, da qui il titolo (Bellum civile) tra Cesare e Pompeo, detto anche Pharsalia da un verso dello stesso Lucano:

Pharsalia nostra vivet

La nostra Farsalia vivrà

Di questo poema possediamo dieci libri, di cui l’ultimo risulta essere più breve degli altri: se ne deduce che l’opera non sia conclusa per la morte del poeta. La sua non conclusione ci porta, tuttavia, verso un problema critico riguardo la effettiva lunghezza che Lucano voleva dare alla suo poema e il modo in cui aveva intenzione di terminarlo. Più ipotesi ci spingono a pensare che egli volesse arrivare a dodici libri:

  • Per emulare/contrapporsi con l’ormai “classico” poema virgiliano;
  • Perché inserisce a metà dell’opera un episodio che si può definire uguale/opposto all’Eneide, per cui dal valore centrale;
  • Perché se ipotizzassimo dodici libri potremmo al contempo ipotizzare la trattazione in una triade dei protagonisti: quattro libri per Cesare, altrettanti per Pompeo e i rimanenti che dovevano essere dedicati a Catone.

Il progetto di avere un poema epico su Roma, sembra fosse nelle intenzioni di Nerone; che sembra abbia visto nel giovane e brillante amico un probabile autore; ma il fatto che egli, pur nell’iniziale elogio verso l’imperatore, avesse scelto come argomento la guerra fra Cesare e Pompeo, ci indica come in Lucano fosse presente sin dall’inizio, un’ideologia filo repubblicana (che poi nel proseguo della composizione si sia approfondita, fino alla rottura, appare certo). Eppure l’opera ebbe una difficile accettazione, perché apparve ai più un ibrido che mescolasse la storia e la poesia: difficile dirlo, per noi, perché ci mancano le sue fonti “storiche” principali: Livio e le opere di Seneca il Vecchio, autore di un’opera storica che partiva proprio dalle guerre civili. La perdita delle fonti e non ci permette di conoscere come le abbia “reinventate”.

Cosa ci spinge, oggi, a leggere Lucano, come un autore che ha voluto scardinare e rifondare in modo del tutto nuovo la poesia epica? Il confronto che non noi, ma Lucano stesso, come già accennato, fa con la Vergilii Aeneis: l’opera dell’autore mantovano, infatti, si presenta come un monumentum che canta, con fatica e lutti, la pax romana. Lucano, invece, sin dall’inizio canta la reipublicae dissolutio:

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La battaglia di Farsalo in una miniatura del Foquet

PROEMIO
(I, 1-14)

Bella per Emathios plus quam civilia campos,
iusque datum sceleri canimus, populumque potentem
in sua victrici conversum viscera dextra,
cognatasque acies, et rupto foedere regni
certatum totis concussi viribus orbis
in commune nefas, infestisque obvia signis
signa, pares aquilas et pila minantia pilis.
Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri
gentibus invisis Latium praebere cruorem?
Cumque superba foret Babylon spolianda tropaeis
Ausoniis umbraque erraret Crassus inulta
bella geri placuit nullos habitura triumphos?
Heu, quantum terrae potuit pelagique parari
hoc quem civiles hauserunt sanguine dextrae!

Cantiamo le guerre più che civili per i campi Emazi, e la legge assegnata al delitto e il popolo potente rivolto con la mano vittoriosa contro le sue stesse viscere, e le battaglie fraterne, e, dopo aver infranto il patto del regno, la lotta con tutte le forze del mondo sconvolto nel comune misfatto, e le insegne esposte contro le insegne ostili, e le due aquile una contro l’altra e i giavellotti che minacciano altri giavellotti. Quale follia, o cittadini, quale ampia facoltà delle armi offre il sangue latino alle popolazioni nemiche? E quando la superba Babilonia doveva essere spogliata dai trofei Ausoni e Crasso con l’ombra invendicata vagava, piacque fare guerre per non ottenere nessun trofeo? Oh, quante terre e quanti mari potevano essere conquistati con questo sangue che mani civili hanno versato!

Per Lucano la pax augustea era fondata su una grande mistificazione, che voleva nascondere, con un apparato scenografico, fatto di dei ed eroi, così com’era raccontato nell’Eneide virgiliana, il declino di Roma verso la tirannide. D’altra parte c’è nella Pharsalia un episodio che può essere considerato esemplare da questo punto di vista: come nel VI libro dell’Eneide si assisteva all’episodio della catabasi, in cui Anchise mostrava ad Enea disceso negli Inferi la futura gloria di Roma, nel VI libro dell’opera di Lucano si assiste alla negromanzia, dove il soldato morto richiamato dalla maga afferma di aver visto negli Inferi una grande confusione con i Catilinari (nemici della repubblica) fare grandi feste per la rovina della città.

Allora come si spiega l’elogio iniziale verso Nerone?

ELOGIO DI NERONE
(I, 33-38)

Quod si non aliam venturo fata Neroni
invenere viam magnoque aeterna parantur
regna deis caelumque suo servire Tonanti
non nisi saevorum potuit post bella gigantum,
iam nihil, o superi, querimur; scelera ipsa nefasque
hac mercede placent.

Ma se i fati non hanno trovato un’altra via all’avvento di Nerone e a grande prezzo si preparano i regni eterni agli dei e il cielo poté servire Giove Tonante se non dopo la guerra dei crudeli giganti; ormai di nulla lamentiamoci; questi delitti e il sacrilegio ci piacciono come ricompensa.

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Karl Theodor von Piloty: Nerone e il grande incendio di Roma

E’difficile dare una giusta interpretazione a questi versi: una parte della critica vedrebbe nell’accostamento che Lucano pone tra l’elogio di Augusto presente nell’Eneide di Virgilio, e questo di Nerone, un’esagerazione “troppo marcata” verso quest’ultimo che potrebbe risultare “ironica”, considerando anche il forzato “inserimento” di esso nell’ideologia del poema; altri, invece, protendono per una sincera ispirazione di tale elogio e, se esagerazione vi è, va considerata all’interno degli elogia, “naturali” nelle opere letterarie di questo periodo. Se infatti considerassimo i primi tre libri del poema scritti prima dell’allontanamento della corte essi segnerebbero, come già nel De clementia senecano, l’atteggiamento degli intellettuali, che vedevano Nerone, all’inizio del suo potere, come colui che sarebbe riuscito a mettere insieme impero e libertà. Ciò tuttavia non comporterebbe un cambiamento troppo brusco tra la prima e la seconda parte del poema, ma una maturazione che piano piano tende sempre più verso un’ideologia anti imperiale.

La Pharsalia non ha un eroe: il testo ruota intorno a Cesare e Pompeo; nell’ultima parte di esso, appare, inoltre la figura di Catone. A dominare è Cesare: irruento, temerario, impaziente, sembra quasi incarnare il furor impossibile da dominare, rivolto contro le forze sane della repubblica:

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Immagine di Cesare dux con la X legione tratta dal videogioco Rome 2- Total war

RITRATTO DI CESARE
(I, 183-203)

Iam gelidas Caesar cursu superaverat Alpes
ingentesque animo motus bellumque futurum
ceperat. Ut ventum est parvi Rubiconis ad undas
ingens visa duci patriae trepidantis imago
clara per obscuram voltu maestissima noctem
turrigero canos effundens vertice crines
caesarie lacera nudisque adstare lacertis
et gemitu permixta loqui: “Quo tenditis ultra?
Quo fertis mea signa, viri? Si iure venitis,
si cives, huc usque licet”. Tum perculit horror
membra ducis, riguere comae gressumque coercens
languor in extrema tenuit vestigia ripa.
Mox ait “O magnae qui moenia prospicis urbis
Tarpeia de rupe Tonans Phrygiique penates
gentis Iuleae et rapti secreta Quirini
et residens celsa Latiaris Iuppiter Alba
Vestalesque foci summique o numinis instar
Roma, fave  oeptis. Non te furialibus armis
persequor: en, adsum victor terraque marique
Caesar, ubique tuus (liceat modo, nunc quoque) miles.
Ille erit, ille nocens, qui me tibi fecerit hostem”.

Cesare aveva superato nella sua corsa le fredde Alpi e aveva concepito nell’animo grandi piani e la guerra futura. Appena giunse alle rive del piccolo Rubicone, apparve al comandante la grande e trepidante immagine della patria, luminosa nell’oscura notte con volto tristissimo, spargendo i capelli bianchi dalla testa turrita, con la chioma strappata e le braccia nude si ergeva e mista ai gemiti parlava: “Dove volete proseguire ancora? Dove portate le mie insegne, uomini? Se venite legalmente, se siete cittadini, fino a qui è lecito arrivare”. Allora l’orrore percorse le membra del condottiero, gli si rizzarono i capelli, e attanagliandolo un grosso languore si fermò nell’estremità della riva. Subito disse: “O Giove Tonante, che dalla rupe Tarpea guardi le mura delle città e i Frigi Penati della stirpe Iulia e i misteri di Romolo rapito in cielo, e il Giove Laziare che risiede nell’alta Alba e i fuochi delle Vestali e tu, o Roma, simile al grande dio, favorite le mie iniziative. Non ti assalgo con le armi delle Furie: ecco, il presente Cesare vincitore per terra e per mare, e dovunque tuo sodato (il solo che sia lecito, anche adesso). Quello sarà, quello il malefico, che mi avrà reso tuo nemico.

In questo passo, il nostro riprendendo la tecnica della prosopopea presente nella Catilinaria di Cicerone, ci presenta la patria come un fantasma che appare nella notte e che prega Cesare di desistere dall’attaccarla: scapigliata, priva di forze, vecchia, chiede al comandante di non profanarla. E’ qui che Lucano vuole sottolineare la temerarietà dell’uomo che compie un nefas, chiedendo l’aiuto degli dei. E’ il furor che lo spinge, che non riesce ad insegnargli il limite invalicabile che trasforma un civis in un hostis della patria.

Se Cesare è un personaggio “psicologicamente” statico, la cui determinazione è ben sviluppata sin dall’inizio del poema, quello di Pompeo, visto nella sua neghittosità, in questa incapacità d’agire, sembra piano piano maturare nel corso del poema verso una maggiore consapevolezza: lo si veda dapprima in questo ritratto, dove viene “negativamente” descritto insieme alla mala temeritas cesariana: 

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Pompeo e Cesare ritratti in un affresco di Taddeo di Bartolo (1414)

POMPEO E CESARE
(I, 129-157)

Nec coiere pares. Alter vergentibus annis
in senium longoque togae tranquillior usu
dedidicit iam pace ducem, famaeque petitor
multa dare in volgus, totus popularibus auris
inpelli plausuque sui gaudere theatri
nec reparare novas vires, multumque priori
credere fortunae. Stat magni nominis umbra,
qualis frugifero quercus sublimis in agro
exuvias veteris populi sacrataque gestans
dona ducum nec iam validis radicibus haeret
pondere fixa suo est, nudosque per aera ramos
effundens trunco, non frondibus, efficit umbram,
et quamvis primo nutet casura sub Euro,
tot circum silvae firmo se robore tollant,
sola tamen colitur. Sed non in Caesare tantum
nomen erat nec fama ducis, sed nescia virtus
stare loco, solusque pudor non vincere bello.
Acer et indomitus, quo spes quoque ira vocasset,
ferre manum et numquam temerando parcere ferro,
successus urguere suos, instare favori
numinis, inpellens quidquid sibi summa petenti
obstaret gaudensque viam fecisse ruina.
Qualiter expressum ventis per nubila fulmen
aetheris inpulsi sonitu mundique fragore
emicuit rupitque diem populosque paventes
terruit obliqua praestringens lumina flamma:
in sua templa furit, nullaque exire vetante
materia magnamque cadens magnamque revertens
dat stragem late sparsosque recolligit ignes.

Né si scontrarono alla pari. L’uno al declinare degli anni in vecchiaia, meno impetuoso per il lungo uso della toga ha già disappreso nella pace la parte del condottiero, e assetato di gloria molto concedeva al volgo, si lasciava spingere interamente dal favore popolare e si compiaceva degli applausi del suo teatro, non preparava nuove forze e si affidava molto alla fortuna passata. Si erge, ombra di un grande nome, quale una quercia maestosa in un fertile terreno, adorna delle spoglie di un popolo antico e delle sacre offerte dei capi, non si abbarbica più con forti radici, ristà sul suo peso effondendo per l’aria i nudi rami, ombreggia solamente con il tronco, non con le fronde; ma, sebbene oscilli sul punto di cadere al primo soffio dell’Euro, e si levino intorno tanti solidi alberi, tuttavia essa soltanto è venerata. In Cesare non era solo un nome, una gloria di capo, ma un valore instancabile, ed unica vergogna vincere senza combattere; forte e indomito, dovunque lo chiamava la speranza o l’ira, portava la mano e mai risparmiava il ferro nell’offesa, incalzava la vittoria, sforzava il favore divino, avventandosi su qualunque cosa ostacolasse la sua brama di do-minio e compiacendosi di essersi aperto la via seminando rovine. Così il fulmine sprigionato dai venti attraverso le nubi balena con lo strepitio dell’etere percosso e il fragore del-l’universo, e squarcia il giorno e atterrisce i popoli tremanti, accecandoli con la fiamma guizzante; infuria negli spazi celesti, e poiché nessuna materia si oppone al suo scatenarsi, piombando e impennandosi infligge una grande, vasta strage e riunisce i fuochi sparsi.

Il passo presenta una tecnica descrittiva basata sulla “similitudine”: ma tale similitudine avviene per contrasto, assumendo connotati fortemente negativi:

  • Pompeo/quercia: alla stabilità della pianta fa riscontro la sua inamovibilità, una “potenza” che riflette se stessa ed i cui rami non danno ombra. Per meglio dire la forte quercia non è più stabile se messa a dura prova con il vento;
  • Cesare/lampo: alla velocità dell’effetto atmosferico corrisponde la distruzione di ogni cosa, quindi il lampo Cesare, s’accompagna con il tuono, con tutto il suo potere di annientamento verso qualsiasi forma di libertà.

