TRA CHIESA, IMPERO E COMUNI

pasqua_1.jpg

Miniatura di Firenze medievale 

La nostra letteratura nasce, al di là dei tentativi linguistici non legati propriamente alla cultura quale noi intendiamo, nel 1224 ad opera di San Francesco. Nella data in cui il Santo redige, in punto di morte, la sua lauda, l’Italia è già pienamente nel Basso Medioevo. E’ quindi necessario vedere tale periodo un po’ più da vicino, per cogliere, sin dalle nostre origini, la nostra frammentarietà culturale che si può cogliere appunto:

  • nella politica culturale della Chiesa, che si rinnova con la fondazione di nuovi ordini;
  • nell’idea imperiale, negata tuttavia dai Comuni, che si traduce in un forte stato centrale nel Meridione d’Italia;
  • nei Comuni che piano piano, attraverso lotte interne ed esterne per il predominio, ma primi in Europa per capacità commerciale, getteranno il seme per la grande poesia fiorentina del ’300.

Chiesa

La Chiesa, che per tutto l’Alto Medievo aveva conservato una posizione egemone, sia dal punto di vista politico che culturale, aveva subito, a cavallo tra l’XI e il XII un duro attacco dal mutato clima politico che stava attraversando l’intera Europa e principalmente la nostra penisola. Infatti, sin da Teodosio, che aveva fatto della Chiesa l’unica religione di Stato, e in seguito la fondazione di monasteri e abbazie, aveva reso la stessa sempre più ricca ed interessata alla questioni mondane. L’affermazione del feudalesimo aveva in qualche modo rafforzato tale posizione, con la figura dei vescovi-conti, dei veri e propri feudi gestiti dagli ecclesiastici.

Proprio a cavallo dell’anno Mille, un miglioramento delle condizioni di vita, la nascita della figura del mercante, il fallimento dell’idea universalistica imperiale (segnata dalla battaglia di Lepanto 1176, in cui l’esercito dell’imperatore Federico Barbarossa  veniva sconfitto dai comuni del nord Italia, capitanati da Milano) vedeva il tramonto anche della visione universalistica di tipo cattolico.

Già intorno all’anno 1000 la Chiesa cattolica non poteva non subire la “provocazione” ed il mutato modus vivendi delle corti medievali e della raffinata cultura cortese, che ne hanno messo in crisi le granitiche certezze, ora deve combattere le numerose critiche che tendono a sottolineare la sua mondanizzazione con la conseguente perdita del messaggio originario del Vangelo. (Ci piace ricordare il movimento dei Patarini, a Milano, che diede anche l’avvio alla nascita della rivendicazione dell’autonomia della città rispetto all’Impero). Di fronte al rischio per le stesse gerarchie ecclesiastiche di perdere l’egemonia culturale che sino ad allora avevano gelosamente conservato “estirpando” dal cattolicesimo ogni forma di messa in discussione dell’autorità della Chiesa di Roma, si cominciò dapprima a colpire l’eresia dove essa si annidava: ne è un esempio, come visto, la crociata contro gli Albigesi.

Ma le esigenze che si erano sviluppate e avevano portato l’intera società europea, a cavallo tra l’Alto e Basso Medioevo a creare un nuovo modo di vivere e prospettare la società, non possono essere estirpate con la sola forza: se ne rende conto Innocenzo III (1160 – 1216) che preferisce da una pare combattere l’eresia a livello teologico offrendo l’incarico a Domenico di Guzman che, per far ciò, prende coscienza che è necessaria una profonda dottrina cristiana che si ottiene con uno studio atto a preparare predicatori che con le parole e l’esempio, riescano a portare la “verità” della Santa Madre Chiesa, laddove essa è messa in discussione (nasce cosi l’ordine dei Domenicani);

san_domenico_de_guzman_-_beato_angelico.jpg

Beato Angelico: Domenico di Guzman

dall’altra combattere i “pauperismi” inserendoli all’interno della Chiesa stessa: a tale compito si serve della figura e ideologia di Francesco d’Assisi che propugna una vita “estrema”, basata sulla totale povertà e sulla parola di Dio e sull’imitazione della vita di Cristo. Ottenuta l’approvazione orale da Innocenzo III, il suo movimento, i Francescani, appunto, viene in seguito formalmente riconosciuto da Onorio III (1150 circa – 1227). Alla morte del fondatore tale movimento si divide a sua volta in spirituali e conventuali: i primi, volendo portare avanti in modo integrale gli insegnamenti di Francesco, cadono, in seguito, nell’eresia; i secondi, invece, si mostrano più inclini a provare un fruttuoso compromesso con la Chiesa.

papa_onorio_III_approva_regola_di_san_francesco_illustrazione_di_giotto_chiesa_superiore_assisi_italia_04.gif

Giotto: Onorio III approva la Regola di Francesco

Cultura religiosa

FRANCESCO D’ASSISI

Come già detto la cultura italiana nasce proprio intorno a queste grandi questioni storiche riguardanti la Chiesa, con la figura e l’opera di San Francesco. Nasce nel 1181 da un ricco mercante, ma già nel 1204 rinuncia al suo patrimonio e, dopo un periodo di solitudine, inizia la sua predicazione elaborando due Regole, la prima approvata da Innocenzo III e la seconda da Onorio III. Capace d’entrare nel cuore della povera gente, già immediatamente dopo la sua morte la sua figura diviene leggendaria: anche Dante Alighieri farà di lui un santo protagonista di un canto del Paradiso. Di lui possediamo una serie di scritti in latino. Ma l’opera più importante, quella con cui facciamo iniziare la letteratura nella nostra lingua è una prosa ritmata o lauda, composta, secondo la tradizione, per l’ultima parte, in punto di morte.

San-Francesco-predica-agli-uccelli-giotto-analisi.jpg

Francesco predica agli uccelli

LAUDES CREATURARUM

Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.

Laudato sie, mi’ Signore, cum tucte le tue creature,
spetialmente messor lo frate sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de te, Altissimo, porta significatione.

Laudatu si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento
et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,
per lo quale ale tue creature dài sustentamento.

Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua,
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu,
per lo quale ennallumini la nocte:
ed ellu è bello et iocundo et robustoso et forte.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa,

et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.

Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore,
et sostengo infirmitade et tribulatione.
Beati quelli ke-l sosterrano in pace,
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.

Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,
dala quale nullu homo vivente pò skappare:
guai a cquelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no ’l farrà male.

Laudate et benedicete mi’ Signore, et rengratiate
e serviateli cum grande humilitate.

Altissimo, onnipotente e buon Signore / a te spettano la lode, la gloria e l’onore ed ogni benedizione. / A te solo altissimo, si confanno, / e nessun uomo è degno di pronunciare il tuo nome. // Che tu sia lodato, mio Signore, con tutte le tue creature, / specialmente fratello sole, / che rappresenta la luce del giorno e Tu ci illumini per mezzo suo. / Ed esso è bello, i suoi raggi sono molto splendenti: / simboleggia Te, o Altissimo. // Che tu sia lodato, mio Signore, per sorella luna e per le stelle / in cielo le hai create lucenti, preziose e belle. // Che tu sia lodato, mio Signore, per fratello Vento / e per l’aria sia quando è sereno che quando è nuvolo e in ogni tempo, / per mezzo della quale dai nutrimento alle creature. // Che tu sia lodato, mio signore, per sorella Acqua / la quale è molto utile e umile e preziosa e pura / Che tu sia lodato, mio Signore, per fratello fuoco, / con il quale illumini la notte: è bello, lieto, vigoroso e forte. // Che tu sia lodato, mio Signore, per nostra sorella la madre la Terra, / la quale ci nutre e alleva / e produce frutti diversi, fiori colorati ed erba. // Che tu sia lodato, mio Signore, per coloro che perdonano per amor tuo / e sopportano malattie e sofferenze. // Beati coloro che sopporteranno in pace / che da te, Altissimo, saranno salvati. // Che tu sia lodato, mio signore, per nostra sorella morte corporale, / alla quale nessun uomo vivo può sfuggire: / guai a coloro che morranno nel peccato mortale; / beati quelli che troverà nella tua santissima volontà / perché non saranno colpiti dalla condanna eterna. // Lodate e benedite il mio Signore, / ringraziatelo e servitelo con grande umiltà.

E’ questo un testo che ha presentato alcuni problemi critici sia riguardo il modo di “collocarlo” che il dettato vero e proprio. Per il primo punto, ad esempio, la differenza che vi è tra una preghiera e il testo di Francesco è nell’umanizzazione che qui si compie. Tutte le Creature ricordate da Francesco hanno senso non in sé ma in quanto utili all’uomo. E’ proprio sull’uomo si fondano le ultime strofe, ribadendo la sua libertà di scelta, ma che avrà conseguenze sul piano divino.

Ancora di difficile spiegazione è il per, che dal propter latino può assumere valore causale, o, dal par francese, valore d’agente. Ma oggi sembra prevalere il senso mediale, cioè porre l’uomo tra le creature e Dio e fare di esso un lodatore del Signore attraverso le creature, nella loro essenza che, come già detto, è utile all’uomo stesso.

  • Nonostante l’intento di Francesco sia di “comunicare” alle persone semplici l’amore di Dio, la sua laude rivela un tessuto colto dovuto:
  • ripresa dai Salmi e Cantici della Sacra Scrittura;
  • l’utilizzo dell’anafora Laudato sì, mi Signore in tutte le strofe del testo ad eccezione della prima e l’ultima;
  • Rime stelle / belle, rengratiate / humiltate… la cadenza ritmica ed i latinismi, grazie anche all’assonanza che permette alle parole poste alla fine di ogni verso di somigliarsi nel vocalismo e nella tonalità. 

1200px-Gentile_da_fabriano,_st._francis.jpg

Gentile da Fabriano: Le stimmate di San Francesco (1420)

JACOPONE DA TODI 

Jacopone quando nasce (tra il 1230 e il 1235) quando Francesco è già morto. Si narra che egli abbia fatto da giovane vita spensierata e gaudente e che la sua repentina conversione sia dovuta alla moglie che, durante una festa, cadendo dal pavimento al piano sottostante, venne scoperta con il cilicio indosso. Entra, nel 1278, nei Francescani come frate minore e s’inserisce tra gli Spirituali, assumendone gli aspetti più forti e radicali. Capace osservatore della realtà “politica” della Chiesa, guarda con attenzione l’elezione di Celestino V, ma, alla sua abdicazione a favore di Bonifacio VIII, la cui elezione ritiene illegittima, dà sfogo a tutta la sua rabbia, ottenendone in cambio il carcere e la scomunica. Dopo aver trascorso anni durissimi in cella, ottiene il perdono da Benedetto XI nel 1303. Ritiratosi in monastero, dopo tre anni, muore.

xweb-piccini-zunino.jpg

Ritratto di Jacopone

La poesia di Jacopone s’inserisce in quel filone, che prenderà appunto il nome di lauda, che si mostrava particolarmente diffuso in tutto il centro Italia. Essa prende la forma della ballata, come dice la parola stessa, lirica musicata, estremamente efficace per veicolare messaggi religiosi a livello popolare. Le laudi del poeta umbro differiscono notevolmente dalla preghiera/poesia di Francesco, pur condividendone i principi fondamentali: vi è in lui una forte radicalizzazione sia riguardante i temi politici, che quelli corporei e/o spirituali. Infatti, pur diverse nel contenuto, il suo laudario (abbiamo 96 opere di Jacopone) è tutto centrato intorno al purismo religioso. Quando troviamo infatti una lode politica, come ad esempio Che farai, Pier dal Morrone? (rivolta a Celestino V) o in Jubelo del core e ancora in O signor, per cortesia, troviamo in esse un unico motivo ispiratore: la purezza religiosa.

QUE FARAI, PIER DAL MORRONE?

Que farai, Pier dal Morrone?
Èi venuto al paragone.

Vederimo el lavorato,

ché en cella hai contemplato.
S’è ’l monno de te engannato,
séquita maledezzone.

La tua fama alta è salita
en molte parte n’è gita:
se te sozzi a la finita,
ai bon’ sirai confusïone.

Como segno a saietta,

tutto lo monno a te affitta:
se non ten’ belancia ritta,
a Deo ne va appellazione.

Si se’ auro, ferro o rame,
provàrite en esto esame;
quign’ hai filo, lana o stame,
mustàrite en esta azzone.

Questa corte è una fucina
che ’l bon auro se ce affina:
s’ello tene altra ramina,
torna ’n cennere e ’n carbone.

Se l’ofizio te deletta,
nulla malsania è più enfetta,
e ben è vita maledetta
perder Dio per tal boccone.

Granne ho avuto en te cordoglio
como t’escìo de bocca: «Voglio»,
ché t’ hai posto iogo en coglio
che t’ è tua dannazïone.

Quanno l’omo vertüoso
è posto en loco tempestoso,
sempre ’l trovi vigoroso
a portar ritto el gonfalone.

Grann’ è la tua degnetate,
non è men la tempestate,
grann’ è la tua varïetate
che trovari en tua mascione.

320px-Celestine_V_Castel_Nuovo_Napoli_n02.jpg

Ritratto di Celestino V

Che farai Pietro Angelieri da Isernia, eremita sul monte Morrone (futuro Celestino V) / è giunto per te il momento della prova. // Vedremo il tuo operato / che hai meditato nella cella del convento. / Se il mondo sarà ingannato da te / seguirà una maledizione. // La tua notorietà ti ha innalzato / è andata in tutti i luoghi: / se alla fine ti sporcherai / per i buoni creerai confusione. // Come bersaglio di una freccia / tutto il mondo ti guarda: / se non terrai dritta la bilancia  della giustizia / sarai chiamato in giudizio da Dio. // Se sei oro, ferro o rame / lo potrai mostrare con questo esame / che tipo di stoffa hai, di filo, di lana grezza o di lana pettinata, / lo mostrerai con questa azione. // Questa corte è una fucina / nella quale l’oro pregiato viene raffinato. / Se quello possiede un sovrappiù di rame / si trasforma in cenere e in carbone. // Se ti piace l’ufficio papale / nessuna lebbra è più infetta, / ed è veramente vita maledetta / perdere Dio a causa di tale cibo. // Grande dispiacere ho provato per te / quando t’uscì di bocca “Voglio” (ad indicare l’accettazione papale) / perché ti sei posto un giogo sul collo / che sarà la tua dannazione. // Quando l’uomo di valore / è posto nella tempesta / lo trovi sempre forte e virtuoso / nel sorreggere il gonfalone. // Grande è la tua dignità, non minore è la tempesta; / grande è la varietà di persone che troverai nella tua casa.

In questa ballata il primo passo quello che si nota è l’incalzare del discorso che si fa sempre più stringente nell’indicare a Celestino V che se si prende un impegno questo è da rispettare con tutta la vigoria di un uomo che, scegliendo un incarico, sceglie anche l’energia con cui lo deve svolgere. Da qui “il cordoglio” di Jacopone, che sa, forse, dell’incapacità di Pietro e di come il mondo papale sia pieno di corruzione e di arroganza. Da qui quella rabbia mista a pessimismo di questo testo.

O SEGNOR, PER CORTESIA

01.jpg

Lebbroso con campanella (Miniatura)

O Segnor, per cortesia,
manname la malsania,

A me la freve quartana,

la contina e la terzana,
la doppia cotidïana
co la granne etropesia.

A me venga mal de denti,

mal de capo e mal de ventre,
a lo stomaco dolor pognenti,
e ’n canna la squinanzia.

Mal degli occhi e doglia de fianco
e l’apostema dal canto manco;
tiseco ma ionga en alco
e d’onne tempo la fernosia.

Aia ’l fecato rescaldato,
la milza grossa, el ventre enfiato,
lo polmone sia piagato
con gran tossa e parlasia.

A me vegna le fistelle

con migliaia de carvoncigli,
e li granchi siano quilli
che tutto repien ne sia.

A me vegna la podagra,
mal de ciglio sì m’agrava;
la disenteria sia piaga
e le morroite a me se dia.

A me venga el mal de l’asmo,
iongasece quel del pasmo,
como al can me venga el rasmo
ed en bocca la grancìa.

A me lo morbo caduco
de cadere en acqua e ’n fuoco,
e ià mai non trovi luoco
che io affritto non ce sia.

A me venga cechetate,

mutezza e sordetate,
la miseria e povertate,
e d’onne tempo en trapparia.

Tanto sia el fetor fetente,
che non sia null’om vivente
che non fugga da me dolente,
posto ’n tanta ipocondria.

En terrebele fossato,
ca Riguerci è nomenato,
loco sia abbandonato
da onne bona compagnia.

Gelo, granden, tempestate,
fulgur, troni, oscuritate,
e non sia nulla avversitate
che me non aia en sua bailia.

La demonia enfernali
sì me sian dati a ministrali,
che m’essercitin li mali
c’aio guadagnati a mia follia.

Enfin del mondo a la finita
sì me duri questa vita,
e poi, a la scivirita,
dura morte me se dia.

Aleggome en sepoltura

un ventre de lupo en voratura,
e l’arliquie en cacatura
en espineta e rogaria.

Li miracul’ po’ la morte:

chi ce viene aia le scorte
e le vessazione forte
con terrebel fantasia.

Onn’om che m’ode mentovare
sì se deia stupefare
e co la croce signare,
che rio scuntro no i sia en via.

Signor mio, non è vendetta
tutta la pena c’ho ditta:
ché me creasti en tua diletta
e io t’ho morto a villania.

O Signore, per cortesia, / mandami la lebbra. // Mandami la febbre quartana, / la febbre continua e quella terzana, / quella che provoca due attacchi al giorno, / con la grande idropisia. // Mi venga il mal di denti, / mal di testa e mal di pancia, / allo stomaco dolori acuti, / e nella gola l’angina. // Mal di occhi e dolori ai fianchi / e l’ascesso al fianco sinistro; / e mi sopraggiunga la tisi da qualche parte / e sempre la frenesia, il delirio. // Che io abbia il fegato infiammato, / la milza grossa, il ventre gonfio, / il polmone sia afflitto da piaghe / con grande tosse e paralisi. // Mi vengano le fistole / con migliaia di foruncoli, / e i tumori siano tanti / e che io ne sia tutto pieno. // Mi venga la gotta, / il male agli occhi mi metta in pericolo di vita; / la dissenteria sia una piaga / e le emorroidi si diano a me. // A me venga l’asma, / e vi si aggiunga l’angina pectoris, / come al cane anche a me venga la rabbia / e in bocca le ulcere. // Mi venga l’epilessia, / di cadere in acqua e in fuoco, / e io non trovi mai luogo / che io non sia afflitto. // Mi venga la cecità, / mutismo e sordità, / la miseria e la povertà, / e nel tempo il rattrappimento. // Sia tanto il fetore / che non ci sia nessun uomo vivente / che non fugga da me dolente, /posto di fronte a tanta infermità. // Nel terribile fossato, / come Riguerci, (località in cui venivano abbandonati i malati incurabili) / là io sia abbandonato / da tutte le persone. // Gelo, grandine, tempesta, / fulmini, tuoni, oscurità / e non ci sia nulla / che non mi abbia in sua balìa. / Le pene infernali / siano date a me come servitori, / che mi infliggano i mali /che mi sono meritato con la mia follia. // Che possa soffrire fino alla fine del mondo, / finché dura la mia vita, /e poi al momento della morte / questa mi sia data dura, / mi scelgo come tomba / un ventre di lupo che mi abbia divorato, / e le mie reliquie siano ciò che / dal lupo sarà stato defecato tra spine e rovi. // I miracoli da me compiuti dopo la morte siano: / chi viene sulla mia sepoltura / sia perseguitato da una schiera di spiriti maligni / con terribili visioni. // Chiunque mi oda menzionare / deve inorridire / e farsi il segno della croce, / in modo da non fare cattivi incontri. // Signore mio, non è una espiazione sufficiente questa / per tutta la pena e la colpa che ho: /perché Tu mi hai creato per amore, / ed io ti ho ucciso per la mia folle ingratitudine.

Da un uomo così radicale nei suoi temi, non potevamo aspettarci che un disprezzo del corpo, cioè una vera e propria voluptas dolendi che permetta all’uomo di ritrovare appieno la purezza di un’anima completamente rivolta al Signore. Da qui il profondo contemptus mundi tipico degli spirituali e soprattutto di quella frangia tra di essi che aderì, più o meno contemporaneamente, alla setta dei flagellanti. A caratterizzare tale testo sono soprattutto due peculiarità:

  • espressivismo linguistico: il nostro usa un linguaggio fortemente “realistico e ripugnante” a disegnare il suo discorso;
  • capovolgimento ideologico della coeva poesia cortese: O Segnor, per cortesia, dove al concetto di cortesia fa da contrasto e io t’ho morto a villania, il concetto di villania, significativamente al primo e all’ultimo verso.

O IUBELO DEL CORE

 O iubelo del core,
che fai cantar d’amore!

 Quanno iubel se scalda,
sì fa l’omo cantare;
e la lengua barbaglia
e non sa che parlare:
dentro non pò celare,
tant’è granne ’l dolzore.

 Quanno iubel è acceso,
sì fa l’omo clamare;
lo cor d’amor è appreso,
che nol pò comportare:
stridenno el fa gridare,
e non virgogna allore.

 Quanno iubelo ha preso
lo core ennamorato,
la gente l’ha ’n deriso,
pensanno el suo parlato,
parlanno esmesurato
de che sente calore.

 O iubel, dolce gaudio
ched entri ne la mente,
lo cor deventa savio,
celar suo convenente;
non pò esser soffrente
che non faccia clamore.

 Chi non ha costumanza
te reputa ’mpazzito,
vedenno esvalïanza
com’om ch’è desvanito;
dentr’ha lo cor ferito,
non se sente da fore.

