TORQUATO TASSO

Torquato_Tasso_2.jpgRitratto attribuito a Torquato Tasso

Torquato Tasso nasce l’11 marzo del 1544 a Sorrento da Bernardo, poeta cortigiano presso il principe Sanseverino nel vicereame di Napoli e da una nobildonna di Pistoia, Porsia de’ Rossi. Al seguito paterno, inizia, da bambino, i primi studi a Napoli; ma, quando il padre dovrà seguire il suo protettore, accusato di tradimento dal viceré, lo seguirà, raggiungendo Roma, e sarà lì, appena dodicenne, che apprenderà la dolorosissima notizia della morte della madre, rimasta a Sorrento con la figlia maggiore, Cornelia, cui era fortemente legato.

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Bernardo Tasso

Quando, nel 1556, uno stato di tensione tra il Filippo II e il papa Paolo IV spinge Bernardo ad abbandonare Roma per raggiungere Urbino, il giovane Torquato viene inviato a Bergamo, da dove, in seguito, s’allontanerà per raggiungere il padre. E’ un periodo felice per il giovane Torquato, che in quella piccola città, in quel piccolo microcosmo dei Della Rovere, proietta la “beltà” e “cortesia” della corte. Qui inizia a comporre alcune liriche.

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Edizione pubblicata a Venezia nel 1581 del’Amadigi di Bernardo Tasso

Nel 1559 il padre si trasferisce a Venezia per stampare la sua opera l’Amadigi; qui il figlio lo raggiungerà e seguirà, per volere paterno, studi di diritto. Il giovane Tasso stringe amicizia con letterati e pubblica anche un consistente nucleo di sue prove poetiche. Quindi dà vita ad un abbozzo di poema epico, il Gierusalemme. e il poema cavalleresco Rinaldo che pubblica nella città lagunare nel 1562.

Da Venezia si sposta a Bologna, in compagnia di un caro amico, dove inizia a lavorare a opere dal carattere normativo, tra cui gli importantissimi Discorsi dell’arte poetica. Quindi pubblica, per nobildonne, appassionate ed eleganti poesie.

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Edizione veneziana del Rinaldo del Tasso 1840

Nel 1565 si trova a Ferrara, guidata in questo periodo da Alfonso II. Dopo quattro anni gli muore l’amato padre. L’ambiente cortigiano dà una certa tranquillità al nostro, che potrà redigere il dramma pastorale Aminta rappresentato con successo a corte. Intanto riprende il lavoro sulla Gierusalemme che conclude nel 1575. Non sicuro del valore dell’opera la sottopone ad alcuni revisori, che non gli lesinano anche severe critiche. Il Tasso comincerà così anche a dubitare che l’opera non sia, a livello d’ortodossia, corretta. Nel 1576, tornato a Ferrara, Tasso comincia a mostrare i primi segni d’inquietudine psichica. La prima crisi si ha quando, pensando che volesse lasciare Ferrara per Firenze, il duca gli mette alcuni “controllori” alle spalle. Temendo che lo vogliano accusare d’eresia, si sottopone, volontariamente, al tribunale dell’Inquisizione.

L’anno successivo, mentre parla con cortesia con la duchessa, temendo d’essere spiato da un servo, lo aggredisce con un coltello. Il poeta, creduto che fosse preda di una crisi di nervi, viene curato: ma lui pensa che lo vogliano avvelenare. Viene rinchiuso in un convento; da qui scappa e raggiunge a Sorrento la sorella Cornelia. Per sapere se ella provi un vero e proprio affetto per lui, finge di essere un pastore, che reca la notizia della morte di Torquato. Solo dopo il reale dispiacere della sorella, si rivelerà.

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Non riesce più a trovare pace: viaggia senza sosta; torna a Roma, poi a Mantova, Padova, Reggio, Urbino e Torino. Qui sembra volersi fermare, ma gli riprende la nostalgia di Ferrara e riparte. La città del duca Alfonso II è in grande fermento, dove fervono i preparativi del matrimonio tra lo stesso duca e Margherita Gonzaga. Sentendosi trascurato, ingiuria pubblicamente Alfonso che lo rinchiude a Sant’Anna, dove rimarrà fino al 1586. E’ un periodo in cui, pur in mezzo a veri e propri momenti di follia, continuerà a lavorare incessantemente alla Liberata, che, nella nuova edizione vedrà la luce nel 1581. Dopo la pubblicazione si formano, tra gli intellettuali italiani, due vere e proprie fazioni che si dividono per il primato tra il Furioso e la Liberata.

Viene rilasciato per intercessione del principe di Gonzaga. In questa città finirà e revisionerà i Discorsi e le Rime. Ma viene ripreso da un forte senso di inquietudine che lo riporterà a vagare di città in città, dal 1588 al 1592, dove, ancora a Roma, pubblicherà la Conquistata, e il 1593, in cui, stanco e malato, raggiungerà Napoli. Qui vedrà la luce l’edizione definitiva dei Discorsi, che prenderanno il nome di Discorsi sopra il poema eroico.

Cella-del-Tasso.jpgEugene Delacroix Tasso a Sant’Anna (1839)

Nel 1595 va, per l’ultima volta a Roma, pensando che gli spetti l’incoronazione poetica. Ma appena giunto, lo stato fisico si mostra fortemente compromesso. Viene condotto al monastero di Sant’Onofrio sul Gianicolo e, dopo aver ottenuto l’assoluzione papale, muore serenamente.

E’ evidente che, seppur presentata in modo sommario, la vita del Tasso appare fortemente contrassegnata da eventi in parte personali e in parte storici. Egli infatti vive in modo drammatico la perdita della madre, da cui deriverà quel lungo girovagare che può esser visto come terrore di un luogo stabilito, da cui nasce quel senso di soffocamento che diventerà, purtroppo per lui, vera e propria mania di persecuzione. Tutto questo, se inserito nel periodo storico in cui Tasso si trova ad esistere, si rifletterà su due fondamentali piani: la politica culturale della Chiesa e la situazione di Ferrara, città in cui egli riuscirà a vivere il periodo più felice della sua vita. La Controriforma (o la Riforma cattolica) amplifica in lui il concetto di soffocamento / protezione che si risolve nella ricerca / fuga biografica, quando si trova in una città; Ferrara, luogo in cui si sono svolte le fondamentali esperienze intellettuali di Boiardo e Ariosto non è più la città Rinascimentale: chiusa nella difensiva, obbediente ai valori della Spagna e della Chiesa, che sembra ricercare l’ultimo splendore intellettuale (in Tasso, appunto) prima di “morire”, e l’illusione per il poeta che essa possa ancora rappresentare la grande corte in cui lui possa trovare sia protezione che gloria. Ma sarà proprio il duca Alfonso a interrompere tale illusione, chiudendolo, per pazzia, a Sant’Anna.

Ci piace sottolineare un pensiero di Marco Vallora riguardo l’immaginazione tassiana che “s’illumina dagli estremi bagliori del Rinascimento che muore, che s’avvita e avvince ai tormentosi contorcimenti del manierismo che va confluendo nella Controriforma, che riverbera come in uno specchio brunito le luci e le ombre di quel Barocco che si sta clamorosamente annunziando all’orizzonte”.

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Franz Catel: Morte di Torquato Tasso (1834)

Opere

L’attività letteraria di Torquato Tasso si può dividere in:

  • Opere normative che, sotto l’egida di Aristotele, tentano di definire il poema cavalleresco sotto nuove prospettive che obbediscano anche (ma non solo) alle nuove direttive culturali della Chiesa;
  • Rime, in cui opera ancora l’insegnamento petrarchesco, ma rivissuto nella nuova sensibilità tassiana;
  • Il dramma pastorale con l’Aminta che rappresenta un vero e proprio capolavoro letterario dell’intero Cinquecento ed il teatro classico con la tragedia Il re Torrismondo;
  • Il poema cavalleresco, sin dall’adolescenza con la Gierusalemme ed il Rinaldo; questo genere troverà la sua sistemazione nella Gerusalemme liberata; ma anche questa straordinaria operazione sarà figlia delle paure del Tasso, che la trasformerà nella nuova e decisamente meno riuscita, Gerusalemme conquistata.
  • Un ricchissimo Epistolario, di circa 1700 lettere, fonte incredibile di notizie sia umane che letterarie.

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Ludovico Ariosto: Rime (edizione 1584)

RIME

La composizione delle Rime tassiane coprono un periodo che va da metà degli anni Cinquanta, fino quasi alla morte del poeta. Editando, secondo la sua volontà, l’intero corpus, furono lasciate fuori le poesie con riferimenti personali e all’attualità, mentre le altre dovevano seguire un piano di stampa di tipo tematico: liriche amorose; d’encomio o di lode per principi e belle donne; religiose e sparse. Nelle liriche d’amore Tasso, su un fondo tipicamente petrarchesco, accentua l’aspetto immaginifico, soffermandosi sugli abiti e i movimenti femminili. Numerose sono anche le comparazioni che il poeta fa tra donna e natura e viceversa, accentuando, così, aspetti sentimentali e patetici, che tuttavia apriranno alla lirica barocca. Le rime encomiastiche cambiano oggetto e quindi riferimento letterario: prevale la poesia classica di Pindaro ed Orazio, e appaiono quindi più formali. Le sacre rispettano la cultura controriformista del tempo e il senso d’angoscia per la paura di cadere nel peccato. Tuttavia tali Rime non valgono per il contenuto in esse elaborato, quanto per la perizia tecnica che il poeta, sin dalla gioventù, sa mostrare in esse. Basti pensare ai madrigali. Il madrigale, infatti, era un genere in endecasillabi già utilizzato da Petrarca, che prevedeva due o tre terzine e si chiudeva con uno o due distici a rima baciata. Tasso muta il genere e ne fa una composizione in cui s’alternano settenari ed endecasillabi alla ricerca di una più netta musicalità (non è un caso che molti madrigali del Tasso verranno poi musicati da Monteverdi).

ECCO MORMORAR L’ONDE

Ecco mormorar l’onde
e tremolar le fronde
a l’aura mattutina e gli arboscelli
e sovra i rami i vaghi augelli
cantar soavemente
e rider l’oriente;
ecco già l’alba appare
e si specchia nel mare
e rasserena il cielo
e le campagne e imperla il dolce gielo
e gli alti monti indora.
O bella e vaga Aurora
l’aura è tua messaggera, e tu de l’aura
ch’ogni arso cor ristaura.

Ecco mormorare le acque e tremare i ramoscelli e gli alberelli alla brezza mattutina, e cantare dolcemente i soavi uccelli sopra i verdi rami e risplendere il cielo ad oriente. Ecco che ormai appare l’alba e si specchia nel mare e rasserena il cielo, e la delicata rugiada rende perlate le campagne e colora d’oro gli alti monti. O bella e dolce Aurora, la brezza è tua messaggera, e tu lo sei della brezza che conforta ogni cuore d’oro.

Si è preso come esempio questo madrigale perché in esso troviamo degli interessantissimi spunti che aprono alla poesia successiva. In primo luogo, come detto precedentemente è una poesia in cui l’immagine prevale sul contenuto; per ben 11 versi si ha qui la descrizione della natura. Poi improvvisa la rivelazione: l’aura è un senhal con cui il poeta nasconde la realtà femminile, così ci è detto negli ultimi versi. L’aura è messaggera dell’alba, come l’alba è messaggera d’amore che ristora ogni cuore arso d’amore.

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Tiziano: Francesco Maria della Rovere

Ma il capolavoro dell’arte lirica di Tasso è certamente la Canzone al Metauro, presumibilmente scritta ad Urbino, dove il nostro cercava protezione presso il duca Francesco Maria Della Rovere:

CANZONE AL METAURO

O del grand’Appennino
figlio piccolo sì, ma glorïoso
e di nome più chiaro assai che d’onde,
fugace peregrino
a queste tue cortesi amiche sponde
per sicurezza vengo e per riposo.
L’alta Quercia che tu bagni e feconde
con dolcissimi umori, ond’ella spiega
i rami sì ch’i monti e i mari ingombra,
mi ricopra con l’ombra.
L’ombra sacra, ospital, ch’altrui non niega
al suo fresco gentil riposo e sede,
entro al più denso mi raccoglia e chiuda,
sì ch’io celato sia da quella cruda
e cieca dea, ch’è cieca e pur mi vede,
ben ch’io da lei m’appiatti in monte o ’n valle,
e per solingo calle
notturno io mova e sconosciuto il piede;
e mi saetta sì che ne’ miei mali
mostra tanti occhi aver quanti ella ha strali.

Oimè! dal dì che pria
trassi l’aure vitali e i lumi apersi
in questa luce a me non mai serena,
fui de l’ingiusta e ria
trastullo e segno, e di sua man soffersi
piaghe che lunga età risalda a pena.
Sassel la gloriosa alma sirena,
appresso il cui sepolcro ebbi la cuna:
così avuto v’avessi o tomba o fossa
a la prima percossa!
Me dal sen de la madre empia fortuna
pargoletto divelse. Ah! di quei baci,
ch’ella bagnò di lagrime dolenti,
cono sospir mi rimembra e de gli ardenti
preghi che se ’n portar l’aure fugaci:
ch’io non dovea giunger più volto a volto
fra quelle braccia accolto
con nodi così stretti e sì tenaci.
Lasso! e seguii con mal sicure piante,
qual Ascanio o Camilla, il padre errante.

In aspro esiglio e ’n dura

povertà crebbi in quei sì mesi errori;
intempestivo senso ebbi a gli affanni;
ch’anzi stagion, matura
l’acerbità de’ casi e de’ dolori
in me rendé l’acerbità de gli anni.
L’egra spogliata sua vecchiezza e i danni
narrerò tutti. Or che non sono io tanto
ricco de’ propri guai che basti solo
per materia di duolo?
Dunque altri ch’io da me dev’esser pianto?
Già scarsi al mio voler sono i sospiri,
e queste due d’umor sì larghe vene
non agguaglian le lagrime a le pene.
Padre, o buon padre, che dal ciel rimiri,
egro e morto ti piansi, e ben tu lo sai,
e gemendo scaldai
la tomba e il letto: or che ne gli alti giri
tu godi, a te si deve onor, non lutto:
a me versato il mio dolor sia tutto.

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Piacesi Walter: Canzone del Metauro (1984)

O figlio piccolo sì, ma glorioso, del grande Appennino, e illustre per fama molto più che per l’abbondanza delle acque, io, errante costretto alla fuga, giungo a queste tue sponde generose e amiche per cercare sicurezza e riposo. L’alta Quercia (simbolo della stemma dei Della Rovere) che tu bagni e fecondi con le tue acque dolcissime, grazie alle quali quella dispiega i rami così da coprire monti e mari, mi ricopra con la sua ombra. L’ombra sacra, ospitale, che a nessuno nega riposo e accoglienza con la sua gentile frescura, mi accolga e mi richiuda nel più fitto fogliame, così che io sia nascosto a quella crudele e cieca dea (la Fortuna) che è cieca eppure mi vede, ben-ché io mi nasconda da lei sui monti o nelle valli e io muova di notte, senza essere visto da nessuno, i miei passi lungo sentieri solitari; e mi colpisce così che, nelle mie sventure, mostra di a-vere tanti occhi quante sono le sue frecce. // Ohimé! Dal giorno che per la prima volta respirai l’aria che mantiene in vita e aprii gli occhi a questa vita che per me non è mai serena, fui trastullo e bersaglio della Fortuna ingiusta e malvagia, e di sua mano subii ferite che a malapena il passare degli anni rimargina. Lo sa la gloriosa e sublime sirena (Partenope, attorno al cui sepolcro era sorta, secondo la tradizione Napoli), presso il cui sepolcro io nacqui: oh, se avessi avuto in quel luogo tomba onorata o misera sepoltura al primo colpo (che la Fortuna m’inferse)! La malvagia fortuna strappò me, ancora fanciullo, dal seno della madre. Ah! sospirando, ricordo quei baci che ella bagnò di dolorose lacrime e le appassionate preghiere che i venti fugaci hanno portato via; infatti io non avrei più potuto accostare il mio volto al suo, accolto tra quelle braccia con legami così stretti e così tenaci. Me infelice! e seguii con passi poco sicuri mio padre, nel suo vagabondare, come Ascanio o Camilla (il primo segue Enea dopo la disfatta di Troia; la seconda il padre Métabo, re dei Volsci). // Sono cresciuto in un esilio doloroso e dura povertà, durante quel triste vagabondare ho acquisito una precoce sensibilità alle sofferenze: perché la durezza della sorte e dei dolori, fece maturare in me, prima del tempo, la giovinezza. Racconterò tutto sulla vecchiezza malata e misera di mio padre e sui fatti dolorosi che accaddero. Forse che non sono io tanto pieno dei miei dolori, da non essere sufficiente da solo, come esempio di dolore? Dunque chi altri, se non me stesso, dev’essere oggetto di pianto da parte mia? Ormai i miei sospiri di dolore sono pochi a confronto di quanto vorrei, e queste due fonti così abbondanti d’acqua, non rendono le lacrime pari alle pene (che provo). Padre, o buon padre, che guardi dal cielo, ti piansi quand’eri malato e poi quando sei morto, e tu lo sai bene, e piangendo scaldai il tuo letto e poi la tua tomba: ora sei beato in cielo: a te è dovuto onore, non lutto; il mio dolore sia tutto riversato su di me.  

La canzone non è terminata e s’interrompe al sessantesimo verso. Ci sono tre stanze in cui il poeta, stando a ciò che egli esprime nei versi, cerca sicurezza ad Urbino, in un momento assai difficile della sua vita, quando, nel 1578, dopo i primi dissidi col duca, cerca protezione presso il Della Rovere. Questa canzone, pertanto, come molte altre liriche tassiane, è d’occasione, cioè nasce dall’“occasione” appunto di una richiesta d’accoglimento presso la corte urbinate. Da qui il tono sostenuto e liricamente atteggiato nell’encomio dei primi versi; infatti la grande quercia, in quanto rappresenta lo stemma dei Della Rovere e l’intera città d’Urbino, bagnata dal piccolo fiume Metauro, metaforizza appunto la grandezza storica (e qui il richiamo storico alle guerre puniche) e geografica (il suo estendersi dalle montagne, l’Appennino, e il mare, l’Adriatico). Ma, a livello psichico, potrebbe anche metaforizzare il grembo materno: i verbi di accoglimento fino alla chiusura, in un intricato abbraccio, la volontà di nascondersi alla “cieca dea”, cioè la fortuna o il destino, stanno a significare nella duplicità dell’animo del poeta, il polo della sicurezza, o meglio, la ricerca di tale polo, qui esemplificato nell’accoglienza presso una corte e tra le “braccia” di un principe.

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Aminta nell’edizione Manunzio (1590)

AMINTA

E’ certamente, tra le opere minori del Tasso, quella più riuscita; sicuramente questo è determinato dal clima sereno in cui fu composta, nel periodo felice, precedente i suoi turbamenti psichici quando, protetto e amato come grande letterato nella corte Ferrarese, riusciva a donare ad essa un dramma pastorale, per le vacanze estive del 1573, e recitata nella splendida isoletta di Belvedere sul Po, di fronte a tutta la corte.

Il giovane pastore Aminta ama la ninfa Silvia che, seguace di Diana e dedita unicamente alla caccia, disprezza il suo amore. L’amico Tirsi e l’esperta Dafne cercano di aiutare Aminta. Alla fine Tirsi spinge Aminta a dichiararsi apertamente e raggiungere la ninfa mentre sta bagnandosi presso una fonte. Ma prima che il pastore giunga, Silvia sta per essere aggredita da un satiro e fugge. Aminta giunge appena in tempo, ma la ragazza, invece di ringraziarlo, scappa ancora. Subito dopo Nerina (altra ninfa) afferma che Silvia, fuggendo, è stata aggredita dai lupi e di lei è rimasto solo un velo insanguinato. Aminta, disperato perché crede che il velo testimoni la morte della ragazza, si getta da una rupe. Silvia, che morta non è, saputa la storia del pastore, si pente e corre da lui e piange il corpo del pastore. Ma nemmeno lui è morto: un cespuglio ne ha attutito la caduta. Risvegliato dalle lacrime della Ninfa si risveglia e così i due potranno amarsi senza più inibizioni.

Il genere dell’opera corrisponde ad un dramma pastorale in 5 atti in settenari ed endecasillabi; tutto ciò rappresenta una novità in quanto egli applica la struttura della tragedia antica in quanto:

  • rispetta le regole aristoteliche sull’unità di tempo, azione e luogo;
  • rispetta la divisione in atti, la presenza di un prologo e di un coro alla fine di ciascuno di esso;
  • la presenza di elementi “tragici” come il tentativo del suicidio che tuttavia mescola con temi tratti dalla commedia: la presenza di un satiro dalla sessualità libera e disinvolta e il lieto fine.

Tutto ciò diventa possibile per lui perché, non essendo la favola pastorale un genere presente nella letteratura classica, egli può non rispettare le regole di qualcosa di codificato, ma cercare, viceversa, d’impostare egli stesso le regole per un genere che riprendendo temi dalla classicità (si pensi alle Bucoliche di Virgilio, ma anche all’Arcadia di Sannazzaro) le codifica dentro uno schema preciso.

L’opera ebbe da subito vasta eco nella corte ferrarese, soprattutto perché era stata scritta a tema: per meglio dire, dietro i personaggi rappresentati vi si poteva cogliere l’elegante riferimento a uomini e donne della corte di Astolfo. Ma la sua “durabilità” va certamente oltre la riconoscibilità che il pubblico di allora poteva trovarvi. E’ che in essa vi si trova racchiuso tutto il mondo tassiano per il tema dell’amore, che, motivo dominante dell’opera, viene qui cantato nella piena riaffermazione di un piacere rinascimentale accompagnato da un’estrema sensualità e il rifiuto di ogni rigidezza morale. Ma tale tema viene poi accompagnato da una forte ambiguità: l’amore è libertà, nessuna costrizione, ma è rivolto ad una corte che, seppur “ancora” splendida, è il centro di ogni norma e costrizione. Sin d’ora quindi, anche nel periodo felice del nostro si riafferma l’amore/odio per la corte, l’amore /odio per la libertà.

S’EI PIACE, EI LICE
(I, 565-632)

O bella età de l’oro,
non già perché di latte
se ’n corse il fiume e stillò mele il bosco:
non perché i frutti loro
dier da l’aratro intatte
le terre e gli angui errar senz’ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch’ora s’accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell’idolo d’errori, idol d’inganno,
quel che da ’l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l’amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell’alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S’ei piace, ei lice.

Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose
ch’or tien ne ’l velo ascose,
e le poma de ’l seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.
 

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l’onde a l’amorosa sete:
tu a’ begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete:

tu raccogliesti in rete
le chiome a l’aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l’arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d’Amore.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d’Amore e di Natura donno,
tu domator de’ regi,
che fai tra questi chiostri
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene e turba il sonno
a gl’illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l’uso de l’antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.

Amiam, ché ’l Sol si muore e poi rinasce:
a noi una breve luce
s’asconde, e’ l sonno eterna notte adduce.

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Aminta nell’edizione Manunzio (1590)

O bella età dell’oro, non soltanto perché scorreva il latte nei fiumi e il bosco grondava di miele, non perché le terre producevano i loro frutti senza essere state dissodate dall’aratro e i serpenti strisciavano senza aggressività o veleno; non perché allora nessuna nuvola fosca oscurava il sole, e in una primavera eterna, che ora si alterna alla torrida estate e al gelido inverno, il cielo risplendeva di luce e di sereno, le navi erranti non portavano guerra o merci verso gli altri paesi. // Ma soltanto perché quel vuoto nome senza consistenza, quella falsa e ingannevole divinità, quello che fu poi chiamato Onore dal popolo ignorante, che lo rese tiranno della natura umana, non mescolava l’affanno ai sereni piaceri della schiera degli innamorati, e la sua crudele legge non fu conosciuta da quelle anime abituate alla libertà, ma una legge beata e felice che la natura ha scolpito: “Ciò che piace è lecito”. // Allora gli Amorini, senza arco né fiaccole, intrecciavano leggiadre danze, i pastori e le ninfe sedevano insieme mescolando tenerezze e sussurri alle parole e baci appassionati a sussurri, le fanciulle scoprivano senza veli le loro fresche bellezze e il seno acerbo e seducente, che sono ora nascoste dagli abiti; e spesso si vedeva l’innamorato scherzare con l’amata in una fonte o in lago. // Tu, Onore, per primo hai nascosto la fonte dei piaceri, negando l’acqua alla sete dell’amore; tu hai insegnato ai begli occhi a starsene pudicamente abbassati e a tenere le loro bellezze nascoste agli altri; tu raccogliesti in una rete i capelli sparsi all’aria; tu rendesti ritrosi e vergognosi i dolci atti amorosi, imponesti limiti alle parole e regole ai movimenti; solo per causa tua o Onore, ciò che prima fu un dono spontaneo d’Amore ora è un furto. // Le nostre sofferenze, i nostri pianti sono tue illustri imprese. Ma tu, signore di Amore e di Natura, tu, dominatore dei re, che cosa fai tra questi boschi solitari che non possono contenere la tua grandezza? Vattene e turba il sonno agli uomini illustri e ai potenti: lascia noi, gente dimenticata ed umile, vivere qui, senza di te, secondo gli usi dei popoli antichi. Amiamo, poiché la vita umana non si ferma con il tempo ed è fugace. // Amiamo, perché il sole muore e poi risorge: la sua breve luce si nasconde a noi, e il sonno della morte porta la notte eterna.

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Edizione inglese dell’Aminta

E’ evidente che ci troviamo di fronte a un passo dove sembra si possa ripercorrere la gaiezza umanistico-rinascimentale della gioia dell’amore, rivivendola nel mito di una età dell’oro, che il nostro sembra indicare esistere nell’allegra brigata nobile lì raccolta in vacanza a Bellosguardo dove assiste al suo dramma pastorale. Ma forse è qui la difficile contraddizione con cui il lettore d’oggi (e sicuramente lo spettatore ieri) deve confrontarsi. Il brano è recitato dal coro dei pastori alla fine del I atto: ora, seppur idealizzato, è proprio l’essere pastori che situa il loro canto lontano da chi pastore non è, cioè il nobile, che, infatti, non vive in campagna. E’ chiaro che ci troviamo di fronte a un gioco letterario, ma se l’opera, come già detto, è a tema, proprio nei protagonisti i nobili spettatori si riconoscevano, e dovevano riconoscersi in esseri che criticavano l’età, in cui, finita quella dell’oro, veniva a censurarli l’onore (cui non è certo difficile riconoscere la morale cattolica controriformistica)? Certo la vacanza estiva “allentava” e in qualche modo poteva “plaudire” al dettato tassiano. Ma le contraddizioni interne erano dell’autore, e tali rimarranno fino ad esplodere nella follia.

DISCORSI SULL’ARTE POETICA

Il capolavoro di Torquato Tasso viene elaborato dopo una lunga meditazione che lo porta a riflettere sul ruolo che il poema epico/cavalleresco, che ha dato fama e gloria a Boiardo e ad Ariosto, in questo nuovo periodo e in questa stessa città deve assumere e quale fine, chi lo scrive, si deve prefiggere. A tale scopo dà vita un’opera teorica che inizia nel 1562 e termina, dopo averla rivista e corretti, nel 1587. E’ un testo in tre libri, in cui il nostro ragiona su cosa il poema debba centrarsi, in che modo si debba intendere il fantastico, quale forma e quale stile debba avere, sempre paragonando il poema su cui sta lavorando a quello dell’Ariosto. Esso s’inserisce nel dibattito teorico della seconda metà del ’500 sulla natura della struttura del poema eroico, ma per Tasso si tratta di un’opera che si sviluppa mentre lavora alla Gersulamme e pertanto si configura come un continuo rapporto tra teoria e pratica.

LA MATERIA DEL POEMA EROICO

La materia, che argomento può ancora comodamente chiamarsi, o si finge, ed allora par che il poeta abbia parte non solo ne la scelta, ma ne la invenzione ancora; o si toglie da l’istorie. Ma molto meglio è, a mio giudicio, che da l’istoria si prenda; perché dovendo l’epico cercare in ogni parte il verisimile (presupongo questo, come principio notissimo), non è verisimile ch’una azione illustre, quali sono quelle del poema eroico, non sia stata scritta, e passata a la memoria de’ posteri con l’aiuto d’alcuna istoria. (…)
Dovendo il poeta con la sembianza de la verità ingannare i lettori, e non solo persuader loro che le cose da lui trattate sian vere, ma sottoporle in guisa a i lor sensi, che credano non di leggerle, ma di esser presenti, e di vederle, e di udirle, è necessitato di guadagnarsi ne l’animo loro questa opinion di verità; il che facilmente con l’autorità de l’istoria gli verrà fatto.

La materia, che può essere anche chiamata comodamente argomento, o è tratta dalla finzione, e allora è evidente che il poeta abbia parte non solo nella scelta (dell’argomento stesso), ma anche nella capacità inventiva; oppure si trae dalla storia. Secondo il mio pensiero è molto meglio che si prenda dalla storia, perché dovendo l’autore epico trattare soprattutto il verosimile (presuppongo che questo principio sia notissimo), non è dunque verosimile se non un’azione illustre, come quelle del poema eroico, che non sia stata già scritta e ricordata dai posteri con l’aiuto di qualche documento.  (…)
Dovendo il poeta “ingannare” il lettore con l’imitazione della realtà, non solo convincerli che le cose da lui scritte siano vere, ma sottoporle ai loro sensi in modo tale che essi credano non solo di leggerle, ma d’essere presenti, vederle, udirle. E’ quindi necessario che egli dia ai lettori questa impressione di verità, che certamente con l’autorità della storia verrà fatto loro.

Cominciamo subito a notare come il Tasso sottolinei la distanza che separa la sua concezione da quella di Ariosto: infatti, basandosi sull’autorità aristotelica, secondo cui l’arte è imitazione della realtà (principio notissimo), il compito del poeta epico non è quello di porre la propria storia in un non-tempo, come appunto nell’Orlando Furioso, ma di cercare il verisimile, cioè trarlo dalla storia, per dare a lui maggiore autorità. Infatti Tasso è estremamente consapevole di come l’attenzione di un lettore sia maggiormente attratta da una storia che il lettore stesso sa esser stata reale.

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Edizione del 1964

IL MERAVIGLIOSO CRISTIANO

Deve dunque l’argomento del poema epico esser tolto da l’istorie; ma l’istoria, o è di religione tenuta falsa da noi, o di religione che vera crediamo, quale è oggi la cristiana, e vera fu già l’ebrea. Né giudico che l’azioni de’ gentili ci porgano comodo soggetto, onde perfetto poema epico se ne formi: perché in que’ tali poemi, o vogliamo ricorrer talora a le deità che da’ gentili erano adorate, o non vogliamo ricorrervi; se non vi ricorriamo mai, viene a mancarvi il meraviglioso; se vi ricorriamo, resta privo il poema in quella parte del verisimile. Poco dilettevole è veramente quel poema, che non ha seco quelle maraviglie, che tanto muovono non solo l’animo de gl’ignoranti, ma de’ giudiziosi ancora: parlo di quelli anelli, di quelli scudi incantati, di que’ corsieri volanti, di quelle navi converse in ninfe, di quelle larve che fra’ combattenti si tramettono, e d’altre cose sí fatte; de le quali, quasi di sapori, deve il giudizioso scrittore condire il suo poema; perché con esse invita ed alletta il gusto de gli uomini vulgari, non solo senza fastidio, ma con sodisfazione ancora de’ piú intendenti. Ma non potendo questi miracoli esser operati da virtú naturale, è necessario ch’a la virtú sopranaturale ci rivolgiamo; e rivolgendoci a le deità de’ gentili, subito cessa il verisimile; perché non può esser verisimile a gli uomini nostri quello, ch’è da lor tenuto non solo falso, ma impossìbile; ma impossibil’è che dal potere di quell’idoli vani e senza soggetto, che non sono e non furon mai, procedano cose, che di tanto la natura e l’umanità trapassino. (…)
Attribuisca il poeta alcune operazioni, che di gran lunga eccedono il poter degli uomini, a Dio, a gli angioli suoi, a’ demoni, o a coloro a’ quali da Dio o da’ demoni è concessa questa podestà, quali sono i santi, i maghi e le fate. Queste opere, se per se stesse saranno considerate, meravigliose parranno; anzi miracoli sono chiamati nel commune uso di parlare. Queste medesime, se si avrà riguardo a la virtù ed a la potenza di chi l’ha operate, verisimili saranno giudicate, perché avendo gli uomini nostri bevuta ne le fasce insieme co ’l latte questa opinione, ed essendo poi in loro confermata da i maestri de la nostra santa Fede, cioè che Dio e i suoi ministri, e i demoni ed i maghi, permettendolo lui, possino far cose sovra le forze de la natura meravigliose; e leggendo e sentendo ogni dì ricordarne novi esempi, non parrà loro fuori del verisimile quello, che credono non solo esser possibile, ma stimano spesse fiate esser avvenuto, e poter di novo molte volte avvenire. (…)
Può essere dunque una medesima azione e meravigliosa e verisimile: meravigliosa, riguardandola in sé stessa, e circonscritta dentro a i termini naturali; verisimile, considerandola divisa da questi termini ne la sua cagione, la quale è una virtú sopranaturale, potente, ed avvezza ad operar simili meraviglie.

Dunque l’argomento del poema epico dev’essere tratto dalla storia; ma la storia o appartiene ad una religione ritenuta da noi falsa, o crediamo essere vera, come oggi è la religione cristiana e ieri l’ebrea. Non ritengo che le favole mitologiche ci porgano un utile soggetto da cui formare un poema epico; infatti o ricorriamo alla mitologia o meno, ma se non vi ricorriamo manca (nel poema) il meraviglioso, se vi ricorriamo mancherà il verosimile. Poco piacevole è infatti un poema, non solo per gli illetterati ma anche per i colti in cui manchi il meraviglioso: parlo di anelli (fatati), scudi incantati, cavalli volanti, navi trasformate in dee, di fantasmi che si intromettono nei duelli, e di altre azioni straordinarie, con cui, come fossero un condimento, un accorto scrittore condisce il suo poema, perché così invita e fa gradire agli ignoranti senza creare loro dei fastidi, con soddisfazione anche dei competenti. Ma tali miracoli, non potendo avvenire nella realtà naturale, è necessario per noi rivolgerci a quella soprannaturale, e, come già detto, se prendessimo le divinità pagane cesserebbe il verosimile, in quanto è ritenuto giustamente falso ciò che loro non credono, e quindi impossibile; ma è altrettanto impossibile che da quegli idoli senza consistenza, mai esistiti, derivino cose che oltrepassino la natura e l’umanità. (…)
Alcune operazioni, che eccedono la capacità umana, vengano attribuite a Dio, agli angeli, ai diavoli, o a coloro la cui forza derivi dagli angeli o dai diavoli, come i santi, i maghi e le fate. Queste azioni, prese per sé, saranno ritenute meravigliose, tanto che nella nostra lingua sono definite miracoli. Queste stesse, se si penserà alla virtù e alla potenza di chi l’ha fatte nascere, saranno giudicate verosimili; infatti i nostri uomini credono ciò sin dalla più tenera età, quando l’hanno imparata sin da quando erano in fasce e bevevano il latte, cioè che Dio ed i suoi ministri e i diavoli e i maghi, con la sua volontà, possono fare veri e propri miracoli, e sentendo spesso che ciò è avvenuto, credono possa avvenire ancora. (…)
Un’azione può dunque essere sia meravigliosa che verosimile: meravigliosa guardandola in se stessa e considerandola nella sua natura; verosimile considerandola divisa dalla realtà nei suoi fondamenti, in quanto è sovrannaturale,  potente ed abituata a creare tali meraviglie.

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Edizione del 1587

E’ chiaro come qui Tasso, in linea con la Controriforma, cerchi di fare un poema cattolico: abbiamo già visto come sia necessario, per fare ciò, ricorrere alla storia; appare chiaro, ora, per Tasso, far sì che all’interno di essa, affinché vi sia anche la possibilità del divertimento, non possa mancare l’elemento fantastico. Occorre a lui, pertanto, giustificare quest’ultimo sulla linea di un confronto con l’epica antica e confortato da uno stretto ragionamento che si muove su linee razionali; infatti se il poema per interessare deve ricorrere alla storia, creando così il verosimile, non può inserire in essa ciò che verosimile non è, altrimenti cadrebbe anche la prima verosimiglianza; ora se l’apparato mitologico è, per un cattolico, una bella favola ma certamente falsa, essa non può inficiare l’operazione del poema. Allora, per far sì che tale poema esista anche nella necessaria componente fantastica si ricorrerà al meraviglioso cristiano, cioè al miracoloso divino e demoniaco, pertanto a ciò che il lettore credente crede, in quanto uomo di fede.

Altri punti fondamentali che il poeta tocca nei libri successivi sono:

  • unità/varietà: critica Ariosto per l’estrema varietà dell’opera che, a ben guardare non narra una storia (ma ne ammette la piacevolezza per il lettore che ha bisogno di tale varietà); ma critica anche il poeta Trissino che, scrivendo l’Italia liberata dai Goti, poema in cui vuole imitare Virgilio e toglie qualsiasi varietà, non ha raggiunto per il lettore la piacevolezza dell’Orlando; lui inaugura la teoria della varietà nell’unità: racconto una sola storia in cui poi inserisco episodi diversi (guerre, incendi, amori, operazioni divine e diaboliche);

  • stile: lo stile dev’essere “magnifico”, sublime, così come scrive Dante nel suo De vulgari eloquentia. Ma affinché non risultiu troppo magniloquente dev’essere integrato con momenti “lirici”.

LA GERUSALEMME LIBERATA 

L’idea di un poema che celebrasse l’impresa della prima crociata, giunge a Tasso sin da giovanissimo, tanto che già a 15 anni si mette all’opera e compone il primo canto della Gierusalemme. Gli enormi problemi che tale progetto porta con sé non sfuggono al precoce poeta: il rapporto tra storia e fantasia, il concetto di meraviglioso (nonché la presenza di un modello così ingombrante come l’Orlando Furioso), tanto da decidere di rinviare l’opera a tempi più opportuni. Passa solo un anno e comincia a lavorare al Rinaldo, pubblicato a Venezia nel 1562. Questo poema cerca di risolvere il problema del moderno poema eroico: infatti si discuteva se dovesse essere ariostesco, cioè suscitare interesse e piacere attraverso la varietà, o dovesse seguire più pedissequamente il modello omerico o virgiliano. Tasso supera il problema prendendo a modello l’Amadigi del padre, cioè inserendo un solo protagonista all’interno di una serie di avventure. Intorno agli anni ’70 il Tasso lavora alacremente al suo capolavoro che licenzia, nella prima stesura, nel 1575. L’attesa per la pubblicazione presso la corte è enorme: lo stesso duca vorrebbe che l’opera fosse resa pubblica sin da subito. Tasso tuttavia non è esente da dubbi e manda una copia a Padova e una Roma affinché lettori qualificati possano giudicarla. Le critiche giungono (alcune impietose, soprattutto da parte religiosa) e il poeta inizia così il lavoro di revisione; ma intanto il poema comincia a circolare senza il suo permesso. Ciò è dovuto al suo essere rinchiuso a Sant’Anna e non aver alcun controllo su ciò che del suo lavoro venisse fatto fuori. Infatti nel 1581 circola già un’edizione che molto probabilmente contiene in sé alcune correzioni tassiane, (ed è l’opera che noi tutt’oggi leggiamo); ma il poeta continua a lavorarci cercando di cancellare ogni forma potesse allontanare anche il solo sospetto di non essere cattolicamente ortodossa. Uscirà infatti nel 1593, a Roma, la Gerusalemme conquistata. Ma i lettori di un tempo, la critica d’oggi, ritenendo valida l’edizione dell’81 e considerando la Conquistata opera altra rispetto alla Liberata, accettano soltanto quest’ultima come splendido esempio di letteratura del secondo Cinquecento.

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Edizione del 1771

Il tema fondamentale della Gerusalemme Liberata è la guerra dei Cristiani contro i Musulmani promossa da Urbano II durante la prima Crociata e la conquista di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione nel 1099.

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Sante Peranda: Ritratto di Afonso II d’Este (seconda metà del XVI sec.)

Vediamone la struttura e i principali motivi attraverso l’opera stessa:

PROEMIO
(1-5)

Canto l’arme pietose e ’l capitano
che ’l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ’l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in van
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti. 

Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.

Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso,
e che ’l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve. 

Tu, magnanimo Alfonso, il quale ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dí fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.

È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda,
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.

Canto le armi pie e il capitano (Goffredo di Buglione) che liberò il venerabile sepolcro di Cristo (dai musulmani). Egli compì molte imprese con la saggezza e con la forza, molti patimenti subì durante la conquista (di Gerusalemme); e invano l’inferno si oppose alla sua impresa, e invano le diverse popolazioni dell’Asia e dell’Africa, unite insieme, presero le armi (contro di lui). Dio gli fu favorevole ed egli ricondusse sotto le insegne  sacre (la croce) i suoi compagni dispersi. // O musa, tu che non circondi la fronte (dei poeti) sull’Elicona con gli allori che hanno vita breve, ma hai una corona d’oro di stelle  immortali nel cielo fra i cori dei beati, infondi tu nel mio cuore profondi sentimenti religiosi, illumina tu la mia poesia, e perdonami se intreccio episodi di fantasia e gli eventi storici, se abbellisco in parte le carte con altri piaceri, diversi dai tuoi. // Sai che tutti (il mondo) accorrono là, dove l’ingannevole Parnaso diffonde (versi) maggiormente le sue dolcezze e che la verità storica, se arricchita di versi piacevoli ha persuaso, allettandoli, anche i più restii (ad accettare la verità). Allo stesso modo porgiamo al fanciullo malato (egro) i bordi della tazza (che contiene il farmaco) ricoperti (spersi) di dolce liquido e così egli, ingannato, beve farmaci amari e riacquista la salute dal suo inganno. // Tu, magnanimo Alfonso, che sottrai alla violenza della tempesta (fortuna) e guidi nel porto me, esule disperso, trasportato con forza (agitato) e quasi inghiottito (absorto) dalle onde, accogli benevolmente (in lieta fronte) questo mio poema (carte), che offro a te, come se le avessi consacrate (sacrate) con un voto. Forse un giorno succederà che la mia penna che presagisce (le glorie di Alfonso), avrà l’ardire di scrivere su di te quello che ora è solo accennato. // Se avverrà che il popolo cristiano non sia mai in pace e che, con navi e cavalli, tenti di sottrarre (ritor) la nobile e immeritata preda (il sepolcro di Cristo) ai feroci Turchi (il fero Trace), è cosa giusta (è ben ragion) che ti conceda il potere (scettro) in terra o, se vuoi, il supremo comando dei mari. Emulo di Goffredo, ascolta intanto i miei versi (i nostri carmi) e preparati a combattere.

Questo proemio si può benissimo ripartire in tre elementi fondamentali:

  • Stanza 1: vi è la materia del poema, cioè la presa di Gerusalemme da parte di Goffredo di Buglione, nell’ultima fase della guerra. Ma tale stanza è importante anche perché ci mostra la presa di distanza da Ariosto e il modello imperante virgiliano: infatti Canto l’arme pietose e il capitano traduce in modo “letterale” l’Arma virumque cano dell’Eneide; inoltre l’aggettivo pietose rimanda in modo diretto al concetto di pietas virgiliana; il rimarcare poi il nome del protagonista vuole significare, inoltre, ricercare l’unità nel poema, cioè la figura unitaria che non permette di disperdessi in mille rivoli, ma il centro da cui dipartono e poi tornano i protagonisti;
  • Stanze 2-3: invocazione alla Musa. Come già chiarito nei Discorsi sull’arte poetica, Tasso intende la Musa come intelligenza angelica capace di ispirare dall’alto una poesia sacra (come in Dante, che nel Paradiso, invita Apollo “Entra nel petto mio, spira tue” ad ispirarlo). Egli, quindi, chiede scusa se, per allettare i lettori, intesse fregi al ver, cioè abbellisce, con il meraviglioso, la verità storica, riprendendo anche qui il concetto classico sia lucreziano che oraziano del miscere utile dulci (mescolare l’utile al dilettevole).
  • Stanze 4-5: motivo encomiastico. Tale motivo Tasso lo intreccia con quello personale. Infatti egli è un peregrino che cerca conforto dal duca Alfonso. Ma se i cavalieri erranti (verso 8) vengono richiamati nella giusta via per combattere per la vera fede da Goffredo, il duca, nuovo comandante, chiamerà a sé l’errante Tasso a dargli affetto e protezione.

Goffredo-Di-Buglione-2.jpgGoffredo di Buglione  in un anacronistico affresco del 1420 ad opera di un anonimo pittore italiano

Quindi il primo canto prosegue con Dio che volge lo sguardo sugli eserciti cristiani e sui loro principi, e vede Goffredo pieno di sacro ardore verso i pagani, ma gli altri principi pieni di brame (amore, gloria personale) che li fanno deviare dal loro vero compito. Allora chiama l’arcangelo Gabriele e gli ordina di andare presso Goffredo e d’imporgli la fine della guerra. A tale scopo, per sua volontà, egli sarà il comandante e chiamerà presso sé tutti gli altri principi per l’alto compito a lui affidato. A questo punto Tasso ci illustrerà i più grandi cavalieri dell’esercito cristiano, tra cui spiccano Tancredi, il cui cuore arde per la pagana Clorinda, che l’ha affascinato mentre bevono su una fontana (ma lei è restia all’amore) e Rinaldo, ancora fanciullo, ispirato da Marte, quando è in assetto da guerra e da Amore, quando è libero dalla corazza. I comandanti, anche su invito di Pietro l’Eremita accettano e si mettono in marcia verso Gerusalemme. Dall’altra parte Aladino, preoccupato, guarda le sue difese.

Canto II: Il diabolico mago Ismeno consiglia ad Aladino di rubare ai cristiani un’immagine della Madonna, che, se posta nella moschea di Gerusalemme, avrebbe reso la città inespugnabile. Ma tale immagine improvvisamente sparisce e Aladino per vendetta decide d’uccidere tutti i cristiani. Affinché ciò non avvenga s’incolpa del misfatto Sofronia, ma Olindo, innamorato di lei, s’incolpa a sua volta per liberarla. A sottrarre i due dalla morte interviene la bella guerriera Clorinda, già apparsa al cavaliere cristiano Tancredi, che se ne innamora perdutamente. Nella seconda parte del canto intervengono gli ambasciatori di Aladino, il mellifluo Alete e l’impetuoso Argante, che invitano Goffredo ad abbandonare l’impresa, se non vorrà anche l’intervento dell’esercito egiziano. Ma Goffredo risponde loro in modo risoluto e s’alza, infine, il grido di sfida di tutto il campo cristiano; ma non viene meno alle consuetudini che si usano verso gli ambasciatori e dona ad Alete un elmo e ad Argante una spada.

Canto III: la narrazione si apre con la marcia risoluta dei cristiani per la conquista di Gerusalemme, al cui approssimarsi si commuovono perché luogo della nascita di Cristo. Dall’alto di una torre vengono scorti ed Erminia li mostra ad Aladino, avendoli conosciuti in quanto è stata loro prigioniera. Clorinda intanto si muove verso i nemici, finché incontra Tancredi:

ERMINIA E TANCREDI, PRIGIONIERI D’AMORE
(17-28)

Porta sí salda la gran lancia, e in guisa
vien feroce e leggiadro il giovenetto,
che veggendolo d’alto il re s’avisa
che sia guerriero infra gli scelti eletto.
Onde dice a colei ch’è seco assisa,
e che già sente palpitarsi il petto:
«Ben conoscer déi tu per sí lungo uso
ogni cristian, benché ne l’arme chiuso.

Chi è dunque costui, che cosí bene

s’adatta in giostra, e fero in vista è tanto?»
A quella, in vece di risposta, viene
su le labra un sospir, su gli occhi il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
ma non cosí che lor non mostri alquanto:
ché gli occhi pregni un bel purpureo giro
tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.

Poi gli dice infingevole, e nasconde
sotto il manto de l’odio altro desio:
«Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
fra mille riconoscerlo deggia io,
ché spesso il vidi i campi e le profonde
fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
ch’ei faccia, erba non giova od arte maga.

Egli è il prence Tancredi: oh prigioniero
mio fosse un giorno! e no ’l vorrei già morto;
vivo il vorrei, perch’in me desse al fero
desio dolce vendetta alcun conforto.»
Cosí parlava, e de’ suoi detti il vero
da chi l’udiva in altro senso è torto;
e fuor n’uscí con le sue voci estreme
misto un sospir che ’ndarno ella già preme.

Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferirsi a le visiere, e i tronchi in alto
volaro e parte nuda ella ne resta;
ché, rotti i lacci a l’elmo suo, d’un salto
(mirabil colpo!) ei le balzò di testa;
e le chiome dorate al vento sparse,
giovane donna in mezzo ’l campo apparse.

Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli sguardi,
dolci ne l’ira; or che sarian nel riso?
Tancredi, a che pur pensi? a che pur guardi?
non riconosci tu l’altero viso?
Quest’è pur quel bel volto onde tutt’ardi;
tuo core il dica, ov’è il suo essempio inciso.
Questa è colei che rinfrescar la fronte
vedesti già nel solitario fonte.

Ei ch’al cimiero ed al dipinto scudo
non badò prima, or lei veggendo impètra;
ella quanto può meglio il capo ignudo
si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e rota il ferro crudo;
ma però da lei pace non impetra,
che minacciosa il segue, e: «Volgi» grida;
e di due morti in un punto lo sfida.

Percosso, il cavalier non ripercote,
né sí dal ferro a riguardarsi attende,
come a guardar i begli occhi e le gote
ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra sé dicea: «Van le percosse vote
talor, che la sua destra armata stende;
ma colpo mai del bello ignudo volto
non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto.»

Risolve al fin, benché pietà non spere,
di non morir tacendo occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fere
già inerme, e supplichevole e tremante;
onde le dice: «O tu, che mostri avere
per nemico me sol fra turbe tante,
usciam di questa mischia, ed in disparte
i’ potrò teco, e tu meco provarte.

Cosí me’ si vedrà s’al tuo s’agguaglia
il mio valore». Ella accettò l’invito:
e come esser senz’elmo a lei non caglia,
gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
già la guerriera, e già l’avea ferito,
quand’egli: «Or ferma», disse «e siano fatti
anzi la pugna de la pugna i patti».

Fermossi, e lui di pauroso audace
rendé in quel punto il disperato amore.
«I patti sian», dicea «poi che tu pace
meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non piú mio, s’a te dispiace
ch’egli piú viva, volontario more:
è tuo gran tempo, e tempo è ben che trarlo
omai tu debbia, e non debb’io vietarlo.

Ecco io chino le braccia, e t’appresento
senza difesa il petto: or ché no ’l fiedi?
vuoi ch’agevoli l’opra? I’ son contento
trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi».
Distinguea forse in piú duro lamento
i suoi dolori il misero Tancredi,
ma calca l’impedisce intempestiva
de’ pagani e de’ suoi che soprarriva.

400D9ED1-A284-4304-8F5E-4C52E9B6DE09.jpegPaolo Finoglio: Tancredi e Clorinda

Impugna così saldamente la lunga lancia ed avanza in un modo al contempo gentile e fiero il giovane (Tancredi) che, vedendolo dalla torre, il re (Aladino) suppone che sia scelto fra i guerrieri eletti. Quindi dice a colei (Erminia) che sta seduta vicina a lui e che già sente battere forte il cuore: «Per averli frequentati a lungo, tu devi ben conoscere tutti i cristiani, anche se sono nascosti nelle loro armature. // Chi è dunque costui, che si prepara così bene al combattimento ed è così fiero nell’aspetto?» Ad Erminia, invece della risposta, viene sulle labbra un sospiro e negli occhi il pianto. Ella trattiene i sospiri e le lacrime ma non fino al punto di non mostrarli per nulla: un delicato rossore si diffonde intorno agli occhi gonfi di pianto e il sospiro a metà si fa rauco. // Poi, fingendo e nascondendo sotto un falso odio un diverso desiderio (l’amore per Tancredi) dice ad Aladino: «Ahimè! Lo conosco bene ed ho buoni motivi per riconoscerlo tra altri mille cavalieri, poiché spesso lo vidi riempire i campi di battaglia e le fosse del sangue del mio popolo. Ah quanto è crudele nel colpire! Per guarire le ferite da lui inferte non servono le erbe medicamentose né la magia. // Egli è il principe Tancredi: oh fosse mio prigioniero un giorno! E non  lo vorrei morto, lo vorrei vivo, perché la dolce vendetta possa dare qualche sollievo al mio crudele desiderio». Così ella parlava, e chi ascoltava le sue parole ne interpretava in altro modo il senso; e mescolato con le sue ultime parole uscì un sospiro, che invano lei tentò di soffocare. // Clorinda intanto va a contrastare l’assalto di Tancredi, lancia in resta. Si colpirono sulle visiere degli elmi e i pezzi delle lance infrante volarono alti, a Clorinda rimase scoperta una parte del volto, perché rotti i lacci che lo tenevano fermo, l’elmo le cadde dalla testa; ella si rivelò quindi, in mezzo al campo di battaglia, come una giovane donna dai capelli biondi sparsi al vento. // I suoi occhi lampeggiarono e i suoi sguardi furono folgoranti, dolci anche nella rabbia: come sarebbero, allora, nella gioia dell’amore? Tancredi, a che cosa pensi ancora? Che cosa guardi ancora? Non riconosci quel viso altero? Questo è il viso per cui ardi tutto d’amore, te lo dica il tuo cuore dove è impressa la sua immagine. Questo è la donna che vedesti rinfrescarsi la fronte nella fonte solitaria. // Tancredi, che prima non aveva badato al pennacchio e all’insegna raffigurata nello scudo, ora vedendola rimane impietrito; lei si copre per quanto può il capo nudo e attacca Tancredi: egli indietreggia, va all’assalto di altri guerrieri ruotando la spada crudele, ma non ottiene tregua da lei, che lo segue minacciosa e grida: «Girati» e di due morti insieme lo minaccia. // Colpito, il cavaliere non risponde ai colpi, e non è accorto a difendersi dalla spada come, invece, è attento a contemplare i begli occhi e il volto da cui Amore tende l’arco al quale non si può sfuggire. Diceva fra sé: «A volte vanno a vuoto i colpi portati dal suo braccio, mai un colpo del suo bel volto cade nel vuoto: il mio cuore né è sempre colpito». // Decide infine, benché non speri in alcuna pietà, di non morire tacendo come un amante segreto. Vuole che lei sappia che sta colpendo un suo prigioniero indifeso, supplice e tremante, per cui le dice: «O tu, che fra tutti questi combattenti sembri avere solo me come nemico, usciamo da questa mischia così io potrò misurarmi in disparte con te, e tu provarti con me. // Così si vedrà se al tuo valore si avvicina il mio». Ella accettò l’invito e, come se l’essere senza elmo non le importasse, andava baldanzosa ed egli la seguiva smarrito. Già si era disposta a combattere e già aveva ferito Tancredi, quando egli disse: «Fermati, prima che il duello inizi, ne siano fissate le regole» // Lei si fermò, e l’amore disperato rese coraggioso lui che fino a quel punto era stato timoroso. Diceva: «I patti siano, poiché non vuoi essere in pace con me, che allora tu mi strappi il cuore. Il mio cuore, che non è più mio, se tu non vuoi che viva, è pronto ad accettare la morte: esso è tuo da molto tempo, e ora che tu lo prenda ed io non debba impedirtelo. // Ecco, io abbasso le braccia e ti offro il petto senza difesa: perché non lo colpisci? Vuoi che ti agevoli l’opera? Io sono contento di togliermi la corazza, proprio ora, se vuoi che il mio petto sia nudo». Il povero Tancredi forse avrebbe potuto esprimersi con parole più struggenti il suo profondo tormento, ma glielo impedì il sopraggiungere inopportuno delle truppe pagane e cristiane.

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Tancredi d’Altavilla

L’inizio del canto è ripreso dal modello omerico e prende il nome di teichoscopìa (guardare dall’alto delle mura della città): come Elena indica a Priamo i grandi eroi dell’esercito greco, Erminia fa lo stesso con i cavalieri cristiani. Ma qui l’episodio omerico si complica sentimentalmente, trasformando un episodio epico in un episodio lirico. Infatti quello che emerge in questo passo del terzo canto è uno dei temi che contraddistinguerà l’intera opera: il tema dell’amore impossibile. Infatti gli episodi sono due e ambedue strettamente legati: Erminia dalla torre vede Tancredi, di cui è fortemente innamorata, ma egli non può riamarla perché è a sua volta profondamente innamorato di Clorinda, che rifiuta il suo amore, perché donna-guerriera. Quindi Erminia e Clorinda, musulmane entrambe, rappresentano donne contrapposte: l’una tutta emozioni, l’altra tutta azione; e vengono significativamente posta una sull’alto di una torre; l’altra in pieno campo di battaglia. Tancredi, preda, da ambedue è disegnato come “passivo”: sordo all’amore di Erminia, succube di Clorinda. Non è un caso che egli impetri il suo amore, svestendosi della propria identità di cavaliere e addirittura della propria vita. Ma non ultimo, nella parte iniziale, la duplicità delle parole tassiane nel discorso di Erminia, ed è l’autore stesso a significarci l’ambiguità di fondo quando afferma de’ suoi detti il vero da chi l’udiva in altro senso è torto.

Il canto prosegue con l’approcciarsi dell’esercito pagano in fuga e del cristiano all’inseguimento. Un soldato di questi, passando dietro a Clorinda, vede parte del capo scoperta e la ferisce lievemente. Appena Tancredi se ne accorge, lo ferisce e alla sua fuga si dà all’inseguimento. Clorinda, li guarda un po’, poi si unisce ai suoi compagni e caccia i cristiani che può colpire e fugge da quelli che potrebbero a loro volta colpire. I soldati pagani indietreggiano e tentano di ripiegare dentro le mura. I cristiani vengono quasi accerchiati dal loro ripiegamento; infatti Argante, collocato su una collina, li attacca con un piccolo drappello d’artiglieria. Si riaccende la battaglia, da una parte Clorinda ed Armida, dall’altra il principe Dudone, danno vita ad un intenso scontro, finché giungono Tancredi e Rinaldo che riescono a indebolire il fronte avversario. Argante riceve da Tancredi un colpo, ma il suo cavallo è colpito; mentre tenta di liberarsi, Argante uccide Dudone, proprio con la spada, dono di Goffredo. Rinaldo vorrebbe sin da subito vendicare il cavaliere ucciso, ma viene fermato da Goffredo che decide di scavare fossati e trincee attorno alla città. Si fanno solenni esequie verso Dudone. Subito dopo si entra nella foresta da cui trarre la legna per fabbricare le armi d’assedio.

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Immagine per il canto IV

Canto IV: Il Diavolo, deciso di difendere la città dai cristiani, indice un concilio:

IL CONCILIO INFERNALE
(3-6)

Chiama gli abitator de l’ombre eterne
il rauco suon de la tartarea tromba.
Treman le spaziose atre caverne,
e l’aer cieco a quel romor rimbomba;
né sí stridendo mai da le superne
regioni del cielo il folgor piomba,
né sí scossa giamai trema la terra
quando i vapori in sen gravida serra.

Tosto gli dèi d’Abisso in varie torme
concorron d’ogn’intorno a l’alte porte.
Oh come strane, oh come orribil forme!
quant’è ne gli occhi lor terrore e morte!
Stampano alcuni il suol di ferine orme,
E ’n fronte umana han chiome d’angui attorte,
e lor s’aggira dietro immensa coda
Che quasi sferza si ripiega, e snoda.

Qui mille immonde Arpie vedresti e mille
Centauri e Sfingi e pallide Gorgoni,
molte e molte latrar voraci Scille,
e fischiar Idre e sibilar Pitoni,
e vomitar Chimere atre faville,
e Polifemi orrendi e Gerioni;
e in novi mostri, e non piú intesi o visti,
diversi aspetti in un confusi e misti.

Chiama i diavoli dell’inferno il suono rauco della tromba infernale. Tremano gli scuri anfratti e l’aria nera rimbomba a quel rumore; mai la folgore piomba dall’alto del cielo in modo così assordante, mai la terra trema scossa dai vapori che piena trattiene. // Subito gli dei infernali accorrono da tutte le parti in varie schiere verso la reggia di Satana. Oh, che forme orribili; oh, che forme strane! Quanto terrore e morte c’è nei loro sguardi! Alcuni camminano con i piedi d’animali feroci e hanno sulla fronte capelli di serpenti ritorti e dietro loro c’è un’immensa coda, che sferza, si piega e si snoda. // Qui si possono vedere tantissime orribili Arpie, e tantissimi Centauri, Sfingi, pallide Gorgoni, moltissime Scille lamentarsi latrando, Idri soffiare, Pitoni strisciare e le Chimere vomitare scure scintille e spaventosi Polifemi e Gerioni; ed anche nuovi mostri, mai sentiti e visti, mescolati e confusi in diverse forme.

In questo passo, il poeta mostra una straordinaria capacità di utilizzare diverse fonti: la prima è soprattutto virgiliana, ma non manca la lettura attenta di Dante e degli scrittori cristiani del Cinquecento.

In questo concilio si decide che il mago Idraote, re di Damasco, ordini a sua nipote Armida di recarsi in campo cristiano in apparenza per chiedere ai cavalieri aiuto, in realtà per distoglierli dalla guerra:

LA MAGA ARMIDA
(29-36)

Argo non mai, non vide Cipro o Delo
d’abito o di beltà forme sí care:
d’auro ha la chioma, ed or dal bianco velo
traluce involta, or discoperta appare.
Cosí, qualor si rasserena il cielo,
or da candida nube il sol traspare,
or da la nube uscendo i raggi intorno
piú chiari spiega e ne raddoppia il giorno.

Fa nove crespe l’aura al crin disciolto,
che natura per sé rincrespa in onde;
stassi l’avaro sguardo in sé raccolto,
e i tesori d’amore e i suoi nasconde.
Dolce color di rose in quel bel volto
fra l’avorio si sparge e si confonde,
ma ne la bocca, onde esce aura amorosa,
sola rosseggia e semplice la rosa.

Mostra il bel petto le sue nevi ignude,
onde il foco d’Amor si nutre e desta.
Parte appar de le mamme acerbe e crude,
parte altrui ne ricopre invida vesta:
invida, ma s’a gli occhi il varco chiude,
l’amoroso pensier già non arresta,
ché non ben pago di bellezza esterna
ne gli occulti secreti anco s’interna.

Come per acqua o per cristallo intero
trapassa il raggio, e no ’l divide o parte,
per entro il chiuso manto osa il pensiero
sí penetrar ne la vietata parte.
Ivi si spazia, ivi contempla il vero
di tante meraviglie a parte a parte;
poscia al desio le narra e le descrive,
e ne fa le sue fiamme in lui piú vive.

Lodata passa e vagheggiata Armida
fra le cupide turbe, e se n’avede.
No ’l mostra già, benché in suo cor ne rida,
e ne disegni alte vittorie e prede.
Mentre, sospesa alquanto, alcuna guida
che la conduca al capitan richiede,
Eustazio occorse a lei, che del sovrano
principe de le squadre era germano.

Come al lume farfalla, ei si rivolse
a lo splendor de la beltà divina,
e rimirar da presso i lumi volse
che dolcemente atto modesto inchina;
e ne trasse gran fiamma e la raccolse
come da foco suole esca vicina,
e disse verso lei, ch’audace e baldo
il fea de gli anni e de l’amore il caldo:

«Donna, se pur tal nome a te conviensi,
ché non somigli tu cosa terrena,
né v’è figlia d’Adamo in cui dispensi
cotanto il Ciel di sua luce serena,
che da te si ricerca? ed onde viensi?
qual tua ventura o nostra or qui ti mena?
Fa’ che sappia chi sei, fa’ ch’io non erri
ne l’onorarti; e s’è ragion, m’atterri»

Risponde: «Il tuo lodar troppo alto sale,
né tanto in suso il merto nostro arriva.
Cosa vedi, signor, non pur mortale,
ma già morta a i diletti, al duol sol viva;
mia sciagura mi spinge in loco tale,
vergine peregrina e fuggitiva.
Ricovro al pio Goffredo, e in lui confido
tal va di sua bontate intorno il grido.

Mai Argo, mai Cipro, né Delo videro un così bel portamento o un così bel corpo: (Armida) ha i capelli biondi ed appaiono ora avvolti da un velo bianco, ora completamente scoperti. Così, a volte si rasserena il cielo, o il sole appare appena coperto da una candida nube, oppure i raggi del sole, uscendo dietro una  nuvola, si irradiano più chiari e raddoppiano la loro luminosità. // L’aria intorno le crea nuovi riccioli, già per natura ondulati. Il timido sguardo sta chiuso in sé e nasconde le sue armi d’amore e i suoi sguardi. Dolce color rosa si sparge e si mescola in quel bel volto bianco come l’avorio, ma nella bocca, da cui escono sospiri d’amore, sola e semplice risplende la rosa (il color rosa). //  Mostra il petto il suo candore, da cui trova alimento il fuoco d’Amore. Appare una parte delle mammelle turgide e crudeli (per le ferite d’amore), un’altra la nasconde la gelosa veste; gelosa, ma se sottrae allo sguardo (le bellezze custodite) il pensiero d’amore non si ferma, perché non appagato da ciò che appare, s’addentra nei segreti interni. // Come un raggio di luce attraversa l’acqua o il cristallo rimanendo intero senza dividerlo o frantumarlo, il pensiero osa entrare così profondamente nei luoghi ricoperti dalla veste. Qui trova spazio e trova la certezza di tanta meraviglia in ogni parte; poi (il pensiero) le racconta e le descrive al desiderio, e rende le fiamme d’amore ancor più vive. // Lodata e desiderata passa Armida tra i desiderosi soldati e se ne rende conto. Non lo dà a vedere, benché ne goda e ne tragga motivo per progettare vittorie amorose e prede di amanti: Mentre piuttosto dubbiosa chiede che qualcuno la guidi dal capitano, Eustazio si presentò a lei, che era fratello minore del capo delle truppe cristiane. // Come una farfalla verso la luce, egli volle ammirare da vicino gli occhi (di Armida), che un atto di pudore fa dolcemente abbassare e ne derivò una gran fiamma d’amore e la raccolse come dal fuoco è solito raccogliere un’esca vicina, e disse verso la donna, che lo rendevano audace e e fiero nella giovanile età e pronto all’amore: //  «Donna, se tale nome a te si conviene, perché non somigli a una donna terrena, non c’è figlia d’Adamo in cui il Cielo abbia voluto mostrare così tanto la sua serena luce, che cosa stai cercando? E da dove vieni? Quale tuo o nostro destino, ti conduce qui? Dimmi chi sei, affinché io non erri nel renderti onore e se è giusto che io mi prostri davanti a te, come cosa divina». // Risponde: «La tua lode vola troppo in alto, non così il nostro merito. Tu vedi una donna, o cavaliere, non solo mortale, ma già morta ai piaceri e viva solo al dolore; la mia sventura mi spinge in questo luogo, vergine pellegrina e in fuga. Mi rifugio presso il pio Goffredo, e confido in lui, tale è la fama della sua virtù». 

L’apparizione di Armida rappresenta la sensualità, l’eros represso dei cavalieri, che attraverso lei riscoprono il loro essere uomini peccatori e non cavalieri integerrimi al cospetto di Dio (così si presenta a lei Eustazio, fratello più giovane di Goffredo). Ma lei, proprio per questo è demoniaca, così come l’austero medioevo aveva disegnato la donna, così come la Chiesa controriformistica voleva riproporre: il poeta indugia sul suo corpo, come un guerriero fa di fronte ad un’apparizione estranea, inusuale in un campo di battaglia; i capelli e il bianco viso rimandano ad una ispirazione petrarchesca, ma Tasso va oltre e ci fa soffermare lo sguardo sulle mammelle, trattenute a stento da una veste e sul pensiero che varca l’abito alla scoperta della sua nudità. La voluttà dei sensi contro il dovere della guerra; nel periodo tassiano peccato contro salvezza.

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Jacques Blanchard: Armida

Quindi Eustazio la porta da Goffredo, a cui lei racconta, da attrice consumata le sue peripezie: figlia del re di Damasco, rimasta orfana fu affidata allo zio. Costui pensa di farne la moglie del figlio, ma quest’ultimo è rozzo e villano, pertanto rifiuta le nozze. Il malvagio zio, temendola in quanto erede legittima, pensa di darle il veleno, ma, avvisata dal ministro Aronte, fugge, e si rifugia nel suo castello. L’usurpatore, diffamandola, vuole attaccar battaglia contro ambedue. Per questo lei chiede aiuto a Goffredo offrendogli tributi e fedeltà, se l’aiuterà ad ottenere la libertà. Ma Goffredo non fidandosi e temendo d’indebolire l’esercito, promette d’aiutarla dopo aver liberato Gerusalemme. Allora lei scoppia in un pianto disperato, maledicendo la propria sfortuna. Eustazio prende le sue difese e, adducendo la norma cavalleresca secondo cui un cavaliere di ventura deve difendere una donna, convince molti cavalieri. A Goffredo non rimane che affidarle dieci cavalieri, scelti proprio da Eustazio.

Canto V: strettamente legato al precedente. Armida con le armi ammaliatrici cerca di conquistare quanti più cavalieri possibili, per indebolire l’esercito avversario. Nel frattempo Goffredo dispone che i cavalieri di ventura eleggano un capo in sostituzione di Dudone. Eustazio lo chiede a Rinaldo, sperando in un suo rifiuto. Ma la candidatura di Rinaldo irrita Gernando, orgoglioso discendente del re di Svezia. Spinto da una furia infernale la sua ira cresce a tal punto che non esita ad oltraggiare Rinaldo in campo aperto: il giovane cavaliere, colpito nell’onore, allora sfida apertamente Gernando e lo uccide. Il gesto di Rinaldo non può essere, tuttavia, ignorato; accusato da Arnaldo e difeso da Tancredi, vene consigliato dallo stesso Goffredo ad allontanarsi dal campo, finché le acque non si plachino. Intanto Armida continua la sua opera di seduzione anche con Tancredi e Goffredo: ma il primo non si lascia irretire, fermo nella pietas cristiana e nell’esperienza della vita e il secondo ha il cuore occupato solo dalla bella Clorinda. Nel giorno stabilito Armida si presenta a Goffredo per ricevere l’aiuto promesso; il Capitano fa scrivere i nomi dei cavalieri e li fa porre in un’urna da cui vengono estratti i nomi dei dieci “fortunati” che partiranno con lei; ma altri, come Eustazio, la seguono. Alla fine arriva un messaggero polveroso che annuncia a Goffredo l’arrivo dell’esercito egiziano.