Ma vediamo come si prospetta la “maturazione” di Pompeo, nelle sue ultime parole:
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Anonimo: La morte di Pompeo

MORTE DI POMPEO
(VIII, 622-635)

“Saecula Romanos numquam tacitura labores
attendunt, aevumque sequens speculatur ab omni
orbe ratem Phariamque fidem: nunc consule famae.
Fata tibi longae fluxerunt prospera vitae:
ignorant populi, si non in morte probaris,
an scieris adversa pati. Ne cede pudori
auctoremque dole fati: quacumque feriris,
crede manum soceri. Spargant lacerentque licebit,
sum tamen, o superi, felix, nullique potestas
hoc auferre deo. Mutantur prospera vita,
non fit morte miser. Videt hanc Cornelia caedem
Pompeiusque meus: tanto patientius, oro,
claude, dolor, gemitus: gnatus coniunxque peremptum,
si mirantur, amant.”

I secoli che mai taceranno i travagli romani mi osservano, il futuro contempla da tutte le parti del mondo la lealtà e la nave di Faro: ora pensa alla gloria. Hai trascorso una lunga vita tra prosperi eventi; i popoli non sanno, a meno che non lo provi nel morire, che sai sopportare le avversità. Non cedere all’onta, non dolerti dell’esecutore del fato: qualunque mano ti colpisce, è la mano del suocero. Mi lacerino le membra, le disperdano; tuttavia sono fortunato o Celesti, e nessuno di voi potrà privarmi di questo. Muta la prosperità nella vita; non si diviene sventurati con la morte. Cornelia e il mio Pompeo assistono all’assassinio. Con tanta più forza, dolore, ti prego, soffoca i gemiti; se il figlio e la sposa mi ammirano in morte, mi amano.

Quanta dignità dà Lucano all’eroe “negativo” che egli ha cantato, anche criticandolo. Le sue parole finali, infatti, lo fanno riscattare verso una morte giusta, quasi stoicamente vissuta, lottando non solo contro Cesare, ma contro l’avverso destino della repubblica e quindi della libertà.

Ma a essere cantato alla luce della virtus stoica e quindi della piena consapevolezza della libertas che laddove manca politicamente, non è possibile esercitare pubblicamente, è certamente Catone:Guillaume_Guillon_Lethière_-_Death_of_Cato_of_Utica_-_WGA12907.jpg

Guillame Guillon: La morte di Catone l’Uticense (1795)

CATONE
(II, 380-391)

Hi mores, haec duri inmota Catonis
secta fuit, servare modum finemque tenere
naturamque sequi patriaeque inpendere vitam
nec sibi sed toti genitum se credere mundo.
Huic epulae vicisse famem, magnique penates
summovisse hiemem tecto, pretiosaque vestis
hirtam membra super Romani more Quiritis
induxisse togam, Venerisque hic us usus,
progenies: urbi pater est urbique maritus,
iustitiae cultor, rigidi servator honesti,
in commune bonus; nullosque Catonis in actus
subrepsit partemque tulit sibi nata voluptas.

Questi i costumi e l’immota disciplina dell’austero Catone, serbare la misura, tenersi nei limiti, seguire la natura, sacrificare la vita alla patria, non credersi nato per sé ma per tutti gli uomini. Un banchetto per lui, aver vinto per lui; sontuosi Penati, un tetto che lo riparasse dalla tempesta; una veste preziosa, la ruvida toga gettata sulle spalle al modo di antico Quirite; fine supremo dei rapporti di Venere; la prole; padre e marito di Roma, cultore della giustizia; custode della rigorosa onestà, virtuoso nel comune interesse; mai, in nessun atto di Catone, s’insinuò ed ebbe qualche parte un piacere egoista.

La figura di Catone sembra, infatti, conservare la piena consapevolezza stoica che possiamo così riassumere, anche grazie a quello stoicismo così tratteggiato dallo zio filosofo:

  • autarkeia: allontanamento dalle passioni (serbare la misura, attenersi ai limiti);
  • trovarsi in accordo con la natura, seguendone la ratio ossia il flusso di vita dettata a lei dalla ratio che la presiede;
  • impegno per tutti gli uomini (cosmopolitismo stoico).

DECADENTISMO

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Il Decadentismo trova il suo nome dal titolo di una rivista artistico-letterario fondata da Anatole Baju per ospitare la nuova poesia simbolista e che così recita: “L’uomo moderno è un blasé. Raffinamento dei desideri, delle sensazioni, dei gusti, del lusso, dei piaceri, nevrosi, isteria, ipnotismo, morfinomania, ciarlataneria scientifica, schopenhauerismo a oltranza, questi sono i prodromi dell’evoluzione della società”.

Tale movimento rappresenta un fenomeno letterario complesso che trova la sua origine nella disillusione che la scienza possa spiegare la totalità della realtà ed i meccanismi che stanno alla base del vivere umano.

Non dobbiamo dimenticare, d’altra parte, che esso convive, sebbene in apparenza in modo secondario, con il Positivismo, ma sarà proprio quando tale ideologia entrerà in crisi, che la nuova ideologia troverà la forza per affermarsi. E la crisi arriverà sia per motivi, diremo così, strutturali, sia per motivi che, partendo dal primato della scienza stessa, la metteranno in crisi. Era infatti lo stesso sapere filosofico/scientifico che, specializzandosi sempre più, era arrivato a mettere in discussione le sue metodologie, scardinando le coordinate spazio-temporali che avevano sorretto ogni forma di conoscenza e d’indagine sulla realtà e mettendo in crisi i metodi con cui, fino ad allora, erano stati condotti gli studi sull’uomo.

I pensatori che attuarono, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, un cambiamento nel pensiero occidentale furono tra gli scienziati Albert Einstein, Max Planck e Sigmund Freud e tra i filosofi Friedrich Nietzsche e Henry Bergson.

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Albert Einstein

Albert Einstein (1879-1955) elabora, ad inizio secolo, la teoria della relatività, mentre Max Planck (1858-1947) quella dei quanti; ambedue sconvolgono i tradizionali parametri di interpretazione del mondo: spazio e tempo non sono più verità assolute, valide in sé in quanto espressione della realtà oggettiva, ma categorie strumentali relative, dipendenti dai sistemi di riferimento prescelti. Nella nuova fisica di Einstein spazio e tempo costituiscono una struttura unica che è sempre in stretta relazione con le masse in essa presenti (ciò che siamo abituati a concepire come entità a sé stanti – come il tempo, lo spazio o la materia – in realtà sono soltanto aspetti o dimensioni dell’energia, la cui essenza, peraltro, non è stata ancora del tutto chiarita. Questo comporta, tra l’altro, che la misura di quelle particolari manifestazioni dell’energia che noi siamo soliti chiamare spazio, tempo o materia, non potrà mai avere un valore assoluto, ma differente a seconda della maggiore o minore quantità di energia da cui esse dipendono). 

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Max Planck

In sostanza sia Einstein che Planck dimostravano che anche le scienze cosiddette esatte (matematica, fisica e geometria) si fondano su presupposti convenzionali e relativi.

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Sigmund Freud

Ripercussioni ancora più importanti sulla cultura del Novecento ha avuto la messa a punto, all’inizio del secolo, di un metodo di indagine interiore, detto psicoanalisi, per la cura delle malattie psichiche. L’inventore di questo metodo è stato Sigmund Freud (1856-1939), neurologo viennese di origini ebraiche, il quale, muovendo dallo studio clinico dell’isteria, elaborò una teoria complessiva delle nevrosi e dei disturbi della psiche in genere.

All’origine di tali disturbi egli individuò il mancato equilibrio tra tre livelli della vita psichica dell’individuo: Es, Io, Super-Io:

  • L’Es corrisponde alle pulsioni e agli istinti più profondi, alle paure e ai traumi che risiedono nell’inconscio e che la coscienza ha accettato e ha censurato (rimosso).
  • Il Super-Io è invece l’insieme delle regole e degli insegnamenti che, fin dall’infanzia, ci vengono impartiti; il Super-Io, in altre parole, corrisponde alle norme morali e svolge di solito una funzione repressiva nei confronti dell’Io.
  • L’Io è la parte cosciente, che mira a raggiungere l’equilibrio con l’ambiente che lo circonda esercitando una funzione di mediazione tra l’Es e il Super-Io. Compito dell’analista è ristabilire tale equilibrio, quando l’individuo non è più in grado di farlo autonomamente, decodificando l’inconscio; via d’accesso all’inconscio sono per Freud i sogni, popolati di immagini che possono rivelare i processi più segreti della vita psichica, quelli che la ragione tenta di smascherare.

Gli scritti di Freud, avvertiti all’epoca come contrari alla morale comune e rivoluzionari per la loro portata teorica, influenzarono profondamente la cultura del Novecento in particolare per la separazione tra lato cosciente e incosciente della psiche umana, per l’importanza riconosciuta alle pulsioni dell’Io profondo (per es. quelle erotiche) e per il significato rivelatore dei sogni, dei lapsus e degli atti mancati.

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Un’altra immagine di Sigmund Freud

La psicanalisi, mettendo in dubbio l’idea umanistica del primato della volontà e della ragione sugli istinti, ha avuto la forza di mandare in frantumi la visione unitaria e ottimistica dell’uomo (padrone di sé e del proprio destino) propria dei secoli precedenti (dall’Umanesimo al Romanticismo e al Positivismo). Il dato sconvolgente e innovativo è che l’agire umano appare condizionato non solo dalle logiche consapevoli e razionali, ma anche da uno strato profondo e oscuro dell’io – che Freud definisce inconscio – nel quale si sedimentano impulsi e tensioni normalmente repressi dalle convenzioni sociali e dalla morale.

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Friedrich Nietzsche a Torino

Friedrich Nietzsche (1844-1900) elabora innanzitutto la teoria del nichilismo (elaborando in forma filosofica quanto già espresso da Turgenev e dal contemporaneo Dostoevskij), che nega l’universalità e l’assolutezza di qualsiasi valore e di qualsiasi verità; per Nietzsche – e sta qui la profonda differenza rispetto al modello interpretativo del mondo proposto dal Positivismo – il “fatto”, il dato “positivo”, certo e analizzabile con gli strumenti dell’indagine scientifica, non esisterebbe più; la verità oggettiva ed esclusiva (quello che Nietzsche chiama “Dio”) sarebbe “morta”, lasciando il posto a tante possibili verità o interpretazioni del fatto stesso, tutte relative e provvisorie.

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Friedrich Nietzsche, Lou Salomé e Paul Ree

Alla luce di questa concezione, anche la morale rivela il proprio carattere falso e illusorio: per Nietzsche non esistono infatti né un sistema etico cui dover fare stabilmente riferimento, né modelli di comportamento universalmente validi; in secondo luogo, in Così parlo Zarathustra (1883-1885) egli elabora la teoria dell’Uebermensch, di una nuova umanità che sia in grado di superare (ueber= oltre) la vecchia oppressa da un sistema di valori e di verità superati, la cui universale validità è stata annientata; “l’oltre uomo” o “oltre umanità” (Mensch in tedesco assume anche questo significato) è per Nietzsche l’uomo nuovo, libero dai condizionamenti della morale comune, l’uomo che si impegna a realizzare totalmente se stesso, superando gli ostacoli, morali e ideologici, che possono reprimere i suoi desideri e le sue aspirazioni; infine, nella Nascita della tragedia, egli pone in risalto la contrapposizione tra lo spirito apollineo che simboleggia la razionalità, il dominio degli impulsi vitali e l’arido intellettualismo (controllo delle passioni, distacco dall’immediatezza della vita, dominio degli istinti, calma, serenità, compostezza), e lo spirito dionisiaco o volontà di potenza che è invece la tendenza opposta, ovvero la propensione all’ebbrezza vitalistica, all’istintività corporale e naturale, all’ebbrezza, e il desiderio di agire, sia in ambito pratico sia in quello artistico e creativo, anche contro le convenzioni sociali, con il solo obiettivo di realizzare le proprie aspirazioni (lo spirito dionisiaco incarna la parte istintuale, violenta e sfrenata dell’animo umano).

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Henry Bergson

Secondo il filosofo francese Henry Bergson il concetto di tempo non può esaurirsi nella nozione meccanicistica e deterministica proposta dal Positivismo. Centrale nel suo pensiero è l’idea del tempo che sfugge alle “matematiche”, cioè alla misurazione oggettiva, matematica; egli si oppone cioè alla tradizionale concezione con la quale la scienza aveva rappresentato il tempo, concepito come successione di istanti omogenei, oggettivamente misurabili e quantificabili. Il filosofo elaborò la definizione di tempo come “durata pura”: si tratta del tempo connaturato alla vita della coscienza, per la quale la durata è fluire continuo, movimento e molteplicità. Nel tempo come durata tutti gli istanti coesistono e si sovrappongono in un fluire continuo, in un continuum che non li annienta ma li conserva (nella nostra memoria si sovrappongono continuamente immagini del passato lontano e recente insieme e al contempo del presente che stiamo vivendo e del futuro che stiamo progettando: il tempo è una dimensione interiore, una durata, un continuum in cui convivono le tre dimensioni di passato, presente e futuro). E’ una concezione soggettiva del tempo che ebbe grande influsso sulla narrativa del Novecento. L’altro aspetto della filosofia bergsoniana che influenzò notevolmente la letteratura e l’arte di questo periodo riguarda il processo conoscitivo che risolve attraverso l’intuizione (dunque attraverso l’irrazionale), la sola che consente una conoscenza profonda della realtà.

Le teorie di Einstein, di Bergson e di Freud, al di là del loro contributo scientifico e le speculazioni filosofiche di Nietzsche e di Bergson sconvolgono completamente il sapere classico che si era orientato nel distacco tra l’io ed il mondo, distacco necessario per conoscerlo; ora questo distacco non è più possibile, il mondo non è più conoscibile attraverso le categorie spazio/temporali, me “soggettivamente” in quanto questo stesso mondo è entrato dentro di noi e solo noi possiamo scavarne il vero senso attraverso processi intuitivi ed irrazionali. E’ evidente che tale situazione culturale mette in crisi la fiducia nel sapere scientifico che era stato alla base del Positivismo, ma è proprio nella sua massima affermazione che mostra le sue pieghe, in quanto, delegando l’arte ad interpretazione di un qualcosa d’altro da se stessa, aveva costretto alcuni intellettuali francesi a ridiscutere la funzione del fare arte e dell’essere poeta in una società in cui “tutto è già scritto nel rapporto causa-effetto” (saranno costoro i Simbolisti).

D’altra parte bisogna ricordare che la storia “politica” dell’Europa stessa aveva decretato la fine di questa spinta propulsiva che l’aveva portata a ridisegnare i propri confini e ad affermare il concetto di unità “patriottica” attraverso la formazione della Grecia, sin dal 1830 e poi quella italiana e germanica.