O grido di gioia del cuore, / che fai cantar d’amore! // Quando la gioia si scalda, / così fa cantare / e la lingua balbetta, / e non sa più cosa dire /dentro non può nascondere / quanto è intensa la dolcezza! // Quando la gioia si è accesa / così fa gridare, / il cuore è così infiammato d’amore, / che non si può più sopportare; / stridendo, lo fa gridare / e non si vergogna allora. // Quando il giubilo ha infiammato / il cuore innamorato, / la gente lo deride, / pensando al modo in cui si esprime, / poiché parla senza misura / di ciò di cui sente calore. // O giubilo, dolce piacere / che sei nella mia mente / il cuore diventa saggio / nel nascondere la sua condizione, / ma non può sopportare / di non gridare di gioia. // Chi non ha esperienza / ti reputa impazzito, / vedendo il tuo comportamento anomalo /come se si fosse impazziti. / Dentro ha il cuore ferito (lacerato dall’esperienza mistica) / non ha percezione di ciò che accade all’esterno.

Se la sofferenza del corpo deve portare all’annullamento di sé, lo stesso avviene per troppa gioia, che contiene in sé il concetto, che diventerà poi classico dell’inesprimibilità. Egli infatti procede attraverso un climax che contiene sempre in sé l’idea di non poter affermare la gioia: dapprima la lingua balbetta e non sa che dire, poi il gridare per infine provocare un vero e proprio clamore, il tutto vissuto in una sfera emozionale, al di là di ogni logica, arrivando così a dare la propria visione dell’amore mistico verso Dio.

Ma dove egli riesce a dare il meglio di sé è proprio quando esce di sé, per osservare il dolore di chi, perdendo Cristo, perde un figlio:

11.jpg

La disperazione di Maria in un fotogramma del film “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini

IL PIANTO DELLA MADONNA

 Nunzio
Donna del paradiso,
lo tuo figliolo è priso,
Jesu Cristo beato.

Accurre, donna, e vide
che la gente l’allide!
credo che ’llo s’occide,
tanto l’on flagellato.

Madonna
Como esser porrìa
che non fece mai follia,
Cristo, la speme mia,
om’ l’avesse pigliato? 

Nunzio
Madonna, egli è traduto,
Juda sì l’ha venduto
trenta denar n’ha ’vuto,
fatto n’ha gran mercato.

Madonna
Succurri, Magdalena,
gionta m’è adosso piena!
Cristo figlio se mena,
como m’è annunziato.

Nunzio
Succurri, Donna, aiuta!
ch’al tuo figlio se sputa
e la gente lo muta,
hanlo dato a Pilato.

Madonna
O Pilato, non fare
lo figlio mio tormentare,
ch’io te posso mostrare
como a torto è accusato.

Popolo
Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege,
contradice al senato.

Madonna
Priego che ’entendàti,
nel mio dolor pensàti;
forsa mò ve mutati
de quel ch’avete pensato.

Popolo
Tragon fuor li ladroni
che sian suoi compagnoni.
De spine se coroni!
ché rege s’è chiamato.

Madonna
O figlio, figlio, figlio!
figlio, amoroso giglio,
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustiato?

Figlio, occhi giocondi,
figlio, co’ non respondi ?
figlio, perché t’ascondi
dal petto o’ se’ lattato ? 

Nunzio
Madonna, ecco la cruce,
che la gente l’aduce,
ove la vera luce
dèi essere levato.

Madonna
O croce, que farai?
el figlio mio torrai?
e che ce aponerai
ché non ha en sé peccato? 

Nunzio
Succurri, piena de doglia,
ché ’l tuo figliol se spoglia;
e la gente par che voglia
che sia en croce chiavato.

Madonna
Se glie tollete ’l vestire,
lassàtelme vedire
come ’l crudel ferire
tutto l’ha ’nsanguinato.

Nunzio
Donna, la man gli è presa
e nella croce è stesa,
con un bollon gli è fesa,
tanto ci l’on ficcato!

L’altra mano se prende,
nella croce se stende,
e lo dolor s’accende,
che più è multiplicato.

Donna, li piè se prenno
e chiavèllanse al lenno,
onne iontura aprenno
tutto l’han desnodato.

Madonna
Ed io comencio el corrotto.
Figliolo, mio deporto,
figlio, chi me t’ha morto,
figlio mio delicato?

meglio averìen fatto
che ’l cor m’avesser tratto,
che, nella croce tratto,
starce descilïato. 

Cristo
Mamma, o’ sei venuta ?
mortal me dài feruta,
ché ’l tuo pianger me stuta,
ché ’l veggio sì afferrato.

Madonna
Figlio, che m’agio anvito,
figlio, patre e marito,
figlio, chi t’ha ferito?
figlio, chi t’ha spogliato?

Cristo
Mamma, perché te lagni?
voglio che tu remagni,
che serve i miei compagni
ch’al mondo agio acquistato.

Madonna
Figlio, questo non dire,
voglio teco morire,
non me voglio partire,
fin che mò m’esce il fiato.

Ch’una agiam sepultura,
figlio de mamma scura,
trovarse en affrantura
mate e figlio affogato.

Cristo
Mamma col core affetto,
entro a le man te metto
de Joanne, mio eletto;
sia il tuo figlio appellato.

Joanne, esta mia mate

tollela en caritate
aggine pietate
ca lo core ha forato.

Madonna
Figlio, l’alma t’è uscita,
figlio de la smarrita,

figlio de la sparita,
figlio attossicato!

Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio
figlio a chi m’appiglio ?
figlio, pur m’hai lassato.

Figlio bianco e biondo,
figlio, volto iocondo,
figlio, perché t’ha el mondo,
figlio, così sprezato?

Figlio, dolce e piacente,
figlio de la dolente,
figlio, hatte la gente
malamente treattato!

O Joanne, figlio novello,
morto è lo tuo fratello,
sentito aggio ’l coltello
che fo profetizzato.

Che morto ha figlio e mate
de dura morte afferrate,
trovarse abracciate
mate e figlio a un cruciato.

NUNZIO: Maria, Signora del Paradiso, tuo figlio, il beato Gesù Cristo è stato arrestato. Corri, donna, e guarda come lo maltrattano: credo l’uccideranno, tanto l’hanno flagellato! MADONNA: Come può essere stato arrestato Cristo, la mia speranza, dal momento che non ha fatto niente di male? NUNZIO: Madonna, è stato tradito: Giuda l’ha venduto e l’ha venduto a poco, in cambio di trenta denari. MADONNA: Aiutami, Maddalena, in questo terribile momento: conducono a morte mio figlio, come mi era stato profetizzato. NUNZIO: Corri, donna, a portare il tuo aiuto, perché sputano a tuo figlio e l’hanno portato via, l’hanno consegnato a Pilato. MADONNA: O Pilato, non fare tormentare mio figlio, perché ti posso dimostrare che è accusato a torto. POPOLO: Crocifiggetelo, crocifiggetelo! Chi si proclama re, secondo la nostra legge, si mette contro il Senato. MADONNA: Vi prego, ascoltatemi e pensate al mio dolore: forse allora cambierete opinione. POPOLO: Trasciniamo fuori i ladroni, che siano suoi compagni, sia incoronato di spine, perché si è chiamato re! MADONNA: O figlio, figlio, figlio, figlio, giglio d’amore, figlio, chi può consolare il mio cuore angosciato? Figlio dagli occhi ridenti, figlio perché non rispondi? Figlio, perché ti nascondi al petto che ti ha allattato? NUNZIO: Madonna, ecco che la gente lo porta alla croce, su cui la vera luce del mondo deve essere innalzata. MADONNA: O croce, che cosa farai? Prenderai mio figlio? Come potrai punire chi in sé non ha peccato? NUNZIO: Soccorri, piena di dolore, perché spogliano tuo figlio: pare che la gente voglia che sia crocifisso. MADONNA: Se gli togliete i vestiti, lasciatemi vedere come le crudeli ferite l’hanno tutto insanguinato. NUNZIO: Donna, gli hanno preso la mano e l’hanno stesa sulla croce, gliel’hanno trapassata con un chiodo, tanto l’hanno martellato. Ora prendono l’altra mano e la stendono sulla croce, il dolore si accende, moltiplicandosi ancora di più. Donna gli prendono i piedi e li inchiodano al legno, gli hanno spaccato ogni giuntura snodandogli tutte le ossa. MADONNA: Io comincio il lamento funebre: figlio, gioia mia, figlio, chi ti ha ucciso, figlio mio squisitamente bello? Avrebbe fatto meglio a strapparmi il cuore che è stato messo in croce e vi sta sopra lacerato. CRISTO: Mamma, perché sei venuta? Mi dai una ferita mortale, perché il tuo pianto, che vedo così lancinante, mi uccide. MADONNA: Figlio, ne ho buon motivo, figlio, padre, marito! Figlio, chi ti ha ferito? Figlio, chi ti ha spogliato? CRISTO: Mamma, perché ti lamenti? Voglio che tu resti viva e che aiuti i compagni che ho avuto in questo mondo. MADONNA: Figlio, non dire, queste parole, voglio morire con te, non voglio allontanarmi dalla croce finché avrò vita. Voglio che siamo sepolti insieme, figlio di mamma sventurata; che si trovino nello stesso tormento la madre e il figlio soffocato! CRISTO: Mamma, dal cuore afflitto, ti metto nelle mani del mio diletto Giovanni, che sia chiamato tuo figlio. Giovanni, eccoti mia madre, prendila in carità filiale, abbine pietà, perché ha il cuore così spezzato. MARIA: Figlio, l’anima ti è uscita, figlio di me smarrita, figlio di me disfatta, figlio avvelenato! Figlio che eri bianco e vermiglio, figlio senza uguali, figlio, a chi m’aggrappo? Figlio, mi hai lasciato completamente! Figlio, che eri bianco e biondo, dal volto sorridente, figlio, perché il mondo, figlio, ti ha così disprezzato? Figlio che eri dolce e bello, figlio di me addolorata, figlio, la gente ti ha trattato con crudeltà! Giovanni, mio nuovo figlio, è morto tuo fratello, ora sento la ferita che fu profetizzata. Vorrei che morissero figlio e madre afferrati da un’unica morte, vorrei che morissero abbracciati la madre e il figlio appeso a una croce.

E’ questa una lauda dramatica, cioè una vero e proprio prodotto scritto per essere rappresentato durante le sacre rappresentazioni. Esso si può dividere in due grandi macrosequenze: nella prima si ha, attraverso le voci del Nunzio e del popolo e della stessa Madonna la descrizione della crocifissione; nella seconda, con le voci del Nunzio, di Cristo e, soprattutto della Madonna, si dà vita al lamento funebre, vero e proprio genere letterario, che qui viene costruito attraverso l’anafora della parola figlio. E’ tale parola a costituire il vero proprio nucleo della lauda: infatti, sia pur involontariamente, Jacopone sembra quasi desacralizzare la figura della Madonna per presentarla come una madre il cui dolore per la crocifissione di Cristo non è nient’altro che la dolorosa e inconsolabile morte del figlio.

Tutti i testi fin qui presentati di Jacopone hanno forma di ballata: essi sono costituiti da un numero vario di strofe in versi settenari. E’ presente ad inizio testo una ripresa di due versi (tre per la lauda dramatica) cui segue la strofe di versi con rima baciata ad eccezione dell’ultimo che rima con tutti gli ultimi versi di ogni strofa.

La politica imperiale

Gli elementi fortemente caratterizzanti la cultura medievale erano stati, come si sa, l’universalismo ecclesiastico e quello imperiale, le cui lotte per il predominio furono anche aspre, ma ambedue indirizzate a considerare il mondo un’unica realtà. Ma a mettere in crisi tale visione furono:

  • la nascita, seppure in germe, di entità nazionali, nocciolo di quelle che in seguito diventeranno i moderni stati europei;
  • il fallimento dell’idea universalistica imperiale con la sconfitta di Federico Barbarossa nella battaglia di Legnano per mano della Lega Lombarda;
  • il contrasto, sul piano politico e culturale, nonché le eresie che ne minavano l’autorità, che portarono la Chiesa ad una situazione sempre più difensiva (di cui sono testimonianza, appunto, l’approvazione dei Domenicani e Francescani).

Federico-II-di-Svevia-Scuola-Siciliana-600x430.jpg

Ritratto di Federico II (Miniatura del XIII sec.)

Tuttavia fu proprio in questo periodo che avvenne, se così si può dire, lo scontro tra queste due entità, soprattutto grazie alla figura straordinaria di Federico II. Quest’ultimo, infatti, figlio di Enrico VI (figlio del Barbarossa) e Costanza d’Altavilla (discendente del re di Sicilia), è lasciato, ancora piccolo, nelle mani del pontefice Innocenzo III, perché lo educhi. Morto il papa, a cui ha promesso di non riunire mai l’Impero con la Sicilia, viene meno all’impegno, entrando così in conflitto con i successori di Innocenzo III. Consapevole tuttavia che ormai l’Europa stessa rappresentasse un mondo completamente diverso a quello del suo avo Barbarossa, conduce in Italia meridionale una politica più o meno simile a quella dei grandi signori europei che, in lotta con la nobiltà, cercano di creare un vero e proprio nucleo statale. Federico attua questo progetto con le Costituzioni di Menfi (1231) in cui limita ogni forma particolaristica di potere, sia essa politica o ecclesiale. E’ evidente che tale presa di posizione lo mette in contrasto sia con la Chiesa che con i Comuni del Nord che, in quanto imperatore, voleva accettassero le sue Costituzioni. Tali attriti vengono inoltre rafforzati da atteggiamenti che sembrerebbero provocatori dell’imperatore: obbligato da Gregorio IX, successore di Onorio III a fare la crociata, dapprima vi disattende e poi la fa tramutandola in un vero e proprio viaggio diplomatico che gli permette di rinsaldare il suo potere in Oriente, d’essere nominato re di Gerusalemme e di avviare proficui scambi commerciali. Tale posizione lo mette proprio in urto con la Chiesa, che pensa bene di allearsi con i Comuni del Nord per deporlo. Si arriva così allo scontro: i Comuni avranno la meglio (di ciò accusa anche di tradimento il suo fidato consigliere Pier delle Vigne, episodio ricordato da Dante), catturando suo figlio Enzo; ma proprio mentre egli tenta di riprendere la lotta, si spegne per malattia nel 1250.

Scuola poetica siciliana

Sarà proprio Federico II a promuovere la produzione poetica nel regno di Sicilia: infatti a lui guardano gli intellettuali di quel periodo, come uomo che, profondamente innamorato della cultura, poteva in qualche modo farsi promotore di nuove esperienze che andassero al di là, anche per il conflitto che lo opponeva alla Chiesa, del predominio ecclesiastico su ogni processo intellettivo. Non bisogna dimenticare, infatti, che la scelta di Federico d’importare nei territori del Sud d’Italia l’esperienza trobadorica, accogliendo nel suo regno i poeti cacciati per la crociata contro gli Albigesi, rispondesse anche a ragioni di tipo “conflittuale” con la politica culturale dei papi.

L’elaborazione poetica dei Siciliani riprende, adattandoli, i temi della lirica provenzale; ma se tale esperienza non fu del tutto nuova nel nostro territorio, del tutto nuova fu invece la scelta linguistica: non si poetava più in lingua d’oc, ma in siciliano illustre (cioè depurato da ogni forma “rozza e volgare”).

Inoltre la Magna Curia federiciana riprendeva e replicava lo splendore delle corti provenzali, per cui potevano ben adattarsi i motivi che tale poesia aveva già elaborato. A dimostrazione di ciò basti pensare che fu proprio l’Imperatore a spingere il suo entourage a misurarsi con la poesia. Furono proprio i funzionari di corte ad impegnarsi in tale attività, cioè la gente colta, esperta nell’ars dictandi.

L’unico tema di questa scuola fu l’amore, interpretato secondo gli schemi che la poesia trobadorica aveva elaborato. Vengono accuratamente scartati temi alieni a quelli erotici, che mal potevano coniugarsi con l’accentramento politico e culturale di Federico. L’amore dei siciliani è visto in modo chiaramente laico: nessuna idea di peccato o di angelizzazione dell’elemento femminile. Quello che maggiormente denota la scuola siciliana rispetto a quella trobadorica è la mancanza di una metafora di tipo “sociale”: infatti vi è una maggiore idealizzazione e quindi psicologizzazione del processo amoroso.

scuola_siciliana_n.jpg

Federico II con i poeti della sua scuola

JACOPO DA LENTINI

Vari sono i poeti di detta scuola: certamente uno dei più importanti è Jacopo da Lentini, di cui sappiamo solo che fu funzionario della corte e a cui s’iscrivono l’invenzione del sonetto e della canzone:

 AMOR E’ UN DESIO CHE VEN DA CORE

Amor è un[o] desio che ven da core
per abondanza di gran piacimento;
e li occhi in prima genera[n] l’amore
e lo core li dà nutricamento.

Ben è alcuna fiata om amatore
senza vedere so ’namoramento,
ma quell’amor che stringe con furore
da la vista de li occhi ha nas[ci]mento:

che li occhi rappresenta[n] a lo core
d’onni cosa che veden bono e rio,
com’è formata naturalmente;

e lo cor, che zo è concepitore,

imagina, e [li] piace quel desio:
e questo amore regna fra la gente.

L’amore è un desiderio che viene dal cuore / per l’intensità del piacere / e sono gli occhi per primi a dare origine all’amore / e poi il cuore gli dà nutrimento. // Può accadere, qualche volta, che l’uomo si innamori / senza vedere la persona amata / ma quell’amore che stringe con passione / nasce dagli occhi e dalla vista; // perché gli occhi rappresentano al cuore / di ogni cosa che vedono le qualità buone o cattive / e come essa è per natura formata; // e il cuore che intende tutto ciò / immagina e desidera quel che gli piace / e questo amore regna tra la gente.

Come detto, Jacopo da Lentini è (o viene ritenuto tale) l’inventore del sonetto: componimento poetico di 14 versi endecasillabi. La rima di questo sonetto è variamente suddivisa tra le due quartine, in cui è presente una rima alternata e le due terzine in cui vi è una rima ripetuta. In questo sonetto è chiaro l’intento “scientifico-fisiologico”: infatti fa parte di una “tenzone” in cui vari poeti dibattono dell’amore. Sappiamo che la poesia trobadorica aveva teorizzato l’amore da lontano, quindi il sentimento in sé, al di là dell’oggetto amato (quindi apparenza, secondo la distinzione aristotelica); Jacopo da Lentini invece sottolinea la fisiologia del sentimento amoroso e come questo venga vissuto da colui che ama, (quindi come sostanza, sempre secondo la definizione aristotelica): all’inizio infatti viene ribadito il concetto secondo cui l’amore nasce dalla visione dell’oggetto amato, la cui immagine quindi nutre il cuore (e fa nascere il sentimento). Seppur non nega l’“amore di lontano” afferma con decisione che soltanto quello che prende attraverso la visione può essere vissuto con passione. Infatti gli occhi trasmettono al cuore tutto ciò che la natura ha posto nell’oggetto e il cuore prova piacere nel desiderio. Soltanto questo è l’amore che vive tra la gente.

80q7jas.jpg

Salvatore Fiume: Giacomo da Lentini (1985)

Importantissimo è anche il sonetto in cui vediamo, per la prima volta, la presenza della “donna angelicata”:

poesia_cortese_comunale.jpg

Poeta con Madonna

IO M’AGGIO POSTO IN CORE

Io m’ag[g]io posto in core a Dio servire,
com’io potesse gire in paradiso,
al santo loco ch’ag[g]io audito dire,
u’ si manten sollazzo, gioco e riso.

Sanza mia donna non vi vorria gire,
quella c’ha blonda testa e claro viso,
ché sanza lei non poteria gaudere,
estando da la mia donna diviso.

Ma non lo dico a tale intendimento,
perch’io pec[c]ato ci volesse fare;
se non veder lo suo bel portamento

e lo bel viso e ’l morbido sguardare:
ché lo mi teria in gran consolamento,
veg[g]endo la mia donna in ghiora stare.

Io mi sono proposto di servire Dio, / affinché io possa andare in Paradiso / nel santo luogo dove, come ho sentito dire / durano eternamente il sollazzo, il gioco e il riso. // Ma senza la mia donna non ci vorrei andare / quella cha ha capelli biondi e volto luminoso / perché senza di lei non potrei gioire / stando diviso dalla mia donna. // Ma non lo dico con l’intenzione / perché io voglia fare peccato con lei / se non per vedere il suo portamento // il bel viso ed il dolce sguardo / che mi terrebbe in grande consolazione / vedendo la mia donna essere nella “gloria” di Dio.

L’intero sonetto è strutturato con rime alternate, secondo la schema ABAB ABAB CDC DCD. Si noti la rima siciliana tra il verso 5 e il 7. E’ questo un testo dove vediamo mescolarsi, forse in forma “blasfema”, la figura femminile e Dio. Infatti già nel primo verso il poeta afferma di voler “servire” Dio: ma “servire”, il “servaggio” appunto è un termine tratto dalla poesia cortese, con cui si voleva sottolineare la sottomissione dell’uomo a Dio. Ancora, il paradiso come luogo in cui si “mantiene sollazzo, gioco e riso” che è il modo in cui si disegna l’eleganza e l’edonismo che si vive nella corte federiciana. Date le premesse è evidente pertanto che la “blonda testa e claro viso” (terminologia cortese) non può essere quello della bellissima signora che, stando “in ghiora” (termine popolare), viene paragonata alle bellezze angeliche: straordinaria mescolanza di amor sacro e amor profano.

Ancora un rapporto, stavolta artistico, tra l’innamoramento e la pittura in una canzonetta tra le più celebrate di Jacopo da Lentini:

scuola_siciliana_02_n.jpg

Poeti della corte fridericiana

MERAVIGLIOSAMENTE

Meravigliosamente
un amor mi distringe,
e mi tene ad ogn’ora.
Com’om, che pone mente
in altro exemplo pinge
la simile pintura,
così, bella, facc’eo,
che ’nfra lo core meo
porto la tua figura.

In cor par ch’eo vi porti,
pinta come parete,
e non pare di fore.
O Deo, co’ mi par forte
non so se lo sapete,
con’ v’amo di bon core;
ch’eo son sì vergognoso
ca pur vi guardo ascoso,
e non vi mostro amore.