Canto VI: Il re Aladino sovrintende ai lavori di rafforzamento per Gerusalemme, ma Argante gli rimprovera di essere poco coraggioso; quindi propone una sfida con cinque grandi cavalieri cristiani. Viene mandato un araldo in campo cristiano: la proposta viene accettata. Argante esce dalla città accompagnato da Clorinda e da mille cavalieri, secondo la volontà del re Aladino. Va incontro a lui Tancredi, ma vista Clorinda e rimanendone ammaliato cerca di raggiungerla; allora si lancia in duello Ottone, che viene abbattuto; Tancredi, infine, si riprende e ingaggia un grandioso duello con Argante: ma la notte interrompe il combattimento e i due vengono divisi. Tutti hanno ammirato l’arduo scontro tra i due campioni, solo Erminia ha sofferto vedendo il duello dalla torre del castello. Vuole ora accorrere dall’amato e curargli la ferite, col cuore che oscilla tra l’amore per Tancredi e l’onore per la sua bandiera. Erminia, infine, decisa per l’amore, vedendo le armi di Clorinda appese alla parete, decide di vestirsene, di uscire dalla città, sicura che le guardie non l’avrebbero fermata, e di andare verso il campo cristiano. 

ERMINIA NELLA NOTTE
(90-103)

Essa veggendo il ciel d’alcuna stella
già sparso intorno divenir piú nero,
senza fraporvi alcuno indugio appella
secretamente un suo fedel scudiero
ed una sua leal diletta ancella,
e parte scopre lor del suo pensiero.
Scopre il disegno de la fuga, e finge
ch’altra cagion a dipartir l’astringe.

Lo scudiero fedel súbito appresta

ciò ch’al lor uopo necessario crede.
Erminia intanto la pomposa vesta
si spoglia, che le scende insino al piede,
e in ischietto vestir leggiadra resta
e snella sí ch’ogni credenza eccede;
né, trattane colei ch’a la partita
scelta s’avea, compagna altra l’aita.

Co ’l durissimo acciar preme ed offende

il delicato collo e l’aurea chioma,
e la tenera man lo scudo prende,
pur troppo grave e insopportabil soma.
Cosí tutta di ferro intorno splende,
e in atto militar se stessa doma.
Gode Amor ch’è presente, e tra sé ride,
come allor già ch’avolse in gonna Alcide.

Oh! con quanta fatica ella sostiene

l’inegual peso e move lenti i passi,
ed a la fida compagnia s’attiene
che per appoggio andar dinanzi fassi.
Ma rinforzan gli spirti Amore e spene
e ministran vigore a i membri lassi,
sí che giungono al loco ove le aspetta
lo scudiero, e in arcion sagliono in fretta.

Travestiti ne vanno, e la piú ascosa
e piú riposta via prendono ad arte,
pur s’avengono in molti e l’aria ombrosa
veggon lucer di ferro in ogni parte;
ma impedir lor viaggio alcun non osa,
e cedendo il sentier ne va in disparte,
ché quel candido ammanto e la temuta
insegna anco ne l’ombra è conosciuta.

Erminia, benché quinci alquanto sceme
del dubbio suo, non va però secura,
ché d’essere scoperta a la fin teme
e del suo troppo ardir sente or paura;
ma pur, giunta a la porta, il timor preme
ed inganna colui che n’ha la cura.
«Io son Clorinda», disse «apri la porta,
ché ’l re m’invia dove l’andare importa».

La voce feminil sembiante a quella
de la guerriera agevola l’inganno
(chi crederia veder armata in sella
una de l’altre ch’arme oprar non sanno?),
sí che ’l portier tosto ubidisce, ed ella
n’esce veloce e i duo che seco vanno;
e per lor securezza entro le valli
calando prendon lunghi obliqui calli.

Ma poi ch’Erminia in solitaria ed ima
parte si vede, alquanto il corso allenta,
ch’i primi rischi aver passati estima,
né d’esser ritenuta omai paventa.
Or pensa a quello a che pensato in prima
non bene aveva; ed or le s’appresenta
difficil piú ch’a lei non fu mostrata
dal frettoloso suo desir, l’entrata.

Vede or che sotto il militar sembiante
ir tra feri nemici è gran follia;
né d’altra parte palesarsi, inante
ch’al suo signor giungesse, altrui vorria.
A lui secreta ed improvisa amante
con secura onestà giunger desia;
onde si ferma, e da miglior pensiero
fatta piú cauta parla al suo scudiero:

«Essere, o mio fedele, a te conviene
mio precursor, ma sii pronto e sagace.
Vattene al campo, e fa’ ch’alcun ti mene
e t’introduca ove Tancredi giace,
a cui dirai che donna a lui ne viene
che gli apporta salute e chiede pace:
pace, poscia ch’Amor guerra mi move,
ond’ei salute, io refrigerio trove;

e ch’essa ha in lui sí certa e viva fede
ch’in suo poter non teme onta né scorno.
Di’ sol questo a lui solo; e s’altro ei chiede,
di’ non saperlo e affretta il tuo ritorno.
Io (ché questa mi par secura sede)
in questo mezzo qui farò soggiorno».
Cosí disse la donna, e quel leale
gía veloce cosí come avesse ale.

E ’n guisa oprar sapea, ch’amicamente
entro a i chiusi ripari era raccolto,
e poi condotto al cavalier giacente,
che l’ambasciata udia con lieto volto;
e già lasciando ei lui, che ne la mente
mille dubbi pensier avea rivolto,
ne riportava a lei dolce risposta:
ch’entrar potrà, quando piú lice, ascosta.

Ma ella intanto impaziente, a cui
troppo ogni indugio par noioso e greve,
numera fra se stessa i passi altrui
e pensa: «or giunge, or entra, or tornar deve».
E già le sembra, e se ne duol, colui
men del solito assai spedito e leve.
Spingesi al fine inanti, e ’n parte ascende
onde comincia a discoprir le tende.

Era la notte, e ’l suo stellato velo
chiaro spiegava e senza nube alcuna
e già spargea rai luminosi e gelo
di vive perle la sorgente luna.
L’innamorata donna iva co ’l cielo
le sue fiamme sfogando ad una ad una,
e secretari del suo amore antico
fea i muti campi e quel silenzio amico.

2a5a5d6e4e633488bc9220bb65d0af63.jpgJulien de Parme. Erminia indossa l’armatura di Clorinda (1775)

Erminia, vedendo il cielo già trapunto di stelle farsi sempre più scuro, senza indugio chiama segretamente un fedele scudiero e una cara e fedele ancella e li mette al corrente, almeno in parte, del suo piano. Svela il suo progetto di fuga, ma finge che siano altri i motivi che la inducono a partire. // Lo scudiero fedele subito prepara ciò che ritiene necessario allo scopo. Erminia, intanto, si spoglia della sfarzosa veste, che le scende fino ai piedi, per rimanere comunque bellissima vestita in modo semplice succinto e snella più di quanto si potrebbe credere, né l’aiuta nessun’altra all’infuori di colei che si era scelta come compagna per la salvezza. // Così il durissimo acciaio preme ed appesantisce il suo delicato collo e la chioma dorata, e la tenera mano afferra lo scudo, benché sia un peso troppo grande e insopportabile. Così Erminia splende tutta ricoperta di ferro e con un atteggiamento militare doma la propria natura di donna. Amore, che assiste alla vestizione, gode e ride tra sé, come quando costrinse Ercole a vestire abiti femminili. // Oh con quanta fatica Erminia sostiene il peso sproporzionato alle sue forze e muove i passi lentamente, e alla fidata compagna si sostiene che va davanti a lei, per fornirle l’appoggio. Ma l’amore e la speranza rinforzano gli spiriti vitali e forniscono forza alle membra infiacchite, finché giungono nel luogo dove le aspetta lo scudiero e salgono in fretta sul cavallo. // Vanno travestiti, e prendono di proposito la via più lontana e nascosta, eppure incontrano molte persone e l’aria scura rifulge in ogni luogo dal balenio del ferro delle armi; ma nessuno osa impedire il loro cammino, e cedendo il passo si mette in disparte, che la bianca armatura (di Clorinda) e l’insegna temuta è da tutti riconosciuta. // Erminia, benché da questo fatto si senta meno dubbiosa, non è però del tutto rassicurata perché teme alla fine d’essere scoperta e del suo ardire ora prova paura; ma pure, giunta alla porta, soffoca il timore e inganna colui che vi è preposto. Disse: «Sono Clorinda, apri la porta, perché il re mi manda dove è necessario che io vada». // La voce femminile, simile a quella della guerriera, facilita l’inganno (chi avrebbe creduto vedere armata in sella un’altra donna incapace d’adoperare le armi?) tanto che il portiere subito ubbidisce, e lei, con i due che stanno insieme, esce veloce e per sicurezza, scendendo dentro la valle prendono lunghi e tortuosi cammini. // Mai poi che Erminia si vede in un solitario e profondo luogo, rallenta la corsa, perché crede d’aver superato i primi ostacoli, né teme di esser più trattenuta. Solo ora pensa a ciò che prima non aveva soppesato bene; ora le sovviene la difficoltà dell’entrata (nel campo cristiano) che non le fu mostrata dall’impetuoso suo desiderio. // Comprende ora che sotto l’armatura di Clorinda andare tra i nemici è gran follia, né vorrebbe mostrarsi ad altri, prima di giungere al suo signore (Tancredi); desidera arrivare a lui sicura del suo onore, come segreta ed improvvisa amante; perciò si ferma e resa più cauta, con maggior ponderazione, parla al suo scudiero: «O mio fedele, è necessario che tu mi preceda, ma sii pronto e astuto. Vai al campo (cristiano), e fa in modo che qualcuno ti conduca da Tancredi ferito, e gli dirai che a lui s’avvicinerà una donna che porterà salvezza e pace; pace, dal momento in cui Amore mi muove guerra, e dove egli trovi salvezza, che io possa trovare sollievo; e che lei ha così fiducia in lui che non teme, sotto la sua protezione, di ricevere offese e umiliazioni. Digli soltanto questo, e se lui chiede altro, digli di non saperlo e affretta il tuo ritorno. Io (che questo mi sembra un luogo sicuro) in questo posto aspetterò». Così disse la donna e quello scudiero leale già correva, come avesse le ali. // E sapeva destreggiarsi in quest’opera, tanto da essere raccolto amichevolmente entro il campo, e quindi condotto da Tancredi ferito, che ascoltò l’ambasciata con volto lieto; e già mentre lo lasciava, perché nella mente combattevano mille pensieri, faceva riportare a lei una dolce risposta: che potrà entrare, quanto più vuole, nascosta. // Ma lei nel frattempo, impaziente, a cui ogni attesa sembra troppo incresciosa e grave, conta in se stessa le mosse dello scudiero e pensa: «Ora arriva, ora entra, ora comincia a tornare». E già le sembra, e se ne dispiace, molto meno svelto del solito. Si spinge infine un poco avanti e sale da dove comincia a vedere le tende. // Era notte, e il suo stellato cielo dispiegava chiaro, senza alcuna nuvola, e già la sorgente luna spargeva i suoi aloni luminosi e rugiada di vive perle. La donna innamorata va sfogando con il cielo le sue fiamme d’amore e testimoni segreti della sua passione rende i campi e quel silenzio amico.

Il personaggio d’Erminia, nella notte, vestendosi da Clorinda, va verso l’innamorato ferito. Ma ciò che manca in lei è la risolutezza. Il suo stato d’animo, infatti, è tormentato da dubbi, mosso tra paura e desiderio, tra amore e dovere. Vorrebbe essere forte, decisa, risoluta, ma sa di non esserlo. Allora ci prova, vestendosi come Clorinda, cioè prendendone il posto, e sognando, per una volta, ad essere ciò che non è. In Erminia, infatti, troviamo vari stati d’animo ed un vissuto interiorizzato che ne fanno un personaggio “moderno”: ella, cioè sembra collocarsi tra la fine dell’epica e l’inizio del romanzo contemporaneo. Ciò è esemplificativo del bifrontismo tassiano: Erminia già sulla torre mostrava di dire cose contrarie al suo sentire, qui invece si copre di ferro, mentre dentro è fragile; instabilità psicologica, volontà scissa tra l’essere e il voler essere: il suo è un personaggio fortemente anti epico.  

Il canto prosegue con Erminia ansiosa, ma un raggio di luna colpisce il suo cimiero, che viene riconosciuto da alcuni cavalieri cristiani che la scambiano per Clorinda. Viene quindi assalita ed è costretta a fuggire.

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Eugène Delacroix: Erminia (1856)  

Il canto VII si apre con la fuga di Erminia:

LA PARENTESI IDILLICA DI ERMINIA
(1 – 22)

 Intanto Erminia infra l’ombrose piante
d’antica selva dal cavallo è scorta,
né piú governa il fren la man tremante,
e mezza quasi par tra viva e morta.
Per tante strade si raggira e tante
il corridor ch’in sua balia la porta,
ch’al fin da gli occhi altrui pur si dilegua,
ed è soverchio omai ch’altri la segua.

 Qual dopo lunga e faticosa caccia
tornansi mesti ed anelanti i cani
che la fèra perduta abbian di traccia,
nascosa in selva da gli aperti piani,
tal pieni d’ira e di vergogna in faccia
riedono stanchi i cavalier cristiani.
Ella pur fugge, e timida e smarrita
non si volge a mirar s’anco è seguita.

 Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno
errò senza consiglio e senza guida,
non udendo o vedendo altro d’intorno,
che le lagrime sue, che le sue strida.
Ma ne l’ora che ’l sol dal carro adorno
scioglie i corsieri e in grembo al mar s’annida,
giunse del bel Giordano a le chiare acque
e scese in riva al fiume, e qui si giacque.

 Cibo non prende già, ché de’ suoi mali
solo si pasce e sol di pianto ha sete;
ma ’l sonno, che de’ miseri mortali
è co ’l suo dolce oblio posa e quiete,
sopí co’ sensi i suoi dolori, e l’ali
dispiegò sovra lei placide e chete;
né però cessa Amor con varie forme
la sua pace turbar mentre ella dorme.

 Non si destò fin che garrir gli augelli
non sentí lieti e salutar gli albori,
e mormorar il fiume e gli arboscelli,
e con l’onda scherzar l’aura e co i fiori.
Apre i languidi lumi e guarda quelli
alberghi solitari de’ pastori,
e parle voce udir tra l’acqua e i rami
ch’a i sospiri ed al pianto la richiami.

 Ma son, mentr’ella piange, i suoi lamenti
rotti da un chiaro suon ch’a lei ne viene,
che sembra ed è di pastorali accenti
misto e di boscareccie inculte avene.
Risorge, e là s’indrizza a passi lenti,
e vede un uom canuto a l’ombre amene
tesser fiscelle a la sua greggia a canto
ed ascoltar di tre fanciulli il canto.

 Vedendo quivi comparir repente
l’insolite arme, sbigottír costoro;
ma li saluta Erminia e dolcemente
gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d’oro:
«Seguite», dice «aventurosa gente
al Ciel diletta, il bel vostro lavoro,
ché non portano già guerra quest’armi
a l’opre vostre, a i vostri dolci carmi».

 Soggiunse poscia: «O padre, or che d’intorno
d’alto incendio di guerra arde il paese,
come qui state in placido soggiorno
senza temer le militari offese?»
«Figlio», ei rispose «d’ogni oltraggio e scorno
la mia famiglia e la mia greggia illese
sempre qui fur, né strepito di Marte
ancor turbò questa remota parte.

 O sia grazia del Ciel che l’umiltade
d’innocente pastor salvi e sublime,
o che, sí come il folgore non cade
in basso pian ma su l’eccelse cime,
cosí il furor di peregrine spade
sol de’ gran re l’altere teste opprime,
né gli avidi soldati a preda alletta
la nostra povertà vile e negletta.

 Altrui vile e negletta, a me sí cara
che non bramo tesor né regal verga,
né cura o voglia ambiziosa o avara
mai nel tranquillo del mio petto alberga.
Spengo la sete mia ne l’acqua chiara,
che non tem’io che di venen s’asperga,
e questa greggia e l’orticel dispensa
cibi non compri a la mia parca mensa.

 Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro
bisogno onde la vita si conservi.
Son figli miei questi ch’addito e mostro,
custodi de la mandra, e non ho servi.
Cosí me ’n vivo in solitario chiostro,
saltar veggendo i capri snelli e i cervi,
ed i pesci guizzar di questo fiume
e spiegar gli augelletti al ciel le piume.

Tempo già fu, quando piú l’uom vaneggia
ne l’età prima, ch’ebbi altro desio
e disdegnai di pasturar la greggia;
e fuggii dal paese a me natio,
e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia
fra i ministri del re fui posto anch’io,
e benché fossi guardian de gli orti
vidi e conobbi pur l’inique corti.

 Pur lusingato da speranza ardita
soffrii lunga stagion ciò che piú spiace;
ma poi ch’insieme con l’età fiorita
mancò la speme e la baldanza audace,
piansi i riposi di quest’umil vita
e sospirai la mia perduta pace,
e dissi; ‘O corte, a Dio’ Cosí, a gli amici
boschi tornando, ho tratto i dí felici».

Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende
da la soave bocca intenta e cheta;
e quel saggio parlar, ch’al cor le scende,
de’ sensi in parte le procelle acqueta.
Dopo molto pensar, consiglio prende
in quella solitudine secreta
insino a tanto almen farne soggiorno
ch’agevoli fortuna il suo ritorno.

 Onde al buon vecchio dice: «O fortunato,
ch’un tempo conoscesti il male a prova,
se non t’invidii il Ciel sí dolce stato,
de le miserie mie pietà ti mova;
e me teco raccogli in cosí grato
albergo ch’abitar teco mi giova.
Forse fia che ’l mio core infra quest’ombre
del suo peso mortal parte disgombre.

 Ché se di gemme e d’or, che ’l vulgo adora
sí come idoli suoi, tu fossi vago,
potresti ben, tante n’ho meco ancora,
renderne il tuo desio contento e pago».
Quinci, versando da’ begli occhi fora
umor di doglia cristallino e vago,
parte narrò di sue fortune, e intanto
il pietoso pastor pianse al suo pianto.

 Poi dolce la consola e sí l’accoglie
come tutt’arda di paterno zelo,
e la conduce ov’è l’antica moglie
che di conforme cor gli ha data il Cielo.
La fanciulla regal di rozze spoglie
s’ammanta, e cinge al crin ruvido velo;
ma nel moto de gli occhi e de le membra
non già di boschi abitatrice sembra.

 Non copre abito vil la nobil luce
e quanto è in lei d’altero e di gentile,
e fuor la maestà regia traluce
per gli atti ancor de l’essercizio umile.
Guida la greggia a i paschi e la riduce
con la povera verga al chiuso ovile,
e da l’irsute mamme il latte preme
e ’n giro accolto poi lo strige insieme.

 Sovente, allor che su gli estivi ardori
giacean le pecorelle a l’ombra assise,
ne la scorza de’ faggi e de gli allori
segnò l’amato nome in mille guise,
e de’ suoi strani ed infelici amori
gli aspri successi in mille piante incise,
e in rileggendo poi le proprie note
rigò di belle lagrime le gote.

 Indi dicea piangendo: «In voi serbate
questa dolente istoria, amiche piante;
perché se fia ch’a le vostr’ombre grate
giamai soggiorni alcun fedele amante,
senta svegliarsi al cor dolce pietate
de le sventure mie sí varie e tante,
e dica: ‘Ah troppo ingiusta empia mercede
diè Fortuna ed Amore a sí gran fede!’

Forse averrà, se ’l Ciel benigno ascolta
affettuoso alcun prego mortale,
che venga in queste selve anco tal volta
quegli a cui di me forse or nulla cale;
e rivolgendo gli occhi ove sepolta
giacerà questa spoglia inferma e frale,
tardo premio conceda a i miei martíri
di poche lagrimette e di sospiri;

 onde se in vita il cor misero fue,
sia lo spirito in morte almen felice,
e ’l cener freddo de le fiamme sue
goda quel ch’or godere a me non lice».

1200px-Joseph_Benoit_Suvee_-_Erminia_and_the_Shepherds.jpgJoseph-Benoît Suvée: Erminia tra i pastori (1776)

Frattanto Erminia è condotta (è scorta) dal cavallo fra gli alberi ombrosi dell’antica selva, e la sua mano tremante non riesce più a governare la griglia del cavallo, e sembra quasi esanime. Percorre tanti sentieri con il cavallo che la conduce a suo piacere, che alla fine fa perdere le tracce ai suoi inseguitori ed è ormai inutile che qualcuno la insegua. // Come i cani che dopo una lunga e faticosa battuta di caccia, tornano sconfortati e affannati dopo aver perso le tracce dell’animale selvatico inseguito che si è nascosto nel bosco (fuggendo) dall’aperta campagna, così ritornano stanchi i cavalieri cristiani, pieni d’ira e di vergogna sul volto. Erminia continua a fuggire e, paurosa e smarrita, non si volge indietro a guardare se è ancora inseguita. // Fuggì per tutta la notte e vagabondò per tutto il giorno senza meta e senza essere guidata, non vedendo e udendo altro intorno che le proprie lacrime e le proprie grida. Ma nell’ora in cui il sole slega i cavalli dal carro ornato e si inoltra nel grembo del mare, ella giunse alle limpide acque del bel fiume Giordano, scese in riva al fiume e qui si abbandonò in terra. // Non si ciba di nulla, perché si nutre solo delle proprie angosce e si disseta solo col proprio pianto, ma il sonno, che, col suo dolce oblio, è riposo e quiete dei miseri mortali, insieme con i sensi fece assopire i suoi dolori e distese sopra di lei le ali calme e serene; ma Amore, con diverse immagini oniriche, non cessa di turbare il suo riposo mentre ella dorme. // Non si risvegliò fino a quando non sentì cantare lieti gli uccelli e dare il saluto alle prime luci dell’alba, e mormorare il fiume e gli alberelli e la brezza scherzare con le acque e con i fiori. Apre i malinconici occhi e guarda quelle abitazioni solitarie di pastori e le sembra di udire una voce tra l’acqua e i rami che la fa tornare col pensiero al sospiro e al pianto. // Ma, mentre piange, i suoi lamenti sono interrotti da un suono nitido che giunge a lei, che sembra, ed è, una mescolanza di canti di pastori e di (suoni di) zampogne rustiche e rozze. Si alza e si dirige là (verso il luogo da dove provengono i suoni) a passi lenti e vede un uomo canuto che intreccia vimini sotto le ombre gradevoli, accanto al suo gregge, e ascolta il canto di tre fanciulli. // Costoro, vedendo apparire lì improvvisamente delle armi, cosa inconsueta (in un luogo tranquillo) si spaventano, ma Erminia li saluta e dolcemente li rassicura e scopre gli occhi e i bei capelli d’oro (togliendosi l’elmo): «Continuate il vostro piacevole lavoro», dice «o gente fortunata e cara a Dio, perché queste armi non portano la guerra alle vostre occupazioni e ai vostri dolci canti». // Poi soggiunse: «O padre, ora che la nostra terra arde tutt’intorno per il grande incendio della guerra, come potete stare qui dimorando tranquillamente senza temere gli attacchi dei soldati?». «Figlio», egli rispose «qui la mia famiglia e il mio gregge restarono sempre immuni da ogni aggressione e insulto, né il fragore della guerra (Marte) ha ancora disturbato questa lontana regione. // Sia ringraziato Dio, affinché protegga e onori l’umiltà dell’innocente pastore, o affinché, come il fulmine non colpisce le pianure ma le cime più alte, il furore dei soldati stranieri minacci soltanto le superbe teste dei grandi re e la nostra povertà bassa e disprezzata non alletti, come preda, i sodati avidi. // Per altri è bassa e disprezzata, (ma) a me è così cara che non desidero ricchezza né scettro regale, né la preoccupazione o il desiderio ambizioso e avido trovano posto nella tranquillità del mio cuore. Placo la mia sete nell’acqua limpida che non temo che venga inquinata da veleno, e questo gregge e l’orticello offrono alla mia umile mensa cibi non acquistati. // Perché poco è il desiderio e poco è ciò che ci occorre per vivere. Questi che io addito e mostro sono i miei figli, custodi della mandria, e non ho servi. Così trascorro la vita in un appartato luogo solitario, vedendo saltare gli agili capretti e i cervi e guizzare i pesci di questo fiume e gli uccellini aprire le ali al cielo. // Vi è stato un tempo, nella giovinezza quando si hanno le più grandi illusioni, in cui ebbi un desiderio diverso e disprezzai il mestiere di pastore e fuggii dal mio paese natale e vissi un tempo a Menfi, e nella reggia fui designato anch’io fra i servitori del re e, benché fossi il guardiano dei giardini, tuttavia vidi e conobbi le ingiustizie delle corti. // Solo allettato da una speranza temeraria, sopportai a lungo ciò che più dispiace; ma dopo che, insieme alla giovinezza, mi vennero a mancare la speranza e l’ardito entusiasmo, rimpiansi la tranquillità di questa umile vita e dissi: ‘O corte addio’. Così, tornando ai boschi amici, ho vissuto i giorni felici». // Mentre il vecchio parla, Erminia ascolta attentamente, concentrata e serena, le sue dolci parole; e quelle sagge parole, che le scendono nel cuore, acquietano in parte le tempeste della passione. Dopo aver riflettuto molto, prende la decisione di soggiornare in quella solitudine appartata, almeno fino a quando la sorte non favorirà il suo ritorno. // Perciò dice al buon vecchio: «O fortunato, che un tempo hai sperimentato cosa sia il male, possa Dio non privarti del tuo stato così felice e muoverti a compassione per le mie disperate condizioni, e accoglimi presso di te in una dimora tanto gradevole poiché mi piacerebbe abitare presso di te. Forse avverrà che, fra queste ombre, il mio cuore si liberi dal suo dolore mortale. // Perché se tu fossi desideroso di pietre preziose e di oro, che il popolo adora come suoi idoli, potresti certamente, poiché tante ricchezze ho ancora con me, appagare il tuo desiderio». Quindi, versando dai begli occhi un pianto di dolore limpido e pieno di grazia, narrò in parte le sue vicissitudini, e intanto il pietoso pastore pianse a udire il pianto di lei. // Poi la consola con dolcezza e la accoglie come se ardesse tutto di amore paterno, e la conduce presso la vecchia moglie, che Dio gli ha dato di sentimenti uguali ai suoi. La fanciulla di origini regali si veste con umili indumenti e si copre i capelli con un ruvido velo, ma dagli sguardi e dai gesti non sembra un’abitatrice dei boschi. // L’abito umile non è sufficiente a nascondere il suo nobile aspetto e ciò che in lei vi è di altero e nobile e la sua regale maestà traspare all’esterno anche attraverso i gesti delle umili occupazioni. Guida il gregge ai pascoli e lo riconduce all’ovile con l’umile verga e dalle pelose mammelle munge il latte e poi lo comprime in forme, dopo averlo fatto cagliare, mescolandolo. // Spesso, quando le pecorelle giacevano distese all’ombra durante la calura estiva ella incide il nome dell’amato in mille forme sulla corteccia dei faggi e degli allori e incide su innumerevoli alberi le tristi vicende del suo amore singolare e infelice, e rileggendo poi le proprie scritte rigò le guance con belle lacrime. // Poi diceva piangendo: «Amiche piante, conservate questa dolorosa storia, perché, se accadrà che sotto le gradevoli ombre si fermi un giorno qualche amante fedele, egli senta risvegliarsi nel cuore una dolce pietà per le mie vane e numerose sventure e dica: ‘Ah, la sorte e l’amore diedero una ricompensa troppo ingiusta e crudele ad una fedeltà così grande!’ // Forse accadrà, se Dio benevolo ascolta qualche appassionata preghiera dei mortali, che un giorno giunga anche in questi boschi colui al quale forse ora non importa nulla di me, e volgendo gli occhi dove giacerà sepolto questo mio corpo (che ora è) debole e fragile, conceda ai miei tormenti una tarda ricompensa di poche lacrime e di sospiri, // cosicché, se durante la vita il mio cuore fu infelice, almeno la mia anima sia felice dopo la morte e la mia fredda cenere (il mio cadavere) possa godere della fiamma d’amore di Tancredi,  di cui ora a me non è concesso godere». Così parla ai sordi tronchi e fa sgorgare due fonti di pianto dai begli occhi.

Il passo rappresenta quasi una digressione all’interno del poema, passando da un registro epico ad uno idillico. Nella prima parte è evidente il richiamo alla fuga ariostesca di Angelica: ambedue le  fanciulle fuggono per selve; ma è presente anche il richiamo dell’amore inciso sugli alberi: si tratta cioè di quello che, pur nella diversità abissale nella concezione del poema, per tale genere diventeranno topoi. Ma tornando alla fuga non si può non sottolineare come quella di Angelica rappresenti una fuga da (i suoi numerosi spasimanti), mentre quella di Erminia sia una fuga verso un luogo di pace, idillico, appunto, un luogo dove trovare, anche se l’adesione è problematica, un eden di pace contro la guerra. Questo è sottolineato, anche, dalla quasi mancanza di psicologia nell’Angelica ariostesca, simbolo di un desiderio mai appagato e descritta, a volte, con ironia; viceversa l’Erminia tassiana vive fortemente, in modo interiore, la fuga, diventando quasi una figura in cui si rispecchiano le angosce del poeta. Fortemente intento a costruire per sé una realtà cristologica, fa di Erminia una figura che, fuggendo di notte (peccato) si risveglia all’alba (purificata) in eden quasi paradisiaco. Ma questa adesione non  porta alla certezza: questo è sottolineato soprattutto nel discorso contro le corti del pastore, che definisce “inique”. Ma è il luogo dove l’intellettuale cortigiano ha trovato sicurezza e che nell’Aminta è definito come luogo abitato dalle Muse. Ed è per questo che, tornando all’inizio del nostro commento, abbiamo definito l’adesione al mondo semplice e idillico di Erminia sia, in qualche modo, problematico. E’ pur vero che veste abiti semplici, ma il suo modo d’essere permane sempre nobile.

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Ludovico Carracci: Erminia tra i pastori (1603)

Il canto prosegue con Tancredi che, credendo che la donna sia Clorinda e non vedendola arrivare va alla sua ricerca inutilmente. Quindi decide di tornare al campo cristiano, anche perché è vicino il giorno in cui dovrà riprendere il combattimento con Argante. Ma incontra un uomo che sembra un messaggero e gli chiede la via per il campo cristiano; il messaggero dice che è diretto proprio là, e lo conduce, invece, in un castello, cinto da un sozzo rivo: è questo il castello incantato di Armida. Tancredi riconosce il messo: Rambaldo, uno dei dieci che era partito con Armida e per suo amore aveva abiurato la religione cristiana facendosi pagano. I due mettono mani alle spade e a fatica Armida accorre in aiuto di Rambaldo facendolo scomparire nel buio. Tancredi varca una porta e si trova, così, intrappolato in una stanza. Nel frattempo Argante  attende spasmodico l’alba del sesto giorno per riprendere il combattimento con l’eroe cristiano. Tutto è pronto, ma di Tancredi nessuno sa nulla. Si offre allora lo stesso Goffredo, ma glielo impedisce l’anziano Raimondo di Tolosa che si prepara a combattere; sale sul suo cavallo, prega e Dio gli manda in aiuto un angelo; comincia il combattimento dopo gli scherni di Argante che cerca Tancredi. L’angelo protettore fa sì che ad Argante si spezzi la lancia e si frantumi la spada, ma quando si arriva al corpo a corpo Belzebù decide di aiutare il pagano, trasformando un’ombra leggera nelle sembianze di Clorinda e facendola apparire ad Oradino, spingendolo a colpire Raimondo con una freccia. Il patto viene così violato e scoppia la battaglia fra i due eserciti. Le forze cristiane stanno per prevalere, ma un improvviso acquazzone blocca tutte le operazioni.

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Immagine per il canto VIII

Nel canto VIII le forze del male continuano ad operare contro i cristiani e la furia Aletto mette zizzania tra loro. Il cavaliere Carlo il Danese narra la morte di Sveno, signore dei Danesi, che, desideroso di gloria, con uno stuolo di scelti compagni era partito per Gerusalemme. Una notte Sveno e i suoi sono assaliti da un gran numero di barbari; Sveno muore ucciso da Solimano e dei duemila restano solo in cento; Carlo cade svenuto. Al suo risveglio vede due eremiti; lo fanno alzare e vanno vicino al corpo di Sveno: uno dei due monaci prende dalla mano del principe morto la spada e l’affida a Carlo perché la consegni a Rinaldo che con essa possa vendicare la morte del giovane Sveno. Il racconto commuove tutti e fa venire in mente Rinaldo. Intanto tornano al campo cristiano quelli che erano usciti per depredare e raccogliere vitto per i Crociati, e fra le altre cose riportano indietro anche le armi e le vesti insanguinate di Rinaldo. Aliprando racconta il ritrovamento del corpo del giovane cavaliere, senza la testa e senza il braccio destro, e come gli sia stato rivelato che era stato assalito e ucciso da un gruppo di armati. Nella notte ad Argillano appare in sogno il cadavere di Rinaldo che regge nella mano sinistra la sua testa e lo invita a fuggire dalle tende cristiane e dal feroce Goffredo. Sbigottito si sveglia Argillano e raduna i guerrieri d’Italia rivelando loro il suo sogno e accusando Goffredo e i suoi Francesi. Ne nasce un tumulto; Baldovino accorre in aiuto di Goffredo e rivolge una preghiera a Dio affinché illumini la mente degli uomini. Goffredo, illuminato dal Cielo, parla agli uomini e frena gli audaci e fa mettere in catene Argillano; quindi decide che Gerusalemme sarebbe stata assalita due o tre giorni dopo.

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Immagine per il canto IX

Nel canto IX la furia Aletto, visto che non poteva più nulla contro i cristiani passa dai loro nemici ed incita Solimano, re dei Turchi, a sferrare un attacco contro Goffredo. Il piano escogitato dalla furia è chiaro: colpire i cristiani su due fronti; infatti va subito a Gerusalemme e spinge lo stesso re di Gerusalemme a muovere da un altro fronte contro l’esercito nemico. Infuria quindi la battaglia: Solimano fa orribile strage, come quella di Latino e dei suoi figli (Tasso non ci risparmia nulla: il taglio perpendicolare della testa del figlio maggiore, l’amputazione del braccio del fratello che lo sosteneva, un altro, più piccolo, caduto e calpestato dal cavallo del feroce pagano e i due gemelli, uno decollato e l’altro squartato; infine l’urlo disperato del padre cui ficca nel petto la spada da farlo vomitare sangue dalla ferita e dalla bocca). Goffredo si slancia in battaglia, cerca di raccogliere i dispersi e di rincuorare gli sbandati. Insieme al cavaliere Guelfo decidono di rispondere con attacchi ognuno su un lato; Dio allora rivolge lo sguardo nel campo di battaglia e fa intervenire l’arcangelo Gabriele, affinché ricacci i demoni nell’inferno. Nella battaglia contro i cristiani, si distinguono Argante e Clorinda, ma anche Argillano si libera dalle catene ed inizia una feroce lotta contro la guerriera pagana. Sarà proprio lui ad uccidere Lesbino, giovane paggio di Solimano, che piangerà amaramente sul suo corpo e ucciderà proprio lui che gliel’ha strappato. All’improvviso appaiono cinquanta cavalieri e dietro l’insegna della croce mettono in fuga l’esercito pagano. Chi sono costoro? Sono i cavalieri che Armida aveva fatto prigionieri. Ma Solimano, che assiste alla fuga dei suoi soldati, non cede all’impotenza della sconfitta:

SOLIMANO
(97-99)

Fatto intanto ha il Soldan ciò che è concesso
fare a terrena forza, or piú non pote;
tutto è sangue e sudore, e un grave e spesso
anelar gli ange il petto e i fianchi scote.
Langue sotto lo scudo il braccio oppresso,
gira la destra il ferro in pigre rote:
spezza, e non taglia; e divenendo ottuso
perduto il brando omai di brando ha l’uso.

Come sentissi tal, ristette in atto
d’uom che fra due sia dubbio, e in sé discorre
se morir debba, e di sí illustre fatto
con le sue mani altrui la gloria tòrre,
o pur, sopravanzando al suo disfatto
campo, la vita in securezza porre.
«Vinca» al fin disse «il fato, e questa mia
fuga il trofeo di sua vittoria sia.

Veggia il nemico le mie spalle, e scherna

di novo ancora il nostro essiglio indegno,
pur che di novo armato indi mi scerna
turbar sua pace e ’l non mai stabil regno.
Non cedo io, no; fia con memoria eterna
de le mie offese eterno anco il mio sdegno.
Risorgerò nemico ognor piú crudo,
cenere anco sepolto e spirto ignudo».

400px-Gerusalemme_liberata_I_p301.png
Intanto il Soldano ha fatto ciò che è concesso fare ad una forza terrena, di più non può; è tutto sangue e ferite e un grave e forte ansimare gli opprime il petto e lo scuote fino ai fianchi. Riposa sotto lo scudo il braccio fiaccato e gira la mano destra la spada in lenti giri: spazza, ma non taglia; e diventando inefficace ha perso la sua funzione. // Come se si sentisse in uno stato di prostrazione, rimase come un uomo preso tra due dubbi, pensa tra sé se debba morire e di tale evento fatto con le sue mani, togliere da mani altrui la gloria, oppure sopravvivendo alla rovina del suo esercito, porre la sua vita in sicurezza. «Vinca» disse infine «il destino, e questa mia fuga sia la sua vittoria. Veda il nemico le mie spalle, schernisca di nuovo la nostra vergognosa ritirata, finché di nuovo armato quindi mi veda turbare la sua pace e il regno in pericolo. Non cedo io, no; sarà con memoria eterna delle mie sconfitte, eterno anche il mio sdegno. Risorgerò nemico, ogni volta più crudele, anche quando sarò cenere e sepolto, anche quando sarò solo spirito».

C’è nella descrizione di questo guerriero turco qualcosa di tragicamente eroico: l’avevamo visto nel pieno della crudeltà guerresca, non risparmiare niente e nessuno (né adulti né fanciulli) ed ora lo vediamo sconfitto, ma non domo. E’ l’uomo che grande nel male è grande anche nell’azione e, sebbene vinto, non si lascia abbattere. E’ ciò che Tasso non è: un uomo che non conosce paura, per questo il poeta lo disegna con ammirazione.

Il canto X si apre con l’allontanamento scorato di Solimano che, salito in groppa a un cavallo si allontana dalla battaglia, decidendo infine di andare in Egitto. Giunta la notte si addormenta e gli appare in sogno il mago Ismeno, che, su un carro reso invisibile da una nube, lo porta tra le mura di Gerusalemme. Smontati dal carro, si avviano a piedi verso il monte su cui sorge la città, ai piedi del quale s’apre una grotta: al centro si trova una porta che nasconde un cammino sotterraneo. Arrivano in una sala dove sono a consiglio i capi arabi e il re Aladino. Il loro piano è rivolto alla prudenza ma Solimano appare, per la gioia di tutti, e spinge tutti loro alla lotta affermando che Francesi e Arabi mai potranno vivere su una stessa terra. Intanto Goffredo, completate le esequie dei caduti, chiama alla presenza di Pietro l’Eremita i cinquanta cavalieri che avevano salvato le sorti della battaglia e si fa raccontare cos’era successo con Armida; parla Guglielmo, il figlio minore di Goffredo, e racconta come Armida con arti magiche aveva mutato ogni loro pensiero e chiesto che si facessero pagani e combattessero contro i Cristiani, ma tutti si erano ribellati; come un giorno vi sia capitato Tancredi, che viene tenuto ancora prigioniero; come furono inviati in catene come dono al re d’Egitto, ma durante il viaggio vennero liberati da Rinaldo, che pertanto è ancora vivo. Ciò viene confermato anche da Pietro l’Eremita che predice le grandi future glorie della Casa d’Este, cui Rinaldo appartiene.

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Il mago Ismeno e Solimano

Il canto XI si apre con l’invito di Pietro l’Eremita che spinge il capo cristiano a fare una processione per invocare l’aiuto del Cielo. Il mattino dopo si snoda la processione che si dirige verso il Monte Oliveto, mentre dalle mura i pagani che, dapprima guardano per loro gli strani riti, ma poi cominciano a gridare. I Cristiani, giunti sul colle, erigono l’altare per la celebrazione della Messa e viene poi deciso l’assalto per il mattino seguente. All’alba comincia l’attacco, mentre sulle mura di Gerusalemme tutti sono pronti alla difesa, soprattutto Solimano, Argante e Clorinda. Disposto l’esercito Goffredo dà il segnale della battaglia e comincia l’assalto alle mura; Clorinda, dall’alto, abbatte sette cristiani colle sue frecce. Intanto Goffredo attacca con una torre da un’altra parte, ma viene anche lui ferito da una freccia di Clorinda. L’attacco viene respinto: Argante e Solimano attaccano improvvisamente i Cristiani uscendo dalle mura, mentre Tancredi con altri cavalieri si difendono disperatamente. Goffredo, la cui ferita viene guarita da un angelo, ritorna alla battaglia ferendo Argante. La notte separa i combattenti.

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Bernardo Castello; Illustrazione per il canto XI

Nel XII, durante la notte, i pagani cercano di riorganizzare le difese, mentre Clorinda e Argante decidono d’uscire per incendiare la grande torre dei cristiani; Ismeno darà loro aiuto preparando un miscuglio che la possa bene incendiare. Mentre Clorinda si veste, Arsete, suo fedele servitore, le chiede di rinunciare all’impresa, ma è inutile; allora le svela quali sono le sue vere origini: figlia di un re cristiano d’Etiopia, era nata bianca da madre nera e, per non urtare la gelosia del re, era stata abbandonata alla nascita con gran dolore della madre e raccolta da Arsete, che la nascose e la crebbe nella religione pagana, valorosa e ardita nelle armi. Clorinda lo rasserena dicendogli che sempre avrebbe seguito la fede nella quale era stata educata. A notte alta, Clorinda, Argante e Ismeno escono dalla città e incendiano la torre; accorrono due squadre di cristiani: breve è la battaglia; mentre Argante e Ismeno  riescono a rientrare in città, Clorinda rimane fuori; allora si mescola ai soldati cristiani.

LA MORTE DI CLORINDA
(50 – 69)

Ma poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da’ nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
nov’arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti
cheta s’avolge; e non è chi la noti.

Poi, come lupo tacito s’imbosca

dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ’n gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte,
che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte».

«Guerra e morte avrai»; disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sí memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,
piacciati ch’io ne ’l tragga e ’n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.

Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ’l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ’n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.

L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.

L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ’l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:

«Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ’l tuo nome e ’l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore».

Risponde la feroce: «Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese».
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese
«il tuo dir e ’l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta».

Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.

Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ’l suono e ’l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ’l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ’l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ’l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ’l piè le manca egro e languente.

Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.

«Amico, hai vinto: io ti perdon… perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave».
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ’l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace».

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ’l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma. 

Johann_Friederich_Overbeck,_stanza_del_tasso_(gerusalemme_liberata),_1819-27,_volta,_morte_di_clorinda_03.jpg

Johann Friederich Overbeck, Stanza del Tasso: 1819-27, Morte di Clorinda

Clorinda, dopo che ebbe placata la sua ira nel sangue del nemico e fu tornata in sé vide che le porte erano chiuse e si trovò circondata dai nemici e si ritenne morta. Ma, vedendo che nessuno guardava verso di lei, escogitò un nuovo stratagemma per salvarsi. Si finge cristiana e si mescola tra i nemici senza dare nell’occhio, e nessuno la nota. // Poi, come un lupo silenzioso, si nasconde nel bosco, dopo aver di nascosto sbranato la preda ed essersi allontanata dalla confusione, Clorinda se ne andava favorita e nascosta dall’aria densa di fumo. Solo Tancredi la riconosce; egli è giunto lì poco prima, vi è giunto quando Clorinda ha ucciso Ariamone: ha visto, l’ha tenuta d’occhio e si è messo al suo inseguimento. // (Tancredi) vuole sfidarla a duello, la ritiene un uomo valoroso, degno di misurarsi con il suo valore. Ella tenta di aggirare la cima montuosa (procedendo) verso un’altra porta (della città), da dove ha intenzione di entrare. Egli la segue pieno d’impeto e perciò, molto prima che la raggiunga, accade che le sue armi risuonino e che ella si volti indietro e gridi: «O tu che corri così, che cosa porti?». Risponde: «O guerra o morte». // «Guerra e morte avrai», disse Clorinda, «io non mi rifiuto di dartela, se la cerchi», e lo attende ferma. Tancredi, che ha visto il suo nemico a piedi, non vuole usare il cavallo (per combattere) e scende. E impugna l’una e l’altra spada affilata e stimola il proprio orgoglio di guerriero e si accende d’ira; e si vanno a scontrare come due tori gelosi e ardenti di rabbia. // Le loro imprese degne di (compiersi) sotto un sole luminoso o in un teatro affollato, sarebbero da ricordare. Notte, che nella tua oscura profondità hai chiuso nell’oblio un evento così importante, voglia tu che io lo tragga dall’oblio e lo tramandi ai posteri nella chiara luce del poema. Resti vivo il loro ricordo, e risplenda tra la loro gloria il nobile ricordo delle tue tenebre. // Costoro non vogliono schivare i colpi, pararli o ritirarsi, in questo duello l’accortezza non conta. Non fanno finte o affondi, (non danno) colpi leggeri: l’oscurità e il furore impediscono di avvalersi delle tecniche guerresche. Ascolti le spade urtarsi violentemente nel centro della lama, il piede non si stacca dall’orma; il piede è sempre fermo e la mano sempre in movimento e nessun colpo di taglio o di punta della spada scende inutilmente. // La vergogna (di essere colpiti) incita l’orgoglio alla vendetta e poi la vendetta (di chi ha colpito) rinvigorisce l’orgoglio (di chi ha ricevuto il colpo); perciò alla brama di ferire e alla fretta si aggiunge sempre un nuovo stimolo e una nuova ragione. Di ora in ora il duello diventa più confuso e serrato, non serve usare la spada, si colpiscono con le impugnature e, inferociti e crudeli, cozzano insieme con gli elmi e con gli scudi. // Per tre volte il cavaliere stringe la donna con le robuste braccia ed altrettante ella si libera da quelle strette di feroce nemico e non d’amante. Tornano a combattere con la spada e si colpiscono procurandosi molte ferite; stanchi e sfiniti entrambi alla fine si ritraggono e, dopo una lunga fatica, riprendono fiato. // Si guardano reciprocamente e appoggiano il peso del loro corpo esangue sull’impugnatura della spada. Ormai si sta spegnendo la luce dell’ultima stella all’apparire dell’alba, che si dà luminosa ad oriente. Tancredi vede in maggior quantità il sangue del suo nemico e (vede) se stesso non molto ferito. Di ciò gioisce e insuperbisce. Oh la nostra folle mente, che esalta ogni minimo soffio della fortuna. // Misero, di cosa gioisci? Oh quanto tristi saranno i tuoi trionfi e infelice il tuo vanto! I tuoi occhi (se resterai vivo) pagheranno un mare di pianto per ogni goccia di quel sangue (che hai versato). Questi cruenti guerrieri, così facendo e continuando a guardarsi, cessarono di combattere per un po’. Alla fine Tancredi ruppe il silenzio e parlò affinché l’altro gli rivelasse la sua identità. // «La nostra sventura sta nel fatto che qui s’impiega tanto coraggio in un luogo dove il silenzio lo copre. Ma, dal momento che la nostra sorte ostile fa in modo di negarci la lode e la testimonianza degne di questa impresa, ti prego – ammesso che le preghiere trovino posto in guerra  – di rivelarmi il tuo nome e la tua condizione, affinché io sappia, sia da sconfitto, sia da vincitore, chi renda onorata la mia morte o la mia vittoria. // Risponde la fiera Clorinda: «Chiedi invano ciò che sono solita non rivelare. Ma chiunque io sia, tu vedi dinanzi a te uno di quei due guerrieri che incendiarono la grande torre». A quelle parole Tancredi fu preso da una sdegnosa ira e disse: «Pagano irrispettoso, le tue parole e il tuo tacere allo stesso modo mi spingono alla vendetta». // Nei loro cuori ritorna l’ira e li spinge, benché debilitati, a combattere. Oh crudele duello, in cui la tecnica guerresca è al bando, in cui la forza fisica è perduta, in cui, invece, combatte soltanto la furia cieca di entrambi! Oh, che sanguinose e profonde ferite producono entrambe le spade, dovunque colpiscano, nell’armatura o nella carne viva! E se essi non muoiono (se la vita non esce) è la loro ira che non lo consente. // Come il profondo Egeo non si calma sebbene cessino di soffiare l’Aquilone e il Noto che in precedenza l’avevano tutto sconvolto e agitato, ma mantiene il rumore e il moto delle onde ancora agitate e grosse, così, sebbene in loro manchi, insieme al sangue versato, la forza che mosse le braccia a colpire, (Clorinda e Tancredi) mantengono ancora l’impeto iniziale e continuano, spinti da quello, ad aggiungere ferita a ferita. // Ma ecco che è ormai giunta è l’ora fatale in cui la vita di Clorinda deve (giungere) alla sua fine. Egli spinge nel bel petto di lei la spada dalla punta che vi si immerge e fa sgorgare copiosamente il sangue, e (il sangue) le riempie di un caldo fiume la veste, che, trapuntata d’oro fino, le stringeva il petto delicatamente e leggermente. Ella ormai si sente morire e le vacilla il piede debole e malfermo. // Egli persegue la vittoria, incalza e schiaccia, minacciando la fanciulla trafitta. Ella, mentre cadeva, parlando con voce afflitta, disse le sue ultime parole, parole che un nuovo sentimento le ispira, un sentimento di fede, carità e speranza una virtù che ora Dio le infonde; e se ella fu in vita una ribelle (perché musulmana), (Dio) la vuole devota a sé (ancella) nella morte. // «Amico, hai vinto, io ti perdono… anche tu perdona il mio corpo, che nulla teme, ma la mia anima; ah! Prega per lei e donami il battesimo che purifichi ogni mia colpa». In queste parole deboli risuona un non so che di flebile e dolce, che scende nel cuore di Tancredi e smorza ogni suo rancore e induce e costringe i suoi occhi a lacrimare. // Poco lontano da lì, dall’insenatura del monte, scaturiva mormorando un piccolo ruscello. Egli accorse là, riempì l’elmo alla fonte, e tornò triste per compiere il grande e sacro rito (del battesimo). Sentì tremare la mano, mentre liberò (dall’elmo) e scoprì il volto che non aveva ancora riconosciuto. La guardò, la riconobbe, e restò muto e immobile. Ahi vista! Ahi conoscenza! // Non morì ancora, perché raccolse tutte le sue forze vitali in quell’istante e li mise a sostegno del cuore e, reprimendo il suo affanno, si rivolse a donare con l’acqua la vita a colei che uccise con la spada. Mentre egli pronunciò la formula del sacro rito, ella assunse un’espressione di gioia e sorrise, e nel momento di morire, in modo lieto e sereno, sembrava dire: «Si apre il cielo per me, io vado in pace». // Ha il candido volto cosparso di un delicato pallore, come se le viole fossero mescolate ai gigli, e fissa gli occhi al cielo, e il cielo e il sole sembrano rivolti verso di lei per la pietà; alzando la mano nuda e fredda verso il cavaliere, gliela offre come pegno di pace, al posto delle parole. In questo modo muore la bella Clorinda, e sembra che dorma. 

Tintoretto,_Domenico_-_Tancred_Baptizing_Clorinda_-_c._1585.jpg

Tintoretto: La morte di Clorinda (1585)

E’ questo uno degli episodi più famosi del poema, in quanto in esso emergono, in forma difficilmente trattenuta, forti elementi di sensualità. Il loro duellare senza cavalli, come tori inferociti, il loro stringersi sempre più, carichi d’ira, il loro corpo a corpo, tanto che Tancredi cinge per ben tre volte le braccia intorno al corpo della donna, indicano che sì, vi è guerra tra i due, ma anche, per chi scrive una forte “tendenza” alla sessualità: ne fa spia il linguaggio: la spada che s’immerge nel bel seno facendo uscire un caldo fiume che bagna le mammelle mal trattenute, rappresenta una forte spia di un atteggiamento certamente ambiguo, da parte del poeta, verso l’amore. Tale ambiguità è accresciuta nel non riconoscere la donna, nel vedere in lei soltanto un fiero nemico: ma forse questo serve a Tasso per accentuare la trasformazione di Clorinda, da guerriera negatrice di ogni sessualità a donna solo dopo che questa dimensione non potrà più viverla. A confermare tale interpretazione è anche lo spazio e il tempo, che in Tasso assumono forte valore connotativo: lo spazio è separato, oscuro, non conosciuto, allo stesso tempo la notte nasconde, non fa vedere. Così come Tancredi non vede l’avversario: soltanto alla fine, preannunciato dall’inserto “commentativo” di Tasso che, a differenza di Ariosto, vive psicologicamente il futuro tormento, sarà testimone della doppia trasformazione di Clorinda, da guerriera a donna, da pagana a cristiana.

Tancredi nell’immenso dolore, venato da enormi “sensi di colpa” per aver ucciso ciò che più ama, trova conforto solo alle parole di Pietro l’Eremita. Nella notte prima dei funerali, la sogna Clorinda, che gli si mostra in tutta la sua bellezza celeste. Al mattino l’eroe si sveglia consolato. Si diffonde nella città la notizia delle morte di Clorinda; piange Arsete, mentre Argante giura di uccidere il rivale per vendicare l’amica.

Nel XIII Ismeno pensa a nuovi sistemi per rendere sempre più sicura la città di Gerusalemme; non lontano dalla città si estende la selva di Saron, popolata di streghe, violata dai Cristiani per procurarsi legna; qui si reca Ismeno e la popola di demoni; poi se ne torna dal re Aladino per rassicurarlo. Intanto Goffredo di Buglione decide di far ricostruire la torre e manda i fabbri nel bosco per tagliare l’occorrente:

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Immagine per il canto XIII

LA SELVA INCANTATA
(17-46)

Ma in questo mezzo il pio Buglion non vòle
che la forte cittade in van si batta,
se non è prima la maggior sua mole
ed alcuna altra machina rifatta.
E i fabri al bosco invia che porger sòle
ad uso tal pronta materia ed atta.
Vanno costor su l’alba a la foresta,
ma timor novo al suo apparir gli arresta.

Qual semplice bambin mirar non osa
dove insolite larve abbia presenti,
o come pave ne la notte ombrosa,
imaginando pur mostri e portenti,
cosí temean, senza saper qual cosa
siasi quella però che gli sgomenti,
se non che ’l timor forse a i sensi finge
maggior prodigi di Chimera o Sfinge.

Torna la turba, e misera e smarrita
varia e confonde sí le cose e i detti
ch’ella nel riferir n’è poi schernita,
né son creduti i mostruosi effetti.
Allor vi manda il capitano ardita
e forte squadra di guerrieri eletti,
perché sia scorta a l’altra e ’n esseguire
i magisteri suoi le porga ardire.

Questi, appressando ove lor seggio han posto
gli empi demoni in quel selvaggio orrore,
non rimiràr le nere ombre sí tosto,
che lor si scosse e tornò ghiaccio il core.
Pur oltra ancor se ’n gian, tenendo ascosto
sotto audaci sembianti il vil timore;
e tanto s’avanzàr che lunge poco
erano omai da l’incantato loco.

Esce allor de la selva un suon repente
che par rimbombo di terren che treme,
e ’l mormorar de gli Austri in lui si sente
e ’l pianto d’onda che fra scogli geme.
Come rugge il leon, fischia il serpente,
come urla il lupo e come l’orso freme
v’odi, e v’odi le trombe, e v’odi il tuono:
tanti e sí fatti suoni esprime un suono.

In tutti allor s’impallidír le gote
e la temenza a mille segni apparse,
né disciplina tanto o ragion pote
ch’osin di gire inanzi o di fermarse,
ch’a l’occulta virtú che gli percote
son le difese loro anguste e scarse.
Fuggono al fine; e un d’essi, in cotal guisa
scusando il fatto, il pio Buglion n’avisa:

«Signor, non è di noi chi piú si vante
troncar la selva, ch’ella è sí guardata
ch’io credo (e ’l giurerei) che in quelle piante
abbia la reggia sua Pluton traslata.
Ben ha tre volte e piú d’aspro diamante
ricinto il cor chi intrepido la guata;
né senso v’ha colui ch’udir s’arrischia
come tonando insieme rugge e fischia».

Cosí costui parlava. Alcasto v’era
fra molti che l’udian presente a sorte:
l’uom di temerità stupida e fera,
sprezzator de’ mortali e de la morte;
che non avria temuto orribil fèra,
né mostro formidabile ad uom forte,
né tremoto, né folgore, né vento,
né s’altro ha il mondo piú di violento.

Crollava il capo e sorridea dicendo:
«Dove costui non osa, io gir confido;
io sol quel bosco di troncar intendo
che di torbidi sogni è fatto nido.
Già no ’l mi vieterà fantasma orrendo
né di selva o d’augei fremito o grido,
o pur tra quei sí spaventosi chiostri
d’ir ne l’inferno il varco a me si mostri».

Cotal si vanta al capitano, e tolta

da lui licenza il cavalier s’invia;
e rimira la selva, e poscia ascolta
quel che da lei novo rimbombo uscia,
né però il piede audace indietro volta
ma securo e sprezzante è come pria;
e già calcato avrebbe il suol difeso,
ma gli s’oppone (o pargli) un foco acceso.

Cresce il gran foco, e ’n forma d’alte mura
stende le fiamme torbide e fumanti;
e ne cinge quel bosco, e l’assecura
ch’altri gli arbori suoi non tronchi e schianti.
Le maggiori sue fiamme hanno figura
di castelli superbi e torreggianti,
e di tormenti bellici ha munite
le rocche sue questa novella Dite.

Oh quanti appaion mostri armati in guardia
de gli alti merli e in che terribil faccia!
De’ quai con occhi biechi altri il riguarda,
e dibattendo l’arme altri il minaccia.
Fugge egli al fine, e ben la fuga è tarda,
qual di leon che si ritiri in caccia,
ma pure è fuga; e pur gli scote il petto
timor, sin a quel punto ignoto affetto.

Non s’avide esso allor d’aver temuto,
ma fatto poi lontan ben se n’accorse;
e stupor n’ebbe e sdegno, e dente acuto
d’amaro pentimento il cor gli morse.
E, di trista vergogna acceso e muto,
attonito in disparte i passi torse,
ché quella faccia alzar, già sí orgogliosa,
ne la luce de gli uomini non osa.

Chiamato da Goffredo, indugia e scuse
trova a l’indugio, e di restarsi agogna.
Pur va, ma lento; e tien le labra chiuse
o gli ragiona in guisa d’uom che sogna.
Diffetto e fuga il capitan concluse
in lui da quella insolita vergogna,
poi disse: «Or ciò che fia? forse prestigi
son questi o di natura alti prodigi?

Ma s’alcun v’è cui nobil voglia accenda
di cercar que’ salvatichi soggiorni,
vadane pure, e la ventura imprenda
e nunzio almen piú certo a noi ritorni».
Cosí disse egli, e la gran selva orrenda
tentata fu ne’ tre seguenti giorni
da i piú famosi; e pur alcun non fue
che non fuggisse a le minaccie sue.

Era il prence Tancredi intanto sorto

a sepellir la sua diletta amica,
e benché in volto sia languido e smorto
e mal atto a portar elmo o lorica,
nulla di men, poi che ’l bisogno ha scorto,
ei non ricusa il rischio o la fatica,
ché ’l cor vivace il suo vigor trasfonde
al corpo sí che par ch’esso n’abbonde.

Vassene il valoroso in sé ristretto,

e tacito e guardingo, al rischio ignoto,
e sostien de la selva il fero aspetto
e ’l gran romor del tuono e del tremoto;
e nulla sbigottisce, e sol nel petto
sente, ma tosto il seda, un picciol moto.
Trapassa, ed ecco in quel silvestre loco
sorge improvisa la città del foco.

Allor s’arretra, e dubbio alquanto resta
fra sé dicendo: «Or qui che vaglion l’armi?
Ne le fauci de’ mostri, e ’n gola a questa
devoratrice fiamma andrò a gettarmi?
Non mai la vita, ove cagione onesta
del comun pro la chieda, altri risparmi,
ma né prodigo sia d’anima grande
uom degno; e tale è ben chi qui la spande.

Pur l’oste che dirà, s’indarno i’ riedo?
qual altra selva ha di troncar speranza?
Né intentato lasciar vorrà Goffredo
mai questo varco. Or s’oltre alcun s’avanza,
forse l’incendio che qui sorto i’ vedo
fia d’effetto minor che di sembianza;
ma seguane che pote». E in questo dire,
dentro saltovvi. Oh memorando ardire!

Né sotto l’arme già sentir gli parve
caldo o fervor come di foco intenso;
ma pur, se fosser vere fiamme o larve,
mal poté giudicar sí tosto il senso,
perché repente a pena tocco sparve
quel simulacro, e giunse un nuvol denso
che portò notte e verno; e ’l verno ancora
e l’ombra dileguossi in picciol ora.

Stupido sí, ma intrepido rimane
Tancredi; e poi che vede il tutto cheto,
mette securo il piè ne le profane
soglie e spia de la selva ogni secreto.
Né piú apparenze inusitate e strane,
né trova alcun fra via scontro o divieto,
se non quanto per sé ritarda il bosco
la vista e i passi inviluppato e fosco.

Al fine un largo spazio in forma scorge

d’anfiteatro, e non è pianta in esso,
salvo che nel suo mezzo altero sorge,
quasi eccelsa piramide, un cipresso.
Colà si drizza, e nel mirar s’accorge
ch’era di vari segni il tronco impresso,
simili a quei che in vece usò di scritto
l’antico già misterioso Egitto.

Fra i segni ignoti alcune note ha scorte

del sermon di Soria ch’ei ben possede:
«O tu che dentro a i chiostri de la morte
osasti por, guerriero audace, il piede,
deh! se non sei crudel quanto sei forte,
deh! non turbar questa secreta sede.
Perdona a l’alme omai di luce prive:
non dée guerra co’ morti aver chi vive».

Cosí dicea quel motto. Egli era intento
de le brevi parole a i sensi occulti:
fremere intanto udia continuo il vento
tra le frondi del bosco e tra i virgulti,
e trarne un suon che flebile concento
par d’umani sospiri e di singulti,
e un non so che confuso instilla al core
di pietà, di spavento e di dolore.

Pur tragge al fin la spada, e con gran forza
percote l’alta pianta. Oh meraviglia!
manda fuor sangue la recisa scorza,
e fa la terra intorno a sé vermiglia.
Tutto si raccapriccia, e pur rinforza
il colpo e ’l fin vederne ei si consiglia.
Allor, quasi di tomba, uscir ne sente
un indistinto gemito dolente,

che poi distinto in voci: «Ahi! troppo» disse
«m’hai tu, Tancredi, offeso; or tanto basti.
Tu dal corpo che meco e per me visse,
felice albergo già, mi discacciasti:
perché il misero tronco, a cui m’affisse
il mio duro destino, anco mi guasti?
Dopo la morte gli aversari tuoi,
crudel, ne’ lor sepolcri offender vuoi?

Clorinda fui, né sol qui spirto umano
albergo in questa pianta rozza e dura,
ma ciascun altro ancor, franco o pagano,
che lassi i membri a piè de l’alte mura,
astretto è qui da novo incanto e strano,
non so s’io dica in corpo o in sepoltura.
Son di sensi animati i rami e i tronchi,
e micidial sei tu, se legno tronchi».

Qual l’infermo talor ch’in sogno scorge
drago o cinta di fiamme alta Chimera,
se ben sospetta o in parte anco s’accorge
che ’l simulacro sia non forma vera,
pur desia di fuggir, tanto gli porge
spavento la sembianza orrida e fera,
tal il timido amante a pien non crede
a i falsi inganni, e pur ne teme e cede.

E, dentro, il cor gli è in modo tal conquiso

da vari affetti che s’agghiaccia e trema,
e nel moto potente ed improviso
gli cade il ferro, e ’l manco è in lui la tema.
Va fuor di sé: presente aver gli è aviso
l’offesa donna sua che plori e gema,
né può soffrir di rimirar quel sangue,
né quei gemiti udir d’egro che langue.

Cosí quel contra morte audace core
nulla forma turbò d’alto spavento,
ma lui che solo è fievole in amore
falsa imago deluse e van lamento.
Il suo caduto ferro intanto fore
portò del bosco impetuoso vento,
sí che vinto partissi; e in su la strada
ritrovò poscia e ripigliò la spada.