Questo cambiamento, riassumendo in modo estremamente sintetico, si può definire attraverso tre processi:

  • progresso tecnologico e scientifico (fra cui anche quello medico): aumento demografico e “modernizzazione” delle città: gas elettrico, le prime macchine, telegrafo, fotografia. Ciò porta ad una forte urbanizzazione cui risponde una netta divisione, all’interno di essa, tra le classi sociali: l’esplosione della Comune di Parigi nel 1871 è la risposta di questa situazione; inoltre dall’ultimo ventennio del secolo fino allo scoppio della grande guerra nasce il fenomeno della belle epoque.

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Immagine di gruppo con Guardie Nazionali e membri della Comune a Parigi (1871)

  • Sempre alla fine dell’Ottocento si assiste ad una decelerazione economica dovuta alla libera circolazione che porta ad un eccesso di beni, aumentato anche dall’affacciarsi, in modo piuttosto “prepotente” dell’economia degli Stati Uniti. Ciò conduce gli Stati ad una sorta di protezionismo e al bisogno di cercare “materie prime” a prezzi concorrenziali. Inizia la colonizzazione dell’Africa e dell’Asia che trova in prima linea la Francia e l’Inghilterra (anche l’Italia cercherà di entrare nel gioco);

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Schiavi scortati in Africa

  • Quanto detto sinora porta di conseguenza ad una politica imperialista che si trasforma, diremo quasi automaticamente, in nazionalismo ed autoritarismo. A dare la stura a tale ideologia è certamente il cancelliere tedesco Otto von Bismark (1815-1898) che trasforma la Germania in una potente macchina statale e militare, accentuando la conflittualità con la Francia.

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Otto von Bismarck

  • Anche l’Italia cerca, in modo minore, d’imporsi a livello autoritario: Francesco Crispi (1818-1901) alimenta il mito della forte nazione. Perso il potere dopo la sconfitta di Adua, l’Italia viene attraversata da forti scontri sociali come dei Fasci siciliani (1894) o con il durissimo scontro avvenuto a tra scioperanti e l’esercito governativo a Milano nel 1898). Il Novecento si apre con l’assassinio da parte dell’anarchico Gaetano Bresci con l’assassinio di re Umberto I a Modena: Il governo passa a Giovanni Giolitti che con alterne fortune lo manterrà fino alla soglia della prima guerra mondiale.

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Achille Beltrami: Assassinio Di Umberto I a Monza (1900)
(Disegno per “La Domenica del Corriere”)

SIMBOLISMO ED ESTETISMO

Simbolismo

Il simbolismo nasce in Francia negli ultimi due decenni dell’Ottocento, e a farlo nascere è, come sarà poi d’abitudine per la maggior parte della letteratura Novecentesca, un Manifesto:

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Paul Gaugin : Ritratto di Jean Moréas 

JEAN MORÉAS: DA IL “MANIFESTO DEL SIMBOLISMO”

Già ci è occorso di proporre la denominazione di Simbolismo, reputandola l’unica adatta a designare con ragione la presente tendenza in arte dello spirito creatore. Riteniamo che codesta denominazione possa esser conservata. S’è detto, all’inizio di questo articolo, che le evoluzioni dell’arte presentano un carattere ciclico estremamente complicato da divergenze; così, per seguire l’esatta filiazione della nuova scuola, bisognerebbe risalire fino a certi poemi di Alfred de Vigny, fino a Shakespeare, fino ai mistici, e più distante ancora. Problemi, questi, che richiederebbero un volume intero di commenti. […]
Nemica della didattica, della declamazione, del falso sensibilismo, della descrizione oggettiva, la poesia simbolista cerca di: rivestire l’Idea d’una forma sensibile che però non si porrebbe come scopo a se stessa ma che, pur servendo ad esprimere l’idea, resterebbe soggetto. L’Idea, dal canto suo, non deve affatto lasciarsi scorgere priva dei sontuosi paludamenti delle analogie esterne, carattere essenziale dell’arte simbolista essendo il non andare mai fino alla concezione dell’Idea in sé. Così, in quest’arte, le immagini della natura, le azioni degli esseri umani, tutti i fenomeni concreti, non potrebbero trovare manifestazione, trattandosi di apparenze sensibili destinate a rappresentare, invece, le loro affinità esoteriche con le Idee primordiali.

Jean Moréas, Le Symbolisme, Le Figaro, 18.IX.1886

Nel Manifesto di Jean Moréas si possono cogliere due aspetti fondamentali:

  • il richiamo a poeti che, partendo dalla linea del misticismo medioevale fino al poeta francese romantico Alfred de Vigny, sono lontani dalla linea realista che faceva perno sia al “positivismo” che al “naturalismo”;
  • la poesia simbolista descrive un oggetto concreto non come fine, ma come mezzo per rappresentare un’Idea, che non possiede altri mezzi che il dato sensibile per essere rappresentata.

E’ evidente che tale poetica prenda spunto dal Romanticismo, da quel filone che potremmo definire “mistico” e che conviva come sensibilità, con il lato “realista” del romanticismo stesso; è altrettanto evidente che dietro l’ideologia del simbolismo vi sia il “rimprovero” verso il positivismo e il naturalismo, con la loro pretesa di spiegare tutto il reale attraverso l’uso della parola, non accorgendosi che essa, in quanto umana, è limitata, e non può cogliere gli aspetti, per così dire, che travalicano questa realtà (aspetti metafisici o inconsci).

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Charles Baudelaire

La teorizzazione del simbolismo segue la produzione poetica di colui che ne è considerato il padre dagli stessi poeti di fine Ottocento, Charles Baudelaire.

Nato nel 1821 da una famiglia borghese, sin dall’adolescenza ebbe un tormentatissimo rapporto con la madre che, rimasta presto vedova, si risposò con un ufficiale dal carattere chiuso ed austero. L’avversione verso il patrigno gli fece abbandonare la casa e cominciò a fare una vita solitaria e sregolata. Viaggiò in Oriente e tornò dopo aver ottenuto parte dell’eredità paterna. Cominciò a frequentare i circoli letterari e a fare uso di droghe e di alcol, tanto che gli stessi genitori lo interdirono. E’ un momento poco felice della sua vita ma è proprio in questo periodo che pubblica i Fiori del male (1855), che suscitò sin da subito vasto clamore e scandalo per i benpensanti. L’opera venne in parte censurata, e, oltre a dover pagare una somma di ammenda, fu anche costretto a sostituire poesie che erano considerate “scandalose”. Si mise a scrivere prose per alcune riviste (pubblicate in seguito come Poemetti in prosa). Ma intanto la sua malattia, contratta sin da giovane età, si aggrava portandolo ad una precoce morte nel 1867.

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Progetto di frontespizio per “Le fleurs du mal”

Il suo capolavoro è la raccolta poetica Les fleurs du mal (I fiori del male), pubblicata in tre edizioni: 1855, 1857 e, ultima, 1861, composta da 126 liriche. Alla sua morte gli amici approntano un ulteriore edizione aggiungendovi altre poesie, raggiungendo così la somma di 151 testi poetici. E’ questa un’opera organica divisa in sei sezioni: la prima Spleen e Ideale in cui alla “bruttezza” della quotidianità egli oppone l’idea dell’“Ideale” nella bellezza dell’arte, dell’amore, della purezza; seguono le sezioni Quadri parigini, Il vino, I fiori del male in cui il poeta cerca di fuggire dallo spleen che lo attanaglia. Al fallimento di questi tentativi non rimane che la Rivolta (quinta sezione) in cui avviene la contestazione verso la mediocrità e l’impossibilità di sfuggire da essa, a cui fa seguito La morte (ultima sezione) che si disegna come viaggio verso un futuro utopico.

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L’ALBATRO

«Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage
Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers,
Qui suivent, indolents compagnons de voyage,
Le navire glissant sur les gouffres amers.

Il pene les ont-ils déposés sur les planches,
Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux,
Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
Comme des avirons traîner à côté d’eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid!
L’un agace son bec avec un brûle-gueule,
L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!

Le Poète est semblable au prince des nuées
Qui hante la tempête et se rit de l’archer ;
Exilé sur le sol au milieu des huées,
Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.

Spesso, per divertirsi, i marinai // catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, // indolenti compagni di viaggio delle navi // in lieve corsa sugli abissi amari. // L’hanno appena posato sulla tolda // e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso, // pietosamente accanto a sé strascina // come fossero remi le grandi ali bianche. // Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! // E comico e brutto, lui prima così bello! // Chi gli mette una pipa sotto il becco, // chi imita, zoppicando, lo storpio che volava! // Il Poeta è come lui, principe delle nubi // che sta con l’uragano e ride degli arcieri; // esule in terra fra gli scherni, impediscono // che cammini le sue ali di gigante.

Fa parte della prima sezione (la più lunga) ed è posta come seconda dell’intera raccolta, a sottolineare la condizione di poeta. Essa è nettamente divisa in due: se infatti nelle prime tre strofe troviamo la descrizione dell’uccello, grandioso nei cieli, goffo in terra, nell’ultima la metafora si fa palese e all’irrisione dei marinai, corrisponde quella della borghesia rispetto al poeta. E’ l’atteggiamento già presente nella sezione: è pur vero che forse l’albatro non prova, di fronte alle beffe degli uomini di mare un vero e proprio ennui, ma certo libero di volare con le sue grandi ali egli tocca l’Ideal , le vette del pensiero. E’ che Baudelaire, più profondamente degli italiani suoi imitatori, in primis gli scapigliati, non può ignorare che forse le altezze celesti non interessano più e che non solo il popolo può schernire le bellezze della poesia, ma che anche la poesia non sa più parlare loro in quanto non ne ha imparato il linguaggio.

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Gustave Courbet: Ritratto di Baudelaire

Maggiore complessità interpretativa ha la poesia Corrispondenze:

CORRISPONDENZE

La Nature est un temple où de vivants piliers
laissent parfois sortir de confuses paroles;
l’homme y passe à travers des forêts de symboles
qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent
dans une ténébreuse et profonde unité,
vaste comme la nuit et comme la clarté,
les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
– et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

ayant l’expansion des choses infinies,
comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

La Natura è un tempio dove incerte parole / mormorano pilastri che son vivi, / una foresta di simboli che l’uomo / attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari. // Come echi che a lungo e da lontano / tendono a un’unità profonda e buia / grande come le tenebre o la luce / i suoni rispondono ai colori, i colori ai profumi. // Profumi freschi come la pelle d’un bambino, / vellutati come l’oboe e verdi come i prati, / altri d’una corrotta, trionfante ricchezza // che tende a propagarsi senza fine – così // l’ambra e il muschio, l’incenso e il benzoino / a commentare le dolcezze estreme dello spirito e dei sensi.

Al topos della metafora della natura come qualcosa di sacro (Tempio) risponde la novità di un mistero profondo delle incerte parole, foreste di simboli che condividiamo con lei, in quanto familiare. Il suo profondo entra cioè in contatto col nostro profondo. La sacralità della natura è descritta come misteriosa unità che tutto richiama in un unico linguaggio che il poeta deve cogliere. A tale scopo il testo presenta significative sinestesie (Profumi di carne, mente e sensi) che rimandano a profonde analogie all’interno di un’unità della percezione che ne sottolinea l’incredibile modernità dai cui si è abbeverata, grazie a lui, l’intero percorso poetico del Novecento.

Sempre dalla prima parte della raccolta, Baudelaire, dopo aver descritto il poeta ne L’albatro e la sua funzione nel cogliere il mistero della natura, in Corrispondenze, passa ora a definire cosa egli intenda per Spleen:

SPLEEN

Quand le ciel bas et lourd pèse comme un couvercle
Sur l’esprit gémissant en proie aux longs ennuis,
Et que de l’horizon embrassant tout le cercle
Il nous verse un jour noir plus triste que les nuits;
Quand la terre est changée en un cachot humide,
Où l’Espérance, comme une chauve-souris,
S’en va battant les murs de son aile timide
Et se cognant la tête à des plafonds pourris;
Quand la pluie étalant ses immenses traînées
D’une vaste prison imite les barreaux,
Et qu’un peuple muet d’infâmes araignées
Vient tendre ses filets au fond de nos cerveaux,
Des cloches tout à coup sautent avec furie
Et lancent vers le ciel un affreux hurlement,
Ainsi que des esprits errants et sans patrie
Qui se mettent à geindre opiniâtrément.

Et de longs corbillards, sans tambours ni musique,
Défilent lentement dans mon âme; l’Espoir,
Vaincu, pleure, et l’Angoisse atroce, despotique,
Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir.

Quando, come un coperchio, il cielo basso e greve /  schiaccia l’anima che geme nel suo tedio infinito, / e in un unico cerchio stringendo l’orizzonte /  fa del giorno una tristezza più nera della notte; / quando la terra si muta in un’umida segreta / dove, timido pipistrello, la Speranza / sbatte le ali contro i muri e batte con la testa / nel soffitto marcito; / quando le strisce immense della pioggia / d’una vasta prigione sembrano le inferriate / e muto, ripugnante un popolo di ragni / dentro i nostri cervelli dispone le sue reti, / furiose a un tratto esplodono campane / e un urlo tremendo lanciano verso il cielo, / così simile al gemere ostinato / d’anime senza pace né dimora. // Senza tamburi, senza musica, dei lunghi funerali / sfilano lentamente nel mio cuore: Speranza / piange disfatta e Angoscia, dispotica e sinistra, / pianta sul mio cranio riverso la sua bandiera nera.

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Il testo nell’originale francese è composto da versi alessandrini (doppio settenario) a rima alternata, con la parola Quand e la congiunzione Et in anafora.

Il poeta spiega lo spleen esistenziale attraverso similitudini: cielo / coperchio; terra / cella umida; pipistrello / speranza; pioggia / prigione; a queste si aggiungono le metafore dei ragni e le campane, uno metafora dei pensieri distruttivi e l’altro di spiriti erranti. L’ultima immagine disegna la vittoria dell’angoscia (metaforizzata come un lungo funerale) che pianta il suo vessillo di vittoria nella mente del poeta.