Avendo gran disio,
dipinsi una pintura,
bella, voi simigliante,
e quando voi non vio
guardo ’n quella figura,
e par ch’eo v’aggia avante;
sì com om che si crede
salvarsi per sua fede,
ancor non veggia inante.

Al cor m’arde una doglia,
com’om che ten lo foco
a lo suo seno ascoso,
e quanto più lo ’nvoglia,
allora arde più loco,
non pò star incluso:
similemente eo ardo,
quando pass’e non guardo
a voi, vis’ amoroso.

S’eo guardo, quando passo,
inver’ voi no mi giro,
bella, per risguardare;
andando, ad ogni passo
getto un gran sospiro
ca facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.

Assai v’aggio laudato,
madonna, in tutte parti,
di bellezze c’avete.
Non so se v’è contato
ch’eo lo faccia per arti,
che voi pur v’ascondete:
sacciatelo per singa
zo ch’eo no dico a linga,
quando voi mi vedite.

Canzonetta novella,
va’ canta nuova cosa;
lèvati da maitino
davanti a la più bella,
fiore d’ogn’amorosa,
bionda più c’auro fino:
Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino”

In modo meraviglioso / un amore mi coinvolge / e mi possiede in ogni momento. / Come uno che osserva con attenzione / un modello e ne dipinge / la figura in modo conforme ad esso, / così, o bella donna, faccio io, / che nel mio cuore / porto la tua immagine. // Sembra che io vi porti nel cuore / dipinta come apparite / eppure ciò non si vede / all’esterno. / Oddio, come mi sembra crudele. / Non so se lo sapete / come io vi ami con cuore sincero / perché sono così timido / che vi guardo soltanto di nascosto / e non vi dimostro il mio amore. // Avendo un grande desiderio (di voi) / dipinsi un’immagine, / bella, che vi somiglia / e quando non vi vedo / guardo quell’immagine / e mi sembra di avervi davanti agli occhi / come chi crede / di salvarsi grazie alla sua fede / sebbene non veda nulla davanti a sé. // Nel cuore mi arde un intenso dolore, / come quello di chi tiene / il fuoco nascosto nel suo petto, / e quanto più lo avvolge / tanto più arde in quel punto / e non può stare rinchiuso, /allo stesso modo io ardo / quando passo e non guardo / voi, viso amoroso. // Se io guardo, quando passo / verso voi, non mi volto / o bella, per guardarvi di nuovo. / Mentre cammino, ad ogni passo / emetto un gran sospiro / che mi fa singhiozzare / e singhiozzo a ragione, / se stento a riconoscermi / tanto bella mi appari. // Vi ho lodato assai / o mia signora, in tutta / la bellezza che possedete. / Non so se vi è stato raccontato / che io faccia questo per finzione / dato che continuate a nascondervi. Apprendetelo per i gesti / quello che io non riesco a dirlo con le parole / quando voi mi vedrete. // O nuova canzonetta / va’ e canta il nuovo messaggio / alzati di mattino / davanti alla più bella / fiore di ogni donna amata / bionda più dell’oro prezioso: / «Il vostro amore, che è prezioso, donatelo al Notaio / che proviene da Lentini».

A livello retorico ci troviamo di fronte ad una canzonetta in settenari con rima abc abc per i primi 6 versi (la fronte). Come nel primo sonetto di Jacopo da Lentini, anche qui sembra si parli della “fenomenologia” dell’amore; tale fenomenologia si riflette, nonostante l’analisi dell’effetto dell’innamoramento, nella realizzazione di ciò che tale sentimento può produrre: l’immaginazione. Già nel primo verso, settenario, l’unica parola, “meravigliosamente”, non rimanda solamente al tema dello stupore per il sentimento che si prova, ma a quello di “guardare con meraviglia”, cioè dell’osservazione. Si badi, ad esempio, la sostituzione paritaria tra donna e immagine e quella tra innamoramento e gestualità; tutto sembra racchiudersi in un cerchio: il poeta innamorato vede la donna e si meraviglia; quindi non può guardarla più per timidezza e l’immagina e in questo “negare” lo sguardo, la donna deve cogliere l’amore di lui (lui guarda lei che guarda lui che non la guarda più per ritrosia e quindi ne è innamorato).

Ma la poesia siciliana, essendo una poesia di corte, non può esaurirsi nella perfezione formale con cui si tratteggia il sentimento dell’amore. Spesso lo stesso amore può assumere caratteristiche più “realistiche”, atte a spronare la corte stessa al riso e al divertimento, segnando il profondo distacco tra l’amore cortese ed una villanella, cioè l’amore tra un giullare ed una contadina:

 Ciullo_d'Alcamo.JPG

Busto marmoreo di Ciullo (Cielo) d’Alcamo a Palermo

CIELO D’ALCAMO

 ROSA FRESCA AULENTISSIMA

«Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state,
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate:
tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate;
per te non ajo abento notte e dia,
penzando pur di voi, madonna mia».

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,
l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare:
avere me non pòteri a esto monno;
avanti li cavelli m’aritonno».

«Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto,
ca’n is[s]i [sí] mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto.
Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,
bono conforto dónimi tut[t]ore:
poniamo che s’ajúnga il nostro amore».

«Che ’l nostro amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:

se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti,
guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.
Como ti seppe bona la venuta,
consiglio che ti guardi a la partuta».

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

Una difensa mèt[t]onci di dumili’ agostari:
non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari.
Viva lo ‘mperadore, graz[i’] a Deo!
Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino.
Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino.
Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,
e per ajunta quant’ha lo soldano,
toc[c]are me non pòteri a la mano».

«Molte sono le femine c’hanno dura la testa,
e l’omo con parabole l’adímina e amonesta:
tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta.
Femina d’omo non si può tenere:
guàrdati, bella, pur de ripentere».

«K’eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse ripresa!
[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.
Aquístati riposa, canzonieri:
le tue parole a me non piac[c]ion gueri».

«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core,

e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!
Femina d’esto secolo tanto non amai ancore
quant’amo teve, rosa invidïata:
ben credo che mi fosti distinata».

«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,
ché male messe fòrano in teve mie bellezze.
Se tut[t]o adiveníssemi, tagliàrami le trezze,
e consore m’arenno a una magione,
avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone».

«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri,
a lo mostero vènoci e rènnomi confleri:
per tanta prova vencerti fàralo volontieri.
Conteco stao la sera e lo maitino:
Besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino».

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato!
Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato:
concepístimi a abàttare in omo blestiemato.
Cerca la terra ch’este gran[n]e assai,
chiú bella donna di me troverai».

«Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,
Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te prese».

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,
e sposami davanti da la jente;
e poi farò le tuo comannamente».

«Di ciò che dici, vítama, neiente non ti bale,
ca de le tuo parabole fatto n’ho ponti e scale.
Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l’ale;
e dato t’ajo la bolta sot[t]ana.
Dunque, se po[t]i, tèniti villana».

«En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:

istòmi ’n esta grorïa d’esto forte castiello;
prezzo le tuo parabole meno che d’un zitello.
Se tu no levi e va’tine di quaci,
se tu ci fosse morto, ben mi chiaci».

«Dunque vor[r]esti, vítama, ca per te fosse strutto?
Se morto essere déb[b]oci od intagliato tut[t]o,
di quaci non mi mòs[s]era se non ai’ de lo frutto
lo quale stäo ne lo tuo jardino:
disïolo la sera e lo matino».

«Di quel frutto non àb[b]ero conti né cabalieri;
molto lo disïa[ro]no marchesi e justizieri,
avere no’nde pòttero: gíro’nde molto feri.
Intendi bene ciò che bol[io] dire?
Men’este di mill’onze lo tuo abere».

«Molti so’ li garofani, ma non che salma ’nd’ài:
bella, non dispregiàremi s’avanti non m’assai.
Se vento è in proda e gírasi e giungeti a le prai,
arimembrare t’ao [e]ste parole,
ca de[n]tr’a ’sta animella assai mi dole».

«Macara se dolés[s]eti che cadesse angosciato:
la gente ci cor[r]es[s]oro da traverso e da·llato;
tut[t]’a meve dicessono: ’Acor[r]i esto malnato’!
Non ti degnara porgere la mano
per quanto avere ha ’l papa e lo sodano».

«Deo lo volesse, vitama, te fosse morto in casa!
L’arma n’anderia cònsola, ca dí e notte pantasa.
La jente ti chiamàrono: ’Oi perjura malvasa,
c’ha’ morto l’omo in càsata, traíta!’
Sanz’on[n]i colpo lèvimi la vita».

«Se tu no levi e va’tine co la maladizione,
li frati miei ti trovano dentro chissa magione.
[…] be·llo mi sof[f]ero pèrdinci la persone,
ca meve se’ venuto a sormonare;
parente néd amico non t’ha aitare».

«A meve non aítano amici né parenti:
istrani’ mi so’, càrama, enfra esta bona jente.
Or fa un anno, vítama, che ’ntrata mi se’ [‘n] mente.
Di canno ti vististi lo maiuto,
bella, da quello jorno so’ feruto».

«Di tanno ’namoràstiti, [tu] Iuda lo traíto,
como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?
S’a le Va[n]gele júrimi che mi sï’ a marito,
avere me non pòter’a esto monno:
avanti in mare [j]ít[t]omi al perfonno».

Se tu nel mare gít[t]iti, donna cortese e fina,
dereto mi ti mísera per tut[t]a la marina,
[e da] poi c’anegàs[s]eti, trobàrati a la rena
solo per questa cosa adimpretare:
conteco m’ajo a[g]giungere a pec[c]are».

«Segnomi in Patre e ’n Filïo ed i[n] santo Mat[t]eo:
so ca non se’ tu retico [o] figlio di giudeo,
e cotale parabole non udi’ dire anch’eo.
Morta si [è] la femina a lo ’ntutto,
pèrdeci lo saboro e lo disdotto».

«Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.
Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.
Ancora tu no m’ami, molto t’amo,
sí m’hai preso come lo pesce a l’amo».

«Sazzo che m’ami, [e] àmoti di core paladino.
Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.
Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t’amo e fino.
Quisso t’[ad]imprometto sanza faglia:
te’ la mia fede che m’hai in tua baglia».

«Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.
Intanti pren[n]i e scànnami: tolli esto cortel novo.
Esto fatto far pòtesi intanti scalfi un uovo.
Arcompli mi’ talento, [a]mica bella,
ché l’arma co lo core mi si ’nfella».

«Ben sazzo, l’arma dòleti, com’omo ch’ave arsura.
Esto fatto non pòtesi per null’altra misura:
se non ha’ le Vangel[ï]e, che mo ti dico ’Jura’,
avere me non puoi in tua podesta;
intanti pren[n]i e tagliami la testa».

«Le Vangel[ï]e, càrama? ch’io le porto in seno:
a lo mostero présile (non ci era lo patrino).
Sovr’esto libro júroti mai non ti vegno meno.
Arcompli mi’ talento in caritate,
ché l’arma me ne sta in sut[t]ilitate».

«Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.
Sono a la tua presenz[ï]a, da voi non mi difenno.
S’eo minespreso àjoti, merzé, a voi m’arenno.
A lo letto ne gimo a la bon’ora,
ché chissa cosa n’è data in ventura».

ciullo2.jpg

Trovatore e donzella

Rosa fresca profumatissima che appari verso estate, le donne ti desiderano, giovani e maritate: tirami fuori da questi fuochi, se è tua volontà. Per te non ho pace notte e giorno, pensando sempre a voi, mia Signora. // Se ti tormenti per me, la follia te lo fa fare. Potresti rompere con l’aratro il mare, e seminare il vento, potresti riunire tutte le ricchezze del mondo: non mi potresti avere però in questo modo. Piuttosto mi taglio i capelli [mi faccio monaca]. //  Se ti tagli i capelli, prima io vorrei esser morto, perché con essi io perderei la mia consolazione e il mio diletto. Quando passo da casa tua e ti vedo, rosa fresca dell’orto, ogni volta mi dai un buon conforto: facciamo sì che il nostro amore si congiunga. // Che questo nostro amore si unisca non voglio che mi piaccia. Se qui ti trova mio padre con gli altri miei parenti, guarda che non ti colgano questi buoni corridori [perché t’inseguiranno]. Come ti fu facile venire qui, ti consiglio di stare attento alla partenza. // Se mi trovano i tuoi parenti, che mi posson fare? Ci metto una difesa di duemila augustali. Non mi toccherà tuo padre per quanta ricchezza c’è in Bari. Viva l’Imperatore, grazie a Dio! Capisci, bella, quel che dico. // Tu non mi lasci vivere né di sera né di mattina. Sono donna di grande ricchezza [di bisanti d’oro bizantini e di monete arabe]. Se pur tu mi donassi tutto quanto ha il Saladino, e per aggiunta quanto ha il Soldano, tu non mi potresti toccare neppure con la mano. // Ci sono molte femmine che hanno la testa dura, e l’uomo con le parole le domina e le persuade; tanto intorno le dà la caccia finché non l’ha in suo potere. La femmina non si può difendere in alcun modo dall’uomo: guardati, bella, dal dovertene pentire. // Dovermene io pentire? Possa io morire, prima che qualche donna onesta possa essere rimproverata a causa mia! Ieri sera sei passato correndo a cavallo. Perciò riposati adesso, canterino; le tue parole non mi piacciono affatto. // Quanti sono gli schianti che m’hai messo nel cuore, e solo pensandoti, il giorno quando vado fuori! Nessuna femmina di questo mondo ho ancora mai amato quanto te, rosa invidiata; son certo che mi sei destinata dal cielo. // Se fossi destinata a te scenderei troppo dalla mia altezza, perché le mia bellezza sarebbe sprecata se data a te. Se mi dovesse avvenire una tal disgrazia, mi taglierò le trecce, e mi farò suora in un monastero, prima ancora che tu mi tocchi nella persona. // Se ti fai suora, donna dal viso chiaro, verrò al monastero e mi farò frate: per piacerti in questa prova lo farò volentieri. Starò con te la sera e il mattino: a tutti i costi dovrò farti mia. // Ohimè, misera tapina, com’è triste il mio destino! Gesù Cristo, l’Altissimo, del tutto è adirato con me; mi hai fatto nascere per darmi in mano a un tal bestemmiatore! Cerca nel mondo, che è assai grande; [certo] troverai una donna più bella di me. // Ho già cercato in Calabria, Toscana e Lombardia, in Puglia, Costantinopoli, Genova, Pisa e in Siria, in Germania, a Babilonia e in Africa del nord; mai ho trovato una donna tanto cortese: e per questo ti ho scelta come mia sovrana. // Poiché ti sei tanto affaticato [in questa ricerca] ti faccio una preghiera: che tu vada a domandarmi a mia madre e a mio padre. Se acconsentono a darmiti in sposa, portami al monastero, e sposami davanti alla gente, e poi farò ciò che vuoi. // Di ciò che dici, vita mia, niente ti vale, poiché delle tue storie non ne parlo nemmeno più. Pensasti di mettere le penne, ma ti son cadute le ali; e ti ho dato il colpo di grazia. Dunque, se puoi, continua a essere villana. //  Non mi far paura con i tuoi stratagemmi: me ne sto in gloria in questo forte castello; considero le tue parole meno di quelle di un fanciullo. Se tu non ti levi e te ne vai di qua, certo vorrei che fossi morto. // Dunque tu vorresti, vita mia, che per te io fossi distrutto? Anche se dovessi qui morire o sfregiato completamente, di qua non mi muoverei se non ho il frutto che sta nel tuo giardino: lo desidero dalla sera alla mattina. //  Quel frutto non l’hanno avuto né conti né cavalieri; molto l’hanno desiderato marchesi e giudici regionali, ma non hanno potuto averlo: se ne sono andati molto adirati. Capisci quello che voglio dire? Ciò che tu hai è meno di mille once. //  Molti sono i chiodi di garofano, ma non tanti da formare un gran peso: bella, non mi disprezzare se non provi prima. Se il vento è a prua e gira ti raggiungo sulla spiaggia, ti ricordo queste parole, poiché dentro queste animelle molto mi duole. //  Almeno [magari] ti dolessi da cadere privo di sensi: la gente correrebbe da tutte le parti; tutti mi direbbero: “Soccorri questo malnato!”. Non mi degnerei di porgerti la mano nemmeno per quanto ha il Papa e il Sultano. // Dio lo volesse, vita mia, che io morissi in casa tua! L’arma ne sarebbe consolata, poiché delira giorno e notte. La gente ti chiamerebbe: “O malvagia spergiura, ché hai ucciso l’uomo in casa, traditora!”. Invece mi togli la vita senz’alcun bisogno di ferita. //  Se non ti levi e te ne vai con la maledizione, i miei fratelli ti trovano dentro questa casa. Ammetto senza obiezione che tu perda la vita; [e] nessun parente o amico ti può aiutare. //  A me non m’aiutano né parenti né amici: io sono forestiero, cara mia, tra questa buona gente. Or fa un anno, vita mia, che mi sei entrata in mente. Da quando ti ho vista in maggio, bella, da quel giorno son ferito [innamorato]. //  Così tanto ti sei innamorato, tu Giuda traditore, come se fossi [io ?] porpora, o velluto scarlatto? Giurami sul Vangelo che vuoi sposarmi, non mi potrai avere in questo modo: prima mi getterei nel profondo del mare. //  Se tu ti getti nel mare, donna cortese e fine, mi getterò dietro a te attraverso tutto il mare, e dopo che sei annegata, ti troverò sulla spiaggia solo per compiere questa cosa: con te voglio congiungermi per peccare. // Mi segno nel nome del Padre del Figlio e in quello di San Matteo: so che non sei eretico o giudeo, e codeste parole finora non le hai sentite dire. Se la femmina è morta in tutto e per tutto, ci perdi il sapore e il piacere. // Questo lo so bene, cara mia: altro non posso fare. Se questo non fai per me, lasciami cantare. Ti piaccia farlo, mia donna, ché certo lo puoi fare. Ancora tu non m’ami, e molto io ti amo, m’hai preso all’amo come un pesce. //  So che m’ami, e io ti amo con cuore nobile. Alzati su e vattene, torna qui al mattino. Se fai ciò che dico, ti amo con cuore buono e prezioso. Questo ti prometto senza fallo: hai la mia promessa in tua balia. //  Per quello che dici, cara mia, non mi muovo affatto. Prima prendi e scannami: prendi questo coltello nuovo. Si può far questo prima che si cuocia un uovo. Esaudisci il mio desiderio, amica bella, perché l’arma mi si rattrista con il cuore. //  Questo lo so bene, l’arma ti duole, come l’uomo che arde. Questo non può essere fatto a nessun’altra condizione se non hai il Vangelo, affinché io ti dica “giura”, non puoi avermi in tuo potere; prima prendi e tagliami la testa. //  Il Vangelo, cara mia? io lo porto con me: l’ho preso in chiesa (non c’era il prete). Sopra questo libro giuro di non tradirti mai. Esaudisci il mio desiderio per carità, ché l’arma me ne se sta in consunzione. //  Mio signore, poiché hai giurato, io ardo tutta quanta. Sono alla tua presenza, da voi non mi difendo. Se io ti ho disprezzato, mercé, a voi mi arrendo. Andiamo a letto alla fine, perché questa cosa ci è per nostra buona sorte.

E’ questo un contrasto: per meglio dire una poesia dialogata in cui le strofe dispari corrispondono al discorso di lui, quelle pari a quello di lei. Ciò che colpisce non è tanto la narrazione (la donna passa dalla ritrosia all’intera accettazione dell’atto sessuale propostole dal giullare) quanto la forma, che è d’origine provenzale, e il linguaggio. Su quest’ultimo, infatti, dobbiamo notare che non abbiamo la differenza tra l’uomo e la donna (la cultura contro la semplicità), quanto la parità tra ambedue, che ha fatto dire, ad alcuni, che la lirica è realmente popolare. Ma parte del tessuto linguistico è mediato dalla poesia cortese, mescolata con detti e forme popolari: tutto ciò farebbe protendere più per una voluta parodia.

Comuni

Mentre in Europa sia pur formalmente si stanno formando gli Stati Nazionali, nell’Italia del Nord si rafforzano i Comuni, che riusciranno ad imporsi sia all’idea imperiale che papale. Sin dal ’200 i mercanti riescono a farsi promotori della vita cittadina, nominando un potestà e un capitano del popolo, che cercano di controllare anche le velleità aristocratiche della città stessa. Ciò determina una differenza di base all’interno della città:

  • il popolo minuto: è la classe che fa le attività più modeste e artigianali;
  • il popolo grasso: mercanti, banchieri e imprenditori, vera classe emergente che tende a porsi come guida sia economica che culturale;
  • aristocratici: vecchi proprietari terrieri, che cerca, sia pure con difficoltà, di mantenere il potere.

All’inizio il Comune è caratterizzato da una politica, nei modi, ancora feudale: come il vecchio signore, infatti, esso è teso ad acquisire territori per allargare il suo potere: quindi acquisire territori della campagna che fornisce le materie prime di cui la città usufruisce, sia a livello di trasformazione (gli artigiani) che di consumo. Ciò favorisce chi di questo scambio si fa promotore, colui che sposta, in cambio di un beneficio, i beni, nelle fiere, sempre più numerose, e in ogni occasione lo possa fare. E’ in questo modo che emerge la figura del mercante. Costui consegnerà tale bene nelle mani di chi dovrà trasformarlo in prodotto, l’imprenditore, che a sua volta lo darà al vero e proprio lavoratore, il lavoratore salariato nella sua bottega o, più fortunato, l’artigiano autonomo.

Questo segna la fine dell’economia chiusa e favorisce una nuova visione della società il cui scambio mercantile e la mobilità sociale diventano punti di riferimenti ideologici. Ma nel momento in cui una città, come detto, cerca un luogo in cui procurarsi le materie prime, esse diventano concorrenti fra loro, nel voler accaparrarsi i terreni migliori. Quindi finiranno per prevalere comuni come Milano nel Nord, posta al crocevia di un intenso traffico e, in Toscana, Lucca e Siena che contenderanno il potere alla sempre più forte Firenze, nel centro Italia Bologna, sede di un’importantissima università.