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Alcasto tenta di entrare nel bosco incantato

Ma nel frattempo il pio Buglione non vuole che la città fortificata venga percorsa inutilmente (con macchine più piccole) se non vengono prima rifatte la grande torre e qualche altra macchina bellica. Ed invia al bosco fabbri che sono soliti offrire legna pronta e adatta a tale scopo. All’alba costoro vanno nella foresta, ma un timore strano all’apparire di essa, li blocca. // Come l’ingenuo bambino non osa guardare dove gli sembra siano presenti fantasmi inquietanti, o come prova paura nella notte tenebrosa, immaginando solo mostri o fatti straordinari, così (i fabbri) temevano, senza sapere che cosa sia ciò che li sgomenti, se non che forse la loro paura rappresentava ai loro sensi prodigi più spaventosi della Chimera o della Sfinge. // Torna il gruppo dei fabbri e, misera e smarrita, espone i fatti in modo diverso e confonde talmente le varie versioni che ne è schernita e non creduta. Allora Goffredo vi manda una forte e coraggiosa schiera di guerrieri, affinché accompagni l’altra e le infonda coraggio mentre lavora. //  A questi, avvicinandosi al luogo in cui i demoni avevano trovato posto nell’orrida selva, guardando le nere ombre, il cuore tremò e si agghiacciò. Nonostante ciò andarono oltre, nascondendo la paura dietro un atteggiamento ardimentoso. E avanzarono molto, sino quasi alle soglie del luogo incantato. // Esce allora dal bosco un suono all’improvviso, che sembra un rimbombo della terreno che trema, e dentro si sente un mormorare di vento e lo sbattere del mare sugli scogli. E senti un ruggito come di un leone, il sibilo come di un serpente, e l’ululato di un lupo e il fremere d’un orso, e senti le trombe, ed un tuono, tanti e così strani suoni che mescolati tra loro ne producono uno solo. // Allora tutti impallidirono e la paura apparve in mille segni, né la disciplina militare o la ragione possono far sì che osino andare avanti o fermarsi, perché contro la misteriosa potenza che li colpisce le loro possibilità di difesa sono deboli e insufficienti. Infine fuggono, e uno di loro, informa Buglione, giustificando così l’accaduto: // «Signore, non vi è più nessuno di noi che si vanti di tagliare gli alberi nella selva, che quella è così difesa che io credo (e ci giurerei) che fra quegli alberi abbia preso dimora Satana. Il cuore di chi la guarda ha il cuore chiuso da tre strati di duro diamante, ne ha sentimento in cuore colui che si arrischia ad udire come insieme tuoni, ruggisca e sibili». // Così questo riferisce a Goffredo. Vi era lì per caso Alcaste che lo ascoltava, uomo di coraggio incosciente e feroce, disprezzatore degli uomini e della morte; non avrebbe temuto un orribile animale, né un mostro straordinario (rispetto) a un uomo forte, né un terremoto, un fulmine, il vento, né altro che il mondo abbia di violento. // Scrollava il capo, sorrideva e diceva: «Dove costui non ha coraggio d’andare, vado io; io solo ho intenzione di tagliare gli alberi di quel bosco che è diventato sede di oscuri fantasmi. Non mi impedirà l’andare un orrendo fantasma, né il fremito del bosco o degli uccelli, e neppure se tra quei così spaventosi luoghi mi si mostrasse la porta dell’inferno». // In questo modo si vanta col capitano, e ottenuta da lui la facoltà, il cavaliere s’avvia; e (giunto) osserva la selva e dopo ascolta quello strano rimbombo che usciva da essa, ma non  indietreggia il passo, coraggioso, ma sicuro e sprezzante è come prima, e avrebbe già calpestato il terreno difeso dai diavoli, ma gli si oppose (o così a lui parve) un fuoco acceso. // Il gran fuoco cresce e propaga le fiamme scure e fumanti a forma di alte mura e ne circonda il bosco, e così lo rende protetto affinché gli alberi suoi non siano tagliati e schiantati in terra. Le fiamme più alte hanno forma di castelli grandissimi e forniti di torri e questa nuova città infernale ha le sue mura difese da macchine infernali. // Oh quanti mostri armati appaiono a guardia sugli alti merli e con quale faccia terribile! Fra questi alcuni lo guardano con occhi torvi, e agitando le armi altri lo minacciano. Infine anch’egli fugge, e troppo lenta è la fuga, come un leone quando è cacciato, eppure è fuga; e il petto è scosso da timore, sentimento a lui, fino adesso, ignoto. // Egli non si accorse d’aver avuto paura, ma allontanatosi se ne accorse, e n’ebbe stupore e rabbia, e un dolore acuto d’amaro pentimento gli morse il cuore. E infiammato e reso muto dalla triste vergogna, rivolse i passi altrove, perché non ha il coraggio di guardare gli altri in faccia. // Chiamato da Goffredo, ritarda e trova scuse per il ritardo, e desidera non andare. Ma infine va, lentamente; ma tiene la bocca chiusa  o parla con aria trasognata. Goffredo deduce che egli abbia avuto paura e sia fuggito, per quella insolita vergogna che ora egli prova, quindi dice: «Che sarà mai? Forse questi sono incantesimi o straordinari prodigi della natura? // Ma se c’è qualcuno in cui la voglia di compiere un atto nobile lo spinga ad andare in quei selvatici luoghi, vada pure, e prenda su di sé il compito o perlomeno sia un per noi una fonte di conoscenza più certa». Così egli disse e nei tre giorni seguenti il grande bosco spaventevole fu affrontato dai cavalieri più famosi, eppure non ci fu nessuno che sia fuggito dalle sue minacce. // Intanto il principe Tancredi si era alzato (dal letto doveva giaceva ferito) per seppellire la sua amata, e benché sia pallido in volto e non adatto a portare elmo e corazza, tuttavia, dal momento che ha visto la necessità, non rifiuta l’impresa rischiosa, perché il suo coraggioso animo trasfonde forza al corpo, tanto che sembra abbondare. // Il valoroso se ne va verso il rischio ignoto raccolto in sé, silenzioso e guardingo, e riesce a sopportare la terribile vista della selva e il gran rumore del tuono e del terremoto. Passa oltre ed ecco che in quel posto silvano sorge improvvisa la città di fuoco. // Allora indietreggia, E dubbioso, si ferma un po’, dicendo fra sé: «Ora qui a cosa servono le armi? Mi getterò in bocca ai mostri e nella gola di questa fiamma divoratrice? Nessuno risparmi la vita, quando una causa giusta lo richieda per il vantaggio comune, ma un uomo degno non sia prodigo di un’anima grande, e così sarebbe chi qui la spreca. Che cosa dirà l’esercito, se torna indietro inutilmente? Quale speranza ha di tagliare un’altra selva? Né Goffredo lascerà mai il tentativo di accedere alla selva di Saron. Ora, se si va avanti, forse l’incendio che qui vedo divampare sarà negli effetti minori di quanto appaia. Avvenga ciò che deve avvenire». E così dicendo, saltò dentro. Oh straordinario coraggio! // Sotto l’armatura gli parve di non sentire né il caldo né il bruciore che avrebbe dovuto procurargli un fuoco intenso, ma, fossero state vere fiamme o solo immagini di esse, non poté saperlo, perché all’improvviso, appena toccato, quell’apparenza sparì all’improvviso, e arrivò una nuvola densa, che portò freddo e gelo, e il gelo e la notte si dileguarono in un momento. // Certo è stupefatto, ma rimane coraggioso Tancredi, e dopo, quando vede che tutto si è placato, avanza nel terreno del bosco profano e guarda al suo interno ogni angolo nascosto, non trova strane e paurose forme, né alcun impedimento od ostacolo, se non il bosco stesso che, essendo intricato e buio, impedisce la vista e ritarda il cammino. // Infine scorge un ampio slargo a forma d’anfiteatro, non c’è nessuna pianta in esso, ad eccezione che nel centro dove alto sorge un cipresso. Si porta là, e nell’osservarlo s’accorge che il tronco era stato inciso con geroglifici già usati nell’antico Egitto.  // Fra segni sconosciuti, ne riconosce alcuno della lingua siriana, ch’egli conosce bene: «O tu che hai osato porre il tuo piede tra le regioni della morte, guerriero audace, ah, se non sei  crudele quanto forte, ah, non disturbare questo luogo appartato. Perdona ormai le anime prive di vita, chi vive non porta guerra ai morti».  Così diceva quella scritta. Egli era tutto preso a capire il senso oscuro delle brevi parole, e ascoltava intanto un fremere di vento tra gli alberi del bosco e tra le piante e le parve un suono di una flebile concerto di sospiri e singhiozzi umani, e un non che di pietoso, spaventoso e doloroso, gli preme il cuore. // Infine trae la spada, e con un gran colpo percuote la grossa pianta. Oh, meraviglia! La scorza recisa fa uscire sangue, rendendo intorno a sé la terra rossa. Tancredi prova ora paura, e tuttavia dà un colpo più forte e decide di vedere quale sarà il risultato. Allora, come uscisse da una tomba, sente un gemito dolente uscire dalla pianta, risolvendosi poi in parole distinte: «Ah, mi hai fatto troppo male, Tancredi, ora basta. Tu mi hai cacciato dal corpo che visse per me e con me, felice dimora dell’anima, perché tormenti anche il misero tronco cui mi legò un duro destino? Vuoi offendere, crudele, i tuoi avversari anche dopo che sono morti? Fui Clorinda, e non sono il solo umano che risieda nella pianta dalla scorza ruvida e dura, ma ancora altri, sia cristiani che pagani, che hanno lasciato il corpo sotto le alte mura di Gerusalemme, è costretto da un incantesimo insolito e strano qui, non so se chiamarlo corpo o nostra tomba, sei tu un assassino, se tronchi l’albero». Come talvolta il malato che in sogno vede un drago o una Chimera enorme cinta di fiamme, sebbene sospetti, anzi si accorga che non è forma vera, tuttavia desidera fuggire, tanto l’apparenza orrida e spaventosa gli incute terrore, così il timoroso amante non crede pienamente ai falsi inganni, tuttavia ne ha paura e si ritrae. // E dentro di lui il cuore è così dominato da vari sentimenti, che si agghiaccia e trema, e nell’emozione potente ed improvvisa gli cade la spada ed il timore è il sentimento meno forte. E’ fuori di sé per il terrore, capisce di aver offeso la sua donna che implora e piange, né sopporta di guardare quel sangue, né di sentire i lamenti di un malato che piange. // Così nessuna immagine turbò con profondo spavento quel cuore audace di fronte alla morte, ma una falsa immagine e finti lamenti ingannarono lui, che è solo debole, vulnerabile in amore. La sua spada caduta intanto un vento impetuoso la trasportò via dal bosco, così che vinto si allontanò; la ritrovò poi per via e la raccolse.

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Tancredi tenta l’albero in cui si nasconde Clorinda

E’ una delle pagine in cui il male non si offre ai soldati cristiani sotto forma di una straordinaria bellezza, quindi come vera e propria tentazione, ma sotto forma d’incantesimo, terrore, di male assoluto. Esso è rappresentato attraverso una tecnica soggettiva: non esiste un quadro d’insieme in cui il lettore possa immaginare l’intera scena, ma è un climax ottenuto con la visione singolare con cui dapprima i fabbri, poi i guerrieri, quindi Alcaste e infine Tancredi osservano accrescere il potere demoniaco e la loro paura e con essi il lettore (suspance). Ma l’interesse bisogna riservarlo proprio al cavaliere Tancredi. Egli, ormai privo quasi di motivazioni per vivere, vinto da un senso di necessità più che di dovere, sebbene l’idea di sconfiggere il male gli dia un po’ di vigore, è pronto ad affrontare il demonio, e lo dimostra quando supera i boati, il fuoco, l’improvviso ghiaccio e freddo. Ma non riesce a superare il pianto dell’uomo (il rumore di sottofondo della selva) e l’urlo disperato di Clorinda. Egli non combatte più contro un bosco infestato dai diavoli, ma dentro a i chiostri de la morte, cioè dell’inferno. Ma l’inferno in cui sta, non è altro che la proiezione di ciò che vive dentro, e il pianto degli uomini e l’accusa di Clorinda gli esplodono dentro in un immane senso colpa.

Intanto il campo cristiano è afflitto dalla siccità; cominciano i lamenti; qualcuno, come il duce dei Greci Tatino, abbandona di notte il campo cristiano, seguito da altri quando si sparge la notizia. Goffredo allora volge al Cielo un’ardente preghiera, che viene ascoltata da Dio che ordina che cessi la persecuzione dei demoni contro i Crociati e manda sul campo una pioggia abbondante.

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Carlo e Ubaldo con il vecchio mago

Il XIV con Dio che durante la notte vigila dal Cielo e manda il suo sguardo favorevole a Goffredo che vede in sogno Ugone, che gli consiglia di permettere il ritorno di Rinaldo. Il giorno dopo Guelfo, per ispirazione di Dio, propone a Goffredo, che acconsente, di richiamare l’eroe. Si offrono Carlo ed Ubaldo, che, dopo essere stati ricevuti da Pietro l’Eremita, vanno alla  ricerca di Rinaldo; si dirigono verso il mare, raggiungendo Ascalona: qui appare loro un mago, un vecchio che era nato di fede pagana e li conduce con sé nella sua grotta sottomarina, nel grembo immenso della terra dove si convertì al cristianesimo e acquisì la sua grande cultura. Parlando di sé, li conduce nella meravigliosa dimora in cui abita e narra come Armida prese prigioniero Rinaldo e con quali arti lo trattiene; svela che si nasconde nell’oceano, nell’isola Fortuna, dove nessuna nave arriva mai, che incontreranno una giovinetta che tenterà di ammaliarli; infine raggiungeranno il castello posto sopra una montagna, dove troveranno Rinaldo. Finito di parlare, li porta a riposare.

XV: All’alba, il mago d’Ascalona accomiata i due cavalieri dopo aver dato loro un foglio, uno scudo e una verga. Sono accolti nella barca guidata dalla Fortuna, cominciano il viaggio attraverso il Mediterraneo, e sulle spiagge di Gaza e verso l’interno vedono le nuove truppe che stanno per andare contro l’esercito cristiano. Attraversano il Mediterraneo, passano oltre le rovine della grande Cartagine e dopo quattro giorni, oltrepassate le colonne d’Ercole, cominciano la navigazione nell’Oceano; chiedono alla Fortuna se altri mai hanno già intrapreso la navigazione nell’aperto Oceano; e la donna parla di Ercole e soprattutto di Ulisse, per cui è ignoto il mare che stanno solcando.

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Carlo e Ubaldo sulla barca con Fortuna

LE SCOPERTE GEOGRAFICHE
(30-32)

Tempo verrà che fian d’Ercole i segni
favola vile a i naviganti industri,
e i mar riposti, or senza nome, e i regni
ignoti ancor tra voi saranno illustri.
Fia che ’l piú ardito allor di tutti i legni
quanto circonda il mar circondi e lustri,
e la terra misuri, immensa mole,
vittorioso ed emulo del sole.

Un uom de la Liguria avrà ardimento
a l’incognito corso esporsi in prima;
né ’l minaccievol fremito del vento,
né l’inospito mar, né ’l dubbio clima,
né s’altro di periglio e di spavento
piú grave e formidabile or si stima,
faran che ’l generoso entro a i divieti
d’Abila angusti l’alta mente accheti.

Tu spiegherai, Colombo, a un novo polo
lontane sí le fortunate antenne,
ch’a pena seguirà con gli occhi il volo
la fama c’ha mille occhi e mille penne.
Canti ella Alcide e Bacco, e di te solo
basti a i posteri tuoi ch’alquanto accenne,
ché quel poco darà lunga memoria
di poema dignissima e d’istoria.

Verrà un giorno che i confini posti da Ercole (le colonne d’Ercole) diventeranno leggenda senza importanza per gli arditi naviganti. Ed i mari finora nascosti e senza nome e regni sconosciuti saranno noti anche fra voi uomini. Accadrà che il più coraggioso di tutti i comandanti (Magellano) circuisca ed esplori quante terre il mare circonda e misuri così l’immenso cerchio della terra emulando vittoriosamente il quotidiano raggio del sole. // Un ligure (Colombo) avrà per primo il coraggio d’intraprendere un viaggio sconosciuto, e né il soffio minaccioso del vento, né il mare agitato, né un cattivo clima, né se un altro pericolo o uno spavento più grave e formidabile di quanto ora potessimo ritenere, faranno sì che il marinaio coraggioso tenga la sua grande anima rinserrata entro i confini di Gibilterra. // Tu spiegherai, o Colombo, le vele verso un nuovo mondo, che a stento gli occhi della fama, che ha mille occhi e mille ali, seguiranno il tuo volo. Ella s’accontenti di cantare Ercole e Bacco (famosi, nell’antichità, per i viaggi), ma ti basterà che la fama fornisca appena qualche accenno a chi verrà dopo di te, che sarà di lunga memoria per un poema degnissimo e per la storia.

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Carta geografica del 1548 con il Nuovo Mondo

Anche Tasso, come Ariosto, non può fare a meno d’inserire nel suo poema un accenno alle scoperte geografiche, che tanta eco ebbero nell’Europa dell’intero ’500. Quello che emerge è che lui le inserisca in un discorso di gloria umana, non disgiunta da quella divina, perché come prima di questo elogio al marinaio ligure, sottolinea come esse, per maggior sua gloria saranno tutte riportate alla vera religione.

Giungono finalmente nelle isole Felici, sette abitate e tre disabitate; sbarcano nell’isola dove si trova il palazzo d’Armida e s’incamminano verso un alto monte, vincendo via via gli ostacoli che loro si presentano per mezzo dei talismani del mago (un serpente con la verga, un leone con un fischio). Salgono il monte e giungono presso la fonte del riso che contiene pericoli mortali, rappresentati da due donzelle nude che nuotano nell’acqua e che cercano di allettarli a sé; ma memori dei consigli ricevuti, essi passano oltre.

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François Lemoyne: Carlo e Ubaldo

XVI: Carlo e Ubaldo entrano nel palazzo d’Armida dalle cento entrate, e penetrano nel giardino incantato:

IL CASTELLO D’ARMIDA
(1-2; 8-22; 30-31; 35-40)

Tondo è il ricco edificio, e nel piú chiuso
grembo di lui, ché quasi centro al giro,
un giardin v’ha ch’adorno è sovra l’uso
di quanti piú famosi unqua fioriro.
D’intorno inosservabile e confuso
ordin di loggie i demon fabri ordiro,
e tra le oblique vie di quel fallace
ravolgimento impenetrabil giace.

Per l’entrata maggior (però che cento
l’ampio albergo n’avea) passar costoro.
Le porte qui d’effigiato argento
su i cardini stridean di lucid’oro.
Fermàr ne le figure il guardo intento,
ché vinta la materia è dal lavoro:
manca il parlar, di vivo altro non chiedi;
né manca questo ancor, s’a gli occhi credi.

Sulla porta del palazzo Carlo e Ubaldo vedono raffigurate storie di amanti famosi: la vicenda mitica dell’amore di Ercole per Onfale e quella di Antonio e Cleopatra, con la rappresentazione della battaglia di Azio. Distolto lo sguardo da queste immagini, i due cavalieri entrano nell’insidioso palazzo dalla struttura labirintica

Qual Meandro fra rive oblique e incerte
scherza e con dubbio corso or cala or monta,
queste acque a i fonti e quelle al mar converte,
e mentre ei vien, sé che ritorna affronta,
tali e piú inestricabili conserte
son queste vie, ma il libro in sé le impronta
(il libro, don del mago) e d’esse in modo
parla che le risolve, e spiega il nodo.

Poi che lasciàr gli aviluppati calli,
in lieto aspetto il bel giardin s’aperse:
acque stagnanti, mobili cristalli,
fior vari e varie piante, erbe diverse,
apriche collinette, ombrose valli,
selve e spelonche in una vista offerse;
e quel che ’l bello e ’l caro accresce a l’opre,
l’arte, che tutto fa, nulla si scopre.

Stimi (sí misto il culto è co ’l negletto)
sol naturali e gli ornamenti e i siti.
Di natura arte par, che per diletto
l’imitatrice sua scherzando imiti.
L’aura, non ch’altro, è de la maga effetto,
l’aura che rende gli alberi fioriti:
co’ fiori eterni eterno il frutto dura,
e mentre spunta l’un, l’altro matura.

Nel tronco istesso e tra l’istessa foglia
sovra il nascente fico invecchia il fico;
pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
l’altro con verde, il novo e ’l pomo antico;
lussureggiante serpe alto e germoglia
la torta vite ov’è piú l’orto aprico:
qui l’uva ha in fiori acerba, e qui d’or l’have
e di piropo e già di nèttar grave.

Vezzosi augelli infra le verdi fronde
temprano a prova lascivette note;
mormora l’aura, e fa le foglie e l’onde
garrir che variamente ella percote.
Quando taccion gli augelli alto risponde,
quando cantan gli augei piú lieve scote;
sia caso od arte, or accompagna, ed ora
alterna i versi lor la musica òra.

Vola fra gli altri un che le piume ha sparte
di color vari ed ha purpureo il rostro,
e lingua snoda in guisa larga, e parte
la voce sí ch’assembra il sermon nostro.
Questi ivi allor continovò con arte
tanta il parlar che fu mirabil mostro.
Tacquero gli altri ad ascoltarlo intenti,
e fermaro i susurri in aria i venti.

«Deh mira» egli cantò «spuntar la rosa
dal verde suo modesta e verginella,
che mezzo aperta ancora e mezzo ascosa,
quanto si mostra men, tanto è più bella.
Ecco poi nudo il sen già baldanzosa
dispiega; ecco poi langue e non par quella,
quella non par che desiata inanti
fu da mille donzelle e mille amanti.

Cosí trapassa al trapassar d’un giorno

de la vita mortale il fiore e ’l verde;
né perché faccia indietro april ritorno,
si rinfiora ella mai, né si rinverde.
Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno
di questo dí, che tosto il seren perde;
cogliam d’amor la rosa: amiamo or quando
esser si puote riamato amando».

Tacque, e concorde de gli augelli il coro,
quasi approvando, il canto indi ripiglia.
Raddoppian le colombe i baci loro,
ogni animal d’amar si riconsiglia;
par che la dura quercia e ’l casto alloro
e tutta la frondosa ampia famiglia,
par che la terra e l’acqua e formi e spiri
dolcissimi d’amor sensi e sospiri.

Fra melodia sí tenera, fra tante
vaghezze allettatrici e lusinghiere,
va quella coppia, e rigida e costante
se stessa indura a i vezzi del piacere.
Ecco tra fronde e fronde il guardo inante
penetra e vede, o pargli di vedere,
vede pur certo il vago e la diletta,
ch’egli è in grembo a la donna, essa a l’erbetta.

Ella dinanzi al petto ha il vel diviso,
e ’l crin sparge incomposto al vento estivo;
langue per vezzo, e ’l suo infiammato viso
fan biancheggiando i bei sudor piú vivo:
qual raggio in onda, le scintilla un riso
ne gli umidi occhi tremulo e lascivo.
Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle
le posa il capo, e ’l volto al volto attolle,

e i famelici sguardi avidamente
in lei pascendo si consuma e strugge.
S’inchina, e i dolci baci ella sovente
liba or da gli occhi e da le labra or sugge,
ed in quel punto ei sospirar si sente
profondo sí che pensi: “Or l’alma fugge
e ’n lei trapassa peregrina”. Ascosi
mirano i due guerrier gli atti amorosi.

Dal fianco de l’amante (estranio arnese)
un cristallo pendea lucido e netto.
Sorse, e quel fra le mani a lui sospese
a i misteri d’Amor ministro eletto.
Con luci ella ridenti, ei con accese,
mirano in vari oggetti un solo oggetto:
ella del vetro a sé fa specchio, ed egli
gli occhi di lei sereni a sé fa spegli.

L’uno di servitú, l’altra d’impero

si gloria, ella in se stessa ed egli in lei.
«Volgi», dicea «deh volgi» il cavaliero
«a me quegli occhi onde beata bèi,
ché son, se tu no ’l sai, ritratto vero
de le bellezze tue gli incendi miei;
la forma lor, la meraviglia a pieno
piú che il cristallo tuo mostra il mio seno.

Deh! poi che sdegni me, com’egli è vago
mirar tu almen potessi il proprio volto;
ché il guardo tuo, ch’altrove non è pago,
gioirebbe felice in sé rivolto.
Non può specchio ritrar sí dolce imago,
né in picciol vetro è un paradiso accolto:
specchio t’è degno il cielo, e ne le stelle
puoi riguardar le tue sembianze belle.»

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Cecco Bravo: Armida (1650)

Superba Armida si ricompone e prende commiato da Rinaldo, per tornare alle “sue magiche carte”. Rinaldo, invece, rimane nel giardino, dal quale l’incanto non gli consente di allontanarsi. Approfittando dell’assenza della maga, Carlo e Ubaldo entrano nel giardino: la vista dei cavalieri armati scuote Rinaldo:

Egli al lucido scudo il guardo gira,
onde si specchia in lui qual siasi e quanto
con delicato culto adorno; spira
tutto odori e lascivie il crine e ’l manto,
e ’l ferro, il ferro aver, non ch’altro, mira
dal troppo lusso effeminato a canto:
guernito è sí ch’inutile ornamento
sembra, non militar fero instrumento.

Qual uom da cupo e grave sonno oppresso
dopo vaneggiar lungo in sé riviene,
tal ei tornò nel rimirar se stesso,
ma se stesso mirar già non sostiene;
giú cade il guardo, e timido e dimesso,
guardando a terra, la vergogna il tiene.
Si chiuderebbe e sotto il mare e dentro
il foco per celarsi, e giú nel centro.

Ubaldo risveglia Rinaldo ai suoi doveri e questo arrossisce, si vergogna del suo sviamento e di avere lasciato il campo di battaglia.

(…)
Intanto
Armida de la regal porta

mirò giacere il fier custode estinto.
Sospettò prima, e si fu poscia accorta
ch’era il suo caro al dipartirsi accinto;
e ’l vide (ahi fera vista!) al dolce albergo
dar, frettoloso, fuggitivo il tergo.

Volea gridar: «Dove, o crudel, me sola
lasci?», ma il varco al suon chiuse il dolore,
sí che tornò la flebile parola
piú amara indietro a rimbombar su ’l core.
Misera! i suoi diletti ora le invola
forza e saper, del suo saper maggiore.
Ella se ’l vede, e invan pur s’argomenta
di ritenerlo e l’arti sue ritenta.

Quante mormorò mai profane note
tessala maga con la bocca immonda,
ciò ch’arrestar può le celesti rote
e l’ombre trar de la prigion profonda,
sapea ben tutte, e pur oprar non pote
ch’almen l’inferno al suo parlar risponda.
Lascia gli incanti, e vuol provar se vaga
e supplice beltà sia miglior maga.

Corre, e non ha d’onor cura o ritegno.
Ahi! dove or sono i suoi trionfi e i vanti?
Costei d’Amor, quanto egli è grande, il regno
volse e rivolse sol co ’l cenno inanti,
e cosí pari al fasto ebbe lo sdegno,
ch’amò d’essere amata, odiò gli amanti;
sé gradí sola, e fuor di sé in altrui
sol qualche effetto de’ begli occhi sui.

Or negletta e schernita in abbandono
rimase, segue pur chi fugge e sprezza;
e procura adornar co’ pianti il dono
rifiutato per sé di sua bellezza.
Vassene, ed al piè tenero non sono
quel gelo intoppo e quella alpina asprezza;
e invia per messaggieri inanzi i gridi,
né giunge lui pria ch’ei sia giunto a i lidi.

Forsennata gridava: «O tu che porte

parte teco di me, parte ne lassi,
o prendi l’una o rendi l’altra, o morte
dà insieme ad ambe: arresta, arresta i passi,
sol che ti sian le voci ultime porte;
non dico i baci, altra piú degna avrassi
quelli da te. Che temi, empio, se resti?
Potrai negar, poi che fuggir potesti.

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Annibale Carracci: Armida e Rinaldo

Il ricco edificio è di forma circolare e, nella sua parte più interna, che è quasi nel cerchio delle mura, vi è un giardino ornato oltre misura dei fiori più famosi che mai fiorirono. Intorno i demoni, mutati in costruttori, fecero un incredibile complicata serie di logge e (il giardino) è posto, impenetrabile, tra i sentieri tortuosi di quell’ingannevole labirinto. // I crociati Carlo e Ubaldo passarono per l’entrata più grande (perché l’ampio edificio ne aveva cento), qui le porte, effigiate d’argento, stridevano sui cardini di oro lucido. Fermarono il loro sguardo attento sulle figure scolpite, perché la materia è superata dall’arte con cui è lavorata: (alle figure) manca la parola, non servirebbe  altro affinché sembrino vive, e non manca nemmeno questa, se credi a ciò che vedi.
Come il fiume Meandro sembra divertirsi fra rive tortuose e non ben definite e con un labirintico percorso ora discende e ora risale, devia alcune acque verso le fonti e altre verso il mare e mentre scorre si scontra con se stesso che rifluisce, così sono questi sentieri, e anche più inestricabilmente intrecciati, ma il libro contiene il loro disegno (il libro, dono del mago d’Ascalona) e il libro li descrive in modo da risolvere le difficoltà che esse presentano. // Dopo che Carlo ed Ubaldo lasciarono i sentieri intrecciati si aprì il bel giardino dall’aspetto sereno; ad un solo sguardo mostrò laghetti, acque cristalline, svariati fiori e piante, singolari erbe, soleggiate collinette, ombrose valli, selve e grotte e, pregio dell’opera, non si vede l’artificio magico che ha creato il tutto. // I decori e i luoghi ti sembrano (tanto bene sono mescolate le parti coltivate e quelle incolte) del tutto naturali. Sembra un artificio della natura che, per gioco, imiti, scherzando, la sua imitatrice. La brezza, che fa fiorire gli alberi, non è altro che un artificio della maga: con i fiori eterni, anche il frutto dura in eterno e, mentre il fiore spunta, il frutto matura. // Nello stesso albero e fra le stesse foglie accanto al fico che nasce, matura un altro fico; pendono da un unico ramo il frutto nuovo e quello vecchio, l’uno dall’aspetto maturo, l’altro acerbo, la lussureggiante vite ritorta si arrampica in alto e germoglia, dove il giardino è più soleggiato, qui essa ha sia l’uva acerba in fiori, sia l’uva di colore dorato e rosso e già gravida di succo. // Graziosi uccelli modulano, a gara, note sensuali; la brezza mormora e fa risuonare le acque che colpisce in vari modi. Quando tacciono gli uccelli, il vento soffia forte, quando cantano gli uccelli, scuote più lievemente, sia casualmente, sia ad arte; l’aura musicale ora accompagna ed ora alterna i versi degli uccelli. // Fra gli altri vola un uccello che ha le piume variegate di colori diversi ed ha il becco rosso, e muove la lingua abilmente e modula la voce in modo da imitare il parlare umano. Esso allora continuò con tale abilità che il suo parlare fu per noi motivo di grande stupore. Tacquero gli altri uccelli, intenti ad ascoltarlo, e i venti fermarono i sussurri nell’aria. // «Deh, guarda», cantò quello, «spuntare la rosa piccola e ancora in bocciolo dal suo stelo che, non ancora del tutto sbocciata, è tanto più bella quanto meno si mostra. Ecco che poi distende i suoi i suoi petali ormai spavalda; ecco che poi appassisce e non sembra la stessa, non sembra la stessa che prima fu desiderata da mille fanciulle e mille amanti. // Così muore, con il morire di un giorno, la bellezza e la giovinezza della vita mortale; e non ritrova più la sua bellezza e la sua giovinezza, per quanto la primavera ritorni. Cogliamo la rosa nel mattino luminoso di questo giorno, perché presto si oscura; cogliamo la rosa dell’amore: amiamo ora, quando, amando, si può ancora essere amati».  // Tacque e il coro unanime degli uccelli, come per approvare le sue parole, riprende il canto. Le colombe raddoppiano i loro baci ed ogni animale si decide di darsi all’amore; sembra che la robusta quercia, il casto alloro, tutto il genere delle piante, la terra e l’acqua producano ed emanino dolcissimi sentimenti d’amore. //  Fra una melodia così dolce, fra tante dolcezze allettatrici e piacevoli, procede quella coppia (di cavalieri) e, ferma e imperturbabile, si rende insensibile alle seduzioni del piacere. Ecco che lo sguardo penetra innanzi fra ramo a ramo e vede, o gli pare di vedere, infine con certezza l’amante (Rinaldo) e l’amata (Armida): egli è in grembo alla donna, lei in mezzo all’erbetta. // Ella ha il velo aperto sul petto e scioglie i capelli scomposti al vento estivo; si abbandona languida, e le lievi gocce di sudore rendono più luminoso il suo viso arrossato (per la passione): come un raggio sull’acqua, le risplende un sorriso fremente e passionale negli occhi umidi. E’ ricurva sopra di lui; ed egli le posa il capo sul grembo morbido e solleva il volto verso quello di lei e, rivolgendo a lei avidamente gli anelanti sguardi, si consuma e si strugge. Armida si china e ora assapora spesso i dolci baci dagli occhi e ora li succhia dalle labbra, e in quel momento si ode lui sospirare profondamente, tanto che pensi: “Ora l’anima gli sfugge e, pellegrina, trapassa in lei”. I due guerrieri guardano di nascosto gli atti amorosi. // Dal fianco dell’amante pendeva (insolito strumento) uno specchio lucido e nitido. Si alzò e lo pose fra le mani di lui, scelto come ministro ai riti d’Amore. Lei con occhi ridenti, lui con occhi accesi, guardano un unico oggetto in vari oggetti: lei si riflette nello specchio e lui si rispecchia negli occhi sereni di lei. // Rinaldo si vanta della propria schiavitù, Armida del proprio potere; lei si vanta di se stessa, lui di lei. «Rivolgi» diceva «rivolgi a me quegli occhi grazie ai quali, essendo tu felice, dono felicità, perché la mia passione è, se non lo sai, l’immagine fedele delle tue bellezze; il mio cuore riflette appieno, più dello specchio, la loro forma, la meraviglia (che suscitano). // Deh, dato che mi disdegni, almeno potessi mirare com’è bello il tuo volto, perché il tuo sguardo, che non trova appagamento altrove, gioirebbe felice rivolto verso sé. Non può lo specchio riflettere un’immagine così dolce, né in un piccolo specchio può essere contenuto il paradiso della tua bellezza: il cielo è uno specchio degno di te, e solo nelle stelle puoi ammirare la tua bellezza». 
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Tiepolo: Rinaldo abbandona Armida

Rinaldo volge lo sguardo al lucido scudo, nel quale si specchia e vede in quali condizioni si è ridotto e di quali effeminate raffinatezze è circondato; emanano profumi voluttuosi i capelli e il mantello; e guarda la spada, solo la spada, che ha accanto, effeminata per il troppo lusso: è ornata in modo tale che sembra un inutile orpello, non un fiero strumento di guerra. // Come un uomo oppresso da un sonno cupo e pesante, dopo un lungo delirare torna in sé, così si riebbe Rinaldo guardandosi nello scudo, ma non sopporta oltre di guardare se stesso, lo sguardo si abbassa e, guardando a terra, timido e dimesso, è colto dalla vergogna. Per nascondersi si chiuderebbe sotto il mare e dentro il fuoco e fin e fin nel centro della terra
Intanto Armida vide a distesa a terra morto il feroce custode della porta regale. Dapprima sospettò, poi fu certa che il suo caro (Rinaldo) stava accingendosi a partire; infatti lo vide (ah, vista terribile!) volgere frettolosamente la schiena alla loro dolce dimora. // Voleva gridare: «Dove, o crudele, sola mi lasci?», ma il dolore chiuse il varco alle parole, così che esse tornarono dietro flebili e più amare, a rimbombare nel suo cuore infelice! Una forza ed un sapere più forti delle sue arti magiche le rubavano i suoi piaceri. Lei capisce e invano si ingegna per trattenere Rinaldo e ritenta le sue magie. // Quante empie formule magiche mai mormorò una maga tessala con la sua bocca immonda, capace di fermare il moto degli astri e far tornare le ombre dall’inferno, lei tutte le sapeva bene, eppure non può far sì che almeno l’inferno le risponda. Lascia da parte le magie e vuol provare se la sua bellezza leggiadra e supplicante sia miglior maga. // Corre verso Rinaldo senza ritegno e cura per la propria dignità. Ah! dove sono ora i suoi trionfi e i suoi vanti? Costei che in passato poteva signoreggiare con un solo cenno sul regno d’Amore, per quanto grande sia, e mostrò ugualmente l’orgoglio di essere amata e il disprezzo verso i suoi amanti: amò solo se stessa e all’infuori di sé negli altri amò soltanto gli effetti d’amore provocati dai suoi begli occhi. // Ora rimasta sola, trascurata e disprezzata, insegue Rinaldo che fugge da lei e mostra di disprezzarla; e cerca di rendere più gradito, ornandolo di pianti, il dono della sua bellezza di per sé rifiutato. Se ne va, e al suo tenero piede non fanno ostacolo le nevi né le pendici scoscesi del monte; e manda innanzi le grida come messaggeri del suo dolore; ma non riesce a raggiungere Rinaldo prima che egli arrivi sulla spiaggia. // Gridava forsennata: «O tu che porti via una parte di me, e me ne lasci solo un’altra (il corpo) prendili o restituiscili entrambe, oppure a entrambe dà la morte: ferma, ferma i tuoi passi, solo per il tempo in cui io possa rivolgerti le mie ultime parole, non i baci: quelli li avrà da te qualche altra donna più degna. Che cosa temi, crudele, a fermarti? Potrai respingere (ogni mia offerta) dal momento che hai potuto fuggire».

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Tiepolo: Rinaldo lascia Armida 

Potremo individuare in questo passo quattro momenti:

  1. La descrizione del castello e della natura;
  2. Gli amori tra Rinaldo e Armida;
  3. La presa di coscienza del cavaliere e il suo allontanamento;
  4. La trasformazione di Armida;
  1. Partiamo dal primo aspetto: qui Tasso mostra di poter giocare e confrontarsi con i grandi del passato fino agli immediati suoi predecessori nella descrizione di un locus amoenus. Tuttavia, qualcosa di estremamente particolare c’è: esso, infatti, è “labirintico” e dove, se non si ha una guida (il libro di Carlo e Ubaldo), si ci perde la ragione e quindi la fede. Poi è anche innaturale, in quanto i diavoli lo hanno costruito facendo in esso coincidere da una parte morte e vita (nello stesso ramo vi è la nascita e il raggiungimento della maturità) tra realtà e arte (il giardino confonde ciò che è “natura” da ciò che è “artificio”). Ancora rappresenta il trionfo dell’amore, riprendendo il tema classico della “rosa”: ma qui a cantare la “necessità di coglierla” non è un cavaliere “ringalluzzito”, ma un vero e proprio “mostro” diabolico, un uccello dalla voce quasi umana;

  2. A caratterizzare l’amore tra Rinaldo e Arminia è anch’esso un fatto innaturale; infatti essi non si guardano ma si specchiano: lei in un vero e proprio specchio, lui negli occhi di lei in cui vede la donna riflessa: torna l’“arte” a vincere sulla realtà: ma a questo punto è bene sottolineare che qui appare un oggetto che sarà estremamente presente, poi, nella poetica barocca; anche il rinsavimento di Rinaldo avviene per un’immagine riflessa; se nello specchio vede la bellezza, nello scudo vede la sua degradazione (da cavaliere a imbelle amante)
  3. Ma il personaggio più riuscito è certamente quello di Armida: da ammaliatrice di uomini a donna innamorata, ferita per l’abbandono. Ella dopo la fuga di Rinaldo non è più lei e se pur maturerà all’inizio l’idea di una vendetta, quello che conta e la morte di ciò che rappresenta, quando, prima si denigra di fronte a Rinaldo che la rifiuta (nessun arte magica le può essere utile) e infine, quando sale su un carro per andare via dall’isola, tutto ciò che la sua arte aveva prodotto (castello e giardino) sparirà nel nulla.

Alla fine, grazie anche all’intercessione di Ubaldo, Armida raggiunge il cavaliere e gli parla in modo accorato, lo prega di accettarla almeno come ancella o addirittura come schiava. Rinaldo le risponde che devono lasciarsi, e parte mentre la donna dà libero sfogo al suo dolore disperato minacciando infine vendetta. Partiti i tre guerrieri, Armida con le sue arti magiche, distrutto il suo palazzo e il giardino incantato, vola sul suo carro a Gaza nel campo del re d’Egitto.

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Carlo e Ubaldo incontrano il mago di Ascalona

Il XVII inizia con il Califfo che a Gaza passa in rassegna il suo esercito, mentre giunge Armida circondata da cento donzelle e cento paggi. Il Califfo recatosi poi a mensa nella gran tenda; viene raggiunto da Armida, che promette di divenire moglie di colui che ucciderà Rinaldo. Per primo le risponde Adrasto, poi Tisaferno e quindi tutti. Rinaldo, intanto, con Carlo e Ubaldo si imbarca nella nave della Fortuna; dopo quattro giorni di navigazione giungono in Palestina; appare loro da lontano un albero luminoso con armi nuove appese e a guardia un vecchio, il mago d’Ascalona, che lietamente li riceve e fa vedere a Rinaldo, in uno scudo lucente, tutti i suoi antenati e le glorie della Casa d’Este. Quindi si dirigono verso  Gerusalemme e giunti nella Città Santa, Rinaldo e i suoi compagni si separano dal mago e giungono al campo cristiano.

Nel XVIII Rinaldo s’incontra con Goffredo che lo accoglie e con gioia e gli racconta come la selva sia dominata da oscuri incantesimi; dopo aver ricevuto dimostrazioni di affetto da tutti i principi cristiani, l’eroe si offre per varcare la selva maledetta. Quindi su consiglio di Pietro l’Eremita va a pregare sul Monte Oliveto, dove, tra una natura bellissima, rimane fino all’alba. Finita la preghiera va verso la selva:

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Scuola napoletana: La foresta incantata

RINALDO NELLA SELVA INCANTATA
(17-38)

Era là giunto ove i men forti arresta
solo il terror che di sua vista spira;
pur né spiacente a lui né pauroso
il bosco par, ma lietamente ombroso.

Passa piú oltre, e ode un suono intanto
che dolcissimamente si diffonde.
Vi sente d’un ruscello il roco pianto
e ’l sospirar de l’aura infra le fronde
e di musico cigno il flebil canto
e l’usignol che plora e gli risponde,
organi e cetre e voci umane in rime:
tanti e sí fatti suoni un suono esprime.

Il cavalier, pur come a gli altri aviene,
n’attendeva un gran tuon d’alto spavento,
e v’ode poi di ninfe e di sirene,
d’aure, d’acque, d’augei dolce concento,
onde meravigliando il piè ritiene,
e poi se ’n va tutto sospeso e lento;
e fra via non ritrova altro divieto
che quel d’un fiume trapassante e cheto.

L’un margo e l’altro del bel fiume, adorno
di vaghezze e d’odori, olezza e ride.
Ei stende tanto il suo girevol corno
che tra ’l suo giro il gran bosco s’asside,
né pur gli fa dolce ghirlanda intorno,
ma un canaletto suo v’entra e ’l divide:
bagna egli il bosco e ’l bosco il fiume adombra
con bel cambio fra lor d’umore e d’ombra.

Mentre mira il guerriero ove si guade,
ecco un ponte mirabile appariva:
un ricco ponte d’or che larghe strade
su gli archi stabilissimi gli offriva.
Passa il dorato varco, e quel giú cade
tosto che ’l piè toccata ha l’altra riva;
e se ne ’l porta in giú l’acqua repente,
l’acqua ch’è d’un bel rio fatta un torrente.

Ei si rivolge e dilatato il mira
e gonfio assai quasi per nevi sciolte,
che ’n se stesso volubil si raggira
con mille rapidissime rivolte.
Ma pur desio di novitade il tira
a spiar tra le piante antiche e folte,
e ’n quelle solitudini selvagge
sempre a sé nova meraviglia il tragge.

Dove in passando le vestigia ei posa,
par ch’ivi scaturisca o che germoglie:
là s’apre il giglio e qui spunta la rosa,
qui sorge un fonte, ivi un ruscel si scioglie,
e sovra e intorno a lui la selva annosa
tutte parea ringiovenir le foglie;
s’ammolliscon le scorze e si rinverde
piú lietamente in ogni pianta il verde.

Rugiadosa di manna era ogni fronda,
e distillava de le scorze il mèle,
e di novo s’udia quella gioconda
strana armonia di canto e di querele;
ma il coro uman, ch’a i cigni, a l’aura, a l’onda
facea tenor, non sa dove si cele:
non sa veder chi formi umani accenti,
né dove siano i musici stromenti.

Mentre riguarda, e fede il pensier nega
a quel che ’l senso gli offeria per vero,
vede un mirto in disparte, e là si piega
ove in gran piazza termina un sentiero.
L’estranio mirto i suoi gran rami spiega,
piú del cipresso e de la palma altero,
e sovra tutti gli arbori frondeggia;
ed ivi par del bosco esser la reggia.

Fermo il guerrier ne la gran piazza, affisa
a maggior novitate allor le ciglia.
Quercia gli appar che per se stessa incisa
apre feconda il cavo ventre e figlia,
e n’esce fuor vestita in strana guisa
ninfa d’età cresciuta (oh meraviglia!);
e vede insieme poi cento altre piante
cento ninfe produr dal sen pregnante.

Quai le mostra la scena o quai dipinte
tal volta rimiriam dèe boscareccie,
nude le braccia e l’abito succinte,
con bei coturni e con disciolte treccie,
tali in sembianza si vedean le finte
figlie de le selvatiche corteccie;
se non che in vece d’arco o di faretra,
chi tien leuto, e chi viola o cetra.

E cominciàr costor danze e carole,
e di se stesse una corona ordiro
e cinsero il guerrier, sí come sòle
esser punto rinchiuso entro il suo giro.
Cinser la pianta ancora, e tai parole
nel dolce canto lor da lui s’udiro:
«Ben caro giungi in queste chiostre amene
o de la donna nostra amore e spene.

Giungi aspettato a dar salute a l’egra,
d’amoroso pensiero arsa e ferita.
Questa selva che dianzi era sí negra,
stanza conforme a la dolente vita,
vedi che tutta al tuo venir s’allegra
e ’n piú leggiadre forme è rivestita».
Tale era il canto; e poi dal mirto uscia
un dolcissimo tuono, e quel s’apria.

Già ne l’aprir d’un rustico sileno
meraviglie vedea l’antica etade,
ma quel gran mirto da l’aperto seno
imagini mostrò piú belle e rade:
donna mostrò ch’assomigliava a pieno
nel falso aspetto angelica beltade.
Rinaldo guata, e di veder gli è aviso
le sembianze d’Armida e il dolce viso.

Quella lui mira in un lieta e dolente:
mille affetti in un guardo appaion misti.
Poi dice: «Io pur ti veggio, e finalmente
pur ritorni a colei da chi fuggisti.
A che ne vieni? a consolar presente
le mie vedove notti e i giorni tristi?
o vieni a mover guerra, a discacciarme,
che mi celi il bel volto e mostri l’arme?

giungi amante o nemico? Il ricco ponte
io già non preparava ad uom nemico,
né gli apriva i ruscelli, i fior, la fonte,
sgombrando i dumi e ciò ch’a’ passi è intrico.
Togli questo elmo omai, scopri la fronte
e gli occhi a gli occhi miei, s’arrivi amico;
giungi i labri a le labra, il seno al seno,
porgi la destra a la mia destra almeno».

Seguia parlando, e in bei pietosi giri
volgeva i lumi e scoloria i sembianti,
falseggiando i dolcissimi sospiri
e i soavi singulti e i vaghi pianti,
tal che incauta pietade a quei martíri
intenerir potea gli aspri diamanti;
ma il cavaliero, accorto sí, non crudo,
piú non v’attende, e stringe il ferro ignudo.

Vassene al mirto; allor colei s’abbraccia
al caro tronco, e s’interpone e grida:
«Ah non sarà mai ver che tu mi faccia
oltraggio tal, che l’arbor mio recida!
Deponi il ferro, o dispietato, o il caccia
pria ne le vene a l’infelice Armida:
per questo sen, per questo cor la spada
solo al bel mirto mio trovar può strada».

Egli
alza il ferro, e ’l suo pregar non cura;

ma colei si trasmuta (oh novi mostri!)
sí come avien che d’una altra figura,
trasformando repente, il sogno mostri.
Cosí ingrossò le membra, e tornò oscura
la faccia e vi sparír gli avori e gli ostri;
crebbe in gigante altissimo, e si feo
con cento armate braccia un Briareo.

Cinquanta spade impugna e con cinquanta
scudi risuona, e minacciando freme.
Ogn’altra ninfa ancor d’arme s’ammanta,
fatta un ciclope orrendo; ed ei non teme:
raddoppia i colpi e la difesa pianta
che pur, come animata, a i colpi geme.
Sembran de l’aria i campi i campi stigi,
tanti appaion in lor mostri e prodigi.

Sopra il turbato ciel, sotto la terra
tuona: e fulmina quello, e trema questa;
vengono i venti e le procelle in guerra,
e gli soffiano al volto aspra tempesta.
Ma pur mai colpo il cavalier non erra,
né per tanto furor punto s’arresta;
tronca la noce: è noce, e mirto parve.
Qui l’incanto forní, sparír le larve.

Tornò sereno il cielo e l’aura cheta,
tornò la selva al natural suo stato:
non d’incanti terribile né lieta,
piena d’orror ma de l’orror innato.
Ritenta il vincitor s’altro piú vieta
ch’esser non possa il bosco omai troncato;
poscia sorride, e fra sé dice: «Oh vane
sembianze! e folle chi per voi rimane!»

1beef6868b619ea0b90542a4d52154c9.jpgGiacinto Gimignani: Rinaldo nella selva vuole colpire il mirto sul quale
Armida è abbracciata

Era giunto nella selva, dove il terrore che ispira anche solo il guardarlo ferma i più deboli; tuttavia il bosco non gli sembra né sgradevole né terribile, ma dolcemente ombroso. // Precede oltre, e ode frattanto un suono che si diffonde molto soavemente. Nel suono sente il roco mormorare di un ruscello e il soffiare della brezza sui rami e il debole canto di un cigno canoro e l’usignolo che piange e gli risponde, organo e cetre e voci umane in canti: un unico suono contiene tanti e tali suoni. // Il cavaliere, come anche era successo agli altri crociati, si aspettava un fragore di tuono spaventoso e invece ode un dolce concerto di ninfe, sirene, brezze, acque e uccelli, cosicché, stupito, si ferma e poi procede tutto incerto e sospettoso; e sulla strada non trova altro impedimento che un fiume trasparente e calmo. // Entrambe le rive del bel fiume, ornato di fiori belli ed odorosi, profumano e risplendono. Esso allarga tanto il suo corso serpeggiante che nella sua insenatura ha sede il grande bosco, e non solo lo circonda dolcemente, ma lo penetra con un suo ruscelletto e lo divide: il ruscelletto bagna il bosco e il bosco lo ombreggia con un vicendevole scambio di acqua e di ombra. // Mentre il guerriero guarda dove è guadabile, ecco che compare un meraviglioso ponte: un ricco ponte d’oro che gli offriva un ricco passaggio su archi assai stabili. Passa il ponte dorato, e cade nell’acqua non appena ha messo piede sulla riva opposta; l’acqua se lo trascina giù velocemente, l’acqua che da bel ruscello si è trasformata in torrente. // Egli si volge indietro e lo vede ingrandito in gran piena, come se si fossero sciolte le nevi, tanto che si rigira in se stesso vorticoso con mille rapidissimi vortici. Ma il desiderio di vedere cose nuove lo spinge a scrutare tra le pianti secolari e folte e, in quei luoghi deserti e selvaggi una nuova e sorprendente meraviglia lo attira a sé. Dove posa i piedi nel passare, sembra che scaturisca una fonte o germogli un fiore: là si apre un giglio e là spunta una rosa, qui zampilla una fonte e là un ruscello scorre: e sopra e intorno a lui il vecchio bosco sembrava rinvigorire tutte le foglie; le cortecce si bagnano e le foglie di ogni albero rinvigoriscono più lietamente. // Ogni ramo stillava manna e dalle cortecce colava il miele e di nuovo si udiva quella piacevole insolita musica di canto e di lamenti; ma non sa dove si nascondesse il coro di voci umane che faceva da contrappunto ai cigni; alla brezza e all’acqua non riesce a capire chi produca suoni umani, né dove siano gli strumenti musicali. // Mentre continua a guardare e il pensiero non crede a quello che i sensi gli trasmettono come vero, vede in disparte un mirto e si dirige là dove il sentiero termina in una grande piazza. Lo straordinario mirto dispiega i suoi grandi rami, superbo più di un cipresso, e di una palma, e dirama le sue fronde sopra tutti gli alberi, e lì sembra essere il centro del bosco. // Il guerriero, fermo nella grande piazza, rivolge allora intensamente lo sguardo a una più straordinaria novità. Gli appare una quercia che, spaccatasi spontaneamente, apre fertile il tronco scavato, come fosse un ventre, e genera; ne esce fuori, vestita in modo singolare, una ninfa adulta, (oh, meraviglia!) e vede poi altre cento piante generare contemporaneamente cento ninfe dal ventre gravido. // Come le mostra il teatro o come talvolta ammiriamo dipinte le dee dei boschi, con le braccia nude e l’abito succinto, con belle calzature e con le trecce sciolte, così si vedevano nell’aspetto le finte ninfe, figlie delle cortecce di boschi; senonché, al posto dell’arco e della faretra, alcune hanno il liuto, alcune la viola, altre la cetra. // E cominciano a fare danze e girotondi e formano una corona con se stesse e circondano il guerriero, così come un punto è solito essere circondato dalla sua circonferenza. Circondano anche la pianta e si udirono tali parole tra il dolce loro canto: «Veramente gradito giungi in questi ameni luoghi appartati, o amore e speranza della nostra signora. // Giungi atteso a salvare la malata, bruciante e ferita per la passione amorosa. Questo bosco che prima era fosco, come una sede adatta alla vita senza gioia, vedi come si rallegra tutto al tuo arrivo e si riveste delle forme più belle». Questo era il canto, e poi dal mirto uscì un dolcissimo suono, ed esso si aprì. // Un tempo gli antichi vedevano immagini di dei nelle statue cave dei boschivi sileni, ma quel grande mirto dal tronco aperto mostrò le immagini più belle e rare: incontrò una donna che somigliava del tutto, nel suo falso aspetto, a una bellezza angelica. Rinaldo guarda e gli sembrava di vedere la figura d’Armida e il dolce viso. // Egli la vede al tempo stesso felice e addolorata: in un unico sguardo appaiono mille sentimenti. Poi dice: «Anch’io ti vedo e finalmente torni da colei dalla quale sei fuggito. A quale scopo torni? Per consolare, con la tua presenza, le mie solitarie notti e i giorni tristi? O vieni per muovere guerra, per cacciarmi, tu che mi nascondi il bel volto (sotto l’elmo) e mostri le armi? // Giungi come amante o come nemico? Non avrei preparato il ponte d’oro per un nemico, né avrei aperto per lui i ruscelli, i fiori, la fonte, eliminando i cespugli spinosi e ciò che impedisce il passaggio. Togli questo elmo ormai, scopri il volto e gli occhi al mio sguardo, se giungi come amico: congiungi le labbra alle mie labbra, il tuo petto al mio, porgi almeno la mano alla mia». Continuava a parlare e volgeva gli occhi in bei giri che destavano compassione e facevano impallidire il volto, simulando sospiri dolcissimi, soavi singhiozzi e dolci pianti, tanto che una pietà imprudente, di fronte a quelle sofferenze, avrebbe potuto intenerire i duri diamanti; ma il cavaliere accorto sì, non crudele, non vi bada più e stringe la spada sguainata. // Se ne va verso il mirto, allora Armida abbraccia il caro tronco e si pone in mezzo e grida: «Ah, non accadrà mai che tu mi faccia un oltraggio così grave da tagliare il mio albero! Deponi la spada, o crudele, o conficcala prima nelle vene dell’infelice Armida: attraverso questo petto, attraverso questo cuore, la spada può trovare la strada per raggiungere il mio bel mirto». // Egli alza la spada e non bada alle sue preghiere; ma ella si trasforma (oh eccezionali prodigi!) così come accade che un sogno mostri una figura nascere da un’altra, trasformarsi rapidamente. Così ingrossò il suo corpo, e il viso divenne cupo e ne sparirono il biancore e il rossore; diventò un gigante altissimo e si trasformò in un Briareo dalle cento braccia armate. // Impugna cinquanta spade e risuona con cinquanta scudi e minacciando freme d’ira. Anche le altre ninfe si rivestono di armi, diventando orrendi ciclopi; ma egli non ha paura: raddoppia i colpi al mirto ben difeso, che, come se fosse vivo, emette gemiti, quando è colpito. Gli spazi dell’aria sembrano spazi infernali, tanti appaiono in essi mostri e prodigi. // Sopra il cielo è sconvolto, sotto la terra tuona: il cielo lancia fulmini, la terra trema; giungono per far guerra i venti e i nubifragi e gli soffiano sul volto una terribile tempesta. Tuttavia il cavaliere non sbaglia mai un colpo, né si ferma per tanto furore; taglia il noce: è un noce, ma sembra un mirto. Qui l’incantesimo si esaurì e sparirono le apparizioni. //Tornò il sereno e la calma brezza, il bosco tornò alle sue condizioni naturali: non più terribile o ridente per gli incantesimi: ancora pieno di pauroso buio, ma quello naturale. Il vittorioso Rinaldo prova di nuovo se qualcos’altro gli impedisca di tagliare il bosco, poi sorride e dice tra sé: «Oh, felici immagini. E’ folle chi si ferma per causa vostra».

285996.jpgFrançois Lemoyne: Rinaldo e Armida nella selva incantata

Se a sconfiggere i cavalieri cristiani la prima volta sono stati i peccati che si sono materializzati in suoni e immagini orrorifiche, qui a voler sedurre Rinaldo è invece la tentazione, cui era già caduto. Il locus amoenus del giardino d’Armida, viene qui replicato nella selva infernale che, a seconda da chi viene tentata, cambia modus e forma (si pensi al cipresso per Tancredi, simbolo di morte – l’uccisione di Clorinda – e il mirto di Rinaldo, simbolo di poesia e d’amore – l’avvenuta maturazione sessuale per lo stesso – ). E’ evidente, tuttavia, che il giovane eroe cristiano per poter vincere l’amore sensuale e quindi peccaminoso debba prima purificarsi e, come novello Dante, va verso il monte Oliveto dove all’alba (simbolo della rinascita) prega e viene bagnato dalla rugiada (simbolo di acqua benedetta). Ma la forza “morale” tassiana ci lascia un po’ interdetti; non perché egli si serva, nella descrizione del locus amoenus, di tutta la tradizione tanto da arrivare ad utilizzare immagini del Paradiso dantesco, ma addirittura della sua opera, laddove questo luogo si presentava ricco di piacere e libertà nella sua favola pastorale Aminta.

Il canto prosegue con Rinaldo che, dopo aver vinto le forze del male nella selva, torna verso l’accampamento mentre nel campo si diffonde la notizia della fine dell’incantesimo. Si va a raccogliere il legname, si costruiscono arieti e catapulte. Intanto una colomba sorvola lo stuolo francese; la raccoglie Goffredo; reca un messaggio del Califfo d’Egitto ad Aladino. Quindi Goffredo delibera di affrettare l’assalto a Gerusalemme; e intanto manda Vafrino, scudiero di Tancredi, a riconoscere le forze del campo egiziano. Finiti i preparativi vien dato da tre lati l’assalto alla città; Rinaldo sconfigge l’empio Ismeno; la gran torre ricostruita arriva sotto le mura, e invano vi si oppone Solimano. Allora appare agli occhi di Goffredo l’angelo Michele. Rinaldo lascia a Goffredo l’onore di entrare per primo in Gerusalemme e di piantare la Croce sulle mura: esplodono grida di gioia e nello stesso istante Tancredi riesce a vincere la resistenza di Argante; dall’altra parte della città il re Aladino resiste strenuamente; ma quando vengono udite le grida di vittoria degli altri Cristiani, raddoppiano gli sforzi di Raimondo e dei suoi, e allora Aladino fugge in un luogo alto e fortificato, dove spera di continuare la disperata difesa: Gerusalemme è tutta nelle mani cristiane. 

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Illustrazione per il XVIII canto

Il canto XIX si apre con la lotta tra Argante e Tancredi: escono dalla città e si accende il combattimento, Argante rimane ucciso, mentre Tancredi cade ferito presso di lui e sviene. Nel frattempo Rinaldo assale il tempio di Salomone e lo conquista mentre Solimano e Aladino si rifugiano nella torre di David. Goffredo rimanda all’indomani l’assalto alla torre di David per poter raccogliere e curare i feriti. Intanto Vafrino, giunto nel campo pagano, può rendersi conto della grandezza dell’esercito raccolto; gira e, capitato vicino alla tenda del re egiziano, viene a sapere di una congiura contro Goffredo e del pericolo che corre Rinaldo. Il giorno dopo marcia con l’esercito egiziano, e alla sera, durante la sosta, gira di tenda in tenda e vede Armida con Adrasto, Tisaferno e Altamoro. Ma una giovane donna lo riconosce: è Erminia, che lo rassicura confessandogli il suo amore per Tancredi; è la stessa Erminia a svelargli le modalità della congiura e poi, spinta da Vafrino, racconta del suo amore per il principe cristiano. Insieme ritornano a Gerusalemme, per una strada diversa da quella seguita dall’esercito egiziano.

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Nicolas Poussin: Erminia cura Tancredi

Arrivano sotto le mura della città e si imbattono nel corpo esanime di Tancredi; piange Erminia credendolo morto, ma all’improvviso sente un debole lamento uscire dalle labbra di Tancredi, e gli presta le prime cure; Tancredi apre gli occhi e riconosce Vafrino; intanto accorrono in molti e preparano una barella colla quale il principe viene trasportato nella città insieme al corpo di Argante, al quale vuole dare degna sepoltura, perché come un grande aveva combattuto. Vafrino va in cerca di Goffredo, lo trova presso il letto di Raimondo ferito e gli rende conto del suo operato, svelandogli congiure e pericoli. Goffredo decide di combattere gli Egizi in campo aperto. Viene la notte.

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Il Guercino: Erminia cura Tancredi

Con il XX canto si arriva al termine dell’opera: Goffredo dispone l’esercito e rivolge loro un discorso d’incitamento, alla fine del quale pare a molti di vedere un lampo celeste. Nello stesso tempo anche il condottiero egizio ordina le sue schiere incitandole. I due eserciti sono schierati l’uno di fronte all’altro, infine viene dato il segnale della battaglia. Goffredo sventa la trama ordita contro di lui, mentre Rinaldo comincia a far grande strage intorno a sé, e ad un certo punto giunge dove si trova Armida che cerca di colpirlo con le sue frecce, ma mentre saetta, Amor lei piaga. Intanto dalla Torre il Sultano guarda la battaglia, e allora insieme ad Aladino esce a combattere; anche il ferito Tancredi si arma di scudo e spada e scende in battaglia. Raimondo uccide Aladino, conquista la rocca e nel sommo di lei scioglie al vento il vessillo crociato. Infuria la battaglia con morte di cavalieri cristiani per mano di Solimano, che rimane a sua volta ucciso da Rinaldo. L’esercito egiziano va in fuga e la battaglia finisce con Rinaldo che, guardandosi intorno, vede tutti abbattuti i vessilli nemici. Si ricorda allora di Armida che fuggiva sola e dolente. 

RINALDO E ARMIDA
(123-136)

Piacquele assai che ’n quelle valli ombrose
l’orme sue erranti il caso abbia condutte.
Qui scese dal destriero e qui depose
e l’arco e la faretra e l’armi tutte.
«Armi infelici» disse «e vergognose,
ch’usciste fuor de la battaglia asciutte,
qui vi depongo; e qui sepolte state
poiché l’ingiurie mie mal vendicate.

Ah! ma non fia che fra tant’armi e tante
una di sangue oggi si bagni almeno?
S’ogn’altro petto a voi par di diamante,
osarete piagar feminil seno?
In questo mio, che vi sta nudo avante,
i pregi vostri e le vittorie sieno.
Tenero a i colpi è questo mio: ben sallo
Amor che mai non vi saetta in fallo.

Dimostratevi in me (ch’io vi perdono
la passata viltà) forti ed acute.
Misera Armida, in qual fortuna or sono,
se sol da voi posso sperar salute?
Poi ch’ogn’altro rimedio è in me non buono
se non sol di ferute a le ferute,
sani piaga di stral piaga d’amore,
e sia la morte medicina al core.

Felice me, se nel morir non reco
questa mia peste ad infettar l’inferno!
Restine Amor; venga sol Sdegno or meco
e sia de l’ombra mia compagno eterno,
o ritorni con lui dal regno cieco
a colui che di me fe’ l’empio scherno,
e se gli mostri tal che ’n fere notti
abbia riposi orribili e ’nterrotti.”

Qui tacque e, stabilito il suo pensiero,
strale sceglieva il piú pungente e forte,
quando giunse e mirolla il cavaliero
tanto vicina a l’estrema sua sorte,
già compostasi in atto atroce e fero,
già tinta in viso di pallor di morte.
Da tergo ei se le aventa e ’l braccio prende
che già la fera punta al petto stende.

Si volse Armida e ’l rimirò improviso,
ché no ’l sentí quando da prima ei venne:
alzò le strida, e da l’amato viso
torse le luci disdegnosa e svenne.
Ella cadea, quasi fior mezzo inciso,
piegando il lento collo; ei la sostenne,
le fe’ d’un braccio al bel fianco colonna
e’ ntanto al sen le rallentò la gonna,

e ’l bel volto e ’l bel seno a la meschina
bagnò d’alcuna lagrima pietosa.
Qual a pioggia d’argento e matutina
si rabbellisce scolorita rosa,
tal ella rivenendo alzò la china
faccia, del non suo pianto or lagrimosa.
Tre volte alzò le luci e tre chinolle
dal caro oggetto, e rimirar no ’l volle.

E con man languidetta il forte braccio,
ch’era sostegno suo, schiva respinse;
tentò piú volte e non uscí d’impaccio,
ché via piú stretta ei rilegolla e cinse.
Al fin raccolta entro quel caro laccio,
che le fu caro forse e se n’infinse,
parlando incominciò di spander fiumi,
senza mai dirizzargli al volto i lumi.

»O sempre, e quando parti e quando torni
egualmente crudele, or chi ti guida?
Gran meraviglia che ’l morir distorni
e di vita cagion sia l’omicida.
Tu di salvarmi cerchi? a quali scorni,
a quali pene è riservata Armida?
Conosco l’arti del fellone ignote,
ma ben può nulla chi morir non pote.

Certo è scorno al tuo onor, se non s’addita
incatenata al tuo trionfo inanti
femina or presa a forza e pria tradita:
quest’è ’l maggior de’ titoli e de’ vanti.
Tempo fu ch’io ti chiesi e pace e vita,
dolce or saria con morte uscir de’ pianti;
ma non la chiedo a te, ché non è cosa
ch’essendo dono tuo non mi sia odiosa.

Per me stessa, crudel, spero sottrarmi
a la tua feritade in alcun modo.
E, s’a l’incatenata il tòsco e l’armi
pur mancheranno e i precipizi e ’l nodo,
veggio secure vie che tu vietarmi
il morir non potresti, e ’l ciel ne lodo.
Cessa omai da’ tuoi vezzi. Ah! par ch’ei finga:
deh, come le speranze egre lusinga!”

Cosí doleasi, e con le flebil onde,
ch’amor e sdegno da’ begli occhi stilla,
l’affettuoso pianto egli confonde
in cui pudica la pietà sfavilla;
e con modi dolcissimi risponde:
«Armida, il cor turbato omai tranquilla:
non a gli scherni, al regno io ti riservo;
nemico no, ma tuo campione e servo.

Mira ne gli occhi miei, s’al dir non vuoi
fede prestar, de la mia fede il zelo.
Nel soglio, ove regnàr gli avoli tuoi,
riporti giuro; ed oh piacesse al Cielo
ch’a la tua mente alcun de’ raggi suoi
del paganesmo dissolvesse il velo,
com’io farei che ’n Oriente alcuna
non t’agguagliasse di regal fortuna».

Sí parla e prega, e i preghi bagna e scalda
or di lagrime rare, or di sospiri;
onde sí come suol nevosa falda
dov’arda il sole o tepid’aura spiri,
cosí l’ira che ’n lei parea sí salda
solvesi e restan sol gli altri desiri.
«Ecco l’ancilla tua; d’essa a tuo senno
Dispon», gli disse «e le fia legge il cenno».

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Anonimo (scuola Guercino): Rinaldo ed Armida 

Fu soddisfatta infine che il caso abbia portato il suo vagare senza meta in quelle oscure valli. Scese dal cavallo e depose in terra l’arco, le frecce e tutte le sue armi. «Armi disonorate» disse «e sfortunate, che, finita la battaglia, non siete riuscire a bagnarvi del sangue del nemico (Rinaldo) qui vi lascio; e qui, rimarrete sepolte, perché avete mal vendicato le offese a me recate. // Ah, ma non avverrà che tra tantissime armi, almeno una non sia bagnata dal sangue? Se ogni altro petto a voi (spade) vi è parso impenetrabile come fosse di diamante, avrete il coraggio di ferire a morte il mio petto di donna? Saranno qui, in lui, che sta nudo di fronte a voi, i vostri pregi e le vostre vittorie. Il mio petto è tenero ai vostri colpi, lo sa Amore, che mai colpisce in modo errato. // Mostratevi contro di me, che io vi perdono la passata vigliaccheria, forti e penetranti. Povera Armida, in quale condizione misera adesso sono, se posso sperare salvezza soltanto da voi? Dal momento che ogni altro rimedio non è per me efficace tranne quello che oppone ferite a ferite, una ferita mortale che guarisce la ferita d’amore che già porto nel cuore. Felice se, nel morire non porto con me questa ferita ad infettare l’inferno! Rimanga Amore; venga solo con me lo sdegno e sia dell’anima mia eterno compagno o ritorni dall’inferno, accompagnato d’Amore, per perseguitare colui che mi schernì e gli sia tale che nelle tremende notti abbia sonni orribili e agitati». // Così parlò e, decisa a darsi la morte, sceglieva la spada più acuminata e resistente, quando giunse il cavaliere (Rinaldo) e la vide così vicina alla morte, già pre-paratasi all’atto atroce e crudele, già col pallore della morte in viso. Dalle spalle egli le si avventa e gli prende la mano che già la terribile punta porta sul petto. // All’improvviso Armida si volse e lo guardò, che non lo sentì prima, quando egli s’avvicinava: gridò, distolse lo sguardo dal viso amato e svenne. Cadeva, come un fiore tagliato a metà, piegando il molle collo; lui la sostenne, le fece da colonna col suo braccio e le slacciò l’abito al petto (per facilitarne la respirazione)  // e bagnò con qualche lacrima di pietà il suo bel volto e il seno. Come alle gocce di rugiada inargentata mattutina dai biancori dell’alba si rinvigorisce la rosa scolorita, così Armida rinvenendo non dal suo pianto e dalle sue lacrime, alzò la faccia reclinata. Tre volte rivolse lo sguardo e tre volte lo riabbassò dal caro Rinaldo, per non vederlo. // E con il braccio debole respinse sdegnosa il forte braccio, suo sostegno; ci provò più volte, ma non riuscì a liberarsi, che anzi lui la teneva più forte e la stringeva. Infine raccolta dentro quelle care braccia, che le era caro, ma voleva dissimularlo, parlando cominciò a spargere fiumi di lacrime, senza mai rivolgere gli occhi verso il suo viso. // «Sempre crudele, sia quando vai via per abbandonarmi, sia quando torni per impedirmi di morire, chi ti ha portato qui? Grande meraviglia che ad allontanarmi dalla morte e a ridarmi la vita sia colui che mi ha già ucciso. Cerchi di salvarmi? Quali offese, quali tormenti hai riservato per Armida? Conosco bene le astuzie del traditore Rinaldo, ma può fare ben poco chi non può morire. // Certo è sconveniente per il tuo onore, se per il tuo trionfo non si mostra incatenata una femmina ora presa a forza e prima tradita: questo è il maggiore tra i titoli guerreschi. Ci fu un tempo in cui io ti chiesi pace e vita, ora sarebbe dolce uscire dai pianti con la morte: ma non te la chiedo, perché se fosse un dono tuo, sarebbe per me una cosa odiosa. // Da me stessa, o crudele, spero liberarmi dalla tua crudeltà in ogni modo. E, seppure incatenata come una schiava, il veleno e una spada, i precipizi e il nodo di una corda non mancheranno; vedo vie sicure per cui tu non potrai impedirmi di morire, e ne lodo il Cielo. Smetti le tue false lusinghe. Ah, come recita bene e come lusingandomi rianima le mie speranze!». Così si lamentava e con piccoli fiumi di lacrime, che stilla dai begli occhi per rabbia e per amore; lui confonde il suo affettuoso pianto (a quello d’Armida) in cui rifulge la pietà, e in modo dolcissimi risponde: «Armida, ormai calma il cuore turbato, non gli scherni, ma un regno io riservo per te; non nemico, ma tuo servo e cavaliere. Guarda nei miei occhi, se non vuoi credere alle mie parole, l’ardore della mia fede. Nel trono, dove regnarono i tuoi antenati, giuro di riportarti; ed, oh, volesse il cielo che, con uno dei suoi raggi, venisse ad illuminarti, tale da liberarti dalla fede pagana, così farei che in Oriente alcuna donna possa competere con te per fortuna». Così parla e prega, e le preghiere bagna di lacrime e con sospiri; per cui allo stesso modo come avviene sul suolo nevoso, quando arde il sole o spira un’aria tiepida, così si dissolve l’ira di Armida e restano solo i desideri d’amore: «Ecco la tua ancella, disponi del suo volere», gli disse «ed ogni tuo cenno sia legge».

Si completa così la trasformazione di Armida, prima maga, poi donna, ora “femmina”. A caratterizzare il passo è il pianto, fiumi di pianto sia di lei che di lui, dove vengono mescolati vari sentimenti: rabbia, amore, pietà. Essi accentuano il pathos e sottolineano il modo attraverso cui Tasso mostra il mondo interiore dei suoi personaggi.

E’ il momento culminante: Goffredo, dopo aver ucciso Emireno, e fatto prigioniero Altamoro, invade e prende il campo degli Egizi. Poi, sul far della sera, sale al Santo Sepolcro e scioglie il voto.

L’ULTIMA OTTAVA
(144)

Cosí vince Goffredo, ed a lui tanto
avanza ancor de la diurna luce
ch’a la città già liberata, al santo
ostel di Cristo i vincitor conduce.
Né pur deposto il sanguinoso manto,
viene al tempio con gli altri il sommo duce;
e qui l’arme sospende, e qui devoto
il gran Sepolcro adora e scioglie il voto.