Tutta la poesia gioca su immagini che trasportano la realtà di una giornata parigina all’interno di una camera in un vissuto, in cui l’io la reinterpreta come momento in cui l’Ideal viene schiacciato dallo spleen, da questa sensazione intraducibile che indica insieme angoscia, disperazione, malinconia, insomma una vera e propria “malattia dell’anima”. L’opposizione cielo / terra non disegna come nell’Albatro, un luogo puro contro uno “prosaico”: qui il cielo partecipa con il suo peso sulla psiche del poeta, la cui mente e pervasa da “neri” pensieri che impediscono alle speranze di spiccare il volo (i pipistrelli che sbattono sui muri). E’ che tale sensazione Baudelaire la risolve con un nitore poetico oserei dire classico, che, tuttavia, riesce a “sporcare” con parole non poetiche “coperchio”, “cranio” che tuttavia, proprio perché isolate nel tessuto linguistico prendono forza ad indicare lo schiacciamento psichico dell’animo del poeta.

Ancora dalla prima parte della raccolta un altro topos dell’ispirazione baudelairiana il viaggio:

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Jeanne Duval: la donna amata da Baudelaire

INVITO AL VIAGGIO

Mon enfant, ma soeur,
Songe à la douceur
D’aller là-bas vivre ensemble!
Aimer à loisir,
Aimer et mourir

Au pays qui te ressemble!
Les soleils mouillés

De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l’ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l’âme en secret
Sa douce langue natale.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l’humeur est vagabonde;
C’est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu’ils viennent du bout du monde.
Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D’hyacinthe et d’or;
Le monde s’endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n’est qu’ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Sorella mia, mio bene, / che dolce noi due insieme, / pensa, vivere là! / Amare a sazietà, / amare e morire / nel paese che tanto ti somiglia! / I soli infradiciati / di quei cieli imbronciati / hanno per il mio cuore / il misterioso incanto / dei tuoi occhi insidiosi / che brillano nel pianto. // Là non c’è nulla che non sia beltà, / ordine e lusso, calma e voluttà. // Mobili luccicanti / che gli anni han levigato / orneranno la stanza; / i più rari tra i fiori / che ai sentori dell’ambra / mischiano i loro odori, / i soffitti sontuosi, / le profonde specchiere, l’orientale / splendore, tutto là / con segreta dolcezza / al cuore parlerà / la sua lingua natale. //  Là non c’è nulla che non sia beltà, / ordine e lusso, calma e voluttà. // Vedi su quei canali / dormire bastimenti / d’animo vagabondo, / qui a soddisfare i minimi / tuoi desideri accorsi / dai confini del mondo. / Nel giacinto e nell’oro / avvolgono i calanti / soli canali e campi / e l’intera città / il mondo trova pace / in una calda luce. // Là non c’è nulla che non sia beltà / ordine e lusso, calma e voluttà.

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Thomas Couture, Baudelaire et la Président Sabatier, 1850

“Sogno di un viaggio” sarebbe forse il titolo più adatto a tale lirica, giustificato da quel “songe” (in italiano “ci pensi”) in cui il poeta ci porta in un altrove, dove immagina di stare con la sua donna. Infatti nella prima strofa la luce velata riflette i suoi umidi occhi, nella seconda la rara vegetazione rimanda ad un luogo intimo in cui consumare i frutti dell’amore e nell’ultima i vascelli dormienti al porto, il desiderio ormai consumato.

E’ l’analogia a dominare in questo canto, dove le parole chiave bellezza, lusso, calma e voluttà, ripetute nei tre refrains sembrano suggerire un luogo sognato, non esistente, edenico/edonistico insieme, dove si mescolano abilmente, grazie proprio al rapporto analogico tra le parole piacere, bellezza ed erotismo, termini che saranno fatti propri in seguito dall’estetismo decadente.

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Ritratto di Charles Baudelaire di Émile Deroy, 1844

Ma la capacità del poeta si può misurare anche in alcuni testi tratti da Quadri parigini, come il famoso I ciechi:

LES AVEUGLES 

Contemple-les, mon âme; ils sont vraiment affreux!
Pareils aux mannequins; vaguement ridicules;
Terribles, singuliers comme les somnambules;
Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux.

Leurs yeux, d’où la divine étincelle est partie,
Comme s’ils regardaient au loin, restent levés
Au ciel; on ne les voit jamais vers les pavés
Pencher rêveusement leur tête appesantie.

Ils traversent ainsi le noir illimité,
Ce frère du silence éternel. Ô cité!
Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles,

Éprise du plaisir jusqu’à l’atrocité,
Vois! je me traîne aussi! mais, plus qu’eux hébété,
Je dis: Que cherchent-ils au Ciel, tous ces aveugles?

Anima mia, contemplali: sono orribili! / Sembrano manichini, vagamente ridicoli, / terribili, strani come i sonnambuli, / che dardeggiano chissà dove i globi tenebrosi. // Quegli occhi, da cui è svanita la scintilla divina, // restano levati verso il cielo, come se guardassero / lontano; non si vedono mai chini / verso terra, pensosi, con la testa appesantita. // Attraversano così il buio infinito, / fratello del silenzio eterno. Guarda, / città che intorno a noi canti, ridi e strepiti! // Città amante del piacere fino all’atrocità, / guarda! Mi trascino anch’io, inebetito più di loro, / e dico: Ma che cercano in Cielo tutti questi ciechi?

Il sonetto del poeta francese si può dividere in due sequenze: la prima corrispondente alle due quartine descrive la condizione dei non vedenti, la seconda, riflessiva fa sì che il poeta si confonda con loro.

Anche tale visione può ripercorrere quella dell’albatro: il cielo verso cui le palle di vuoto rivolgono lo sguardo, stanno quasi a simboleggiare lo sguardo visionario, puro del poeta; il selciato, come la tolda della nave simboleggia la terra insignificante, il vivere borghese, senza ideali. Ecco allora che il poeta si sente vicino: ma c’è più disperazione qui, nel trascinarsi, nel vivere alla ricerca di qualcosa d’irraggiungibile in una speranza racchiusa da chi non può vedere.

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Gustave Courber: Paul Verlaine

Ma far nascere ufficialmente il simbolismo è Paul Verlaine (1844-1896). Egli, sulla scorta di Baudelaire, dà vita sia biograficamente che intellettualmente al nuovo “modo” di essere poeta nella società borghese. Si dà, sin da diciottenne, all’alcool, aggravando poi il vizio del bere dopo la morte del padre. Venticinquenne s’innamora della giovanissima Mathilde de Fleurville, che sposerà l’anno seguente e dalla quale avrà un figlio. Ma ciò non lo allontanerà dalla bottiglia, anzi, l’aggraverà con la nascita di un torbido rapporto con Rimbaud. Infatti, il giovanissimo poeta manda a lui otto poesie e dall’amicizia che ne deriva ne nacque un rapporto omosessuale, aggravato dalla gelosia di Verlaine, che per essa arriverà quasi ad ucciderlo con un colpo di pistola (che non avrà il suo effetto) e a mandare a monte il suo matrimonio. Verrà incarcerato per questo motivo per due anni: uscitone tenterà di riavvicinarsi ad una vita “normale” e votata alla religione, ma morirà ad appena a 52 anni per una polmonite.

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Fantin-Latour: Paul Verlaine e Arthur Rimbaud

Da ciò che si è appena detto risulta evidente che, a livello biografico, Verlaine rifiuta le regole borghesi offrendo a questi ultimi il suo scandalo d’essere poeta che vive “intensamente” la “sregolatezza” della sua esistenza. Non soltanto offre se stesso come icona del suo nuovo modo d’essere, ma se ne fa caposcuola pubblicando la raccolta Poeti maledetti nel 1884 (su cui pubblicherà lo stesso Rimbaud). La “sregolatezza” della sua vita ha origine nel dissidio tra “saggezza” e “malinconia”, che il poeta non riesce a risolvere sul piano fideistico (il suo rapporto con Dio sarà tormentato ed irrisolto), ma si scioglierà in una poesia che trascende e supera i limiti del reale. E questo vale per la maggior parte delle sue raccolte, fra cui ricordiamo i giovanili Poemi saturnini e Feste galanti; dopo l’incontro con Rimbaud Romanze senza parole e Cose lontane, cose recenti, da cui traiamo la poesia che è considerata l’emblema del simbolismo:

ARTE POETICA

De la musique avant toute chose,
Et pour cela préfère l’Impair
Plus vague et plus soluble dans l’air,
Sans rien en lui qui pèse ou qui pose.

Il faut aussi que tu n’ailles point
Choisir tes mots sans quelque méprise:
Rien de plus cher que la chanson grise
Où l’Indécis au Précis se joint.

C’est de beaux yeux derrière des voiles.
C’est le grand jour tremblant de midi.
C’est, par un ciel d’automne attiédi.
Le bleu fouillis des claires étoiles!

Car nous voulons la Nuance encor,
Pas la Couleur, rien que la nuance!
Oh! la nuance seule fi ance
Le rêve au rêve et la fl ûte au cor!

Fuis du plus loin la Pointe assassine,
L’Esprit cruel et la Rire impur.
Qui font pleurer les yeux de l’Azur,
Et tout cet ail de basse cuisine!

Prends l’éloquence et tords-lui son cou!
Tu feras bien, en train d’énergie,
De rendre un peu la Rime assagie.
Si l’on n’y veille, elle ira jusqu’où?

O qui dira les torts de la Rime?
Quel enfant sourd ou quel nègre fou
Nous a forgé ce bijou d’un sou
Qui sonne creux et faux sous la lime?

De la musique encore et toujours!
Que ton vers soit la chose envolée
Qu’on sent qui fuit d’une âme en allée
Vers d’autres cieux à d’autres amours.

Que ton vers soit la bonne aventure
Éparse au vent crispé du matin
Qui va fleurant la menthe et le thym…
Et tout le reste est littérature.

Verlaine_k_t.jpgPierre Bazin: Ritratto di Paul Verlaine

La musica prima di tutto / e dunque scegli il metro dispari / più vago e più lieve, / niente in lui di maestoso e greve. // Occorre inoltre che tu scelga / le parole con qualche imprecisione: / nulla di più amato del canto ambiguo / dove all’esatto si unisce l’incerto. // Son gli occhi belli dietro alle velette, // l’immenso dì che vibra a mezzogiorno, / e per un cielo d’autunno intepidito / l’azzurro opaco delle chiare stelle! // Perché ancora bramiamo sfumature, / sfumatura soltanto, non colore! / Oh! lo sfumato soltanto accompagna / il sogno al sogno e il corno al flauto! // Fuggi più che puoi il Frizzo assassino, / il crudele Motteggio e il Riso impuro / che fanno lacrimare l’occhio dell’Azzurro, / e tutto quest’aglio di bassa cucina! // Prendi l’eloquenza e torcigli il collo! / Bene farai, se con ogni energia / farai la Rima un poco più assennata. / A non controllarla, fin dove potrà andare? // O chi dirà i difetti della Rima? / che bambino stonato, o negro folle / ci ha fuso questo gioiello da un soldo / che suona vuoto e falso sotto la lima? // E musica, ancora, e per sempre! / Sia in tuo verso qualcosa che svola, / si senta che fugge da un’anima in viaggio / verso altri cieli e verso altri amori. // Sia il tuo verso la buona avventura / spanta al vento frizzante del mattino / che fa fiorire la menta ed il timo… / Il resto è soltanto letteratura.

E’ questa la poesia, scritta in carcere nel 1882 e pubblicata due anni dopo, che per i critici apre la stagione dei simbolisti. Verlaine, infatti, depura la poesia da ogni elemento contingente, identificandosi con la “cultura” che, sciogliendosi nell’ineffabilità della musica, finirà per riflettere se stessa. Egli rifiuta ogni aspetto intellettualistico, retorico (vedi il disprezzo della rima) per sottolineare la necessità di una poesia che s’allontani da ogni realistica precisione e cerchi come segno la vacuità e la leggerezza che marchi la differenziazione dal grigiore della quotidianità.

LANGUORE

Je suis l’Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D’un style d’or où la langueur du soleil danse.

L’âme seulette a mal au coeur d’un ennui dense.
Là-bas on dit qu’il est de longs combats sanglants.
O n’y pouvoir, étant si faible aux voeux si lents,
O n’y vouloir fleurir un peu cette existence!

O n’y vouloir, ô n’y pouvoir mourir un peu!
Ah ! tout est bu ! Bathylle, as-tu fini de rire?
Ah ! tout est bu, tout est mangé ! Plus rien à dire!

Seul, un poème un peu niais qu’on jette au feu,
Seul, un esclave un peu coureur qui vous néglige,
Seul, un ennui d’on ne sait quoi qui vous afflige!

Io sono l’Impero alla fine della decadenza, / che guarda passare i grandi barbari bianchi / componendo acrostici indolenti dove danza / il languore del sole in uno stile d’oro. // Soletta l’anima soffre di noia densa al cuore. / Laggiù, si dice, infuriano lunghe battaglie cruente. / Oh non potervi, debole e così lento ai propositi, / oh non volervi far fiorire un po’ di quest’essenza! // Oh non volervi, non potervi un po’ morire! / Ah, tutto è bevuto! Non ridi più, Batillo? / Tutto è bevuto, tutto è mangiato! / Niente più da dire! // Solo, un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme, / solo, uno schiavo un po’ frivolo che vi dimentica, / solo un tedio di non so che attaccato all’anima!

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Eugene Carrier: Ritratto di Verlaine

Anche questa appare essere una poesia manifesto: in essa vi è il senso della decadenza, cantato sin dalla prima strofa. Questa sensazione, che il poeta definisce Langueur (Languore), è rivolta contro una società opulenta che non sa più cantare o lo fa con retorica che sa ormai di vecchio e di stantio (grandi barbari bianchi componendo acrostici indolenti dove danza il languore del sole in uno stile d’oro). Solo lontano si combatte per la grandezza dell’Impero, mentre qui, dove egli immagina d’essere – un palazzo nobiliare di Parigi – coglie soltanto l’abbondanza di ricchi banchetti, dove, rivolgendosi a Betillo (mimo della cerchia di Mecenate) (tutto è bevuto, tutto è mangiato) egli percepisce che non c’è più niente da dire.

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Arthur Rimbaud

Arthur Rimbaud (1854–1891) fa un passo ulteriore rispetto a Verlaine. Se si deve parlare di “poeta maledetto” è a lui che bisogna far riferimento. Scappa sin da giovane età più volte da casa e viaggia, senza un soldo e a piedi, per l’Europa, sin da quando aveva sedici anni. Rimpatriato d’ufficio, va a Parigi, dove conosce Verlaine; finita la relazione con lui, fa altri pellegrinaggi. A ventisette chiude con la letteratura e con la vita parigina: va in Africa, si fa mercante (dicono anche di armi), finché muore, consumato da una cancrena al ginocchio dovuta forse alle sifilide, ad appena 36 anni.