Poesia toscana-cortese

Da una parte l’arrivo dopo la crociata degli Albigesi di trovatori nel Nord Italia, che insegnarono ai poeti locali non solo la lingua, ma anche i temi; dall’altra la fine del ghibellinismo, con la morte dapprima di Manfredi e poi di Corradino di Svevia (figlio e nipote di Federico II), diedero vita alla nascita di una poesia nella regione più progredita d’Italia di allora, che prendesse spunto dalle esperienze occitaniche e siciliane.

Ciò è dimostrato dall’acquisizione di temi che i Toscani fecero, “toscanizzando” un grande numero di poesie della gran corte, facendole tuttavia “sposare” con il dinamismo culturale e politico delle città, con la lotta tra guelfi e ghibellini ed il predominio di una città sull’altra. Infatti la ripresa non può considerarsi totale: ne è un classico esempio ila canzone di carattere politico di Guittone d’Arezzo che riprende il sirventese provenzale che non aveva avuto spazio tra i poeti di Federico II:

5156_Guittone-A01.jpg

Immagine di Guittone d’Arezzo

AHI LASSO, OR E’ STAGION DE DOLER TANTO 

Ahi lasso, or è stagion de doler tanto
a ciascun om che ben ama Ragione,
ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,
ca morto no l’ha già corrotto e pianto,
vedendo l’alta Fior sempre granata
e l’onorato antico uso romano
ch’a certo pèr, crudel forte villano,
s’avaccio ella no è ricoverata:
ché l’onorata sua ricca grandezza
e ’l pregio quasi è già tutto perito
e lo valor e ’l poder si desvia.
Oh lasso, or quale dia
fu mai tanto crudel dannaggio audito?
Deo, com’hailo sofrito,
deritto pèra e torto entri ’n altezza?

Altezza tanta êlla sfiorata Fiore
fo, mentre ver’ se stessa era leale,
che ritenea modo imperïale,
acquistando per suo alto valore
provinci’ e terre, press’o lunge, mante;
e sembrava che far volesse impero
sì como Roma già fece, e leggero
li era, c’alcun no i potea star avante.
E ciò li stava ben certo a ragione,
ché non se ne penava per pro tanto,
como per ritener giustizi’ e poso;
e poi folli amoroso
de fare ciò, si trasse avante tanto,
ch’al mondo no ha canto
u’ non sonasse il pregio del Leone.

Leone, lasso, or no è, ch’eo li veo
tratto l’onghie e li denti e lo valore,
e ’l gran lignaggio suo mort’a dolore,
ed en crudel pregio[n] mis’ a gran reo.
E ciò li ha fatto chi? Quelli che sono
de la schiatta gentil sua stratti e nati,
che fun per lui cresciuti e avanzati
sovra tutti altri, e collocati a bono;
e per la grande altezza ove li mise
ennantir sì, che ’l piagãr quasi a morte;
ma Deo di guerigion feceli dono,
ed el fe’ lor perdono;
e anche el refedier poi, ma fu forte
e perdonò lor morte:
or hanno lui e soie membre conquise.

Conquis’è l’alto Comun fiorentino,
e col senese in tal modo ha cangiato,
che tutta l’onta e ’l danno che dato
li ha sempre, como sa ciascun latino,
li rende, e i tolle il pro e l’onor tutto:
ché Montalcino av’abattuto a forza,
Montepulciano miso en sua forza,
e de Maremma ha la cervia e ’l frutto;
Sangimignan, Pog[g]iboniz’ e Colle
e Volterra e ’l paiese a suo tene;
e la campana, le ’nsegne e li arnesi
e li onor tutti presi
ave con ciò che seco avea di bene.
E tutto ciò li avene
per quella schiatta che più ch’altra è folle.

Foll’è chi fugge il suo prode e cher danno,
e l’onor suo fa che vergogna i torna,
e di bona libertà, ove soggiorna
a gran piacer, s’aduce a suo gran danno
sotto signoria fella e malvagia,
e suo signor fa suo grand’ enemico.
A voi che siete ora in Fiorenza dico,
che ciò ch’è divenuto, par, v’adagia;
e poi che li Alamanni in casa avete,
servite i bene, e faitevo mostrare
le spade lor, con che v’han fesso i visi,
padri e figliuoli aucisi;
e piacemi che lor dobiate dare,
perch’ebber en ciò fare
fatica assai, de vostre gran monete.

Monete mante e gran gioi’ presentate
ai Conti e a li Uberti e alli altri tutti
ch’a tanto grande onor v’hano condutti,
che miso v’hano Sena in podestate;
Pistoia e Colle e Volterra fanno ora
guardar vostre castella a loro spese;
e ’l Conte Rosso ha Maremma e ’l paiese,
Montalcin sta sigur senza le mura;
de Ripafratta temor ha ’l pisano,
e ’l perogin che ’l lago no i tolliate,
e Roma vol con voi far compagnia.
Onor e segnoria
adunque par e che ben tutto abbiate:
ciò che desïavate
potete far, cioè re del toscano.

Baron lombardi e romani e pugliesi
e toschi e romagnuoli e marchigiani,
Fiorenza, fior che sempre rinovella,
a sua corte v’apella,
che fare vol de sé rei dei Toscani,
dapoi che li Alamani
ave conquisi per forza e i Senesi.

e7ce0925258cd39a1af0f5f87d1af6c1.jpg

La battaglia di Montaperti

Ahimè, ora è il momento di soffrire molto / da parte di ciascuno che ama la Ragione / che io mi meraviglio dove trovi conforto / e che la disperazione e il pianto non lo abbiano già ucciso, / vedendo l’alto valore di Firenze sempre fiorito / ed la sua antica consuetudine Romana / che di certo stanno morendo, fatto crudele e assai vergognoso / se al più presto essa non è soccorsa / che l’onorevole sua ricca grandezza / ed il suo grande pregio è già quasi del tutto sparito / ed il valore ed il potere prendono altra via. / Ahimè, in quale giorno / si udì una così crudele sventura? / Dio, come hai potuto sopportare, / che muoia il diritto e s’innalzi il torto? //  Una grande altezza nella ora sfiorita Firenze / un tempo fu, mentre era leale verso se stessa / che manteneva un aspetto imperiale / acquistando, per la sua virtù / numerose province e terre, vicine e lontane / e sembrava volesse costituire un impero / così come fece Roma, e facile / le era, che non c’era nessuno che la potesse sopravanzare / E ciò le aspettava certamente di diritto / perché non si preoccupava soltanto per il proprio vantaggio / ma come per ottenere giustizia e riposo / e dal momento in cui fu semplice / fare ciò, avanzò talmente tanto / che al mondo non vi è un angolo / dove non risuonasse il valore del Leone (Firenze). //  Un Leone, ahimè, che ora non è più, che io lo vedo / con le unghie, i denti e la forza portati via, / e la sua nobile stirpe uccisa con dolore / e messa in prigione con grande ingiustizia /E chi ha fatto ciò? Quelli che sono / discesi e nati dalla sua stirpe / che furono, attraverso di lui, cresciuti e resi potenti / sopra ogni altro uomo, e collocati in posizioni di prestigio; / e per la grande altezza in cui li mise / inorgoglirono a tal punto che gli procurarono ferite quasi ad ucciderlo; (allusione alla cacciata dei guelfi nel 1248) / ma Dio gli fece il dono della guarigione e diede loro il perdono (allusione alla pace stipulata tra guelfi e ghibellini nel 1251) / e lo ferirono ancora una volta (allusione alla congiura ghibellina del 1258) ma (il Leone) fu forte e li risparmiò dalla morte / ed ora hanno lui e le sue membra conquistate (allusione alla sconfitta guelfa nella battaglia di Montaperti nel 1260). // E’ conquistato il prestigioso Comune fiorentino / e ha scambiato le sue sorti con quello senese / che tutta la vergogna ed il danno che Firenze gli ha dato / sempre, come sa ogni italiano / glielo restituisce, e gli toglie il vantaggio acquistato e tutto l’onore: / che Siena ha abbattuto con la forza Montalcino / ha conquistato Montepulciano / ed ha il tributo della Maremma; / San Gimignano, Poggibonsi e Colle Val d’Elsa / e Volterra e tutto il suo contado ha preso / e la campana, i vessilli, le armi / e tutti gli onori sono stati portati via /e tutto ciò che c’era di utile / per colpa di quella stirpe che sopra ogni altra è folle. //  Folle è chi fugge il suo vantaggio e cerca il proprio danno / e fa sì che il suo onore si trasformi in vergogna / e da una buona libertà, in cui si trova / con gran piacere, si riduce a suo danno / sotto una signoria malvagia e perfida / e sceglie come signore il suo grande nemico. / A voi che siete ora in Firenze dico / che ciò che è successo, pare, vi piaccia; / e poiché avete i Tedeschi in casa / serviteli bene, e fatevi mostrare / le loro spade, con cui hanno ferito i vostri volti / e ucciso i padri e i figli; / e mi piace che ora dobbiate dar loro /perché nel fare ciò / s’affaticarono molto, un gran numero di vostre monete. // Presentate una grande quantità di monete di gioielli / ai Conti e agli Uberti (potenti famiglie Ghibelline) e a tutti gli altri / che vi hanno condotti a così grande onore / che hanno messo Siena in vostro potere / Pistoia, Volterra e Colle Val d’Elsa, a loro spese, /ora difendono i vostri castelli / ed il conte rosso (Aldobrando Aldobrandini, signore di Siena) possiede la Maremma e Montalcino sta sicura, senza mura difensive; / e il pisano teme il castello di Ripafratta / e il perugino vi prega che non gli togliate il lago Trasimeno / e Roma vuole allearsi con voi / Dunque sembra che abbiate onore e tutti i beni / ciò che desideravate / potete fare, cioè diventare padroni di Firenze (in questa stanza viene utilizzata la tecnica dell’antifrasi). // Baroni lombardi, romani e pugliesi / toscani, romagnoli e marchigiani, Firenze, Fiore che sempre rifiorisce / vi chiama nella sua corte / che vuol proclamarsi signora della Toscana /dopo che i Tedeschi / ha sconfitto con la sua forza ed anche i Senesi. 

La canzone presenta alcune importanti caratteristiche che possiamo vedere sia a livello contenutistico che formale: essa parte dalla battaglia di Montaperti (1260) che segna la sconfitta di Firenze e quindi del guelfismo per mano di Siena e quindi del ghibellinismo. Lo sdegno per la disfatta della città toscana di cui i guelfi aretini erano alleati, permea l’intero componimento che va dal compianto al vero e proprio sarcasmo. Tutto questo è tessuto da un lessico arduo e di difficile comprensione, ripreso dal trobar clou provenzale, quasi volesse significare che lo sforzo lessicale con cui proclamava la sua realtà dovesse rispondere, infine, alla sua difficile posizione morale.

Interessante del poeta aretino è anche il modo con cui tratta il tema amoroso, dove prevale, in ottemperanza al trobar clou, un’esasperazione retorica:

TUTTOR CH’EO DIRO’ GIOI, GIOIVA COSA

Tuttor chʼeo dirò gioi, gioiva cosa,
intenderete che di voi favello,
che gioia sete di beltá gioiosa
e gioia di piacer gioioso e bello,

e gioia in cui gioioso avenir posa,
gioi d’adornezze e gioi di cor asnello;
gioia in cui viso è gioi tant’amorosa
ched è gioiosa gioi mirare in ello.

Gioi di volere e gioi di pensamento
e gioi di dire e gioi di far gioioso
e gioi d’onni gioioso movimento:

per ch’eo, gioiosa gioi, sí disioso
di voi mi trovo, che mai gioi non sento
se ’n vostra gioi il meo cor non riposo.

Ogni volta che io dirò gioia, (o) essere gioioso, capirete che parlo di voi, che siete gioia di bellezza gioiosa e gioia di piacere gioioso e bello, e (siete) gioia in cui risiede bellezza gioiosa, gioia di eleganza e gioia di corpo snello; gioia nel cui volto c’è gioia che innamora a tal punto che è una gioia gioiosa guardarlo. (siete) gioia della volontà e gioia di pensiero e gioia di dire e gioia del comportamento gioioso e gioia di ogni momento gioioso. Per cui io, (o) gioia gioiosa, sono così desideroso di voi, che non provo mai (nessuna) gioia se non placo il mio cuore nella gioia che voi date.

Interessante di questa scuola è soprattutto un’altra poesia, di Bonagiunta Orbicciani, un sonetto per la precisione, non tanto per il valore in sé, ma in quanto precisa la differenza tra questo gruppo di poeti e quello che animerà lo stilnovo:

VOI CH’AVETE MUTATA LA MANIERA

Voi ch’avete mutata la mainera
de li piagenti ditti de l’amore
de la forma dell’esser là dov’era,
per avansare ogn’altro trovatore,

avete fatto como la lumera
ch’a le scure partite dà sprendore,
ma non quine ove luce l’alta spera,
la quale avansa e passa di chiarore.

Così passate voi di sottigliansa,
e non si può trovar chi ben ispogna,
cotant’è iscura vostra parlatura.

Ed è tenuta grave ’nsomilliansa,
ancor che ’l senno vegna da Bologna,
traier canson per forsa di scritura.

Voi che avete cambiato lo stile / degli eleganti componimenti d’amore / della forma che essi avevano / per superare ogni altro poeta, // avete fatto come la luce / che illumina le parti scure, / ma non qui dove riluce l’alto sole / il quale avanza e supera ogni altro chiarore. // Così passate per intellettualismo / e non si trova chi spieghi con chiarezza, / tanto è scuro il vostro parlare. // Ed è considerata una grande stravaganza / sebbene la sapienza origini da Bologna /trarre una canzone estraendola a forza dai testi (delle auctoritates).

Infatti sarà proprio Bonagiunta, in un passo del Purgatorio a rendersi conto di ciò che aveva tenuto al di qua la poesia di Guittone e la sua dalla grande novità dello “stilnovo”, il movimento culturale che partirà tuttavia proprio grazie alla loro esperienza poetica.

Per concludere è bene ricordare che una delle opere più ricordate del nostro ’200 è il frutto di una mentalità prettamente mercantile; quest’opera è il Milione di Marco Polo. Era costui un mercante che, dopo un primo viaggio del padre e dello zio, si diresse, via terra, insieme a loro nell’estremo Oriente. Tornato a Venezia venne fatto prigioniero durante la guerra che contrapponeva la sua città con quella di Genova ed infine liberato. Durante la prigionia dettò le sue memorie di viaggio a Rustichello di Pisa le quale le scrisse in lingua d’oil. Durante il ’300 furono poi tradotte in volgare umbro.

 
 
 
 

MEDIOEVO

Convenzionalmente il Medioevo viene collocato tra il 476 d.C. e la fine del 1300; risulta estremamente chiaro che tale cronologia è puramente convenzionale; infatti la dissoluzione dell’Impero Romano è un processo lento, che avviene già nell’età di Adriano. D’altra parte, sia politicamente che socialmente l’elemento barbarico aveva già preso posto negli alti gradi dell’esercito e della burocrazia, pertanto quando Romolo Augustolo venne deposto e il re Odoacre consegnò l’insegna imperiale a Costantinopoli alla maggior parte della popolazione sembrò non fosse accaduto nulla.

Odoacre.png

Odoacre

Il medioevo, il cui termine indica un evo che sta in mezzo tra l’impero antico e l’impero moderno, è quindi un’età che, definendola così, si presuppone come non esistente. Non è realmente così: in primo luogo è bene dire che esso costituisce la fucina per l’Europa moderna (è stato il movimento romantico ad individuare questo suo compito); inoltre è in questo periodo che si forma l’ideologia cristiana e la divisione linguistica.

Per meglio definirlo è necessario dire che esso si divide in Alto Medioevo (tra la fine dell’Impero Romano e l’anno 1000), ed il Basso Medioevo (dal 1000 fino alla crisi dell’età comunale).

Gli elementi che lo hanno caratterizzato sono:

  • Le migrazioni dei popoli del Nord;
  • Il Cristianesimo come “visione” unica della realtà;
  • Il monachesimo benedettino;
  • La società feudale;
  • Il Sacro Romano Impero.

Le migrazioni dei popoli del Nord

Meglio conosciute con il termine improprio d’invasioni “barbariche” esse sono stati dei veri e propri spostamenti in cui popoli “nomadi”, originari dei territori che dalle steppe siberiane arrivavano sino al confine del Reno, cominciarono un processo migratorio che li fece irrompere fin dentro il limes romano; essi frantumarono l’Impero e attraverso un lunghissimo processo diedero forma, in seguito, ai Regni Romano-barbarici. Infatti il loro arrivo non procurò solo “distruzione”, ma ebbe anche un compito di “costruzione” che, sebbene lungo, arriverà alla soglia della modernità.

regni_romano_barbarici_fig_vol3_010660_001.jpg

I regni romano-barbarici

Il loro primo impatto si ebbe in campo linguistico; la lingua di Roma, il latino, si era estesa al seguito dell’esercito, giungendo quasi fino all’estremità del mondo allora conosciuto. E’ evidente che più lontano era l’arrivo dell’elemento latino più forte era la resistenza della lingua originaria (substrato); inoltre dal loro incontro sempre veniva fuori un codice linguistico che, più o meno, conteneva gli elementi dell’uno e dell’altro. Alla disgregazione dell’Impero, il processo avrà una dinamica opposta: più s’allentava il controllo dell’Impero più riemergeva il substrato linguistico contenente i nuovi elementi apportati dal latino (superstrato); ciò darà appunto vita a quelle lingue che gli studiosi definiscono “romanze”.

Il cristianesimo come visione unica della realtà

musei_capitolini_-_colosso_di_costantino1.jpg

Costantino: resti di una statua gigante presso i Musei Capitolini

Se Costantino, imperatore Romano tra il 321 ed il 337, accettò che la religione cristiana facesse parte dell’Impero, fu Teodosio che nel 392 la rese “religione di Stato”.

teodosio.gif

Teodosio

Ciò creò una serie di conseguenze tra le quali, sul piano culturale, s’impose quella concernente il rapporto tra tutta la tradizione culturale romana e la nuova concezione della realtà che il Cristianesimo prospettava. Infatti tutta la realtà doveva ora essere ridisegnata secondo un modello “trascendente”, ovvero sia, tutto il mondo doveva essere studiato ed osservato come emanazione dall’alto della volontà divina. Cosa fare, dunque della cultura che non aveva conosciuto Dio?

Le risposte potevano essere ispirate sia al rifiuto che all’accettazione:
'Saint_Jerome_in_his_study',_painting_by_Filippino_Lippi,_c._1493,_El_Paso_Museum_of_Art.jpg

San Gerolamo

GEROLAMO: L’INFERNO PER CHI LEGGE
I LIBRI DEI GENTILI (382)
(Epistula, XXII)

Cum subito raptus in spiritu, ad tribunal iudicis pertrahor; ubi tantum luminis, et tantum erat ex circumstantium claritate fulgoris, ut proiectus in terram, sursum aspicere non auderem. Interrogatus de conditione, Christianum me esse respondi. Et ille qui praesidebat: «Mentiris», ait, «Ciceronianus es, non Christianus: ubi enim thesaurus tuus, ibi et cor tuum». Illico obmutui, et inter verbera (nam caedi me iusserat) conscientiae magis igne torquebar, illum mecum versiculum reputans: «In inferno autem quis confitebitur tibi»? Clamare tamen coepi, et eiulans dicere: «Miserere mei, Domine, miserere mei». Haec vox inter flagella resonabat. Tandem ad praesidentis genua provoluti qui astabant, precabantur, ut veniam tribueret adolescentiae, et errori locum poenitentiae commodaret, exacturus deinde cruciatum, si Gentilium litterarum libros aliquando legissem.

Quand’ecco rapito dallo spirito, son tratto al tribunale del giudice e lì era tanta la luce e tanto il fulgore di quel luminoso ambiente che io, piegato a terra, non osavo alzare gli occhi, interrogato sulla mia condizione, risposi che io ero cristiano. Ma il presidente ribatté: «Ciceroniano sei, non cristiano. Dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore». Ammutolii e tra le percosse (poiché si era ordinato di battermi) più ancora mi sentivo tormentato dalla fiamme del rimorso e fra me ripetevo quel versetto: «Chi ti glorificherà nell’inferno?». Cominciai pure ad invocare e tra i lamenti a dire: «Misericordia di me, o Signore, misericordia di me». Questa mia voce risuonava tra le percosse. Infine gli astanti, piegatesi alle ginocchia del presidente, pregavano che perdonasse alla mia giovinezza e desse al peccatore facoltà di far penitenza, con la ferma decisione di mettermi a morte, se fossi ricaduto nella lettura dei libri dei gentili.
(trad. di Annarone)

Gerolamo, autore tra l’altro della Vulgata, cioè la traduzione in un latino lineare e semplice della Bibbia, si pone in una situazione di netto rifiuto. Se i Romani non conoscono Dio, come possono ispirare o insegnare chi invece Dio lo conosce e non può o deve tradirlo? Non c’è possibilità d’incontro: gli dei romani, Giove, Venere, Marte o Giunone, sono emanazione diabolica, in quanto portatori di sensazioni corporee e non rinneganti l’idea del piacere. Come può il Dio trascendente, incorporeo, portatore del tutto e incluso in quanto parte di esso, venire a patti con un mondo immanente? Solo l’inferno può aspettare chi si ciba di cultura pagana, soprattutto per chi la conosce e sa quanto sia perfetta e bella, ma proprio per questa sua esteriorità, ingannatrice.