Così vince Goffredo, e a lui rimane ancora tanta parte del giorno, da quando ha liberato la città e conduce i vincitori al Santo Sepolcro. Senza neppure togliersi il mantello sanguinoso, il grande capitano viene al Tempio con gli altri principi e qui depone le armi, e qui devoto adora il grande Sepolcro e scioglie il voto.

Il poema si chiude con la vittoria di Goffredo, eroe che lascia di sé l’immagine di uomo devoto e porta a compimento la liberazione del Santo Sepolcro e prega umilmente su di esso.

L’opera si chiude, così come l’opera si era aperta: la presa di Goffredo, con l’immagine sopra descritta, certo sentita, ma in linea con le tendenze controriformistiche presenti in quel periodo ci dice che la storia è terminata. Si tratta di un vero e proprio epilogo che contraddice l’“opera aperta” d’Ariosto. In Tasso il poema segue altre linee

verisimiglianza vs fantasia

centralità vs dispersione

e attraverso queste direttive egli comincerà a dare segnali della fine di un genere e dell’inizio di un altro genere: il romanzo; non bisogna dimenticare infatti che, al di là delle azioni belliche, il poema viva maggiormente di analisi e introspezione psicologica: caratteristiche che saranno raccolte in modo parodico certo, con più Ariosto che Tasso, perché migliore è il riferimento verso l’epica del passato, nel primo grande romanzo europeo: il El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha di Cervantes.

 

IL MANIERISMO

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Se dovessimo attraversare con lo sguardo la situazione italiana della seconda metà del Cinquecento e più precisamente dal 1559, anno della pace di Cateau-Cambresis, fino alle soglie del ’600, noteremo una situazione di stasi politica, religiosa e culturale che dominerà l’intera penisola, portandola, in modo seppur lento ma deciso, verso la sua piena “provincializzazione” in quasi tutti i campi (con pochi strappi da parte di personalità eccezionali, basti pensare a Torquato Tasso o a Giordano Bruno). Sulla base di quanto detto, vediamo più da vicino tale situazione di crisi.

Situazione politica

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Filippo II d’Asburgo

La pace di Cateau-Cambresis che venne stipulata, per il nostro territorio, soprattutto da Filippo II di Spagna, gli Asburgo ed Enrico II di Francia, vide la nostra penisola, direttamente o indirettamente, quasi completamente assoggettata alla Spagna, come il Ducato di Milano, il Vicereame di Napoli, la Sicilia, la Sardegna, la terra dei Presìdi (che comprendeva una parte dei territori prima appartenenti a Siena, e quindi alla Toscana). Per questi territori venne creato un Consiglio d’Italia diretto da un nobile spagnolo. Altri territori, invece, pur nominalmente liberi, gravitarono intorno alla potenza spagnola, come lo stesso Granducato di Toscana e lo Stato della Chiesa, che vedeva nell’Impero di Filippo II un baluardo cattolico contro le forze allora emergenti del protestantesimo nell’Europa del Nord. Inoltre la sua flotta difendeva le coste di sua Santità dalla forza turca, che ancora imperversava nel Mediterraneo orientale.  Formalmente libere, invece, erano le piccole realtà della Repubblica di Genova, e dei ducati di Ferrara, Mantova, Lucca, Parma, tutte tese a mantenere la loro autonomia e a “non disturbare” troppo; mentre più libera e autonoma risulta essere la Repubblica di Venezia, ma economicamente impoverita dallo spostamento dei commerci nell’Atlantico e dalla guerra contro i Turchi e lo Stato Sabaudo, appena resosi autonomo dal predominio francese. Risulta evidente da tale situazione che:

  • era più difficile per qualsiasi entità all’interno della penisola farsi da “mecenate” per qualsiasi espressione culturale (ad eccezione di Roma, per motivi di potenza religiosa, riguardo l’architettura);
  • l’ambiente in cui si trovava a vivere l’intellettuale era molto più oppressivo, vivendo in una vera e propria situazione assolutistica.

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Enrico II di Francia

Situazione religiosa

Nel 1517 ebbe inizio la riforma protestante di Lutero con l’affissione delle sue 95 tesi nella porta della Cattedrale di Wittenberg. Senza entrare nello specifico della portata filosofica, politica e sociale che essa ebbe, ribadiamo qui alcuni suoi principi essenziali:

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Lutero

  • lettura diretta del credente dell’opera di Dio, quindi della Bibbia (da qui la sua traduzione in tedesco e, di conseguenza, grazie anche alla stampa, la nascita della lingua e letteratura tedesca);
  • la negazione nell’Eucarestia della transustanziazione (cioè la trasformazione del corpo di Dio in vino e pane), a favore della consustanziazione (cioè la presenza dello spirito di Cristo nell’atto dell’Eucarestia);
  • l’unico anello di congiunzione tra l’uomo e Dio è Gesù Cristo, quindi bisogna negare la presenza di qualsiasi altro intermediario (i santi);
  • l’ecclesia è la Chiesa di tutti i credenti, per cui non ci dev’essere, ed è contro le parole del Vangelo, la preminenza di uno su tutti (negazione della figura del papa);
  • salvezza per fede e non per opere.

Furono molti i tentativi, da parte della Chiesa cattolica di ricucire lo strappo che la rivoluzione teologica di Lutero aveva provocato. Ma ciò fu inutile dal momento in cui di tale teoria si appropriarono parte dei principi tedeschi che vedevano in essa un annullamento dell’autorità ecclesiastica e quindi un buon motivo per non pagare più decime e incamerarne i beni. Di fronte all’irrigidimento della situazione (che causò anche sanguinose guerre), Paolo III Farnese, aprì il Concilio di Trento con l’intento non solo di rispondere alle teorie luterane, ma anche di riformare al suo interno la Chiesa stessa. Il lavoro del Concilio durò circa un ventennio e determinò:

  • l’autorità del Pontefice;
  • la dottrina del libero arbitrio;
  • l’importanza delle opere per la salvezza;
  • l’importanza del magistero della Chiesa nell’esame del Testo Sacro;
  • la reale presenza di Cristo nell’Eucarestia attraverso la transustanziazione.

Se tali atteggiamenti possono sembrare essere stati assunti per difesa dell’Istituzione, non bisogna dimenticare, invece, la duplice opera che la stessa fece per rispondere sia sul piano della purificazione interna che esterna, operando per una maggiore moralizzazione (aspetto propositivo), sia per un maggior controllo (aspetto repressivo).

Per la moralizzazione ricordiamo:

  • celibato degli ecclesiastici e residenza degli stessi nel luogo in cui erano comandati;
  • negazione dei benefici ecclesiastici per chi non aveva una profonda fede;
  • evangelizzazione con assimilazione e non sovrapposizione delle culture altre;
  • maggiore attenzione alla formazione del clero, attraverso la creazione dell’ordine dei gesuiti (La Compagnia di Gesù dello spagnolo Ignazio de Loyola) il cui compito sarà quello di reprimere intellettualmente ogni forma di critica alla Chiesa e a quella popolare attraverso gli oratoriani, dediti all’educazione dei giovani di estrazione sociale non elevata (San Filippo Neri).

Per la repressione dobbiamo sottolineare:

  • la riorganizzazione del tribunale ecclesiastico (la cosiddetta Inquisizione Romana), con il compito d’indagine e di condanna per chi rifiuta l’ortodossia cattolica, fino alla consegna al Braccio Secolare che provvederà alla scelta e alla applicazione delle pene fisiche (che possono arrivare alla morte per rogo) per chi persevera nell’“errore”;
  • l’istituzione dell’Index Librorum Prohibitorum (1559) che da una parte revisiona tutti i testi precedentemente scritti e ne vieta la lettura per quelli ritenuti incompatibili con l’ortodossia (Il Principe di Machiavelli e alcune novelle di Boccaccio), dall’altra opera una severissima opera di censura per quelli che devono essere stampati (si pensi quale pressione sentirà, dentro di sé, lo scrittore).

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Paolo III Farnese

Cultura

E’ evidente che quanto detto abbia le sue conseguenze sul piano culturale. Se il Rinascimento aveva conosciuto il prevalere del concetto di uomo come faber capace di costruire “razionalmente” la realtà, attraverso il modello della grande cultura classica, l’uomo di questa età vuole allontanarsi da ciò che appariva come “perfetto”, inattaccabile, modellato sulla grande lezione degli antichi, per ricercare qualcosa di nuovo, se si vuole irrazionale e che guardi a quel mondo dell’inconoscibile, esoterico, come nuovo riferimento. Ma come è possibile elaborare un nuovo modo di concepire il mondo, se la Chiesa non permette il libero pensiero? Si tratta per gli intellettuali di forzare il nuovo pensiero all’interno di regole sempre più normative. Non è un caso che la traduzione della Poetica aristotelica diventi un vero e proprio codice coercitivo sul quale attenersi. Ecco allora che l’elaborazione culturale si mostra come espressione che forza la forma, anzi dà a quest’ultima un posto prevalente (preparando la stagione barocca). D’altra parte tra la l’obbligo di accettare la verità ecclesiale e il bisogno di “rinnovare” la cultura si situa la paura e l’angoscia di questo limite, provocando un senso di colpa e la paura del peccato. Da qui la richiesta di acquisire certezze, cui le norme danno un valido aiuto. Per questo non s’inventa ma si fa alla “maniera di”, cioè alla nascita del manierismo. In altre parole il classicismo s’irrigidisce attraverso la riscoperta, per meglio dire la rilettura “normativa” dell’opera di Aristotele, (contro il Platonismo del primo Cinquecento) e viene invischiato in una vera e propria forma precettistica che nega ogni spinta creatrice degli intellettuali. Si pensi al teatro tragico: se Aristotele descrive la situazione presente nella Grecia classica essa diventa norma nello scrivere tale genere: unità di tempo, luogo ed azione; ma poi all’interno di esso casi di estrema disarmonia “psicologica dei protagonisti” ripresi dai tre grandi tragediografi ellenici.

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Simbolo dell’Accademia della Crusca

D’altra parte agli intellettuali non è dato più grande spazio “critico”: le corti è vero che continuano ad essere il centro attrattivo, ma prese a difendere con difficoltà la loro libertà, cessano in qualche modo d’essere promotrici di cultura. Per questo gli intellettuali si rifugiano nelle Accademie, dai nomi improbabili per le stesse e per gli scritti. Tra di esse spicca l’Accademia della Crusca, fondata nel 1582, che con Lionardo Salviati come direttore, farà sì che il suo Vocabolario porterà all’estreme conseguenze il discorso bembesco, ma con una differenza: se infatti per Pietro Bembo l’utilizzo lessicale di Petrarca e Boccaccio mirava alla creazione di una lingua “ideale”, il Salviati restringendo l’uso dell’italiano letterario alle sole parole usate da qualsiasi fiorentino colto del Trecento ne dà una limitazione spazio/temporale che diventa pertanto anch’essa normativa.   

Interessante, più degli altri, è il caso di Machiavelli: messo all’indice e aspramente criticato, viene tuttavia riletto secondo la logica della “ragion di Stato”: Giovanni Botero in Della region di Stato (1589), dapprima infatti critica il maestro fiorentino in quanto ha separato la politica dalla religione, ma poi afferma che il fine del monarca è quello di preservare l’integrità dei suoi territori, ma tale fine, nella realtà odierna, coincide con quello della Chiesa, che è, a sua volta, ispirato da Dio. Il dibattito “politico” di questo periodo viene definito “Tacitismo”, riprendendo dallo storico latino il periodo dei primi Imperatori post augustei.

LUDOVICO ARIOSTO

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Tiziano: Ritratto di Ludovico Ariosto (1510)

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474 da Nicolò, capitano nella città appartenente ai domini estensi, e dalla nobildonna Daria Malaguzzi. Trascorre la prima giovinezza a Rovigo, al seguito paterno, lì recatosi per la guerra che gli Estensi conducevano contro Venezia. Al compimento dei dieci anni, fa rientro a Ferrara, dove riceve i primi rudimenti letterati da un precettore che lo fa innamorare della cultura latina, nonostante fosse spinto dal padre a seguire studi giuridici, verso i quali mostra scarso interesse.

Ferrara, nonostante la sua precarietà politica, vive in questo periodo un forte vitalismo culturale, dove Ariosto passerà quasi tutta la sua vita e dove verrà in contatto con un numero vario di artisti, tra cui ricordiamo Dosso Dossi e letterati che la città estense allora ospitava. Conosce, tra gli altri, Pietro Bembo, autore delle Prose della vulgar lingua: alla sua amicizia, molto probabilmente, sono collegati i Carmina in latino, ispirati soprattutto alla poesia oraziana e agli elegiaci Tibullo e Properzio. 

Tiziano: Ritratto di Ippolito d’Este

Sono, per il nostro autore, anni molto felici, fra feste e spettacoli teatrali, cui offre una serie rappresentazioni riprese dall’autore latino Plauto; ma tale spensieratezza verrà interrotta nel 1500 dall’improvvisa morte paterna. Ludovico si trova a sobbarcarsi tutte le incombenze familiari: primo di dieci tra fratelli e sorelle e con a carico la madre, deve assumere la responsabilità del loro mantenimento: la dura realtà entra prepotentemente a cancellare un mondo perfetto dove corte e poesia sembravano non essere in contraddizione. Diventa anche lui, come il padre, capitano; prende inoltre gli ordini minori (per godere dei benefici ecclesiastici) e si mette al servizio del cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso I. Per conto del cardinale svolge vari incarichi, tra cui va ricordato quello presso il battagliero papa Giulio II, in urto con gli Estensi, che lo caccia in malo modo. Nel 1509 gli nasce il primo figlio, Virginio, che sarà accanto a lui per tutta la vita. In seguito si innamora di una nobildonna, Alessandra Benucci, moglie del mercante Tito Strozzi. Alla morte di quest’ultimo i rapporti fra i due si faranno più intensi, ma non giungeranno al matrimonio (che avverrà in segreto molto più tardi, nel 1527) per non perdere i benefici ecclesiastici e i diritti ereditari della vedova.

Nel 1517 il cardinale Ippolito prende possesso della sua diocesi a Budapest. Invitato a seguirlo, Ariosto rifiuta, adducendo motivi di salute (motivo di una celeberrima Satira). Entra pertanto alle dipendenze del duca Alfonso, il quale lo manda come governatore in Garfagnana, luogo da poco annesso ai territori estensi e infestato da briganti.

Dopo aver compiuto in modo egregio il suo lavoro, torna a Ferrara: ormai la sua vita scorre tranquillamente; compra un piccola casetta in contrada Mirasole, dove vi andrà a vivere con suo figlio Virginio. Corregge e revisiona le sue opere (Rime, Orlando furioso, Satire), ma già dal 1531 comincia a soffrire per una grave malattia intestinale, per la quale morirà nel 1533, a cinquantanove anni.


Il castello degli Estensi a Ferrara

L’uomo

Il tono bonario delle Rime e delle Satire, la grande conoscenza e saggezza umana che traspare nel Furioso, hanno fatto credere che l’uomo Ariosto e la sua vita, siano da iscriversi nella sfera dell’otium, cioè di quella predisposizione d’animo che sembra contraddire il “vitalismo” sia pur così diverso di Machiavelli e dello stesso Guicciardini. Dobbiamo tuttavia sottolineare alcune differenze sostanziali:

La casa in contrada Mirasole dove Alfieri passerà gli ultimi anni della sua vita

  • Sia Machiavelli che Guicciardini vivono un momento di trapasso tra Repubblica e Signoria che fa sì che le loro opere e le loro riflessioni siano piene di voglia o di cambiare o di accettare, comunque di “vedere” la realtà circostante.
  • Ariosto non sceglie: è costretto a muoversi, a partecipare per la morte del padre, all’interno di uno Stato che non vede né prospettive diverse dall’essere un ducato né sommovimenti tali da “prendere” una posizione. Non si tratta infatti di disegnare il futuro “politico” interno della città, com’era per Firenze. Bisognava invece misurare la capacità estense di barcamenarsi o cercare d’allargarsi tra le mire papali, l’influenza e concorrenza veneziana e/o milanese. Il tutto aggravato dalle guerre d’Italia tra Spagna e Francia.
  • Machiavelli e Guicciardini, in una Firenze che si trasforma da Repubblica a Signoria possono essere, con gioia o meno, scegliendolo o meno, liberi; Ariosto non può: all’interno del sistema ducale deve imparare, senza disobbedire troppo, ad essere libero. Per questo darà, nella sua opera maggiore, sfogo alla fantasia.

OPERE DI LUDOVICO ARIOSTO 

L’attività letteraria di Ludovico Ariosto può essere racchiusa nella ripresa di generi ed opere classiche, alla ricerca di una perfezione formale che le ponesse alla pari col modello; infatti riprende:

  • la letteratura latina per i Carmina appunto in latino, dove ha come punto di riferimento la poesia elegiaca;
  • la lezione di Petrarca e della tradizione lirica in lingua volgare con le Rime;
  • Orazio con le Satire, ma “modernizza” il genere portato a perfezione dall’autore latino italianizzandolo, in quanto usa per esso la terzina dantesca;
  • le Commedie scritte in versi, ad imitazione plautina;
  • il poema cavalleresco, l’Orlando Furioso, che vuole apparire, generosamente come un atto d’amore verso un altissimo prodotto della cultura estense del ’400, l’Orlando Innamorato; ma sarà lui a portarlo alla perfezione, decretandone quindi la fine. La Gerusalemme liberata, del Tasso, non lo supererà (benché la lotta tra ariosteschi e tassiani sia ancora viva), perché sarà altro.

CARMINA E RIME

Pagina autografa di un carmen d’Ariosto

Possiamo dire che queste due opere appartengono alla giovinezza letteraria dell’Ariosto. Nei Carmina, in lingua latina, il nostro sembra apprendere gli strumenti per un’operazione di perfetta imitatio dei modelli. Sembra un’opera, appunto, in cui prevalga l’apprendistato formale.

Più difficile definire le Rime, perché ad esse Ariosto ci lavora quasi tutta la vita. In esse non prevale soltanto come modello Petrarca, come è abbastanza evidente in questo sonetto:

O SICURO, SECRETO E FIDEL PORTO

O sicuro, secreto e fidel porto,
dove, fuor di gran pelago, due stelle,
le più chiare del cielo e le più belle,
dopo una lunga e cieca via m’han scôrto:

or io perdono al vento e al mare il torto
che m’hanno con gravissime procelle
fatto sin qui, poi che se non per quelle,
io non potea fruir tanto conforto.

O caro albergo, o cameretta cara,
ch’in queste dolci tenebre mi servi
a goder d’ogni sol notte più chiara!

Scorda ora i torti e sdegni acri e protervi;
che tal mercé, cor mio, ti si prepara,
che appagherà quant’hai servito e servi.

O porto sicuro, riparato e fidato, dove due stelle (le più luminose e belle del cielo) mi hanno scortato dopo un lungo e tenebroso cammino, fuori da un mare in tempesta: ora io perdono al vento e al mare il torto che mi hanno fatto sinora con grandissime bufere, dal momento che se non era per quelle, non avrei potuto godere di un simile conforto. O caro rifugio, cara cameretta, che in queste dolci tenebre mi permetti di godere di una notte più luminosa di qualunque sole! O cuore mio, scordati ora i torti e le parole ingiuriose, aspre e arroganti; infatti si prepara per te un grande premio, che appagherà gli sforzi che hai fatto e che farai per servire. 
 

Immagine d’Ariosto

Basti pensare al famoso O cameretta che già fosti un porto del poeta aretino in cui lo spazio privato è il luogo in cui versare lacrime e cercar rifugio per gli affanni perduti mentre qui, capovolgendo la situazione la cameretta sembra promettere una notte d’amore. Si pensi alle stelle, metafora di bei occhi che l’hanno “scorto” in tale luogo e come esso venga illuminato, dopo aver trascorso del tempo a cercare amore (le procelle), per portare luce ed amore. E’ evidente come prevalga una certa vena “sensuale” , che mostra l’importanza certo formale di Petrarca ma senza abbandonare un attento sguardo alla poesia erotica di Catullo e dei poeti elegiaci. Si può dire, insomma, che già mostra, in queste opere cosiddette “minori”, un’attenzione particolare verso il dato reale, fisico dell’amore, anche se, verso la fine, sembra prevalere la purezza formale del grande autore del ’300.

Copertina del libro delle Rime d’Ariosto del 1558

MADRIGALE

La bella donna mia d’un sì bel fôco
e di sì bella neve ha il viso adorno,
che Amor mirando intorno
qual di lor sia più bel, si prende giôco.
Tal’è proprio a veder quell’amorosa
fiamma che nel bel viso
si sparge, ond’ella con soave riso
si va di sue bellezze innamorando;
qual’è a veder qualor vermiglia rosa
scôpre il bel paradiso
delle sue foglie, allor che ’l sol diviso
dall’orïente sorge, il giorno alzando.
E bianca è sì, come n’appare, quando
nel bel seren più limpido la luna
sovra l’onda tranquilla
co’ bei tremanti suoi raggi scintilla.
Sì bella è la beltade che in quest’una
mia donna hai posto. Amor, e in sì bel lôco,
che l’altro bel di tutto il mondo è poco.

 

Sandro Botticelli: Simonetta Vespucci (1480) (modello di bellezza rinascimentale)

Anche questo madrigale rappresenta una ripresa di un modello petrarchesco, anche se bisogna ricordare che l’autore del Canzoniere su 366 componimenti ne inserisca soltanto quattro. Ma anche di essi l’Ariosto ne fa un uso non pedissequo, ma personale e ciò si nota dal cambio metrico che se vedeva in quelli del modello l’uso dell’endecasillabo, Ariosto l’alterna con il settenario, permettendo ad esso una maggiore musicalità quale sarà percepita successivamente da Tasso, ma soprattutto da Monteverdi che farà di questo genere poetico la base per la nascita del teatro musicale italiano.

COMMEDIE

L’attenzione che Ariosto dedica al teatro non è certo formale, in obbedienza alla volontà e all’estro di Ippolito e d’Alfonso, quanto una vera e propria esigenza di maturazione poetica, in cui egli può misurare sia l’aderenza al modello classico che il bisogno di realtà che ne caratterizza la personalità. Inoltre in esse il nostro può esercitare la sua capacità nell’intreccio: infatti qui organizza storie, trova battute esilaranti, sperimenta un linguaggio che sta tra l’aulico e il quotidiano: tutte cose fondamentali per la stesura del Furioso. Le commedie sono cinque e composte tra il 1508 e il 1528:

La Cassaria (1508): è la prima commedia volgare della letteratura italiana. S’ispira all’Aulularia di Plauto e narra la vicenda di una cassa d’oro intorno cui ruotano due giovani innamorati della stessa ragazza. Vediamo come “si giustifica” secondo il modello dei prologhi antichi:

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Rappresentazione scenica de La Cassaria del 2016

PROLOGO

Nova comedia v’appresento, piena
di vari giochi, che né mai latine
né greche lingue recitarno in scena.
Parmi veder che la più parte incline
a riprenderla, subito c’ho detto
nova, senza ascoltarne mezo o fine:
ché tale impresa non li par suggetto
de li moderni ingegni, e solo estima
quel che li antiqui han detto esser perfetto.
E’ ver che né volgar prosa né rima
ha paragon con prose antique o versi,
né pari è l’eloquenzia a quella prima;
ma l’ingegni non son però diversi
da quel che fur, che ancor per quello Artista
fansi, per cui nel tempo indietro fersi.
La vulgar lingua, di latino mista,
è barbara e mal culta; ma con giochi
si può far una fabula men trista.
Non è chi ’l sappia far per tutti i lochi:
non crediate però che così audace
l’autor sia, che si metta in questi pochi.
Questo ho sol detto, a ciò con vostra pace
la sua comedia v’appresenti; e inanzi
il fin non dica alcun ch’ella mi spiace.
Per ch’ormai si cominci, e nulla avanzi
ch’io vi dovessi dir: sappiate come
la fabula che vol ponervi inanzi
detta Cassaria fia per proprio nome:
sappiate ancor che l’autor vol che questa
cittade Metellino oggi si nome.
De l’argumento, che anco udir vi resta,
ha dato cura a un servo, detto el Nebbia.
Or da parte di quel che fa la festa
priega chi sta a veder che tacer debbia.

Vi presento una nuova commedia piena di diversi accadimenti che nessuno mai mise in scena prima né in greco né il latino. Mi sembra di vedere la maggior parte di voi pronta a criticarla, appena ho pronunciato la parola “nuova”, senza averne ascoltato né un atto o la fine perché l’impresa di scriver commedie non le sembra compito da farsi dagli autori moderni e crede solo che le (commedie) perfette siano quelle scritte in lingua classica. E’ pur vero che il volgare, né in prosa né in versi, può essere paragonato con la prosa o con le rime antiche e neppure con la sua eloquenza; ma gli ingegni non sono diversi da quelli che un tempo ci furono, che ancora attraverso Dio si fanno allo stesso modo in cui li fece prima. La lingua volgare, mescolata con quella latina, è spiacevole e poco adatta alla cultura, ma con (valide) invenzioni si può narrare una storia un po’ piacevole. Non è che non ci sia qualcuno che sappia costruirla perfettamente in tutte le parti (come negli antichi): non pensate tuttavia che l’autore si sia mescolato fra questi incoscienti temerari. Ho detto soltanto questo, affinché con vostra pace la commedia si rappresenti e, prima che sia finita, nessuno dica che non gli è piaciuta. Dunque per cominciare, e affinché non rimanga nulla da aggiungere, sappiate come la commedia che vi voglio rappresentare si chiama Cassaria: sappiate anche che la città in cui l’autore vuole ambientarla oggi prenda il nome di Metellino (città dell’Egeo). Dell’argomento, che ancora deve esservi detto ho lasciato ad un servo il compito, detto il Nebbia. Ora da parte di chi ha organizzato la festa (in cui tale rappresentazione è inserita) / vi si prega che chi sta seduto per vederla, faccia silenzio.

E’ una vera e propria dichiarazione d’intenti quella che qui Ariosto porta avanti: non si tratta infatti di imitare pedissequamente il modello antico, ma d’inserire una “nuova favola” all’interno di una struttura classica. Anche questo prologo fa parte di questa struttura, che riprende il modo attraverso cui Terenzio “rispondeva” alle critiche che il pubblico poteva rivolgergli. Il nostro si tutela giustificandosi, sia pure con consapevolezza, essendo questa commedia la prima in assoluto che riprendeva il teatro classico in volgare. A ciò si aggiunga che l’utilizzo dell’endecasillabo sciolto che voleva riprendere e ripetere la metrica utilizzata dai commediografi latini.

I Suppositi (1509): il cui titolo vuol dire Gli scambiati, viene ripresa (attraverso l’idea della contaminatio, in pieno vigore nella commedia latina) dai Captivi di Plauto e dall’Eunuchus di Terenzio, dove si narra, appunto, la vicenda di uno scambio di persone.

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Antica edizione del Negromante

Il Negromante (1520, ma rappresentata per la prima volta nel 1530) : in parte ripresa da Terenzio, il cui protagonista è appunto un astrologo, finto mago, che approfitta dei creduloni, ma alla fine sarà scornato:

IL FALSO MAGO
(ATTO I, scena III)

CINTIO: Temolo, che ti par di questo astrologo / o negromante voglio dir?
TEMOLO: Lo giudico / una volpaccia vecchia.
CINTIO: Or ecco Fazio. / Io domandavo costui de l’astrologo / nostro che gli par.
TEMOLO: Dico ch’io el giudico / una volpaccia vecchia.
CINTIO: Et a voi, Fazio / che te ne par?
FAZIO: Io stimo uom di grande astuzia / e di molta dottrina.
TEMOLO: In che scienza / è egli dotto?
FAZIO: In l’arti che si chiamano / liberali.
CINTIO: Ma pur ne l’arte magica / credo che intenda ciò che si può intendere / e non ne sia per tutto il mondo un simile?
TEMOLO: Che ne sapete voi?
CINTIO: Cose mirabili / di lui mi narra il suo garzone.
TEMOLO: Fateci, / se Dio v’aiuti, udir questi miracoli.
CINTIO: Mi dice che a sua posta fa risplendere / la notte e il dì oscurarsi.
TEMOLO: Anch’io so simile- / mente cotesto far.
CINTIO: Come?
TEMOLO: Se accendere / di notte anderò un lume / e di dì chiudere / le finestre.
CINTIO: Deh, pecorone! Dicoti che estingue el sol per tutto il mondo, e splendida / fa la notte per tutto.
TEMOLO: Gli dovrebbono / dar gli speciali dunque un buon salario.
FAZIO: Perché?
TEMOLO: Perché calare il prezzo e crescere, / quando gli paia, può alla cera e all’olio. / Or sa fa altro?
CINTIO: Fa la terra muovere, / sempre che ’l vuol.
TEMOLO: Anch’io talvolta muovola, / s’io metto al fuoco o ne levo la pentola; / o quando cerco al buio se più gocciola / di vino è nel boccale, allor dimenola.
CINTIO: Te ne fai beffe, e ti par d’udir favole? / or che dirai di questo: che invisibile / va a suo piacer?
TEMOLO: Invisibile? Avetelo / voi mai, padron, veduto andarvi?
CINTIO: Oh, bestia! / Come si può veder, se va invisibile?
TEMOLO: Ch’altro sa far?
CINTIO: De le donne e de gli uomini / sa trasformar, sempre che vuole, in varii / animali e volatili e quadrupedi.

TEMOLO: Si vede far tutto il dì, / né miracolo è codesto.
FAZIO: U’ si vede far?
TEMOLO: Nel populo / nostro.
CINTIO: Non date udienza alle sue chiacchiere, / che ci dileggia.
FAZIO: Io vo’ saperlo: narraci / pur come.
TEMOLO: Non vedete voi, che subito / un divien podestate, commissario / proveditore, gabelliere, giudice, / notaio, pagator de li stipendii, / che li costumi umani lascia, e prendeli / o di lupo o di volpe o di alcun nibio?
FAZIO: Codesto è vero.
TEMOLO: E tosto ch’un ignobile / grado vien consigliere o segretario, / e che di commandar gli altri ha ufficio, / non è vero anco che diventa un asino?
FAZIO: Verissimo.
TEMOLO: Di molti che si mutano / in becco, vo’ tacer.
CINTIO: Cotesta, Temolo, è una cattiva lingua.
TEMOLO: Lingua pessima / la vostra è pur, che favole mi recita / per cose vere.

CINTIO: Temolo, voglio chiederti cosa ti sembra di questo astrologo o negromante?TEMOLO: Lo giudico un vecchio furbastro. CINTIO: Ecco Fazio. Io domandavo a costui cosa pensava del nostro astrologo. TEMOLO: Ripeto che sembra un vecchio furbastro. CINTIO: E a voi, Fazio, che ve ne pare? FAZIO: Lo credo un uomo di grande capacità e di molta cultura. TEMOLO: In quale disciplina egli è colto? FAZIO: Nelle arti che si chiamano liberali (cioè intellettuali). CINTIO: Ma soprattutto nell’arte magica credo che egli capisca tutto ciò che c’è da capire e che non ve ne sia in tutto il mondo uno esperto come lui. TEMOLO: Cosa ne sapete? CINTIO: Il suo servo mi racconta cose mirabolanti su di lui. CINTIO: Fateci, per piacere, ascoltare questi miracoli. CINTIO: Mi dice che a suo piacere illumina la notte ed oscura il giorno. TEMOLO: Anch’io lo so fare. CINTIO: Come? TEMOLO: Se andrò ad accendere una luce di notte e a chiudere una finestra di giorno. CINTIO: Ma va là, ignorante! Ti dico che spegne la luce in tutto il mondo e fa la notte splendente dappertutto. TEMOLO: I droghieri dovrebbero dargli un buon stipendio. FAZIO: Perché? TEMOLO: Perché potrebbero alzare o abbassare il prezzo della cera o dell’olio (che servono per l’illuminazione). Sa fare altro? CINTIO: Fa muovere il mondo quando vuole. TEMOLO: Anch’io qualche volta la muovo, se metto o levo dal fuoco una pentola; o quando cerco al buio se ancora vi è qualche goccia di vino nel bicchiere, allora lo scuoto. CINTIO: Lo prendi in giro oppure ti sembra d’ascoltare bugie? Ora che mi dirai di questo, che quando vuole diventa invisibile? TEMOLO: Invisibile? L’avete mai visto, padrone? CINTIO: Scemo che non sei altro! Come si può vedere, se è invisibile? TEMOLO: Cos’altro sa fare? CINTIO: Sa trasformare, quando vuole, gli uomini e le don-ne in animali, sia uccelli che mammiferi. TEMOLO: Questo succede tutti i giorni: non è un miracolo. FAZIO: E dove si fa? TEMOLO: Fra la nostra gente. CINZIO: Non dategli retta, che ci prende in giro. FAZIO: Io voglio saperlo: dicci come. TEMOLO: Non vedete che appena uno diventa podestà, commissario, provveditore, gabelliere, giudice, notaio, amministratore, abbandona le abitudini umane e prende quelle di lupo, di volpe, o di qualche rapace? FAZIO: E’ vero. TEMOLO: E non appena uno di bassa condizione diventa consigliere o segretario, che ha come potere quello di comandare sugli altri, non è anche vero che diventa un asino? FAZIO: Verissimo. TEMOLO: Dei molti che diventano cornuti, come un cervo, non voglio parlare. CINTIO: Questa, o Temolo, è una battuta infelice. TEMOLO: Battute infelici sono soltanto le vostre, che mi vende come cose serie, vere e proprie favole.

Questo piccolo esempio ci serve per capire in che modo Ariosto, nonostante l’uso dell’endecasillabo, cerchi di usare un ritmo brioso e colloquiale tra i personaggi; esso si nota anche nelle differenze tra la scelta terminologica dei signori Cintio e Fazio ed il servo Temolo. Quello che tuttavia qui interessa è la polemica che l’autore conduce contro una delle branche del sapere più in voga in epoca rinascimentale: la magia. Non è tale fatto in contraddizione con lo spirito razionale di cui Ariosto qui si fa portavoce. Per altri intellettuali la magia e la stregoneria (non dico a livello popolare) erano studiate come mezzi che, andando al di là della scienza, potevano spiegare la contraddittorietà della natura, per arrivare a capire l’essenza della creazione voluta da Dio.

La Lena (1529) è una commedia d’intreccio, che ha per protagonista una mezzana, la Lena appunto, sposata a Pacifico (di nome e di fatto) e due giovani, Licinia e Flavio, che alla fine coroneranno il loro amore con il matrimonio. E’ un’opera piuttosto tarda del ’29, ambientata a Ferrara, mentre Ariosto sta lavorando al Furioso. Per la caratterizzazione dei personaggi ed intreccio è considerata la sua commedia migliore.

Gli Studenti (postuma): è una commedia non completata da Ariosto, di cui conosciamo due versioni: una portata a termine dal fratello Gabriele, l’altra dal figlio Virginio, che ha per protagonisti due giovani studenti dell’università di Pavia.

SATIRE 

Quando nel 1517 il cardinale Ippolito va a Budapest nella sua diocesi, Ariosto rifiuta. E’ tale episodio che dà vita all’inizio della stesura delle Satire. Nel periodo infatti tra il ’17 e il ’25 vengono infatti composte sette satire, genere poetico da lui composto in terzine dantesche, che diverrà in seguito “canone” per tale genere poetico. Esse si strutturano come epistole poetiche, con diversi destinatari, fra cui fratelli e cugini di Ludovico; solo una di esse è indirizzata a Pietro Bembo.

Sette_libri_di_satire_di_[...]Arioste_L'_bpt6k314470k.JPEGEdizione 1560

Nella I satira viene raccontato il rifiuto di Ludovico di seguire il Cardinale Ippolito in Ungheria. Dietro tale rifiuto non vi è comunque soltanto il motivo “salutare” che sconsiglia al nostro climi freddi, ma anche l’orgogliosa consapevolezza della superiorità morale della poesia rispetto alla ricchezza:

PIU’ TOSTO CHE ARRICCHIR, VOGLIO QUIETE
(I, 160-177)

Più tosto che arricchir, voglio quïete:
più tosto che occuparmi in altra cura,
sì che inondar lasci il mio studio a Lete.

Il qual, se al corpo non può dar pastura,
lo dà alla mente con sì nobil ésca,
che merta di non star senza cultura.

Fa che la povertà meno m’incresca,
e fa che la ricchezza sì non ami
che di mia libertà per suo amor esca;

quel ch’io non spero aver,  fa ch’io non brami,
che né sdegno né invidia me consumi
perché Marone o Celio il signor chiami;

ch’io non aspetto a mezza estade i lumi
per esser col signor veduto a cena,
ch’io non lascio accecarmi in questi fumi;

ch’io vado solo e a piedi ove mi mena
il mio bisogno, e quando io vo a cavallo,
le bisaccie gli attacco su la schiena.

Piuttosto che diventare ricco, voglio la pace: / piuttosto da lasciarmi occupare in altre preoccupazioni / tanto da lasciare inondare il mio studio alle acque dell’oblio. / Il quale (studio) se non può nutrire il corpo / lo dà alla mente con un cibo così nobile / che merita essere coltivato. / (Lo studio) fa che la povertà mi dispiaccia meno e fa che non ami tanto la ricchezza / fino al punto di perdere la mia libertà; / ciò che non spero di avere, fa sì che io non lo desideri / che non mi consumi né rabbia né invidia / perché il cardinale Ippolito chiami Ippolito e Marone (poeti al seguito del Cardinale, dopo il rifiuto di Ariosto); / fa sì che io non aspetti le lampade a mezza estate / per esser visto a cena col Signore / perché non mi faccio acceccare dai lumi della vanità; / perché io vado solo e a piedi dove mi conduce / la mia necessità, e quando vado a cavallo / gli attacco le bisacce sul dorso.

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Ritratto d’Ippolito da un disegno di Giovanni Maria Zappi (XVI sec.)

Pochi versi, tratti dalla prima Satira, già ci indicano il problema fondamentale dell’intellettualità non civile ma cortigiana dei primi anni del ’500: la perdita di libertà. Vi è qui l’orgoglio del poeta ferito, non capito, che tuttavia rivendica non solo la propria grandezza, ma anche la semplicità della vita fatta di piccoli piaceri. Pur infarcita pertanto di riflessioni personali, si nota in essa il riferimento oraziano della recusatio verso Augusto, di cui ripete anche il concetto della mediocritas.

Nella II Satira il poeta tratta il tema della corruzione papale (prendendo spunto da un suo viaggio a Roma.

Più importante la terza Satira, indirizzata al cugino, in essa il poeta spiega la sua condizione sotto il signore Alfonso:

UNA DICHIARAZIONE DI LIBERTA’
(III, 1-9)

Poi che, Annibale, intendere vuoi come
la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento
più grave o men de le mutate some;

perché, s’anco di questo mi lamento,
tu mi dirai c’ho il guidalesco rotto,
o ch’io son di natura un rozzon lento:

senza molto pensar, dirò di botto
che un peso e l’altro ugualmente mi spiace,
e fòra meglio a nessuno esser sotto.

Dal momento che Annibale (Malaguzzi, cugino del poeta) desidera sapere come / me la passi col duca Alfonso / e se mi sento più libero o meno con il nuovo padrone; / perché, se mi lamento anche di lui / tu mi dirai che ho il guidalesco rotto (vescica del cavallo provocata dallo sfregamento delle finiture) / e che per natura sono un ronzino malandato: / senza starci molto a pensare ti dirò / che un padrone e l’altro mi spiacciono ugualmente / e sarebbe molto meglio non esser sotto a nessuno.

Pur nella piena consapevolezza dell’impossibilità della libertà per il mantenimento dei fratelli egli si rende conto come vi sia incompatibilità tra poesia e servitù: mancanza di studio, amore per la letteratura scevro da qualsiasi altra preoccupazione, impegno per le opere prodotte e da rivedere, non si conciliano con i compiti, pur se onorevoli, che deve compiere per il Duca. Quindi prosegue:

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Battista Dossi: Ritratto di Alfonso d’Este in abiti militari (1530)

LIBERTA’ DI SCELTA
(III, 29-57)

So ben che dal parer dei più mi tolgo,
che ’l stare in corte stimano grandezza,
ch’io pel contrario a servitù rivolgo.

Stiaci volentier dunque chi la apprezza;
fuor n’uscirò ben io, s’un dì il figliuolo
di Maia vorrà usarmi gentilezza.

Non si adatta una sella o un basto solo
ad ogni dosso; ad un non par che l’abbia,
all’altro stringe e preme e gli dà duolo.

Mal può durar il rosignuolo in gabbia,
più vi sta il gardelino, e più il fanello;
la rondine in un dì vi mor di rabbia.

Chi brama onor di sprone o di capello,
serva re, duca, cardinale o papa;
io no, che poco curo questo e quello.

In casa mia mi sa meglio una rapa
ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco
e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

che all’altrui mensa tordo, starna o porco
selvaggio; e così sotto una vil coltre,
come di seta o d’oro, ben mi corco.

E più mi piace di posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, alli Etiopi, et oltre.

Degli uomini son varii li appetiti:
a chi piace la chierca, a chi la spada,
a chi la patria, a chi li strani liti.

Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna
a me piace abitar la mia contrada.

So bene che mi allontano dall’opinione comune, che considera un grande onore vivere a corte, e che io al contrario lo ritengo servitù. Ci rimanga volentieri chi lo apprezza, io ne uscirei con gioia se un giorno Mercurio (figlio di Maia, dio della ricchezza) si mostrerà propizio. Una sella o un basto non si adattano ad ogni schiena, ad un cavallo sembra di non avere niente addosso, ad un altro stringe e fa male. Male può vivere l’usignolo in gabbia, ci sta meglio il cardellino e il fanello, una rondine ci muore in un giorno per la rabbia. Chi desidera onori di cavalleria o di sacerdozio, serva re, duchi, cardinali o il papa, io no, che non mi interessano. In casa mia preferisco una rapa, cotta da me, infilzata su uno spiedo che poi sbuccio e la cospargo di aceto e di mostarda, che in tavola d’altri un tordo, una starna ed un cinghiale, e poi mi corico sotto una misera coperta, come se fosse di seta e d’oro. E preferisco riposare le pigre membra, che vantarmi di aver viaggiato in Russia, in India, in Africa e oltre. Gli uomini hanno diversi desideri a chi piace la vita ecclesiastica a chi la militare, a chi la sua patria, a chi i luoghi esotici. Chi vuole girare il mondo, lo giri: veda l’Inghilterra, l’Ungheria, la Francia, la Spagna, a me piace stare nel mio paese.

Vi è in questo brano una forte rivendicazione tra l’onore e il servilismo: con ironia, talvolta venata di sarcasmo, egli si distanzia da chi cerca onore e gloria e chiede poco, quasi nulla. Il quadretto domestico, costruito con similitudini tratte dalla quotidianità del vivere, ci rimandano al concetto di mediocritas. Anche ad esso deve a volte rinunciare, ma in modo meno deludente che col Cardinale: il duca sembra essere meno oppressivo. Tuttavia per spiegare al cugino la sua vera situazione ricorre ad una favola, anche qui, riprendendo il suo maestro latino, che in una Satura aveva inserito il famoso apologo del topo di campagna e del topo di città.

IL PASTORE E LA GAZZA
(III, 109-150)

Una stagion fu già, che sì il terreno
arse, che ’l Sol di nuovo a Faetonte
de’ suoi corsier parea aver dato il freno;

secco ogni pozzo, secca era ogni fonte;
li rivi e i stagni e i fiumi più famosi
tutti passar si potean senza ponte.

In quel tempo, d’armenti e de lanosi
greggi io non so s’i’ dico ricco o grave,
era un pastor fra gli altri bisognosi,

che poi che l’acqua per tutte le cave
cercò indarno, si volse a quel Signore
che mai non suol fraudar chi in lui fede have;

et ebbe lume e inspirazion di core,
ch’indi lontano troveria, nel fondo
di certa valle, il desiato umore.

Con moglie e figli e con ciò ch’avea al mondo
là si condusse, e con gli ordegni suoi
l’acqua trovò, né molto andò profondo.

E non avendo con che attinger poi,
se non un vase picciolo et angusto,
disse: «Che mio sia il primo non ve annoi;

di mógliema il secondo; e ’l terzo è giusto
che sia de’ figli, e il quarto, e fin che cessi
l’ardente sete onde è ciascuno adusto:

li altri vo’ ad un ad un che sien concessi,
secondo le fatiche, alli famigli
che meco in opra a far il pozzo messi.

Poi su ciascuna bestia si consigli,
che di quelle che a perderle è più danno
inanzi all’altre la cura si pigli».

Con questa legge un dopo l’altro vanno
a bere; e per non essere i sezzai,
tutti più grandi i lor meriti fanno.

Questo una gazza, che già amata assai
fu dal padrone et in delizie avuta,
vedendo et ascoltando, gridò: «Guai!

Io non gli son parente, né venuta
a fare il pozzo, né di più guadagno
gli son per esser mai ch’io gli sia suta;

veggio che dietro alli altri mi rimagno:
morò di sete, quando non procacci
di trovar per mio scampo altro rigagno». 

 
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Disegno di una gazza

Ci fu un tempo che il terreno era così riarso, che sembrava che il Sole avesse dato il permesso di guidare il suo carro a Faetonte che, passando troppo vicino alla terra la bruciò; ogni pozzo, ogni fonte era secca, i rivi, gli stagni, anche i più famosi fiumi si potevano attraversare senza bisogno di un ponte. In quel tempo, non so se ricco o povero di greggi, vi era un pastore, anche lui bisognoso d’acqua. Poi che l’aveva cercata inutilmente in ogni pozzo, si rivolse a quel Signore che non hai mai ingannato chi crede in Lui; ed ebbe l’illuminazione e l’ispirazione del cuore, che avrebbe trovato non molto lontano, nel fondo di una valle, la desiderata bevanda. Con la moglie ed i figli e tutto ciò che era in suo possesso, si portò lì, e con i suoi strumenti, trovò l’acqua, senza andare troppo in profondità. Non avendo, per raccoglierla, che un vasetto piccolo e stretto, disse: «Che io sia il primo, non vi dispiaccia; il secondo sarà di mia moglie, il terzo è giusto che sia dei figli, fino al quarto, finché non cessa l’ardente sete da cui ognuno è oppresso. Gli altri voglio che siano distribuiti secondo le fatiche sostenute, ai servi che misi all’opera insieme a me per lo scavo del pozzo. Poi si conceda ad ogni capo di bestiame e si prenda cura di quelli che possono essere più utili prima degli altri». Con questo patto uno dopo l’altro vanno a bere; e per non essere ultimi, tutti rendono più grandi i loro meriti. Una gazza, che fu molto amata e procurò molta gioia al padrone, vedendo e ascoltando tutto questo gridò: «Guai! Io non sono sua parente, né l’ho aiutato a fare il pozzo, né potrò essergli più utile di quanto sia stata sinora. Vedo che rimango indietro rispetto agli altri: morirò di sete, se non cerco di trovare un altro rigagnolo per la mia salvezza».

Vi è qui l’allegoria, un po’ amara di Leone X e del poeta. Infatti egli aveva tentato, inutilmente, quando era ancor giovane, d’entrare al suo servizio. Quest’ultimo infatti, figlio di Lorenzo il Magnifico, aveva mostrato un vivo apprezzamento per l’opera del poeta; ma è chiaro, qui, che non poteva aspettarsi troppo, dovendo Giovanni de’ Medici, ripagare con uffici e prebende tutti coloro che lo avevano aiutato. Si tratta di un’amara considerazione di un modus vivendi “amorale”, ma che egli osserva, attraverso la favola, con grande ironia, sapendo che “così va il mondo”.

Nella IV Satira racconta la sua esperienza come governatore in Garfagnana, mentre nella V disserta sulla fortuna o sfortuna di prender moglie; la VI è indirizzata a Pietro Bembo perché trovi un maestro di greco per il figlio Virginio, mentre la VII riafferma la volontà di non volersi spostare da Ferrara per diventare ambasciatore presso Clemente V.

Come si vede esse sono tutte basate su elementi autobiografici. Ma non per questo dobbiamo riferirci ad essi per scoprire la verità sull’esistenza del nostro: sono infatti frutto di una accurata rielaborazione letteraria. Non si tratta, cioè di scoprirsi presso il pubblico, quanto di mostrare ad esso la capacità di svolgere in una terzina modellata sul verso di Dante argomenti tratti dalla quotidianità, in cui la parola aulica si sposi con quella d’uso comune. Si osservi l’argomento e lo stile della III Satira: la riaffermazione della libertà, dove all’alto orgoglio si sposa l’esempio del ronzino; ho ancora lo sfarzo della vita di corte con il pasto di una rapa e, infine l’impossibilità di aver servito il papa con la favola della gru. E’ questo il processo dell’abbassamento ottenuto con la sua capacità ironica, che nel poema sarà utilizzata per abbracciare il mondo intero.

ORLANDO FURIOSO

L’Orlando Furioso, poema cavalleresco, viene definito dall’autore stesso una gionta (aggiunta) al non terminato Orlando Innamorato che il nobile Boiardo aveva composto, per il diletto della corte di Ercole I, nel 1495. Egli infatti riprende la vicenda interrotta dal predecessore e dedica la sua opera al figlio d’Ercole, il cardinale Ippolito. Dunque l’opera ariostesca si presenta subito come una continuazione. Eppure essa ha una vera e propria autonomia narrativa ed una qualità che il suo predecessore non possedeva, tanto da diventare, nella coscienza comune, come l’emblema di tutto il Rinascimento. Frutto di tutto il lavoro che l’autore ferrarese profuse nell’estensione del suo capolavoro sono le tre edizioni in cui essa si fece conoscere al pubblico:

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Edizione del 1551

  • 1516, in 40 canti, ritenuta sin da subito provvisoria dall’autore;
  • 1521 in cui l’opera subisce un’importante revisione linguistica, grazie all’apporto amicale di Pietro Bembo, che di lì a poco avrebbe pubblicato le Prose della vulgar lingua (1525). Alcuni critici pensano che l’autore abbia avuto per questa edizione l’intenzione di aggiungere qualche canto (si tratterebbe dei Cinque canti, mai pubblicati, poi, perché sentiti poco coesi all’interno dell’opera dallo stesso poeta, ma resi postumi per opera del figlio);
  • 1532, l’edizione definitiva in ben 46 canti, con un ulteriore e più perfetta revisione linguistica.

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Riproduzione anastatica di cinque Canti pubblicati da Virginio

Se è quasi impossibile riassumere il poema, per la varietà e l’intrecciarsi delle vicende. È tuttavia possibile enuclearne tre temi principali:

  1. Il tema bellico, con la guerra tra i Franchi e i Mori;
  2. Il tema sentimentale con l’amore tra Orlando e Angelica, incluso la pazzia d’Orlando;
  3. Il tema encomiastico con l’amore tra Ruggiero e Bradamante.

Vediamone la struttura e i principali temi attraverso l’opera stessa:

PROEMIO E INCIPIT
(I, 1-16)

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.

 Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.

 Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.

 Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensier cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.

 Orlando, che gran tempo innamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti ed immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,

 per far al re Marsilio e al re Agramante
battersi ancor del folle ardir la guancia,
d’aver condotto, l’un, d’Africa quante
genti erano atte a portar spada e lancia;
l’altro, d’aver spinta la Spagna inante
a destruzion del bel regno di Francia.
E così Orlando arrivò quivi a punto:
ma tosto si pentì d’esservi giunto:

 che vi fu tolta la sua donna poi:
ecco il giudicio uman come spesso erra!
Quella che dagli esperi ai liti eoi
avea difesa con sì lunga guerra,
or tolta gli è fra tanti amici suoi,
senza spada adoprar, ne la sua terra.
Il savio imperator, ch’estinguer volse
un grave incendio, fu che gli la tolse.

 Nata pochi dì inanzi era una gara
tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo,
che ambi avean per la bellezza rara
d’amoroso disio l’animo caldo.
Carlo, che non avea tal lite cara,
che gli rendea l’aiuto lor men saldo,
questa donzella, che la causa n’era

tolse, e diè in mano al duca di Bavera;

in premio promettendola a quel d’essi,

ch’in quel conflitto, in quella gran giornata,
degl’infideli più copia uccidessi,
e di sua man prestasse opra più grata.
Contrari ai voti poi furo i successi;
ch’in fuga andò la gente battezzata,
e con molti altri fu ’l duca prigione,
e restò abbandonato il padiglione.

Dove, poi che rimase la donzella
ch’esser dovea del vincitor mercede,
inanzi al caso era salita in sella,
e quando bisognò le spalle diede,
presaga che quel giorno esser rubella
dovea Fortuna alla cristiana fede:
entrò in un bosco, e ne la stretta via
rincontrò un cavallier ch’a piè venìa.

Indosso la corazza, l’elmo in testa,
la spada al fianco, e in braccio avea lo scudo;
e più leggier correa per la foresta,
ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo.
Timida pastorella mai sì presta
non volse piede inanzi a serpe crudo,
come Angelica tosto il freno torse,
che del guerrier, ch’a piè venìa, s’accorse.

 Era costui quel paladin gagliardo,
figliuol d’Amon, signor di Montalbano,
a cui pur dianzi il suo destrier Baiardo
per strano caso uscito era di mano.
Come alla donna egli drizzò lo sguardo,
riconobbe, quantunque di lontano,
l’angelico sembiante e quel bel volto
ch’all’amorose reti il tenea involto.

 La donna il palafreno a dietro volta,
e per la selva a tutta briglia il caccia;
né per la rara più che per la folta,
la più sicura e miglior via procaccia:
ma pallida, tremando, e di sé tolta,
lascia cura al destrier che la via faccia.
Di sù di giù, ne l’alta selva fiera
tanto girò, che venne a una riviera.

 Su la riviera Ferraù trovosse
di sudor pieno e tutto polveroso.
Da la battaglia dianzi lo rimosse
un gran disio di bere e di riposo;
e poi, mal grado suo, quivi fermosse,
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso,
l’elmo nel fiume si lasciò cadere,
né l’avea potuto anco riavere.

 Quanto potea più forte, ne veniva
gridando la donzella ispaventata.
A quella voce salta in su la riva
il Saracino, e nel viso la guata;
e la conosce subito ch’arriva,
ben che di timor pallida e turbata,
e sien più dì che non n’udì novella,
che senza dubbio ell’è Angelica bella.

 E perché era cortese, e n’avea forse
non men de’ dui cugini il petto caldo,
l’aiuto che potea tutto le porse,
pur come avesse l’elmo, ardito e baldo:
trasse la spada, e minacciando corse
dove poco di lui temea Rinaldo.
Più volte s’eran già non pur veduti,
m’al paragon de l’arme conosciuti.

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L’Orlando Furioso visto dai Pupari Siciliani

Le donne, i cavalieri, le battaglie, gli amori, gli atti di cortesia, le audaci imprese io canto, che ci furono nel tempo in cui gli Arabi attraversarono il mare d’Africa, e arrecarono tanto danno in Francia, seguendo le ire e i furori giovanili del loro re Agramante, il quale si vantò di poter vendicare la morte di Traiano contro il re Carlo, imperatore romano. // Nello stesso tempo, racconterò di Orlando cose mai dette né in prosa né in rima: che per amore, divenne furioso e matto, lui che prima era considerato uomo così saggio; dirò queste cose se da parte di colei che mi ha quasi reso tale e che a poco a poco consuma il mio piccolo ingegno, me ne sarà concesso a sufficienza (di ingegno) tanto che mi basti a finire l’opera che ho promesso. // Vi piaccia, o Ippolito, generosa e nobile figlio di Ercole I, ornamento e splendore del nostro tempo, di gradire questo poema che vuole e darvi solo può il vostro umile servitore. Il mio debito nei vostri confronti, lo posso solo pagare in parte con le mie parole ed opere scritte; non mi si potrà accusare di darvi poco, perché io vi dono tutto quanto posso donarvi. // Voi mi sentirete ricordare fra i più valorosi eroi, che mi appresto a citare lodandoli, di quel Ruggiero che fu il vostro e dei vostri nobili avi il capostipite. Il suo grande valore e le sue imprese vi farò udire se mi presterete ascolto; e le vostre profonde preoccupazioni cedano un poco, in modo che tra loro i miei versi possano trovare spazio. // Orlando, che per tanto tempo era stato innamorato della bella Angelica e per lei in India, in Oriente, aveva lasciato trofei immortali ed in numero infinito, era tornato infine con la donna amata in Occidente dove, sotto gli alti monti Pirenei, con i Francesi ed i Tedeschi, il re Carlo si era insediato in campo aperto, // perché il re Marsilio ed il re Agramante si pentissero ancora una volte delle loro folli azioni; Agramante per avere condotto dall’Africa tante persone quante erano in grado di portare spada e lancia, Marsilio per avere condotto la Spagna nella distruzione del bel regno di Francia. E così Orlando arrivò sul posto al momento giusto, ma subito si pentì di esservi giunto. // Perché gli anche fu tolta la donna che amava: ecco come il giudizio umano spesso sbaglia! La donna che dalle coste Orientali a quelle Occidentali aveva difeso con una tanto lunga guerra, ora gli viene tolta tra tanti suoi amici, senza che sia adoperata spada alcuna, sulla sua terra. Il saggio imperatore, con la volontà di estinguere un grave incendio (pericolosa contesa d’amore), fu a togliergliela. // Pochi giorni prima era infatti iniziato un conflitto tra il conte Orlando e suo cugino Rinaldo, poiché entrambi, per la rara bellezza di Angelica, avevano l’animo infiammato dal desiderio amoroso. Carlo non vedeva di buon occhio tale lite, che poteva mettere in dubbio il loro aiuto, questa fanciulla (Angelica), che ne era la causa, prese e consegnò nelle mani del duca Namo di Baviera; // promettendola in premio a chi dei due, nell’imminente conflitto, in quella battaglia campale, avesse ucciso il maggior numero di infedeli, e con la sua mano avesse quindi reso maggior servizio. Gli eventi fecero però venire meno le promesse; perché i cristiani dovettero ritirarsi, insieme a molti altri, il duca Namo fu fatto prigioniero e la sua tenda rimase vuota. // Rimasta sola nella tenda, la donzella, che avrebbe dovuto essere la ricompensa del vincitore, visto l’andamento degli eventi, salì in sella ad un cavallo e ad momento opportuno scappò, avuto presagio che, quel giorno, avversa alla fede cristiana sarebbe stata la fortuna. Entrò in un bosco e per lo stretto sentiero incontrò un cavaliere che avanzava a piedi. // Con addosso la corazza, in testa l’elmo, al fianco la spada ed al braccio lo scudo, correva per la foresta più rapidamente di un contadino poco vestito in una gara di corsa. Una timida pastorella mai così rapidamente sottrasse il piede dal morso di un serpente letale, quanto rapidamente Angelica tirò le redini per cambiare direzione non appena si accorse del guerriero che sopraggiungeva a piedi. // Era questo guerriero (Rinaldo) quel paladino, figlio di Amone, signore di Montalbano, al quale poco prima il proprio destriero per uno strano caso era fuggito di mano. Non appena posò lo sguardo sulla donna, riconobbe, nonostante fosse lontana, l’angelica figura ed il bel volto che lo avevano fatto prigioniero delle reti dell’amore. // La donna volta indietro il cavallo e per il bosco lo lancia in corsa a briglia sciolta; più per la sgombra che per la fitta boscaglia non va cercando la via migliore e più sicura, perché pallida, tremante, e fuori di sé, lascia che sia il cavallo a frasi strada da solo. L’animale da ogni parte, nell’inospitale foresta, tanto vagò che infine giunse alla riva di un fiume. // In riva al fiume trovò Ferraù tutto impolverato e sudato. Poco prima lo aveva tolto dalla battaglia un grande desiderio di bere e di riposarsi; e poi, contro la sua volontà, lì si dovette fermare, perché, nella fretta di bere, lasciò cadere nel fiume il proprio elmo ed ancora non era riuscito a ritrovarlo. // Sopraggiunse, gridando quanto più poteva la donzella spaventata. Udita la voce, il Saracino salta sulla riva la guarda attentamente in viso e subito riconosce che chi sta arrivando al fiume, nonostante fosse pallida e turbata dalla paura e fossero passati più giorni dall’ultima volta che ne ebbe notizia, era senza dubbio la bella Angelica. // Essendo di indole gentile e forse avendo anche l’animo infiammato non meno dei due cugini, porse a lei tutto l’aiuto che era in grado di dare, come se avesse riavuto l’elmo, temerario e spavaldo: sguainò la spada e corse minaccioso verso Rinaldo, che in realtà non era per niente intimorito da lui. Più volte si era già non solo visti, ma anche scontrati con le armi.

Abbiamo qui sia il proemio che l’incipit del poema stesso. Nel primo vi è la scansione classica: presentazione dell’argomento, invocazione e dedica. Ma Ariosto stravolge queste parti classiche di ogni poema. Vediamo come:

  • l’argomento presenta il tema bellico ed il sentimentale che vengono strutturati attraverso un doppio chiasmo in cui è evidente che tale figura retorica vuole indicarci la varietà e l’intrecciarsi delle vicende:

         le donne                                  i cavalier

        l’arme                                      gli amori

                       le cortesie                                l’audaci imprese

  • l’invocazione viene abbassata a tal punto che non si parla più né di figure celesti né di altissime figure pagane il cui compito è quello d’ispirare l’alto compito che il poeta deve elaborare, ma la semplice sua compagna che ama talmente tanto da poter finire “pazzo” come Orlando;
  • La dedica è dedicata ad Ippolito d’Este, cardinale a cui egli presta servizio, ma non pare così interessato, tra le sue mille attività d’uomo di mondo e di chiesa, come ci ha fatto intendere già nelle Satire.

Quindi dopo avercelo presentato, il poeta, molto “umilmente” inizia il poema proprio dove Boiardo l’aveva cominciato e con un sunto estremamente veloce ci dice cosa nell’Orlando Innamorato si era raccontato: il paladino Orlando, tornato a Parigi dalla guerra vittoriosa in Oriente con la bella Angelica, figlia del re del Catai, si scontra con Rinaldo per la conquista della bella giovane. Re Carlo ne approfitta per prometterla in premio a chi si mostrerà più valoroso nella lotta contro i Saraceni e intanto l’affida in custodia al duca di Baviera Namo. Attraverso questo modo Ariosto non inizia il suo poema, ma continua il precedente; cioè, egli struttura un vero e proprio non inizio, in quanto vuole che il suo lavoro abbia una struttura “aperta”. Quindi parte in medias res, con la fuga d’Angelica, inseguita a piedi da Rinaldo, che aveva smarrito il cavallo, fino a che giunge ad un rivo dove vi è il soldato Ferraù, che cerca un elmo che gli era caduto. Alle grida della fanciulla si volge e riconosciutala, poiché anche a lui piaceva immensamente, la difende contro Rinaldo che intanto sopraggiungeva. Fra i due sorge un epico duello, di cui Angelica approfitta ridandosi alla fuga. Allora Rinaldo, accortosi dell’assenza della fanciulla, propone una tregua al rivale, affinché, solo dopo averla riacciuffata, si possa fra di loro stabilire chi la dovrà possedere. Tale proposta viene accettata da Ferraù di buon grado, che, essendo assai cortese, non lascia che il suo avversario rimanga a piedi, e caricatolo nel suo cavallo, insieme vanno all’inseguimento d’Angelica.

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Ida Saitta: Orlando alla corte del re Carlo

RIFLESSIONI D’AUTORE 1
(I, 22-23) 

Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!
Eran rivali, eran di fé diversi,
e si sentian degli aspri colpi iniqui
per tutta la persona anco dolersi;
e pur per selve oscure e calli obliqui
insieme van senza sospetto aversi.
Da quattro sproni il destrier punto arriva
ove una strada in due si dipartiva. 

E come quei che non sapean se l’una
o l’altra via facesse la donzella
(però che senza differenza alcuna
apparia in amendue l’orma novella),
si messero ad arbitrio di fortuna,
Rinaldo a questa, il Saracino a quella.
Pel bosco Ferraù molto s’avvolse,
e ritrovossi al fine onde si tolse.

Oh gran bontà dei cavalieri antichi! Erano rivali, parlavano una diversa lingua, si sentivano dei duri colpi crudeli ancora dolere tutto il corpo; eppure per boschi oscuri e sentieri tortuosi vanno insieme senza temersi tra loro. Da quattro speroni punto, il destriero arriva ad un bivio. // E come quelli che non sapevano se l’una o l’altra via avesse imboccato la donzella (poiché senza alcuna differenza, su entrambi i sentieri l’impronta appariva fresca, recente) misero la propria sorte nelle mani della fortuna. Rinaldo per questo sentiero, il saracino per quello. Per il bosco Ferraù molto s’aggirò ad alla fine si ritrovò al punto di partenza.

Ci troviamo qui di fronte a dei procedimenti che ricorreranno moltissimo nel poema:

  • Intervento dell’autore: con esso Ariosto pratica un abbassamento e “modernizzazione”: ciò avviene nello “svelamento” della favola, così come la presenta nel duello, descritto in modo “altisonante ed eroico”, ma anche una riflessione amara sull’odio che percorre l’intera penisola con le guerre del primo Cinquecento;
  • Concetto di biforcazione: i due cavalieri si trovano di fronte ad un bivio; attraverso questa tecnica, Ariosto introduce il tema della simultaneità e quindi, narrativamente, il bisogno dell’intreccio presente nell’opera (racconto un episodio, che poi interrompo, perché voglio raccontarvi cosa nel frattempo succede in un altro episodio e via discorrendo);
  • Concetto di circolarità: Ferraù si ritrova nel luogo in cui era partito: è un concetto collegato al precedente, quello dell’intreccio. Se quest’ultimo non mi può offrire una linea verticale della narrazione, basato sul prima e sul poi, mi darà viceversa un aspetto circolare in cui le cose tornano al punto stesso in cui erano.

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Immagine che mostra Ferraù ed Argalia per un’edizione genovese dell’Orlando Furioso (XVI sec.)

Riprendendo la narrazione Ferraù si ritrova nel fiume a ricercare l’elmo. Ma mentre tenta il terreno sotto l’acqua esce il fantasma d’Argalia (fratello di Angelica) con l’elmo tra le braccia che rimprovera al cavaliere di non averglielo restituito come aveva promesso quando l’aveva ucciso. Ne cercasse un altro, come quelli di Rinaldo ed Orlando, altrimenti lui non ne avrà più. Vergognandosi molto, Ferraù così decide. Rinaldo intanto vede il suo cavallo. Angelica capisce che lui è vicino e ricomincia la fuga.

FUGA D’ANGELICA
(I, 33-45)

Fugge tra selve spaventose e scure,
per lochi inabitati, ermi e selvaggi.
Il mover de le frondi e di verzure,
che di cerri sentia, d’olmi e di faggi,
fatto le avea con subite paure
trovar di qua di là strani viaggi;
ch’ad ogni ombra veduta o in monte o in valle,
temea Rinaldo aver sempre alle spalle.

Qual pargoletta o damma o capriuola,
che tra le fronde del natio boschetto
alla madre veduta abbia la gola
stringer dal pardo, o aprirle ’l fianco o ’l petto,
di selva in selva dal crudel s’invola,
e di paura trema e di sospetto:
ad ogni sterpo che passando tocca,
esser si crede all’empia fera in bocca.

Quel dì e la notte a mezzo l’altro giorno

s’andò aggirando, e non sapeva dove.
Trovossi al fin in un boschetto adorno,
che lievemente la fresca aura muove.
Duo chiari rivi, mormorando intorno,
sempre l’erbe vi fan tenere e nuove;
e rendea ad ascoltar dolce concento,
rotto tra picciol sassi, il correr lento.

Quivi parendo a lei d’esser sicura
e lontana a Rinaldo mille miglia,
da la via stanca e da l’estiva arsura,
di riposare alquanto si consiglia:
tra’ fiori smonta, e lascia alla pastura
andare il palafren senza la briglia;
che di fresca erba avean piene le sponde.

Ecco non lungi un bel cespuglio vede

di prun fioriti e di vermiglie rose,
che de le liquide onde al specchio siede,
chiuso dal sol fra l’alte querce ombrose;
così voto nel mezzo, che concede
fresca stanza fra l’ombre più nascose:
e la foglia coi rami in modo è mista,
che ’l sol non v’entra, non che minor vista.

Dentro letto vi fan tenere erbette,
ch’invitano a posar chi s’appresenta.
La bella donna in mezzo a quel si mette,
ivi si corca ed ivi s’addormenta.
Ma non per lungo spazio così stette,
che un calpestio le par che venir senta:
cheta si leva e appresso alla riviera
vede ch’armato un cavallier giunt’era.

Se gli è amico o nemico non comprende:
tema e speranza il dubbio cor le scuote;
e di quella aventura il fine attende,
né pur d’un sol sospir l’aria percuote.
Il cavalliero in riva al fiume scende
sopra l’un braccio a riposar le gote;
e in un suo gran pensier tanto penètra,
che par cangiato in insensibil pietra.

Pensoso più d’un’ora a capo basso
stette, Signore, il cavallier dolente;
poi cominciò con suono afflitto e lasso
a lamentarsi sì soavemente,
ch’avrebbe di pietà spezzato un sasso,
una tigre crudel fatta clemente.
Sospirante piangea, tal ch’un ruscello
parean le guance, e ’l petto un Mongibello.

«Pensier (dicea) che ’l cor m’agghiacci ed ardi,
e causi il duol che sempre il rode e lima,
che debbo far, poi ch’io son giunto tardi,
e ch’altri a corre il frutto è andato prima?
a pena avuto io n’ho parole e sguardi,
ed altri n’ha tutta la spoglia opima.
Se non ne tocca a me frutto né fiore,
perché affligger per lei mi vuo’ più il core?

La verginella è simile alla rosa,
ch’in bel giardin su la nativa spina
mentre sola e sicura si riposa,
né gregge né pastor se le avvicina;
l’aura soave e l’alba rugiadosa,
l’acqua, la terra al suo favor s’inchina:
gioveni vaghi e donne inamorate
amano averne e seni e tempie ornate.

Ma non sì tosto dal materno stelo

rimossa viene e dal suo ceppo verde,
che quanto avea dagli uomini e dal cielo
favor, grazia e bellezza, tutto perde.
La vergine che ’l fior, di che più zelo
che de’ begli occhi e de la vita aver de’,
lascia altrui corre, il pregio ch’avea inanti
perde nel cor di tutti gli altri amanti.