Se Verlaine si pone come un sacerdote mistico teso ad individuare l’armonia musicale, Rimbaud si fa “veggente”. Egli infatti va alla ricerca dell’ignoto, attraverso la “sregolatezza di tutti i sensi”. Per lui che, come il suo amico/amante Verlaine, fa della sua vita un percorso che lo conduce verso l’abisso dell’esistere (fuga da casa, droghe, sperimentazione dell’abietto – cuoco, trafficante d’armi in Africa ecc.) la poesia deve iniziare là dove finisce la realtà ed inizia l’ignoto. L’immagine, infatti, si offre alla sua anima “smisurata” ed egli la rimanda attraverso una parola che acquista così il suo valore fonosimbolico.

Si pensi alla poesia Voyelles (Vocali):

VOCALI

A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes:
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bombinent autour des puanteurs cruelles,

golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombelles;
I, pourpres, sang craché, rire des lèvres belles
dans la colère ou les ivresses pénitentes;

U, cycles, vibrement divins des mers virides,
paix des pâtis semés d’animaux, paix des rides
que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux;

O, suprême Clairon plein des strideurs étranges,
silences traversés des Mondes et des Anges:
– O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!

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Arthur Rimbaud in un disegno di Pablo Picasso

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, / io dirò un giorno i vostri ascosi nascimenti: / A, nero vello al corpo delle mosche lucenti / che ronzano al di sopra dei crudeli fetori, // golfi d’ombra; E, candori di vapori e di tende, // lance di ghiaccio, bianchi re, brividi di umbelle; / I, porpore, rigurgito di sangue, labbra belle / Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti; // U, cicli, vibrazioni sacre dei mari verdi, / quiete di bestie ai campi, e quiete di ampie rughe / che l’alchimia imprime alle fronti studiose. / O, la suprema Tromba piena di stridi strani, / silenzi attraversati dagli Angeli e dai Mondi: / – O, l’Omega, ed il raggio violetto dei Suoi Occhi!

Vocali viene scritto nel 1871, quando Rimbaud ha appena diciassette anni, non per niente a livello retorico il sonetto è semplice, costruito sulla paratassi e sull’elenco (ad ogni vocale un immagine). Eppure tale poesia può essere considerata soprattutto per la sua oscurità un testo esemplarmente moderno, quasi novecentesco. La sua oscurità deriva dal fatto che ogni vocale è associata a una serie di immagini del tutto arbitrarie. Il sonetto dunque è intraducibile, nel senso che non può essere trascritto in una “versione in prosa”, cioè non può essere parafrasato, come è possibile fare quasi sempre con la poesia dell’Ottocento.

Questa poesia, infatti pur prendendo il lessico e la sintassi dalla lingua comune, costruisce frasi che, razionalmente, appaiono prive di senso. Insomma, questa e altre poesie di Rimbaud parlano un linguaggio radicalmente soggettivo, irriducibile al linguaggio degli altri, e quindi incomprensibile ai profani.

Questo deriva dalla sua concezione di poeta “veggente”: «Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sgretolamento di tutti i sensi. […] Egli giunge infatti all’ignoto!», scrive in una lettera ad un amico sempre nel 1871. Per Rimbaud cioè, partendo comunque dal Romanticismo, il poeta diventa creatura superiore, non tanto per un dono di natura, ma per una sorta di esercizio personale, di applicazione profonda e dolorosa, che gli fa vivere esperienze ignote alla gente comune e forma in lui una nuova sensibilità, lo dota di una nuova vista e di un nuovo linguaggio. Secondo Rimbaud il poeta è una sorta di profeta: ampliando e sconvolgendo le sue capacità sensoriali, infatti, egli acquisisce il dono della visionarietà. Questa qualità eccezionale gli permette di accedere all’ignoto e di descriverlo, di vedere ciò che è invisibile ai “sensi” normali e di dire ciò che non è dicibile con la lingua ordinaria. E ciò che è indicibile si può risolvere solo facendo ricorso alla sinestesia: “sinestetica è la mossa fondamentale sulla quale è costruito l’intero sonetto, basata sull’associazione di una vocale (nello stesso tempo un suono e una forma grafica, che stimolano l’udito e la vista) a un colore e poi a una serie di immagini che mescolano esperienze e percezioni diverse. Ma sinestetico in senso più generale è l’occhio di Rimbaud, un occhio che distingue, ma associa, confonde, sintetizza” (Marco Santagata)

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Jacques Bienvenu: Rimbaud convalescente a Bruxelles (dopo che Verlaine gli ha sparato, colpendolo in una mano)

Ma forse la poesia più famosa di Rimbaud è il Le bateau ivre (Battello ebbro):

IL BATTELLO EBBRO

Comme je descendais des Fleuves impassibles,
Je ne me sentis plus guidé par les haleurs:
Des Peaux-Rouges criards les avaient pris pour cibles,
Les ayant cloués nus aux poteaux de couleurs.

J’étais insoucieux de tous les équipages,
Porteur de blés flamands ou de cotons anglais.
Quand avec mes haleurs ont fini ces tapages,
Les Fleuves m’ont laissé descendre où je voulais.

Dans les clapotements furieux des marées,
Moi, l’autre hiver, plus sourd que les cerveaux d’enfants,
Je courus! Et les Péninsules démarrées
N’ont pas subi tohu-bohus plus triomphants.

La tempête a béni mes éveils maritimes.
Plus léger qu’un bouchon j’ai dansé sur les flots
Qu’on appelle rouleurs éternels de victimes,
Dix nuits, sans regretter l’oeil niais des falots!

Plus douce qu’aux enfants la chair des pommes sures,
L’eau verte pénétra ma coque de sapin
Et des taches de vins bleus et des vomissures
Me lava, dispersant gouvernail et grappin.

Et dès lors, je me suis baigné dans le Poème
De la Mer, infusé d’astres, et lactescent,
Dévorant les azurs verts; où, flottaison blême
Et ravie, un noyé pensif parfois descend;

Où, teignant tout à coup les bleuités, délires
Et rhythmes lents sous les rutilements du jour,
Plus fortes que l’alcool, plus vastes que nos lyres,
Fermentent les roussers amères de l’amour!

Je sais les cieux crevant en élairs, et les trômbes
Et les ressacs et les courants: je sais le soir,
L’Aube exaltée ainsi qu’un peuple de colombes,
Et j’ai vu quelquefois ce que l’homme a cru voir!

J’ai vu le soleil bas, taché d’horreurs mystiques,
Illuminant de longs figements violets,
Pareils à des acteurs de drames très antiques
Les flots roulant au loin leurs frissons de volets!

J’ai rêvé la nuit verte aux neiges éblouies,
Baiser montant aux yeux des mers avec lenteurs,
La circulation des sèves inouïes,
Et l’éveil jaune et bleu des phosphores chanteurs!

J’ai suivi, des mois pleins, pareille aux vacheries
Hystériques, la houle à l’assaut des récifs,
Sans songer que les pieds lumineux des Maries
Pussent forcer le mufle aux Océans poussifs!

J’ai heurté, savez-vous, d’incroyables Florides
Mêlant aux fleurs des yeux de panthères à peaux
D’hommes! Des arcs-en-ciel tendus comme des brides
Sous l’horizon des mers, à de glauques troupeaux!

J’ai vu fermenter les marais énormes, nasses
Où pourrit dans les joncs tout un Léviathan!
Des écroulements d’eaux au milieu des bonaces,
Et les lointains vers les gouffres cataractant!

Glaciers, soleils d’argent, flots nacreux, cieux de braises!
Échouages hideux au fond des golfes bruns
Où les serpents géants dévorés des punaises
Choient, des arbres tordus, avec de noirs parfums

J’aurais voulu montrer aux enfants ces dorades
Du flot bleu, ces poissons d’or, ces poissons chantants.
– Des écumes de fleurs ont bercé mes dérades
Et d’ineffables vents m’ont ailé par instants.

Parfois, martyr lassé des pôles et des zones,
La mer dont le sanglot faisait mon roulis doux
Montait vers moi ses fleurs d’ombre aux ventouses jaunes
Et je restais, ainsi qu’une femme à genoux…

Presque ile, ballottant sur mes bords les querelles
Et les fientes d’oiseaux clabaudeurs aux yeux blonds.
Et je voguais, lorsqu’à travers mes liens frêles
Des noyés descendaient dormir, à reculons!

Or moi, bateau perdu sous les cheveux des anses,
Jeté par l’ouragan dans l’éther sans oiseau,
Moi dont les Monitors et les voiliers des Hanses
N’auraient pas repêché la carcasse ivre d’eau;

Libre, fumant, monté de brumes violettes,
Moi qui trouais le ciel rougeoyant comme un mur
Qui porte, confiture exquise aux bons poètes,
Des lichens de soleil et des morves d’azur;

Qui courais, taché de lunules électriques,
Planche folle, escorté des hippocampes noirs
Quand les juillets faisaient crouler à coups de triques
Les cieux ultramarins aux ardents entonnoirs;

Moi qui tremblais, sentant geindre à cinquante lieues
Le rut des Béhémots et les Maelstroms épais,
Fileur éternel des immobilités bleues,
Je regrette l’Europe aux anciens parapets!

J’ai vu des archipels sidéraux! et des îles
Dont les cieux délirants sont ouverts au vogueur:
Est-ce en ces nuits sans fonds que tu dors et t’exiles,
Milion d’oiseaux d’or, ô future Vigueur

Mais, vrai, j’ai trop pleuré! Les Aubes sont navrantes.
Toute lune est atroce et tout soleil amer:
L’âcre amour m’a gonflé de torpeurs enivrantes.
O que ma quille éclate! O qué j’aille à la mer!

Si je désire une eau d’Europe, c’est la flache
Noire et froide où vers le crépuscule embaumé
Un enfant accroupi plein de tristesses, lâche
Un bateau frêle comme un papillon de mai.

Je ne puis plus, baigné de vos langueurs, ô lames,
Enlever leur sillage aux porteurs de cotons,
Ni traverser l’orgueil des drapeaux et des flammes,
Ni nager sous les yeux horribles des pontons.

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Locandina del film “Poeti dell’Inferno”

Mentre scendevo lungo Fiumi impassibili, / non mi sentii più guidato dai trainanti. / Dei Pellirosse chiassosi li avevano presi a bersaglio / e inchiodati nudi ai pali variopinti. // La sorte d’ogni equipaggio mi era indifferente, / recavo grano fiammingo e cotone inglese. / Quando con i trainanti ebbe fine il clamore, / discesi per quei fiumi a mio talento. // Nel furibondo sciabordio delle maree, lo scorso / Inverno, io, più sordo che cervelli di bimbi, / io corsi! E le penisole disormeggiate / non subirono mai scompigli più trionfali. // La tempesta ha benedetto i miei risvegli marittimi. / Più leggero d’un sughero ho danzato sui flutti / – che chiamano eterni avvolgitori di vittime – / dieci notti, senza rimpiangere l’occhio ebete dei fari! // Più dolce che ai fanciulli la polpa delle mele acerbe, / l’acqua verde penetrò il mio scafo d’abete / e dalle macchie di vini bluastri e dai vomiti / mi lavò, disperdendo ancora e timone. // E da allora mi trovai immerso nel poema / del mare intriso d’astri, e lattescente, / divorando i cerulei verdi; ove, fluttuazione livida / ed estatica, a volte, scende un annegato pensoso / dove, tingendo a un tratto le  azzurrità, deliri / e ritmi lenti nel giorno rutilante, / più forti dell’alcool, più vasti delle nostre lire, / fermentano gli amari rossori dell’amore! // Io so i cieli scoppianti in lampi e le trombe / e le risacche e le correnti; so la sera, / l’alba esaltata come un popolo di colombe, / e ho visto talvolta ciò che l’uomo credette di vedere. // Ho visto il sole basso, maculato di mistici orrori, / illuminare di lunghe coagulazioni violette, / simili ad attori di drammi antichissimi, / i flutti rotolanti lontano i loro brividi d’imposte. // Ho sognato la notte verde dalle nevi abbagliate, / bacio che lentamente saliva agli occhi dei mari, / la circolazione delle linfe inaudite / e il giallo-azzurro risveglio dei fòsfori canori. // Per mesi ho seguito, simile a mandrie di vacche / isteriche, il maroso all’assalto degli scogli, / senza pensare che i piedi luminosi delle Marie / potessero forzare il muso agli oceani bolsi. // Ho urtato, sapete? Contro incredibili Floride / che mischiano ai fiori occhi di pantere dalla pelle / umana! Arcobaleni tesi come briglie, / sotto l’orizzonte dei mari, a glauchi armenti. // Ho visto fermentare le paludi enormi, nasse / dove imputridisce tra i giunchi tutto un Leviatano! / Crolli d’acque in mezzo alle bonacce / e le lontananze sprofondanti verso gli abissi! // Ghiacciai, soli d’argento, onde madreperlàcee, cieli di bragia, / orridi incagli in fondo ai golfi bruni / dove serpenti giganti divorati da cimici / cadon dagli alberi contorti con neri profumi! // Avrei voluto mostrare ai fanciulli quelle orate / del flutto azzurro, quei pesci d’oro, quei pesci canori. / – Schiume di fiori han benedetto le mie fughe / E venti ineffabili m’han dato, a tratti, le ali. //  Talora, martire stanco dei poli e delle zone, / il mare, il cui singhiozzo addolciva il mio rullio, / alzava verso di me i suoi fiori d’ombra dalle ventose gialle / e io restavo come una donna in ginocchio, // penisola sballottante, sui miei bordi i litigi / e gli escrementi d’uccelli chiassosi dagli occhi biondi, e vogavo, mentre attraverso i miei fragili cavi / annegati scendevano, a ritroso, a dormire… // ora io, battello perduto sotto i capelli delle anse, / scagliato dall’uragano nell’etere senza uccelli, / io, di cui i Monitori e i velieri delle Anse // non avrebbero ripescata la carcassa ebbra d’acqua; // libero, fumante, montato da nebbie violàcee, / io che foravo il cielo rosseggiante come un muro / che porti, confettura squisita per i buoni poeti, / licheni di sole e mocci d’azzurro; // io che correvo macchiato di lùnule elettriche, / tavola folle, scortato dai neri ippocampi, / quando i lugli facevano crollare a randellate / i cieli oltremarini negli imbuti ardenti; //  io che tremavo, sentendo gemere a cinquanta leghe / la foia dei Béhemot e dei Maelstrom densi, / eterno scorridore delle immobilità azzurre, // io rimpiango l’Europa dai vecchi parapetti. // Ho visto arcipelaghi siderali! E isole / i cui deliranti cieli sono aperti al vogatore: /  – forse in quelle notti senza fondo tu dormi e t’esilii, / milione d’uccelli d’oro, o futuro Vigore? – // Ma, davvero, ho troppo pianto. Le albe sono strazianti, / ogni luna è atroce ed ogni sole amaro. / L’acre amore m’ha gonfiato di torpori inebrianti. / Oh, esploda la mia chiglia! Oh, ch’io m’inabissi nel mare! // Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera / nera e fredda dove, nel crepuscolo odoroso, / un bimbo accovacciato, e pieno di tristezza, vara / un battello fragile come una farfalla di maggio. // Non posso più, o onde, bagnato dai vostri languori, / inseguire la scia dei portatori di cotone, / né fendere l’orgoglio delle bandiere e delle fiamme, / o nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni.