 Sant_Agostino_2.jpg

Sant’Agostino

AGOSTINO: LA FILOSOFIA DI CICERONE COME STIMOLO PER AMARE DIO
(397-401)

Inter hos ego inbecilla tunc aetate discebam libros eloquentiae, in qua eminere cupiebam, fine damnabili et ventoso per gaudia vanitatis humanae; et usitato iam discendi ordine perveneram in librum cuiusdam Ciceronis, cuius linguam fere omnes mirantur, pectus non ita. Sed liber ille ipsius exhortationem continet ad philosophiam et vocatur “Hortensius”. Ille vero liber mutavit affectum meum, et ad te ipsum, domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia. Viluit mihi repente omnis vana spes, et inmortalitatem sapientiae concupiscebam aestu cordis incredibili, et surgere coeperam, ut ad te redirem. Non enim ad acuendam linguam, quod videbar emere maternis mercedibus, cum agerem annum aetatis undevicensimum, iam defuncto patre ante biennium; non ergo ad acuendam linguam referebam illum librum, neque mihi locutionem, sed quod loquebatur persuaserat.

Tra questi (oratori) io, in età all’epoca ancora immatura, studiavo i libri di eloquenza, nella quale desideravo distinguermi con un fine biasimevole e vano, attraverso le gioie della vanità umana, e secondo l’usuale programma di studi, ero già arrivato al libro di un certo Cicerone, la cui lingua quasi tutti ammiravano, non altrettanto il pensiero. Ma il libro di costui contiene un’esortazione alla filosofia, ed è intitolato “Ortensio”. Quel famoso libro mutò la mia mentalità e cambiò le mie preghiere (rivolte) a te, Signore, e rese diverse le mie aspettative e i miei desideri. Di colpo svilì in me ogni vana speranza e mi fece desiderare con un incredibile ardore di cuore l’immortalità della sapienza e incominciai a rialzarmi per ritornare a te. Ma non per affinare la lingua, cosa che sembrava che pagassi con il mensile materno – poiché avevo diciotto anni e (mio) padre era morto già da due – perciò non rivolgevo (la lettura di) quel libro per perfezionare la lingua, né mi aveva persuaso del suo stile ma di ciò di cui parlava.

E’ evidente l’atteggiamento diverso del filosofo Agostino: se Dio, in quanto ente creatore, è sempre esistito, alcuni scrittori “pagani” pur non conoscendolo o rispettandolo, nel momento in cui scrivevano le loro opere, ricevevano la Sua invisibile presenza. Ciò voleva dire che tali opere non solo riportavano ciò che il loro autore intendeva, ma anche ciò che Dio voleva che loro dicessero. Infatti, per Agostino, Dio è stato, è e sarà; in Lui il tempo non esiste, ed essendo Dio proprietario del Tempo esso è vissuto come un continuo presente. Allora le “verità” nascoste degli scrittori Romani, possono ricercarsi in quanto “eternamente valide”. Per scoprirle occorre attuare il metodo allegorico, cioè cercare dietro il velo del “dettato” la verità. Infatti “allegoria” letteralmente vuol dire “dire altro”, quindi, ad esempio dire “rosa” per intendere “bellezza”.

Ora “interpretazione allegorica” vuol dire, come detto, cercare di capire ciò che la lingua come segno indica per interpretare la volontà di Dio. Un’allegoria è appunto interpretare un “pensiero di un poeta” cercare di scorgere dietro di esso. Ad esempio l’aquila imperiale che con le sue unghie graffia il corpo lacerato di una donna, può indicare allegoricamente la conquista di Roma dell’intera penisola italiana. Questa allegoria è detta, appunto, allegoria dei poeti. Ora anche la storia è composta da segni, in quanto ogni evento può essere così interpretato; ma esso non è inventato ma successo realmente. La storia più grande per un uomo medievale è senz’altro la Bibbia, la quale è piena di “segni” che preparano la venuta di Cristo. Ma essa, come si sa, in quanto ispirata da Dio, è sempre valida e quindi piena di segni per l’uomo contemporaneo; quindi il passaggio degli Ebrei nel Mar Rosso per raggiungere la Palestina significa, allegoricamente, il percorso che l’uomo deve seguire per raggiungere la salvezza: questa è l’allegoria dei teologi.

Prendiamo i due passi sopra citati: per Girolamo il sogno è un messaggio veritiero che Dio manda per esprimere la sua volontà, segno quindi del modo in cui egli si deve comportare; la vicenda d’Agostino che leggendo Cicerone scopre l’amore per la verità e quindi per Dio, sono ambedue allegorie dei teologi. Ma il dettato ciceroniano che indicava cose altre indica, appunto, l’allegoria dei poeti.

Il monachesimo benedettino

Quando nel 529 il monaco San Benedetto fondò a Montecassino la famosa abbazia, trasformò non solo la vita monastica, ma donò all’organizzazione ecclesiastica dei monasteri un vero e proprio vademecum che la caratterizzò per l’intera sua esistenza. Egli infatti trasformò il concetto di monachesimo (che al suo interno contiene il termine greco monos, solo) da un rapporto ascetico e solitario con la divinità ad una vera e propria comunità che, rispettando una regola, prospetta un vero e proprio modus vivendi da condividere in più persone.

sanbenedetto-2.jpg

San Benedetto

DALLA “REGOLA DI SAN BENEDETTO”

Otiositas inimica est animae, et ideo certis temporibus occupari debent fratres in labore manuum, certis iterum horis in lectione divina.
Si autem necessitas loci aut paupertas exegerit ut ad fruges recolligendas per se occupentur, non contristentur, quia tunc vere monachi sunt si labore manuum suarum vivunt, sicut et patres nostri et apostoli.
Ante omnia sane deputentur unus aut duo seniores qui circumeant monasterium horis quibus vacant fratres lectioni, et videant ne forte inveniatur frater acediosus qui vacat otio aut fabulis et non est intentus lectioni, et non solum sibi inutilis est, sed etiam alios distollit: hic talis si – quod absit – repertus fuerit, corripiatur semel et secundo; si non emendaverit, correptioni regulari subiaceat taliter ut ceteri timeant.

L’ozio è nemico dell’anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.
Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino, perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli.
E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio, per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri.
Se si trovasse – non sia mai! – un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta, ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore.
Come dimostra il passo, infatti, è proprio nella preghiera e nel lavoro che l’uomo si realizza e quindi nel dono che egli fa delle sue capacità agli altri. E proprio grazie a questa organizzazione che nei monasteri e nelle abbazie si trova lo scriptorium luogo nei quali monaci esperti (amanuensi) e artisti (miniaturisti) copiavano testi sia sacri che profani. Non bisogna dimenticare che è proprio grazie a questo compito che è giunta / non giunta, incorrotta / corrotta, fino a noi parte della letteratura latina.

La società feudale 

feudalesimo_immagine_1.jpg

Il rito dell’iniziazione

Già durante l’ultimo periodo romano, con la perdita dell’autorità imperiale, ad avere maggiore importanza furono le villae guidate sempre più in modo autonomo dai signori. Le invasioni barbariche, se da una parte confermarono l’esistente, dall’altra lo rafforzarono perché proprio le villae, poste un po’ in disparte rispetto alle città, divennero luogo in cui poter trovare rifugio e protezione in cambio di sicurezza. In caso di guerra, proprio il signore, in ricompensa dei servigi resi, poteva concedere una porzione di territorio, che, in seguito, con termine germanico, veniva definito “feudo”. Colui che lo riceveva diventava “vassallo” del suo signore e s’impegnava a restituirlo alla sua morte. L’equilibrio tra il ricevere e il restituire chiaramente durava fino a quanto maggior potere possedeva il potere centrale; laddove esso mano mano scemava è evidente che sarà il potere periferico ad imporre il suo volere, fino a far diventare i terreni ricevuti ereditari (1037), sancendo in qualche modo l’assenza dello stato centrale. Il periodo in cui tale sistema s’impone è detto feudalesimo ed è caratterizzato da una serie di riti che estrema importanza ebbero sul piano culturale, quale il concetto di omaggio (sottomissione con il quale un signore feudale riconosceva la superiorità di un altro nobile), d’investitura (atto con cui veniva concesso il beneficio o feudo) e fellonia (tradimento degli obblighi esistenti fra il signore feudale e il suo vassallo).

 Il sacro romano impero

Image53.jpg

Il Sacro Romano Impero

Al di là delle vicende propriamente storiche che caratterizzano la costituzione di un nuovo imperialismo occidentale, quello che conta è proprio l’aspetto culturale che tale imperialismo ebbe per l’intero medioevo. Fra i regni romano-barbarici il più potente si mostrò quello franco, grazie anche all’asse che egli riuscì a costituire con la chiesa di Roma. In tal modo egli, infatti, si proponeva come il braccio armato del papato, difensore quindi della fede e della verità. Quando nell’800 Carlo Magno riuscì a farsi nominare imperatore dal papa e a costituire l’unità politica col sostegno dell’unità religiosa, sembrò rinascere e prendere piede l’impero romano; ma nella mente dei due protagonisti più importante forse era il fine per cui era importante ripristinare una sorte di “renovatio imperii”, perché il suo compito era quello di diffondere la verità cristiana di contro alle eresie e agli infedeli. Così la corte del nuovo imperatore doveva diventare il centro di una cultura rinnovata, che rivaleggiasse con l’antica e la superasse grazie all’aiuto di Dio.

Carlo_Magno_2.jpg

Carlo Magno

L’unitarietà della storia e del sapere

Il progetto che Carlo Magno realizzava era quello di creare una continuità tra l’impero di Roma ed il suo; si trattava cioè di riproporre, rinnovata, la grande funzione civilizzatrice (ora anche religiosa) che l’Urbe aveva avuto. Tale riproposizione, tuttavia, non si presenta sotto il segno di un rinnovamento, ma di un vero e proprio compimento che lo stesso Dio aveva disegnato:

  • Fondazione di Roma
  • Cesare fondatore dell’impero (unità politica)
  • Diffusione della sua lingua e cultura
  • Tiberio successore di Cesare e la nascita di Cristo
  • Pietro primo pontefice (unità dei cattolici)
  • Roma capitale del cattolicesimo e sede del papato

Tutto questo era, per l’uomo medievale, il disegno di Dio, per meglio a provvidenza di Dio; ma se tale disegno avviene nella sua mente, esso si presenta come simultaneo; quindi non c’è distinzione cronologica, ma realizzazione dell’attimo: nessuna evoluzione, nessuna storia.

Historia Bellatores Oratores Laboratores.jpg

E ciò che è nella mente di Dio bisogna trovi la sua realizzazione nel presente, che diventa speculum, specchio, della volontà divina. Essa quindi si struttura come una piramide che deve rimanere immutabile, nel cui vertice vi sono gli oratores e sotto dapprima i bellatores e quindi i laboratores: ogni classe sociale, essendo destinata da Dio a compiti immobili nel tempo non può essere mobile: da qui la diffidenza della chiesa verso il denaro, che, come bene immobile, può mettere in crisi tale struttura.

L’organizzazione del sapere medievale

scriptoria.jpg

Esempio di “scriptorium”

Il presente è realizzazione del pensiero simultaneo di Dio: perciò esso è immutabile sia nella rappresentazione che nella realtà. Se ambedue sono proiezione di Dio non c’è classifica fra di esse, ma partecipano tutte al suo progetto. Bisogna perciò conoscerle tutte indistintamente (enciclopedismo).

Il sapere universale, distingue le artes (cioè le discipline, ma intese in modo diverso da oggi) in arti del trivio e del quadrivio:

  • Trivio: grammatica, retorica e dialettica;
  • Quadrivio: aritmetica, geometria, astronomia e musica.

A voler specificare potremo dire che le prime appartengono alla sfera del ben parlare e scrivere e quindi ben predicare la parole di Dio; le seconde vertono non proprio sulla conoscenza scientifica, ma sul valore simbolico del numero e delle forme geometriche (si pensi a Dante e al numero tre o alla figura del cerchio), sull’influenza degli astri sulla vita dell’uomo (astrologia e astronomia appartengono ad un unico sapere) e sull’armonia celeste dei suoni (ancora si rivolga l’attenzione all’importanza dei canti nelle funzioni liturgiche)

La dissoluzione vista nell’inizio e la regola di San Benedetto ci danno l’idea che gli unici a possedere la cultura in età medievale, per lo meno quello alta, siano stati gli ecclesiastici, tanto che la figura dell’intellettuale con quella del chierico vennero a coincidere. Erano appunto loro che, a livello alto, diedero vita a delle vere e proprie opere filosofiche la cui conoscenza sta alla base del pensiero medievale; ma furono altrettanto loro che, a livello basso, attraverso la predicazione e gli exempla tratti dalle sacre scritture, grazie alle favolose vite dei santi, porteranno la parola di Dio alla gente semplice.

Le basi filosofiche del Medioevo

Abbiamo volutamente sottolineato il modo in cui gli intellettuali cercano di rispondere alle sollecitazioni che il mondo classico offre loro; sarebbe tuttavia riduttivo non parlare dell’influenza araba che in 150 anni si espanse in Europa dall’Arabia alla quasi totalità della Spagna. Gli arabi ci consegnarono uno straordinario sapere astronomico-matematico (la scrittura dei numeri odierni è araba così come l’introduzione del numero zero, allo stesso modo la terminologia astronomica con parole come nadir e azimut) e recuperarono il sapere filosofico greco riportando tra il VII e il VI secolo i grandi pensatori, che non erano più letti in lingua originale, infatti le opere di Aristotele ricomparvero in Occidente grazie al commento di un grande intellettuale arabo, Averroè.

San-TOmmaso-d-Aquino-beato-angelico-2.jpg

San Tommaso d’Aquino

Grazie ad essi si poté formare il modello attraverso cui stabilire il sapere medievale, infatti san Tommaso, nel Basso medioevo, si contrappose alla visione mistica (di origine platonica, secondo cui alla base dell’amore per Dio vi è la fede) per individuare una visione matematica secondo cui alla base dell’amore per Dio si giunge a livello razionale. Egli infatti, attraverso la filosofia aristotelica, che riusciva ad analizzare il reale attraverso le categorie, riuscì a sistemare in una struttura ferrea e logica la “verità” teologica, arrivando alla definizione di “causa prima da cui deriva la molteplicità della creazione”

L’ETA’ CORTESE

ywain-gawain

L’età cortese occupa, se così si può dire, la seconda fase dell’età medievale, da collocarsi in uno spazio soprattutto continentale (ma vedremo come anche la Spagna avrà la sua importanza) e in un tempo che matura dall’anno Mille fino a quando si entrerà, per la nostra penisola, all’età comunale.

Storicamente essa è caratterizzata da alcuni elementi d’estrema importanza:

  • La cessazione delle invasioni e una certa rinascita economica grazie al miglioramento delle pratiche agricole;
  • L’affermazione del feudalesimo come sistema politico e delle corti come centro d’aggregazione. E’ fondamentale in questo contesto il prevalere, a livello culturale, della figura del cavaliere;
  • L’assurgere della Chiesa non solo come punto di riferimento culturale, ma anche politico: a tale scopo non bisogna dimenticare il suo desiderio espansionistico con le crociate, iniziata da Urbano II nel 1095.

 
Il cavaliere

Il cavaliere è la figura centrale del processo culturale che caratterizza i poemi medievali cortesi e la poesia europea. Intorno a lui si concentrano sia i valori della corte che quelli della Chiesa, infatti può impersonare da una parte l’uomo che combatte con tutto se stesso per il suo signore, dall’altra colui che con la stessa forza e tenacia combatte per la fede. E’ evidente che tale figura, prima di perdersi, in età più “matura”, nell’amore, costituirà la base per un sapere diffuso che coinvolgerà sia il pubblico alto che quello popolare.

Ma chi è effettivamente questo cavaliere?

Egli è il nerbo dell’esercito della signoria feudale, da cui proviene per lignaggio: si tratta infatti di figli “cadetti” che, per la legge del “maggiorascato” non avevano diritto d’eredità; ad essi si aggiunge la nobiltà “povera” senza terra, che proprio nell’esercito cercava riscatto ed i ministeriales, cioè i servitori “più stretti” del signore (amministratori, stallieri, scudieri) che venivano ricompensati o con il dono di un pezzo di terra, diventando de facto nobili o integrandoli nell’esercito.

Tale classe aveva quindi, elaborato una serie di valori di enorme importanza per la cultura del tempo:

  • Prodezza: s’intende con questo termine il coraggio, la perizia nell’uso delle armi e lo sprezzo del pericolo;
  • Onore: determinato dal possedimento della prodezza e dal rispetto verso la parola data;
  • Lealtà: da esercitarsi nei confronti dell’avversario e nel rispetto delle regole “cavalleresche”
  • Fedeltà: in primis verso il signore e Dio.

Epica medievale

E’ proprio all’interno dei valori succitati che nasceranno, pur distanziate negli anni, le grandi opere epiche che si svilupperanno in Europa. Esse sono:

  • Nell’Europa Nordica il Beowulf (area inglese) e i Nibelunghi;
  • In area mediterranea il Cantar del Cid (Spagna) e la Chanson de Roland (Francia).

Beowulf, di autore ignoto, pervenutoci intorno all’anno 1000 in lingua sassone: l’opera ci racconta delle imprese dell’eroe:

img_5028.jpg

Beowulf vs il Drago

Beowulf, nipote del re dei Geati, sconfigge un orco e il mostro Grendel. Divenuto re di quel popolo viene affrontato da un drago che riuscirà a sconfiggere ma per lo sforzo soccomberà anche lui.

E’ questa la più lunga opera medievale giunta e sembra sia frutto di una rielaborazione di un monaco normanno, che vi aggiunse valori cristiani, d’un antica leggenda scandinava.

Nibelunghi è una raccolta di tradizioni orali, raccolte in lingua altotedesca nel 1200 circa, quando in altre parti d’Europa questo periodo volge decisamente al tramonto.

Sigfrido_manifesto-e1422625887855.jpg

Il leggendario principe Renano Sigfrido, cresciuto in una selva, uccide un drago e, bagnandosi nel suo sangue, diviene invulnerabile, tranne in un punto della schiena sul quale si è posata una foglia. Conquistato il tesoro dei Nibelunghi, apportatore di sventura, il protagonista riesce a raggiungere la corte di Warms, sede del re dei Burgundi, Gunther, riesce a sposare la bella Crimilde, sorella del sovrano. Sigfrido, resosi invisibile grazie ad un mantello magico, aiuta quindi re Gunther a conquistare la mano della regina d’Islanda, Brunilde. In seguito alla rivalità esplosa fra le due cognate, Hagen, il più forte guerriero burgundo, decide di uccidere Sigfrido, colpendolo a tradimento nell’unico punto in cui l’eroe è vulnerabile, ingenuamente contrassegnato da Crimilde con una croce ricamata sulla tunica. L’eroe cade tra i fiori maledicendo gli assassini. La seconda parte narra la vendetta di Crimilde e lo sterminio dei Burgundi presso la corte di Attila, re degli Unni, con cui si è risposata la vedova di Sigfrido: nel massacro periscono Gunther, Hagen e Crimilde stessa: il tesoro maledetto dei Nibelunghi rimarrà così sepolto nel Reno, dove era stato sommerso tempo prima dai Burgundi.

Sin dalla trama ci rendiamo conto di come l’autore anonimo abbia mescolato due temi: quello mitico e quello storico. L’opera è infatti divisa in due parti distinte, la prima in cui l’elemento favolistico prevale, mentre nella seconda questo si mescola con quello reale (Attila è realmente esistito). L’atteggiamento che vi prevale tuttavia, sebbene venga stilato in pieno periodo di poesia cortese è l’elemento cavalleresco, come si evince nell’episodio della morte del protagonista:

LA MORTE DI SIGFRIDO

Intanto non giungevano con il vino i coppieri,
del resto eran serviti lautamente i guerrieri.
E, se tra lor non fosse covato il tradimento,
da ogni vergogna liberi, saria stato ognun contento.

Disse il nobile Siegfrido: «Mi meraviglio assai

con tal copia di cibi che il vin non giunga mai.
Se così mal trattate i compagni di caccia
non voglio essere più vostro compagno di caccia.

«Non meritai io forse trattamento migliore?».
E il re Gunther allora disse con falso cuore:
«Di quel ch’oggi vi manca, più tardi ammenda avrete.
E’ la colpa di Hagen, che ci fa morir di sete».

Disse Hagen di Tronje allor, parlando ad arte:
«Credevo che la caccia fosse in tutt’altra parte.
In fondo a la foresta. Là il vin spedito fu.
Oggi ne facciam senza. Ma ciò non mi accadrà più».

Disse Siegfried l’eroe: «Davver non ven son grato.
Sette some di vino, claretto e idromelato
dovevate mandarmi qui oggi; o per lo meno
dovevate accamparci un po’ più vicino al Reno».

Disse Hagen: «Signore, qui vicino nel bosco
una sorgente d’acqua freschissima conosco.
Non siate meco in collera, andiamci colà tutti».
Tal consiglio doveva potare a molti amari frutti.

La sete torturava Sigfrido, l’eroe fidente.
Si levaron le mense e a cercar la sorgente
mossero tutti, a piedi del monte. Con inganno
Hagen voleva Siegfried attirar verso il suo danno.

Mentre verso il gran tiglio andavano gli eroi,
disse il perfido Hagen: «Sigfrido, fu detto a noi
che nessuno vi vince alla corsa. E confesso
che assai mi piacerebbe vedere tal prova adesso».

Disse allora il guerriero senza tema e sospetto:
«Se volete provarvi, ora con voi scommetto. 
La fonte sia la mèta. Chi arriva dopo, perde,
e dovrà inginocchiarsi là nel prato in mezzo al verde».

«Ebbene, tenteremo», disse Hagen. «E voglio
correre armato», aggiunse poi Siegfried con orgoglio,
«con lo spiedo, lo scudo e l’armi de la caccia».
E tosto prende il turcasso, e il grande scudo si allaccia.

Solo i camici bianchi vollero i due tenere,
poi fur visti slanciarsi quai selvagge pantere
per il verde trifoglio, con mosse accorte e pronte.
Ma Sigfrido veloce fu visto primo a la fonte.