Sia vile agli altri, e da quel solo amata
a cui di sé fece sì larga copia.

Ah, Fortuna crudel, Fortuna ingrata!
trionfan gli altri, e ne moro io d’inopia.
Dunque esser può che non mi sia più grata?
dunque io posso lasciar mia vita propia?
Ah più tosto oggi manchino i dì miei,
ch’io viva più, s’amar non debbo lei!»

Se mi domanda alcun chi costui sia,
che versa sopra il rio lacrime tante,
io dirò ch’egli è il re di Circassia,
quel d’amor travagliato Sacripante;
io dirò ancor, che di sua pena ria
sia prima e sola causa essere amante,
è pur un degli amanti di costei:
e ben riconosciuto fu da lei.

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Carlo Jacono: La fuga di Angelica (1957)

Fugge tra spaventosi ed oscuri boschi, per luoghi inabitati, selvaggi e solitari. Il rumore provocato dal movimento dei rami e dalla vegetazione di querce, olmi e faggi, che Angelica sentiva, causa le improvvise paure, le avevano fatto intraprendere insoliti sentieri da ogni parte; perché ogni ombra che vedeva sui monti o nelle valli, le facevano temere di avere ancora alle spalle Rinaldo. // Come un cucciolo di daino o capriolo, che tra i rami del boschetto nel quale è nato abbia visto la gola della madre dal morso del leopardo stretta, o che le squarcia il petto od il fianco, scappa dall’animale crudele di bosco in bosco e trema per la paura e per il sospetto della sua presenza: per ogni cespuglio che tocca al proprio passaggio crede di essere già in bocca alla belva crudele. // Quel giorno, la stessa notte e per metà del giorno seguente vagò senza sapere dove stesse andando. Venne a trovarsi infine in un boschetto leggiadro, mosso delicatamente da un vento fresco. Due ruscelli trasparenti, riempiendo l’aria del loro gorgoglio, consentono la presenza sempre dell’erba e la sua crescita; e rendevano piacevole da ascoltare la dolce armonia, interrotta solo tra piccoli sassi, dal loro scorrere lento. // Qui, credendo di essere al sicuro e lontana mille miglia da Rinaldo, per lo stancante tragitto ed il caldo estivo decide di riposare per un po’ tempo: scende da cavallo tra i fiori e lascia andare a nutrirsi, senza briglia, libero, il proprio destriero; l’animale vaga quindi nei dintorni dei ruscelli, che avevano piene le rive di fresca erba. // Non lontano da sé Angelica scorge un bel cespuglio, fiorito di biancospini e di rose rosse, che si specchia nelle onde limpide dei ruscelli ed è riparato dal sole dalle alte querce ombrose; vuoto nel mezzo, così da concedere fresco giaciglio tra le ombre più nascoste: le sue foglie ed i suoi rami sono talmente intrecciati che non passa il sole, e nemmeno la vista dell’uomo, meno penetrante. // L’erbetta morbida crea un letto all’interno del cespuglio, invitando a stendersi sopra chi vi giunge. La bella donna si mette in mezzo al cespuglio, lì si corica e quindi si addormenta. Ma non rimane lì addormentata molto tempo, che le sembra di sentire avvicinarsi un rumore di calpestio: si solleva piano piano e presso la riva di un ruscello vede essere giunto un cavaliere armato. // Angelica non riesce a capire se gli è amico o nemico: il timore e la speranza le scuotono il suo cuore dubbioso; attende che quella avventura giunga ad un termine senza emettere neanche un solo sospiro. Il cavaliere si siede in riva al ruscello reggendosi la testa con un braccio; e viene tanto rapito dai propri pensieri, al punto che, immobile, sembra essersi mutato in insensibile pietra. // Assorto dai propri pensieri, con il capo basso, per più di un’ora stette, cardinale Ippolito, il cavaliere abbattuto; dopo di ché cominciò con un la-mento afflitto e dolente a lamentarsi in modo tanto struggente, che avrebbe infranto un sasso per pietà, una crudele tigre fatta misericordiosa. Piangeva tra i sospiri, tanto che un ruscello sembrava scorrergli sulle guance ed il petto un vulcano infuocato. // Diceva: «Pensiero che mi ghiaccia ed arde il cuore, e causa del dolore che sempre lo consuma, che ci posso fare se sono giunto tardi ed altri, arrivati prima, hanno già colto il frutto (Angelica)? Ho ricevuto a stento i suoi sguardi e parole, altri hanno invece ricevuto tutto il ricco bottino. Se a me non spettano né il frutto né il fiore, perché per lei voglio ancora tormentare il mio cuore? // La vergine è simile ad una rosa, che in un bel giardino, sul rovo che l’ha generata, si riposa finché è sola ed al sicuro, e né gregge né pastore le si avvicinano; la brezza delicata e la rugiada del mattino, l’acqua e la terra si inchinano davanti al suo fascino: giovani amanti e donne innamorate amano ornarsi il collo e la testa di lei, la rosa. // Ma non appena dallo stelo materno e dal ceppo verde del cespuglio viene staccata, quanto aveva per gli uomini e per il cielo fascino, grazia e bellezza, tutto perde. La vergine che il proprio fiore, del quale deve avere cura più che dei propri begli occhi e della propria vita, lascia cogliere ad altra persona, perde l’ammirazione che poco prima aveva nel cuore di tutti i propri amanti. // Diviene di scarso valore agli occhi degli altri, ed amata solo da colui al quale fece così grande dono di sé. Ah, fortuna crudele, fortuna ingiusta! Gli altri godono mentre io muoio di stenti. Non potrebbe allora essermi lei meno cara? Non potrei forse abbandonare la mia propria vita? Ah, che io muoia oggi stesso piuttosto che vivere più a lungo, se non dovessi amare lei!». // Se qualcuno mi domandasse chi sia questo cavaliere, che versa così tante lacrime sopra il torrente, io risponderò che lui è il re di Circassia, Sacripante, tormentato dall’amore; dirò ancora che della sua pena, grave da sopportare, la prima e sola causa è l’amare una donna, ed è proprio uno degli amanti di Angelica: è subito fu infatti da lei riconosciuto.

Qui Ariosto tocca due tecniche estremamente presenti nella cultura classica e quindi riprese nell’età rinascimentale: l’aspetto dell’elegia e del locus amoenus; infatti la selva in cui fugge Angelica, oltre a richiamare Dante, riflette lo stato ansioso della fanciulla; mentre il prato in cui ella trova riposo rimanda ad echi petrarcheschi, in cui egli idealizzava la sua amata Laura. Ma è proprio qui che egli crea il contrasto ironico: al piacevole e perfetto posto in cui trova riposo la fanciulla, fa da contrasto l’atteggiamento malinconico di Sacripante; alla bellezza e purezza d’Angelica, fa da contrasto la certezza che Orlando, nel portarla da Oriente a Parigi, l’abbia sverginata ed una donna, cui è stato colto il frutto, perde d’ogni qualità. Così pensa lui. Angelica che ha sentito il suo lamento e che, vistosi sola, una compagnia per tornare al suo paese l’avrebbe voluta volentieri, ma senza compromettersi, si svela al re e, per meglio convincerlo, afferma d’esser ora vergine così come Dio l’ha fatta.

RIFLESSIONI D’AUTORE 2
(I, 56) 

Forse era ver, ma non però credibile
a chi del senso suo fosse signore;
ma parve facilmente a lui possibile,
ch’era perduto in via più grave errore.
Quel che l’uom vede, Amor gli fa invisibiIe,
e l’invisibil fa vedere Amore.
Questo creduto fu; che ’l miser suole
dar facile credenza a quel che vuole.

Forse era vero ciò che diceva, ma non era però credibile a chi fosse padrone della propria ragione; ma parve facilmente possibile a Sacripante, che aveva commesso un ben più grave errore, innamorandosi. Quel che l’uomo potrebbe vedere, l’amore gli nasconde, e ciò che non sarebbe visibile viene fatto vedere dall’amore. Il racconto fu creduto; poiché l’uomo misero è solito credere troppo facilmente a ciò che ha bisogno di credere.

E’ evidente qui l’ironia di Ariosto, che tuttavia nasconde riflessioni sulla realtà umana e sulla sua debolezza; in primo luogo il solito contrasto tra apparenza e realtà, tra forma idealizzata e forma concreta: la bella Angelica (tale anche nel nome) non è che una furba ragazza; dall’altra, più con saggezza che con ironia, la constatazione di un aspetto dell’amore che crea bugie nella nostra mente, ma alle quali non sappiamo opporci. Ma Sacripante, ben pensandoci, riflette che se Orlando è stato così stupido da non approfittare della presenza di una così splendida fanciulla, ci penserà ben lui a farle provare la dolcezza dell’amore. Mentre si prepara al dolce assalto vede giungere un cavaliere, completamente bianco: estremamente arrabbiato perché lo ha interrotto sul più bello, lo sfida subito a duello. Monta sul cavallo e, dopo l’assalto, rimane disarcionato:

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Giuseppe Bergomi: Angelica che fugge (2014)

DA RE A UOMO
(I, 63-64) 

Già non fero i cavalli un correr torto,
anzi cozzaro a guisa di montoni:
quel del guerrier pagan morì di corto,
ch’era vivendo in numero de’ buoni:
quell’altro cadde ancor, ma fu risorto
tosto ch’al fianco si sentì gli sproni.
Quel del re saracin restò disteso
adosso al suo signor con tutto il peso. 

L’incognito campion che restò ritto,
e vide l’altro col cavallo in terra,
stimando avere assai di quel conflitto,
non si curò di rinovar la guerra;
ma dove per la selva è il camin dritto,
correndo a tutta briglia si disserra;
e prima che di briga esca il pagano,
un miglio o poco meno è già lontano.

I due cavalli, uno di fronte all’altro, non deviarono in corsa, anzi si scontrarono violentemente tra loro come fanno i montoni: il cavallo di Sacripante morì sul colpo, pur potendo essere annoverato, da vivo, tra i buoni destrieri: anche l’altro cadde a terra, ma si rialzò non appena sentì pungere al suo fianco gli speroni. Quello del re saracino restò disteso, tendendo schiacciato con il proprio peso il padrone. // Il misterioso campione che rimase dritto a cavallo, e vide l’altro cavaliere in terra con il cavallo, ritenendo di avere avuto sufficiente trionfo da quel conflitto, non ritenne necessario rinnovare il combattimento; là dove, attraverso la selva, il sentiero è dritto, si lancia invece al galoppo; e prima che il pagano riesca a liberarsi dall’impaccio, si è già allontanato di un miglio o poco meno.

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Immagine per il 1° canto del Furioso

E’ questo quello che si definisce l’“abbassamento” ariostesco: da re a uomo profondamente turbato per la vergogna d’esser stato disarcionato e gettato a terra di fronte alla donna che un attimo prima pensava di far sua. Ma ad acuire la vergogna di Sacripante è la notizia che a batterlo è stata una donna, Bradamante, anch’ella in cerca del suo Ruggero. Quindi Angelica prende il re sul proprio cavallo, e s’incammina. Di lontano riconosce Baiardo, cavallo di Rinaldo, ma a lei legato (Spiega Calvino: “Come mai Baiardo, così fedele, gli era scappato? Non tarderemo a comprendere che questa fuga – da cui a ben vedere, si scatenano tutte le vicissitudini dell’Orlando furioso – era una straordinaria prova di fedeltà e intelligenza. Per servire il suo padrone innamorato, Baiardo s’era messo di sua iniziativa sulle tracce di Angelica, di modo che Rinaldo, correndo dietro al destriero, avrebbe trovato la sua bella. Se si lasciava montare dal padrone, sarebbe stato il padrone a dirigerlo, come sempre avviene ad ogni cavallo; fuggendo è Baiardo a dirigere Rinaldo. Questo Baiardo, così corposamente cavallo, tende a sconfinare dalla natura equina, proprio perché vuole essere un cavallo ideale”). Il saraceno cerca di cavalcarlo, ma viene allontanato e si mostra solamente grato ad Angelica. Mentre i due lasciano il cavallo precedente e montano su questo, assai più forte, riappare Rinaldo. Sacripante si fa raggiungere, e si accinge a sostenere un duello, per vendicare l’offesa di ladro di cavallo e di donna lanciatagli da Rinaldo, ma mentre cominciano a combattere, Angelica stringe le briglia e fugge.

Quel che si seguì tra questi due superbi
vo’ che per l’altro canto si riservi.

Quello che seguì tra questi due superbi, voglio che sia riservato per il prossimo canto.

E’ questa la tecnica della dilazione: si è già mostrato come Ariosto tenda a non chiudere le vicende, per il concetto della contemporaneità, in cui tutto avviene in un tempo e tutto ad un tempo dev’essere seguito. Ma anche per esercitare la curiosità del lettore, facendo terminare il canto nel momento topico in cui si prepara un duello, per differire l’esito del duello stesso nel canto successivo. Un altro elemento caratterizzante il primo e quindi l’intero poema è il concetto della queste (ricerca): tutto l’episodio è costellato da Rinaldo che cerca Angelica, Ferraù l’elmo, Angelica un accompagnatore, Bradamante Ruggiero, senza ottenerlo. Ma vedremo spesso che chi cerca è a sua volta cercato e a quale destino porterà la ricerca esasperata.

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Bradamante e Pinabello

Il canto II si apre con il duello tra Sacripante e Rinaldo, e Angelica, vista la forza del cavaliere francese, e temendo di divenire sua prigioniera, approfitta della situazione e fugge a cavallo nel bosco. Qui incontra un eremita, il quale, con un incantesimo, evoca uno spirito, che interrompe il duello tra i due contendenti comunicando loro che Angelica è intanto fuggita a Parigi con Orlando. Rinaldo monta subito Baiardo, lascia a piedi Sacripante, e si precipita a Parigi. Nel frattempo re Carlo, sconfitto in battaglia, si era ritirato a Parigi con i propri soldati e si apprestava ai preparativi necessari per sostenere l’imminente assedio e quindi dà ordine a Rinaldo di partire immediatamente per l’Inghilterra per chiedere soccorsi. Rinaldo, malvolentieri parte, ma deve affrontare una bufera. Bradamante, sua sorella, continua la ricerca di Ruggiero finché giunge ad un torrente dove incontra un cavaliere che, disperato ed in lacrime, le racconta che un uomo in groppa ad un cavallo alato, l’ippogrifo, era sceso dal cielo ed aveva rapito la sua amante. Inseguendolo era arrivato ai piedi di una roccia dove aveva visto un castello luminoso dimora del mago Atlante, irraggiungibile se non a piedi. Anche il re Gradasso e Ruggiero, andati a misurarsi con lui, vengono quindi subito fatti prigionieri. E’ questo cavaliere Pinabello, discendente dei Maganza, famiglia nemica di Bradamante, ma, per il momento, lei non lo sa e ancora all’oscuro della sua identità gli chiede di essere condotta al castello. Pinabello apprende, per un messaggero, che la sua compagna di viaggio discende dal casato dei Chiaromonte, suo acerrimo nemico, e progetta quindi o di tradire o di abbandonare la giovane alla prima possibilità. Così preso dal pensiero del tradimento, Pinabello smarrisce però la strada ed i due si trovano infine in un bosco, dove Pinabello, con uno stratagemma fa precipitare Bradamante sul fondo di una caverna, che non muore, ma rimane priva di sensi per molto tempo.

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Melissa evoca gli spiriti e mostra a Bradamante la dinastia estense 

Il canto III si apre con Pinabello che si allontana dalla caverna con il cavallo di Bradamante, convinto d’averla uccisa. Invece lei si riprende, ed entra attraverso la roccia in una caverna molto ampia, con al centro un altare. Entra nella stessa caverna anche una altra donna, chiama Bradamante per nome, e le dice di trovarsi nella tomba del mago Merlino e che le era stata annunciata la sua venuta dallo stesso mago, la cui voce può essere ancora ascoltata. La maga Melissa conduce la donna verso il sepolcro e subito la voce del mago si rivolge a lei profetizzando il suo matrimonio con Ruggiero, nonostante gli interventi del mago Atlante, e quindi la gloria a cui saranno destinati tutti i loro discendenti. Quindi le mostra le immagini dei suoi illustri discendenti della famiglia d’Este (momento encomiastico). Spariti gli spiriti Melissa promette a Bradamante di condurla fuori dal bosco e di indirizzarla poi verso il castello di Atlante, dove Ruggiero è tenuto prigioniero. Durante il viaggio la maga sollecita Bradamante a correre in soccorso del suo amato e, per vincere gli incantesimi d’Atlante le racconta che un certo Brunello ha con sé un anello magico in grado di annullare ogni incantesimo. Quindi la indirizza ad un ostello dove lo incontrerà per farsi accompagnare al castello dove dovrà ucciderlo senza pietà, prima che lui possa infilarsi in bocca l’anello e sparire. Quindi Bradamante si incammina, raggiunge l’albergo e conosce Brunello. I due stanno parlando insieme, quando sentono un forte rumore.

Il canto IV inizia così:

L’APPARIZIONE DI ATLANTE
(IV, 1-8)

Quantunque il simular sia le più volte
ripreso, e dia di mala mente indici,
si trova pur in molte cose e molte
aver fatti evidenti benefici,
e danni e biasmi e morti aver già tolte;
che non conversiam sempre con gli amici
in questa assai più oscura che serena
vita mortal, tutta d’invidia piena.

Se, dopo lunga prova, a gran fatica
trovar si può chi ti sia amico vero,
ed a chi senza alcun sospetto dica
e discoperto mostri il tuo pensiero;
che de’ far di Ruggier la bella amica
con quel Brunel non puro e non sincero,
ma tutto simulato e tutto finto,
come la maga le l’avea dipinto?

Simula anch’ella; e così far conviene
con esso lui di finzioni padre;
e, come io dissi, spesso ella gli tiene
gli occhi alle man, ch’eran rapaci e ladre.
Ecco all’orecchie un gran rumor lor viene.
Disse la donna: «O gloriosa Madre,
o Re del ciel, che cosa sarà questa?»
E dove era il rumor si trovò presta.

E vede l’oste e tutta la famiglia,

e chi a finestre e chi fuor ne la via,
tener levati al ciel gli occhi e le ciglia,
come l’ecclisse o la cometa sia.
Vede la donna un’alta maraviglia,
che di leggier creduta non saria:
vede passar un gran destriero alato,
che porta in aria un cavalliero armato.

Grandi eran l’ale e di color diverso,
e vi sedea nel mezzo un cavalliero,
di ferro armato luminoso e terso;
e ver ponente avea dritto il sentiero.
Calossi, e fu tra le montagne immerso:
e, come dicea l’oste (e dicea il vero),
quel era un negromante, e facea spesso
quel varco, or più da lungi, or più da presso.

Volando, talor s’alza ne le stelle,
e poi quasi talor la terra rade;
e ne porta con lui tutte le belle
donne che trova per quelle contrade:
talmente che le misere donzelle
ch’abbino o aver si credano beltade
(come affatto costui tutte le invole)
non escon fuor sì che le veggia il sole.

«Egli sul Pireneo tiene un castello
(narrava l’oste) fatto per incanto,
tutto d’acciaio, e sì lucente e bello,
ch’altro al mondo non è mirabil tanto.
Già molti cavallier sono iti a quello,
e nessun del ritorno si dà vanto:
sì ch’io penso, signore, e temo forte,
o che sian presi, o sian condotti a morte».

La donna il tutto ascolta, e le ne giova,
credendo far, come farà per certo,
con l’annello mirabile tal prova,
che ne fia il mago e il suo castel deserto;
e dice a l’oste: «Or un de’ tuoi mi trova,
che più di me sia del viaggio esperto;
ch’io non posso durar: tanto ho il cor vago
di far battaglia contro a questo mago».

Sebbene il fingere la maggior parte delle volte venga rimproverato, e fornisca anche indizio di mente malvagia, si può comunque vedere come in molte situazioni abbia anche portato evidenti benefici, evitando danni, critiche ed anche morti; perché non abbiamo a che fare sempre con amici in questa nostra vita mortale, molto più scura che serena, sempre piena di invidia. // Se, dopo lunghi tentativi, molta fatica, si riesce a trovare una persona che possa essere un vero amico, alla quale, senza avere sospetti, si possa dire e rendere quindi chiaro il nostro pensiero; che deve fare allora Bradamante, la bella amante di Ruggiero, con quel Brunello che non è né puro né sincero, ma è invece maestro di simulazione e di finzione, così come la maga glielo aveva descritto? // Anche lei finge; e conviene fare così trattando con lui, che è il padre della menzogna; e, come vi ho già raccontato, spesso lei getta lo sguardo sulle mani di lui, che erano avide e da ladro. All’improvviso giunge al loro orecchio un forte rumore. Chiede allora la donna: «Oh Madre gloriosa, oh Re del cielo, che cosa è questa cosa?» E rapidamente raggiunge il punto da cui proviene il rumore. // E vede così l’oste e tutta la servitù, chi dalle finestre e chi all’aperto, lungo la strada, tenere fissi gli occhi verso il cielo come se ci fosse l’eclisse o il passaggio di una cometa. Bradamante vede una cosa incredibile, che non sarebbe stato possibile credere facilmente: vede passare un grande cavallo alato, che porta in giro per il cielo un cavaliere armato. // Le sue ali sono grandi e multicolore, e si può vedere in mezzo a loro un cavaliere, con indosso una armatura luminosa e limpida; e si dirige verso ovest. Scende di quota e sparisce quindi tra le montagne: e, come dice l’oste (e dice una cosa vera), quel cavaliere è un mago, e passa spesso da là, a volte da più lontano altre da più vicino. // In volo, a volte va tanto in alto sino alle stelle, e poi scende quasi fino a toccare terra; e porta sempre con sé tutte le belle donne che riesce a trovare in quei paesini: a tal punto che le povere ragazze che sono o si credono belle (come se il mago le rapisse proprio tutte) non escono mai di casa, non escono alla luce del sole. // «Il mago possiede un castello sui Pirenei (racconta l’oste) costruito con un incantesimo, tutto in acciaio, ed è così bello e lucente, che non ne esiste al mondo uno tanto meraviglioso. Molti cavalieri sono già andati fino a questo castello, ma nessuno di loro può vantarsi di essere anche poi tornato: tanto che io credo, signore, e temo anche molto, o che siano stati fatti prigionieri, o che siano stati uccisi.» // La donna ascolta tutto il racconto, e se ne compiace, pensando già di affrontare, come è sicuro che farà, tale impresa con l’aiuto dell’anello magico, sino a sconfiggere il mago e distruggere il castello; e dice quindi all’oste: «Trovami ora uno dei tuoi servitori, che conosca quale strada occorre seguire; perché non posso rimanere più a lungo, essendo il mio cuore tanto desideroso di scontrarsi contro questo mago.»

In questo passo appare evidente come, su suggestione del ciclo bretone (quello relativo alla corte di re Artù) il nostro lasci libero sfogo all’elemento fantastico. Esso tuttavia non elude la capacità ariostesca di filosofeggiare sulla stregua certamente machiavelliana sulla necessità della finzione se essa porta ad un buon fine. Era certamente un tema assai dibattuto tra gli intellettuali del ‘500, che tuttavia fa già presagire un clima diverso, meno solare di quanto la critica abbia voluto inquadrare il Rinascimento.  Ciò rende il poema dell’autore ferrarese ricco di questa incredibile oscillazione tra riflessione morale, contemporanea, come questa sull’opportunità di fingere, se si è circondati dalla falsità degli uomini, e la necessità puramente edonistica della narrazione com’è appunto l’apparizione dell’ippogrifo.

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Brunello legato ad un albero da Bradamante che gli ruba l’anello magico

Il barone Brunello cade nella trappola, si offre subito come guida e il mattino dopo partono insieme. Giungono quindi ai piedi del dirupo, sui monti Pirenei, in cima al quale sorge la fortezza di Atlante. Bradamante capisce che è il momento di uccidere la propria guida per impossessarsi dell’anello, ma non vuole commettere un atto vile, e lo immobilizza legandolo ad un albero, riuscendo così ad impadronirsene senza spargere sangue. Giunta sotto la torre, suona il proprio corno e chiama alla battaglia il mago.

IL DUELLO TRA BRADAMANTE E ATLANTE
(IV 16-24)

Non stette molto a uscir fuor de la porta
l’incantator, ch’udì ’l suono e la voce.
L’alato corridor per l’aria il porta
contra costei, che sembra uomo feroce.
La donna da principio si conforta;
che vede che colui poco le nuoce:
non porta lancia né spada né mazza,
ch’a forar l’abbia o romper la corazza.

Da la sinistra sol lo scudo avea,
tutto coperto di seta vermiglia;
ne la man destra un libro, onde facea
nascer, leggendo, l’alta maraviglia:
che la lancia talor correr parea,
e fatto avea a più d’un batter le ciglia;
talor parea ferir con mazza o stocco,
e lontano era, e non avea alcun tocco.

Non è finto il destrier, ma naturale,
ch’una giumenta generò d’un Grifo:
simile al padre avea la piuma e l’ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l’altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,

molto di là dagli aghiacciati mari.

Quivi per forza lo tirò d’incanto;

e poi che l’ebbe, ad altro non attese,
e con studio e fatica operò tanto,
ch’a sella e briglia il cavalcò in un mese:
così ch’in terra e in aria e in ogni canto
lo facea volteggiar senza contese.
Non finzion d’incanto, come il resto,
ma vero e natural si vedea questo.

Del mago ogn’altra cosa era figmento,

che comparir facea pel rosso il giallo;
ma con la donna non fu di momento,
che per l’annel non può vedere in fallo.
Più colpi tuttavia diserra al vento,
e quinci e quindi spinge il suo cavallo;
e si dibatte e si travaglia tutta,
come era, inanzi che venisse, istrutta.

E poi che esercitata si fu alquanto

sopra il destrier, smontar volse anco a piede,
per poter meglio al fin venir di quanto
la cauta maga istruzion le diede.
Il mago vien per far l’estremo incanto;
che del fatto ripar né sa né crede:
scuopre lo scudo, e certo si prosume
farla cader con l’incantato lume.

Potea così scoprirlo al primo tratto,
senza tenere i cavallieri a bada;
ma gli piacea veder qualche bel tratto
di correr l’asta o di girar la spada:
come si vede ch’all’astuto gatto
scherzar col topo alcuna volta aggrada;
e poi che quel piacer gli viene a noia,
dargli di morso, e al fin voler che muoia.

Dico che ’l mago al gatto, e gli altri al topo
s’assimigliar ne le battaglie dianzi;
ma non s’assimigliar già così, dopo
che con l’annel si fe’ la donna inanzi.
Attenta e fissa stava a quel ch’era uopo,
acciò che nulla seco il mago avanzi;
e come vide che lo scudo aperse,
chiuse gli occhi, e lasciò quivi caderse.

Non che il fulgor del lucido metallo,
come soleva agli altri, a lei nocesse;
ma così fece acciò che dal cavallo
contra sé il vano incantator scendesse:
né parte andò del suo disegno in fallo;
che tosto ch’ella il capo in terra messe,
accelerando il volator le penne,
con larghe ruote in terra a por si venne.

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Giovan Battista Sirani: Bradamante sconfigge Atlante (1655)

Non aspettò molto prima di uscire dalla porta del castello il mago, avendo ascoltato sia il suono del corno che le grida. Il destriero alato lo porta per aria a combattere contro di lei, che sembra ai suoi occhi un fiero cavaliere. La donna da subito si dà coraggio, vedendo che il suo avversario non può farle molto male: dal momento che non ha né la spada né un bastone ferrato, che le possa forare o rompere la corazza. // Alla sua sinistra aveva con sé solo lo scudo, completamente coperto da un telo di rossa seta; ne la mano destra teneva quindi un libro, dal quale faceva scaturire, leggendo, i suoi prodigiosi incantesimi: così che a volte sembrava combattere con la lancia, e a più di un cavaliere aveva fatto temere di essere colpito; a volte sembrava ferire con la mazza o con una arma corta, ma era in realtà lontano e non aveva colpito nessuno. // Non è invece un incantesimo il cavallo, ma è vero, è opera della Natura, perché nacque da una cavalla e da un grifone: aveva le piume e le ali simili a quelle del padre, e anche le zampe davanti, la testa ed il muso; in tutte le altre parti del corpo era invece tale e quale alla madre, ed il suo nome era Ippogrifo; come ne nascono sui monti Urali, anche che sono rari, molto al di là dei mari ghiacciati. // Il mago lo portò al suo castello grazie ad un incantesimo; e dopo che l’ebbe avuto, non si dedicò a null’altro, ma si impegnò con così grande cura e fatica, che nel giro di un mese riuscì a cavalcarlo con tanto di sella e briglia: così che adesso in terra, in aria, in ogni luogo, lo faceva volteggiare a proprio piacere. Non quindi come la finzione frutto di un incantesimo, come ogni altra cosa, ma vero ed al naturale era visto dalla donna. // Qualunque altra cosa del mago era finzione; che faceva vedere una cosa per un’altra, il rosso al posto del giallo: ma con Bradamante non gli servì però a nulla; poiché, grazie all’anello, non può essere ingannata. Nonostante ciò, lei sferra parecchi colpi a vuoto, finge di combattere, e spinge in giro il proprio cavallo; e si dibatte e si affatica tutta, come le era stato spiegato prima di giungere in quel posto. E dopo essersi esercita a lungo in questa finzione a cavallo, volle anche smontare e continuare a piedi, per poter meglio portare a compimento ciò su cui l’attenta maga Melissa l’aveva istruita. Il mago si avvicinò per fare il suo ultimo incantesimo; poiché né sa né crede possibile che sia stata fatta una difesa; scopre il proprio scudo, e ritiene cosa certa che lei cada a terra a causa del suo bagliore incantato. Avrebbe anche potuto scoprirlo subito, senza dover controllare le mosse dei cavalieri; ma gli piaceva stare a guardare qualche bel colpo dato con la lancia o dal roteare di una spada: così come si può vedere a volte che all’astuto gatto piace scherzare con il topo per piacere; e quando quel piacere gli va a noia, gli dà un morso ed alla fine lo vuole vedere morto. // Dico che il mago somigliava al gatto, e gli altri somigliavano al topo nelle precedenti battaglie; ma questa somiglianza non c’era stata quando, con l’anello, Bradamante si era fatta avanti per sfidarlo. Stava attenta e concentrata nel fare tutto ciò che era necessario affinché il mago non si potesse avvantaggiare nei suoi confronti; e non appena vide che il mago aveva scoperto lo scudo, chiuse subito gli occhi, e si lasciò cadere sul posto. // Non perché il forte bagliore generato dal lucido metallo le avesse fatto male, come era invece solito fare agli altri; ma si lasciò cadere così che da cavallo scendesse ed andasse verso di lei il mago, non efficace nell’occasione: nessuna parte del piano di lei andò storto; perché non appena Bradamante appoggiò a terra la propria testa, dopo aver aumentato il moto delle ali, il cavallo alato atterrò infine seguendo ampie spire.

Segue la narrazione dell’ippogrifo, di Atlante e dell’avversaria Bradamante (si ricordi, donna dalla cui discendenza nasceranno gli Estensi). Ciò che colpisce in questo brano è quasi il capovolgimento ludico a cui deve sottostare il lettore: gli si chiede infatti  di porre l’attenzione su come sia vero ciò che è palesamente falso (l’ippogrifo) e come sia falso ciò che un comune uomo cinquecentesco ritiene vero (l’atteggiamento guerresco di sfida). Appare evidente quindi cosa s’intenda qui per edonismo: il puro gusto di un episodio avventuroso-fantastico; ma ciò non esime il nostro dall’esprimere “caratteristiche umane”: la voglia del mago d’andare a vedere, orgogliosamente, la sua ipotetica vittima, proprio come fa il gatto con il topo (abbassamento).

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Il mago Atlante (tavola di LorCarmi – Fabrizio Carminati) (2018)

Una volta in terra Bradamante lo blocca, vorrebbe ucciderlo, ma vede che Atlante non è che un povero vecchio. Nonostante il mago le chieda di ucciderlo, lei non vi riesce, e gli domanda chi fosse e perché incantasse gli uomini. Così le viene risposto:

ATLANTE RIVELA LA VERITA’
(IV, 30-31)

Non vede il sol tra questo e il polo austrino
un giovene sì bello e sì prestante:
Ruggiero ha nome, il qual da piccolino
da me nutrito fu, ch’io sono Atlante.
Disio d’onore e suo fiero destino
l’han tratto in Francia dietro al re Agramante;
ed io, che l’amai sempre più che figlio,
lo cerco trar di Francia e di periglio.

La bella rocca solo edificai
per tenervi Ruggier sicuramente,
che preso fu da me, come sperai
che fossi oggi tu preso similmente;
e donne e cavallier, che tu vedrai,
poi ci ho ridotti, ed altra nobil gente,
acciò che quando a voglia sua non esca,
avendo compagnia, men gli rincresca.

In tutto il mondo, tra il nostro polo e quello australe, non esiste un altro giovane tanto bello e vigoroso: il suo nome è Ruggiero, e quando era ancora un bambino fu allevato da me, che mi chiamo Atlante. Il desidero di conquistare onore ed anche il suo crudele destino l’hanno convinto a seguire re Agramante sino in Francia; ed io, che l’ho sempre amato più di un figlio, faccio di tutto per allontanarlo dal pericolo e dalla Francia. // Ho costruito questa bella fortezza per mettervi al sicuro il cavaliere Ruggiero, che fu da me fatto prigioniero, allo stesso modo in cui sperai che tu fossi fatto oggi prigioniero; sia donne che cavalieri, come potrai vedere, vi ho rinchiuso, insieme a tanta altra nobile gente, così che anche se non può uscire quando vuole, avendo comunque compagnia, la prigionia non gli arrechi troppo dispiacere.

La capacità dell’Ariosto sta nel lasciare il lettore, insieme, in questo caso, alla protagonista, di fronte al dubbio: vi è in questo nemico che “ruba” uomini e donne, un profondo senso di bontà, il cui fine è quello di salvare Ruggiero da morte certa, o vi è un secondo fine, guidato da reconditi fini suggeriti dal re Saraceno? Fatto sta che Bradamante non gli crede e si dimostra ferma nel volere liberare il proprio amato, lega il mago e si avvia con lui verso il castello scalando la montagna. Giunti in cima Atlante spezza l’incantesimo, si libera da Bradamante e scompare insieme al castello. Tutti i suoi prigionieri, tra i quali re Gradasso, Sacripante e Ruggiero, vengono così a trovarsi liberi all’aria aperta. Bradamante e Ruggiero possono finalmente incontrarsi. Scendono poi tutti insieme a valle dove è l’ippogrifo di Atlante con al fianco lo scudo incantato. Cercano tutti di prendere il cavallo alato ma questo va incontro a Ruggiero. Il cavaliere gli sale in groppa credendo di poterlo condurre, ma il cavallo, per volontà del mago Atlante, prende il volo e scappa lontano con Ruggiero. Bradamante non può fare altro che vedere ancora una volta scomparire il proprio amante. La donna si allontana con Frontin, il cavallo di Ruggiero, intenzionata a restituirlo al legittimo proprietario.

Quindi si torna a Rinaldo, giunto in Scozia:

IL COMPITO D’UN CAVALIERE ERRANTE
(IV, 52-54)

Vanno per quella i cavallieri erranti,
incliti in arme, di tutta Bretagna,
e de’ prossimi luoghi e de’ distanti,
di Francia, di Norvegia e de Lamagna.
Chi non ha gran valor, non vada inanti;
che dove cerca onor, morte guadagna.
Gran cose in essa già fece Tristano,
Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano,

ed altri cavallieri e de la nuova
e de la vecchia Tavola famosi:
restano ancor di più d’una lor pruova
li monumenti e li trofei pomposi.
L’arme Rinaldo e il suo Baiardo truova,
e tosto si fa por nei liti ombrosi,
ed al nochier comanda che si spicche
e lo vada aspettar a Beroicche.

Senza scudiero e senza compagnia
va il cavallier per quella selva immensa,
facendo or una ed or un’altra via,
dove più aver strane aventure pensa.
Capitò il primo giorno a una badia,
che buona parte del suo aver dispensa
in onorar nel suo cenobio adorno
le donne i cavallier che vanno attorno.

Vanno alla sua ricerca i cavalieri erranti, famosi nell’esercizio delle armi, di tutta la Bretagna, delle regioni vicine ed anche di quelle lontane, della Francia, della Norvegia e della Germania. Chi non ha un grande valore in questa arte, non proceda oltre; perché in quel luogo dove cerca l’onore, può trovare solo la morte. Lancillotto, Galasso, Artù e Galvano, // ed anche altri cavalieri famosi sia della nuova (di Artù) che della vecchia (del padre di Artù) Tavola Rotonda di più di una loro impresa sono ancora visibili monumenti ed i trofei sfarzosi. Rinaldo riprende le sue armi ed il suo cavallo Baiardo, e subito si fa lasciare sulle spiagge ombrose, ed al capitano della nave ordina di staccarsi dalla costa per andarlo ad aspettare a Berwick. // Senza scudiero al seguito e senza nessuna altra compagnia il cavaliere si avvia all’interno di quell’immenso bosco, seguendo ora uno ed ora un’altro sentiero, dove ritiene di poter avere maggiori probabilità di imbattersi in insolite avventure. Il primo giorno capitò presso una abbazia, che spende buona parte dei suoi averi per rendere onore, poi arriva nel suo bel monastero, alle donne ed ai cavalieri in viaggio per quei luoghi.

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 Evelyn: Ritratto di Rinaldo (per un pupo siciliano) (2017)

Passo di passaggio, ma al contempo fondamentale: viene qui mostrato il compito del cavaliere errante: cercare l’avventura. Ma se tale è il suo destino, esso costituirà un punto fermo per:

  • essere il motore di una narrazione;
  • riaffermare, laddove ce ne fosse bisogno, che il destino dell’uomo sta nella “quete”, nella ricerca.

Rinaldo chiede se ci siano imprese da compiere in quel territorio che possano dare fama ad un cavaliere. Gli viene risposto che la migliore impresa che può compiere consiste nell’andare in aiuto di Ginevra, figlia del re di Scozia, minacciata dal barone Lurcanio, che l’accusa di averla vista insieme ad un amante. Per questo motivo, la donna rischia la condanna al rogo se nessun cavaliere sarà disposto a combattere per lei, sostenendo la sua innocenza. Rinaldo decide quindi di combattere per la salvezza di Ginevra e, vinto il duello, il giorno dopo lascia il monastero insieme ad uno scudiero. Abbandonata la strada maestra per abbreviare il viaggio, i due sentono il pianto di una donna. Corrono in suo aiuto e vedono una donna, bellissima, nelle mani di due malviventi intenzionati a darle la morte. Alla vista di Rinaldo i due si mettono subito in fuga ed il cavaliere riesce così a salvarla.

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Illustrazione della pagina che apre al V° canto in un’edizione della fine XV° secolo

Nel canto V si scopre che la donna è Dalinda, cameriera di Ginevra. Lei rivela di essersi innamorata del duca d’Albania, Polinesso, passando in sua compagnia notti di passione nella camera della sua padrona, quando lei non c’era.

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Rinaldo e Dalinda

Ma il vero interesse del duca è per Ginevra e le aveva quindi chiesto di aiutarlo nei suoi intenti. Al fine di sposarla, goderne i ricchi frutti e mantenere la cameriera come amante. Tuttavia ciò non succede perché lei odia il duca ed è profondamente innamorata di un altro uomo, Ariodante, cavaliere tanto valoroso e già nelle grazie del re. Per lo scacco subito Polinesso ora vuole solo diffamare la donna. Fa vestire Dalinda come Ginevra e si mostra con lei per fare ingelosire Ariodante. Colui non crede che la figlia del re lo tradisca, ma il duca d’Albania gliene vuol dare la prova: quindi lo convince ad appostarsi fuori della stanza di Ginevra e quella sera, come richiesto a Dalinda, si fa accogliere dalla cameriera nelle sue vesti. Ariodante, accompagnato dal fratello Lucarnio, quindi vede la triste scena e per gelosia decide d’uccidersi. Il fratello cerca di dissuaderlo. Egli allora lascia la città, scrivendo il motivo a Ginevra, e, dopo pochi giorni si viene a sapere che si è ucciso gettandosi ad un dirupo. Ora è Lucarnio, che, spinto dall’ira e dal dolore, accusa apertamente Ginevra di essere stata la causa di quella morte e racconta quindi al re ciò che aveva visto quella notte: l’incontro amoroso di lei con un uomo a lui sconosciuto. Si dichiara quindi infine disposto a sostenere con le armi la propria accusa. La legge condanna al rogo una donna accusata di essersi unita con un uomo che non è suo marito, se entro un mese nessun cavaliere prende le sue difese contro l’accusatore. Ginevra è quindi in pericolo di morte.

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Dalinda e Polisseno

Dalinda, per paura che si venga a sapere la verità, scappa e corre ad informare Polinesso. Il duca d’Albania fingendo di volerla mettere al sicuro, decide però di farla uccidere, così da eliminare ogni testimone del suo inganno. L’arrivo di Rinaldo ha però messo in fuga i due assassini e l’ha salvata da morte certa. Rinaldo, che aveva già prima deciso di prendere le difese della donna, ora è ancora più convinto; corre verso la città e scopre che era da poco iniziato il combattimento tra Lucarnio ed un cavaliere sconosciuto, nascosto dal suo elmo, che aveva deciso di combattere per l’innocenza di Ginevra. Rinaldo giunge sul campo di battaglia, convince il re a fermare il combattimento in atto e rende quindi evidente a tutti ciò che era realmente accaduto. Per sostenere la propria accusa, sfida a duello Polinesso e lo sconfigge. Il duca d’Albania sul punto di morte confessa il proprio inganno. Il re chiede infine al cavaliere misterioso di mostrare la sua identità, per essere premiato per il proprio valore mostrato e per le proprie buone intenzioni.

Solo nel canto VI sapremo che il cavaliere misterioso è Ariodante, che sul punto di morte, si era pentito all’ultimo del proprio gesto e si era quindi messo in salvo a nuoto. Giunto in un ostello, aveva appreso della disperazione di Ginevra alla notizia della sua morte e delle pubbliche accuse del fratello. Spinto dal proprio amore per la donna e risentito per il gesto crudele del fratello, aveva così deciso di prendere lui le difese di Ginevra. Il re concede la mano della figlia al cavaliere, dando in regalo agli sposi il ducato di Albania, appena liberatosi. Dalinda ottiene la grazia e “per espiare” si farà monaca.

Ma il racconto torna a Ruggiero che con l’ippogrifo lascia l’Europa, passano le colonne d’Ercole per atterrare infine su un’isola meravigliosa.

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Ruggiero sull’ippogrifo approda sull’isola di Alcina

ASTOLFO NELL’ISOLA DI ALCINA
(VI, 24-35)

E quivi appresso, ove surgea una fonte
cinta di cedri e di feconde palme,
pose lo scudo, e l’elmo da la fronte
si trasse, e disarmossi ambe le palme;
ed ora alla marina ed ora al monte
volgea la faccia all’aure fresche ed alme,
che l’alte cime con mormorii lieti
fan tremolar dei faggi e degli abeti.

Bagna talor ne la chiara onda e fresca
l’asciutte labra, e con le man diguazza,
acciò che de le vene il calor esca
che gli ha acceso il portar de la corazza.
Né maraviglia è già ch’ella gl’incresca;
che non è stato un far vedersi in piazza:
ma senza mai posar, d’arme guernito,
tremila miglia ognor correndo era ito.

Quivi stando, il destrier ch’avea lasciato
tra le più dense frasche alla fresca ombra,
per fuggir si rivolta, spaventato
di non so che, che dentro al bosco adombra:
e fa crollar sì il mirto ove è legato,
che de le frondi intorno il piè gli ingombra:
crollar fa il mirto, e fa cader la foglia;
né succede però che se ne scioglia.

Come ceppo talor, che le medolle
rare e vote abbia, e posto al fuoco sia,
poi che per gran calor quell’aria molle
resta consunta ch’in mezzo l’empìa,
dentro risuona e con strepito bolle
tanto che quel furor truovi la via;
così murmura e stride e si corruccia
quel mirto offeso, e al fine apre la buccia.

Onde con mesta e flebil voce uscìo
espedita e chiarissima favella,
e disse: «Se tu sei cortese e pio,
come dimostri alla presenza bella,
lieva questo animal da l’arbor mio:
basti che ’l mio mal proprio mi flagella,
senza altra pena, senza altro dolore
ch’a tormentarmi ancor venga di fuore».

Al primo suon di quella voce torse
Ruggiero il viso, e subito levosse;
e poi ch’uscir da l’arbore s’accorse,
stupefatto restò più che mai fosse.
A levarne il destrier subito corse;
e con le guance di vergogna rosse:
«Qual che tu sii, perdonami (dicea),
o spirto umano, o boschereccia dea.

Il non aver saputo che s’asconda
m’ha lasciato turbar la bella fronda
e far ingiuria al tuo vivace mirto:
ma non restar però, che non risponda
chi tu ti sia, ch’in corpo orrido ed irto,
con voce e razionale anima vivi;
se da grandine il ciel sempre ti schivi.

E s’ora o mai potrò questo dispetto
con alcun beneficio compensarte,
per quella bella donna ti prometto,
quella che di me tien la miglior parte,
ch’io farò con parole e con effetto,
ch’avrai giusta cagion di me lodarte».
Come Ruggiero al suo parlar fin diede,
tremò quel mirto da la cima al piede.

Poi si vide sudar su per la scorza,
come legno dal bosco allora tratto,
che del fuoco venir sente la forza,
poscia ch’invano ogni ripar gli ha fatto;
e cominciò: «Tua cortesia mi sforza
a discoprirti in un medesmo tratto
ch’io fossi prima, e chi converso m’aggia
in questo mirto in su l’amena spiaggia.

Il nome mio fu Astolfo; e paladino
era di Francia, assai temuto in guerra:
d’Orlando e di Rinaldo era cugino,
la cui fama alcun termine non serra;
e si spettava a me tutto il domìno,
dopo il mio padre Oton, de l’Inghilterra.
Leggiadro e bel fui sì, che di me accesi
più d’una donna: e al fin me solo offesi.

Ritornando io da quelle isole estreme
che da Levante il mar Indico lava,
dopo Rinaldo ed alcun’altri insieme
meco fur chiusi in parte oscura e cava,
ed onde liberati le supreme
forze n’avean del cavallier di Brava;
ver ponente io venìa lungo la sabbia
che del settentrion sente la rabbia.

E come la via nostra e il duro e fello
destin ci trasse, uscimmo una matina
sopra la bella spiaggia, ove un castello
siede sul mar, de la possente Alcina.
Trovammo lei ch’uscita era di quello,
e stava sola in ripa alla marina;
e senza rete e senza amo traea
tutti li pesci al lito, che volea.

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Giuseppe Cades: Ruggiero e il mirto

E vicino a quel luogo, là dove sgorgava una fonte circondata da cedri e da palme ricche di frutti, depone il suo scudo, si toglie l’elmo dalla fronte, e disarma infine entrambe le mani (si toglie i guanti di ferro); e ora verso il mare ed ora verso il monte rivolge la faccia ai venticelli freschi e vivificatrici che, con dolci mormorii, fanno vibrare le alte cime dei faggi e degli abeti. // Si bagna a volte nell’acqua fresca e trasparente della fonte le sue labbra asciutte, ed agita in acqua le sue mani per fare in modo che dalle sue vene se ne vada quel calore che gli provoca il portare ancora la corazza. Non c’è da meravigliarsi che la corazza gli dia fastidio; dal momento che il viaggio non è stato certo una passeggiata in piazza: al contrario, completamente armato, senza mai fermarsi, ha percorso tremila miglia senza mai rallentare. // Mentre sta lì, alla fonte, il destriero che ha lasciato alla fresca ombra dove la boscaglia è più fitta, si ribella per riuscire a fuggire, spaventato da non so che cosa, che dentro al bosco lo atterrisce: e fa così crollare il mirto al quale era stato legato, che gli ostruisce le zampe con i rami caduti in terra: fa crollare il mirto e fa cadere anche le sue foglie; senza però riuscire a liberarsi dall’albero. // Come a volte fa il ceppo, che ha la parte più interna meno densa e vuota, quando viene messo sul fuoco, dopo che per il grande calore l’aria più umida che riempiva la sua parte centrale viene consumata, (il ceppo) emette suoni dal suo interno, e ribolle con strepitii fintanto che quell’aria ardente non trova la via per uscire; allo stesso modo emette mormorii e stride e si lamenta quella pianta di mirto lesionata, ed infine si lacera la sua corteccia. // Dalla lacerazione con una triste e lamentosa voce escono chiare e fluenti parole, e dice: «Se tu sei gentile e pietoso, come può dimostrare la tua bella presenza, togli questo animale dal mio albero: può ben bastare che mi faccia soffrire il mio proprio male, senza un’altra pena, senza un altro dolore che venga a tormentarmi dall’esterno». // Al sentire il primo suono di quella voce Ruggiero piega il viso verso l’albero e subito si alza in piedi; e dopo essersi accorto che viene proprio dall’albero, resta più sorpreso di quanto fosse mai stato in vita sua. Corre subito a togliere il destriero da in mezzo ai rami; e con le guance rosse di vergogna dice: «Qualunque cosa tu sia, perdonami sia tu uno spirito umano o una ninfa dei boschi. Il non aver saputo che si nascondeva uno spirito umano sotto una ruvida corteccia, mi ha lasciato danneggiare la bella chioma e arrecare danno al tuo vivo mirto: ma non fare però che tu non mi faccia sapere chi tu sia, che in un corpo ispido e pungente, vivi con una voce ed una anima razionale; possa sempre il cielo proteggerti dalla grandine. // E se adesso o se per caso in futuro potrò a questo mio torto porre rimedio con qualche atto benefico, ti prometto sul nome di quella bella donna (Bradamante), quella che possiede la mia parte migliore, la mia anima, che con le parole e con i fatti io farò sì che potrai poi avere una buona ragione per essere soddisfatto di me». Non appena Ruggiero pone fine al suo discorso, il mirto trema dalla sua cima fino alle radici. // Si può poi vedere che il mirto lacrima da tutta la sua corteccia, come fa un pezzo di legno appena tagliato dal bosco, quindi ancora verde, quando sente arrivare la forza del fuoco, dopo che invano ha cercato di porre resistenza; e comincia a dire: «La tua gentilezza mi costringe a rivelarti allo stesso tempo chi sono stato prima, quando ero uomo, e chi mi ha trasformato poi in questa pianta di mirto su questa piacevole spiaggia. // Il mio nome era Astolfo; ed ero un paladino della Francia molto temuto in guerra: ero cugino di Orlando e di Rinaldo, la fama dei quali non ha confini in tutto il mondo; e sarebbe spettato a me tutto il dominio dell’Inghilterra, dopo la morte di mio padre Oton. Ero talmente bello e grazioso, da fare innamorare di me più di una donna; ma alla fine la mia bellezza danneggiò solo me stesso. // Durante il viaggio di ritorno dalle Isole Lontane, situate a Levante e bagnate dall’Oceano Indiano, là dove Rinaldo ed alcuni altri insieme a me erano stati fatti prigionieri in una caverna buia, dalla quale fummo poi liberati dalla suprema forza del cavaliere Orlando; stavo navigando verso ponente, lungo le coste di mare che sentono la rabbia della tramontana, del vento freddo da Nord. // E come il nostro tragitto ed il duro ed avverso destino vollero condurci, ci ritrovammo così una mattina sopra la bella spiaggia dove un castello sorge a ridosso del mare, il castello della potente maga Alcina. Trovammo lei in persona che era uscita da quella sua dimora e stava tutta sola in riva al mare; e senza usare nessuna rete o amo, tirava a riva tutti i pesci del mare che voleva».

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Giolito: Astolfo sull’ippogrifo tenta di fuggire dai mostri di Alcina (1554)

E’ evidente il duplice richiamo: dapprima al Palinuro virgiliano, quindi al Pier delle Vigne dantesco (che a Virgilio si rifà). Il classicismo rinascimentale ariostesco abbraccia tutta la letteratura precedente, da quella latina a quella italiana. Eppure vi è un elemento che fa di questa reminiscenza un qualcosa di completamente nuovo: la leggerezza dell’ottava. Il passo infatti non si carica di valenze sacrali, ma si svolge in un mondo favolistico, dove la cortesia fa da contorno ad un episodio dipinto con colori pastello.

Vista la bellezza di Astolfo, Alcina decide di farlo prigioniero. Con una scusa, lo fa salire con sé su una balena e lo rapisce. Rinaldo pur tuffandosi in mare non riesce a raggiungerlo, mentre i due, sul dorso della balena, finiscono infine sull’isola meravigliosa. Questa in realtà era stata lasciata in eredità a sua sorella Logistilla, ma le due sorellastre, Morgana ed Alcina, appunto, si sono alleate per sottrarle ogni avere; lei possiede ora solo una piccola parte dell’isola, e solo perché è un territorio irraggiungibile. Alcina arde d’amore per Astolfo ed il cavaliere ricambiava il sentimento, essendo lei molto bella e tanto premurosa nei suoi riguardi. Completamente si perdono nei piaceri dimenticando ogni altra cosa. Un giorno però lei rivolge improvvisamente il proprio cuore altrove, caccia Astolfo e lui scopre che nella sua stessa situazione ci sono altri mille amanti, trasformati in alberi, animali, fonti… per evitare che vadano in giro per il mondo a raccontare le abitudini della maga. Astolfo avverte quindi Ruggiero del pericolo che potrebbe correre. Ruggiero conosceva già Astolfo di nome, in quanto cugino di Bradamante e decide pertanto di aiutarlo. Astolfo gli indica la via per raggiungere il regno di Logistilla senza passare da quello di Alcina. Lo avverte però che la maga malvagia ha messo a guardia del sentiero un gruppo di suoi guerrieri dall’aspetto mostruoso. Ruggiero riprende il cavallo alato, senza salirgli in groppa per paura di dover ancora volare contro la propria volontà, e si mette in cammino. Raggiunge poco dopo la fortezza di Alcina e si dirige poi verso il monte in cima al quale si trovava il regno di Logistilla. Il suo cammino viene però interrotto dai guerrieri: esseri metà animali e metà uomini, metà uomini e metà donne, a cavallo di animali di ogni genere e con ogni tipo di arma in pugno. Ruggiero sguaina la spada e si lancia tra di loro, ma sono troppi, è accerchiato; escono allora dalla città di Alcina due bellissime donne in groppa a due unicorni. Costretto ad entrare nella fortezza,  lui vi trova una bellissima festa amorosa, tanto che si può ritenere essere il posto dove sia nato Amore. Quindi gli viene dato un cavallo sul quale poter salire, mentre l’ippogrifo viene consegnato ad un giovane, che lo segue a piedi. Le due donne chiedono aiuto al cavaliere per sconfiggere la gigante Erifile, che sta a guardia di un ponte ed impedisce il suo attraversamento. Ruggiero dice loro di essere completamente al loro servizio, qualunque sia il loro desiderio.

Il VII canto si apre con la sconfitta che Ruggiero imprime ad Erifile. Quindi, liberato il sentiero, viene accolto da Alcina:

ALCINA
(VII, 9- 18)

La bella Alcina venne un pezzo inante,
verso Ruggier fuor de le prime porte,
e lo raccolse in signoril sembiante,
in mezzo bella ed onorata corte.
Da tutti gli altri tanto onore e tante
riverenze fur fatte al guerrier forte,
che non potrian far più, se tra loro
fosse Dio sceso dal superno coro.


Non tanto il bel palazzo era eccellente,

perché vincesse ogn’altro di ricchezza,
quanto ch’avea la più piacevol gente
che fosse al mondo e di più gentilezza.
Poco era l’un da l’altro differente
e di fiorita etade e di bellezza:
sola di tutti Alcina era più bella,
sì come è bello il sol più d’ogni stella.

Di persona era tanto ben formata,

quanto me’ finger san pittori industri;
con bionda chioma lunga ed annodata:
oro non è che più risplenda e lustri.
Spargeasi per la guancia delicata
misto color di rose e di ligustri;
di terso avorio era la fronte lieta,
che lo spazio finia con giusta meta.

Sotto duo negri e sottilissimi archi
son duo negri occhi, anzi duo chiari soli,
pietosi a riguardare, a mover parchi;
intorno cui par ch’Amor scherzi e voli,
e ch’indi tutta la faretra scarchi
e che visibilmente i cori involi:
quindi il naso per mezzo il viso scende,
che non truova l’invidia ove l’emende.

Sotto quel sta, quasi fra due vallette,
la bocca sparsa di natio cinabro;
quivi due filze son di perle elette,
che chiude ed apre un bello e dolce labro:
quindi escon le cortesi parolette
da render molle ogni cor rozzo e scabro;
quivi si forma quel suave riso,
ch’apre a sua posta in terra il paradiso.

Bianca nieve è il bel collo, e ’l petto latte;
il collo è tondo, il petto colmo e largo:
due pome acerbe, e pur d’avorio fatte,
vengono e van come onda al primo margo,
quando piacevole aura il mar combatte.
Non potria l’altre parti veder Argo:
ben si può giudicar che corrisponde
a quel ch’appar di fuor quel che s’asconde.

Mostran le braccia sua misura giusta;

e la candida man spesso si vede
lunghetta alquanto e di larghezza angusta,
dove né nodo appar, né vena eccede.
Si vede al fin de la persona augusta
il breve, asciutto e ritondetto piede.
Gli angelici sembianti nati in cielo
non si ponno celar sotto alcun velo.

Avea in ogni sua parte un laccio teso,
o parli o rida o canti o passo muova:
né maraviglia è se Ruggier n’è preso,
poi che tanto benigna se la truova.
Quel che di lei già avea dal mirto inteso,

com’è perfida e ria, poco gli giova;
ch’inganno o tradimento non gli è aviso

che possa star con sì soave riso.

Anzi pur creder vuol che da costei

fosse converso Astolfo in su l’arena
per li suoi portamenti ingrati e rei,
e sia degno di questa e di più pena:
e tutto quel ch’udito avea di lei,
stima esser falso; e che vendetta mena,
e mena astio ed invidia quel dolente
a lei biasmare, e che del tutto mente.

La bella donna che cotanto amava,
novellamente gli è dal cor partita;
che per incanto Alcina gli lo lava
d’ogni antica amorosa sua ferita;
e di sé sola e del suo amor lo grava,
e in quello essa riman sola sculpita:
sì che scusar il buon Ruggier si deve,
se si mostrò quivi incostante e lieve.

1200px-Niccolò_dell'abate,_affreschi_dell'orlando_furioso,_da_palazzo_torfanini_04_alcina_riceve_ruggero_2.jpgNiccolò dell’Abate, Ruggiero e Alcina

La bella Alcina viene avanti, per un pezzo di strada, fuori dalle prime porte d’ingresso del palazzo, verso Ruggiero, e lo accoglie, con modi signorili, in mezzo ad una corte bella e stimabile. Da tutti gli altri, sono fatte al forte guerriero tanti onori e tante reverenze, che non si potrebbero fare di più se fosse disceso Dio direttamente dal Paradiso. // Il bel palazzo è tanto superiore agli altri non perché non ha pari per ricchezza, quanto perché è abitato dalle persone più piacevoli, e con i modi più gentili, che ci potessero essere al mondo. Ogni persona è poco differente dall’altra sia per la giovane età che per bellezza: solo Alcina supera gli altri per bellezza, così come il sole è più bello di ogni altra stella. // La sua persona è tanto bene formata, quanto meglio sanno fare i più abili pittori; con una bionda chioma lunga ed annodata: non c’è oro che risplenda di più e sia più lucente. Si diffonde lungo la sua delicata guancia un misto di colore di rose e di ligustri; simile a limpido avorio è la sua lieta fronte, che si estende entro giusti limiti. // Sotto due neri e sottilissimi archi si trovano due occhi neri, anzi due chiari soli, benevoli nel guardare, lenti nel muoversi; intorno ai quali sembra che voli e giochi il dio Amore, che da lì scagli tutte le sue frecce e che in modo chiaro i cuori rubi: da qui il naso scende attraverso il viso, sul quale nemmeno l’invidia potrebbe trovare un difetto. // Sotto al naso si trova, tra due piccole fossette, la bocca cosparsa di un rosso naturale; qui stanno due file di perle rare, che un bello e dolce labbro apre e chiude: da qui escono dolci e cortesi parole tali da rendere molle, ingentilire, ogni cuore rozzo e ruvido; qui si forma quel dolce sorriso, che apre a suo piacere il Paradiso in terra. // Neve bianca è il suo bel collo, il petto è latte; il collo è tondo, il petto largo e bene riempito: due seni piccoli e sodi, fatti come d’avorio, vengono e vanno con il suo respiro come onde sul margine estremo della spiaggia, quando un piacevole venticello percuote il mare. Neppure Argo, con i suoi cento occhi, potrebbe vedere le altri parti del suo corpo: si può a buon ragione ritenere che ciò che rimane nascosto corrisponda a quello che si può ammirare dal fuori. // Le braccia mostrano la loro giusta lunghezza; e la bianca mano spesso appare alquanto lunga ed affusolata, sulla quale non compare nessun nodo, né alcuna vena sporge. Si vede alla fine della maestosa persona il piccolo piede, asciutto ma ben rotondo. Coloro, nati in cielo, che hanno aspetto angelico non possono essere nascosti sotto nessun velo. // Ogni sua parte del corpo era una laccio teso per catturare gli amanti, sia che parli o rida o canti o muova passi: non c’è quindi da meravigliarsi se Ruggiero fu preso in trappola, trovandola così tanto buona nei propri confronti. Quello che riguardo a lei aveva appreso dal mirto (nel quale Astolfo è stato trasformato), di come fosse perfida e crudele, a poco gli serve; dal momento che non gli sembra possibile che l’inganno ed il tradimento possa convivere con un così gioioso sorriso. // Anzi vuole anche credere che da costei Astolfo fosse stato trasformato in mirto, in riva al mare, a causa del suo comportamento ingrato e malvagio, e che fosse stato degno di questa ed anche di più grave pena: e tutto ciò che riguardo a lei aveva udito, ritiene ora essere falso; e che sono il desiderio di vendetta, l’invidia e l’astio nei confronti di lei, a spingere quell’infelice Astolfo, a rimproverarla, e che quindi lui mente su ogni cosa. // La bella donna, Bradamante, che Ruggiero così tanto amava, all’improvviso non trova più posto nel suo cuore; poiché per incantesimo Alcina gli purifica il cuore da ogni antica ferita d’Amore; e lo occupa solo con il pensiero di se stessa e dell’Amore nei suoi confronti, e rimane in quel cuore impressa solo lei: tanto che Ruggiero si deve scusare per essere stato in quell’occasione incostante e leggero.

E’ questo uno dei passi più famosi del poema, che si figura, allegoricamente, come un processo iniziatico, da cui si uscirà fortificati e con maggior saggezza. Precedentemente abbiamo visto come, egli, con l’ippogrifo, sia giunto nell’isola. Possiamo anche dire che, in questo caso, il cavallo alato, metafora di un sogno, l’abbia condotto in un giardino di delizie (sessuali), anch’esse idealizzate in un mondo onirico. Infatti, non manca nessuna forma di piacere in quella corte e già dalla prima sera i due vengono travolti dalla passione amorosa. Bradamante, disperata per aver nuovamente perso il proprio amante, vaga alla ricerca di Ruggiero:

BRADAMANTE ALLA RICERCA
(VII, 33-41)

Con questa intenzion prese il camino
verso le selve prossime a Pontiero,
dove la vocal tomba di Merlino
era nascosa in loco alpestro e fiero.
Ma quella maga che sempre vicino
tenuto a Bradamante avea il pensiero,
quella, dico io, che ne la bella grotta
l’avea de la sua stirpe istrutta e dotta;

quella benigna e saggia incantatrice,
la quale ha sempre cura di costei,
sappiendo ch’esser de’ progenitrice
d’uomini invitti, anzi di semidei;
ciascun dì vuol sapere che fa, che dice,
e getta ciascun dì sorte per lei.
Di Ruggier liberato e poi perduto,
e dove in India andò, tutto ha saputo.

Ben veduto l’avea su quel cavallo

che regger non potea, ch’era sfrenato,
scostarsi di lunghissimo intervallo
per sentier periglioso e non usato;
e ben sapea che stava in giuoco e in ballo
e in cibo e in ozio molle e delicato,
né più memoria avea del suo signore,
né de la donna sua, né del suo onore.

E così il fior de li begli anni suoi
in lunga inerzia aver potria consunto
sì gentil cavallier, per dover poi
perdere il corpo e l’anima in un punto;
e quel odor che sol riman di noi,
poscia che ’l resto fragile è defunto,
che tra’ l’uom del sepulcro e in vita il serba,
gli saria stato o tronco o svelto in erba.

Con questa intenzione Bradamante intraprese il cammino verso le foreste vicine a Pontiero, feudo dei Maganza, là dove la tomba parlante di Merlino stava nascosta in un luogo montuoso e selvaggio. Ma quella maga, Melissa, che sempre vicino a Bradamante aveva tenuto il proprio pensiero, quella, mi riferisco a lei, che nella bella grotta l’aveva istruita e messa a conoscenza della sua stirpe; // quella buona e saggia incantatrice, la quale ha sempre avuto cura di costei, sapendo che sarebbe stata progenitrice di uomini vittoriosi, anzi, di semidei; (riprende l’elemento encomiastico) ogni giorno vuole sapere che cosa stia facendo, che cosa dica, ed ogni giorno fa incantesimi per sapere presente e futuro di lei, di Ruggiero liberato e poi smarrito, e del luogo in India dove si è recato, ha saputo tutto. // L’aveva visto molto bene su quel cavallo che non poteva guidare, non ubbidendo al freno, allontanarsi per una così grande distanza lungo un sentiero pericoloso e mai battuto, per la via dell’aria; e molto bene sapeva anche che si trovava ora preso da giochi, balli, dal cibo e dal morbido e delicato ozio, senza avere più memoria del proprio signore, né della sua donna amata, né del proprio onore. // Ed in questo modo, il fiore dei più bei anni della sua vita, il meglio della sua giovinezza, avrebbe potuto consumare nella lunga inerzia, nella lunga inattività, un così gentile cavaliere, per dover poi perdere il proprio corpo e la propria anima, trasformato in pianta, ad un certo punto; e quel buon nome, che solo rimane di noi dopo che tutto il resto, più fragile, è ormai defunto, che toglie l’uomo dal sepolcro e lo mantiene in vita, gli sarebbe stato o troncato o divelto come erba.

13-1-ksf--835x437@IlSole24Ore-Web.jpg«Coppa con Bradamante», maiolica di Castel Durante, 1525-1530, Sèvres, Cité de la Céramique

Infatti Bradamante, nella continuazione allegorica, rappresenta la coscienza fatta tacere da Ruggiero, per lasciar libero il sogno, come appare nella prima stanza dei versi seguenti:

MELISSA E L’ANELLO MAGICO
(VII, 46-52)

La giovane riman presso che morta,
quando ode che ’l suo amante è così lunge;
e più, che nel suo amor periglio porta,
se gran rimedio e subito non giunge:
ma la benigna maga la conforta,
e presta pon l’impiastro ove il duol punge,
e le promette e giura, in pochi giorni
far che Ruggiero a riveder lei torni.

«Da che, donna – (dicea) – l’annello hai teco,
che val contra ogni magico fattura,
io non ho dubbio alcun, che s’io l’arreco
là dove Alcina ogni tuo ben ti fura,

ch’io non le rompa il suo disegno, e meco
non ti rimeni la tua dolce cura.

Me n’andrò questa sera alla prim’ora,
e sarò in India al nascer de l’aurora».

E seguitando, del modo narrolle
che disegnato avea d’adoperarlo,
per trar del regno effeminato e molle
il caro amante, e in Francia rimenarlo.
Bradamante l’annel del dito tolle;
né solamente avria voluto darlo,
ma dato il core e dato avria la vita,
pur che n’avesse il suo Ruggiero aita.

Le dà l’annello e se le raccomanda;
e più le raccomanda il suo Ruggiero,
a cui per lei mille saluti manda:
poi prese ver Provenza altro sentiero.
Andò l’incantatrice a un’altra banda;
e per porre in effetto il suo pensiero,
un palafren fece apparir la sera,
ch’avea un piè rosso, e ogn’altra parte nera.

Credo fosse un Alchino o un Farfarello,
che da l’Inferno in quella forma trasse;
e scinta e scalza montò sopra a quello,
a chiome sciolte e orribilmente passe:
ma ben di dito si levò l’annello,
perché gl’incanti suoi non le vietasse.
Poi con tal fretta andò, che la matina
si ritrovò ne l’isola d’Alcina.

Quivi mirabilmente transmutosse
s’accrebbe più d’un palmo di statura,
e fe’ le membra a proporzion più grosse;
e restò a punto di quella misura
che si pensò che ’l negromante fosse,
quel che nutrì Ruggier con sì gran cura.

Vestì di lunga barba le mascelle,
e fe’crespa la fronte e l’altra pelle.

Di faccia, di parole e di sembiante

sì lo seppe imitar, che totalmente
potea parer l’incantator Atlante.
Poi si nascose, e tanto pose mente,
che da Ruggiero allontanar l’amante
Alcina vide un giorno finalmente:
e fu gran sorte; che di stare o d’ire
senza esso un’ora potea mal patire.