La poesia si potrebbe dividere in tre sequenze ben precise:

  • stanze 1-5: il poeta/battello descrive la discesa; infatti i bardotti, addetti al traino del battello sono stati catturati dai pellerossa, ed il battello carico di cotone inglese e grano fiammingo, viene lasciato alla deriva, sconquassandosi e ballando sui flutti, dove risiedono corpi di vittime; i flutti del mare, oltrepassando i fianchi, gli lavano le macchie di vino e di vomito;
  • stanze 6-22: inizia il poema del mare, visionario, in cui il battello/poeta si perde in immagini: questi versi vendono suggeriti dalla libertà assoluta, dall’avventura, dall’inaudito: orrori violacei, fosfori canori, ghiacciai, soli d’argento, fiori che nascono dagli occhi di pantere; il poeta è immerso in un viaggio onirico;
  • strofe 23-28: Il sogno lo ha troppo inebriato e rimpiange l’Europa dai parapetti antichi, ma subito dopo, quasi pentendosene, vorrebbe riprendere il folle volo (direbbe Dante), e conclude con un grido di autodistruzione. Ma l’Europa non gli offre che disillusione, e se vuole riimmergersi in un sogno, quello che trova ora è una nera pozzanghera.

E’ evidente che in una poesia come questa, che a livello interpretativo non è tanto diversa da Voyalles, non ci si può aspettare una possibilità di comprensione letterale. Anzi si può dire che forse Le bateau ivre radicalizzi la tecnica analogica da evitare qualsiasi possibilità per il lettore da cercarne un significato. Già dall’inizio il fatto stesso d’identificarsi con il battello, di sentirsi in balia di un fiume impazzito, ma di “antropomorfizzarlo” a farle percepire il non percepibile (orrori mistici, linfe inaudite, fiori dagli occhi di pantere e via dicendo). A noi non rimane che seguire il flusso immaginifico, reso ancora più affascinante dalla sonorità che egli sa dare alla lingua francese. Certo il finale è come chiuso in una disillusione totale, in cui egli non può più essere altro che da sé: non può più nuotare sotto gli occhi orribili dei pontoni (oblò di una nave).

Per concludere il percorso su Rimbaud ci piace avvicinarsi ad un testo più “intimo” come appunto Les poètes de sept ans. E’ un testo che sicuramente precede la poetica visionaria sia di Voyalles che del Bateau ivre: tuttavia la sua straordinaria bellezza sta nello mescolarsi di elementi autobiografici (con tutte le idiosincrasie e le aspettative) con quelli che preannunciano la poesia posteriore di Rimbaud:
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Valentine Hugo: Disegno per la poesia di Rimbaud

LES POÈTES DE SEPT ANS

Et la Mère, fermant le livre du devoir,
S’en allait satisfaite et très fière sans voir,
Dans les yeux bleus et sous le front plein d’éminences,
L’âme de son enfant livrée aux répugnances.
Tout le jour il suait d’obéissance; très
Intelligent ; pourtant des tics noirs, quelques traits,
Semblaient prouver en lui d’âcres hypocrisies.
Dans l’ombre des couloirs aux tentures moisies,
En passant il tirait la langue, les deux poings
À l’aine, et dans ses yeux fermés voyait des points.
Une porte s’ouvrait sur le soir ; à la lampe
On le voyait, là-haut, qui râlait sur la rampe,
Sous un golfe de jour pendant du toit. L’été
Surtout, vaincu, stupide, il était entêté
À se renfermer dans la fraîcheur des latrines:
Il pensait là, tranquille et livrant ses narines.
Quand, lavé des odeurs du jour, le jardinet
Derrière la maison, en hiver, s’illunait,
Gisant au pied d’un mur, enterré dans la marne
Et pour des visions écrasant son œil darne,
Il écoutait grouiller les galeux espaliers.
Pitié! Ces enfants seuls étaient ses familiers
Qui, chétifs, fronts nus, œil déteignant sur la joue,
Cachant de maigres doigts jaunes et noirs de boue,
Sous des habits puant la foire et tout vieillots,
Conversaient avec la douceur des idiots!
Et si, l’ayant surpris à des pitiés immondes,
Sa mère s’effrayait ; les tendresses profondes,
De l’enfant se jetaient sur cet étonnement.
C’était bon. Elle avait le bleu regard, — qui ment!
À sept ans, il faisait des romans, sur la vie
Du grand désert, où luit la Liberté ravie,
Forêts, soleils, rios, savanes ! – Il s’aidait
De journaux illustrés où, rouge, il regardait
Des Espagnoles rire et des Italiennes.
Quand venait, l’œil brun, folle, en robes d’indiennes,
– Huit ans, – la fille des ouvriers d’à côté,
La petite brutale, et qu’elle avait sauté,
Dans un coin, sur son dos, en secouant ses tresses,
Et qu’il était sous elle, il lui mordait les fesses,
Car elle ne portait jamais de pantalons;
– Et, par elle meurtri des poings et des talons
Remportait les saveurs de sa peau dans sa chambre,
Il craignait les blafards dimanches de décembre,
Où, pommadé, sur un guéridon d’acajou,
Il lisait une Bible à la tranche vert-chou ;
Des rêves l’oppressaient chaque nuit dans l’alcôve.
Il n’aimait pas Dieu ; mais les hommes, qu’au soir fauve,
Noirs, en blouse, il voyait rentrer dans le faubourg
Où les crieurs, en trois roulements de tambour
Font autour des édits rire et gronder les foules.
– Il rêvait la prairie amoureuse, où des houles
Lumineuses, parfums sains, pubescence d’or,
Font leur remuement calme et prennent leur essor!
Et comme il savourait surtout les sombres choses,
Quand, dans la chambre nue aux persiennes closes,
Haute et bleue, âcrement prise d’humidité,
Il lisait son roman sans cesse médité,
Plein de lourds ciels ocreux et de forêts noyées,
De fleurs de chair aux bois sidérals déployées,
Vertige, écroulements, déroutes et pitié!
– Tandis que se faisait la rumeur du quartier,
En bas, – seul, et couché sur des pièces de toile
Écrue, et pressentant violemment la voile!

E la Madre, chiudendo il libro del dovere, se ne andava, soddisfatta e fiera senza vedere negli occhi azzurri e sotto la fronte prominente, l’anima del suo bambino zeppa di ripugnanze. Tutto il giorno sudava obbedienza; molto intelligente eppure i neri tics, le manìe, rivelavano in lui acerbe ipocrisie. Nei corridoi bui dai parati ammuffiti, lui passava con la lingua fuori, coi pugni sull’inguine, e vedeva punti dentro gli occhi chiusi. Una porta si apriva nella sera: sotto la lampada lo scoprivano lassù, sulla ringhiera, a rantolare sotto un golfo di luce appeso al tetto. Soprattutto d’estate, àtono, vinto, si ostinava a rinchiudersi nella frescura delle latrine: là pensava tranquillo saziando le narici. Quando, lavato dagli odori del giorno, l’orto dietro la casa, d’inverno, si riempiva della luce della luna steso ai piedi d’un muro, sepolto nella marna, spremendo visioni dal suo occhio intontito, ascoltava il brusio delle marce spalliere. Pietà! Era amico soltanto di quei bambini scarni che, a fronti nude, occhi stinti sulle guance, celando magre dita nere e gialle di fango, sotto vesti vecchiotte puzzolenti di sciolta, conversavano con la dolcezza degli idioti! E se, nel sorprenderlo in pietà immonde, la madre si spaventava; le tenerezze, profonde del bambino balzavano su quello stupore. Era bello. Lei aveva lo sguardo azzurro, che mentiva! A sette anni, faceva romanzi sulla vita del vasto deserto, dove splende la libertà rapita, soli, foreste, savane, rive! – Si aiutava con i giornali illustrati in cui, rosso, guardava ridere le Spagnole e le Italiane. Quando, pazza, occhi bruni, grembiulino d’indiana, – otto anni, – veniva la bambina degli operai vicini, la piccola selvaggia, scotendo le trecce, in un angolo, gli saltava a cavalcioni, lui standole di sotto le addentava le natiche, perché non portava mai le mutandine; e, pestato da lei coi pugni e coi calcagni, si portava i sapori della sua pelle in camera. Odiava le domeniche squallide, a dicembre, in cui, impomatato, su un tavolino di mogano leggeva una Bibbia dal dorso verde-cavolo. Nel letto ogni notte era oppresso dai sogni. Non amava Dio; ma gli uomini che, la sera fulva, vedeva rientrare neri, in camiciotto, al sobborgo dove i banditori al rullo dei tamburi fanno rumoreggiare e ridere ai proclami le folle. – Sognava le praterie piene d’amore, dove ondate di luce, sani profumi, pubescenze dorate, calmamente si espandono e prendono il volo! E come assaporava le cose misteriose quando, nella stanza nuda con le persiane chiuse, alta e azzurra, satura di umidi afrori, leggeva il suo romanzo sempre rimeditato, pieno di grevi cieli color ocra e foreste affogate, fiori di carne esplosi ai boschi siderali, vertigine, scoscendimenti, disfatte, pietà! – Mentre avevano inizio i rumori del quartiere, giù in basso – da solo, e steso su una pezza di tela grezza, e presentendo con violenza la vela!

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Busto di Rimbaud realizzato nella sua città natale

La poesia di Rimbaud sembra riflettere sull’essere poeta, più precisamente sul suo essere poeta, che sin da piccolo si proietta in una situazione antiborghese. La Madre rappresenta appunto la borghesia, madre fiera del figlio, ma che non si accorge che lui è attratto dalla miseria dei bimbi (occhi colmi di ripugnanze). Il giovane poeta è ipocritamente obbediente: da solo faceva boccacce verso il mondo perbenista; non per niente l’ispirazione la cerca nei luoghi isolati e addirittura nei cessi. Se la madre lo vedeva con i bambini cenciosi, lui scopriva, con occhi mentitori, lo stupore che la stessa madre provava. Sogna, con i romanzi illustrati, quelle visioni africane che tanta parte avranno sulla sua vita, vive onanisticamente il sesso, giocando in modo impudico con la figlia degli operai. E ancora la desacralizzazione dei valori (la Bibbia con copertina verde-cavolo, costretto a leggerla sul tavolo di mogano) e la voglia di sognare e immaginare mondi irreali, che da lì a poco, sarebbero esplosi con tutta la loro violenza nei profetici suoi versi.

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Auguste Renoir: Stéphane Mallarmé

Ancora un passo ulteriore ce lo offre Stéphane Mallarmé (1842-1899). Egli non vive in modo disordinato come i suoi solidali colleghi (è un semplice professore d’inglese, sposato, che vive una vita ritirata e senza clamori), ma approfondisce in modo netto l’impossibilità della parola di rimandarci ad un frammento oppure ad un tutto decifrabile. La sua poesia si fa pertanto orfica, incomprensibile ai più, in cui il lettore diventa soggetto attivo d’una personale ed individuale interpretazione. Come in questo testo del 1883 Quand l’ombre menaça:

QUANDO L’OMBRA MINACCIO’

Quand l’ombre menaça de la fatale loi
Tel vieux Rêve, désir et mal de mes vertèbres,
Affligé de périr sous les plafonds funèbres
Il a ployé son aile indubitable en moi.

Luxe, ô salle d’ébène où, pour séduire un roi
Se tordent dans leur mort des guirlandes célèbres,
Vous n’êtes qu’un orgueil menti par les ténèbres
Aux yeux du solitaire ébloui de sa foi.

Oui, je sais qu’au lointain de cette nuit, la Terre
Jette d’un grand éclat l’insolite mystère
Sous les siècles hideux qui l’obscurcissent moins.

L’espace à soi pareil qu’il s’accroisse ou se nie
Roule dans cet ennui des feux vils pour témoins
Que s’est d’un astre en fête allumé le génie.

Quando minacciò l’ombra della legge ineluttabile / un vecchio Sogno, alle vertebre desiderio e ferita, / sotto le volte funebri affranto di perire / esso in me la sua ala ripiegò indubitabile. // Lusso! Salotto d’ebano, dove a sedurre un re / nella morte si torcono celebrate ghirlande, / non siete che superba mentita dalle tenebre / per chi dalla sua fede, solitario, è abbagliato. // Sì, io so che al largo di questa notte la Terra / d’un gran falò proietta l’insolito mistero / di fra i secoli sordi che l’oscurano meno. // Lo spazio eguale a sé, che si neghi o che s’accresca // in questa noia rotea vili fuochi che attestino / l’accendersi del genio, luce da un astro in festa.

Potremo definirla una poesia “spirituale” dove nelle quartine i verbi al passato segnano quasi l’annichilimento nel poter trovare fede nella poesia: tale incapacità viene poi segnata anche a livello coloristico (volte funebri, ebano, tenebre) a cui rispondono le terzine con i verbi al presente ed un guizzo di luce (falò, luce di un astro in festa). E’ nell’interpretazione forse più banale, l’idea che la poesia sia in grado di cogliere il mistero, diventando creatrice e trionfando fra i secoli sordi, raggiungendo lo scopo più profondo della poesia simbolista.