In ogni gara Sigfrido fu il primo. Egli si sciolse
la spada e tutte l’armi poi di dosso si tolse.
Appoggiò il forte spiedo al tronco de la pianta,
e presso la fonte attese, bello d’audacia tanta.

Qui si mostrò cortese sì come era valente.
Siegfried pose lo scudo su l’orlo a la sorgente,
ma per quanto la sete lo torturasse assai
fino a che il re non bevve, non volle pur bere mai.

Mal ne fu ripagato. L’acqua era trasparente
e fresca. Il re, chinato, ne bevve lungamente,
e quando ebbe bevuto, si rizzò sodisfatto.
Volentieri ora Siegfrido, l’eroe, l’avrebbe pur fatto.

Ma cara ebbe a pagare la propria cortesia.
L’arco e la spada il falso Hagen gli portò via,
afferrò poi lo spiedo, e, cercando il segnale
su la veste, vi scorse la crocellina fatale.

Quando Siegfrido a bere pur si chinò veloce
Hagen gli immerse il ferro attraverso la croce.
Sprizzò il sangue dal cuore spaccato su la vesta
di Hagen. Mai guerriero compì azione più funesta.

Egli lasciò lo spiedo infisso a lui nel cuore,
e a fuggir prestamente si diede il traditore.
In vita sua così mai non era fuggito.
Appena Siegfrido, l’eroe, comprese che era ferito,

balzò in piedi, ruggendo. Tra le spalle sporgeva
il legno de lo spiedo. L’eroe trovar credeva
la sua spada o il suo arco. Se l’avesse trovato,
Hagen avrebbe ricevuto il premio meritato.

Non trovando la spada, lo scudo gli restava.
Lo tolse prestamente dal fonte dove stava.
Inseguì Hagen, presto lo raggiunse, e sfuggire
l’amico di re Gunther non potè a le giuste ire.

E con lo scudo allora, pure ferito a morte,
sul traditore, Siegfrido, menò un colpo sì forte
che le gemme staccate volaron via, e spezzarsi
parve lo scudo. L’eroe voleva vendicarsi.

Il traditore cadde da la sua man colpito;
se l’altro avea la spada, Hagen era finito.
Dei colpi risuonavano la foresta e la valle,
sì terribile era l’ira del colpito a le spalle.

Ma il suo viso si copre di un pallore mortale.
Egli sente le forze mancargli e già l’assale
languor di morte, gelo sente di morte; ahi, quanto
sarà presto da belle donne il nobile eroe pianto!

Lo sposo di Crimilde cadde tra i fiori. Usciva
a fiotti a fiotti il sangue da la ferita viva.
Allora, ne l’angoscia del suo cuore, il colpito
prese a ingiuriar coloro che l’avevano tradito.

Diceva il moribondo: «O falsi traditori!
Così mi ripagate i servigi, i favori?
Sempre vi fui fedele, e voi morte mi date.
Gli amici affezionati assai male voi trattate.

Ma biasimo cadrà su quei che nasceranno
di voi, da questo giorno, pel vostro atroce inganno.
Dal numero dei buoni cavalier voi ancora
sarete cancellati per sempre dopo quest’ora».

Da ogni parte i guerrieri si affollavano intorno
al caduto. Per molti fu quello un triste giorno.
Lo piange chi conosce la fedeltà e l’onore,
e ben l’ha meritato Siegfrido per il suo valore.

Anche il re dei Burgundi compiangeva il ferito.
Disse Sigfrido: «A che piange chi m’ha colpito?
Chi ha commesso il delitto non deve pianger poi.
Ma eterno disonore ricadrà sopra di voi».

Disse il feroce Hagen: «Di che vi lamentate?
Ecco le nostre pene alfine terminate.
Or non dobbiam temere nessuno superiore
a noi. Vi ho sbarazzati d’un importuno signore».

«Ben potete vantarvi», disse allora il morente,
«ma, se avessi saputo ch’eravate realmente
assassini, la vita avrei da voi guardata.
Oh, mi affanna il pensiero, de la mia Crimilde amata.

«Abbia pietà il Signore del figlio che mi ha dato…
che sempre, in avvenire, gli sarà rinfacciato
l’assassinio commesso dai suoi stretti parenti.
Non ho forza bastante per dir quanto io lo lamenti!».

Disse Siegfried al re: «Mai nessun uomo ha fatto
quello che voi faceste. Più feroce misfatto
mai fu commesso al mondo. Il mio braccio vi diede
più volte forza e aiuto. Questa è or la mia mercede!».

Tra gli spasimi ancora continuò il moribondo:
«Nobile re, se ancora una sol cosa al mondo
far volete lealmente, la mia cara consorte
vi sia raccomandata assai dopo la mia morte.

«Ella è vostra sorella. Siatele di sostegno,
ven prego per l’onore di cui un principe è degno.
Mi aspetteranno a lungo, mio padre e la mia gente.
Mai non fu fatta a donna una pena più cocente». 

Si contorceva intanto per il dolore atroce,
e pur così parlava con lamentosa voce:
«Vi pentirete un giorno del mio assassinio. Il colpo
che mi uccide per voi stessi sarà un mortale colpo».

I fiori tutto intorno eran rossi di sangue.
Lotta ancora l’eroe con la morte, poi langue.
Troppo addentro lo spiedo crudel l’avea colpito.
Più parlar già non poteva e tutto era finito.

Quando i signori videro morto il compagno loro
lo deposero sopra lo scudo di rosso oro.
Quindi si consigliarono tra lor, come celare
il delitto di Hagen e chi ne potrebbero accusare.

Molti dicevan: «Presto ne saremo pentiti!
siamo dunque d’accordo, diciamo tutti uniti
che solo andò a cacciare di Crimilde il marito
e nel folto del bosco da ladroni fu colpito».

Disse Hagen di Tronje: «Per me, poco m’importa
ch’ella sappia. E io stesso lo deporrò a la porta
di chi ha trafitto il cuore di Brunilde, e non chiedo
de le lagrime sue, se anche piangere la vedo».

Se volete sapere dov’è quella sorgente
che vide morto Siegfrido, lo dirò veramente:
davanti al bosco di Oden un villaggio si trova,
e la fonte vi scorre tuttora. Ecco dunque la prova. 

Sigfrido in questo brano infatti dà prova d’estrema lealtà e onore (e come intuiamo “prodezza” mostrata durante la caccia) sia verso il suo signore che la moglie. Anche l’elemento cristiano è presente, ma non vi domina. Infatti a prevalere è il senso di fellonia (cioè “mancanza d’onore) che caratterizza tutti i gesti del traditore – colpire alle spalle, fuggire – tipici di colui che, non essendo coraggio, leale, uomo d’onore, è il prototipo del “malvagio”, cioè dell’anti-cavaliere.

el-cid-campeador-1.jpg

Statua del Cid nella città di Burgos in Spagna

Precedente ai Nibelunghi è il Cid spagnolo, redatto intorno al 1140.

Ruy Diaz de Vivar (personaggio realmente esistito, 1043-1099) detto dai cristiani El Campeador e dagli arabi El Cid, viene accusato di essersi appropriato di una parte dei tributi dovuti dai re Mori di Andalusia al re Alfonso VI di Leòn, e viene mandato in esilio. Lasciate la moglie Jemena e le figlie in monastero, combatte, insieme a valorosi cavalieri contro i Mori. Dopo aver conquistato Barcellona e Valencia, viene rivalutato a tal punto da Alfonso VI da poter riunire la sua famiglia e dare in moglie le sue due figlie a due nobili conti. Ma essi si rivelano malvagi, dapprima frustando e poi abbandonando le giovani donne. Il Cid chiede vendetta al re e sconfigge i due uomini. Il poema si chiude con le nuove nozze delle donne.

A caratterizzare l’epica in terra iberica è, appunto il Poema del Cid, anch’esso d’autore ignoto. Se l’Occidente cristiano è attraversato da una forte ondata di rivincita tanto da fare della crociata in Terra santa uno dei temi fondamentali del pontificato di Urbano II, in terra spagnola avverrà con il tema della reconquista che i vari principati iberici portarono contro i regni musulmani del sud.

LA BEFFA AI MERCANTI EBREI

Martìn Antolìnez non indugiò: attraversò Burgos ed entrò nella cittadella, là dove abitano gli ebrei e con premura chiese di Raquel e Vidas. Raquel e Vidas se ne stavano assieme, tutt’intenti a contare le ricchezze che avevano guadagnate.
Giunse Martìn Antolìnez, come persona accorta: «Dove siete, Raquel e Vidas, amici miei cari? Vorrei parlare a voi con gran segretezza».
Senza indugio s’appartarono tutt’e tre. «Raquel e Vidas, qua la mano, con l’assicurazione che non mi scoprirete a nessuno, moro o cristiano; ed io vi renderò ricchi per sempre, sì che non avrete mai bisogno di nulla. Il Campeador fu inviato a riscuotere i tributi: grandi ricchezze prese e di valore ingente; ma di queste ritenne per sé parte si considerevole, da esserne accusato; ha due arche piene d’oro puro: ora potete ben comprendere perché il Re è adirato con lui. Egli perciò ha dovuto abbandonare beni, case e palazzi. Ma le due arche non può portarle con sé, se vuole che non siano scoperte. Il Campeador vuole lasciarle in vostre mani e voi, in cambio, gli presterete del denaro, in misura adeguata. Accettate le arche e tenetele in vostra custodia: con solenne giuramento date, inoltre, la vostra assicurazione che non l’aprirete per tutto quest’anno».
Raquel e Vidas indugiano un po’ a consigliarsi fra loro: «Noi abbiamo necessità di trarre da tutto qualche guadagno. Ci è ben noto che egli fece buoni affari, quando entrò in terra di Mori e ne trasse grandi ricchezze. Non dorme senza sospetti, chi porta con sé molto denaro. Noi due siamo disposti ad accettare queste arche ed a celarle in luogo dove nessuno le potrà scovare. Ma diteci di quanto si terrà pago il Cid e l’interesse che ci darà per tutto l’anno». Da persona accorta rispose Martìn Antolìnez: «Il mio Cid richiederà ciò che è giusto: egli si contenta di poco, pur di mettere in salvo il suo avere. Gente reietta accorre a lui da ogni parte: gli abbisognano perciò seicento marchi».
«Volentieri glieli daremo» soggiunsero Raquel e Vidas. «Già vedete che cala la notte» continuò Martìn Antolìnez «ed il Cid ha gran fretta: è necessario che non tardiate a darci i marchi». Dicono Raquel e Vidas: «Non si fanno così gli affari: bensì prima si prende e poi si dà». «D’accordo» rispose Martìn Antolìnez «venite insieme presso il Campeador di gran fama e vi aiuteremo noi – perché è giusto – ad addurre le arche per affidarle alla vostra persona, sì che non lo sappia alcuno, né moro né cristiano». E Raquel e Vidas «D’accordo in ciò: addotte qua le arche, avrete i seicento marchi». E senza indugio cavalca Martìn Antolìnez, con Raquel e Vidas, tutti allegri e di buona voglia. Evitano il ponte e passano attraverso l’acqua, perché in Burgos nessuno si accorga di loro. Ed eccoli alla tenda del Campeador di gran fama. Come furono entrati, baciano la mano al Cid. Sorrise il Campeador ed in tal modo parlò loro: «Oh, don Raquel e Vidas, mi avete già dimenticato! Eccomi costretto ad abbandonare la mia terra, perché il Re è in ira con me. A quanto pare, siete disposti a custodire qualcosa di mio e, finché io vivrò, non avrete bisogno di nulla». Raquel e Vidas baciarono le mani al mio Cid. Martìn Antolìnez espose i patti: per quelle arche gli avrebbero dato seicento marchi e gliele avrebbero custodite per tutto l’anno. Essi avevano già dato assicurazione e solennemente giurato che se prima le avessero aperte, sarebbero stati spergiuri e non avrebbero ottenuto dal Cid la più vile moneta, per interesse.
Disse Martìn Antolìnez: «Sì, carichiamo subito le arche! Portatele Raquel e Vidas: mettetele in vostra sicurezza; ed io verrò con voi per addurre qui, insieme, i marchi, perché il Cid deve mettersi in cammino prima che canti il gallo». Che gran gioia al caricare le arche! Non le potevano sorreggere, sebbene avessero buoni muscoli. Si rallegrano Raquel e Vidas di sì gran denaro e pensano che, per tutta la loro vita, sarebbero state persone assai ricche.
Raquel ha baciato al Cid la mano: «Orsù, Campeador, alla buon’ora cingeste la spada. Voi vi allontanate dalla Castiglia per andare tra gente straniera. Tale è il vostro destino e grandi le ricchezze che acquisterete. Io attendo da voi in dono, o Cid – e vi bacio la mano – una pelliccia vermiglia, moresca e di gran pregio». «Bene» dice il Cid; «fin d’ora vi sia concessa. Se non riuscirò a portarvela di là, trattenetela sul valore delle arche».
Raquel e Vidas addussero le arche e con loro entrava in Burgos Martìn Antolìnez. Con grande cautela si spinsero fino a casa: nel mezzo di una sala stesero un tappetuccio: su questo un panno di filo assai sottile e bianco. Martìn Antolìnez contò tutti in una volta, trecento marchi d’argento, senza neppure pesarli. Altri trecento ne furono sborsati in oro. Cinque scudieri ha addotti con sé don Martìn e tutti ne sono carichi. Fatto ciò, udite ch’egli disse: «Ormai, don Raquel e Vidas, le arche sono nelle vostre mani: ed io, che vi ho procurato questo guadagno, ben mi sono meritato la giusta ricompensa». Raquel e Vidas si appartarono un poco. «Diamogli qualche buon dono, poiché egli ci ha procacciato un gran guadagno. Martìn Antolìnez, burgalese di riguardo, ve lo siete meritato e noi vogliamo darvi una ricca offerta, con cui possiate provvedervi di buoni calzoni, di abbondante pelliccia e di prezioso mantello. Diamo in dono a voi trenta marchi. E’ giusto e ve li siete meritati: voi dovete esserci garante dell’affare concluso». Se ne rallegrò don Martìn ed accettò i marchi: poi pensò di andar via dalla casa e si congedò da loro.
E’ uscito di Burgos, ha passato l’Arlànzon ed è giunto alla tenda di colui che nacque alla buon’ora. Lo accoglie il Cid a braccia aperte: «Siete voi Martìn Antolìnez, il mio fido vassallo? Mi sia dato vedere il giorno, in cui possiate avere qualcosa da me». «Eccomi, Campeador, con una gran buona notizia: voi avete guadagnato seicento ed io trenta marchi. Fate togliere le tende e andiamocene subito in San Pietro de Cardena, sì da sentirvi il primo canto del gallo; là vedremo vostra moglie, creatura di buon sangue. Breve sarà la dimora e ci affretteremo a lasciare il regno: è proprio necessario, ché sta per scadere il termine imposto».

In questo brano, pur non essendo presenti i “mori”, è ben messa in evidenza la diversità religiosa. E’ infatti un passo più leggero, meno eroico, ma dove è ben sottolineato il giusto e lo sbagliato. Il Campeador è sempre presentato attraverso un’aggettivazione che ne esalta la bontà; viceversa gli ebrei sono coloro che non hanno valori, che pensano solo al guadagno per ricavarne vantaggio. Ecco allora che la “beffa” diventa giusta punizione per i non cristiani.

27_eoyji.jpg

Orlando e l’olifante

Ma l’opera che certamente rappresenta non solo il punto più alto, ma anche quella che maggior influenza ebbe sulla cultura europea è la Chanson de Roland, scritta in lingua d’oil da autore sconosciuto verso il 1100, che raccoglie cantari precedenti tramandati oralmente nei quali i giullari avevano già sviluppato gli stessi argomenti. Quello che è certo è che il vigore con cui si racconta qui la guerra contro i saraceni nasce, come già detto dal fervore combattivo della crociate. Il tema principale narra un fatto vero avvenuto il 778 quando il conte Orlando o Rolando viene ucciso a Roncisvalle in un imboscata non dai saraceni (con cui, peraltro, Carlo Magno ebbe buoni rapporti) ma da un gruppo basco. 

Dopo sette anni di guerra contro Marsilio, re di Spagna, Carlo Magno lascia l’assedio di Saragozza affidando il comando della retroguardia a Orlando, il più valoroso dei paladini. Per il tradimento di Gano egli è assalito nel passo di Roncisvalle da un numero enorme di saraceni; nonostante l’esortazione del saggio Olivieri, Orlando rifiuta di chiamare soccorso prima di aver combattuto e solo quando, dopo strenua resistenza, tutti i suoi compagni sono morti e lui stesso sta per morire, con un ultimo sovrumano sforzo dà fiato all’olifante. La parte successiva della canzone è occupata dalla vendetta di Carlo sia contro i saraceni sia contro Gano.

 LA MORTE DI ORLANDO

Orlando sente che la morte lo invade,
dalla testa al cuore gli discende.
Sotto un pino se ne va correndo,
sull’erba verde s’è coricato prono,
sotto di sé mette la spada e il corno.
Ha rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha fatto perché in verità desidera
che Carlo dica a tutta la sua gente
che da vincitore è morto il nobile conte:
confessa la sua colpa rapido e sovente,
per i suoi peccati tende il guanto a Dio.

Orlando sente che il suo tempo è finito:
sta sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con una mano s’è battuto il petto:
“Dio! mea culpa, per la grazia tua,
dei miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che ho commesso dal giorno che son nato
fino a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli dal cielo sino a lui discendono.

Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso la Spagna ha rivolto il viso.
Di molte cose comincia a ricordarsi,
di tante terre che ha conquistato, il prode,
della dolce Francia, della sua stirpe,
di Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non può frenare lacrime e sospiri.
Ma non vuol dimenticare se stesso,
proclama la sua colpa, chiede pietà a Dio:
«O padre vero, che giammai mentisci,
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!».
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sotto il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e san Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte. 

La morte qui presentata, è quella di un perfetto cristiano, cui rifulgono le virtù cavalleresche quali il coraggio e lealtà. Ma esse non sono mai disgiunte dall’umiltà che egli ha verso il proprio signore, Carlo Magno, che sente, attraverso l’autore, come un vero e proprio padre; ma ancor di più contano gli atti con cui egli lascia questa terra:

  • Volge lo sguardo verso le terre pagane;
  • Offre il guanto a Dio;
  • L’angelo gli prende l’anima per portarla a Dio.

Si può dire in ultima analisi che in lui vivono, perfettamente integrate, virtù guerriere e virtù cristiane.

La lirica provenzale
letterature_romanze_02.jpg

I trovatori

La lirica provenzale, in lingua d’oc, si sviluppa intorno all’anno Mille, al sud della Francia. Gli autori di tale lirica sono detti trovatori (dal francese trobar, cioè poetare). Essi compongono versi altamente raffinati che venivano poi “musicati” e quindi sentiti nelle elegantissime corti della Provenza. Tale poesia non sopravvisse all’annessione del re francese, in accordo col papato, in quanto volevano vedere in esse il perno entro cui si sviluppava l’eresia catara, che prevedeva la povertà della Chiesa; tale crociata, detta degli Albigesi, si era sviluppata, infatti, nella città di Albi, situata nel sud della Francia, disperse i poeti in Europa, facendo del loro movimento culturale una vera e propria base per gli tutti gli intellettuali dell’epoca.

Marie_de_Champagne_ (1).jpg

A sinistra Marie de Champagne e a destra Eleonora d’Aquitania. Gli uomini sono il marito di Marie e due trovatori, forse uno dei 2 è Chrétien de Troyes.

Nel suo rigoglio essa vedeva come protagonisti i più raffinati uomini di corte, se lo stesso duca d’Aquitania, Guglielmo IX e sua nipote Eleonora d’Aquitania, dapprima moglie del re di Francia e in seconde nozze del re d’Inghilterra, furono tra i suoi più grandi esponenti e promotori della cultura cortese. Essi, nei loro versi, vogliono riflettere la splendente vita di corte, per cui esaltano quei principi che proprio al loro interno trovavano maggiore sviluppo: il valore, la generosità, la misura; essi sono condensati nell’unico grande tema che tutti li compendia: l’amore, da essi detto fin amor. Esso, utilizzato secondo uno schema feudale, vede l’uomo rivolgersi alla donna come un vassallo al proprio signore, verso cui promette completo servizio e fedeltà. Tale rapporto vede sempre la donna su un piano superiore rispetto al trovatore: ella è di solito la moglie del signore, per questo l’amore non può essere dichiarato apertamente e, per evitare vendette e chiacchierii poco piacevoli dei malparlieri si usa il senhal (cioè nascondere il vero nome della donna). Ne consegue che, oltre ad una necessaria ritualizzazione e stilizzazione formale, esso fosse necessariamente adultero.

Fra i generi della lirica provenzale troviamo il canso, cioè una canzone, estremamente elaborata su un piano formale:

BnF_ms._12473_fol._50_-_Arnaut_Daniel_(1).jpg

Miniatura ingrandita che rappresenta Arnault Daniel

ARNAULT DANIEL: CANZONE

Una canzone le cui parole sono semplici e elette
faccio ora che germogliano i salici
e le più alte cime
hanno il colore
di molti fiori
e verdeggia la foglia
e canti e richiami
degli uccelli risuonano
nell’ombra del bosco.

Per i boschi odo il canto e il cinguettio
e così che non me ne faccia rimprovero
lavoro e limo
parole di valore
con arte d’Amore,
dal quale non ho cuore di staccarmi:
anzi, quando più mi sdegna,
ne seguo l’orma
quanto più si mostra altero verso di me.

 Non vale nulla alterezza d’amante
che sempre fa cadere il suo signore
dal luogo più alto
giù a terra,
con tale tormento
che di gioia lo spoglia;
giusto è che pianga
e arda e bruci
colui che d’Amore si beffa.

 Non è per disdegno che mi volgo altrove,
donna gentile che adoro,
ma per timore
degli indiscreti,
per cui il “joi” trema,
faccio finta di non volervi,
perché mai godemmo
del loro (nostro?) godimento:
non mi piace raccoglierlo per loro.