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Bradamante dà l’anello magico a Melissa

La giovane rimane quasi morta, le viene quasi un colpo, quando si sente dire che il suo amante è così lontano da lei; ed ancora di più ascoltando che il suo amore si trova in pericolo, se non dovesse arrivare un rimedio efficace e rapido: ma la benigna maga la conforta, e subito pone il medicamento là dove serve, dove il dolore è pungente, e le promette e le giura, in pochi giorni, di riuscire a fare in modo che Ruggiero possa tornare a guardarla. // Disse la maga: «Dal momento che, donna, hai con te l’anello magico, che si oppone ad ogni possibile incantesimo, rendendolo vano, io non ho nessun dubbio che se io lo portassi là, dove Alcina ti sottrae ogni tuo bene, potrei rendere vano ogni sua intenzione, e con me potrei riportare indietro l’uomo amato per cui tanto ti affanni. Partirò questa sera alla prima ora della notte, e sarò in India al sorgere del sole». // E proseguendo, le raccontò il modo in cui aveva pensato di adoperare quell’anello, per sottrarre al regno effeminato e molle di Alcina il caro amante, e ricondurlo in Francia. Bramante si sfilò quindi l’anello dal dito; avrebbe voluto dare non solo quello, ma avrebbe dato anche il proprio cuore e la propria vita se solo avessero potuto essere d’aiuto a Ruggiero. // Le dà l’anello magico e le si raccomanda; ma più le affida la protezione del suo Ruggiero, al quale tramite lei manda mille saluti: infine prese un sentiero verso la Provenza. La maga proseguì lungo un’altra direzione; e per poter mettere in pratica le proprie intenzioni, alla sera fece apparire un destriero che aveva un piede rosso ed ogni altra parte del corpo nera, simile ad un demonio. // Credo fosse un diavolo Alchino o Fanfarello, (nomi usati da Dante nell’Inferno) che dall’inferno fu evocato sulla terra sotto quelle sembianze; e poco vestita e scalza montò sopra a quel cavallo, con i capelli sciolti ed orribilmente sparsi: ma si levò a buon ragione l’anello dal dito, così che non potesse annullare i propri incantesimi. Dopo di che partì con una tale fretta, che la mattina seguente si trovò sull’isola di Alcina. // Giunta lì si trasformò in maniera incredibile: crebbe più di un palmo in altezza, e l’intero corpo si fece più grosso in proporzione alla nuova altezza e si portò giusta giusta in quella misura che si poteva credere fosse il mago Atlante, colui che aveva nutrito Ruggiero con così tanta cura. Vestì la mascella con una lunga barba e rese rugosa la fronte e tutte le altre parti del corpo. // In faccia, nel parlare e nelle sembianza lo seppe tanto imitare, riprodurre, che per ogni suo aspetto poteva sembrare l’incantatore Atlante. Quindi si nascose e rimase a studiare a lungo la situazione, fino a che da Ruggiero vide finalmente un giorno allontanarsi l’amante Alcina: e fu una grande fortuna; perché di stare o di andare in giro senza di lui, anche per una sola ora, era per lei difficile da sopportare.

Quindi, per chiudere la rappresentazione allegorica, non ci rimane che la ratio, nelle vesti di Melissa e del suo mezzo, che, proprio attraverso l’anello fatato gli mostra la realtà. Anche qui Ariosto non cessa di giocare con i lettori: che la magia sveli la realtà è uno splendido ossimoro, ma è anche una profonda convinzione umanistico-rinascimentale (si pensi alla fortuna che in questo tempo ebbe l’alchimia, sebbene un po’ ironizzata da Ariosto).

Continuando il racconto della vicenda, Melissa trova il paladino totalmente mutato in abitudini; ha abbandonato ogni arma ed è completamente vestito, acconciato ed adornato come fosse una donna. Melissa, nelle sembianze di Atlante, lo rimprovera aspramente per avere dimenticato tutti i suoi insegnamenti, che avrebbero dovuto portarlo a compiere gloriose imprese e non a trascorrere una vita molle nell’ozio. Gli consegna quindi l’anello magico, e lo invita ad andare da Alcina per vedere in quale inganno sia caduto. Il paladino si infila l’anello al dito, gli incantesimi di Alcina svaniscono: la donna appare finalmente a Ruggiero nel suo aspetto reale: una orribile vecchia. Come suggeritogli, il cavaliere dapprima non fa trasparire il proprio disgusto ed il proprio odio e mette in atto il piano di fuga consigliato dalla maga. Fingendo di voler solo vedere se con le proprie armi indosso può risultare ancora più bello agli occhi di Alcina, si rimette l’armatura, prende la propria spada Balisarda e lo scudo incantato di Atlante. Va quindi nella stalla, monta su Rabican, il velocissimo cavallo appartenuto ad Astolfo, e scappa dal castello e si lancia poi al galoppo in direzione del regno di Logistilla (quindi come un piccolo romanzo di formazione, dopo il sogno, più maturo e consapevole, affronta di nuovo la realtà).

Nell’VIII canto vediamo Alcina raccogliere tutta la sua gente intorno a sé e partire alla ricerca di Ruggiero sia per terra che per mare. Lei, presa dal desiderio di catturarlo, si unisce a questa gente e lascia così la propria città incustodita. Quindi vi giunge Melissa che riesce ad annullare con comodo tutti gli incantesimi della maga e tutti gli amanti trasformati in varie forme che così tornano ad essere come erano e, con Ruggiero, si mettono in salvo nel regno di Logistilla, per tornare quindi ai rispettivi paesi di origine. Melissa libera anche il paladino Astolfo, gli fa montare l’ippogrifo e lo fa volare in salvo. Infine si reca anch’essa da Logistilla.

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Filippo Pistrucci: Melissa libera i soldati dall’incantesimo di Alcina
(illustrazione del XIX sec.)

Cambiando completamente scena, vediamo Rinaldo chiedere aiuto al re di Scozia e al principe di Galles per il re Carlo assediato a Parigi. Spostandoci di nuovo ci troviamo invece davanti all’eremita, che aveva aiutato Angelica ad allontanare Rinaldo e Sacripante (vedi canto II). Colpito dalla bellezza di lei, l’eremita cerca di trattenerla, ma la donna fugge; allora evoca un demone che prende possesso del cavallo di Angelica, mentre l’uomo la segue da lontano. Giunta sulle rive dell’Oceano Atlantico, il demone spinge il cavallo in mare aperto verso nord, senza che Angelica possa fare nulla per fermarlo. Quando è sera l’animale e la donna raggiungono una spiaggia deserta e spaventosa. L’eremita, che aveva già raggiunto questo luogo grazie ad un altro demonio, compare improvvisamente e, ingannando Angelica, la fa cadere addormentata. Tenterà di abusare di lei, ma a causa dell’età finirà solo per addormentarsi al suo fianco.

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Paul e Gaetan Brizzi: Angelica e l’eremita

Nel mare del nord, oltre l’Irlanda, si trova l’isola di Ebuda. In un tempo passato, il re dell’isola aveva una figlia tanto bella da fare innamorare di sé il dio marino Proteo, che trovandola un giorno da sola, l’aveva quindi posseduta ed ingravidata. Il re, uomo crudele, non perdonò il gesto alla figlia e la decapitò subito, facendo quindi morire anche il nipote prima che potesse nascere. Proteo, colmo d’ira, infrange le regole della natura e manda sulla terra ferma tutte le creature marine, a seminare distruzione e a tenere d’assedio gli abitanti dell’isola. Per placarlo bisogna offrire al dio una donna che, quando verrà reputata di pari bellezza della donna uccisa, farà terminare l’ira del dio contro gli uomini. Da allora ogni giorno una bella donna viene portata sulla spiaggia e finisce mangiata da un’orca, tanto che gli abitanti di Ebuda hanno cominciato a rapire le donne delle vicine isole, per salvare le proprie mogli. Ed è per questo che Angelica viene fatta prigioniera e messa insieme alle altre donne destinate al sacrificio.

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Gustave Doré: Proteo rapisce una fanciulla

Orlando (che appare qui per la prima volta) viene tormentato la notte dal pensiero di Angelica, della quale non aveva avuto più notizie. Si dispera tutto il tempo finché una voce misteriosa gli dice di non sperare di poterla ancora rivedere e lo fa svegliare tra le lacrime. Temendo che Angelica sia in pericolo, appena sveglio si mette l’armatura, monta su Brigliadoro ed a mezzanotte parte alla sua ricerca. Il re Carlo, accortosi della sua lontananza, è molto adirato. Un caro compagno di Orlando, senza dire nulla a nessuno, nemmeno alla sua donna Fiordiligi, parte all’inseguimento dell’amico: ma non tornerà subito, tanto che la stessa Fiordiligi partirà alla sua ricerca.

Il canto IX inizia con il paladino che cerca tracce della donna amata in ogni luogo possibile. Arrivato un giorno sulla riva del fiume Quesnon, per attraversarlo chiede aiuto ad una ragazza al comando di una imbarcazione. La donna in cambio del favore chiede però ad Orlando di unirsi all’esercito che sta allestendo il re d’Irlanda, per muovere guerra agli abitanti dell’isola di Ebuda, e porre quindi fine ai loro saccheggi ed al rapimento delle donne più belle, che vengono ogni giorno sacrificate da quel popolo ad una orca. Orlando accetta subito, sia perché è contrario ad ogni ingiustizia, sia perché crede che anche Angelica sia stata fatta da loro prigioniera, visto che non era riuscito a trovarla in nessuno luogo. Quindi già il giorno seguente si imbarca per l’isola, ma non la raggiunge perché un vento impetuoso lo riporta subito indietro fino ad Anversa. Qui, Orlando sbarca e viene accolto da un vecchio che lo invita a dare il proprio aiuto ad una donna in difficoltà. La donna, di nome Olimpia, vestita a lutto e piena di dolore, racconta al conte Orlando la propria storia. Figlia del conte d’Olanda, si era innamorata del duca Bireno, che era poi dovuto andare in Spagna per prendere parte alla guerra contro gli arabi. Il re di Frisia, Cimosco, aveva deciso di farla sposare con il proprio figlio Arbante, e ne chiede quindi la mano. La donna, per non venire meno all’amore ed alla parola data, risponde però di preferire la morte, ed il re di Frisia, in tutta risposta, invade l’Olanda ed uccide in guerra tutti i familiari di Olimpia. Cimosco possiede infatti un’arma avveniristica, un archibugio (un’arma da fuoco), e non esiste avversario che possa competere con lui.

Pavia-RH1.jpgRuprecht Heller: Particolare della battaglia di Pavia del 1525, combattenti con in mano gli archibugi

IL MALEDETTO ORDIGNO
(IX, 27-31)

Il mio buon padre, al qual sol piacea quanto
a me piacea, né mai turbar mi volse,
per consolarmi e far cessare il pianto
ch’io ne facea, la pratica disciolse:
di che il superbo re di Frisa tanto
isdegno prese e a tanto odio si volse,
ch’entrò in Olanda, e cominciò la guerra
che tutto il sangue mio cacciò sotterra.

Oltre che sia robusto, e sì possente,
che pochi pari a nostra età ritruova,
e sì astuto in mal far, ch’altrui niente
la possanza, l’ardir, l’ingegno giova;
porta alcun’arme che l’antica gente
non vide mai, né fuor ch’a lui, la nuova:
un ferro bugio, lungo da dua braccia,
dentro a cui polve ed una palla caccia.

Col fuoco dietro ove la canna è chiusa,
tocca un spiraglio che si vede a pena;
a guisa che toccare il medico usa
dove è bisogno d’allacciar la vena:
onde vien con tal suon la palla esclusa,
che si può dir che tuona e che balena;
né men che soglia il fulmine ove passa,
ciò che tocca, arde, abatte, apre e fracassa.

Pose due volte il nostro campo in rotta
con questo inganno, e i miei fratelli uccise:
nel primo assalto il primo; che la botta,
rotto l’usbergo, in mezzo il cor gli mise;
ne l’altra zuffa a l’altro, il quale in frotta
fuggìa, dal corpo l’anima divise;
e lo ferì lontan dietro la spalla,
e fuor del petto uscir fece la palla.

Difendendosi poi mio padre un giorno
dentro un castel che sol gli era rimaso,
che tutto il resto avea perduto intorno,
lo fe’ con simil colpo ire all’occaso;
che mentre andava e che facea ritorno,
provedendo or a questo or a quel caso,
dal traditor fu in mezzo gli occhi colto,
che l’avea di lontan di mira tolto.

Il mio buon padre, al quale piaceva solamente ciò che a me piaceva, non volendomi assolutamente turbare, per consolarmi e fare quindi cessare il pianto mio, ruppe la trattativa di nozze; il re di Frisia, peccatore di superbia, di tale azione tanto si sdegnò e tanto iniziò ad odiarci, che invase l’Olanda e iniziò una guerra che provocò la morte di tutti i miei familiari. // Oltre ad esser robusto e molto possente, tanto che se ne trovano pochi eguali nella nostra età, è così astuto, furbo, nel fare del male, che agli altri a niente giova la propria prestanza fisica, l’ingegno e l’audacia; porta con sé una certa arma che la gente antica non ha mai potuto vedere, e, ad eccezione di lui, neanche la nuova gente: un archibugio (un ferro bucato), lungo circa due braccia, dentro al quale infila della polvere ed una palla. // Con una miccia accesa, sul retro della canna, dove è chiusa, tocca un piccolo foro che a malapena si riesce a vedere; allo stesso modo in cui il medico è solito toccare nel punto in cui dovrà ricucire una vena: a quel punto la palla viene espulsa con un tale frastuono, che si può dire che tuona e balena, simile ad un temporale; e non meno di quanto è solito fare un fulmine dove colpisce, tutto quello che tocca brucia, abbatte, spezza e distrugge. // Mise due volte in fuga il nostro campo con questo archibugio, ed uccise i miei due fratelli: durante il primo assalto uccise il primo, al quale il colpo, rotta la corazza, gli indirizzò in mezzo al cuore; durante l’altro combattimento al secondo fratello, che insieme agli altri fuggiva, separò l’anima dal corpo, lo uccise. Da lontano, lo colpì sulla schiena e fuori dal petto fece uscire la palla. // Un giorno, difendendosi mio padre dentro al castello, unica cosa che gli era rimasta, poiché aveva perso tutto il resto che possedeva nei pressi del castello, lo ammazzò con un colpo simile; perché mentre andava e veniva per il castello, occupandosi ora di questa ed ora di altra faccenda, fu colpito in mezzo agli occhi dal traditore, che da lontano lo aveva preso di mira.

E’ chiaro come qui Ariosto “contemporaneizzi” il suo discorso: abbiamo già visto come egli riesca a rappresentarci l’eterna anima umana dietro gli atteggiamenti fantastici dei protagonisti attraverso l’abbassamento ironico che ci permette di guardare e nel contempo sorridere di noi e dell’umanità intera. Qui invece nessun processo di svelamento, ma la vera e propria denuncia di un’arma di fuoco, chiaramente sconosciuta nel tempo dei cavalieri, ma che una volta introdotta avrebbe sconvolto i canoni di cortesia e virtù ai quali egli malinconicamente si richiama. 

Continuando nella narrazione troviamo Olimpia, imprigionata nel proprio castello. Cimosco fa sapere che avrebbe posto fine alla guerra se lei si fosse concessa in sposa ad Arbante. Olimpia rifiuta ed i suoi sudditi, per non rischiare anche la loro vita, consegnano lei ed il suo castello nelle mani di Cimosco. Olimpia decide ci uccidersi, ma prima, di vendicarsi. Sposa Arbante e durante la prima notte di nozze, lo ammazza e scappa poi per mare con quel poco che le era rimasto. Durante il matrimonio però Cimosco, saputo che Bireno stava giungendo per mare, si era assentato per muovergli guerra. Il re di Frisia aveva sconfitto l’avversario e l’aveva fatto prigioniero. Visto il figlio morto, Cimosco uccide ogni persona che fosse vicina ad Olimpia. A Bireno pone invece una condizione crudele: gli dà un anno di tempo per portargli la donna tanto odiata, pena la morte. Olimpia tenta ogni stratagemma per liberare l’uomo amato ma senza successo alcuno. L’anno sta ormai per scadere e lei è infine disposta a consegnarsi nelle mani di Cimosco. Per essere sicura che questo sia di parola, chiede ad Orlando di stare al suo fianco durante lo scambio e di intervenire quindi prontamente se qualcosa dovesse andare storto. Orlando promette subito di dare il proprio supporto ed anzi di fare di più di quanto lei gli chieda. Quindi partono insieme e giungono in Olanda. Scende solo il paladino, la donna dovrà aspettare di aver notizia della morte di Cimosco. Trova alla porta della città una folta schiera di cavalieri. Il paladino sfida il re di Frisia: in caso della sua sconfitta gli verrà consegnata l’assassina di suo figlio Arbante, in caso di sua vittoria dovrà essere invece liberato il prigioniero.

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Orlando uccide il re di Fresia

Ma il re vuole catturare anche Orlando e con i suoi cavalieri lo circonda, convinto che l’impresa sia semplice che non prende neanche con sé l’archibugio. Orlando si butta sugli avversari e fa una strage. Inutilmente Cimosco chiede a gran voce che gli venga portata l’arma, tutti scappano; chi può tornare alla città non ha nessuna intenzione di uscirci ancora. Allora anche il re tenta di mettersi in salvo inseguito da Orlando e, quando finalmente entra in possesso dell’arma, spara, ma forse a causa della paura che gli fa tremare le mani, sbaglia mira e colpisce ed uccide solo il cavallo. Il cavaliere si lancia subito contro il re di Fresia e lo uccide. Quindi Bireno viene liberato e può nuovamente abbracciare Olimpia. Orlando si imbarca nuovamente per raggiungere Ebuda, porta con sé l’archibugio ed appena è in mare aperto lo getta nelle profondità dell’oceano.

Il canto X quindi inizia con la coppia appena ricostituita di Olimpia e Bireno: ma succede un fatto imprevisto; appena vede piangere la figlia del re di Frisia per la morte del proprio padre, Bireno subito se ne innamora e la ragazza, seppure quattordicenne, prende il posto di Olimpia nel suo cuore. Quest’ultima all’improvviso risulta insopportabile, ma lui non lo dà a vedere e nessuno si accorge del cambiamento. Partono per nave alla volta della sua patria, ma dopo tre giorni di tempesta raggiungono un’isola sconosciuta. Bireno ed Olimpia si accampano sulla spiaggia e lui, approfittando del sonno profondo di lei, torna di corsa sulla nave e riparte, abbandonandola. Olimpia si risveglia così sola; guarda la nave che si allontana e inveisce contro il crudele Bireno. Si accorge di non avere nessuna via di scampo; se anche si salvasse non sa dove poter andare, dal momento che aveva consegnato il suo regno, l’Olanda, nelle mani di Bireno.

OperaArteImmagineHigh-125.jpgGiovani Martinelli: Olimpia abbandonata da Bireno (XVII sec.)

Nel frattempo Ruggiero, sotto il cocente sole di mezzogiorno, continua il suo viaggio verso il regno di Logistilla; è stanco, assetato e le armi che ha indosso sono infuocate. Dopo esser riuscito ad evitare l’insidia di tre donne, al soldo della maga, il cavaliere giunge infine allo stretto che separa le terre di Logistilla dal regno di Alcina. Trova ad aspettarlo un vecchio su una imbarcazione pronta a salpare e subito partono per raggiungere l’altra riva. All’inseguimento, giunge la flotta di Alcina con a bordo la stessa maga. Viene battuta dopo un’aspra battaglia ed infine è costretta a fuggire. Passerà i successivi giorni a piangere la perdita dell’amante ed a disperarsi perché, in quanto fata, non può morire. Ruggiero raggiunge la bellissima roccaforte di Logistilla; ritrova Astolfo nel castello e successivamente arriveranno anche tutti gli altri precedenti amanti della maga Alcina, liberati ora da Melissa. Logistilla insegna a Ruggiero a comandare l’ippogrifo ed appena il cavaliere è pronto, lo fa tornare dall’amata Bradamante, ma spinto dal desiderio di visitare il mondo, arriverà solo dopo mesi in Inghilterra ed atterrerà quindi una mattina a Londra. Qui il cavaliere vede riunito un immenso esercito di uomini pronti ad imbarcarsi per la Francia. Riprende il volo e si dirige poi verso Irlanda. e scorge su una isola, Ebuda, la bella Angelica incatenata nuda ad uno scoglio.

103168.jpgGiorgio De Chirico: Ruggiero libera Angelica (inizi anni ’70)

Chiede chi sia stato ad incatenarla. Mentre Angelica sta per iniziare a raccontare le proprie vicende, emerge dal mare la mostruosa orca. Ruggiero pur colpendola non riesce a ucciderla ma con lo scudo incantato di Atlante fa svenire il mostro che rimane quindi rovesciato in mare. Il cavaliere libera Angelica, la fa salire sul cavallo alato e vola con lei in cielo. Atterranno su una vicina spiaggia della Bretagna e Ruggiero, preso dalla passione (era ormai anche lui vittima della bellezza di Angelica), inizia a togliersi l’armatura.

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Il canto XI si apre con Ruggiero completamente preso dal desiderio per Angelica e si strappa l’armatura per poterla sfogare. La donna, imbarazzata per essere completamente nuda, guardandosi il corpo si accorge di avere al dito l’anello, che le permette di scomparire dalla vista del cavaliere.

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Ruggiero cerca invano di ritrovarla, ma lei è ormai lontana, in una grotta dove trova cibo, vestiti, che seppur rozzi non riescono però a non farla comparire bella e nobile, ed una cavalla con cui poter proseguire il proprio viaggio verso casa. Il cavaliere intanto, perso anche l’ippogrifo che, liberatosi dal morso, vola ora libero in cielo, riprende le proprie armi e si incammina a piedi. Giunto in un bosco, sente un gran rumore d’armi ed assiste alla battaglia tra un gigante ed un valoroso cavaliere. Questo ultimo, tramortito da un colpo alla testa, è Bradamante, riconosciuta dal cavaliere, ma prima che possa intervenire in difesa della donna, il gigante se l’è messa in spalla ed è fuggito. Intanto, nonostante il debole vento, Orlando giunge all’isola di Ebuda prima del re Oberto d’Irlanda. Lasciata la nave al largo, la raggiunge con una scialuppa portando con sé solo la spada, la più grossa ancora della nave ed una robusta fune. Avvicinatosi alla riva, sente il pianto di una donna, che, nuda, è stata incatenata ad uno scoglio. Si avvicina a lei, quando improvvisamente compare il mostro marino che, vista l’imbarcazione del paladino, spalanca la bocca per inghiottirla. Allora Orlando le pianta in bocca l’enorme ancora, così da impedirle di richiederla. Si immerge quindi anche lui nel mostro e dal di dentro inizia a trafiggerla con la propria spada. Il cavaliere abbandona infine la gola dell’animale e impugna la robusta fune che aveva legato all’ancora, nuota fino alla riva ed inizia a tirare a sé l’orca con tutta la sua forza, fino a trascinarla a riva dove morirà.

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Gli abitanti di Ebuda, temendo l’ira del dio marino, si arrabbiano e sono intenzionati a sacrificare Orlando al dio Proteo buttandolo in mare, ma il paladino, sguainata la spada si apre giusto la strada verso la donna. Nel frattempo arriva l’esercito mandato dall’Irlanda, fa strage del nemico, saccheggia e distrugge tutto ciò che incontra. La donna incatenata nuda è Olimpia. Orlando ascolta la sua storia e la libera. Arriva sulla spiaggia anche re Oberto, che conosce Orlando e quindi l’abbraccia contento. Il paladino racconta al re il tradimento subito da Olimpia per opera di Bireno. Le lacrime della donna, la sua storia e soprattutto il suo bellissimo corpo nudo, accendo all’istante d’amore il re d’Irlanda, che subito si propone di portarla in Olanda e di punire adeguatamente il crudele Bireno. Orlando, soddisfatto della situazione, può quindi continuare a ritrovare Angelica, mentre il re Oberto, insieme ai re d’Inghilterra e di Scozia, toglierà a Bireno tutti i possessi ed infine anche la vita. Sposa infine anche Olimpia che da contessa diventa regina. Orlando, ritornato al porto di partenza, riprende il proprio cavallo Brigliadoro e continua il viaggio alla ricerca dell’amata. La primavera seguente, mentre è in viaggio, sente le urla di una donna in pericolo, sguaina la propria spada e corre in suo aiuto.

Il canto XII si apre con il paladino che vede passare al galoppo un cavaliere misterioso con in braccio una donna, contro la sua volontà, che ad Orlando sembra Angelica. Il duca si lancia al suo inseguimento con Brigliadoro e raggiunge infine, uscito dal bosco, un vasto prato con al centro un bellissimo castello, all’interno delle cui mura è entrato il misterioso cavaliere.

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Giovan Battista Galizzi: Atlante ed il suo castello incantato (1945)

IL CASTELLO INCANTATO
(XII, 8-12)

Di vari marmi con suttil lavoro
edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d’oro
con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
né più il guerrier, né la donzella mira.

Subito smonta, e fulminando passa
dove più dentro il bel tetto s’alloggia:
corre di qua, corre di là, né lassa
che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d’ogni stanza bassa
ha cerco invan, su per le scale poggia;
e non men perde anco a cercar di sopra,
che perdessi di sotto, il tempo e l’opra.

D’oro e di seta i letti ornati vede:
nulla de muri appar né de pareti;
che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
son da cortine ascose e da tapeti.

Di su di giù va il conte Orlando e riede;
né per questo può far gli occhi mai lieti
che riveggiano Angelica, o quel ladro
che n’ha portato il bel viso leggiadro.

E mentre or quinci or quindi invano il passo
movea, pien di travaglio e di pensieri,
Ferraù, Brandimarte e il re Gradasso,
re Sacripante ed altri cavallieri
vi ritrovò, ch’andavano alto e basso,
né men facean di lui vani sentieri;
e si ramaricavan del malvagio
invisibil signor di quel palagio.

Tutti cercando il van, tutti gli dànno
colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
altri d’altro l’accusa: e così stanno,
che non si san partir di quella gabbia;
e vi son molti, a questo inganno presi,
stati le settimane intiere e i mesi.

Con perizia lavorato, il palazzo era stato edificato con diversi marmi. Il cavaliere con la fanciulla in braccio sorpassa la porta lavorata d’oro. Dopo non molto giunge Brigliadoro, cavalcato da Orlando sdegnato e furioso. Orlando, come giunge dentro il palazzo, gira lo sguardo, ma non vede più né il cavaliere né la fanciulla. // Subito smonta da cavallo, e come un fulmine si dirige verso le stanze; corre di qua, corre di là, non trascura alcuna camera né ogni loggiato. Dopo aver cercato nelle stanze del pian terreno, sale le scale e impiega lo stesso tempo a cercare in quelle di sopra. // Vede letti ornati d’oro e di seta, nelle pareti son nascosti i muri, che sono, come il pavimento, coperti da tendaggi e da tappeti. Il conte Orlando va su, giù, torna indietro, ma gli occhi tristi non riescono a vedere Angelica o il ladro che l’ha rapita. // E mentre inutilmente va ora da una parte ora dall’altra, pieno di pena e di pensieri, ritrovò lì dentro Ferraù, Brandimarte, il re Gradasso, Sacripante e altri cavalieri che vagavano come lui inutilmente e si rammaricavano del malvagio ed invisibile signore di quel luogo. // Tutti girano per il palazzo alla sua ricerca, tutti lo accusano di aver rubato loro qualcosa: uno è all’affannata ricerca del destriero che il signore gli ha sottratto; un altro si arrabbia  per aver perduto la propria donna; altri lo accusa per altri misfatti: e stanno così senza sapere come poter abbandonare quella gabbia; e ci sono molti, catturati con l’inganno, in trappola da intere settimane e mesi.

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Immagine di Esher che ben rappresenta il castello incantato di Ariosto

E’ evidente che la descrizione di questo castello, nuova magia di Atlante, rappresenti l’intero poema: infatti esso è il palazzo del desiderio insoddisfatto, la cui rincorsa diviene affannosa, ripetitiva: non raggiunto, produce un rinnovato movimento, per la sua conquista, ma completamente invano. Infatti non riuscendo a trovare quello che cerca, Orlando esce nel prato circostante ma subito vede Angelica ad una finestra e sente le donna chiedergli aiuto. Torna nel castello e continua la ricerca; la voce di lei proviene sempre da un luogo diverso, sempre da tutt’altra parte rispetto a quella dove si trova lui.

Giunge nel palazzo d’Atlante anche Ruggiero:

RUGGIERO NEL PALAZZO D’ATLANTE
(XII, 17-20)

Ma tornando a Ruggier, ch’io lasciai quando
dissi che per sentiero ombroso e fosco
il gigante e la donna seguitando,
in un gran prato uscito era del bosco;
io dico ch’arrivò qui dove Orlando
dianzi arrivò, se ’l loco riconosco.
Dentro la porta il gran gigante passa:
Ruggier gli è appresso, e di seguir non lassa.

Tosto che pon dentro alla soglia il piede,
per la gran corte e per le logge mira;
né più il gigante né la donna vede,
e gli occhi indarno or quinci or quindi aggira.
Di su di giù va molte volte e riede;
né gli succede mai quel che desira:
né si sa imaginar dove sì tosto
con la donna il fellon si sia nascosto.

Poi che revisto ha quattro volte e cinque
di su di giù camere e logge e sale,
pur di nuovo ritorna, e non relinque
che non ne cerchi fin sotto le scale.
Con speme al fin che sian ne le propinque
selve, si parte: ma una voce, quale
richiamò Orlando, lui chiamò non manco;
e nel palazzo il fe’ ritornar anco.

Una voce medesma, una persona
che paruta era Angelica ad Orlando,
parve a Ruggier la donna di Dordona,
che lo tenea di sé medesmo in bando.
Se con Gradasso o con alcun ragiona
di quei ch’andavan nel palazzo errando,
a tutti par che quella cosa sia,
che più ciascun per sé brama e desia.

Ma tornando a raccontare di Ruggiero, che ho abbandonato quando dissi che, attraverso un sentiero ombroso e buio, seguendo il gigante e la donna, era finalmente giunto, uscito dal bosco, in un grande prato; potrei dire che arrivò nel luogo dove Orlando era arrivato poco prima, se ho riconosciuto il luogo. Il gigante passa attraverso la grande porta; Ruggiero gli è subito dietro e non smette di seguirlo (entra anche lui). // Appena mette il piede dentro alla porta, da un’occhiata alla grande corte ed alle stanze ma non vede più né il gigante né la donna. Invano gira gli occhi tutt’intorno. Più volte va su e giù e ci ritorna ma mai trova quel che va cercando e non riesce ad immaginare dove, così velocemente, il fellone si sia nascosto con al donna. // Dopo che ha controllato più e più volte le camere, le logge e le sale del primo e del secondo piano, torna comunque di nuovo a controllare, e non rinuncia a cercare fin sotto le scale. Infine, con la speranza che siano tornati nel vicino bosco, esce dal castello. Ma una voce, simile a quella che richiamò Orlando, richiamò anche lui non di meno e lo fece tornare nel palazzo. // La medesima voce, una persona che era sembrata Angelica ad Orlando, sembrò ora a Ruggiero esser Bradamante, della quale era lui innamorato (che lo faceva sentire fuori di sé). Se dovesse discutere con re Gradasso, o con altra persona di quelle che andavano vagando per il palazzo, a ciascuno sarebbe sembrata essere ciò che più ciascuno ambisce e desidera avere per sé.

E’ una vera e propria ripetizione questa che succede a Ruggiero: come Orlando, anche lui segue la sua irraggiungibile “quete”. Si noti, tuttavia, un elemento estremamente interessante quando Ariosto afferma se ’l loco riconosco: infatti sembra quasi, dall’alto, possedere la mappa dei luoghi e delle azioni dei suoi personaggi, che lui “manovra” ed esegue con estrema attenzione. Quindi i personaggi sono tutti vittima del nuovo incantesimo di Atlante, che dopo il castello d’acciaio e dopo l’isola della maga Alcina, cerca ora di tenere impegnato il proprio protetto in questo nuovo castello per salvarlo dalla morte predetta dagli astri. Il mago aveva deciso di condurre in quel posto anche tutti i valorosi cavalieri che avrebbero potuto uccidere Ruggiero. Vi giunge anche Angelica:

ANGELICA, IL CASTELLO E L’ANELLO FATATO
(XII, 23-34)

Ma torniamo ad Angelica, che seco
avendo quell’annel mirabil tanto,
ch’in bocca a veder lei fa l’occhio cieco,
nel dito, l’assicura da l’incanto;
e ritrovato nel montano speco
cibo avendo e cavalla e veste e quanto
le fu bisogno, avea fatto disegno
di ritornare in India al suo bel regno.

Orlando volentieri o Sacripante
voluto avrebbe in compania: non c’ella
più caro avesse l’un che l’altro amante;
anzi di par fu a’ lor disii ribella:
ma dovendo, per girsene in Levante,
passar tante città, tante castella,
di compagnia bisogno avea e di guida,
né potea aver con altri la più fida.

Or l’uno or l’altro andò molto cercando,
prima ch’indizio ne trovasse o spia,
quando in cittade, e quando in ville, e quando
in alti boschi, e quando in altra via.
Fortuna al fin là dove il conte Orlando,
Ferraù e Sacripante era, la invia,
con Ruggier, con Gradasso ed altri molti
che v’avea Atlante in strano intrico avolti.

Quivi entra, che veder non la può il mago,

e cerca il tutto, ascosa dal suo annello;
e trova Orlando e Sacripante vago
di lei cercare invan per quello ostello.
Vede come, fingendo la sua immago,
Atlante usa gran fraude a questo e a quello.
Chi tor debba di lor, molto rivolve
nel suo pensier, né ben se ne risolve.

Non sa stimar chi sia per lei migliore,
il conte Orlando o il re dei fier Circassi.
Orlando la potrà con più valore
meglio salvar nei perigliosi passi:
ma se sua guida il fa, sel fa signore;
ch’ella non vede come poi l’abbassi,
qualunque volta, di lui sazia, farlo
voglia minore, o in Francia rimandarlo.

Ma il Circasso depor, quando le piaccia,
potrà, se ben l’avesse posto in cielo.

Questa sola cagion vuol ch’ella il faccia
sua scorta, e mostri avergli fede e zelo.
L’annel trasse di bocca, e di sua faccia
levò dagli occhi a Sacripante il velo.
Credette a lui sol dimostrarsi, e avenne
ch’Orlando e Ferraù le sopravenne.

Le sopravenne Ferraù ed Orlando;
che l’uno e l’altro parimente giva
di su di giù, dentro e di fuor cercando
del gran palazzo lei, ch’era lor diva.
Corser di par tutti alla donna, quando
nessuno incantamento gli impediva:
perché l’annel ch’ella si pose in mano,
fece d’Atlante ogni disegno vano.

L’usbergo indosso aveano e l’elmo in testa
dui di questi guerrier, dei quali io canto;
né notte o dì, dopo ch’entraro in questa
stanza, l’aveano mai messi da canto;
che facile a portar, come la vesta,
era lor, perché in uso l’avean tanto.
Ferraù il terzo era anco armato, eccetto
che non avea né volea avere elmetto,

fin che quel non avea, che ’l paladino
tolse Orlando al fratel del re Troiano;
ch’allora lo giurò, che l’elmo fino
cercò de l’Argalia nel fiume invano:
e se ben quivi Orlando ebbe vicino,
né però Ferraù pose in lui mano;
avenne, che conoscersi tra loro
non si poter, mentre là dentro foro.

Era così incantato quello albergo,
ch’insieme riconoscer non poteansi.
Né notte mai né dì, spada né usbergo
né scudo pur dal braccio rimoveansi.
I lor cavalli con la sella al tergo,
pendendo i morsi da l’arcion, pasceansi
in una stanza, che presso all’uscita,
d’orzo e di paglia sempre era fornita.

Atlante riparar non sa né puote,

ch’in sella non rimontino i guerrieri
per correr dietro alle vermiglie gote,
all’auree chiome ed a’ begli occhi neri
de la donzella, ch’in fuga percuote
la sua iumenta, perché volentieri
non vede li tre amanti in compagnia,
che forse tolti un dopo l’altro avria.

E poi che dilungati dal palagio
gli ebbe sì, che temer più non dovea
che contra lor l’incantator malvagio
potesse oprar la sua fallacia rea;
l’annel che le schivò più d’un disagio,
tra le rosate labra si chiudea:
donde lor sparve subito dagli occhi,
e gli lasciò come insensati e sciocchi

 

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Salvator Dalì: Orlando alla ricerca di Angelica

Ma torniamo da Angelica, che con sé avendo portato quell’anello molto speciale, che la rende invisibile quanto viene tenuto in bocca, ed al dito la protegge da ogni incantesimo; ed avendo trovato, nella conca della montagna, cibo, un cavallo, vestiti e quanto altro di cui aveva bisogno, aveva ora deciso di ritornare in India al suo bel regno. // Volentieri Orlando o Sacripante avrebbe voluto al suo fianco: lei non aveva voluto più bene a l’uno o all’altro dei due suoi amanti, allo stesso modo, anzi, si era opposta ai loro desideri. Ma dovendo, per tornare in Oriente, attraversare tante città, tanti castelli, aveva bisogno di compagnia e di una guida, e solo con Orlando e Sacripante poteva avere la più fidata compagnia. // Continuò a cercare ora l’uno ed ora l’altro prima di riuscire a trovare un indizio o una loro traccia, a volte in città, a volte in ville, altre volte in alti boschi ed a volte ancora in tutt’altri luoghi. La fortuna infine la inviò là dove il conte Orlando, Ferraù e Sacripante si trovavano insieme a Ruggiero, re Gradasso e molti altri ancora che il mago Atlante aveva imprigionato in uno strano incantesimo. // Entra nel castello, invisibile agli occhi del mago, e gira dappertutto, nascosta dall’anello. Incontra Orlando e Sacripante che vagano nel tentativo invano di cercarla in quel palazzo. Vede come, simulando con l’incantesimo la sua immagine, Atlante inganni l’uno e l’altro. Chi di loro due debba prendere come guida valuta molto nei suoi pensieri senza riuscire a decidersi. // Non riesce a valutare chi dei sia il meglio per lei, il conte Orlando o Sacripante. Orlando la potrà con più valore proteggere nei punti più pericolosi del cammino: ma se lo farà sua guida, lo farà anche suo signore; non riesce quindi a vedere come potrà poi togliergli la signoria, non appena, non più utile, vorrà poi sminuirne l’importanza o rimandarlo in Francia. // Al contrario, quando più le piaccia, valuta di potersi liberare facilmente da Sacripante, agendo nel giusto modo. Questa sola ragione fa sì che lei decida di scegliere Sacripante come sua scorta e di mostrare a lui la sua fiducia ed il suo affetto. Angelica si toglie l’anello dalla bocca, e dalla sua faccia levò quindi quel velo che la rendeva invisibile a Sacripante. Pensò di potersi mostrare a lui solo, accadde invece che sia Orlando che Ferraù sopraggiunsero in quel momento. // Giunsero Ferraù ed Orlando, che allo stesso modo avevano girato, sopra e sotto, fuori e dentro, alla ricerca di lei dentro tutto il palazzo, che era la donna da loro amata ed adorata. Corsero tutti insieme verso Angelica, dal momento che nessun incantesimo poteva ora impedirglielo, perché l’anello che la donna si mise alla mano, rese vano ogni tentativo di incantesimo da parte di Atlante. // Avevano addosso la corazza e in testa l’elmo, due (Sacripante ed Orlando) di questi guerrieri le cui gesta io vi canto; non di notte e neanche di giorno, dopo che furono entrati in questo palazzo, se li erano mai levati di dosso. Facili da portare, come fossero un vestito, erano per loro, tanto erano abituati a portarli. Ferraù, il terzo guerriero, era anche lui armato, ma non aveva, e non voleva avere, nessun elmo, // fino a ché non fosse entrato in possesso di quello che il paladino Orlando tolse ad Almonte, fratello del re troiano. Perché ciò aveva giurato allora, quando l’elmo, di buona fattura, di Argalia aveva cercato senza successo nel fiume. Sebbene avesse a portata di mano Orlando, Ferraù non lo assalì. Incrociare fra loro le armi non fu possibile fintanto che furono nel castello. // Era così incantato quel palazzo, che non poterono riconoscersi l’un l’altro. Né di notte né di giorno, né la spada né la corazza e nemmeno solo lo scudo dal braccio si toglievano. I loro cavalli, con la sella sul dorso, con il morso a penzoloni dall’arcione, si rilassavano in una stanza, che in prossimità dell’uscita del castello, era sempre fornita di orzo e di paglia. // Il mago non sa e non può nemmeno evitare che i tre guerrieri rimontino in sella dei loro destrieri per correre dietro alle rosee guancie, alla chioma dorata ed ai begli occhi neri di Angelica, che spinge la sua cavalla alla fuga, perché non gradisce vedere insieme i tre amanti, che forse avrebbe preso come guida, se fossero arrivati separatamente. // E dopo che li ebbe allontanati dal palazzo a sufficienza, da poter non più temere che contro loro l’incantatore malvagio potesse usare le proprie ingannevoli arti magiche; l’anello, che più di una brutta situazione le aveva evitato, chiuse tra le sue rosse labbra, di conseguenza scomparve alla loro vista, e li lasciò istupiditi ed increduli.

Se dovessimo pensare in modo non contenutistico a questo passo, ma “narratologico”, ci troveremo al primo episodio in cui tutti i protagonisti, racchiusi nel labirinto di Atlante, si ritrovano insieme. Cosa fa agire l’autore in questo modo? Il bisogno di raccogliere le fila che egli aveva tessuto ma che, se non le avesse raccolte, avrebbe corso il pericolo di perderle e quindi di farle perdere al lettore; ciò fa sì che egli trovi quest’escamotage per “raccoglierle” e ritrovarle. Ma, a questo punto, l’autore si trova di fronte ad un altro pericolo: quello di “aggrovigliarsi” e creare il caos nella sua storia; affinché ciò non sia possibile è necessario che la narrazione ritrovi il suo “motore”, e tale “motore” sta, come abbiamo visto, nel movimento centripeto, in altre parole, nella fuga di Angelica.

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Sacripante, Orlando e Ferraù all’inseguimento di Angelica

Riprendendo la narrazione ritroviamo i tre cavalieri, stupiti per aver visto scomparire Angelica, che iniziano a litigare. Ferraù dichiara apertamente di ricercare l’elmo del paladino Orlando senza averlo riconosciuto nel cavaliere che ha di fronte. Il cavaliere spagnolo, spavaldo, sostiene anche di avere già incontrato molte volte il conte e di averlo ogni volta messo alle strette, ma non di aver voluto allora prendergli le armi. Acceso d’ira, Orlando rivela la propria identità, si toglie l’elmo e si lancia nel combattimento con lo spagnolo. Il duello è crudele, ma entrambi sono stati resi invulnerabili da un incantesimo. Ferraù può essere ferito solo all’ombelico ed Orlando solo sotto le piante dei piedi, tutto il resto dei loro corpi è più duro del diamante e portavano quindi l’armatura solo per ornamento. Angelica è l’unica testimone del combattimento perché Sacripante, approfittando della situazione, è ripartito a cavallo alla ricerca di lei e quindi per far loro dispetto, ruba l’elmo di Orlando con l’intenzione di tenerlo per poco e restituirlo appena possibile. Orlando e Ferraù si rendono conto della sua sparizione, accusano Sacripante di quel gesto e subito corrono al suo inseguimento. Seguendo tracce diverse, Orlando rifà il percorso di Sacripante e Ferraù invece quello di Angelica. Angelica nel frattempo si era fermata ad una fonte per riposarsi, lasciando incustodito l’elmo. Quando vede giungere Ferraù, riprende subito la fuga e rimette l’anello in bocca per scomparire alla vista del cavaliere. Il pagano vede la donna sparire, la cerca inutilmente ed infine torna alla fonte, dove trova l’elmo tanto desiderato. Torna quindi all’accampamento spagnolo presso Parigi. Angelica è pentita per aver sottratto l’elmo al conte, consegnandolo infine involontariamente allo spagnolo Ferraù. Non è questo ciò che Orlando meritava per quanto aveva fatto per lei, e si lamenta quindi con sé stessa. Precedendo il suo viaggio verso l’oriente, incontrerà infine un giovane ferito mortalmente al petto. Nel frattempo, recuperato un altro elmo senza cimiera, Orlando procede nella propria ricerca di Angelica. Giunge nei pressi di Parigi nel periodo in cui re Agramante è impegnato a cingere d’assedio la città. A tale scopo lo stesso re aveva riunito un enorme gruppo di soldati e si apprestava a organizzarlo. Alzirdo, capitano di una delle schiere di soldati, vede passare un cavaliere dall’aspetto fiero e valoroso, vuole metterlo alla prova e si lancia a cavallo contro il conte; finisce morto con il cuore trafitto. Gli altri soldati, avendo assistito alla scena, circondano l’avversario misterioso ed iniziano a colpirlo in ogni modo. Orlando estrae la propria spada, Durindana, e fa una strage di saraceni, fino a che non vede che sul campo di battaglia non è rimasta nessuna persona viva. Quindi il conte Orlando prosegue il proprio viaggio, incontra una grotta con l’ingresso bloccato ma dalla quale vede uscire una luce intensa. Pensando che al suo interno si trovi prigioniera Angelica, vi entra e trova così al suo interno una giovane e bellissima ragazza, con gli occhi bagnati di lacrime, in compagnia di una vecchia. Orlando le domanda chi sia la persona tanto crudele che le tiene imprigionate in quella caverna.

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Orlando e Isabella

Nel XIII canto sappiamo che si tratta di Isabella, saracena e figlia del re di Galizia (Maricoldo, ucciso da Orlando, ma lei non lo sa). Il padre aveva organizzato una giostra ed erano giunti cavalieri da ogni parte del mondo per sfidarsi, tra i quali Zerbino, figlio del re di Scozia, del quale lei si innamorò subito. Zerbino ricambiando il sentimento e sapendo di non poterla avere in moglie, a causa della loro diversa fede, organizza il suo rapimento. Non potendo compiere l’opera di persona, poiché impegnato nella guerra in Frisia, la fa accompagnare per mare dal suo fedele amico Odorico. Ma una tempesta, costringe loro ad abbandonare la nave e a salire su una scialuppa, insieme a Almonio e Corebo. Raggiungono una spiaggia deserta, e Odorico, acceso d’amore per la ragazza, ha intenzione di possederla; a tal fine, manda Almonio a compiere una missione e confessa tutto a Corebo, ma quest’ultimo, volendo fermare l’amico, rimarrà da lui ucciso. Rimasti ormai soli, Odorico tenta di usare la forza per possedere la donna, ma arriva all’improvviso un gruppo di persone e lui è costretto a fuggire. Isabella non ottiene però aiuto da loro, viene anzi imprigionata in una caverna con l’intenzione di riuscire poi a venderla.

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Orlando esce dalla grotta

Proprio mentre lei termina il racconto, entrano in quel momento nella caverna alcune persone armate, Orlando lancia loro contro una immensa tavola e ne mette fuori gioco buona parte. Lega poi con una fune i rimasti e li appende come cibo per i corvi ad un albero fuori dalla grotta. La vecchia fugge di corsa ed incontra infine un guerriero sulla riva di un fiume. Quindi Orlando si allontana con Isabella ed i due proseguono insieme il viaggio finché non incontrano un cavaliere che stava per essere portato in prigione. Nel frattempo Bradamante, tornata a Marsiglia per difendere la città, non aveva più avuto notizie del suo amato Ruggiero; quando Melissa le fa finalmente visita e la maga le racconta della trappola che il mago Atlante ha ancora una volta teso al cavaliere, le chiede di partire subito per andare a salvarlo. Una volta giunta nel castello vedrà il mago nelle sembianze di Ruggiero per ingannarla, ma lei dovrà ucciderlo senza esitazione per porre fine ad ogni suo incantesimo. Le due donne intanto parlano ancora del valore della stirpe d’Este, attraverso le donne che la rappresentano, che da lei e da Ruggiero avrà origine. Giunte infine nei pressi del castello incantato, Bradamante si separa dalla maga, ma appena vide Ruggiero combattere contro due giganti, si dimentica degli avvertimenti della maga ed anzi pensa che Melissa abbia in odio il cavaliere e lo voglia morto. Il mago Atlante, con le sembianze di Ruggiero, le chiede aiuto e subito parte al galoppo inseguito dai due aggressori. Bradamante insegue l’amato e non esita ad entrare nel castello, cadendo anche lei in trappola.

Canto-405-59.jpgOrlando lascia i corpi accesi come cibo per i corvi

Il canto XIV si apre con i due re che, di fronte alle forti perdite subite da entrambi le parti, stanno assegnando nuovi comandanti alle truppe. Tra i comandanti di reparto c’è anche Brunello, che già aveva tentato di uccidere Brandimarte, da cui si era fatto rubare l’anello incantato.

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Un’altra schiera dell’esercito è guidata invece da Rodomonte, il più forte e coraggioso cavaliere saraceno ed anche il più acerrimo nemico della fede cristiana. Mancano ancora comandanti, e Agramante viene così a sapere che molti cavalieri sono morti per mano di un oscuro cavaliere (Orlando). Mandricardo, valorosissimo e crudele cavaliere saraceno, proprietario dell’armatura che mille anni prima era appartenuta ad Ettore, sentita la storia, si propone subito, senza farne parola, di inseguire le tracce di quel cavaliere per confrontarsi con lui. Cavalcando incontra un giorno sulla riva di un fiume un gruppo di soldati; proteggono Doralice, figlia del re di Granata e sposa di Rodomonte. Il crudele cavaliere vuole mettere alla prova quel gruppo di soldati, chiede di poter vedere la ragazza e li assale.

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Grazia Nidasio: Mandricardo rapisce Doralice (1970)

Mandricardo combatte con una lancia. Aveva infatti trovato solo l’armatura di Ettore, la spada Durindana era stata già presa da Orlando, e non potrà usare nessuna spada finché non riuscirà ad impossessarsi di quella del paladino. Anche con la sola lancia spezzata, il saraceno fa una strage. Alcuni soldati cercano di scappare ma Mandricardo non vuole lasciare superstiti: li insegue e completa la sua opera. Vista la bellezza di Doralice in lacrime, Mandircardo se ne innamora e come premio per la propria vittoria diviene quindi prigioniero d’amore. Prende sul proprio cavallo la donna, saluta benevolmente i servitori di Doralice, dicendo di prendersi ora lui cura di lei, e continua il suo viaggio. Ma non è più interessato a ritrovare il cavaliere misterioso. Infatti il saraceno mente alla donna dicendo di averla sempre amata e di essere arrivato in Europa solo per poterla rivedere. Confortata da tanto amore la sera stessa Mandricardo e Doralice si fermano ad un villaggio e sfogano la passione. Ripartiti il giorno dopo, incontrano poi due cavalieri ed una donna che riposano all’ombra sulla riva di un fiume. Si torna quindi a Parigi, dove re Agramante, prima dell’arrivo dei rinforzi di re Carlo, tenta di espugnare la città e prepara tutto il necessario per l’assalto. I parigini cristiani chiedono aiuto a Dio che domanda all’arcangelo Michele di far giungere Silenzio all’esercito arrivato dall’Inghilterra così da creare nell’esercito saraceno liti accese e ridurne quindi la forza. L’arcangelo, dopo lungo cercare, infine troverà Silenzio e lo porterà a Rinaldo che, grazie a quell’aiuto, raggiunge in un solo giorno Parigi senza essere visto o sentito dagli avversari pagani.

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Inizia l’assalto dei Saraceni, e Rodomonte riesce a passare però lo sbarramento; quindi fa strage di cristiani e libera una delle torri di difesa della città, creando quindi una via facile di accesso per i propri compagni che conquistano così la prima cerchia di mura. Ma i cristiani intanto danno fuoco al letto di rami secchi che avevano posto tra mura e mura, facendo morire bruciati tutti i pagani che si erano avventurati oltre la prima cerchia.

Nel canto XV continua l’aspra battaglia all’interno della città di Parigi. Il duca Astolfo, salvato da Melissa e giunto nel regno di Logistilla, riesce infine a partire per mare per fare ritorno in patria e per proteggerlo durante il viaggio, la maga lo fa accompagnare da una forte scorta armata dal libro contro gli incantesimi ed il corno magico, il cui orrendo suono è in grado di mettere in fuga qualunque avversario.

Prendendo spunto dal viaggio di Astolfo, Ariosto fa una riflessione sulle recenti scoperte geografiche:

LE SCOPERTE GEOGRAFICHE
(XV, 21-24)

Ma volgendosi gli anni, io veggio uscire
da l’estreme contrade di ponente
nuovi Argonauti e nuovi Tifi, e aprire
la strada ignota infin al dì presente:
altri volteggiar l’Africa, e seguire
tanto la costa de la negra gente,
che passino quel segno onde ritorno
fa il sole a noi, lasciando il Capricorno;

e ritrovar del lungo tratto il fine,

che questo fa parer dui mar diversi;
e scorrer tutti i liti e le vicine
isole d’Indi, d’Arabi e di Persi:
altri lasciar le destre e le mancine
rive che due per opra Erculea fersi;
e del sole imitando il camin tondo,
ritrovar nuove terre e nuovo mondo.

Veggio la santa croce, e veggio i segni
imperial nel verde lito eretti:
veggio altri a guardia dei battuti legni,
altri all’acquisto del paese eletti:
veggio da dieci cacciar mille, e i regni
di là da l’India ad Aragon suggetti;
e veggio i capitan di Carlo quinto,
dovunque vanno, aver per tutto vinto.

Dio vuol ch’ascosa antiquamente questa
strada sia stata, e ancor gran tempo stia;
né che prima si sappia, che la sesta
e la settima età passata sia:
e serba a farla al tempo manifesta,
che vorrà porre il mondo a monarchia,
sotto il più saggio imperatore e giusto,
che sia stato o sarà mai dopo Augusto.

Ma passando gli anni, io vedo uscire dall’estreme coste occidentali, nuovi navigatori (coraggiosi come gli Argonauti, guidati da Tifi) e mostrarci strade sconosciute fino ai giorni d’oggi: (vedo) alcuni circumnavigare l’Africa seguendo le coste degli uomini neri, fino a passare il tropico del Capricorno, dove torna indietro il sole durante il solstizio d’inverno // e scoprire il termine lungo tutto il tratto (africano), che fa apparire i due mari così diversi, e quindi costeggiare le isole indiane, arabe, persiane: (vedo) altri lasciare le colonne d’Ercole e seguendo il corso del sole, trovare nuove terre e un nuovo mondo. Vedo la santa croce e i santi segnali dell’Impero eretti nel verde suolo; altri ne vedo di guardia alle stanche navi, altri ancora intenti alla conquista del nuovo paese; vedo dieci (cavalieri) cacciare mille uomini, ed i regni al di là dell’India diventare soggetti a quello d’Aragona, e vedo i capitani di Carlo V, dovunque essi vadano, diventare vincitori. // Dio vuol tenere nascosta questa strada e vuole che lo sia ancora per molto tempo lo sia, né che si sappia prima di sei o sette secoli, e si riserva di renderla palese, quando vorrà porre il mondo in una monarchia, sotto il più saggio e giusto imperatore che ci sia stato o che mai ci sarà dopo Augusto.  

E’ evidente che qui Ariosto adotti la tecnica già messa bene in evidenza in Dante della profezia post eventum. Ma non deve sembrare strano che tale profezia non sia “direttamente” rivolta verso la casa d’Este: sembra infatti un passo “encomiastico” indiretto, visti gli ottimi rapporti che, nel momento in cui l’autore ferrarese li scriveva, esistevano fra i duchi di Ferrara e Carlo V rapporti eccellenti.

Giunti allo stretto di Bahrein, Astolfo approda e prosegue il proprio viaggio sulla terra. Cavalcando lungo il Nilo sul suo cavallo incontra un vecchio eremita su di una imbarcazione, che gli consiglia, se ha cara la vita, di continuare il viaggio sull’altra riva del fiume, così da non incontrare il gigante Caligorante che è solito catturare le persone con una rete che egli tiene nascosta, divorarle ed adornare con le loro pelli la propria dimora. Astolfo, con estremo onore e coraggio, prosegue invece oltre alla ricerca del gigante. Quest’ultimo, visto arrivare Astolfo, pensa di prendere il cavaliere alle spalle, ma il duca però ferma subito il cavallo e suona il corno magico, facendo cadere il gigante nella rete. Catturato Caligorante, dapprima lo lega, poi lo libera dalla rete divina e se lo porta dietro come trofeo.

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Gustave Doré: Astolfo porta in trofeo il gigante Caligorante

Ancora un’altra avventura per Astolfo, infatti viene a sapere che alla foce del Nilo vive un ladrone, di nome Orrilo, che il cavaliere vuole andare a vedere. Arrivato sul posto, il duca assiste al combattimento tra quella persona incantata ed due nipoti di Orlando, Grifone e Aquilante. Qualunque ferita o mutilazione venga inflitta al ladrone, lui si ricompone e riprende normalmente il combattimento. Assistono alla scena anche due donne, le due fate che avevano nutrito i due, quando erano giovani, che dopo averli sottratti alla loro madre, li avevano spinti a confrontarsi in duello con Orrilo. Astolfo viene a sapere che l’unico modo per rendere Orrilo vulnerabile è di strappargli di testa un capello fatato. Quindi, il giorno dopo, durante il combattimento, il duca decapita l’avversario e rade completamente la testa di Orrilo. Subito la testa perde vita, così come ogni altra parte del corpo del ladrone. I due giovani ora si possono unire ad Astolfo per combattere contro i saraceni. Uno dei due giovani, Grifone, viene a sapere che Orrilige, la donna da lui amata (tanto bella quanto crudele), ha abbandonato Constantinopoli, dove lui l’aveva lasciata, per seguire un suo nuovo amante. Il ragazzo pensa quindi di raggiungere l’amata per riprendersela.

Arnold Böcklin, Astolfo che fugge con la testa di Orrillo, 1874.jpgArnold Böcklin, Astolfo che fugge con la testa di Orrillo, 1874

Nel canto XVI Grifone incontra Orrilige, donna crudele ed infedele, a Damasco in compagnia di un cavaliere, altrettanto ingiusto; i due si stanno dirigendo in città per partecipare ad una giostra. Orrilige finge che il cavaliere sia suo fratello, e così Grifone entra in città in compagnia della donna e del nuovo amante di lei.

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Il canto XVI in una miniatura

Nel frattempo, a Parigi, infuria la guerra: Rodomonte giunge nella cerchia interna di mura della città di Parigi, fa strage del popolo inerme; uccide senza alcuna pietà vecchi e bambini e infine dà fuoco a tutte le abitazioni e le percuote così da farle crollare. Rinaldo, giunto infine a Parigi con i rinforzi inglesi, li incita a difendere la città; suona la carica e assale le schiere saracene all’improvviso. Il rumore della guerra è assordante. Il cielo viene oscurato dalla polvere sollevata dagli eserciti, dall’alito dei soldati e dal vapore rilasciato dal loro sudore. La terra si tinge di rosso ed è coperta di cadaveri. L’esercito pagano subisce grosse perdite, molti scappano, ed inizia a perdere terreno. Re Agramante abbandona l’assedio e manda parte dell’esercito a difendere l’accampamento contro gli Irlandesi. Questi cavalieri, visto il numero immenso di soldati che li assale, scappano lasciando indietro il cavaliere Zerbino, senza più cavallo. Rinaldo blocca la fuga degli scozzesi, giunge in soccorso di Zerbino e conquista con le armi spazio sufficiente per consentirgli di salire su un nuovo destriero. Zerbino si lancia subito al combattimento contro la schiera di re Agramante. Rinaldo lancia al galoppo Baiardo contro re Agramante stesso, lo colpisce e lo butta a terra insieme al cavallo. Intanto, re Carlo viene informato della distruzione e della strage che sta compiendo un solo uomo nell’altra parte della città; infatti si accorge delle fiamme che avvolgono parte della città e dei pianti e delle grida che da lì giungono; raccoglie intorno a sé i più valorosi cavalieri e si dirige contro il nemico saraceno.

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Miniatura per il XVII canto

Nel XVII re Carlo vede che la maggior parte del popolo si è barricata nel palazzo reale e dalle sue mura esterne butta pezzi di tetto e di colonne su Rodomonte, che a colpi di spada sta per aprirsi un passaggio nel portone principale. Re Carlo, insieme ai paladini ed ai cavalieri al suo seguito si lancia contro il saraceno. Tornando a parlare di Grifone, il cavaliere entra nella bellissima e ricchissima città di Damasco in compagnia della donna e del nuovo amante di lei. Un cavaliere li ferma lungo la via e li accoglie nel proprio palazzo, invitandoli alla giostra organizzata dal re Norandino. Quest’ultimo era stato per lungo tempo innamorato di Lucina, figlia del re di Cipro. Dopo averla finalmente sposata, al ritorno in patria la loro nave era stata colta da una tempesta, e dopo tre giorni in mare erano infine giunti su una spiaggia. Mentre il re è intento nella caccia per procurare del cibo, il resto dell’equipaggio viene assalito da un orco. Il mostro è cieco ma compensa la mancanza con un infallibile fiuto e così riesce a catturarne molti; poi porta i rimanenti nella propria tana e li rinchiude in una caverna, dove prima si trovava il suo gregge. L’orco va quindi a fare pascolare gli animali. Tornato dalla caccia, il re si accorge di quanto successo. Quelli che si sono salvati sulla nave gli raccontano l’accaduto e lui decide subito di andare a caccia dell’orco per riprendersi Lucina. Raggiunta la tana del mostro, la moglie dell’orco gli dice che non deve temere per la vita di Lucina, perché il mostro è solito mangiare solo uomini, le donne vengono invece rinchiuse in quella grotta in cui si trova lei stessa insieme a tante altre. Consiglia a Norandino di andarsene, ma il desiderio del re di ritrovare l’amata è tanto grande da non farlo muovere da lì, e quindi la donna lo aiuta, ungendogli il corpo con del grasso animale, in modo da coprire completamente il suo odore. Mettendosi inoltre la pelle di un caprone si mescola al gregge riportato alla tana dal mostro e riesce quindi a rivedere Lucina. Norandino spiega agli altri come travestirsi e scappare.

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Giovanni Lanfranco: Oroco, Norandino e Lucina, 1621

Il mattino dopo l’orco apre la grotta ed insieme al gregge escono anche Norandino e tutti gli altri. Eccetto Lucina perché il mostro riconosce che non si tratta di un vero caprone e la ricaccia nella grotta. La sera l’orco, ritornato alla grotta, si accorge della fuga di tutti i sui prigionieri e punisce Lucina incatenandola nuda sulla cima dello scoglio. Arriveranno i re Mandricardo e Gradasso che la libereranno; la giostra è quindi in memoria della salvezza ottenuta dopo quattro mesi passati nella grotta dell’orco. Quindi Grifone, Orrilige e Martano (nome dell’amante della donna) si recano al torneo. Sarà vincitore chi riuscirà a sconfiggere tutti e otto i cavalieri scelti dal Norandino tra i più valorosi e più fedeli suoi servitori. Entra dapprima Martano, ma per viltà fugge deriso da tutti gli spettatori. Quindi tocca a Grifone che si lancia al combattimento e sconfigge tutti e otto i cavalieri. Norandino elegge Grifone vincitore. Irato con Martano, ma convinto da Orrilige i tre lasciano la città, ma a Grifone, addormentato, gli viene rubata l’armatura. Martano, con l’armatura del vincitore, si presenta dal re, ma Grifone si rende conto dell’inganno. Prende le armi, l’armatura ed il cavallo lasciati dal vile cavaliere e si mette subito in viaggio per abbandonare la città. Dall’alto di un castello il re riconosce però il cavaliere tanto deriso il giorno prima e Grifone, nascosto dall’armatura di Martano viene fatto prigioniero. Lasciato finalmente libero all’ingresso della città, Grifone si mostra pronto a vendicarsi dell’umiliazione e combattere nuovamente per il proprio onore.

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Miniatura che introduce il canto XVIII

Quindi il XVIII libro si apre con Grifone, acceso d’ira per il disonore subito, che fa strage degli abitanti di Damasco. Si torna immediatamente a Parigi, dove re Carlo si lancia contro Rodomonte insieme al suo seguito di paladini e cavalieri. Ma la corazza del pagano, costruita con scaglie di drago, resiste a qualsiasi colpo e Rodomonte non subisce alcuna fatica. Accortosi però che, pur uccidendone molti, nuovi avversari si accalcano intorno a lui, Rodomonte si apre una via a colpi di spada e lascia infine la città buttandosi nel fiume. Ma quando esce dall’acqua, dispiaciuto per non aver distrutto la città, sta per tornare indietro, quando Discordia lo informa che la propria donna è stata rapita da Mandricardo. Allora il feroce saraceno decide subito di partire alla ricerca della donna. Intanto a Parigi, allontanato Rodomonte dalla città, re Carlo esce dalle mura e assale la retroguardia dell’esercito saraceno, che si trova tra due fuochi, essendo l’altro fronte battuto dai cavalieri cristiani Lucarnio, Zerbino e soprattutto Rinaldo. Ma Ferraù e Dardinello incitano i compagni saraceni alla battaglia; Dardinello uccide Lucarnio, ma sarà Rinaldo a vendicarlo. Si torna a Damasco dove re Norandino, visto il valore di quel cavaliere che su consiglio di Orrilige e Martano aveva esposto alla pubblica umiliazione, si accorge dell’errore commesso e chiede quindi scusa a Grifone e placa così l’ira del cristiano (sfinito dal combattimento ed anche ferito in più punti). Il cavaliere viene quindi accolto nel palazzo reale. Astolfo e Aquilante, che sono alla ricerca di Grifone, vengono infine anche loro a sapere che Orrilige, la donna da lui amata, ha abbandonato Constantinopoli, dove lui l’aveva lasciata, per seguire il suo nuovo amante Martano. Aquilante parte subito per l’Antiochia, quindi per Damasco e sulla sua via incontra infine Martano con le armi, l’armatura ed il cavallo dal fratello Grifone. Aquilante temendo per la vita del fratello, minaccia i due di morte se non gli raccontano subito l’accaduto. Martano credendo di ridurre le proprie colpe, dice di essere il fratello della donna e di aver sottratto con l’astuzia armi. Il cavaliere cristiano sa però che i due sono amanti e non fratelli, li lega entrambi e li trascina quindi con sé fino a Damasco. Nella città tutti hanno saputo da Grifone il vero corso degli avvenimenti e quindi i due malvagi vengono rinchiusi in prigione. Re Norandino per ripagare ulteriormente Grifone del torto subito fa bandire un’altra giostra in suo onore; la notizia del torneo si sparge ovunque, fino in Palestina. Sansonetto e Zerbino, saputo del torneo, partono a cavallo per raggiungere Damasco. Incontrano durante il viaggio Marfisa, una donna tanto valorosa in combattimento da aver fatto faticare gli stessi Orlando e Rinaldo; si unisce a loro per mostrare il proprio valore partecipando alla giostra organizzata da re Norandino. Il premio è costituito da un destriero e da altre armi (convinto della vittoria di Grifone, Norandino voleva donargli il completo da cavaliere) che vengono messe in bella mostra insieme all’armatura già vinta da Grifone. Marfisa riconosce nell’armatura esposta quella che, per poter inseguire Brunello, le era stata rubata. La donna si impossessa subito di ciò che era stato suo ed inizia una feroce battaglia. Marfisa si apre con la spada un via di fuga tra l’ira dei cittadini, ma dopo essersi riconosciuti, Marfisa spiega loro, e poi anche al re Norandino, la ragione del suo gesto. Tornata quindi la pace e terminata la giostra tutti e cinque i cavalieri partono infine via mare per la Francia. La loro nave verrà però sorpresa da una tempesta poco dopo aver lasciato l’isola di Cipro. Nella battaglia tra saraceni e cristiani Rinaldo lancia il proprio cavallo Baiardo contro Dardinello. Tutti i soldati saraceni rimangono impietriti dalla paura vedendo con quanta ferocia il paladino, la cui spada era molto temuta, si scagli contro Dardinello, che rimane ucciso poco dopo. Quel giorno, infatti, viene fatta strage dell’esercito saraceno e solo la ritirata lo salva dal suo completo annientamento. L’esercito cristiano, guidato da Re Carlo, si accampa all’esterno dell’insediamento avversario. Tra i molti arabi che piangono amici o parenti morti quel giorno, ci sono Cloridano e Medoro, senza pari per bellezza in tutto l’esercito pagano, che piangono la morte dell’amato Dardinello.

CLORIDANO E MEDORO
(XVIII, 165-192)

Duo Mori ivi fra gli altri si trovaro,
d’oscura stirpe nati in Tolomitta;
de’ quai l’istoria, per esempio raro
di vero amore, è degna esser descritta.
Cloridano e Medor si nominaro,
ch’alla fortuna prospera e alla afflitta
aveano sempre amato Dardinello,
ed or passato in Francia il mar con quello.

Cloridan, cacciator tutta sua vita,

di robusta persona era ed isnella:
Medoro avea la guancia colorita
e bianca e grata ne la età novella;
e fra la gente a quella impresa uscita
non era faccia più gioconda e bella:
occhi avea neri, e chioma crespa d’oro:
angel parea di quei del sommo coro.

Erano questi duo sopra i ripari

con molti altri a guardar gli alloggiamenti,
quando la Notte fra distanze pari
mirava il ciel con gli occhi sonnolenti.
Medoro quivi in tutti i suoi parlari
non può far che ’l signor suo non rammenti,
Dardinello d’Almonte, e che non piagna
che resti senza onor ne la campagna.

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Medoro con il corpo del suo re

Volto al cornpagno, disse: «O Cloridano,
io non ti posso dir quanto m’incresca
del mio signor, che sia rimaso al piano,
per lupi e corbi, ohimé! troppo degna esca.
Pensando come sempre mi fu umano,
mi par che quando ancor questa anima esca
in onor di sua fama, io non compensi
né sciolga verso lui gli oblighi immensi.

Io voglio andar, perché non stia insepulto
in mezzo alla campagna, a ritrovarlo:
e forse Dio vorrà ch’io vada occulto
là dove tace il campo del re Carlo.
Tu rimarrai; che quando in ciel sia sculto
ch’io vi debba morir, potrai narrarlo:
che se Fortuna vieta sì bell’opra,
per fama almeno il mio buon cor si scuopra.»

Stupisce Cloridan, che tanto core,
tanto amor, tanta fede abbia un fanciullo:
e cerca assai, perché gli porta amore,
di fargli quel pensiero irrito e nullo;
ma non gli val, perch’un sì gran dolore
non riceve conforto né trastullo.
Medoro era disposto o di morire,
o ne la tomba il suo signor coprire.

Veduto che nol piega e che nol muove,
Cloridan gli risponde: «E verrò anch’io,
anch’io vuo’ pormi a sì lodevol pruove,
anch’io famosa morte amo e disio.
Qual cosa sarà mai che più mi giove,
s’io resto senza te, Medoro mio?
Morir teco con l’arme è meglio molto,
che poi di duol, s’avvien che mi sii tolto.»