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Pagina originale di Mallarmé

Ma il suo capolavoro è Un colpo di dadi non abolirà mai caso, in cui scompone la forma poesia destrutturandola in parole solitarie in una pagina divisa in cui il bianco predomina. Il testo poetico è “visivo”: le parole non sono più poste in versi, ma compongono un “disegno” attraverso i diversi caratteri topografici. Esse cadono, come fa il caso, nella pagina, a dimostrazione dell’impossibilità di una razionalità della realtà, guidata dalla pura e semplice casualità (anticipa in questo modo le soluzioni formali della poesia futurista).

Estetismo
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Dandismo del XIX secolo

Ad offrirci un collegamento tra l’estetismo, che appare nelle opere narrative di Walter Pater, Joris-Karl Huysmans ed Oscar Wilde (e, naturalmente, il nostro Gabriele D’Annunzio) ed il simbolismo poetico, sarà Charles Baudelaire in uno scritto in cui recensendo l’opera del pittore Costantin Guys, ci dà la definizione di dandy:

BAUDELAIRE: da “SCRITTI SULL’ARTE”

Questi esseri non hanno altro stato che quello di coltivare l’idea del bello nella propria persona, di soddisfare le proprie passioni, di sentire e di pensare. Posseggono cosi, a loro piacere e in larga misura, il tempo e il denaro, senza di che la fantasia, ridotta allo stato di un sogno vago e passeggero, non può di solito tradursi in azione. (…) Essa è prima di tutto l’ardente bisogno di crearsi un’originalità, entro i limiti esteriori delle convenzioni sociali. È una specie di culto di sé, che può sopravvivere alla ricerca della felicità da trovare nell’altro, a esempio, nella donna; e che può sopravvivere persino a tutto ciò cui si dà il nome di illusioni. È il piacere di stupire e la soddisfazione orgogliosa di non essere mai stupiti. Un dandy può essere un uomo cinico, può essere un uomo che soffre, ma anche in questo caso, egli sa sorridere come lo Spartano addentato dalla volpe (…) Questi uomini possono farsi chiamare raffinati, favolosi, magnifici, leoni o dandy, ma tutti vengono da una stessa origine; partecipano del medesimo carattere di opposizione e di rivolta; sono rappresentanti di ciò che vi è di migliore nell’orgoglio umano, del bisogno, troppo raro negli uomini di oggi, di combattere e distruggere la volgarità.

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Jean-Louis Forain: Ritratto di Joris-Karl Huysmans

Se il dandy è colui che con la propria vita estremamente raffinata ed elegante s’oppone alla mediocrità dello spento borghese (il positivista animato dallo spirito del progresso, che a volte si traduce dallo spirito del denaro), l’Estetismo è l’atteggiamento che lo contraddistingue, facendo della bellezza l’essenza stessa della propria vita. E’ da tale spirito che parte Joris-Karl Huysmans (1848-1907), che nel romanzo À rebours, in italiano Controcorrente o A ritroso, pubblicato nel 1884, individua la tipologia dell’esteta decadente:

Jean Des Esseintes, ultimo discendente di una nobile famiglia, è un trentenne anemico e nevrastenico. Votato sin dalla gioventù alle dilettazioni estetiche decide, dopo aver cercato invano nel vizio soddisfazioni alla sua inquietudine, di ritirarsi dalla vita reale. In provincia, a Fontenay-aux-Roses, si crea un rifugio rispondente ai suoi gusti: pareti decorate con stoffe rare, finestre ornate di vetri gotici, mobili fastosi, quadri caratterizzati da un fantastico morboso, piante rarissime che imitano quelle finte. La biblioteca fa larga parte ai testi della decadenza latina, Petronio e Apuleio, e ai mistici di tutte le epoche; ma anche alla letteratura moderna, Mallarmé, Baudelaire, Verlaine. In questo stravagante e paradossale ambiente, posto sotto il segno dell’artificio, Des Esseintes comincia col rievocare come in sogno le proprie esperienze, poi, in preda a veri e propri incubi, è assalito da una grave forma di nevrosi. Costretto, per guarire, a rinunciare al suo isolamento, implora il miracoloso soccorso del Dio dei cristiani: le sue tendenze verso l’artificio forse non erano altro che slanci verso un ideale, verso una beatitudine lontana.

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Illustrazioni per À rebours

NELLA STANZA DI DES ESSEINTES

Non c’erano, secondo lui, che due modi d’arredare la camera da letto: o se ne faceva un’eccitante alcova, un luogo di dilettazioni notturne; oppure un ambiente di solitudine e di riposo, un ritiro propizio alla meditazione, una specie di oratorio.
Nel primo caso lo stile Luigi XV s’imponeva ai raffinati, agli individui, in particolare, esauriti da erotismi cerebrali. Solo il Settecento ha saputo infatti circondare la donna di un’atmosfera viziosa, dare al mobilio la grazia delle sue curve, comunicare al legno, al rame – con l’’ondularlo e torcerlo – qualche cosa dei suoi atteggiamenti, dei suoi spasimi nel piacere, drogando il languore dolciastro della bionda, mediante una decorazione vivace e chiara; attenuando il sapido della bruna con tappezzerie blande, acquose, quasi sciape. Una camera di questo genere egli l’aveva avuta a Parigi. Vi aveva allogato un vasto letto bianco laccato, che costituiva un piccante di più, una depravazione di vecchio libertino che nitrisce davanti alla finta innocenza, all’ipocrito pudore delle minorenni di Greuze, che s’impenna davanti al fittizio candore d’un letto sporcaccione che sa di bimba e d’adolescente.
Nell’altro caso – il solo adottabile adesso che intendeva romperla con gli eccitanti ricordi del passato – della camera bisognava fare una cella; ma allora sorgeva un mucchio di difficoltà, visto che non poteva, lui almeno, rassegnarsi all’austero squallore dei ritiri di penitenza e di preghiera.
A forza di esaminare il problema d’ogni lato, venne a concludere che la soluzione non poteva essere che questa: con oggetto fastosi aggeggiare un ambiente triste; o piuttosto, mantenendo alla stanza il carattere di squallore, dargli nell’insieme una specie di eleganza e distinzione; fsare il contrario di ciò che fa il teatro; dove tessuti andanti la pretendono a stoffe costose e di lusso; ottenere l’effetto opposto, servendosi di magnifiche stoffe che dessero l’impressione di cenci; allestire insomma una camera che avesse l’aria di una cella di un certosino, ma, beninteso, solo l’aria.
Ecco come fece. Per imitare l’intonaco color ocra, il giallo amministrativo e clericale, fece parare i muri di seta zafferano; per mantenere lo zoccolo color cioccolato, solito in tali ambienti, rivestì le pareti d’assiti di un violetto, incupito d’amaranto.
L’effetto era incoraggiante: ricordava benissimo, non esaminato da vicino, l’urtante rigidità del modello che seguiva trasformandolo.
Il soffitto fu a sua volta tappezzato da bianco crudo, in modo da simulare il gesso, senza averne, tuttavia gli striduli lucori. Quanto a quello che doveva essere un gelido pavimento della cella, gli fu facile ottenerlo grazie ad un tappeto rosso a quadri; le lacune biancastre, lasciate qua e là di proposito nella lana, simulavano assai bene il logorio prodotto da scarpe e da sandali.
Ammobiliò la stanza d’un lettuccio di ferro, d’un falso giaciglio di cenobita, messo insieme da vecchi ferri battuti e bruniti; lo nobilitavano, alla testa ed ai piedi, folti fregi: tulipani in pieno sboccio intrecciati a pampini, provenienti dalla superba ringhiera di un antico palazzo.
Come tavolino da notte adottò un antico inginocchiatoio, che poteva celare un vaso e sul quale posava un eucologio. In faccia, appoggiò alla parete un banco da fabbricieri, sormontato da un alto baldacchino, lavorato a traforo, guarnito di tarsie corali. I candelabri chiesastici li fornì di candele di cera vergine; se le procurava da una Ditta specializzata in oggetti sacri; per la candela stearica come per il petrolio, il gaz, l’acetilene e tutti insomma i mezzi moderni d’illuminazione, così vistosi e brutali, egli nutriva una spiccata avversione.
Destandosi all’alba o prima d’addormentarsi, poteva contemplare, senza neanche alzare il capo dall’origliere il suo Theotocopuli; l’atroce colore del Cristo castigava il sorriso della seta gialla, la richiamava a maggiore serietà. E Des Esseintes si credeva allora a cento miglia da Parigi, lontano dal mondo, seppellito in fondo ad un chiostro.
E in fin dei conti l’illusione non era difficile: era forse molto diversa da quella d’un frate la vita che conduceva?
Della vita conventuale aveva i vantaggi senza subirne gli incovenienti: che sono la disciplina soldatesca, la poca cura della persona, la sporcizia, la vita in comune con altri, la monotonia del non far niente.
Come s’era fatto della cella una camera riscaldata e provvista di comodi, così s’era reso la vita tranquilla, dolce, libera, occupata e piena di benessere.
Non meno d’un eremita, egli era maturo per l’isolamento, affranto della vita, più nulla attendeva da essa. Non meno d’un monaco, sentiva un’immensa stanchezza, il bisogno di raccogliersi, il desiderio di non aver più nulla in comune col prossimo; composto, ai suoi occhi, di profittatori e d’imbecilli.
Insomma, sebbene non sentisse alcuna vocazione per quello stato di grazia, nutriva una vera simpatia per il frate che si chiude in un convento, per il monaco perseguitato da un’astiosa società, che non gli perdona né il sacrosanto disprezzo che egli ha per essa, né la volontà che egli professa di riscattare, d’espiare col silenzio, la sempre crescente sfacciataggine dei suoi vaniloqui stupidi o assurdi.

La stanza diventa lo specchio del modo d’essere di Des Esseintes: infatti arredarla risponde al suo bisogno di solitudine che è meditazione e fuga dalla mediocrità. Ma è anche ricerca di estrema sofisticatezza che equivale in lui nel gusto dell’artificio, cioè del rendere il falso più vero del vero. Des Esseintes più che un tardo romantico che cerca nella raffinatezza l’Ideale, sembra più un amante del barocco in cui la rappresentazione artistica diventa l’unica realtà. Per il francese non si tratta di fare un’altra realtà, purché artefatta, ma viceversa di fare dell’ideale di bellezza il proprio modo d’essere e di vivere. E’ la bellezza è nel nascondersi e nello scoprire dove essa si nasconde: infatti tutto è falsamente modesto, ma a guardar bene, tutto è estremamente elegante, rarefatto. Se vi è un punto di contatto fra la stanza costruita come fosse di un frate certosino e la sua vita raffinata e contro il modo di concepire la vita in modo borghese, che per Huysmans equivale in modo positivista.

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Parigi fine ‘800

LA DISPERATA SOLITUDINE

Inutile illudersi: nessuna proda, nessuna rada s’offriva allo sguardo, cui sperar d’approdare.
Che sarebbe di lui a Parigi, dove non contava né parenti né amici? Nulla più lo legava a quel sobborgo di Saint-Germain, sbriciolantesi in polvere per decrepitezza, tremante di marasma senile, vuota reliquia del passato superstite ad una società che gli ribolliva d’intorno. E che cosa d’altronde poteva esserci di comune tra lui e quella borghesia che s’era fatta a poco a poco, profittando per arricchirsi di tutti i disastri, suscitando catastrofi pur d’imporre il rispetto dei suoi misfatti e delle sue ruberie?
Dopo quell’aristocrazia del sangue, era oggi la volta dell’aristocrazia del danaro. Oggi su tutto imperava la Bottega, trionfava il dispotismo di rue du Sentier, spadroneggiava il mercante, vanitoso e truffatore per istinto, limitato e venale di animo.
Con meno scrupoli e maggiore codardia della nobiltà spogliata e del clero decaduto, la borghesia si appropriava delle due caste la frivola ostentazione e l’effimera prosopopea, avvilendole entrambe col suo manco di creanza; convertendo i difetti di quelle in ipocriti vizi. Autoritaria e sorniona, bassa e vigliacca, essa infieriva senza pietà contro l’eterna necessaria sua vittima, il popolino, cui pure aveva di sua mano tolta la museruola e che aveva appostato perché saltasse alla gola delle vecchie caste.
Ormai era cosa fatta. Ormai che il servizio lo aveva reso, la plebe era stata salassata per misura d’igiene sino all’ultima goccia: e il borghese rassicurato spadroneggiava allegramente, armato del suo danaro, forte della sua contagiosa stupidità.
Conseguenza della sua salita al potere, era stata la mortificazione d’ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte d’ogni arte. Gli artisti umiliati, s’eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano.
Nella pittura, era un dilagare d’invertebrate scempiaggini, nella letteratura, il trionfo dello stile più piatto, delle idee più evirate. Come avrebbe infatti potuto fare a meno d’onorabilità l’affarista imbroglione? di virtù, il filibustiere che dava la caccia ad una dote pel figlio, mentre si rifiutava di sborsare quella della figlia? di amor celeste, il volterriano che accusava il clero di violenze carnali, mentre lui andava in stanze equivoche ad annusare, ipocritamente stupidamente acqua sporca di catinelle, sciapo pepe di sottane sporche?
Era insomma la galera in grande dell’America trapiantata nel nostro continente; era l’inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla città idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti all’empio tabernacolo delle Banche.
“E crolla dunque una buona volta, Società! Crepa dunque, barbogio mondo!” uscì a gridare Des Esseintes, stomacato dallo spettacolo che evocava.
Lo sfogo lo liberò dall’incubo.
“Ah” fece. “E dire che tutto questo non è un sogno! che davvero sto per rientrare nel pigia pigia di questo mondo turpe e servile!”
Non gli serviva richiamare a mente, per confortarsi, le consolanti massime di Schopenauer, ripetersi il doloroso assioma di Pascal: “Quando l’anima si mira intorno, nulla scorge che non la affligga.” Quelle parole echeggiavano ora in lui come suoni privi di senso, la sua angoscia le sbriciolava, toglieva loro ogni significato, ogni virtù di sollievo, ogni efficacia, ogni dolcezza.
S’accorgeva insomma che le conclusioni cui giungeva il pessimismo erano anch’esse impotenti a consolarlo; che solo l’impossibile fede in un’altra vita avrebbe potuto dargli la pace.
Tentava di trincerarsi nell’apatia, faceva sforzi per rassegnarsi: tentativi che spazzava ogni volta via un impeto d’ira, come foglie l’uragano.
Inutile dissimularsi la realtà. Più nulla, più nulla restava in piedi: tutto giaceva a terra; come già a Clamart, la borghesia mangiava a crepapelle su un tovagliolo di carta imbandito sulle ginocchia, sotto le maestose rovine della Chiesa, diventata luogo d’appuntamenti, cumulo di macerie, insozzato da turpi lazzi, da facezie oscene. Che forse a dimostrare una buona volta che esisteva, il tremendo Iddio della Genesi e il pallido Dischiodato del Golgota erano in procinto di scatenare i mai più visti cataclismi? Stavano per riaccendere le piogge di fuoco che arsero un tempo le genti reprobe, le città morte? oppure la marea di fango avrebbe continuato a salire, a coprire della sua pestilenza questo vecchio mondo dove non attecchivano più che sementi d’iniquità, dove non lussureggiavan più che messi di obbrobrio?
Ad un tratto la porta di casa venne spalancata; laggiù, nel suo vano, uomini s’inquadrarono, che avevan le guance rase, una moschetta sotto il labbro inferiore, un berrettaccio per copricapo. Maneggiavano casse, trasportavano mobili. Quindi la porta si richiuse alle spalle del domestico, carico di pacchi e di libri.
Des Esseintes s’afflosciò su una sedia.
“Tra due giorni sarò a Parigi. Confessiamocelo: tutto è finito. Come in un maremoto, i flutti della umana mediocrità arrivano al cielo. Un momento ancora e inghiottiranno il porticciolo di cui io stesso apro le dighe. Ah che mi manca il coraggio! ah che il cuore mi si impenna!
Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che s’imbarca solo nella notte, sotto un cielo che non rischiaran più i consolanti fari dell’antica speranza!”