 Ovunque vada vagando,
là dove siete il mio pensiero vi assale,
perché io canto e valgo
per la gioia che ci demmo
quando ci separammo,
per cui spesso l’occhio mi si bagna
di tristezza e di rimpianto
e di dolcezza,

perché ho abbastanza di che dolermi d’Amore.
Ora ho fame d’Amore per cui sbadiglio
e non segno misura né regola:
solo mi compensa il fatto
che mai udimmo,
dal tempo di Caino,
amante (come me) che meno abbia
cuore falso
e bugiardo;
perciò la mia gioia è al colmo.

 Donna, altri si sbandino,
Arnaut corre dritto
Là dove dimora l’onore
Perché il vostro valore svetta in alto.

La difficoltà sia della tecnica usata che del significato, fanno di Arnaut Daniel uno dei più grandi rappresentanti del trobar clou (parlare oscuro).

Questa canzone è composta da sette stanze o lasse:

  • il nostro mette in ardita relazione le parole che le escono con il canto che si spande tra il verde di un bosco;
  • le parole gli escono con l’arte dell’amore che, seppure si mostra altero nei suoi confronti, egli non può fare a meno di rincorrerlo;
  • non vale nulla la forza dell’amante se l’Amore si fa beffe di lui, infatti lo getta in terra e lo costringe ad ardere;
  • si rivolge alla sua donna scusandosi per volgere gli occhi altrove; ci sono i malparlieri che potrebbero offuscare la sua dignità;
  • nonostante mi allontani da voi, il mio occhio sempre vi accompagna, perché non so separarmi dalla gioia che voi mi date.
  • Il mio desiderio d’amore mi assale e gioisco del fatto che dai tempi di Caino nessuno ha mai avuto un cuore più puro del suo;
  • Chiusura con il vessillo dell’onore della donna verso cui Arnaut corre.

ARNAULT DANIEL: ARIETTA

Su quest’arietta leggiadra
compongo versi e li digrosso e piallo,
e saran giusti ed esatti
quando ci avrò passata su la lima;
ché Amore istesso leviga ed indora
il mio canto, ispirato da colei
che pregio mantiene e governa.

Io bene avanzo ogni giorno e m’affino
perché servo ed onoro la più bella
del mondo, ve lo dico apertamente.
Tutto appartengo a lei , dal capo al piede, 
e per quanto una gelida aura spiri, 
l’amore ch’entro nel cuore mi raggia 
mi tien caldo nel colmo dell’inverno.

Mille messe per questo ascolto ed offro,
per questo accendo lumi a cera e ad olio:
perché Dio mi conceda felice esito
di quella contro cui schermirsi è vano;
e quando miro la sua chioma bionda
e la persona gaia, agile e fresca
più l’amo che d’aver Luserna in dono.

Tanto l’amo di cuore e la desidero,
che per troppo desío temo di perderla,
se perdere si può per molto amare.
Il suo cuore sommerge interamente
tutto il mio, né s’evapora.
Tanto ha oprato d’usura
che ora possiede officina e bottega.

Di Roma non vorrei tener l’impero,
né bramerei esserne fatto papa,
se non potessi tornare a colei
per cui il cuore m’arde e mi si spezza
e se non mi ristora dell’affanno
pur con un bacio, pria dell’anno nuovo,
me fa morire a sé l’anima danna.

Ma per l’affanno ch’io soffro
dall’amarla non mi distolgo,
bench’ella mi costringa a solitudine,
sì che ne faccio parole per rima.
Più peno, amando, di chi zappa i campi,
ché punto più di me non amò
quel di Monclin donna Odierna.

Io sono Arnaldo che raccolgo il vento
e col bue vado a caccia della lepre
e nuoto contro la marea montante.

Anche in questo brano Arnault Daniel racconta l’amore e gli effetti che esso ha sul suo cuore amante. Tutto il brano, infatti è costruito sui topoi dell’amor cortese: la freddezza della donna che non ricambia l’amore del poeta, la bellezza della stessa secondo canoni classici (capelli biondi, corpo aggraziato). Ma quello che più interessa è proprio la descrizione del modo attraverso cui egli lavora: infatti il poeta sottolinea il labor limae cui sottopone il testo, prima che esso giunga alla perfezione. Da notare, a livello retorico, la presenza negli ultimi due versi di due adýnata (descrizione di fatti incredibili).

Sempre del genere canzone, questa, di Bernart de Ventadorn, rappresenta lo stile che si definisce “trobar leu”, cioè di un poetare piano, maggiormente semplice rispetto al precedente:

Bernard-de-Ventadour-códice.png

Miniatura ingrandita che rappresenta Bernart De Ventadorn

BERNART DE VENTADORN: CANZONE

Quando erba nuova e nuova foglia nasce
e sbocciano i fiori sul ramo,
e l’usignolo acuta e limpida
leva la voce e dà principio al canto,
gioia ho di lui, ed ho gioia nei fiori,
e gioia di me, e più gran gioia di madonna:
da ogni parte son circondato e stretto di gioia,
ma quella e gioia che tutte l’altre avanza.

Tanto amo madonna e l’ho cara,
e tanta reverenza e soggezione ho per lei,
che di me non ardii parlare mai
e nulla chiedo da lei, nulla pretendo.
Ma ella conosce il mio male e il mio duolo
E quando le piace mi benefica e onora,
e quando le piace io sopporto la mancanza dei suoi favori,
perché a lei non ne venga biasimo.

Mi meraviglio come posso resistere
che non le manifesti il mio talento:
quand’io veggo madonna e la miro,
i suoi begli occhi le stanno cosi bene!
A stento mi tengo dal correre a lei.
Così farei, se non fosse per timore,
chè mai vidi corpo meglio modellato e colorito
agli uffici d’amore così tardo e lento.

Sola vorrei trovarla
Che dormisse o fingesse di dormire,
per involarle un dolce bacio,
poiché non ho tanto ardire da chiederglielo.
Per Dio, donna, poco profittiamo d’amore:
fugge il tempo, e noi ne perdiamo la miglior parte.
Intenderci dovremmo a segni copertamente ,
e poiché ardir non ci vale, ci valga scaltrezza.

S’io sapessi gettar l’incantesimo,

i miei amici diventerebber bamboli,
si che niuno saprebbe immaginare
né dire cosa che ci tornasse a danno.
Allora so che potrei rimirare la più gentile
ed i suoi occhi belli e il fresco viso,
e baciarle le labbra per davvero
si che per un mese ve ne parrebbe il segno.

Ahimè, come muoio dal fantastichare!
Spesso vanisco tanto in fantasie,
che briganti potrebbero rapirmi
e non m’accorgerei di che facessero.
Per Dio, Amore, ben facile ti fu soppraffar me
Scarso d’amici e senza protettore!
Perché una volta madonna così non di ristringi
Prima ch’io sia distrutto dal desìo.

Questa canzone si struttura in sei stanze e descrive una vera e propria fenomenologia dell’amore che dà gioia, quella stessa gioia che la natura esprime con i limpidi canti di un usignolo. Ma quello che qui conta di più, al di là del rapporto, sempre di estremo omaggio del poeta verso la donna, non è più da interpretare per il tecnicismo con cui si esprime, esso infatti è dichiarato in modo chiaro e luminoso.

Come è chiaro è luminoso l’altro aspetto dell’amore in quest’altra poesia, tra le sue più famose:

BERNART DE VENTADORN:  CANZONE DELLA LODOLETTA

Quando la lodoletta vedo battere
gioiosamente l’ali incontro al sole,
ed ecco s’oblia e si lascia cadere
per la dolcezza che le giunge al cuore,
ah! sì grande invidia mi prende
d’ogni essere ch’io veda gioire,
ch’è meraviglia se tosto
il cuore del desìo non mi si strugge

Ahimè! tanto credevo sapere
d’amore, e tanto poco ne so!
Ché non posso tenermi d’amare
quella da cui nulla mai otterrò.
Tolto m’ha il cuore, tolto m’ha me stesso,
e se stessa m’ha tolto, e tutto il mondo:
nulla, togliendomisi, m’ha lasciato
se non un desiderio e cuore bramoso.

Più non ebbi il dominio di me stesso,
più non m’appartenni da allora,
quando negli occhi suoi lasciò specchiarmi,
in quello specchio che tanto mi piace!
Specchio, da quando in te mi rispecchiai,
m’han distrutto i sospiri profondi:
così in te mi perdei, come perdette
sé il leggiadro Narciso nella fonte.

Di tutte le donne dispero,
mai più in loro avrò alcuna fiducia;
come solevo esaltarle di lodi,
così le lascerò di lodi prive.
Vedendo che nessuna mi soccorre
presso di lei che mi distrugge e annulla,
di tutte quante pavento e diffido,
ché so bene che tutte sono uguali.

Femmina in ciò per certo si rivela
madonna, ond’io la rampogno,
ché non vuol quel che si deve volere
e fa quel ch’altri non vuol ch’ella faccia.
Sono caduto ove non è pietà
e ho fatto come lo sciocco sul ponte;
perché questo m’accade,
se non ch’io volli troppo alto salire.

Pietà è veramente smarrita
(ed io mai la conobbi!):
se chi più averne dovrebbe
n’è al tutto privo, ove dunque cercarla?
Ah! chi mai penserebbe in vederla,
che questo infelice smanioso,
che mai senza lei avrà bene,
lasci, senz’aiuto, morire?

Dacché presso madonna non mi vale
prego, pietà, diritto,
né le viene in piacere
ch’io l’ami, più gliene farò parola.
Così da lei mi parto e mi sconfesso,
morto da lei, per morto le rispondo,
e me ne vado, dacché non mi ritiene,
infelice, in esilio, non so dove.

Tristano, nulla più avrete da me:
me ne vado, infelice, non so dove;
il mio canto abbandono e rinnego
e da gioia e da amore m’estranio.

Qui egli invece, sempre parlando d’amore, ci offre la visione di una disillusione dovuta all’indifferenza della donna amata. Si tratta pur sempre di una “fenomenologia”, vista in negativo; compito del poeta, rispetto ad una domina che più non lo vuole, non può essere che andare via, come dice a Tristano cui si cela il nome di un altro trovatore che funge da destinatario del testo.

Un altro esempio lo dà Bertran De Born. Questo brano non muta, rispetto agli altri per struttura, ma per contenuto. Infatti la canzone politica prende il nome di sirventese:

Bertran-de-Born.jpg

Miniatura ingrandita che rappresenta Bertran De Born

ELOGIO DELLA GUERRA

Molto mi piace la lieta stagione di primavera
che fa spuntar foglie e fiori,
e mi piace quando odo la festa
degli uccelli che fan risuonare
il loro canto pel bosco,

e mi piace quando vedo su pei prati

tende e padiglioni rizzati,
ed ho grande allegrezza.
Quando per la campagna vedo a schiera
cavalieri e cavalli armati.

E mi piace quando gli scorridori
mettono in fuga le genti con ogni lor roba,
e mi piace quando vedo dietro a loro
gran numero di armati avanzar tutti insieme,
e mi compiaccio nel mio cuore
quando vedo assediar forti castelli
e i baluardi rovinati in breccia,
e vedo l’esercito sul vallo
che tutto intorno è cinto di fossati
con fitte palizzate di robuste palanche.

Ed altresì mi piace quando vedo
che il signore è il primo all’assalto
a cavallo, armato, senza tema,
che ai suoi infonde ardire
così, con gagliardo valore;
e poi ch’è ingaggiata la mischia
ciascuno deve essere pronto
volenteroso a seguirlo
chè niuno è avuto in pregio
se non ha molti colpi preso e dato.

Mazze ferrate e brandi, elmi di vario colore,
scudi forare e fracassare
vedremo al primo scontrarsi
e più vassalli insieme colpire,
onde erreranno sbandati
i cavalli dei morti e dei feriti.
E quando sarà entrato nella mischia,
ogni uomo d’alto sangue
non pensi che a mozzare teste e braccia:
meglio morto che vivo e sconfitto!

Io vi dico che non mi da tanto gusto
mangiare, bere o dormire,
come quand’odo gridare “All’assalto”
da ambo le parti e annitrire
cavalli sciolti per l’ombra
e odo gridare «Aiuta! Aiuta!»
e vedo cadere pei fossati
umili e grandi fra l’erbe,
e vedo i morti che attraverso il petto
han troncon di lancia coi pennoncelli.

Baroni date a pegno
castelli borgate e città,
piuttosto che cessare di guerreggiarvi l’un l’altro.
Papiol, volenteroso,
al signore Si-e-No vattene presto
e digli che troppo sta in pace.

L’esaltazione che Bernard de Born fa della guerra si situa sul piano non tanto “politico”, quanto dell’“atto in sé” in cui emergono con forza i valori della forza, del coraggio e dello sprezzo del pericolo, già illustrati per le chanson de geste, ma qui svincolati per un solo fatto estetico. 

Per concludere il discorso sulla poesia cortese è importante sottolineare quali furono i principali temi/generi che tanta fortuna ebbero, poi, nella cultura europea posteriore:

  • Il sirventese (canto del servo), genere, che come visto, affronta temi civili e militari, è quindi un canto civile ora burlesco, ora serio;
  • il planh (pianto), nel quale si piange la morte del “signore” o si implora il signore di partecipare alle crociate;
  • le albe, sorte di quadretti idillici e malinconici dove viene descritto il momento in cui due amanti devono separarsi; 
  • le pastorelle, incontri fra una popolana e un nobile che attenta in vari modi alla sua virtù senza quasi mai riuscirci;
  • le tenzoni a forma di dialogo in cui si discutono i temi d’amore.

Il romanzo cortese

Se le chanson de geste, che ruotano intorno a Carlo Magno e a i suoi paladini, fanno parte del ciclo carolingio, quelle dei romanzi cortesi-cavallereschi s’inseriscono nel ciclo bretone. Queste opere, specchio di corti raffinatissime nascono contemporaneamente e trovano alimento dalla poesia cortese, che, dopo la crociata degli albigesi, s’irradiano per l’intera Europea.

Questi romanzi ruotano intorno alla figura di re Artù, di sua moglie Ginevra e dei suoi cavalieri, ed il cavaliere più famoso è certamente Lancillotto. Il più grande autore di questi romanzi è Chretien de Troyes. Di lui possiamo ricordare soprattutto due romanzi Lancillotto o il cavaliere della carretta:

Il perfido Meleagant, figlio del re di Gorre, regno dal quale non è possibile fare ritorno, rapisce la regina Ginevra. Lancillotto parte alla sua ricerca e, per non perderla, deve salire su una carretta su cui avviene il trasporto dei condannati a morte. Per Lancillotto è un disonore terribile salire su quella carretta e subire la vergogna di tutti, ma la forza dell’amore è così grande che egli accetta il ricatto che gli fa un nano, simbolo di sventura, che gli darà informazioni su Ginevra solamente se lui acconsentirà a salire sul mezzo. Lancillotto si adopererà in tutti i modi per ritrovare Ginevra, superando le prove più terribili e le tentazioni più dure, e, dopo averla trovata, ucciderà il traditore.

t_chre2.jpg

Lancillotto e la carretta

IL CAVALIERE E LA CARRETTA

A quei tempi le carrette facevano il servizio ora riservato alle gogne, e in ogni città, dove adesso se ne trovano più di tremila, allora non ve ne era che una. Come la gogna, la carretta veniva usata per gli assassini e i briganti, per quanti uscivano sconfitti dai combattimenti giudiziari o per i ladri che si erano impadroniti degli averi altrui con l’astuzia o che li avevano rapinati con la forza per le strade. Chi era colto sul fatto, veniva fatto salire sulla carretta e trascinato di cammino in cammino; perdeva ogni merito, non veniva più ricevuto a corte, né onorato o ben accolto. E poiché per questo uso crudele le carrette erano molto temute, si prese a dire: «Quando vedrai e ti imbatterai in una carretta, segnati e ricordati di Dio, perché non te ne derivi sventura». Il cavaliere avanzava appiedato e senza lancia dietro quella carretta sulle cui stanghe era un nano che, come un carrettiere, impugnava una lunga verga. Il cavaliere gli chiede: «Nano, dimmi in nome di Dio se hai visto passare per di qua madama la regina». Ma quel nano, vile e di umili origini, non vuole dargli notizie e dice invece: «Se vorrai montare sulla carretta che conduco, prima di domani potrai sapere cosa è avvenuto della regina». Il cavaliere esita e prosegue per la propria strada senza seguire l’invito. E fu per sua sfortuna e vergogna che non vi salì subito, perché più tardi avrebbe avuto a pentirsene e avrebbe giudicato di avere agito male. Ma Ragione, in disaccordo con Amore, gli suggeriva dal guardarsi di montarvi, e lo esortava e lo ammaestrava a non intraprendere un’azione che gli sarebbe forse tornata ad onta e a biasimo. Ragione non ha posto nel cuore, ma nella bocca: per questo osava parlargli in tal modo. Ma Amore, che era rinchiuso nel suo cuore, gli ordinava e lo ammoniva di montare subito. Poiché lo vuole Amore, il cavaliere sale sulla carretta e non si cura di provare vergogna: è Amore che comanda e lo vuole.

E’ evidente in questo passo la differenza tra la chanson de geste e il romanzo cortese: qui l’autore, quasi trattando in modo teorico il rapporto tra amore e virtù, facendo prevalere il primo al secondo, non fa che sottolineare l’abnegazione verso la donna piuttosto che verso Dio, che richiede, appunto, virtù morali. E’ difficile per la Chiesa di allora accettare tutto questo. 

ed il Perceval o il racconto del Graal: 

00515695_b.jpg

Perceval riceve una spada dal Re Pescatore

Il padre e i fratelli di Perceval sono morti in guerra, e per non rischiare di perdere l’unico figlio rimasto, la madre decise di tenerlo lontano dal mestiere della cavalleria. Un giorno egli, cresciuto in semplicità di spirito e purezza di cuore, incontra alcuni cavalieri e, rimasto affascinato dallo splendore delle loro armi, vuole raggiungere la corte di re Artù. Lasciata la madre, che dopo la sua partenza muore dal dolore, Perceval, vestito da boscaiolo, raggiunge la corte del leggendario sovrano. Qui, messosi in luce per coraggio e virtù, viene nominato cavaliere da re Artù prima, e successivamente dal signore Gornemant. La nipote di costui, Biancofiore, se ne innamora, ma Percaval, pur ricambiando, decide di partire per il desiderio di rivedere sua madre e accertarsi che stesse bene, in quanto per seguire il suo sogno di diventare cavaliere l’aveva lasciata svenuta al di là di un ponte. Nel viaggio scoprirà che essa era rimasta uccisa per la sofferenza di vederlo partire. Iniziano così le nuove avventure, durante le quali il giovane giunge al castello del Re Pescatore che reca su di sé un’inguaribile ferita: sino a quando essa non sarà rimarginata regneranno sulla sua terra tristezza e carestia. In una sala del maniero, durante una cena, appaiono in successione diversi oggetti, tra cui una lancia sanguinante e un graal, un piatto che al suo apparire sprigiona una grande luce. Ricordandosi le parole di Gornemant, il quale gli aveva consigliato di parlare e domandare il meno possibile, si risolve col non chiedere al Re Pescatore perché la lancia sanguinasse e a chi serviva il graal, pur provandone l’impulso. Questi oggetti, infatti, venivano portati in una stanza celata ai suoi occhi, all’interno della quale stava il padre del Re. La sua mancata domanda porterà disgrazia al Re Pescatore e alla sua terra, che per mezzo di quelle semplici domande avrebbe potuto essere risanata. Per questo motivo al suo risveglio tutto è sparito, nessuno a parte lui sembra essere presente nel castello, ed egli deve ricominciare le sue peregrinazioni. Durante una lunga serie di nuove avventure, egli dovrà rendersi degno di ritrovare il graal, ponendo rimedio al suo errore e salvando così la terra malata e il Re Pescatore. Incontra un eremita, fratello del Re Pescatore, che lo confessa durante la Quaresima e rinnova i suoi sentimenti religiosi, che aveva perso durante il cammino. Perceval viene a conoscenza della sua appartenenza alla Famiglia del Graal e che il Re Pescatore è suo zio.

Qui si ferma il racconto, rimasto incompiuto.