Così disposti, messero in quel loco
le successive guardie, e se ne vanno.
Lascian fosse e steccati, e dopo poco
tra’ nostri son, che senza cura stanno.
Il campo dorme, e tutto è spento il fuoco,
perché dei Saracin poca tema hanno.
Tra l’arme e’ carriaggi stan roversi,
nel vin, nel sonno insino agli occhi immersi.

Fermossi alquanto Cloridano, e disse:
«Non son mai da lasciar l’occasioni.
Di questo stuol che ’l mio signor trafisse,
non debbo far, Medoro, occisioni?
Tu, perché sopra alcun non ci venisse,
gli occhi e l’orecchi in ogni parte poni;
ch’io m’offerisco farti con la spada
tra gli nimici spaziosa strada.»

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Gustave Doré: Medoro che trascina il corpo di Dardanello

Cloridano e Medoro s’inoltrano dunque nell’accampamento cristiano, immerso nel silenzio e nel sonno, e fanno strage dei nemici, fino a giungere a ridosso del padiglione di Carlo, circondato e protetto dai paladini.

Gl’insidiosi ferri eran vicini
ai padiglioni che tiraro in volta
al padiglion di Carlo i paladini,
facendo ognun la guardia la sua volta;
quando da l’empia strage i Saracini
trasson le spade, e diero a tempo volta;
ch’impossibil lor par, tra sì gran torma,
che non s’abbia a trovar un che non dorma.

E ben che possan gir di preda carchi,
salvin pur sé, che fanno assai guadagno.
Ove più creda aver sicuri i varchi
va Cloridano, e dietro ha il suo compagno.
Vengon nel campo, ove fra spade ed archi
e scudi e lance in un vermiglio stagno
giaccion poveri e ricchi, e re e vassalli,
e sozzopra con gli uomini i cavalli.

Quivi dei corpi l’orrida mistura,

che piena avea la gran campagna intorno,
potea far vaneggiar la fedel cura
dei duo compagni insino al far del giorno,
se non traea fuor d’una nube oscura,
a’ prieghi di Medor, la Luna il corno.
Medoro in ciel divotamente fisse
verso la Luna gli occhi, e così disse:

«O santa dea, che dagli antiqui nostri
debitamente sei detta triforme;
ch’in cielo, in terra e ne l’inferno mostri
l’alta bellezza tua sotto più forme,
e ne le selve, di fere e di mostri
vai cacciatrice seguitando l’orme;
mostrami ove ’l mio re giaccia fra tanti,
che vivendo imitò tuoi studi santi.»

La luna a quel pregar la nube aperse
(o fosse caso o pur la tanta fede),
bella come fu allor ch’ella s’offerse,
e nuda in braccio a Endimion si diede.
Con Parigi a quel lume si scoperse
l’un campo e l’altro; e ’l monte e ’l pian si vede:
si videro i duo colli di lontano,
Martire a destra, e Lerì all’altra mano,

Rifulse lo splendor molto più chiaro
ove d’Almonte giacea morto il figlio.
Medoro andò, piangendo, al signor caro;
che conobbe il quartier bianco e vermiglio:
e tutto ’l viso gli bagnò d’amaro
pianto, che n’avea un rio sotto ogni ciglio,
in sì dolci atti, in sì dolci lamenti,
che potea ad ascoltar fermare i venti.

Ma con sommessa voce e a pena udita;
non che riguardi a non si far sentire,
perch’abbia alcun pensier de la sua vita,
più tosto l’odia, e ne vorrebbe uscire:
ma per timor che non gli sia impedita
l’opera pia che quivi il fe’ venire.
Fu il morto re sugli omeri sospeso
di tramendui, tra lor partendo il peso.

Vanno affrettando i passi quanto ponno,
sotto l’amata soma che gl’ingombra.
E già venìa chi de la luce è donno
le stelle a tor del ciel, di terra l’ombra;
quando Zerbino, a cui del petto il sonno
l’alta virtude, ove è bisogno, sgombra,
cacciato avendo tutta notte i Mori,
al campo si traea nei primi albori.

E seco alquanti cavallieri avea,
che videro da lunge i dui compagni.
Ciascuno a quella parte si traea,
sperandovi trovar prede e guadagni.
«Frate, bisogna (Cloridan dicea)
gittar la soma, e dare opra ai calcagni;
che sarebbe pensier non troppo accorto,
perder duo vivi per salvar un morto.»

E gittò il carco, perché si pensava
che ’l suo Medoro il simil far dovesse:
ma quel meschin, che ’l suo signor più amava,
sopra le spalle sue tutto lo resse.
L’altro con molta fretta se n’andava,
come l’amico a paro o dietro avesse:
se sapea di lasciarlo a quella sorte,
mille aspettate avria, non ch’una morte.

Quei cavallier, con animo disposto
che questi a render s’abbino o a morire,
chi qua chi là si spargono, ed han tosto
preso ogni passo onde si possa uscire.
Da loro il capitan poco discosto,
più degli altri è sollicito a seguire;
ch’in tal guisa vedendoli temere,
certo è che sian de le nimiche schiere.

Era a quel tempo ivi una selva antica,
d’ombrose piante spessa e di virgulti,
che, come labirinto, entro s’intrica
di stretti calli e sol da bestie culti.
Speran d’averla i duo pagan sì amica,
ch’abbi a tenerli entro a’ suoi rami occulti.
Ma chi del canto mio piglia diletto,
un’altra volta ad ascoltarlo aspetto.

Lì insieme agli altri si trovarono anche due arabi, nati nella Tolometta, di sconosciuta stirpe, la storia dei quali, come raro esempio di vero amore, è degna di essere raccontata. Cloridano e Medoro erano i loro nomi, sia nella buona che nella cattiva sorte avevano sempre avuto a cuore Dardinello, ed avevano quindi poi attraverso con lui il mare per giungere in Francia. // Cloridano, cacciatore da quando era nato, era una persona forte e snella: Medoro aveva le guancie colorite, bianche e leggiadre della prima giovinezza; e tra le persone accorse dall’Africa per partecipare a quella impresa non vi era viso più bello ed allegro: aveva occhi neri, e capelli riccioli color oro: sembra un angelo, Serafino, appartenente alla gerarchia più elevata. // Si trovavano entrambi sopra le fortificazioni, insieme a molti altri, a difesa degli alloggiamenti, quando la notte, a metà del suo corso, guardava ormai il cielo con occhi sonnolenti. Medoro, tra tutti gli argomenti di discussione non può fare a meno di ricordare il proprio signore, Dardinello figlio di Almonte, e non riesce a non piangere per il fatto che resti senza degna sepoltura sul campo di battaglia. // Rivolto al compagno disse quindi: «Oh Cloridano, io non riesco ad esprimere quanto mi dispiaccia della sorte capitata al mio signore, rimasto abbandonato sul terreno, per i lupi ed i corvi, ahimè, cibo troppo nobile. Pensando a quanto è stato sempre buono nei miei confronti, mi sembra che se anche dovessi morire per salvare l’onore della sua buona reputazione, non potrei compensare né sciogliere gli immensi obblighi che ho nei suoi confronti. // Io voglio andare a cercarlo, affinché non rimanga insepolto in mezzo alla campagna: e forse Dio vorrà aiutarmi, tenendomi nascosto mentre procedo attraverso l’accampamento, immerso nel sonno, di re Carlo. Tu invece rimarrai qui: perché se in cielo è scritto che io debba morire durante tale impresa, potrai tu comunque raccontarla: così che, se la Fortuna non permetterà una così bella opera, il mio buon cuore possa essere reso noto almeno a voce». Cloridano si stupisce che così tanto cuore, tanto amore, tanta fedeltà, possa avere un ragazzo: cerca quindi in ogni modo, intenerito da lui, di rendere quel suo pensiero vano, incompiuto; ma non ci riesce, perché un così grande dolore non può ricevere conforto né subire distrazione. Medoro aveva deciso o di morire o di seppellire in una degna tomba il suo signore. // Visto che non riesce né a piegare né a smuovere la sua volontà, Cloridano gli risponde: «Verrò allora anche io con te, anche io voglio intraprendere una tanto lodevole prova, anche io desidero ed amo una morte tanto gloriosa. Quale cosa potrà mai giovarmi di più, se io dovessi restare senza di te, mio caro Medoro? Morire con le armi insieme a te è molto meglio che farlo per il dolore, se dovesse accadere che tu mi sia tolto, tu muoia». Così decisi, misero al loro posto su quel bastione le guardie del turno successivo, e se ne andarono. Superano fossati e trincee, e dopo poco sono tra i soldati cristiani, che non mostrano nessuna preoccupazione. Tutto l’accampamento dorme, tutti i fuochi sono spenti, perché hanno poca paura dei saraceni. Stanno rovesciati tra le armi ed i carri, ubriachi, immersi in un sonno profondo. Cloridano si fermò un poco e disse: «Le occasioni, quando si presentano, non sono mai da lasciare. Di questo esercito, che ha trafitto ed ucciso il mio signore, non devo fare, Medoro, strage? Tu, affinché nessuno ci giunga addosso, poni orecchie ed occhi da ogni parte; che io mi offro di farti con la mia spada una spaziosa via di passaggio tra i nemici».
(…)
Le minacciose spade di Cloridano e Medoro erano ormai vicine ai padiglioni che i paladini avevano allestito tutt’intorno al padiglione principale di re Carlo, così da poter fare ognuno, a turno, la guardia; a quel punto i saraceni ritirarono le loro spade dal compiere la crudele strage, e tornarono quindi indietro in tempo; perché a loro sembra impossibile, in mezzo a così tanta gente, non tro-vare infine uno che in realtà non dorma. // E sebbene possano anche andarsene carichi di bottino, pensino piuttosto salvare se stessi, perché sarebbe un grande guadagno. Cloridano procede dove crede di avere il più sicuro passaggio, dietro sé ha il proprio compagno. Giungono sul campo di battaglia, dove tra spade ed archi e scudi e lance, in una pozza rossa sangue, giacciono morti poveri e ricchi, re e semplici vassalli, ed i cavalli sottosopra con i loro cavalieri. // Quell’orribile ammasso intricato di corpi, che riempiva in ogni luogo tutta la vasta campagna, avrebbe potuto vanificare il fedele proposito di ritrovare Dardinello, dei due compagni, fino alla mattina del giorno seguente, se la Luna non avesse tratto fuori da una scura nube, come da preghiere di Medoro, la sua falce luminosa. Medoro con devozione fissò in cielo, verso la luna, i propri occhi, e così si pronunciò: // «Oh santa Dea, che dai nostri antenati sei stata giustamente detta triforme (Dea di cielo, terra ed inferno); che nel cielo, sulla terra e nel profondo inferno mostri la tua suprema bellezza sotto più forme, e nelle selve, animali selvaggi e mostri vai cacciando, nelle vesti di Diana, seguendone le orme; indicami il punto dove giace in mezzo a tanti altri il mio re, che da vivo si dedicò all’attività sacra a te consacrata, la caccia. // A quelle preghiere la Luna aprì la scura nube che la nascondeva (fosse stato un puro caso o altrimenti la tanta fede mostrata da Medoro), e si mostrò bella come lo fu quando offrì sé stessa, e si abbandonò nuda tra le braccia di Endimione. A quella luce Parigì venne scoperta, resa visibile, insieme ad entrambi gli accampamenti; furono visibili il monte e la pianura: si videro i due colli lontani, Montmartre sulla destra e Montlhery sulla sinistra. // Lo splendore della Luna fu più vivo laddove giaceva morto il corpo di Dardinello, figlio di Almonte. Medoro andò, piangendo, nei pressi del suo caro signore: del quale riconobbe l’insegna a riquadri bianchi e rossi: e gli bagnò tutto il viso con le lacrime del suo doloroso pianto, che gli rigava il viso, come un fiume, sotto entrambi gli occhi, con così dolci gesta, con così dolci lamenti, che ad ascoltarlo avrebbe potuto fermare i venti per la compassione. // Ma si lamenta con una voce bassa ed a malapena udibile; non perché si guardi bene dall’essere udito, avendo preoccupazione per la salvezza della sua propria vita, al contrario, infatti, la odia e vorrebbe abbandonarla: lo fa per la paura che gli possa essere impedito il compimento di quella opera pia che la ha fatto andare fino a quel luogo. Il corpo morto del loro re fu sollevato sulle spalle di entrambi, così da dividere il peso tra di loro. // Procedono quindi affrettando quanto possono i loro passi, sotto il caro peso che li ostruisce. Già sopraggiungeva il sole, signore della luce, a togliere le stelle dal cielo, e l’ombra dalla terra; quando Zerbino, al quale libera il petto dal sonno, nel momento del bisogno, la suprema virtù che possiede, avendo dato la caccia tutta la notte ai nemici, ritorna, con le prime luci del giorno, all’accampamento. // E con sé aveva al seguito un buon numero di cavalieri, che da lontano videro subito i due compagni, Medoro e Cloridano. Ognuno dei cavalieri si dirigeva da quella parte, verso di loro, sperando di poter trovare un bottino ed un guadagno. Disse Cloridano: «Fratello, bisogna gettare il peso che portiamo e darsi alla fuga; sarebbe al contrario un’idea non troppo astuta perdere due persone vive per salvarne una morta». // E gettò quindi il carico, pensando che il suo caro Medoro dovesse fare altrettanto: ma quel meschino, che amava il suo signore più di sé stesso, tenne invece tutto il peso sopra le proprie spalle. Cloridano di tutta fretta si mise in fuga, come se avesse avuto l’amico o al fianco od almeno dietro di sé: se si fosse reso conto di averlo abbandonato a quella sorta, avrebbe atteso senza alcuna cura non una morte, ma mille. // Quei cavalieri, con l’animo risoluto che i due si debbano arrendere o altrimenti morire, chi da una parte e chi dall’altra, si sparpagliano, e subito bloccano ogni possibile via di fuga. Poco lontano da loro, il loro capitano si lancia all’inseguimento anche più velocemente degli altri; poiché vedendoli così agire spinti dalla paura, è certo che entrambi appartengano all’esercito nemico. // C’era a quel tempo lì vicino una antica selva, fitta di piante ombrose e di giovani arbusti, che, alla pari di un labirinto, al suo interno si avvolge su stretti sentieri frequentati solo da bestie. I due pagani sperano possa essere tanto loro amica da riuscire a tenerli nascosti tra i suoi rami intricati. Ma chi trova piacere dal mio raccontare, e vuole saperne di più, dovrà aspettare ancora prima di poterlo nuovamente ascoltare.

Il canto seguente, il XIX, dopo una piccola introduzione sulla fedeltà (su cui Ariosto, con un sorriso, sembra alludere a se stesso riguardo al suo “padrone”), riprende la storia di Cloridano e Medoro:

LA MORTE DI CLORIDANO
(XIX, 3-16)

Cercando già nel più intricato calle
il giovine infelice di salvarsi;
ma il grave peso ch’avea su le spalle,
gli facea uscir tutti i partiti scarsi.
Non conosce il paese, e la via falle,
e torna fra le spine a invilupparsi.
Lungi da lui tratto al sicuro s’era
l’altro, ch’avea la spalla più leggiera.

Cloridan s’è ridutto ove non sente

di chi segue lo strepito e il rumore:
ma quando da Medor si vede absente,
gli pare aver lasciato a dietro il core.
«Deh, come fui – dicea – sì negligente,
deh, come fui sì di me stesso fuore,
che senza te, Medor, qui mi ritrassi,
né sappia quando o dove io ti lasciassi!»

Così dicendo, ne la torta via
de l’intricata selva si ricaccia;
ed onde era venuto si ravvia,
e torna di sua morte in su la traccia.
Ode i cavalli e i gridi tuttavia,
e la nimica voce che minaccia:
all’ultimo ode il suo Medoro, e vede
che tra molti a cavallo è solo a piede.
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Medoro in mezzo ai soldati irlandesi

Cento a cavallo, e gli son tutti intorno:
Zerbin commanda e grida che sia preso.
L’infelice s’aggira com’un torno,
e quanto può si tien da lor difeso,
or dietro quercia, or olmo, or faggio, or orno,
né si discosta mai dal caro peso.
L’ha riposato al fin su l’erba, quando
regger nol puote, e gli va intorno errando:

come orsa, che l’alpestre cacciatore
ne la pietrosa tana assalita abbia,
sta sopra i figli con incerto core,
e freme in suono di pietà e di rabbia:
ira la ’nvita e natural furore
a spiegar l’ugne e a insanguinar le labbia;
amor la ’ntenerisce, e la ritira
a riguardare ai figli in mezzo l’ira.

Cloridan, che non sa come l’aiuti,
e ch’esser vuole a morir seco ancora,
ma non ch’in morte prima il viver muti,
che via non truovi ove più d’un ne mora;
mette su l’arco un de’ suoi strali acuti,
e nascoso con quel sì ben lavora,
che fora ad uno Scotto le cervella,
e senza vita il fa cader di sella.

Volgonsi tutti gli altri a quella banda
ond’era uscito il calamo omicida.
Intanto un altro il Saracin ne manda,

perché ’l secondo a lato al primo uccida;
che mentre in fretta a questo e a quel domanda
chi tirato abbia l’arco, e forte grida,
lo strale arriva e gli passa la gola,
e gli taglia pel mezzo la parola.

Or Zerbin, ch’era il capitano loro,
non poté a questo aver più pazienza.
Con ira e con furor venne a Medoro,
dicendo: «Ne farai tu penitenza».
Stese la mano in quella chioma d’oro,
e strascinollo a sé con violenza:
ma come gli occhi a quel bel volto mise,
gli ne venne pietade, e non l’uccise.

Il giovinetto si rivolse a’ prieghi,
e disse: «Cavallier, per lo tuo Dio,
non esser sì crudel, che tu mi nieghi
ch’io sepelisca il corpo del re mio.
Non vo’ ch’altra pietà per me ti pieghi,
né pensi che di vita abbi disio:
ho tanta di mia vita, e non più, cura,
quanta ch’al mio signor dia sepultura.

E se pur pascer vòi fiere ed augelli,
che ’n te il furor sia del teban Creonte,
fa lor convito di miei membri, e quelli
sepelir lascia del figliuol d’Almonte».
Così dicea Medor con modi belli,
e con parole atte a voltare un monte;
e sì commosso già Zerbino avea,
che d’amor tutto e di pietade ardea.

In questo mezzo un cavallier villano,
avendo al suo signor poco rispetto,
ferì con una lancia sopra mano
al supplicante il delicato petto.
Spiacque a Zerbin l’atto crudele e strano;
tanto più, che del colpo il giovinetto
vide cader sì sbigottito e smorto,
che ’n tutto giudicò che fosse morto.

E se ne sdegnò in guisa e se ne dolse,
che disse: «Invendicato già non fia!»
e pien di mal talento si rivolse
al cavallier che fe’ l’impresa ria:

ma quel prese vantaggio, e se gli tolse
dinanzi in un momento, e fuggì via.
Cloridan, che Medor vede per terra,
salta del bosco a discoperta guerra.

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Immagine di un’edizione illustrata dell’Orlando Furioso

E getta l’arco, e tutto pien di rabbia
tra gli nimici il ferro intorno gira,
più per morir, che per pensier ch’egli abbia

di far vendetta che pareggi l’ira.
Del proprio sangue rosseggiar la sabbia
fra tante spade, e al fin venir si mira;
e tolto che si sente ogni potere,
si lascia a canto al suo Medor cadere.

Seguon gli Scotti ove la guida loro
per l’alta selva alto disdegno mena,
poi che lasciato ha l’uno e l’altro Moro,
l’un morto in tutto, e l’altro vivo a pena.
Giacque gran pezzo il giovine Medoro,
spicciando il sangue da sì larga vena,
che di sua vita al fin saria venuto,
se non sopravenia chi gli diè aiuto.

Il giovane infelice andava allora cercando nei sentieri più intricati di salvarsi; ma il pesante carico che aveva sulle spalle, rendeva vani tutti i suoi tentativi. Non conosce quei luoghi, e sbaglia la via, tornando ad avvolgersi nei rovi. Lontano da lui si era invece messo al sicuro Cloridano, avendo la spalla più leggera, senza pesi da sostenere. // Cloridano si è rifugiato in un luogo dal quale non può sentire il rumore egli schiamazzi di chi è al suo inseguimento: ma quando si accorge che Medoro non è più con lui, gli sembra di avere lasciato indietro il proprio cuore. Diceva a sé stesso: «Come sono stato tanto negligente, come ho perso il controllo di me stesso, che mi sono trovato ad essere senza di te, Medoro, qui, senza neppure sapere quando e dove ti ho lasciato!» // Così dicendo, si ributta nell’attorcigliato sentiero di quell’intricata selva; riavviandosi verso il punto da dove era venuto, e torna sulle tracce che condurranno alla sua morte. Sente continuamente il rumore dei cavalli, le urla dei cavalieri, ed i nemici che pronunciano minacce: infine sente il suo Medoro, e lo vede, tra molti altri a cavallo, unico a piedi. // Ce ne sono cento a cavallo e sono tutti intorno a lui: Zerbino comanda i cavalieri e grida loro l’ordine di catturarlo. L’infelice Medoro si aggira come un tornio, e quanto può cerca di difendersi da loro, ora dietro una quercia, ora un olmo, ora un faggio ed ora un ornello, senza mai separarsi dal caro peso che porta sulle spalle. Alla fine lo posa nuovamente sull’erba, quando non può più reggerne il peso, e gli gira intorno, vagando senza meta: // come un orsa, che il cacciatore di montagna abbia sorpreso nella sua tana di pietra, si pone con animo combattuto sopra i propri figli, e si agita con frastuono tra l’amore per i cuccioli e la ferocia per il cacciatore: spinta dall’ira e dal suo furore innato a tirar fuori le unghie ed a voler insanguinare le labbra; l’amore la intenerisce e la fa indietreggiare, nel mezzo dell’ira, per guardare con attenzione ai propri figli. // Cloridano, che non sa come poter essere d’aiuto a Medoro, e che vuole essere al suo fianco anche nella morte, ma non vuole che il suo vivere sia trasformato in morte  prima di aver trovato il modo di uccidere più di un nemico: pone nell’arco una delle sue frecce acuminate, e, rimanendo nascosto, fa con quell’arma un lavoro tanto buono, che trapassa le cervella ad un nemico Scozzese, e lo fa quindi cadere morto da cavallo. // Tutti gli altri volgono lo sguardo da quella parte dalla quale era arrivato il dardo omicida. Il saraceno intanto ne lancia un altro, per uccidere un secondo nemico, quello a lato del primo caduto morto; e mentre costui in tutta fretta domanda in giro chi abbia tirato con l’arco, gridando forte, arriva la freccia e gli trapassa la gola, e la parola gli interrompe a metà. // Ora Zerbino, che era il loro capitano, non poté a quel punto avere più pazienza. Con ira e con furore si avvicinò a Medoro, dicendo: «Ne pagherai tu le conseguenze». Allungò la mano afferrando la sua bionda chioma e lo trascinò a sé con violenza: ma non appena pose i propri occhi su quel bel volto, non poté fare a meno di provare pietà per lui, e non lo uccise. // Il giovane ragazzo ricorse alle preghiere, e disse: «Cavaliere, in nome del tuo Dio, non essere tanto crudele da impedire che io possa dare degna sepoltura al corpo del mio re. Non voglio che nessun altra pietà nei miei confronti pieghi la tua volontà, né voglio che tu possa pensare che abbia solo il desiderio di poter vivere: ho tanta cura della mia vita, niente di più, quanta ne basta per poter dare sepoltura al mio signore. // E se vuoi invece nutrire fiere ed uccelli, lasciando il corpo insepolto, perché vi è in te la collera del tebano Creonte, che impedì la sepoltura dei nemici morti, fa banchettare loro con le mie membra, e quelle del figliolo di Almonte lascia invece che vengano seppellite». Così pronunciò Medoro con belle maniere, e con parole adatte a smuovere anche una montagna; ed aveva talmente commosso Zerbino, che costui ormai ardeva tutto d’amore e di pietà. // Ma nel frattempo, un cavaliere maleducato, dimostrando poco rispetto nei confronti del suo signore, con una lancia impugnata al di sopra della spalla, ferì il petto delicato del supplicante Medoro. L’atto crudele e barbaro non piacque a Zerbino; tanto più che, per il colpo ricevuto, vide cadere il giovane ragazzo tanto smorto e con espressione tanto impaurita, che credette fosse morto. // E si indignò per l’atto e se ne addolorò in tale misura, che disse: «Non rimarrà ora senza vendetta!» e pieno di sdegno si rivolse al cavaliere che aveva compiuto quell’atto malvagio: ma costui agì d’anticipo, gli si tolse da davanti in un attimo e fuggì via. Cloridano, che vede ora Medoro giacere in terra, salta fuori dal bosco per combattere allo scoperto. // Getta l’arco, e tutto pieno di rabbia agita la propria spada in mezzo ai nemici, più per trovare anch’esso la morte, che con l’intenzione di ottenere una qualche vendetta che possa compensare la sua ira. Vede la sabbia divenire rossa del proprio sangue, tra tante spade nemiche, e si vede ormai in fin di vita; vedendosi tolta ogni forza, si lascia quindi cadere accanto al suo Medoro. // Gli scozzesi proseguono dove il loro comandante Zerbino per la profonda selva, viene condotto dal suo nobile sdegno, dopo che ha lasciato sul campo l’uno e l’altro moro, uno completamente morto e l’altro con molta poca vita. Giaceva in terra già da molto tempo il giovane Medoro, perdendo sangue dalla tanto profonda ferita, che la sua vita, alla fine, avrebbe perduto, se non fosse sopraggiunto chi poi gli diede aiuto.

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I corpi distesi di Cloridano, Medoro e Dardanello mentre i soldati vanno via

E’ un passo fondamentale, quello di Cloridano e Medoro, perché troviamo in esso, per la prima volta nel poema, l’unitarietà “contenutistica” se non proprio tonale (infatti in esso troviamo più stili: tragico, ironico, idillico). Tale scelta sembra dipendere da una maggiore attenzione che il nostro sembra assumere nei confronti dei modelli: Eurialo e Niso dall’Eneide virgiliano e il meno famoso episodio di Opleo e Dimante dalla Tebaide di Stazio (anch’esso ispirato al noto passo dell’autore modenese): tuttavia vi sono alcune differenze: i primi appartenevano all’esercito di Enea, invece questi due sono saraceni, appartenenti all’esercito nemico; se nel poema virgiliano i giovani sono mossi da un medesimo intento (avvisare Enea che Turno ha cominciato ad assediare il loro campo), pur mostrando un’identico andamento, in Ariosto Medoro è spinto dall’amore verso il loro re, Cloridano dall’affetto che nutre verso il giovane ragazzo, ma  in ambedue i poemi i due compagni addurranno la stessa motivazione, non lasciare da soli i loro amici). Simile ancora al modello latino il desiderio per una morte gloriosa: pulchram properet per volnera mortem (affrettare la bella morte nel sangue).  Ariosto, quindi, proprio grazie al modello innalza il linguaggio e i riferimenti alle opere greche e latine (si veda il “matrimonio della luna con Endimione”, “Creonte che lascia insepolti i nemici”) ma non per questo abbandona completamente l’ironia  si veda nell’episodio omesso della strage l’immagine di un uomo ubriaco, ironico già dal nome Grillo, che ucciso emette sangue con il vino come fosse una botte oppure dalla sottile osservazione secondo cui è difficilmente credibile che Cloridano non si accorga della mancanza di Medoro, quando quest’ultimo, per il peso del corpo del re, rimane indietro; ma l’utilizzo anche di uno stile elegiaco quando, rivolto alla luna, essa risponde splendendo sul piano al illuminare il corpo dell’amato re ed il pianto silenzioso affinché possa compiere il suo “cortese” gesto.  Interessante è inoltre il mescolamento dei piani: l’attribuzione della cavalleria ai saraceni e della villania ai cristiani che si esemplifica nella sepoltura del re Dardinello e nella villania del cavaliere scozzese verso Medoro. Un’ultima cosa, infine: abbiamo sempre detto che dietro la fantasia ariostesca si nasconda sempre la verità: l’episodio di Cloridano e Medoro vuole “additare” il concetto di fedeltà ai cortigiani “apparentemente” legati al Signore, ma solo spinti dalla loro arroganza e vanità.

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Giovan Battista Tiepolo: Angelica, Medoro e il pastore

Riprendendo la narrazione vediamo che a salvare Medoro sarà Angelica, vestita di panni umili ma con il solito aspetto regale, che giunge per caso là dove si trova il corpo del saraceno ferito. L’orgoglio della ragazza che le fa ritenere che nessuno sia all’altezza della sua compagnia fa sì che Amore, non potendo più tollerare questo suo comportamento, aspetti Angelica vicino al giovane, colpendola con una freccia e facendola sua prigioniera. Angelica cura la ferita di Medoro e convince un pastore, in-contrato lì vicino, ad aiutarli, dando loro ospitalità, ma prima bisogna dar sepoltura a Dardinello ed a Cloridano. Quanto più il giovane guarisce, tanto più Angelica, ferita da Amore, s’innamora di lui. I due sfogano infine la loro passione e Medoro ottiene così da Angelica ciò che nessun altro cavaliere era mai riuscito ad ottenere. Nella casa del pastore, per rendere legittima la loro unione, i due amanti si sposano. Passano più di un mese ad amoreggiare in ogni luogo e in ogni luogo lasciano la loro traccia. Angelica decide infine di ripartire con Medoro per fare ritorno in India e paga l’ospitalità del pastore donandogli il bracciale prezioso che aveva ricevuto da Orlando come pegno del suo amore. Mentre sono in viaggio, per poco non subiranno danni da un uomo completamente folle (Orlando) incontrato su una spiaggia.

c19-065.jpgLe femmine omicide

Nel frattempo i compagni, allontanatisi da Damasco, giungono sulle coste della città di Alessandretta, dove vivono femmine crudeli ed omicide, che uccidono o fanno prigioniero ogni uomo che giunga presso la loro terra e non riesca a superare una prova di valore: sconfiggere in combattimento dieci uomini e soddisfare a letto altrettante donne. Se vi riesce, allora avrà salva la vita ma dovrà comunque sposare dieci donne. Mentre decidono cosa fare, vengono fatti prigionieri: ad attenderli c’è Orontea, che espone le loro condizioni. I cavalieri accettano la sfida e vengono quindi condotti a terra. I cinque cavalieri estraggono a sorte la persona che dovrà sostenere entrambe le prove. Viene estratta Marfisa che viene quindi condotta nell’arena dove troverà i dieci cavalieri suoi avversari. Nove cavalieri si avventano subito su Marfisa, il decimo invece rimane in disparte, per non mancare di rispetto alle regole cavalleresche.

Fabrizio Clerici, Giostra sull'isola delle femmine omicide, litografia, 1967 →.jpgFabrizio Clerici, Giostra sull’isola delle femmine omicide (1967)

Marfisa infila tre avversari in un solo colpo servendosi della sua grossa lancia e, utilizzando la spada, fa poi strage degli altri sei. L’ultimo cavaliere giunge nel momento in cui il combattimento si può svolgere alla pari. Giunge però infine la notte ed il confronto viene sospeso. Il cavaliere misterioso si rivelerà un ragazzo di appena diciotto anni, che a sua volta si stupirà nel sapere che Marfisa è una donna.

Nel XX canto veniamo a sapere che il ragazzo è Guidon Selvaggio, di cui si scopre essere fratello di Rinaldo e cugino del duca Astolfo. Egli racconta la storia di Alessandretta: quando dopo dieci anni di assedio ed altrettanti anni di mare, i Greci lasciarono Troia per tornare in patria, trovarono le loro case piene di figli avuti dalle loro donne con nuovi giovani amanti. Non volendo mantenere figli non loro, i mariti mandarono i giovani a cercarsi fortuna altrove. Uno di questi venne assoldato dai Cretesi, insieme agli altri giovani del suo seguito per stare a guardia di Dictea. Le donne della città subito si innamorarono dei giovani greci, che diventarono loro amanti. Quindi, terminato l’incarico, i giovani ripartirono e le donne decisero di seguirli. Giungono così sulla spiaggia dove sorge ora Alessandretta. Ma i giovani greci abbandonarono in seguito le donne e ripartono per la Puglia, dove fondarono Taranto. Le donne, per vendicarsi del torto subito, decidisero quindi di assaltare ogni nave costretta a raggiungere il loro porto e di uccidere tutto l’equipaggio. Ma ciò le avrebbe portate all’estinzione: selezionarono perciò un piccolo gruppo ristretto di uomini come loro sposi. In seguito le crudeli regole di quella società iniziarono man mano ad essere meno dure fino ad arrivare a quella legge che anche i cinque cavalieri sono ora costretti a rispettare. Il giovane e tutti i cavalieri vorrebbero por fine alla crudele legge di Alessandretta: Marfisa propone al giovane di combattere fianco a fianco per fare un strage e distruggere la città. Il giovane propone invece di inviare la sua più fedele moglie, Aleria, a fare allestire una nave per la loro fuga e di fuggire quindi tutti insieme di nascosto. Tale decisione viene accettata da tutti. La nave viene allestita, ma i sei cavalieri, per raggiungere il porto, devono passare dalla piazza principale dove le donne della città si erano già riunite intorno all’arena per vedere la fine del combattimento. Capita la loro l’intenzione si muovono tutte per fermare la fuga, ma Astolfo, con il suo corno magico, le mette in fuga.

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Immagine da un’edizione spagnola dell’Orlando Furioso in cui si illustra
Astolfo con il corno (1872)

Raggiungono fortunatamente il porto e salgono in fretta sulla nave, che subito prende il largo. Purtroppo Astolfo arriva sulla spiaggia quando la nave è già partita; non potrà pertanto fare altro che proseguire il viaggio per terra. Quattro cavalieri, tutti uniti, troveranno dimora nel castello di Pinabello di Maganza, che li farà suoi prigionieri approfittando del loro sonno. Marfisa, invece, proseguirà da sola il proprio viaggio ed incontrerà sul suo cammino una donna anziana, Gabrina, quella scappata dalla caverna dove Orlando aveva liberato Isabella. Marfisa prende la vecchia con sé ed incontra poi Pinabello insieme alla sua amata, crudele come il conte. Quest’ultima, vedendo Gabrina, la deride e Marfisa, per punirla, sfida Pinabello, lo sconfigge, e fa indossare alla vecchia tutti i vestiti e gli ornamenti della donna. Procedendo oltre, le due donne incontrano anche Zerbino. Anche il paladino non si può trattenere dal deridere Gabrina, la cui bruttezza veniva ulteriormente esaltata da tutti gli ornamenti che ora portava. I due cavalieri si sfidano: chi perde dovrà per sempre tenere la vecchia con sé. Zerbino viene disarcionato e quindi riparte in compagnia della vecchia. Gabrina, sebbene Zerbino non abbia detto nulla né di sé ne dell’amore per Isabella, capisce subito che il paladino è quel cavaliere del quale aveva tanto sentito parlare dalla ragazza. Zerbino dopo aver pregato ed anche minacciato invano la vecchia per sapere il luogo dove Isabella si trova, non può fare altro che ripartire in sua compagnia e condurla, come promesso a Marfisa, ovunque lei voglia. Incontreranno alla fine un cavaliere.

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Zerbino incontra Ermione

Nel XXI sapremo che il cavaliere è Ermonide d’Olanda, al quale la vecchia aveva ucciso il padre ed anche l’unico fratello. Subito sfida Zerbino per vendicarsi di Gabrina, ma nello scontro il cavaliere olandese viene trafitto ad una spalla e cade a terra. Ermonide racconta quindi la propria storia, spiegando perché avesse tanto in odio quella vecchia. Il fratello, di nome Filandro, era stato accolto nel palazzo di un barone di nome Argeo, la cui moglie era appunto Gabrina. La donna iniziò a desiderare il fratello di Ermonide, ottenendone in risposta solo rifiuti. Rimasti soli nel palazzo, i continui tentativi della donna spinsero il giovane ad abbandonarsi. Gabrina racconta al marito di essere stata posseduta con la forza da Filandro che è poi scappato per paura. Argeo le crede, corre a vendicarsi, lo ferisce e lo fa prigioniero. Nonostante sia in prigione la donna continua a provocarlo. Filandro le risponde sempre con un rifiuto, ma un giorno, dopo che per sette mesi Gabrina non gli aveva più fatto visita, Argeo, d’accordo con la moglie, fa finta di partire per Gerusalemme così da poter sorprendere intorno al proprio castello il barone Morando, tanto odiato da Argeo ed amante di Gabrina.

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Zerbino colpisce ad una spalla Ermonide d’Olanda

L’astuta donna corre da Filandro chiedendogli di intervenire per salvare il suo onore e quello del marito, proteggendola dal barone, così agendo potrà realmente dimostrare la propria fedeltà verso Argeo. Filandro quindi aspetta, nascosto nella camera di lei, che giunga Morando, ma la donna lo porta invece nella stanza del marito che trova così la morte. Gabrina, svelato l’inganno a Filandro, è alla fine costretto a sottomettersi al volere di lei, per fare poi ritorno in Olanda insieme alla donna. Tornato in patria, si ammala gravemente per tutta l’ira che aveva indosso. Gabrina, trasformato l’amore in odio, si mette d’accordo con un medico per avvelenare il giovane. Nel momento di somministrare il veleno, viene però meno all’accordo per non avere testimoni, e lo fa bere anche al medico. L’uomo prima di morire riesce però a raccontare ai presenti l’inganno organizzato da Garbina e la donna viene subito incarcerata. Ermonide d’Olanda non riesce purtroppo a proseguire il suo racconto; perché gli mancano le forze. Zerbino si scusa per il danno arrecato, ed infine i due, ripartono a cavallo e verso sera sentiranno i rumori di una battaglia.

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Dopo una breve carrellata sulla guerra, il canto XXII si apre con Astolfo, a cui gli viene rubato il cavallo Rabicano. Corre all’inseguimento del ladro, raggiunge infine il castello di Atlante e vi entra seguendo il furfante. Accortosi di essere prigioniero di un luogo incantato, Astolfo fa ricorso al libro contro gli incantesimi e viene a sapere che per rendere vana la magia è necessario liberare un spirito rinchiuso sotto la soglia del castello. Atlante, si accorge del tentativo del cavaliere di rimuovere la pietra e liberare lo spirito, e quindi, con un incantesimo, lo fa apparire agli occhi degli altri suoi prigionieri nella forma di un mostro. Tutti i cavalieri prigionieri del castello di Atlante si avvicinano minacciosi al duca, che però si difende prontamente soffiando nel corno magico. Tutti fuggono terrorizzati dalla prigione incantata, compresi i cavalli e compreso anche lo stesso mago. Astolfo riesce a fermare la fuga di Rabicano, rientrandone in possesso, ma ritrova anche l’ippogrifo e, intenzionato ad impossessarsi del cavallo alato, decide di trovare qualcuno che sia disposto a seguirlo portando con sé Rabicano, così da condurlo in una città e poterlo dare in dono ad un suo amico. Rimane sul posto aspettando che passi qualcuno e vede infine arrivare un cavaliere. Nel frattempo, finalmente liberi, Bradamante e Ruggiero possono ora abbracciarsi e baciarsi. Lei invita il cavaliere a battezzarsi e a chiederla in sposa al padre; Ruggiero risponde di essere disposto a qualunque cosa per lei, e così i due amanti si dirigono dove poter fare battezzare il pagano.

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Bradamante e Ruggiero incontrano una donna

Incontrano però sulla loro via una donna dal volto triste che dice loro che un ragazzo sarebbe stato ucciso quel giorno, perché, innamorato della figlia del re spagnolo Marsilio, incontrandola ogni notte, era stato scoperto. Bradamante, colpita da quella notizia, chiede di essere condotta all’interno delle mura, ma la donna dice loro su quella via si trova il castello di Pinabello che ha da poco istituito una legge, per vendicarsi dell’offesa recatagli quando la sua amante aveva deriso la vecchia Gabrina. Aquilante, Grifone, Sansonetto e Guidon Selvaggio, fatti prigionieri, riavranno la libertà facendo rispettare quella ingiusta legge per un anno ed un mese. Giunti alle porte del castello di Pinabello, avviene la sfida tra Ruggiero e Sansonetto, vinto dal primo grazie anche allo scudo magico; Pinabello si avvicina in quel momento a Bradamante per chiedere chi fosse il valoroso cavaliere suo compagno, ma la donna lo riconosce e sguaina così la spada. Lui fugge nella foresta ma è subito inseguito da lei. Intanto, sconfitto Sansonetto, dal castello escono gli altri tre cavalieri, che, secondo le regole e con vergogna, combatteranno ora tutti insieme contro Ruggiero. Durante uno scontro, il cristiano viene disarcionato e con la propria lancia strappa il velo che ricopre lo scudo magico; viene così liberato il grande splendore in grado di fare cadere tutti svenuti, e così succede anche in quel caso. Accortosi dell’accaduto, Ruggiero ricopre lo scudo con un altro velo, prende con sé la donna, ora tramortita, che li aveva guidati lì e riparte lungo la via. Bradamante nel frattempo ha raggiunto ed ucciso il conte Pinabello.

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La morte di Pinabello

La donna non è riuscita però a ritrovare la strada per ritornare là dove aveva lasciato l’amante; vagherà pertanto a lungo nel bosco.

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Con il canto XXIII ci troviamo nel centro del poema (e non casualmente). Bradamante, dopo aver ucciso Pinabello si accorge di non sapere più tornare dove ha lasciato Ruggiero. Alla sua ricerca, vaga in un bosco, fin quando il giorno dopo raggiunge il palazzo nel quale era stata tenuta prigioniera, per incantesimo, insieme ad altri cavalieri, ed incontra suo cugino Astolfo. Il paladino è ben contento di incontrare Bradamante, la miglior persona alla quale affidare Rabicano. Quindi le consegna il proprio destriero, l’armatura, e la lancia incantata, chiedendole il piacere di portarle a Montalbano affinché lui possa muoversi leggero nell’aria a cavallo dell’ippogrifo. Aiutata da un campagnolo, la donna riprende quindi il proprio viaggio con l’intenzione di ritrovare prima Ruggiero, e solo dopo fare ritorno a Montalbano, dove aveva la madre ed alcuni suoi fratelli ad aspettarla. Vagando per il bosco, si ritrova però subito nella sua città. Cerca di allontanarsi ma incontra suo fratello Alardo, che la conduce dalla madre e gli altri suoi fratelli. Bradamante allora invia Ippalca, alla ricerca di Ruggiero e per informarlo degli avvenimenti e chiedergli quindi di procedere nel battesimo per poi raggiungerla a Montalbano, affidandole anche Frontino, il cavallo di Ruggiero. Ma Ippalca incontra sulla propria via Rodomonte, il quale, non esita a rapire il destriero di Ruggero, vi sale in groppa e si rimette in viaggio.

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Ippalca si imbatte in Rodomonte

Rodomonte chiede ad Ippalca di fare il suo nome a Ruggiero e di dirgli che se lo rivuole indietro potrà trovarlo facilmente seguendo le chiare tracce del suo passaggio. Nel frattempo Zerbino, seguito da Gabrina, trova il cadavere di Pinabello e mentre il cavaliere cerca invano di trovare il colpevole dell’omicidio, la vecchia sottrae al morto tutto ciò che di valore riesce a nascondersi addosso, tra cui un cintura. I due, ripartiti, giungono presso al palazzo del padre di Pinabello che aveva promesso un ricco premio a chi riuscisse a indicargli l’assassino del figlio, e la vecchia Gabrina subito approfitta dell’occasione per indicare in Zerbino l’omicida e, per essere meglio creduta, mostra anche al conte la cintura sottratta al cadavere. Zerbino viene subito fatto prigioniero e condannato ad essere squartato là dove Pinabello era stato ucciso. Giunge per fortuna sul posto il paladino Orlando in compagnia della bella Isabella. Il cavaliere, lasciata la compagna su di un monte, si avvicina al condannato a morte chiedendo spiegazioni. Zerbino gli racconta la sua storia e convince così bene Orlando della propria innocenza che subito il paladino decide di aiutarlo. Orlando si lancia in combattimento e fa una strage uccidendo senza pietà tutti quelli che riesce a raggiungere. Zerbino, riavuta la libertà ed indossate nuovamente le proprie armi, si accorge della presenza dell’amata Isabella e arde pertanto d’amore, ma teme di non essere più ricambiato. Giunti presso una fonte, Zerbino si toglie infine l’elmo e viene riconosciuto da Isabella, che corre ad abbracciarlo. Un rumore giunto dal bosco pone fine ai ringraziamenti dei due amanti verso Orlando ed i tre vedono arrivare a cavallo Mandricardo e Doralice. Il crudele pagano era alla ricerca di quel cristiano che aveva fatto una strage di guerrieri saraceni presso Parigi, per potersi confrontare con lui; riconosciutolo quindi nel cavaliere che si trova in quel momento di fronte, Orlando appunto, lo sfida subito a duello. Le lance vengono subito ridotte in pezzi nei primi scontri e gli sfidanti, non avendo altre armi, non possono fare altro che cercare di avere la meglio con i pugni e nel combattimento corpo a corpo. Il cavallo di Mandricardo rimasto senza le briglie, tolte da Orlando, parte subito al galoppo, portandosi dietro il proprio padrone. Terminerà la propria corsa cadendo in un fosso. Doralice, corsa dietro alla propria guida, offre al guerriero le briglie del proprio cavallo. Mandricardo si impossessa invece di quelle del cavallo guidato da Gabrina, giunta lì per caso. Orlando, non vedendo ricomparire l’avversario, decide di andare alla ricerca di Mandricardo e si separa così dai due amanti, chiedendo però prima loro, dovessero mai incontrare il guerriero pagano, di dirgli che potrà trovare il paladino in quei boschi per altri tre giorni, prima che faccia poi ritorno a Parigi. Dopo aver girato invano per due giorni, il conte Orlando giunge infine nei luoghi dove Angelica e Medoro sfogarono la loro passione amorosa.

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Gustave Doré: La pazzia d’Orlando

LA PAZZIA D’ORLANDO
(XXIII, 100-136)

Lo strano corso che tenne il cavallo
del Saracin pel bosco senza via,
fece ch’Orlando andò duo giorni in fallo,
né lo trovò, né poté averne spia.
Giunse ad un rivo che parea cristallo,
ne le cui sponde un bel pratel fioria,
di nativo color vago e dipinto,
e di molti e belli arbori distinto.

Il merigge facea grato l’orezzo
al duro armento ed al pastore ignudo;
sì che né Orlando sentia alcun ribrezzo,
che la corazza avea, l’elmo e lo scudo.
Quivi egli entrò per riposarvi in mezzo;
e v’ebbe travaglioso albergo e crudo,
e più che dir si possa empio soggiorno,
quell’infelice e sfortunato giorno.

Volgendosi ivi intorno, vide scritti
molti arbuscelli in su l’ombrosa riva.
Tosto che fermi v’ebbe gli occhi e fitti,
fu certo esser di man de la sua diva.
Questo era un di quei lochi già descritti,
ove sovente con Medor veniva
da casa del pastore indi vicina
la bella donna del Catai regina.

Angelica e Medor con cento nodi
legati insieme, e in cento lochi vede.
Quante lettere son, tanti son chiodi
coi quali Amore il cor gli punge e fiede.
Va col pensier cercando in mille modi
non creder quel ch’al suo dispetto crede:
ch’altra Angelica sia, creder si sforza,
ch’abbia scritto il suo nome in quella scorza.

Poi dice: «Conosco io pur queste note:
di tal’io n’ho tante vedute e lette.
Finger questo Medoro ella si puote:
forse ch’a me questo cognome mette».
Con tali opinion dal ver remote
usando fraude a sé medesmo, stette
ne la speranza il malcontento Orlando,
che si seppe a se stesso ir procacciando.

Ma sempre più raccende e più rinuova,
quanto spenger più cerca, il rio sospetto:
come l’incauto augel che si ritrova
in ragna o in visco aver dato di petto,
quanto più batte l’ale e più si prova
di disbrigar, più vi si lega stretto.
Orlando viene ove s’incurva il monte
a guisa d’arco in su la chiara fonte.

Aveano in su l’entrata il luogo adorno
coi piedi storti edere e viti erranti.
Quivi soleano al più cocente giorno
stare abbracciati i duo felici amanti.
V’aveano i nomi lor dentro e d’intorno,
più che in altro dei luoghi circostanti,
scritti, qual con carbone e qual con gesso,
e qual con punte di coltelli impresso.

Il mesto conte a piè quivi discese;
e vide in su l’entrata de la grotta
parole assai, che di sua man distese
Medoro avea, che parean scritte allotta.
Del gran piacer che ne la grotta prese,
questa sentenza in versi avea ridotta.
Che fosse culta in suo linguaggio io penso;
ed era ne la nostra tale il senso:

“Liete piante, verdi erbe, limpide acque,
spelunca opaca e di fredde ombre grata,
dove la bella Angelica che nacque
di Galafron, da molti invano amata,
spesso ne le mie braccia nuda giacque;
de la commodità che qui m’è data,
io povero Medor ricompensarvi
d’altro non posso, che d’ognor lodarvi:

e di pregare ogni signore amante,
e cavallieri e damigelle, e ognuna
persona, o paesana o viandante,
che qui sua volontà meni o Fortuna;
ch’all’erbe, all’ombre, all’antro, al rio, alle piante
dica: benigno abbiate e sole e luna,
e de le ninfe il coro, che proveggia
che non conduca a voi pastor mai greggia”.

Era scritto in arabico, che ’l conte
intendea così ben come latino:
fra molte lingue e molte ch’avea pronte,
prontissima avea quella il paladino;
e gli schivò più volte e danni ed onte,
che si trovò tra il popul saracino:
ma non si vanti, se già n’ebbe frutto;
ch’un danno or n’ha, che può scontargli il tutto.

Tre volte e quattro e sei lesse lo scritto
quello infelice, e pur cercando invano
che non vi fosse quel che v’era scritto;
e sempre lo vedea più chiaro e piano:
ed ogni volta in mezzo il petto afflitto
stringersi il cor sentia con fredda mano.
Rimase al fin con gli occhi e con la mente
fissi nel sasso, al sasso indifferente.

Fu allora per uscir del sentimento
sì tutto in preda del dolor si lassa.
Credete a chi n’ha fatto esperimento,
che questo è ’l duol che tutti gli altri passa.
Caduto gli era sopra il petto il mento,
la fronte priva di baldanza e bassa;
né poté aver (che ’l duol l’occupò tanto)
alle querele voce, o umore al pianto.

L’impetuosa doglia entro rimase,
che volea tutta uscir con troppa fretta.
Così veggiàn restar l’acqua nel vase,
che largo il ventre e la bocca abbia stretta;
che nel voltar che si fa in su la base,
l’umor che vorria uscir, tanto s’affretta,
e ne l’angusta via tanto s’intrica,
ch’a goccia a goccia fuore esce a fatica.

Poi ritorna in sé alquanto, e pensa come
possa esser che non sia la cosa vera:
che voglia alcun così infamare il nome
de la sua donna e crede e brama e spera,
o gravar lui d’insopportabil some
tanto di gelosia, che se ne pera;
ed abbia quel, sia chi si voglia stato,
molto la man di lei bene imitato.

In così poca, in così debol speme
sveglia gli spiriti e gli rifranca un poco;
indi al suo Brigliadoro il dosso preme,
dando già il sole alla sorella loco.
Non molto va, che da le vie supreme
dei tetti uscir vede il vapor del fuoco,
sente cani abbaiar, muggiare armento:
viene alla villa, e piglia alloggiamento.

Languido smonta, e lascia Brigliadoro
a un discreto garzon che n’abbia cura;
altri il disarma, altri gli sproni d’oro
gli leva, altri a forbir va l’armatura.
Era questa la casa ove Medoro
giacque ferito, e v’ebbe alta avventura.
Corcarsi Orlando e non cenar domanda,
di dolor sazio e non d’altra vivanda.

Quanto più cerca ritrovar quiete,
tanto ritrova più travaglio e pena;
che de l’odiato scritto ogni parete,
ogni uscio, ogni finestra vede piena.
Chieder ne vuol: poi tien le labra chete;
che teme non si far troppo serena,
troppo chiara la cosa che di nebbia
cerca offuscar, perché men nuocer debbia.

Poco gli giova usar fraude a se stesso;
che senza domandarne, è chi ne parla.
Il pastor che lo vede così oppresso
da sua tristizia, e che voria levarla,
l’istoria nota a sé, che dicea spesso
di quei duo amanti a chi volea ascoltarla,
ch’a molti dilettevole fu a udire,
gl’incominciò senza rispetto a dire:

come esso a prieghi d’Angelica bella
portato avea Medoro alla sua villa,
ch’era ferito gravemente; e ch’ella
curò la piaga, e in pochi dì guarilla:
ma che nel cor d’una maggior di quella
lei ferì Amor; e di poca scintilla
l’accese tanto e sì cocente fuoco,
che n’ardea tutta, e non trovava loco:

e sanza aver rispetto ch’ella fusse
figlia del maggior re ch’abbia il Levante,
da troppo amor costretta si condusse
a farsi moglie d’un povero fante.
All’ultimo l’istoria si ridusse,
che ’l pastor fe’ portar la gemma inante,
ch’alla sua dipartenza, per mercede
del buono albergo, Angelica gli diede.

Questa conclusion fu la secure
che ’l capo a un colpo gli levò dal collo,
poi che d’innumerabil battiture
si vide il manigoldo Amor satollo.
Celar si studia Orlando il duolo; e pure
quel gli fa forza, e male asconder pòllo:
per lacrime e suspir da bocca e d’occhi
convien, voglia o non voglia, al fin che scocchi.

Poi ch’allargare il freno al dolor puote
(che resta solo e senza altrui rispetto),
giù dagli occhi rigando per le gote
sparge un fiume di lacrime sul petto:
sospira e geme, e va con spesse ruote
di qua di là tutto cercando il letto;
e più duro ch’un sasso, e più pungente
che se fosse d’urtica, se lo sente.

In tanto aspro travaglio gli soccorre
che nel medesmo letto in che giaceva,
l’ingrata donna venutasi a porre
col suo drudo più volte esser doveva.
Non altrimenti or quella piuma abborre,
né con minor prestezza se ne leva,
che de l’erba il villan che s’era messo
per chiuder gli occhi, e vegga il serpe appresso.

Quel letto, quella casa, quel pastore
immantinente in tant’odio gli casca,
che senza aspettar luna, o che l’albore
che va dinanzi al nuovo giorno nasca,
piglia l’arme e il destriero, ed esce fuore
per mezzo il bosco alla più oscura frasca;
e quando poi gli è aviso d’esser solo,
con gridi ed urli apre le porte al duolo.

Di pianger mai, mai di gridar non resta;
né la notte né ’l dì si dà mai pace.
Fugge cittadi e borghi, e alla foresta
sul terren duro al discoperto giace.
Di sé si meraviglia ch’abbia in testa
una fontana d’acqua sì vivace,
e come sospirar possa mai tanto;
e spesso dice a sé così nel pianto:

«Queste non son più lacrime, che fuore
stillo dagli occhi con sì larga vena.
Non suppliron le lacrime al dolore:
finir, ch’a mezzo era il dolore a pena.
Dal fuoco spinto ora il vitale umore
fugge per quella via ch’agli occhi mena;
ed è quel che si versa, e trarrà insieme
e ’l dolore e la vita all’ore estreme.Orlando-07.jpgCarlo Jacopo: Orlando pazzo

Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?

Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza».

Pel bosco errò tutta la notte il conte;
e allo spuntar de la diurna fiamma
lo tornò il suo destin sopra la fonte
dove Medoro isculse l’epigramma.
Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
né più indugiò, che trasse il brando fuore.

Tagliò lo scritto e ’l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge.
Infelice quell’antro, ed ogni stelo
in cui Medoro e Angelica si legge!
Così restar quel dì, ch’ombra né gielo
a pastor mai non daran più, né a gregge:
e quella fonte, già si chiara e pura,
da cotanta ira fu poco sicura;

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle
che non furo mai più chiare né monde.
E stanco al fin, e al fin di sudor molle,
poi che la lena vinta non risponde
allo sdegno, al grave odio, all’ardente ira,
cade sul prato, e verso il ciel sospira.

Afflitto e stanco al fin cade ne l’erba,
e ficca gli occhi al cielo, e non fa motto.
Senza cibo e dormir così si serba,
che ’l sole esce tre volte e torna sotto.
Di crescer non cessò la pena acerba,
che fuor del senno al fin l’ebbe condotto.
Il quarto dì, da gran furor commosso,
e maglie e piastre si stracciò di dosso.

Qui riman l’elmo, e là riman lo scudo,
lontan gli arnesi, e più lontan l’usbergo:
l’arme sue tutte, in somma vi concludo,
avean pel bosco differente albergo.
E poi si squarciò i panni, e mostrò ignudo
l’ispido ventre e tutto ’l petto e ’l tergo;
e cominciò la gran follia, sì orrenda,
che de la più non sarà mai ch’intenda.

In tanta rabbia, in tanto furor venne,
che rimase offuscato in ogni senso.
Di tor la spada in man non gli sovenne;
che fatte avria mirabil cose, penso.
Ma né quella, né scure, né bipenne
era bisogno al suo vigore immenso.
Quivi fe’ ben de le sue prove eccelse,
ch’un alto pino al primo crollo svelse:

e svelse dopo il primo altri parecchi,
come fosser finocchi, ebuli o aneti;
e fe’ il simil di querce e d’olmi vecchi,
di faggi e d’orni e d’illici e d’abeti.
Quel ch’un ucellator che s’apparecchi
il campo mondo, fa, per por le reti,
dei giunchi e de le stoppie e de l’urtiche,
facea de cerri e d’altre piante antiche.

I pastor che sentito hanno il fracasso,
lasciando il gregge sparso alla foresta,
chi di qua, chi di là, tutti a gran passo
vi vengono a veder che cosa è questa.
Ma son giunto a quel segno il qual s’io passo
vi potria la mia istoria esser molesta;
ed io la vo’ più tosto diferire,
che v’abbia per lunghezza a fastidire.

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Arnold Böcklin, Orlando furioso (1885)

L’imprevedibile percorso che prese il cavallo di Mandricardo per il bosco privo di sentieri fa sì che Orlando vaghi per due giorni a vuoto, né lo trova, né ne ha traccia. Arriva a un ruscello che sembra cristallo, sulle cui sponde fiorisce un bel prato dipinto dei colori della natura, e variamente ornato da molti bei cespugli. // La calda ora del mezzogiorno rende gradita l’ombra agli animali e al pastore nudo; così che neppure Orlando ha alcuna esitazione, pur avendo la corazza, l’elmo e lo scudo. Qui Orlando entra per riposare in mezzo ai cespugli e vi trova una dimora angosciosa, funesta più di quanto si possa dire, in quell’infelice e sfortunato giorno. // Girando intorno vede incisi con scritte molti alberelli sulla riva dell’ombroso fiume. Non appena ha gli occhi fermi e fissi con maggior attenzione fu sicuro che sono stati scritti dalla dea del suo cuore. Questo era uno di quei luoghi già descritti, dove spesso Medoro veniva dalla vicina casa del pastore con la bella Angelica. // Vede Angelica e Medoro in diversi modi, intrecciarti insieme ed in diversi luoghi. Tante sono le lettere, tanti sono i chiodi con i quali Cupido gli ferisce e punge il cuore. Va a cercare in mille modi con il pensiero di non credere quello a cui, suo malgrado, crede: si sforza di credere che sia un’altra Angelica ad aver scritto il suo nome sul quella corteccia. // Poi dice: «Io conosco la grafia di queste lettere: ne ho viste e ne ho lette tante. Potrebbe essersi inventata questo Medoro: forse mi ha dato questo soprannome». Con tali vane opinioni, continuò ad assillare se stesso, ponendo il suo malcontento nella speranza che seppe procurare a se stesso. // Ma più si riaccende e si rinnova il crudele sospetto più cerca di dimenticarlo: come il disattento uccello che finisce in una ragnatela o sui rami invischiati, quanto più batte le ali e più prova a liberarsi, più si lega stretto. Orlando giunge dove si incurva la montagna come un arco (formando una grotta) sulla fonte cristallina. // Avevano ornato l’ingresso (di quella grotta) edere e viti rampicanti con i loro fusti contorti. Nei giorni più caldi, qui erano soliti stare abbracciati i due felici amanti. C’erano i loro nomi dentro ed intorno (alla grotta) più che nei luoghi circostanti, scritti alcuni con il carbone ed altri con gesso e altri erano impressi con punte di coltelli. // Qui scese il triste cavaliere; e vide sull’entrata della grotta tante parole, che erano state scritte dalla mano di Medoro, e sembravano esser state scritte proprio in quel momento. Per esprimere il grande piacere che provò (con Angelica) nella grotta, aveva composto questa iscrizione in versi. Io penso che fosse poeticamente elaborata in arabo (lingua di Medoro), ed era tale il senso nella nostra lingua: “Liete piante, verdi erbe, limpide acque, grotta gradevole per la fresca ombra, dove la bella Angelica nacque di Galafron, è stata amata vanamente da molti, spesso nelle mie braccia giacque nuda; dei piaceri che qui mi sono stati dati, io povero Medoro non posso ricompensarvi in altro modo, se non lodandovi in ogni momento: // e di pregare ogni signore che vi ha amato, e cavalieri e damigelle ed ogni persona, del posto o forestiere, che capiti qui intenzionalmente o per caso; che all’erba, all’ombra, all’ingresso (delle grotta), al fiume e alle piante dica: che sole e luna vi siano favorevoli, e vi protegga il coro delle ninfe dai danni che potrebbero recare le greggi condotte lì da qualche pastore”. // Era scritto in arabo, che il cavaliere capisce bene come il latino: tra molte lingue che sa, il paladino sapeva benissimo quella; e gli ha fatto evitare più volte danni e scontri, quando si è trovato tra il popolo saraceno: si rallegri, se altre volte tale conoscenza gli è stata propizia; perché ora gli arreca un danno tale da cancellare tutti i vantaggi ottenuti. // Legge tre, quattro, sei volte la triste poesia l’infelice, ed anche cercando invano (d’immaginare) che non ci sia ciò che vi è scritto; ma gli risulta sempre più chiaro e facile da comprendere: ed ogni volta (che legge) si sente in mezzo al petto afflitto stringere il cuore con mano gelida. Rimane lì con gli occhi e con il pensiero rivolti al sasso, impietrito. // E’ allora che inizia ad impazzire, così che in preda si abbandona completamente al dolore. Credete a chi lo ha provato su se stesso, che questa, d’amore, è la sofferenza che fa passare tutte le altre. Gli cade il mento sopra il petto, la fronte, priva di rughe, era bassa; non può avere (che il dolore l’occupa tanto) voce per lamentarsi o lacrime per piangere. // Rimane dentro l’impetuoso dolore, che voleva uscire con troppa fretta. Così vediamo restare l’acqua nel vaso, che abbia il ventre largo e la bocca stretta; cosicché, capovolgendo il vaso, il liquido che vorrebbe uscire, tanto velocemente si riversa, e si ingorga nella stretta apertura, uscendo così goccia a goccia, a fatica. // Poi ritorna abbastanza in sé, e pensa se la cosa potrebbe essere non vera: che qualcuno voglia così infamare il nome della sua donna, e crede e spera e brama, oppure (che qualcuno voglia) gravarlo di un così insopportabile peso di gelosia, da farlo morire; e abbia, chiunque sia stato, imitato molto bene la sua calligrafia (di Angelica). // Con una così debole speranza, gli si rianimarono gli spiriti vitali; quindi salì in groppa al suo Brigliadoro quando il sole stava già lasciando il posto a sua sorella luna (tramonto). Non va molto avanti, che dagli alti comignoli dei tetti vede uscire del fumo, sente cani abbaiare e una mandria muggire: va fino alla villa e prende posto. // Languido smonta (da cavallo), e lascia Brigliadoro a un abile garzone perché ne abbia cura: si fa disarmare da uno, gli speroni d’oro un altro gli leva, e si fa lucidare l’armatura da un altro ancora. E’ questa la casa dove Medoro visse quando è stato ferito, e dove ha avuto grande fortuna. Orlando chiede solo da dormire e niente per cena, è sazio di dolore e non di altro cibo. // Quanto più cerca di trovare tranquillità, tanto più prova travaglio e dolore; vede piena della odiata poesia (quella scritta da Medoro) ogni parete ogni finestra, ogni porta. Vorrebbe chiedere a riguardo ma poi tiene le labbra ferme, perché teme di rendere troppo evidente, troppo chiara la cosa che cerca di dimenticare, per provare meno dolore. // Ingannare se stesso non gli giova; perché senza domandare c’è chi ne parla. Il pastore, che lo vede così oppresso dalla sua tristezza, e vorrebbe alleviarla, inizia a raccontargli la storia che conosceva bene; raccontava spesso dei due amanti a chi voleva ascoltare una storia molto dilettevole, e così, senza rispetto, comincia a raccontare // come egli, pregato dalla bella Angelica, aveva portato in casa sua Medoro, ferito gravemente; e che lei curò la ferita ed in pochi giorni la guarì: ma lei, con una piaga ancora maggiore di quella, è stata colpita nel cuore da Amore; e da una piccola scintilla si è accesa tanto di un fuoco così cocente, che la faceva ardere tutta, e non trovava pace: // e senza aver riguardo che Angelica fosse figlia del più grande re che abbia mai avuto l’oriente, sospinta da un grandissimo amore fu portata a sposare Medoro, umile soldato. La conclusione della storia è che il pastore mostra ad Orlando il gioiello, che al momento della partenza, come ricompensa della buona ospitalità, gli ha dato Angelica. // Questa conclusione è stata la scure che gli ha tolto la testa dal collo in un colpo solo, una volta che delle innumerevoli bastonate si è saziato il carnefice Amore. Orlando si sforza di nascondere il dolore; e tuttavia quello è talmente violento che difficilmente lo può tenere nascosto: attraverso le lacrime degli occhi ed i sospiri della bocca è inevitabile che esploda. // Dopo che poté dar libero sfogo al dolore (perché resta solo senza doversi preoccupare di nessun altro), dagli occhi, rigando le guance sparge un fiume di lacrime sul petto: sospira e piange, e cammina, girandosi spesso, di qua e di là esplorando il letto: e più duro che un sasso, e più pungente dell’ortica se lo sente. Intanto gli viene in mente l’atroce dubbio che nello stesso letto in cui egli giace, doveva essersi più volte venuta a coricare insieme al suo amante l’ingrata donna. Inevitabilmente ha in odio quel letto, né si alza dal letto meno velocemente del contadino che si leva dall’erba su cui si era steso per riposarsi, per aver visto vicino a sé un serpente. // Quel letto, quella casa, quel pastore immediatamente gli viene in tanto odio, che senza aspettare che sorga la luna o che l’alba, che precede il nuovo giorno, nasca, prende le armi e il destriero, ed esce fuori in mezzo al bosco, dove è più fitto e scuro l’intrico di rami; e poi quando si accorge di essere solo (che nessuno lo segue), con grida e urla apre le porte al dolore. // Non smette mai di gridare e di urlare; non si dà mai pace né la notte né il giorno seguente. Fugge da città e da borghi, e nei luoghi inabitati sul terreno duro, all’aperto, giace. Si meraviglia che nella propria testa ci possa essere una sorgente così inesauribile di pianto, e come i sospiri possano essere mai così tanti; e spesso si dice nel pianto: // “Queste non sono più lacrime, che fuoriescono dagli occhi con flusso così abbondante. Non bastano le lacrime al dolore: finiscono quando il dolore si è manifestato solo per metà. Dal dolore della gelosia ora lo spirito fugge attraverso quella via a cui gli occhi conducono; ed e’ quello che ne esce ora, quello che porterà via con sé insieme il dolore e la vita sul punto di morte. // Questi, che manifestano il mio tormento, non sono sospiri, né i sospiri sono così. I sospiri ogni tanto si interrompono; io non sento mai il mio petto ridurre il sospirare per la pena. L’amore che mi arde il cuore crea questi sospiri mentre agita attorno al fuoco le proprie ali. Amore, con quale miracolo riesci a tenere il cuore nel fuoco senza mai consumarlo? // Non sono io, non sono io quello che sembro in volto: quello che era Orlando è morto e sotterrato; la sua ingrata donna l’ha ucciso: si, mancandogli di fedeltà gli ha fatto la guerra. Io sono il suo spirito dal suo corpo diviso, che vaga tormentandosi in questo inferno, in modo che con il proprio fantasma, che è tutto quello che gli resta, ammonisca con l’esempio colui che affida la sua speranza nell’Amore”. // Tutta la notte il conte vaga per il bosco; ed al sorgere del sole il suo destino lo riporta vicino al fiume dove Medoro ha inciso l’iscrizione. Vedere le parole che testimoniavano il suo disonore incise nel monte, che lo ha acceso, così che in lui non è restato nulla che non sia odio, rabbia, ira o furia; non resiste più e sguaina la spada. // Taglia l’incisione e il sasso, e fino al cielo fa volare le piccole schegge. Infelice sia ogni grotta e ogni tronco in cui si leggono i nomi di Medoro ed Angelica! Sono state così ridotte (le piante) quel giorno, che né ombra né refrigerio daranno più al pastore né al suo gregge: e il fiume, così chiaro e puro, non è stato al riparo da un ira così grande; // poiché Orlando non ha smesso di gettare nelle belle onde i rami, i tronchi, i sassi e le zolle di terra, fino a che dalla superficie fino al fondo, le ha rese torbide così tanto che non saranno mai più così limpide e pure. E alla fine, stanco e sudato, dal momento che la forza fisica, esaurita, non è più in grado di servire allo sdegno, al pesante odio e all’ardente ira, si abbandona sul prato e sospira al cielo. // Afflitto e stanco cade infine nell’erba e fissa gli occhi al cielo senza dire parola alcuna. Rimane così, senza mangiare e senza dormire per tre giorni. Il suo dolore non smette di crescere, finché non l’ha fatto impazzire. Il quarto giorno, sconvolto dalla pazzia violenta, si toglie di dosso tutta l’armatura. // Qui resta l’elmo e là resta lo scudo, lontano gli arnesi (corredo dell’armatura), e più lontano ancora la corazza: tutte le sue armi, concludendo, ognuna ha una diversa collocazione per il bosco. E poi si squarcia i vestiti, e rimangono nudi il peloso addome e la schiena; e inizia la grande pazzia, così orrenda, che nessuno sentirà mai parlare di una (follia) più orrenda di questa. // Gli scaturisce così tanta rabbia e così tanto furore che tutte le sue facoltà sensitive furono alterate. Non gli è passato per la testa di prendere la spada, che tante incredibili avventure aveva passato, credo. Ma tanto né quella, né una scure, né una scure sono necessarie alla sua immensa forza. Qui fa davvero alcune tra le sue imprese più straordinarie, sradica un grande pino con un solo scrollone: // e ne abbatte, dopo il primo, molti altri ancora come se siano state piante dal fusto tenero; e sia la stessa cosa con querce, vecchi olmi, faggi e abeti. Come un uccellatore che per ripulire il campo, dove mette le reti, estirpa le erbacce, i ramoscelli e le ortiche, Orlando fa con le querce e con le altre piante secolari del bosco. // I pastori che hanno sentito il gran chiasso, lasciando il gregge sparso per la foresta, da ogni luogo, di corsa vanno a vedere che cosa sia quel rumore. Ma sono giunto a quel punto che se lo oltrepasso, la mia storia vi potrebbe essere dannosa; e io la voglio rinviare ad un altro canto prima che vi possa infastidire per la sua lunghezza.