In questo passo “la polemica contro la volgarità borghese, contro la mercificazione di ogni prodotto artistico e il volgare appiattimento del gusto tocca un livello di rancorosa violenza. Ma è anche vero che Huysmans tocca il fondo del solipsismo e ne sente la precarietà: la disperazione di vivere sotto un cielo che non rischiaran più i consolanti fari dell’antica speranza, l’ansia di un superamento del dell’individualismo decadente sono evidentissime nelle ultime righe. Qualche anno dopo Huysmans si convertiva al cristianesimo, dando così ragione al suo contemporaneo Barbey d’Aubervilly che aveva scritto: Dopo un tal libro non resta all’autore che scegliere tra spararsi una rivoltellata o gettarsi ai piedi della Croce. (Guglielmino)

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Oscar Wilde

L’altro grande autore dell’estetismo europeo è l’inglese Oscar Wilde (1854-1900). Esteta, eccentrico, ricercato nei salotti inglesi e francesi. Viaggiatore in Europa conosce Costance Lloyd che sposa nel 1884 e dalla quale ha due figli. Per loro scriverà Il principe felice ed altre storie. Separatosi dalla moglie comincia una relazione con Alfred Douglas, figlio di un marchese. Quest’ultimo intenterà un processo contro Oscar Wilde per omosessualità, che fece molto scalpore. Lo scrittore venne condannato per due anni e. dopo esserne uscito, verrà rifiutato da tutti coloro che precedentemente lo avevano acclamato. Si rifugia in Francia dove, in miseria, dedito all’alcol e per una malattia venerea contratta in gioventù, muore ad appena 55 anni.

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Wilde con la moglie e il primo figlio

Wilde è uno scrittore piuttosto versatile, famoso per le sue opere teatrali, tra cui ricordiamo Lady Windermere’s Fan (Il ventaglio di Lady Windermere) (1892); The Importance of Being Earnest (L’importanza di chiamarsi Ernesto) (1895) e Salomé (in francese) (1893).

Per la prosa si ricordano, oltre le fiabe del principe felice (1888), altri racconti raccolti nel volume Lord Arthur Savile’s Crime and Other Stories (1891) (che contiene anche Il fantasma di Canterville);

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Oscar Wilde e Alfred Douglas

Ma il suo capolavoro è soprattutto The picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray) (1891):

Il pittore Basil Hallward ha ritratto il giovane Dorian Gray, di eccezionale bellezza. Dorian, ossessionato dall’idea di invecchiare e perdere la sua avvenenza, ottiene, grazie a un sortilegio, che ogni segno che il passare del tempo e i vizi gli potrebbero lasciare sul viso, compaiano solo sul ritratto. Avido di piaceri e influenzato dal suo cinico compagno Henry Wotton, si abbandona allora agli eccessi più sfrenati, senza che alcuna traccia della sua abiezione alteri la perfezione e la freschezza del suo viso. E poiché Hallward gli rimprovera tanta vergogna, lo uccide. Ma a questo punto il volto spaventevole del ritratto diventa l’atto di accusa più spietato per Dorian, che in un impeto di disperazione lo squarcia con una pugnalata. Ma è lui a cadere morto: le fattezze dei ritratto tornano ad essere quelle del Dorian giovane e puro di un tempo, mentre a terra giace un vecchio osceno e disgustoso.

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Lowell Gilmore in un film del 1945 tratto dall’opera di Wilde

Per anni, Dorian Gray non riuscì a liberarsi dall’influenza di questo libro. O forse sarebbe più preciso dire che non cercò mai di liberarsene. Si procurò da Parigi non meno di nove copie in carta di lusso della prima edizione, e le fece rilegare in colori diversi, affinché potessero adattarsi ai suoi vari stati d’animo e alle fantasie mutevoli di una natura su cui gli sembrava, delle volte, d’aver perduto interamente il controllo. L’eroe, il meraviglioso giovane parigino, in cui i temperamenti romantico e scientifico erano così stranamente miscelati, divenne per lui una specie di tipo che prefigurava se stesso. e, veramente, l’intero libro gli parve contenere la storia della sua propria vita, scritta prima che l’avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del fantastico eroe del romanzo. Non conobbe mai – né infatti ebbe mai modo di conoscere – quel terrore un po’ grottesco per gli specchi, le superfici levigate di metallo e l’acqua stagnante che invase il giovane parigino così presto nella sua vita, e che era causato dall’improvviso decadimento di una bellezza che un tempo, apparentemente, era stata notevole. Con gioia quasi crudele – e forse in quasi ogni gioia, come di certo in ogni piacere, la crudeltà ha il suo posto – era solito leggere la parte finale del libro, con il suo racconto davvero tragico, anche se piuttosto eccessivo nell’enfasi, del dolore e della disperazione di uno che aveva perso in sé ciò che in altri, e nel mondo, aveva più caramente apprezzato.
Perché la meravigliosa avvenenza che aveva tanto affascinato Basil Hallward, e molti altri oltre a lui, pareva non abbandonarlo mai. Persino quelli che avevano sentito le peggiori cose sul suo conto – e ogni tanto strane indiscrezioni sul suo stile di vita circolavano per Londra e diventavano oggetto di pettegolezzo nei club – non riuscivano a credere a niente di infamante quando lo vedevano. Aveva sempre l’aspetto di uno che si era conservato incontaminato dal mondo. Gli uomini che parlavano in modo volgare si zittivano appena Dorian entrava nella stanza. Nella purezza del suo viso c’era qualcosa che li rimproverava. La sua semplice presenza sembrava rammentargli il ricordo dell’innocenza che loro avevano sporcato. Si chiedevano come una creatura così incantevole e graziosa avesse potuto sfuggire la macchia di un’epoca che era insieme sordida e sensuale.
Spesso, tornando a casa da una di quelle misteriose e prolungate assenze che davano adito a certe strane congetture tra quelli che erano suoi amici, o pensavano di esserlo, saliva quatto quatto fino alla stanza chiusa, apriva la porta con la chiave da cui non si separava mai, e restava in piedi, con uno specchio, di fronte al ritratto che Basil Hallward gli aveva dipinto, guardando ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora il bel viso giovane che gli rideva dallo specchio lucido. La nettezza stessa del contrasto ravvivava il suo senso del piacere. Si innamorava sempre più della sua bellezza, e sempre più s’interessava alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e talvolta con un godimento mostruoso e terribile, le linee orrende che solcavano la fronte rugosa o avanzavano lentamente intorno alla bocca carnosa e sensuale, chiedendosi a volte cosa fosse più orribile, i segni del peccato o quelli dell’età. Metteva le sue bianche mani accanto alle mani ruvide e gonfie del ritratto, e sorrideva. Sbeffeggiava il corpo deforme e le membra cascanti.
In effetti, c’erano dei momenti, la sera, in cui, giacendo insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza della piccola taverna vicina ai Docks che frequentava di solito sotto falso nome e camuffato, rifletteva sulla rovina che aveva arrecato alla sua anima con una pietà tanto più acuta in quanto puramente egoista. Ma momenti come questi erano rari. Quella curiosità per la vita che Lord Henry aveva suscitato per primo in lui, quando sedettero insieme nel giardino del loro amico, sembrava aumentare con la gratificazione. Più conosceva, più desiderava conoscere. Aveva appetiti folli che divenivano più famelici appena venivano alimentati.
Eppure non era veramente spericolato, almeno nei suoi rapporti sociali. Una o due volte al mese durante l’inverno, e ogni mercoledì sera nella stagione mondana, apriva all’alta società la sua splendida casa e invitava i concertisti più famosi del momento per deliziare gli ospiti con le meraviglie della loro arte. Le sue cene per pochi intimi, alla cui preparazione Lord Henry lo assisteva sempre, erano famose sia per la selezione scrupolosa degli invitati, che per il gusto squisito mostrato nella decorazione della tavola, con la sua sottile disposizione sinfonica di fiori esotici, le tovaglie ricamate e i piatti antichi d’oro e d’argento. Ed erano in molti, specie tra i più giovani, che vedevano, o credevano di vedere in Dorian Gray l’autentica realizzazione di un ideale che avevano spesso sognato quand’erano a Eton o Oxford, un ideale che doveva accordare qualcosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la distinzione e i modi perfetti di un cittadino del mondo. A loro Dorian appariva uno della schiera di quelli che Dante descrive come coloro che hanno cercato di “rendersi perfetti con l’adorazione del bello”. Come Gautier, egli era uno per cui “il mondo visibile esisteva”.  
E, certamente, secondo lui la vita stessa era la prima, la più grande di tutte le arti, quella per cui tutte le altre non erano che una preparazione. La moda, grazie alla quale ciò che è realmente fantastico diventa per un momento universale, e il dandismo che, a modo suo, è un tentativo di far valere l’assoluta modernità della bellezza, avevano, naturalmente, il loro fascino per lui. Il suo modo di vestire e gli stili particolari che di tanto in tanto esibiva, influenzavano notevolmente i giovani raffinati dei balli di Mayfair e alle finestre dei club Pall Mall, che lo copiavano in tutto ciò che faceva e cercavano di riprodurre il fascino accidentale delle sue graziose stravaganze, anche se lui le considerava di poco conto.
Infatti, mentre era fin troppo pronto ad accettare la posizione che gli fu offerta quasi immediatamente raggiunta la maggiore età, e trovava, anzi, un sottile piacere al pensiero di poter davvero diventare per la Londra del suo tempo ciò che per la Roma imperiale di Nerone era stato una volta l’autore del Satyricon, tuttavia in fondo al cuore desiderava essere qualcosa di più di un semplice arbiter elegantiarum, da consultarsi su come si indossa un gioiello, si fa il nodo alla cravatta o si tiene il bastone a passeggio. Lui cercava di elaborare un nuovo schema di vita con una sua filosofia ragionata e i suoi principi ordinati, e che avrebbe trovato nella spiritualizzazione dei sensi la sua più alta realizzazione.
Il culto dei sensi è stato spesso, e a buon diritto, denigrato, perché gli uomini provavano un istinto naturale di terrore nei confronti delle passioni e delle sensazioni che sembrano più forti di loro e che sono consci di condividere con le forme d’esistenza meno organizzate. Ma a Dorian Gray sembrava che la vera natura dei sensi non fosse mai stata compresa, e che i sensi erano rimasti selvaggi e animaleschi solo perché il mondo aveva cercato di sottometterli per fame o ucciderli con la sofferenza, invece di puntare a farne degli elementi di una nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante dovesse essere un istinto raffinato per la bellezza. A considerare il cammino dell’uomo nella storia, era assillato da un sentimento di perdita. A quanto si era rinunciato! E lo scopo era così minimo! C’erano state rinunce folli e intenzionali, forme mostruose di autotortura e di autonegazione, la cui origine era la paura e il cui risultato era una degradazione infinitamente più terribile di quella degradazione fantastica dalla quale, nella loro ignoranza, avevano cercato di sfuggire; la Natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l’anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava all’eremita le bestie dei campi come compagni.
Sì: ci sarebbe stato, come Lord Henry aveva profetizzato, un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita salvandola da quel severo e brutto puritanesimo che ai giorni nostri sta avendo la sua curiosa ripresa. Di certo, avrebbe avuto al suo servizio l’intelletto, ma non avrebbe mai accettato alcuna teoria o sistema che comportasse il sacrificio di una qualsiasi forma di esperienza appassionata. Difatti, il suo scopo sarebbe stata l’esperienza stessa e non i frutti dell’esperienza, dolci o amari che fossero. Sarebbe stato ignaro dell’ascetismo che mortifica i sensi, come della volgare dissolutezza che li ottunde. Ma avrebbe insegnato all’uomo a concentrarsi sugli attimi di una vita che è già di sé un attimo.

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Locandina di un film recente sempre tratto dal libro di Wilde

Il passo ci fa capire l’influenza che il romanzo di Huysmans ebbe in Europa: il personaggio di Wilde né è soggiogato, ma, nonostante ciò è superiore: se Des Esseintes odia gli specchi e quindi odia vedere su di sé il trascorrere degli anni, questo a Dorian non accade e l’immagine che vede di sé gli dà l’idea d’essere superiore, una potenza che gli permette l’impunità, nonostante egli voglia sperimentare il vizio, anch’esso come forma di totalità di una vita costruita sull’eccezionalità. Infatti la bellezza per Dorian Gray si deve ottenere con un raffinamento del piacere, perché non basta essere dandy, cioè maestro indiscusso di bellezza, ma conoscere e conoscere lo porta a superare ogni inibizione. E tale “filosofia” in qualche modo compiace anche Wilde che non riesce a staccarsi completamente dal personaggio, nonostante qualche (necessario, in epoca vittoriana) drastico giudizio, che mal nasconde l’approvazione verso il comportamento del suo giovane eroe.