PERCEVAL ASSISTE AL PASSAGGIO DEL SANTO GRAAL 

Segue il proprio cammino per tutta la giornata senza incontrare creatura terrena che sappia indicargli la via. Senza posa prega Dio, il Padre Sovrano, domandandogli, se gli vuol bene, di fargli ritrovare la madre viva e in buona salute. Pregava ancora quando, disceso da una collina, arriva a un fiume. L’acqua è rapida e profonda. Non osa avventurarsi. «Signore Onnipotente» esclama «se potessi attraversare quest’acqua, credo che ritroverei mia madre, s’ella è ancora in questo mondo!». Ha costeggiato la riva. Si avvicina a una roccia circondata d’acqua che gli impedisce il passaggio. In quel momento vede una barca che scende il filo della corrente. Due uomini vi sono seduti. Immobile li attende, sperando di vederli più da vicino. Ma si fermano nel mezzo dell’acqua, ancorando la barca in modo sicuro. L’uomo che siede avanti pesca con la lenza infilzando nell’amo come esca un pesciolino non più grosso di un piccolo vairone. Il cavaliere, che li osserva, non sa come possa passare quel fiume. Saluta e dice loro: «Signori, mi direte dov’è un ponte o un guado?». Colui che pesca risponde: «No, fratello, per venti leghe a monte o a valle non v’è né guado né ponte né barca più grande di questa che non porterebbe cinque uomini. Non può passarvi un cavallo. Non v’è né traghetto, né ponte, né guado». «In nome di Dio, ditemi dove troverò alloggio per questa notte». «Ne avrete bisogno, è vero. Di asilo come d’altro. Sarò io a ospitarvi per questa notte. Salite per quella fenditura che vedete laggiù nella roccia. Quando sarete in alto scorgerete un vallone e una casa, dove abito vicino ai fiumi e ai boschi». Il giovane spinge il cavallo per la breccia fino alla sommità della collina. Guarda lontano davanti a sé, ma non vede altro che cielo e terra. «Che sono venuto a cercare qui? Solo stoltezza e vanità. Dio copra d’infamia colui che m’insegnò questo cammino! Quale casa vedo qua in alto! Pescatore, mi hai raccontato una bella storia! Fosti davvero sleale, se l’hai fatto per mio male!». Appena ha così parlato vede in un vallone la vetta di una torre. Una torre tanto ben eretta non la si sarebbe trovata da lì a Beirut! Quadrata era la torre, di pietra bigia e con due torrette a lato. Avanti alla torre una sala, e avanti alla sala le logge. Il cavaliere scende per di là e dice che chi gli insegnò la via l’ha condotto davvero in un buon porto! Ora loda il pescatore e, poiché sa dove albergherà, non lo tratta più da impostore o fellone o mentitore. Lieto se ne va verso la porta. Trova abbassato il ponte levatoio. Appena è sopra la ponte incontra quattro valletti. Due gli tolgono l’armatura, uno porta via il cavallo per dargli avena e foraggio, l’ultimo gli ricopre le spalle con un mantello di scarlatto nuovo e fresco. Poi lo conducono alle logge. Da qui fino a Limoges non se ne sarebbero trovate né viste di più belle. Il cavaliere vi si trattiene finché il signore lo manda a cercare da due servitori. Li segue. Al centro di una vasta sala quadrata, che è larga quanto lunga, è seduto un valent’uomo di bell’aspetto, i capelli già quasi bianchi. Il capo è coperto da un cappuccio di zibellino nero come le more, intorno al quale s’avvolge un tessuto di porpora. Della stessa stoffa e colore è fatta la veste. Il valent’uomo s’appoggia al gomito. Davanti a lui, tra quattro colonne, arde un gran fuoco vivace di ciocchi secchi, così grande che quattrocento uomini almeno avrebbero potuto riscaldarsi e ciascuno vi avrebbe trovato posto. Le colonne alte e solide che sostenevano il camino erano opera di bronzo massiccio. Accompagnato da due servitori, davanti a tale signore compare l’ospite che si sente salutare: «Amico non me ne vorrete se per rendervi onore non m’alzerò: farlo non mi è agevole». L’ospite risponde: «In nome di Dio, non datevene pena! Non ho nulla di cui lamentarmi, se Dio mi dà gioia e salute». Ma il valent’uomo se ne dà tal pena che s’affatica a sollevarsi dal letto. «Amico, non temete! Avvicinatevi! Sedete accanto a me. Ve lo ordino». L’ospite si siede. E il valent’uomo gli domanda: «Amico, da dove venite oggi?». «Signore questa mattina ho lasciato un castello chiamato Beaurepaire». «Dio mi salvi! Avete avuto una lunga giornata! Questa mattina vi siete messo in marcia prima che la guardia suonasse il corno dell’alba!». «No, signore. L’ora prima era già suonata, ve l’assicuro». Mentre parlano entra un valletto da una porta. Ha una spada appesa al collo. L’offre al signore che la estrae un poco dal fodero e vede bene dove la spada fu fatta, ché sopra vi è scritto. La vede d’acciaio sì duro che in nessun caso sarà spezzata, salvo uno. E solo lo sapeva chi l’aveva forgiata e temperata. Il valletto, che l’aveva portata, dice: «Signore, la bionda damigella, la vostra bella nipote, vi fa omaggio di questa spada. Mai avete avuta arma più leggera di questa per la sua misura. La darete a chi più vi piacerà, ma la mia signora sarà contenta se questa spada verrà rimessa nelle mani di colui che saprà ben servirsene. Chi la forgiò non ne fece che tre. Poiché morrà, non ne potrà mai forgiare altre». Subito il signore la rimette a colui che là dentro è lo straniero, porgendogliela per i fermargli che valgono un tesoro. Perché il pomo era d’oro, l’oro più fino d’Arabia o anche di Grecia, il fodero lavorato in oro di Venezia. Sì preziosa, gliene fa dono. «Bel fratello» dice «questa spada fu fatta per voi. Voglio che sia vostra. Cingetela e sguainatela». Così fa il giovane mentre ringrazia. E, cingendola, la lascia un po’ lenta. Estrae la spada dal fodero e, quando l’ha tenuta un poco, ve la rimette. Gli si addice a meraviglia, appesa al corpo come in pugno. Ed egli sembra proprio l’uomo adatto a giostrarvi da vero barone. Affida la spada che affida al valletto che sorveglia le sue armi, che si tiene in piedi con gli altri intorno al gran fuoco vivace e ardente. Poi va a risedersi presso il signore che tanto onore gli ha reso. Tale chiarore fanno nella sale le fiaccole, che non si troverebbe al mondo riparo più illuminato! Mentre parlano di questo e d’altro, un valletto viene da una camera, e tiene una lancia lucente impugnata a metà dell’asta. Passa tra il fuoco e coloro che sono stesi sul letto. E tutti i presenti vedono la lancia chiara e il ferro bianco. Una goccia di sangue colava dalla punta del ferro della lancia. Fin sulla lancia del valletto colava la goccia di sangue vermiglio. Il giovane ospite vede tal meraviglia e si trattiene dal domandarne ragione. E perché rammenta le parole del maestro di cavalleria. Non gli insegnò che mai si deve parlare troppo? Porre domanda sarebbe villania. Non dice parola. Due valletti arrivano allora, tenendo in mano candelieri d’oro fino lavorato a niello. Uomini molto belli erano i valletti che recavano i candelieri. In ogni candeliere bruciavano dieci candele, a dire il meno. Una fanciulla molto bella, slanciata e ben adorna veniva coi valletti e aveva tra le mani un graal. Quando fu entrata col graal che teneva, si diffuse una luce sì grande che le candele persero chiarore, come le stelle quando si leva il sole o la luna. Dietro di lei un’altra damigella recava un piatto d’argento. Il graal che veniva avanti era fatto dell’oro più puro. Vi erano incastonate pietre di molte specie, le più ricche e le più preziose che vi siano in mare o sulla terra. Nessuna potrebbe paragonarsi alle pietre che cingevano il graal. Come la lancia che era passata davanti al letto, così passarono le due damigelle. Andarono da una stanza all’altra. Il giovane le vide passare, ma a nessuno osò domandare a chi si presentasse il graal nell’altra sala, perché sempre aveva nel cuore le parole dell’uomo saggio, il maestro di cavalleria. Perché non ne derivi sventura, perché mi è capitato d’intendere che il troppo tacere talvolta non val meglio del troppo parlare! Ma che ne abbia ventura o sventura l’ospite non domanda. Il signore allora ordina che si porta l’acqua, che si mett
ano le tovaglie. E così fanno i servitori. E allora il signore come l’ospite si lava le mani nell’acqua scaldata come si deve. Due valletti portano una grande tavola d’avorio fatta d’un sol pezzo, come testimonia la storia. La tengono davanti al signore e all’ospite. Altri servitori sistemano due cavalletti doppiamente preziosi, ché per il legno d’ebano di cui son fatti dureranno a lungo, e nessun pericolo che brucino o marciscano. Ma questo non sarà il loro destino. Su tali cavalletti i servitori hanno appoggiato la tavola, sulla tavola steso la tovaglia. Che dirò di questa tovaglia? Mai legato né cardinale né papa mangeranno su tavola più bianca! La prima portata è un coscio di cervo, ben pepato e cotto nel suo grasso. Bevono vino chiaro e mosto serviti in coppe d’oro. E su un tagliere d’argento che il valletto taglia il coscio e ne dispone ogni pezzo su una grande focaccia. Allora davanti a due convitati un’altra volta passa il graal, ma il giovane non domanda a chi lo serva. Sempre ricorda il valent’uomo che dolcemente l’ha impegnato a non parlare troppo, ché l’ha sempre nel cuore. Ma tace più che non dovrebbe. A ogni portata, vede ripassare davanti a sé il graal tutto scoperto. Ma non sa a chi lo serva. Ha desiderio di saperlo, ma pensa che avrà tempo di domandarlo domani a uno dei valletti della corte, al mattino quando lascerà il signore e tutta la sua gente. Rinvia così la domanda. Viene servito a profusione di carni e di vini, i più scelti e i più piacevoli, comuni sulla tavola dei re, dei conti, degli imperatori. Quando il pasto fu terminato, il valent’uomo trattenne l’ospite a veglia intanto che i valletti approntavano i letti e recavano frutta tra la più preziosa. Gli furono offerti datteri, fichi e noci moscate, melagrani, fiori di garofano ed elettuario*, per finire, e ancora pasta di zenzero d’Alessandria e gelatina aromatizzata. Bevvero poi svariate bevande: vino aromatico senza miele né pepe, buon vino di more e sciroppo chiaro. Il Gallese ha meraviglia di tante buone cose che non aveva mai assaggiato. Infine il valent’uomo gli dice: «Amico, è l’ora di dormire. Se voi permettete, raggiungerò la mia stanza e il mio letto. E quando vi farà piacere, voi vi coricherete qui. Ahimé, non ho alcun potere sul mio corpo! E’ necessario che mi si porti». Entrano allora quattro servitori molto robusti che prendono ai quattro angoli la trapunta su cui giace il signore e lo portano nella sua stanza. Con il giovane restano dei valletti che lo servirono e ne presero buona cura. Poi, quando a lui piacque, gli tolsero le calzature, lo svestirono e lo posero a dormire tra bianche lenzuola di lino finissimo. E fino al mattino vi riposò. Sul far del giorno si risvegliò. Tutta la casa era già in piedi, ma nessuno era presso di lui. Gli toccò quindi vestirsi da solo, che lo volesse o no. Non aspetta alcun aiuto, si leva e si calza, va a prendere le armi posate su una tavola dove le avevano portate. Come è pronto, va di porta in porta, che aveva viste la sera innanzi. Ma invano: porte chiuse, e ben chiuse! Chiama, bussa con gran forza e ancor di più, ma nessuno gli apre o risponde. Ha chiamato abbastanza! Va alla porta della sala. E’ aperta. Ne scende tutti i gradini fino in basso. Trova il cavallo sellato. La lancia là vicina e lo scudo contro il muro. Monta a cavallo e va intorno cercando, ma non incontra alcuno, né servitore, né scudiero, né valletto. Allora va dritto alla porta. Il ponte levatoio è abbassato. Nessuno dunque ha voluto trattenerlo, a qualsiasi ora volesse lasciare quel luogo! Ma egli pensa ben altro: sono i valletti, si dice, che attraverso il ponte calato sono partiti sulla strada sulla foresta a sorvegliare trappole e lacci. S’avvia dunque per trovarne alcuno, forse, che gli dica dove viene portato quel graal e perché o per qual pena la lancia sanguina. Così pensando passa il ponte, ma quando è sul piancito ben avverte che le zampe del cavallo d’un subito danno un balzo. Fortuna che saltano a meraviglia, ché cavallo e cavaliere ne avrebbero avuto a male. Gira indietro la testa e scorge il ponte levato, senza che alcuno si sia fatto vedere. Chiama, ma non v’è risposta. Grida: «Dimmi, tu che hai levato il ponte, rispondimi! Dove ti nascondi? Mostrati, ché ho cosa da dirti!». Parole vane! Nessuno gli risponderà.

* Preparato galenico semidenso consistente in miscugli di sostanze medicinali impastate con miele o sciroppi col quale anticamente si credeva di poter combattere un gran numero di malattie.

In questo passo del romanzo di Chretien de Troyes non troviamo più Lancillotto ma Parsifal: tale cambiamento è dovuto al passaggio dell’artista dalla Francia alla corte di Fiandra. Se nel brano letto precedentemente Lancillotto è un cavaliere che sceglie, dopo poche titubanze, l’amore, Parsifal sembra incapace di scegliere: ancora legato alla virtù del cavaliere del silenzio rispetto al signore, egli la segue ma questa volta a sua danno. D’altra parte, pur mettendo al centro della narrazione l’indeciso cavaliere, ad emergere sono le simbologie: la spada che combatterà per la fede, la lancia che ha ferito Cristo, testimoniato dal sangue che non si rapprende mai, ed il graal (il vaso) che lo raccoglie. Anche la luce, che vince il chiarore delle candele, è simbolo della verità di Dio. Non riuscendo a chiedere, il nostro ancora non sa scegliere tre virtù e Dio. Sembra quasi che l’autore in questo suo (forse) ultimo romanzo, abbia voluto superare l’impasse tra cortesia e fede, facendo delle virtù del cavaliere uno strumento per la fede (aleggia lo spirito delle crociate). Ma come il romanzo finirà non lo sapremo, pare che l’autore muoia prima di concluderlo.

Ma l’opera che più viene ricordata per il triste epilogo dei due amanti è di Tristano ed Isotta, la cui redazione più importante viene attribuita ad un certo Thomas:

Dopo miriadi prodezze, l’orfano Tristano, nipote del re di Cornovaglia Marco, ha conquistato Isotta, la bionda principessa irlandese, perché lo zio possa sposarla. Sulla nave che li riconduce in Cornovaglia i due giovani bevono per errore il filtro che avrebbe dovuto legare re Marco ed Isotta di amore profondo. Ormai Tristano e Isotta si ameranno. Re Marco sposa Isotta, ma un giorno, nonostante le precauzioni dei due amanti, li sorprende e li condanna. Tristano e Isotta riescono però a fuggire e a rifugiarsi nella foresta di Morrois. Qui vengono scoperti dal re che, commosso dal loro casto atteggiamento (riposano fianco a fianco ma separati dalla spada di Tristano), lascia la propria spada e l’anello di nozze e se ne va senza svegliarli. Colpiti da tanta clemenza i giovani decidono di separarsi: Isotta ritorna a corte e Tristano si esilia in Armorica, dove sposa Isotta dalle bianche mani. Non dimentica tuttavia la regina, travestito da lebbroso, da mendicante, da pazzo, torma ogni tanto in Cornovaglia per brevi incontri con l’amata. Nel corso di un combattimento Tristano è ferito a morte. Solo la regina Isotta potrebbe guarirlo. Il messaggero che la va a cercare concorda con Tristano un segnale: se Isotta avrà accettato di venire, la nave, al ritorno, isserà la vela bianca; isserà la vela nera se avrà rifiutato. Ma Isotta arriva troppo tardi. Tristano è morto, ingannato dalla moglie che gli annunciato che la vela era nera. La bionda regina muore di dolore sul corpo dell’amato.

 LA MORTE DI TRISTANO E ISOTTA

Hanno issato in alto la vela bianca, e veleggiano rapidamente, che Caerdino vede la Bretagna. Dunque son gioiosi e lieti e allegri, e tirano ben in cima la vela, che possa essere veduto quale sia, la bianca o la nera: vuole mostrare il colore da lontano, perché era l’ultimo giorno che Tristano aveva loro fissato quando partirono dal paese. Mentre navigano lietamente, si leva il caldo ed il vento cessa sicché non possono usare la vela. Il mare è estremamente piano e liscio. La loro nave non va né di qua né di là, fuorché quando la spinge l’onda, e non hanno la loro scialuppa: ora grande è l’angoscia. Vedono dinanzi a loro vicina la terra, né hanno il vento con cui possano raggiungerla. Vanno dunque errando in alto, in basso, ora indietro e poi avanti. Non possono avanzare il cammino, tocca loro un gravissimo impaccio. Isotta n’è profondamente rattristata: vede la terra che ha desiderato, e non vi può giungere; per poco non muore dal suo desiderio. Sulla nave desiderano la terra, ma il vento soffia troppo lieve. Spesso Isotta si chiama sventurata. Sulla riva desiderano la nave: ancora non l’hanno vista. Tristano n’è dolente e infelice, spesso si lamenta, spesso sospira per Isotta che tanto desidera, piange dagli occhi, il corpo gli si torce, per poco non muore per il desiderio. In quell’angoscia, in quel tormento viene dinanzi a lui sua moglie, Isotta, che medita il grande inganno: «Amico», dice «ora viene Caerdino. Ho veduto la sua nave sul mare, l’ho vista veleggiare a gran pena, tuttavia io l’ho veduta in modo che per sua l’ho riconosciuta. Conceda Iddio che io porti tal novella di cui abbiate nel cuore conforto!». Trasale Tristano alla notizia, dice ad Isotta: «Bell’amica, siete sicura che è la sua nave? Ditemi ora qual è la vela». Isotta dice questo: «Ne son certa. Sappiate che la vela è tutta nera. L’hanno issata in cima e levata in alto, perché manca loro il vento». Allora sì grande dolore ha Tristano quale mai non ebbe, né avrà maggiore, e si volta verso il muro: «Dio salvi Isotta e me!», dice allora. «Poiché da me non volete venire, debbo morire per vostro amore. Non posso più tenere la mia vita; per voi muoio, Isotta, bell’amica. Non avete pietà del mio languire, ma della mia morte avrete dolore. Questo, amica, m’è di grande conforto, che avete pietà della mia morte». Dice tre volte «Amica Isotta», alla quarta rende lo spirito. Allora piangono per la casa i cavalieri, i compagni. Alto è il clamore, il pianto grande. Cavalieri e servitori corrono e lo tolgono dal suo letto, poi lo distendono sopra uno sciamito, lo coprono di un drappo listato. Sul mare s’è levato il vento e colpisce nel mezzo della vela, fa venire a terra la nave. Isotta discende dalla nave, ode nella via i grandi pianti, le campane nei monasteri e nelle cappelle; chiede notizie agli uomini, perché fanno questo suono e per chi sia il compianto. Allora un vecchio le dice: «Bella signora, così m’aiuti Iddio, noi abbiamo un dolore così grande che mai gente n’ebbe maggiore. Morto è Tristano, il nobile, il prode: era di conforto a tutti quelli del regno. Era liberale coi bisognosi, di grande aiuto ai sofferenti. Di una ferita che il suo corpo ebbe è morto, proprio ora, nel suo letto. Mai non toccò a questa regione così grande sventura». Appena Isotta ode la novella, non può dir nulla dello strazio. Così addolorata è della sua morte, che va discinta per la via dinanzi agli altri al palazzo. Mai Bretoni videro donna della sua bellezza; stupiti si chiedono per la città onde venga, chi sia. Isotta va, là dove vede il corpo, e si volge verso oriente, prega piamente per lui: «Amico Tristano, poiché vi vedo morto, è giusto che non possa vivere oltre. Morto siete per il mio amore, e io, amico, muoio di tenerezza, perché non potrei venire a tempo per guarire voi e il vostro male. Amico, amico, per la vostra morte non avrò mai nulla di conforto, gioia, né allegrezza, né alcun piacere. Maledetta sia quella tempesta che in mare mi fece tanto indugiare che io non potei venire! Se io fossi venuta a tempo, amico, vi avrei ridata la vita e parlato dolcemente dell’amore che è stato fra noi; avrei rimpianto la mia sorte, la nostra gioia, il nostro piacere, la pena e il grande dolore che è stato nel nostro amore, e questo avrei ricordato e poi baciato e abbracciato. Se io non posso guarirvi, possiamo dunque insieme morire! Poiché non potei e non ebbi la sorte di venire a tempo, e sono venuta alla morte, avrò conforto della stessa bevanda. Per me avete perduta la vita, e io farò come verace amica: per voi voglio egualmente morire». L’abbraccia e si distende, si stende corpo contro corpo, bocca contro bocca, e allora rende lo spirito e muore così a fianco a lui per il dolore del suo amico. Tristano è morto per il suo desiderio, Isotta, perché non poté venire a tempo. Tristano è morto del suo amore e la bella Isotta di tenerezza.  

 39899_Waterhouse_0020_(39).jpg

Tristano e Isotta e la pozione

E’ questo il romanzo più famoso tra quelli cortesi e tale fortuna sarà determinata dall’interpretazione passionale che la scuola Romantica (del 1800) fece su di esso, facendone un fulgido esempio di “eros e thanatos”; ma quello che caratterizza l’opera è certamente l’attenta ambivalenza che in esso vi è tra cultura classica e cultura moderna: il brano infatti si rifà ad un passo d’Ovidio (Piramo e Tisbe) e alla leggenda mitica di Teseo e il Minotauro. Tuttavia i due cavalieri, sia Marco che Tristano sono due perfetti emblemi della cortesia, mentre Isotta, la donna contesa, per amore accetta di morire. Leggiamo infatti un maggiore risalto agli effetti psicologici dei due protagonisti: ma forse perché esso è il risultato di una serie di apporti poi rivisti e sistemati verso il 1170.

Si è qui parlato dell’amore cortese e di come esso si sviluppasse dapprima nelle corti provenzali ed in seguito alla crociata degli Albigesi e alla conquista di Luigi XII, si fosse espanso nella maggior parte dell’Europa. Tuttavia la vera e propria diffusione si deve ad un testo latino, scritto da Andrea Cappellano (appunto il cappellano privato di Maria di Francia) che, imitando Ovidio e la sua precettistica amorosa nel De Amore definisce che cosa sia, come si sviluppi, chi ne debbano essere i protagonisti eccetera.

Esso diventa un vero e proprio manuale, che si conclude con un elenco che sintetizza il concetto d’amore cortese, di cui si riportano alcune norme:

SUNT AUTEM REGULAE TALES

Causa coniugii ab amore non est excusatio recta.
Per ragioni di matrimonio non è giusto rinuncia­re all’amore.
Nemo duplici potest amore ligari.
Nessuno può legarsi in doppio amore
Amare nemo potest, nisi qui amoris suasione compellitur.
Nessuno può amare se non lo spinge amore.
Amor raro consuevit durare vulgatus.
L’amore divulgato raramente è destinato a dura­re.
Omnis consuevit amans in coamantis aspectu pallescere.
Ogni amante impallidisce sotto gli occhi dell’amante.
In repentina coamantis visione cor contremescit amantis.
Alla vista improvvisa dell’amante trema il cuore dell’amante.
Probitas sola quemque dignum facit amore.
Solo la gentilezza rende le creature degne d’amore.