DVmmHJwWsAA42yf-1.jpgGiovanni Boulanger, Orlando impazzito per amore (1652)

E’ questo il passo più importante dell’intero poema se si pensa che esso è posto esattamente al centro, come punto focale, e dà il titolo all’intera opera. Il motivo per cui esso è fondamentale nella visione ariostesca del mondo è che Orlando trascende dall’essere personaggio e, attraverso l’estremo dolore, concepisce la realtà umana del limite raggiungibile per una modesta, ma veritiera felicità. Osservandolo più da vicino, infatti, possiamo dividerlo in più sequenze secondo un vero e proprio percorso che conduce Orlando e con lui l’uomo alla pazzia.

  • Il destino incontra Orlando: smarrimento del cavaliere e della scoperta delle scritte tra Angelica e Medoro;
  • Negazione dell’evidenza: (non è Angelica, Medoro è il soprannome con cui lei lo indica). Spiegamento dei meccanismi difensivi;
  • Dolore represso e ultima illusione: di fronte alla grotta il dolore è troppo vasto per essere contenuto; un’ultima illusione s’impone per salvarsi (qualcuno imita la grafia di Angelica);
  • Secondo incontro di Orlando col destino: casa del pastore, laddove cerca requie trova soltanto tormento. A concludere l’episodio chiave, lo svelamento della verità attraverso il bracciale;
  • Disperazione: piange come un fiume, non può dormire;
  • Furia distruttrice uno: vaga tutta la notte, finché incontrerà i luoghi rivelatori dell’amore di Angelica e Medoro, distruggendoli;
  • Furia distruttrice due: abdicherà al suo ruolo di cavaliere dismettendo l’armatura e vivendo come un animale (Angelica sulla spiaggia non lo riconoscerà).

Il percorso di Orlando racchiude, come già detto, l’intera ideologia del poema, trasformando l’eroe cavalleresco in uomo rinascimentale (da ciò l’incredibile successo dell’opera sin dal suo primo apparire). Infatti si racchiude in lui l’idea della vanità della ricerca, che, se posta al di là dei limiti umani, non potrà che essere vana, illusoria appunto, e condurre di conseguenza l’uomo alla follia. Riconoscere pertanto la peculiarità dell’uomo e dei possibili suoi raggiungimenti diventa un obbiettivo, proprio perché guidato da una ratio che sa riconoscersi e riconoscere, di conseguenza, la realtà che sta attorno. Il percorso è infatti strutturato secondo uno scivolamento verso l’abiezione in cui la “bugia”, qualunque sia il suo mascheramento, porta all’insania, all’animalità. Tuttavia soltanto attraverso essa si può raggiungere la piena consapevolezza di sé e quindi vivere in quell’aurea mediocritas, già da lui descritta nelle Satire.

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Riprendiamo la narrazione dal XXIV canto in cui il pazzo Orlando fa strage di uomini e di animali. Tutti fuggono, essendo lui invulnerabile per incantesimo e l’Orlando furioso vagherà per tutta la Francia, saccheggiando paesi e annientando ogni essere vivente, fino a giungere un giorno presso un ponte. Nel frattempo Zerbino e di Isabella, i due amanti, dopo essersi separati da Orlando, incontrano sulla loro via Odorico, che aveva tentato (come abbiamo letto nel canto XIII) di possedere con la forza Isabella. Egli è condotto a cavallo come prigioniero da Almonio, il cavaliere che gli si era opposto ed era stato da lui ferito, e Corebo, che era stato allontanato con una scusa. Almonio racconta al suo signore gli avvenimenti successivi al rapimento di Isabella. Tornato alla spiaggia con i cavalli richiesti, Almonio aveva ritrovato solo il compagno ferito ed era stato informato su quanto successo. Una volta guarito Corebo, i due si erano messi alla ricerca del cavaliere infedele e l’avevano trovato presso il re Alfonso d’Aragona. Almone sfida in duello Odorico, lo sconfigge e su concessione del re lo incatena con l’intenzione di consegnarlo appunto a Zerbino. Odorico conferma le parole di accusa, ma il suo avversario era stato tanto superiore che alla fine era stato costretto a cedere. Zerbino decide quindi di graziarlo, sapendo che è stato vittima d’amore. Giunge in quel momento tra loro anche il cavallo con in groppa Gabrina, che viene subito riconosciuta. Per punizione Zerbino fa promettere a Odorico di tenersi per compagna la donna per un anno intero, di condurla ovunque lei voglia andare; ma lui non manterrà la promessa, impiccherà la vecchia ad un albero quello stesso giorno, ma subirà lo stesso trattamento per mano di Almonio.

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Massimo d’Azeglio: La morte di Zerbino (1839)

Zerbino allontana infine Almonio e Corebo verso la schiera scozzese e prosegue insieme ad Isabella per conoscere la sorte del loro salvatore. Arrivano sul luogo dove Orlando è impazzito; ritrovano la sua armatura, il cavallo Brigliadoro e la sua spada Durindana. Raccolgono ogni pezzo e lasciano il tutto su di un pino. Giunge in quel posto anche Fiordiligi mentre è alla ricerca dell’amato Brandimarte, partito esso stesso alla ricerca di Orlando e poi ritornato a Parigi. La donna riconosce le armi del paladino e viene a conoscenza della sua sorte. Giunge poi anche Mandricardo e senza esitare si impossessa della spada d’Orlando. Zerbino non accetta quel comportamento e subito si lancia contro il guerriero pagano. Il duello è impari: Zerbino non può nulla contro l’armatura che in precedenza era appartenuta ad Ettore; i pochi colpi piazzati da Mandricardo vanno sempre a segno e Zerbino si ritrova in breve ferito, privo dello scudo e con l’armatura lacerata. Devono intervenire le donne, Isabella e Doralice, per calmare l’ira degli uomini e separarli. Fiordiligi si dispera vedendo allontanarsi in cattive mani la spada dell’amico Orlando. Vuole ora ancora di più ritrovare Brandimarte: per amore ma anche perché sa che lui sarebbe in grado di riprendere Durindana. Prosegue oltre il suo viaggio ed un giorno, mentre sta per oltrepassare un ponte, incontra il povero paladino. Invece Zerbino sente che la propria vita si spegne Isabella si dispera per non essere in grado di salvarlo e vuole morire con lui, ma lui stesso la convince a non compiere quel gesto e muore subito dopo tra le sue braccia.

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Jacopo Vignali: Zerbino, Isabella e l’eremita (1630)

Giunge sul luogo un eremita che condurrà la donna in un monastero di monache in Provenza. Incontreranno però sulla loro via un cavaliere che li offenderà ingiustamente. Nel frattempo Mandricardo, terminata la battaglia, raggiunge un fonte e subito vede arrivare, Rodomonte, pronto a sfidarlo per vendicarsi della perdita della sua promessa sposa. Inizia un feroce combattimento tra i due cavalieri pagani, ma il re Agramante fa richiamare nelle file dell’esercito tutti i comandanti ed i cavalieri lontani da Parigi, i due guerrieri, allora, sospendono il combattimento, rimandando in seguito la decisione di chi fra loro due potrà avere Doralice. Mandricardo è però rimasto senza cavallo, senonché alla stessa fonte arriva anche Brigliadoro.

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Siamo nel XXV in cui anche Ruggiero, poco dopo aver gettato nel pozzo lo scudo incantato, viene raggiunto dal messaggero inviato da re Agramante per ricevere la richiesta di soccorso. Decide però di proseguire oltre, per salvare il giovane innamorato della figlia del re Marsilio, e condannato ad essere arso vivo, ma soprattutto per poter ritrovare l’amata Bradamante. Giunto all’interno della piazza dove si sta svolgendo la condanna a morte e visto in faccia il giovane, Ruggiero crede si tratti di Bradamante, tanta è la somiglianza tra il condannato e la sua donna, caduta prigioniera nel tentativo di compiere l’impresa da sola. Il pagano sguaina la propria spada e libera il giovane ed escono al galoppo dal castello. Ruggiero è ancora dubbioso circa l’identità della persona che ha salvato, solo la voce grave del giovane ed il fatto che dice di non conoscerlo lo fanno dubitare che si tratti effettivamente della sua amata.

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Bradamante e Fiordispina

Alla fine il ragazzo si presenta: è Ricciardetto, fratello di Rinaldo e di Bradamante e totalmente identico alla sorella. Ricciardetto racconta che un giorno la sorella, ferita alla testa durante un combattimento contro soldati saraceni, si era dovuta tagliare i capelli per curarsi la ferita. Giunta ad una fonte si era poi sdraiata sull’erba ed era stata così vista da Fiordispina, figlia del re Marsilio, che subito, credendo fosse un cavaliere, si era innamorata di lei. Bradamante, imbarazzata, chiarì allora subito la propria identità; ma nonostante la confessione, Fiordispina continuò ad ardere d’amore per Bradamante. La mattina la sorella di Ricciardetto ricevette in dono dall’altra donna un cavallo ed una sopraveste e ritornò infine a Montalbano.

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Bradamante e Fiordispina

Bradamante aveva raccontato subito tutta la storia ai fratelli ed alla madre. In Ricciardetto, già in precedenza innamorato della ragazza, si riaccese subito il fuoco della passione ed il giovane decise così di vestirsi come la sorella per fare visita a Fiordispina. Nel castello di lei gli venne tolta l’armatura, venne vestito da donna, pettinato, invitato al banchetto ed infine a dormire nello stesso letto della giovane. Qui Ricciardetto per giustificare il proprio essere uomo, disse che durante il viaggio di ritorno aveva salvato dalle grinfie di un fauno una ninfa, che gli aveva detto di poter esaudire un suo qualunque desiderio. Il giovane aveva allora chiesto di poter sanare la ferita d’amore di Firodispina ed era stato infine trasformato da donna in un uomo. Quindi i due sfogarono la loro passione amorosa e continuarono a farlo, fino a quando il re non venne a sapere la verità e lo condannò così a morte. Ruggiero e Ricciardetto vengono a sapere che i fratelli del ragazzo, fatti prigionieri da Ferraù, stavano ora per essere venduti al nemico. Ruggiero si prende carico dell’impresa. Tuttavia il cavaliere pagano è tormentato da un dubbio: andare a soccorrere il proprio re o andare a Vallombrosa, dove crede di poter ritrovare Bradamente? Per non perdere il proprio onore decide infine di informare la donna degli avvenimenti e di ripartire per Parigi. Il giorno dopo comunque si reca al luogo dove avrebbe dovuto avvenire lo scambio ed incontra un cavaliere che ha come insegna una fenice.

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Sapremo nel canto XXVI che si tratta di Marfisa, che decide di unirsi per liberare i prigionieri. Arriva la schiera saracena con i due prigionieri al seguito e subito dopo la schiera dei Maganza carichi d’oro e di oggetti preziosi necessari al pagamento. Ma appena Ruggiero e Marfisa intervengono sia i Maganza che i saraceni gridano al tradimento ed iniziano a combattere tra loro. Alla fine riescono a rimanere in vita solo quelli che si sono allontanati velocemente a cavallo. Terminata la battaglia, i due prigionieri vengono liberati e Marfisa si toglie l’elmo così che tutti possono ora vedere che si tratta di una donna. Inizia quindi una parte chiaramente allegorica dove l’avari-zia, che dopo aver fatto strage in ogni luogo della terra, viene ferita da un cavaliere con la corona d’alloro (Francesco I di Francia), tre giovani (Massimiliano d’Austria, Carlo V ed Enrico VII d’Inghilterra) ed un leone (Leone X), ed infine uccisa con l’aiuto delle nobili genti, giunte per combatterla. I cavalieri vengono approfonditamente ragguagliati su tali episodi da Malagigi quando giunge presso loro Ippalca, che era stata incaricata da Bradamante di raggiungere Ruggiero, ma a cui Rodomonte aveva sottratto Frontino, il cavallo dello stesso cavaliere. La donna riconosce Ricciardetto e subito gli racconta gli avvenimenti, così Ruggiero salta in piedi e chiede di essere condotto presso il saraceno che le aveva rubato il cavallo.

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Ippalca

Una volta soli, Ippalca gli racconta di Bradamante e di Rodomonte. Quest’ultimo sta però andando a Parigi e Ruggiero non riesce ad incontrarlo. Presso Marfisa giungono infine anche Mandricardo, Rodomonte, Doralice ed il loro seguito. Mandricardo, vista la bellezza di Marfisa, decide di offrirla a Rodomonte in cambio di Doralice. Marfisa in risposta si mette l’armatura, monta a cavallo e lo sfida a duello. Le loro armature sono però invulnerabili per incantesimo e nessun colpo riesce a scalfirle. Rodomonte interviene infine per sospendere la contesa e per avviarsi verso re Agramante. Invece Ruggiero consegna ad Ippalca la lettera scritta per Bradamante, quindi ritrovato Rodomonte, in sella al suo cavallo, lo sfida subito a duello, ma il pagano si rifiuta di combattere sempre a causa dell’impegno preso verso re Agramante. Ruggiero si mostra disposto a rimandare il combattimento ma solo a patto di riavere subito il proprio destriero. Mentre i due cavalieri sono impegnati a litigare, arriva Mandricardo, subito si infuria vedendo che Ruggiero porta sullo scudo la stessa sua insegna, e sfida quindi a duello il cavaliere. Entrambi impugnano la spada e sono pronti a combattere, Rodomonte e Marfisa si intromettono però subito e cercano di calmare gli animi. Mandricardo è però ormai acceso d’ira e minaccia contemporaneamente Rodomonte e Ruggiero. Anche Rodomonte inizia a rispondere alle provocazioni ed alla fine rimane solo Marfisa a tentare di calmare la situazione, che tuttavia, alla fine dovrà giocoforza rispondere anche lei. Inizia un feroce combattimento tra Rodomonte e Ruggiero ed anche tra Marfisa e Mandricardo. A questo punto Superbia e Discordia tornano al monastero dal quale erano partite. Ma un demone prende possesso del cavallo di Doralice, facendolo scappare con in sella la donna urlante. Rodomonte corre subito in soccorso della donna amata; Mandricardo fa altrettanto e subito abbandona il combattimento. Marfisa e Ruggiero, non possono fare altro che recarsi all’accampamento pagano presso Parigi con l’intenzione di incontrare nuovamente là i loro avversari.

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Julius Schnorr von Caroesfeld: Marfisa (1822)

Il XXVII è un canto dove tutti i cavalieri valorosissimi vanno a dare forza all’esercito saraceno mentre re Carlo è privo dei suoi più valorosi paladini: Orlando e Rinaldo. Il primo è divenuto folle e vaga nudo per la Francia, l’altro, subito dopo aver liberato Parigi dall’assedio, ha ripreso la ricerca di Orlando ed Angelica, e continua a spostarsi dove pensa potessero trovarsi. Nel frattempo re Gradasso, Sacripante, Rodomonte e Mandricardo assaltano la retroguardia cristiana all’improvviso, mettendone in fuga una buona parte ma uccidendone e ferendone la maggioranza. Anche Marfisa e Ruggiero fanno uguale strage. Tutti i soldati saraceni trovano nuovo vigore alla vista dei loro più valorosi compagni ed inizia così una nuova sanguinosa battaglia. Re Carlo non può fare altro che rifugiarsi nuovamente tra le mura di Parigi. L’arcangelo Michele, allora ordina alla Discordia di riaccendere subito d’ira i cuori di Marfisa, Rodomonte, Mandricardo e Ruggiero. I quattro cavalieri abbandonano l’assedio e si recano da re Agramante che suggerisce infine di estrarre a sorte la priorità dei duelli e fa infine allestire un campo di battaglia. Il primo duello dovrebbe avvenire tra Rodomonte e Mandricardo, ma tra quest’ultimo e re Gradasso scoppia una lite furibonda, in quanto Gradasso, vedendo che Mandricardo porta con sé la spada di Orlando rinfaccia all’altro di avere usurpato Durindana ingiustamente, in quanto è lui il legittimo proprietario. Ruggiero si intromette per fare rispettare le priorità già assegnate ai duelli. La situazione viene ricondotta alla calma solo grazie all’intervento di re Agramante e re Marsilio.

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Jean Honore Fragonard: Rodomonte e Mandricardo di fronte al re Agramante (1780)

Scoppia però contemporaneamente una violenta lite anche tra Rodomonte e Sacripante. Questo ultimo riconosce in Frontino il proprio cavallo Frontalatte, sottrattogli da un furfante (per poi essere consegnato a Ruggiero, ma lui questo non lo sa). Il combattimento tra i due viene interrotto da Ferraù e poi anche da re Agramante, accorso dopo aver avuto notizia della nuova contesa ed aver quindi lasciato re Marsilio a tenere a bada Ruggiero, Mandricardo e re Gradasso. Giunge sul posto anche Marfisa e, sentita la storia di Sacripante su come gli era stato tolto il cavallo e che molti indicano in Brunello l’autore di quel furto, capisce che è stato lo stesso Brunello a rubarle la spada quello stesso giorno in cui era stato rubato Frontalatte. La donna decide così di vendicarsi all’istante; fa prigioniero il ladrone, lo conduce da re Agramante e chiede di poterlo impiccare con le proprie mani. Marfisa porta infine con sé il prigioniero presso un piccola torre, dove ha intenzione di trattenerlo per tre giorni prima di procedere all’impiccagione. Re Agramante si indigna per quel gesto di Marfisa, e vorrebbe sfidarla ma viene fermato e decide quindi infine di lasciar fare alla donna, per potersi dedicare alle altre più gravi liti. Per porre fine alla lite tra Rodomonte e Mandricardo, causata dalla bella Doralice, decide che sia infine la donna a scegliere il proprio amante, la quale decide per Mandricardo. Rodomonte si rifiuta di dover sottostare alla decisione di una donna, impugna nuovamente la spada e sfida Mandricardo. Viene però fatto tacere da re Agramante ed infine non gli resta altro da fare che abbandonare le schiere dell’esercito insieme ad un piccolo seguito. Quindi il cavaliere saraceno si allontana dall’accampamento maledicendo Doralice, tutte le donne in genere ed anche il re Agramante. Decide di alloggiare in un ostello e la sera l’oste, rispondendo ad una domanda del cavaliere riguardo alla fedeltà delle donne, si propone di raccontargli una storia, che gli era stata riferita da un viaggiatore per convincerlo di quanto siano rare le donne fedeli.

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Rodomonte con l’oste

La storia viene raccontata nel canto XXVIII: Astolfo, re dei Longobardi, era in gioventù molto bello, fino a credere di non poter avere eguali. Un giorno il cavaliere romano Fausto dice al re che l’unico che può competere con lui in bellezza, è suo fratello Giocondo. Astolfo, incredulo, convince il cavaliere a condurre Giocondo presso la sua corte, così da poterlo conoscere. La più grande difficoltà che Fausto dice al re di dover superare, era lo smisurato amore tra il fratello e la sua moglie, che li faceva stare sempre insieme.

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Giocondo con la moglie prima della partenza

Il cavaliere riesce a convincere la moglie di Giocondo, ma le notti ed i giorni prima della partenza la donna si mostra disperata, dicendo di non riuscire a vivere senza di lui. Il giorno prima di partire la donna gli regala anche una collanina, pregandolo di portarla sempre con sé come suo ricordo. Iniziato da poco il viaggio verso Pavia, Giocondo si rende conto di aver dimenticato il dono della moglie e decide di ritornare a Roma a riprenderlo. Trova così la moglie a letto addormentata tra le braccia di un loro garzone. Inizialmente il giovane pensa di ucciderli entrambi, ma poi, riprende la collanina in silenzio, senza svegliarli, e riparte. Da quel momento Giocondo non riesce più a dormire, né a mangiare ed inizia anche ad ammalarsi, tanto che la sua bellezza, quando giunge finalmente a Pavia, è ormai svanita. Il re Astolfo fa di tutto per fare riprendere il giovane, ma senza successo. Un giorno però, guardando attraverso un fessura nel muro della sua stanza, Giocondo vede la moglie del re sottomessa ai piaceri di un orribile nano, e assiste allo spettacolo per tutti i giorni successivi. Inizia a vedere sotto un altro punto di vista il proprio male (l’infedeltà è propria delle donne); ricomincia a mangiare, a dormire e si riprende indietro tutta la propria bellezza. Il re vuole sapere le ragioni della sua guarigione e Giocondo, dietro promessa che non si sarebbe vendicato, gliele mostra attraverso la fessura presente nella sua stanza.

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La moglie di Astolfo con il nano

Dopo un primo momento d’ira, Astolfo chiede consiglio al giovane su come comportarsi ora. Giocondo propone di andare in giro per il mondo a fare alle mogli di altri ciò che il nano ed il garzone avevano fatto alle loro. Si mettono in viaggio e dopo un po’ di tempo passato da una donna all’altra, decidono di trovarne una sola, fissa, che possa piacere ad entrambi, pensando di soddisfare così anche la natura infedele della donna. La ragazza scelta si chiama Fiammetta, figlia di un albergatore di Valenza, che nell’albergo in cui i due si sono fermati, incontra un ragazzo, Greco, da sempre innamorato di lei e che la prega di soddisfare la sua passione amorosa. Lei accetta e lo invita la notte nella sua camera, dove dormiva in un unico letto insieme ad Astolfo e Giocondo. Il giorno dopo, avendo capito che qualcuno si è divertito tutta la notte con Fiammetta, Astolfo e Giocondo, hanno pensato uno che fosse stato l’altro, e hanno iniziato a prendersi in giro, ma Fiammetta fa il nome di Greco. I due uomini, passato il primo momento di incredulità, cominciano poi a ridere fino a sentire male al petto e capiscono quindi di aver avuto l’ultima e la più convincente prova dell’infedeltà femminile. Terminata la storia, l’oste riceve l’approvazione di Rodomonte, che il giorno dopo parte fino a giungere presso un villaggio. Passano un giorno da quello stesso villaggio Isabella ed il monaco che l’aveva salvata dal suicidio, diretti al monastero di Provenza. Rodomonte vista l’avvenenza della donna, decide di concentrare tutto il suo amore su di lei. Saputa la sua storia e la decisione di chiudersi nel monastero Rodomonte cerca di persuaderla. Il monaco cerca di venire in aiuto alla donna, ma finisce con l’accendere d’ira il guerriero e viene subito aggredito.

Sarà nel XXIX canto che Rodomonte prima uccide violentemente il vecchio, poi si rivolge con voce languida alla donna. Isabella, capito che ogni tentativo di resistere alla violenza del saraceno sarebbe inutile, promette a Rodomonte di preparargli un liquore in grado di renderlo invulnerabile in cambio del rispetto del suo voto di castità. Terminata la preparazione, la donna propone al saraceno di essere lei in prima persona a provare al liquore. Isabella ci si bagna tutto il corpo ed espone il proprio collo alla spada di Rodomonte: muore decapitata, pronunciando in ultimo il nome di Zerbino. Rodomonte rimane sconvolto per aver ucciso la donna amata e decide di trasformare la chiesetta del villaggio in un monumento funebre in onore di Isabella e Zerbino. Fa costruire anche un ponte senza protezioni e promette di adornare il sepolcro con le armi di tutti i cavalieri che oseranno attraversarlo. Il sepolcro non era ancora stato terminato quando giunge sul posto l’Orlando furioso e, completamente nudo e disarmato, si mette a correre sul ponte. Rodomonte minaccia il paladino prima da lontano, poi parte all’attacco con l’intenzione di buttarlo giù. Il combattimento corpo a corpo tra i due valorosi cavalieri termina quando entrambi finiscono nel fiume. Orlando, completamente nudo, raggiunge subito la riva a nuoto e riprende la propria folle corsa; Rodomonte è invece rallentato nei movimenti dalle proprie armi e tocca quindi terra molto dopo il cristiano. Durante il suo vagare senza meta, saranno molte le pazzie compiute dal conte Orlando. Giunge infine in riva al mare di Spagna.

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Dosso Dossi: Angelica e Orlando furioso

L’ULTIMO INCONTRO TRA ANGELICA ED ORLANDO
(XXIX, 57-71)

E queste ed altre assai cose stupende
fece nel traversar de la montagna.
Dopo molto cercare, al fin discende
verso meriggie alla terra di Spagna;
e lungo la marina il camin prende,
ch’intorno a Taracona il lito bagna:
e come vuol la furia che lo mena,
pensa farsi uno albergo in quella arena,

dove dal sole alquanto si ricuopra;
e nel sabbion si caccia arrido e trito.
Stando così, gli venne a caso sopra
Angelica la bella e il suo marito,
ch’eran (sì come io vi narrai di sopra)
scesi dai monti in su l’ispano lito.
A men d’un braccio ella gli giunse appresso,
perché non s’era accorta ancora d’esso.

Che fosse Orlando, nulla le soviene:
troppo è diverso da quel ch’esser suole.
Da indi in qua che quel furor lo tiene,
è sempre andato nudo all’ombra e al sole:
se fosse nato all’aprica Siene,
o dove Ammone il Garamante cole,
o presso ai monti onde il gran Nilo spiccia,
non dovrebbe la carne aver più arsiccia.

Quasi ascosi avea gli occhi ne la testa,
la faccia macra, e come un osso asciutta,
la chioma rabuffata, orrida e mesta,
la barba folta, spaventosa e brutta.
Non più a vederlo Angelica fu presta,
che fosse a ritornar, tremando tutta:
tutta tremando, e empiendo il ciel di grida,

si volse per aiuto alla sua guida.

Come di lei s’accorse Orlando stolto,
per ritenerla si levò di botto:

così gli piacque il delicato volto,
così ne venne immantinente giotto.
D’averla amata e riverita molto
ogni ricordo era in lui guasto e rotto.
Gli corre dietro, e tien quella maniera
che terria il cane a seguitar la fera.

Il giovine che ’l pazzo seguir vede
la donna sua, gli urta il cavallo adosso,
e tutto a un tempo lo percuote e fiede,
come lo trova che gli volta il dosso.
Spiccar dal busto il capo se gli crede:
ma la pelle trovò dura come osso,
anzi via più ch’acciar; ch’Orlando nato
impenetrabile era ed affatato.

Come Orlando sentì battersi dietro,

girossi, e nel girare il pugno strinse,
e con la forza che passa ogni metro,
ferì il destrier che ’l Saracino spinse.
Feril sul capo, e come fosse vetro,
lo spezzò sì, che quel cavallo estinse:
e rivoltosse in un medesmo istante
dietro a colei che gli fuggiva inante.

Caccia Angelica in fretta la giumenta,
e con sferza e con spron tocca e ritocca;
che le parrebbe a quel bisogno lenta,
se ben volasse più che stral da cocca.
De l’annel c’ha nel dito si ramenta,
che può salvarla, e se lo getta in bocca:
e l’annel, che non perde il suo costume,
la fa sparir come ad un soffio il lume.

O fosse la paura, o che pigliasse
tanto disconcio nel mutar l’annello,
o pur, che la giumenta traboccasse,
che non posso affermar questo né quello;
nel medesmo momento che si trasse
l’annello in bocca e celò il viso bello,
levò le gambe ed uscì de l’arcione,
e si trovò riversa in sul sabbione.

Più corto che quel salto era dua dita,
aviluppata rimanea col matto,
che con l’urto le avria tolta la vita;
ma gran ventura l’aiutò a quel tratto.
Cerchi pur, ch’altro furto le dia aita
d’un’altra bestia, come prima ha fatto;
che più non è per riaver mai questa
ch’inanzi al paladin l’arena pesta.

Non dubitate già ch’ella non s’abbia
a provedere; e seguitiamo Orlando,
in cui non cessa l’impeto e la rabbia
perché si vada Angelica celando.
Segue la bestia per la nuda sabbia,
e se le vien più sempre approssimando:
già già la tocca, ed ecco l’ha nel crine,
indi nel freno, e la ritiene al fine.

Con quella festa il paladin la piglia,
ch’un altro avrebbe fatto una donzella:
le rassetta le redine e la briglia,
e spicca un salto ed entra ne la sella;
e correndo la caccia molte miglia,
senza riposo, in questa parte e in quella:
mai non le leva né sella né freno,
né le lascia gustare erba né fieno.

Volendosi cacciare oltre una fossa,
sozzopra se ne va con la cavalla.
Non nocque a lui, né sentì la percossa;
ma nel fondo la misera si spalla.
Non vede Orlando come trar la possa;
e finalmente se l’arreca in spalla,
e su ritorna, e va con tutto il carco,
quanto in tre volte non trarrebbe un arco.

Sentendo poi che gli gravava troppo,
la pose in terra, e volea trarla a mano.
Ella il seguia con passo lento e zoppo;
dicea Orlando: «Camina!» e dicea invano
Se l’avesse seguito di galoppo,
assai non era al desiderio insano.
Al fin dal capo le levò il capestro,
e dietro la legò sopra il piè destro;

e così la strascina, e la conforta
che lo potrà seguir con maggior agio.
Qual leva il pelo, e quale il cuoio porta,
dei sassi ch’eran nel camin malvagio.
La mal condotta bestia restò morta
finalmente di strazio e di disagio.
Orlando non le pensa e non la guarda,
e via correndo il suo camin non tarda.
 

Queste cose, ed altre tanto incredibili, fece attraversando la montagna. Dopo molto girovagare, alla fine discende, verso mezzogiorno, nella terra di Spagna; ed intraprende il cammino lungo il mare che bagna la spiaggia intorno a Terragona: e come vuole la follia che lo governa, pensa di costruirsi un rifugio in quella sabbia, // nel quale potersi riparare un poco dal sole; quindi si caccia sotto il sabbione, misto a terra, fine ed arido. Stando così, sopraggiunse per caso lì dove lui si trovava, la bella Angelica insieme a suo marito Medoro, che erano (così come vi ho in precedenza raccontato) scesi dai monti Pirenei fino al litorale della Spagna. Ella si avvicinò a meno di un braccio di distanza, non essendosi ancora accorta di lui. // Che quella persona fosse Orlando, non le passa nemmeno per la testa: è troppo diverso da colui che era solito essere. Da quando la follia si è impadronita di lui, è sempre andato in giro nudo, sia all’ombra che al sole: se fosse nato nell’assolata Assuan, o là dove i Garamanti venerano il dio Ammone, o presso ai monti, della luna, dai quali il grande Nilo sgorga, la sua carne non sarebbe stata più bruciacchiata di quanto lo era adesso. // Aveva gli occhi quasi nascosti nella testa, tanto erano rientrati, la faccia smagrita ed asciutta quasi quanto un osso, la chioma arruffata, squallida ed irta, la barba folta, spaventosa e spiacevole. Angelica non fu più veloce a vederlo, di quanto lo fu a tornare indietro, tremando tutta: tremando tutta, e riempiendo il cielo di grida, si volse chiedendo aiuto verso la sua guida, Medoro. // Non appena lo stolto Orlando si accorse di lei, per trattenerla si alzò di botto: tanto gli piacque il volto delicato di Angelica, tanto ne divenne immediatamente ghiotto. Di averla lungamente amata e riverita, ogni ricordo era in lui guasto e ridotto in pezzi. Le corre dietro, e si comporta come si comporterebbe il cane per rincorrere la preda. // Il giovane Medoro, vedendo quel pazzo inseguire la sua donna, gli getta il proprio cavallo addosso, e contemporaneamente lo percuote e lo colpisce, non appena vede che costui gli volta le spalle. Crede di potergli staccare la testa dal busto: ma trova invece una pelle dura come osso, anzi, molto più dell’acciaio; poiché Orlando era nato invulnerabile per incantesimo. // Come Orlando si sentì colpire alle spalle, si girò, nel girarsi strinse il pugno e con una forza che supera ogni possibile misura, colpì il destriero che il saraceno aveva spinto innanzi. Lo colpì al capo, e come se fosse stato di vetro, lo spezzò, così che quel cavallo uccise: e si voltò nuovamente, nel medesimo istante, verso colei che gli fuggiva dinnanzi. // Angelica spinge in tutta fretta la propria cavalla, e con frusta e con speroni la colpisce ripetutamente; poiché le sembrerebbe lenta, per il proprio bisogno di fuggire, anche se volasse più veloce della freccia scagliata dall’arco. Si ricorda poi che l’anello che porta al dito può salvarla, e se lo getta quindi in bocca: e l’anello, che non perde i suoi poteri magici, la fa sparire così come con un soffio fa sparire il lume. // Fosse stata la paura, o l’aver assunto una posizione tanto scomposta nel maneggiare l’anello, oppure il fatto che la cavalla fosse caduta a terra, io non posso affermare né l’una né l’altra ipotesi; nello stesso momento in cui si gettò l’anello in bocca e nascose alla vista il proprio bel viso, sollevò le gambe in aria, cadde dall’arcione e si trovò riversa sulla sabbia. // Fosse stato quella caduta anche più corta di due dita, sarebbe rimasta avviluppata con il matto, che nell’urto le avrebbe tolto la vita; ma una grande fortuna l’aiutò in quella circostanza. Cerchi ora pure, Angelica, con un’altro furto di ottenere l’aiuto di una altra bestia, come già aveva prima fatto; perché non sarà per riavere questa cavalla che si metterà ancora a correre sulla sabbia dinanzi al paladino. // Non dubitate ora che lei riesca a provvedere a sé stessa; seguiamo quindi le vicende di Orlando, nel quale non cessa la rabbia e l’impeto per il fatto che Angelica si tenga a lui nascosta. Insegue la cavalla di lei lungo la nuda spiaggia, e le si avvicina sempre di più: riesce a toccarla, ed ecco che l’afferra per la criniera, quindi per il freno, ed alla fine riesce a trattenerla. // Il paladino la afferra esultando tanto quanto un’altro avrebbe fatto prendendo invece una ragazza: le sistema le redini e la briglia, spicca un salto e si va a mettere in sella; la spinge al galoppo per molte miglia, senza concederle riposo, ora da questa ed ora da un’altra parte: non le toglie mai né la sella né il freno, mai le lascia assaporare né l’erba e né il fieno. // Volendosi cacciare dall’altra parte di un fossato, finisce a gambe all’aria con la cavalla. L’incidente non nuoce a lui, né lui sente il colpo; ma la povera cavalla, urtando il fondo del fossato, si sloga una spalla. Orlando non riesce a trovare un modo per tirarla fuori dal fossato, alla fine se la mette in spalla e ritorna su, e procede con tutto quel carico sulle spalle per una distanza superiore a tre tiri d’arco. // Sentendo poi che quel peso gli grava troppo, pone in terra la cavalla con l’intenzione di condurla per la briglia. La bestia lo segue zoppicando e con passo lento; dice Orlando: «Cammina!» ma lo dice inutilmente. Fosse stata anche in grado di seguirlo al galoppo, non sarebbe stato comunque abbastanza per il destriero di un pazzo. Alla fine le leva dal capo la cavezza, e la lega, dietro di sé, sopra al piede destro; // e così prosegue il proprio cammino trascinandola, e per confortarla le dice che così potrà seguirlo con un maggiore agio. Le levano il pelo e le asportano la pelle i sassi che incontra lungo quel difficile cammino. La bestia, così malamente trascinata, muore finalmente per lo strazio ed il disagio. Orlando non pensa a lei e non la guarda nemmeno, procede di fretta senza rallentare il cammino.

Il passo ci descrive il massimo capovolgimento della struttura epico-cavalleresca in un paradossale, ma non per questo meno tragico episodio. Si ricreano le strutture iniziali, quelle dell’inseguimento, ma vediamo come:

1. Orlando, l’integerrimo cavaliere si è trasformato in una lurida bestia, irriconoscibile per gli altri, il cui valore non è altro che forza bruta;
2. Angelica, bellissima e valorosa ragazza, non sa muoversi senza una guida e chiama vanamente Medoro che la salvi; fortunatamente (e narrativamente) si ricorda dell’anello fatato, che tuttavia la farà cadere impudicamente a gambe levate in uno stagno;

3. La cavalla rappresenta l’oggetto sostitutivo di un impossibile amore; Orlando la tratta, appunto, come una ragazza: le carezza la criniera e la “monta” fino a sfinirla. Non si rende conto neppure della sua morte.

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Edizione del 1548 pubblicata a Venezia

Le avventure di Orlando continueranno anche all’inizio del canto XXX portando ovunque distruzione. Giunge infine nei pressi di un immenso accampamento di guerrieri saraceni. Nell’accampamento saraceno, invece, nei pressi di Parigi, nonostante l’intervento del re Agramante e del re Marsilio si dà vita al duello tra Ruggiero e Mandricardo per la sorte della spada Durindana, voluta da re Gradasso ma posseduta da Mandricardo, e per lo stemma con l’aquila bianca, posseduta e contesa da Ruggiero e Mandricardo. Lo scontro, durissimo, vede alla fine vincitore Ruggiero che tuttavia rimane ferito e quindi curato nella tenda del re. Bradamante, grazie a Ippalca, riceve notizie di Ruggiero, ma lei teme di non riuscire più ad incontrarlo e si dispiace che lui abbia preferito andare in aiuto di suoi nemici piuttosto che raggiungerla. Infatti il cavaliere non riuscirà a tornare da lei entro venti giorni. Bradamante, saputo da Ricciardetto, che Ruggiero si era diretto con Marfisa a Parigi, inizia a temere anche per l’amore di lui. Parte per Parigi anche Rinaldo insieme a Ricciardetto. Rimane sua sorella, Bradamante, ancora in attesa dell’amante e finge pertanto una malattia.

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Continua il racconto nel XXXI canto quando Rinaldo e Ricciardetto incontrano un cavaliere misterioso, accompagnato da una donna, che subito sfida e sconfigge il fratello di Bradamante. Quindi Rinaldo si candida subito come prossimo avversario del cavaliere, ma il duello non avrà subito esito. Giunge la notte e viene deciso di rimandare la contesa al giorno successivo. Rinaldo conduce con sé il rivale al suo padiglione, e scopre che il cavaliere misterioso è Guidon Selvaggio e che quindi sono fratelli, e finiscono per abbracciarsi amorevolmente. Il valoroso ragazzo si unisce agli altri e tutti insieme riprendono il giorno dopo il viaggio verso Parigi. Il gruppo di cavalieri incontra a poca distanza da Parigi anche altri paladini, impegnati in una discussione con una donna, Fiordiligi, triste e molto bella. Anche loro si uniscono al gruppo di cavalieri. La donna, riconosciuto Rinaldo, gli racconta della pazzia del cugino Orlando, del fatto che gli era stata rubata la spada Durindana ed il destriero Brigliadoro, e che correva nudo per il mondo, dello scontro che aveva avuto con Rodomonte ed infine che ora il re Gradasso è in possesso della sua terribile spada. Rinaldo rimane scosso dal racconto della donna e decide di fare tutto il possibile per fare rinsavire il cugino, non prima però di avere liberato re Carlo dall’assedio. Viene deciso di muovere battaglia nella notte ed il gruppo di cavalieri si ripara in un bosco. Giunto il momento dell’assalto, i cristiani fanno strage nell’accampamento dell’esercito pagano. Fra gli eroi cristiani troviamo anche Brandimarte, che veduta Fiordiligi, corre subito ad abbracciarla. La donna le racconta subito quanto aveva visto e saputo riguardo ad Orlando, e Brandimarte, che ama il conte come fosse suo fratello si mette in viaggio alla ricerca del cavaliere furioso. Giungono al ponte di Rodomonte ed il pagano chiede subito al cavaliere cristiano di togliersi le armi.

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Brandimarte cade sul fiume nel ponte di Rodomonte

Brandimarte non risponde alla provocazione e lancia subito il suo cavallo contro l’avversario. Lo scontro tra i due sfidanti avviene sul ponte ed è talmente duro che entrambi finiscono nel fiume sottostante. Rodomonte, abituato a quella situazione, sa che via prendere ed esce subito sulla riva, Brandimarte finisce invece sottosopra con il proprio cavallo ed è trasportato dalla corrente. Fiordiligi si allontana alla ricerca di un valoroso cavaliere al quale chiedere aiuto per liberare il suo amato. Incontrerà infine un cavaliere riccamente adornato. Nel frattempo, a Parigi, re Agramante scappa dall’accampamento insieme ai suoi soldati e a Ruggiero, trasportato ancora malfermo su di un cavallo e poi su una nave. Il numero di pagani uccisi da Rinaldo e dagli altri cristiani è immenso. Solo re Gradasso rimane sul campo di battaglia, tanto è il suo desiderio di conquistare anche Baiardo, il cavallo di Rinaldo, avendo già Durindana, la spada di Orlando. Il pagano ed il cristiano si erano già dati appuntamento in passato per sostenere quel duello, ma un incantesimo di Malagigi aveva però allontanato Rinaldo. Il saraceno raggiunge ora il paladino e subito gli rinfaccia la sua codardia. Rinaldo spiega la sua storia, poi entrambi i guerrieri fissano un nuovo appuntamento per il giorno successivo presso una fontana. La mattina dopo entrambi si presentano per sostenere il combattimento.

Re Agramante, nel canto XXXII, giunge nella città di Arles e subito riorganizza l’esercito. Ad esso si aggiunge Marfisa, che non aveva voluto sporcarsi le mani con il vile sangue di Brunello e lo porta con sé per venire impiccato da re Agramante stesso.

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Marfisa si reca da re Agramante

Nel frattempo Bradamante, aspetta invano l’arrivo di Ruggiero. I venti giorni passano lentissimi e la donna, per gelosia nei confronti di Marfisa, si tormenta al pensiero che Ruggiero non la ami più. Nonostante ciò, Bradamante ha ancora speranza che le promesse di Ruggiero siano vere. Giunge però presso il suo castello un cavaliere scappato dall’accampamento saraceno e le racconta le dicerie che avevano iniziato a circolare per l’esercito pagano: Marfisa e Ruggiero si amavano, erano ormai inseparabili e si sarebbero sposati. Bradamante, che ritiene ormai Ruggiero un infedele, decide però infine di partire e di unirsi nuovamente all’esercito cristiano, per vendicarsi di Marfisa e trovare la morte per mano dello stesso Ruggiero. Incontra durante il suo viaggio un donna con tre cavalieri al suo fianco ed al seguito una lunga schiera di persone. Bradamante viene a sapere che si tratta di una messaggera della bellissima regina d’Islanda, mandata da re Carlo per fargli dono di quello scudo, da destinare al più valoroso dei cavalieri cristiani. I tre cavalieri al suo fianco, tutti re, avevano già fatto prova del loro valore con il desiderio di avere in sposa la regina, ma lei, volendo come marito solo l’uomo più valoroso al mondo, aveva deciso di metterli un’ultima volta alla prova. Bradamante è presa dal suo tormento per Ruggiero, si lascia guidare dal cavallo finché giunge al castello di Tristano, dove chi viene ospitato deve necessariamente proteggere la propria stanza contro ogni altro cavaliere che si presenti dopo di lui; per le donne, è invece la loro bellezza a decidere a chi spetti la stanza. Bradamante giunge al castello, dice di voler una stanza e sfida i tre cavalieri che la occupano, che sono i tre re al seguito della messaggera della regina di Islanda. Bradamante si lancia al combattimento e li disarciona uno dopo l’altro, poi si toglie l’elmo è mostra a tutti la sua femminilità. L’oste quindi spiega quale sia l’origine di quella regola. Al tempo in cui il re di Francia era stato Fieramonte, quel castello era stato abitato dal figlio del re, Clodione, dalla sua bellissima amata e da dieci valorosi cavalieri. Giunse un giorno in quel posto Tristano, in compagnia di una donna, e chiese di poter essere ospitato. Clodione, geloso per la sua bellissima amante, rispose però con un rifiuto. Il valoroso cavaliere, indispettito, decise quindi di sfidare il figlio del re ed i suoi dieci cavalieri per ottenere con la forza ciò che non aveva potuto ottenere con le preghiere, e mise anche come condizione che in caso di vittoria avrebbe potuto lui solo stare in quella dimora. Tristano sconfisse tutti i rivali e prese possesso del castello. Clodione pregò il cavaliere di ridargli la sua bellissima compagna, ma Tristano rispose che una donna tanto bella meritava di stare con il cavaliere più valoroso e gli offrì invece in cambio la sua compagna di minore bellezza. Il giorno dopo Tristano, consapevole che era stato l’amore la causa di tutto, lasciò subito il castello e riconsegnò anche la bellissima donna al suo amato. Anche Clodiano lasciò quel castello e ci mise a guardia un cavaliere con il compito di fare rispettare quella regola a chiunque chiedesse ospitalità. Viene servita la cena, ma il padrone del castello comunica alla messaggera della regina d’Islanda che deve lasciare la dimora, in quanto meno bella di Bradamante, ma Bradamante stessa interviene dicendo di essersi meritata la stanza come cavaliere e non come donna.

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Nel XXXIII, terminata la cena, Bradamante rimane nel grande salone ad ammirare i dipinti che ne rivestono le mura. Le pitture era state fatte realizzare con un incantesimo da Merlino per rappresentare scene future, ed in particolare le guerre che in futuro verranno sostenute dai francesi. Va infine a coricarsi e, addormentata, riceve in sogno la visita di Ruggiero che le rinnova la propria promessa d’amore.

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Bradamante osserva le pitture

La donna si risveglia in lacrime, crede che sia vero solo ciò che la tormenta da sveglia. Riprende il proprio viaggio verso Parigi e, giunta alla città, ritrova Rinaldo e re Carlo, e viene a sapere da loro della sconfitta subita da re Agramante. Tornando a parlare della sfida tra re Gradasso e Rinaldo, per il possesso della spada Durindana e di Baiardo, i due cavalieri, giunti presso la fonte, impugnano subito la spada e danno inizio ad un feroce combattimento. Ma lo devono abbandonare quando vedono che il cavallo Baiardo è stato assalito da un mostro alato (probabilmente un incantesimo per cercare di interrompere il duello).

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Il cavallo rapito da un mostro alato

Il cavallo riesce a mettersi in salvo in un bosco. Gradasso sale in groppa al proprio destriero e lo insegue, Rinaldo prosegue invece a piedi e, non riuscendo a trovare la giusta via, torna poi presso la fonte ed infine, non vedendo tornare neanche il rivale, all’accampamento cristiano. Re Gradasso alla fine ritrova il cavallo ma non rispetta il patto con lo sfidante cristiano, raggiunge re Agramante ad Arles e s’ imbarca per l’India. Astolfo, il cavaliere, in sella all’ippogrifo, dopo aver esplorato in lungo ed in largo la Francia a la Spagna, ed essere poi passato in Africa, raggiunge l’Etiopia, dove fa visita al re Senapo e lo trova tormentato dalle arpie. Queste erano state mandate da Dio per punirlo per aver voluto, quando era giovane, muovere il proprio esercito verso la sorgente del Nilo e verso i monti della Luna, sede del paradiso terrestre, per assoggettare i suoi abitanti. Il termine della punizione venne predetta a Senapo con la venuta dal cielo di un cavaliere in sella ad una cavallo alato. Astolfo quindi riesce a liberarlo dalla Arpie che inseguite dallo stesso, raggiungono il monte della Luna e si infilano subito nella grotta che porta fino agli abissi dell’Inferno.

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Nel XXXIV Astolfo decide di avventurarsi per i gironi infernali. Il fumo nero e sgradevole che ne riempie l’aria, diviene però via via più denso man mano che si procede verso il basso, finché il cavaliere è costretto a fermarsi. Astolfo incontra l’anima di Lidia, che gli racconta la propria storia. In vita è stata tanto bella quanto altezzosa e ha fatto innamorare di sé il cavaliere Alceste. Il ragazzo si mette per amore al servizio del re di Lidia, padre della ragazza e con le proprie imprese gli consente innumerevoli conquiste. Alceste chiede un giorno la mano di Lidia, ma il re gli risponde con un rifiuto. Allora lascia la corte per offrire le proprie armi al re di Armenia, acerrimo nemico del padre della ragazza. Nel giro di un anno al re di Lidia rimane il possesso del suo solo castello e decise così di mandare la figlia a trattare la resa con Alceste. La ragazza, accortasi del potere che ha nei confronti del cavaliere lo fa subito sentire in colpa per i danni causati al padre e che, dopo quello che era successo, non vuole ora più amarlo, preferisce piuttosto la morte. Alceste si lancia ai piedi della ragazza chiedendo perdono, lei glielo promette a patto di fare riconquistare al padre tutto ciò che gli è stato sottratto in quella guerra. Il giovane quindi uccide il re di Armenia ed in meno di un mese ridà il regno al padre della amata. La ragazza ed il re decidono poi di fare morire Alceste e lo allontanano infine dalla corte. La sofferenza per quel trattamento fa ammalare e quindi morire Alceste. Gli occhi di Lidia vengono ora fatti lacrimare da quel fumo denso, per punirla dell’ingratitudine mostrata verso chi l’amava. Astolfo poi chiude con massi e tronchi l’apertura della caverna, così da impedire alle arpie di uscire nuovamente, e sale con l’ippogrifo verso il monte. Infine raggiunge la cima della montagna:

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Astolfo e l’evangelista Giovanni

ASTOLFO NELLA LUNA
(XXXIV, 60-67; 70,75; 81-86)

Con accoglienza grata il cavalliero
fu dai santi alloggiato in una stanza;
fu provisto in un’altra al suo destriero
di buona biada, che gli fu a bastanza.
De’ frutti a lui del paradiso diero,
di tal sapor, ch’a suo giudicio, sanza
scusa non sono i duo primi parenti,
se per quei fur sì poco ubbidienti.

Poi ch’a natura il duca aventuroso
satisfece di quel che se le debbe,
come col cibo, così col riposo,
che tutti e tutti i commodi quivi ebbe;
lasciando già l’Aurora il vecchio sposo,
ch’ancor per lunga età mai non l’increbbe,
si vide incontra ne l’uscir del letto
il discipul da Dio tanto diletto;

che lo prese per mano, e seco scorse
di molte cose di silenzio degne:
e poi disse: «Figliuol, tu non sai forse
che in Francia accada, ancor che tu ne vegne.
Sappi che ’l vostro Orlando, perché torse
dal camin dritto le commesse insegne,
è punito da Dio, che più s’accende
contra chi egli ama più, quando s’offende.

Il vostro Orlando, a cui nascendo diede
somma possanza Dio con sommo ardire,
e fuor de l’uman uso gli concede
che ferro alcun non lo può mai ferire;
perché a difesa di sua santa fede
così voluto l’ha costituire,
come Sansone incontra a’ Filistei
costituì a difesa degli Ebrei:

renduto ha il vostro Orlando al suo Signore
di tanti benefici iniquo merto;
che quanto aver più lo dovea in favore,
n’è stato il fedel popul più deserto.
Sì accecato l’avea l’incesto amore
d’una pagana, ch’avea già sofferto
due volte e più venire empio e crudele,
per dar la morte al suo cugin fedele.

E Dio per questo fa ch’egli va folle,
e mostra nudo il ventre, il petto e il fianco;
e l’intelletto sì gli offusca e tolle,
che non può altrui conoscere, e sé manco.
A questa guisa si legge che volle
Nabuccodonosor Dio punir anco,
che sette anni il mandò il furor pieno,
sì che, qual bue, pasceva l’erba e il fieno.

Ma perch’assai minor del paladino,
che di Nabucco, è stato pur l’eccesso,
sol di tre mesi dal voler divino
a purgar questo error termine è messo.
Né ad altro effetto per tanto camino
salir qua su t’ha il Redentor concesso,
se non perché da noi modo tu apprenda,
come ad Orlando il suo senno si renda.

Gli è ver che ti bisogna altro viaggio
far meco, e tutta abbandonar la terra.
Nel cerchio de la luna a menar t’aggio,
che dei pianeti a noi più prossima erra,
perché la medicina che può saggio
rendere Orlando, là dentro si serra.
Come la luna questa notte sia
sopra noi giunta, ci porremo in via.» 

Non appena la luna compare in cielo, il cavaliere e l’evangelista si sistemano su di un carro trainato da quattro cavalli rosso fuoco ed iniziano così il loro viaggio per la Luna

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Grazia Nidasio: Astolfo e San Giovanni sul carro verso la luna

Tutta la sfera varcano del fuoco,
ed indi vanno al regno de la luna.
Veggon per la più parte esser quel loco
come un acciar che non ha macchia alcuna;
e lo trovano uguale, o minor poco
di ciò ch’in questo globo si raguna,
in questo ultimo globo de la terra,
mettendo il mar che la circonda e serra.

Quivi ebbe Astolfo doppia meraviglia:
che quel paese appresso era sì grande,
il quale a un picciol tondo rassimiglia
a noi che lo miriam da queste bande;
e ch’aguzzar conviengli ambe le ciglia,
s’indi la terra e ’l mar ch’intorno spande,
discerner vuol; che non avendo luce,
l’imagin lor poco alta si conduce.

Altri fiumi, altri laghi, altre campagne
sono là su, che non son qui tra noi;
altri piani, altre valli, altre montagne,
c’han le cittadi, hanno i castelli suoi,
con case de le quai mai le più magne
non vide il paladin prima né poi:
e vi sono ample e solitarie selve,
ove le ninfe ognor cacciano belve.

Non stette il duca a ricercar il tutto;
che là non era asceso a quello effetto.
Da l’apostolo santo fu condutto
in un vallon fra due montagne istretto,
ove mirabilmente era ridutto
ciò che si perde o per nostro diffetto,
o per colpa di tempo o di Fortuna:
ciò che si perde qui, là si raguna.

Non pur di regni o di ricchezze parlo,
in che la ruota instabile lavora;
ma di quel ch’in poter di tor, di darlo
non ha Fortuna, intender voglio ancora.
Molta fama è là su, che, come tarlo,
il tempo al lungo andar qua giù divora:
là su infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.

Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non han mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
là su salendo ritrovar potrai.

Astolfo arriva in una valle dove viene raccolto tutto ciò che sulla terra è stato smarrito:

Vide gran copia di panie con visco,
ch’erano, o donne, le bellezze vostre.
Lungo sarà, se tutte in verso ordisco
le cose che gli fur quivi dimostre;

che dopo mille e mille io non finisco,
e vi son tutte l’occurrenze nostre:
sol la pazzia non v’è poca né assai;
che sta qua giù, né se ne parte mai.

Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Poi giunse a quel che par sì averlo a nui,
che mai per esso a Dio voti non ferse;
io dico il senno: e n’era quivi un monte,
solo assai più che l’altre cose conte.

Era come un liquor suttile e molle,
atto a esalar, se non si tien ben chiuso;
e si vedea raccolto in varie ampolle,
qual più, qual men capace, atte a quell’uso.
Quella è maggior di tutte, in che del folle
signor d’Anglante era il gran senno infuso;
e fu da l’altre conosciuta, quando
avea scritto di fuor: Senno d’Orlando.

E così tutte l’altre avean scritto anco
il nome di color di chi fu il senno.
Del suo gran parte vide il duca franco;
ma molto più maravigliar lo fenno
molti ch’egli credea che dramma manco
non dovessero averne, e quivi dénno
chiara notizia che ne tenean poco;
che molta quantità n’era in quel loco.

Altri in amar lo perde, altri in onori,
altri in cercar, scorrendo il mar, ricchezze;
altri ne le speranze de’ signori,
altri dietro alle magiche sciocchezze;
altri in gemme, altri in opre di pittori,
ed altri in altro che più d’altro aprezze.
Di sofisti e d’astrologhi raccolto,
e di poeti ancor ve n’era molto.

Astolfo tolse il suo; che gliel concesse
lo scrittor de l’oscura Apocalisse.
L’ampolla in ch’era al naso sol si messe,
e par che quello al luogo suo ne gisse:
e che Turpin da indi in qua confesse
ch’Astolfo lungo tempo saggio visse;
ma ch’uno error che fece poi, fu quello
ch’un’altra volta gli levò il cervello.

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Giovan Battista Galizzi: Astolfo e il senno di Orlando

Con gentile accoglienza, il cavaliere fu fatto alloggiare dai santi in una stanza; in una altra si provvide affinché al suo destriero fosse data a sufficienza della buona biada. Diedero a lui da mangiare alcuni frutti del paradiso, di tale sapore, che a suo giudizio, senza scuse non sono stati i due primissimi antenati, Adamo ed Eva, se a causa di quei frutti furono così poco obbedienti alle regole divine. // Dopo che l’avventuroso duca ebbe soddisfatto i bisogni della propria natura umana, tanto con il cibo, quanto con il riposo, avendo ricevuto proprio tutte le comodità; al sorgere del nuovo giorno, nell’ora in cui Aurora lascia il vecchio sposo Titone, che, nonostante l’età avanzata, non smise mai di piacerle, si vide venire incontro, mentre si alzava dal letto, il discepolo, Giovanni, tanto amato teneramente da Dio, // il quale lo prese per mano, e con lui discorse di molte cose meritevoli del silenzio, e poi disse: «Figliolo, tu forse non sai che cosa stia accadendo in Francia, sebbene tu venga proprio da lì. Sappi quindi che il vostro cavaliere Orlando, avendo deviato dal giusto cammino le insegne di difensore della Chiesa a lui affidate, è ora punito da Dio, che, quando viene offeso, si infiamma d’ira di più contro chi più ama. // Il vostro Orlando, al quale, alla nascita, diede Dio, con immenso rischio, un’immensa forza, e gli concesse, fuori dalle usanze umane, che nessun ferro avrebbe mai potuto ferirlo; poiché a difesa della sua santa fede l’ha voluto porre con questi poteri, così come Sansone contro i Filistei pose a difesa degli Ebrei; // al suo Signore il vostro Orlando ha dato in cambio un’ingiusta ricompensa per i tanti benefici ricevuti; poiché quanto lo doveva avere in suo aiuto il popolo fedele, il popolo cristiano, tanto ne è rimasto privo, è stato abbandonato a se stesso. Tanto l’aveva reso cieco l’amore peccaminoso nei confronti di una donna pagana, da avere ormai tollerato di divenire, in due e più occasioni, crudele e malvagio, e sul punto di dare la morte al suo fedele cugino Rinaldo. // E per questo Dio fa sì che egli vaghi preso dalla follia, e mostri nudi il ventre, il petto ed il proprio fianco; e gli offusca e toglie tanto l’intelletto, da non essere in grado di riconoscere gli altri, e nemmeno se stesso. Allo stesso modo si legge che Dio volle punire anche Nabuccodonosor, e che per sette anni lo mandò in giro completamente folle al punto che, come fosse stato un bue, si nutriva di erba e di fieno. // Ma poiché molto minore è tuttavia stato il peccato del paladino, rispetto a quello di Nabucco, dal volere divino soli tre mesi sono stati imposti come periodo per purificare questa colpa. Non per un altro scopo, dopo un così lungo viaggiare, ti ha concesso il Redentore di salire fino al Paradiso terrestre, se non perché tu possa da noi apprendere il modo per rendere ad Orlando il suo senno. // Dovrai in verità intraprendere un altro viaggio in mia compagnia, ed abbandonare quindi completamente la terra. Ti devo condurre sulla Luna, che, tra tutti i pianeti, si muove in cielo più vicina alla terra, perché la medicina che può rendere saggio Orlando viene tenuta lassù. Non appena la Luna questa notte sarà giunta sopra di noi, ci metteremo sulla via per raggiungerla».
(…)
Attraversano tutta la sfera di fuoco e quindi proseguono verso il regno della Luna. Vedono quel luogo essere per la maggior parte come un acciaio privo di qualunque macchia; e lo trovano uguale, o poco meno, per dimensioni, alla superficie complessiva del globo terrestre, della terra di questo ultimo globo, il globo terrestre, comprendendo anche il mare che la terra circonda e stringe. // Lì Astolfo rimase meravigliato due volte: che visto da vicino quel luogo era tanto grande, mentre assomiglia invece ad un piccolo tondo a noi che lo osserviamo da queste parti; e che gli conveniva aguzzare lo sguardo, se dalla Luna la terra ed il mare, che intorno ad essa si spande, vuole distinguere; poiché, non avendo luce propria, la loro immagine arriva poco lontana. // Ben altri fiumi, altri laghi, altre campagne ci sono là sulla Luna, rispetto a quelli che ci sono qui tra noi; ben altre pianure, altre valli, altre montagne hanno a disposizione le città ed i castelli della Luna, con case in confronto alle quali mai più grandi poté vederne il paladino né prima di allora né dopo: e ci sono anche vaste e solitarie selve, dove le ninfe cacciano ad ogni ora le belve che vi abitano. // Il duca Astolfo non rimase ad esplorare tutto quel luogo; poiché non era salito là per quello scopo. Dal santo apostolo Giovanni fu condotto in un valle stretta tra due montagne, dove veniva miracolosamente raccolto ciò che viene da noi perso, o per nostra colpa, o a causa del tempo o della Fortuna: ciò che si perde qua sulla terra, là sulla Luna si raduna. // Non parlo solo di regni o di ricchezze, su cui ha potere la mutevole ruota della Fortuna; ma voglio anche dire di ciò che la Fortuna non ha alcun potere di togliere o di dare. Là si trova molta di quella fama che, come fosse un tarlo, il tempo, con il suo lungo passare, qua sulla terra divora: là sulla Luna stanno le infinite preghiere e promesse, che vengono fatte a Dio da noi peccatori. // Le lacrime ed i sospiri degli amanti, l’inutile tempo che si perde giocando, ed il lungo ozio di uomini ignoranti, i vani propositi che non hanno mai attuazione, i desideri infruttuosi sono tanti da ingombrare la maggior parte di quel luogo: in conclusione, ciò che qua sulla terra tu potresti perdere, salendo là sù potrai ritrovarlo.
(…)
Vide una grande abbondanza di trappole appiccicose fatte con il vischio, che furono un tempo, oh donne, la vostra bellezza. Sarebbe lungo se raccontassi in versi tutte le cose che sulla Luna si mostrarono agli occhi di Astolfo; poiché anche dopo mille e mille versi non riuscirei a terminare, essendoci tutto ciò che ci può capitare in vita: soltanto la pazzia sulla Luna è presente nella giusta misura, né poca né troppa; in quanto sta qua giù sulla terra senza mai allontanarsi. // Lì, su alcuni suoi giorni e su alcuni fatti che riguardavano lui, e che egli aveva già dimenticato, rivolse la propria attenzione: che se non ci fosse stato Giovanni a spiegargli le cose, non avrebbe potuto Astolfo distinguerne le diverse forme. Poi giunse dove stava ciò che a noi sembra sempre di avere a sufficienza, tanto che mai si fecero voti a Dio per poterne avere di più; sto parlando del senno: ve n’era lì tanto da formare un monte, da solo in quantità molto superiore a tutte le altre cose finora raccontate. // Era come un liquido diluito e fluido, destinato ad  evaporare, se non tenuto opportunamente chiuso in un recipiente; e si poteva vedere in quella valle raccolto in varie ampolle, quale più, quale meno capiente, adatte a quell’impiego. La più grande di tutte era quella nella quale era stato versato dentro il senno del folle cavaliere Orlando; e venne riconosciuta in mezzo alle altre, in quanto riportava al suo esterno la scritta: Senno d’Orlando. // Ed allo stesso modo anche le altre riportavano scritto il nome di coloro ai quali il senno, in esse contenuto, era appartenuto. Il duca Astolfo vide un ampolla contenente gran parte del proprio senno; ma lo fecero meravigliare molto di più le ampolle di molti che credeva non dovessero essere privi nemmeno di un briciolo del proprio senno, dettero invece lì evidenza del fatto di averne in realtà ancora poco; essendone presente una grande quantità in quel luogo. // Alcuni lo perdono a causa dell’amore, altri a causa dell’onore, altri nella ricerca di ricchezze, muovendosi per mare; altri a causa delle speranze riposte nei propri signori, altri stando dietro alle vane arti della magia; altri per le gemme, altri per le opere di pittori, ed altri per qualcosa d’altro che apprezzano più di ogni altra cosa. Di filosofi e di astrologi ed anche di poeti era stato raccolto molto senno in quel luogo. // Astolfo prese il proprio senno; glielo concesse l’apostolo Giovanni, scrittore dell’ultimo libro del Nuovo Testamento relativo all’Apocalisse. Si portò semplicemente al naso l’ampolla nella quale era esso contenuto, e sembra quindi che il senno fece ritorno al proprio posto: e che Turpino ammetta, da quel momento in avanti, che Astolfo visse per un lungo periodo come un uomo saggio; ma fu un errore che fece successivamente quello che una altra volta gli tolse ancora il senno.

E’ questo un altro passo considerato tra i più importanti dell’intero poema: esso riprende alcuni passi della letteratura classica, soprattutto dell’autore satirico greco Luciano che aveva narrato un viaggio sulla Luna, ma il riferimento più diretto è con Dante, in quanto anche qui vi è un’ascesa verso il Paradiso. La differenza è che il Paradiso ariostesco è specchio, in positivo, del nostro Mondo: a livello speculare ciò che in questo mondo non vi è più è raccolto tutto in cielo. Ma, come dice Calvino, se la Luna è piena del senno degli uomini, tanto che anche il sano Astolfo trova una significativa quantità del suo, è naturale che la terra ne sia quasi priva. E’ la riprova di ciò che l’autore ferrarese ci ha sinora detto: i vani desideri scappano, fuggono via e ci portano alla follia, se non riusciamo a porre dei limiti ad essi e a vivere con giusta e “sana” moderazione.

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Le Parche

Dopo che il cavaliere ha prelevato l’ampolla del conte Orlando, l’evangelista Giovanni lo conduce in un palazzo pieno di batuffoli in cui una donna è intenta ad ottenere da ogni batuffolo un filo che poi avvolge su di un aspo per formare una matassa. Un’altra donna separa le matasse brutte da quelle belle. Sono le Parche (sembra qui strano che Ariosto ne citi soltanto due) ed hanno il compito di tessere la vita di ogni mortale. Un vecchio, il tempo, porta via senza riposo le piastrine che accompagnano le matasse con incisi i nomi delle persone loro proprietarie.

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Nel XXXV canto Astolfo, vede un batuffolo che luccica più dell’oro e spicca per bellezza tra tutti gli altri presenti, è quello del cardinale Ippolito d’Este. Nel frattempo il vecchio, il tempo, scarica le piastrine nel fiume Lete, il fiume dell’oblio, che scorre vicino al palazzo. Molte piastrine vanno a fondo: alcune vengono prese nel becco da degli uccellacci per poi finire inevitabilmente ancora nel fiume; pochissime vengono invece salvate da due bianchi cigni, (gli scrittori) che le portano a riva, dove una ninfa le preleva per poi affiggerle ad una colonna del tempio dell’Immortalità. L’evangelista Giovanni sottolinea quindi quanto sia importante sostenere i poeti e gli scrittori perché il loro nome e di chi li benefica rimarrà nella storia.

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Il Tempo

Nel frattempo Bradamante viene a sapere che re Agramante si trova ad Arles e si dirige in quella città, pensando di ritrovarvi anche Ruggiero. Incontra per strada Fiordiligi, afflitta per la sorte capitata all’amato Brandimarte, caduto prigioniero di Rodomonte. Fiordiligi chiede a Bradamante di liberare il suo fedele amante. Non appena la guerriera giunge al fiume, Rodomonte, si arma subito e si avvia per togliere le armi al nuovo venuto. Bradamante lo sfida a duello e chiede, come patto, che in caso di sua vittoria siano le armi del saraceno le uniche offerte al mausoleo, tutte le altre dovranno essere tolte e tutti i prigionieri dovranno essere liberati. Rodomonte accetta il patto, e chiede in cambio non le armi della donna, come era abitudine, ma il suo amore. La lancia d’oro di Bradamante (capace, per incantesimo, di disarcionare chiunque toccasse) manda a terra l’avversario pagano.

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Rodomonte, tanta era la sorpresa per essere stato sconfitto da una donna, si toglie armi ed armatura, e si allontana, trovando rifugio in una caverna. Fiordiligi dice a Bradamante di voler andare alla città di Arles, dove spera di ritrovare Brandimarte. Bradamante si offre di accompagnarla per parte del viaggio e le chiede in cambio di portare a Ruggiero il cavallo che ha sottratto a Rodomonte (Frontino), e di dire al cavaliere pagano di armarsi e prepararsi a sfidare il cavaliere che glielo ha mandato, e che ha intenzione di dimostrare con le armi la sua infedeltà. Giunte ad Arles, Fiordiligi riporta il discorso della compagna e poi se ne va. Ruggiero è confuso da quel gesto di cortesia ma anche di sfida; non riesce a capire chi possa ritenerlo un infedele, crede si tratti di Rodomonte, non certo di Bradamante. Escono tre cavalieri, fra cui Ferraù, tutti disarcionati dal cavaliere misterioso. Ruggiero, saputo da Ferraù che il cavaliere chiede di lui, subito si prepara al combattimento.

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Nel XXXVI Ruggiero si prepara al combattimento, ma Ferraù gli svela che probabilmente si tratta di Bradamante. Ruggiero non sa cosa fare e ritarda la propria uscita.

 

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Marfisa, dipinto su maiolica

Marfisa approfitta dell’incertezza dell’uomo per uscire dalle mure e sfidare a duello il cavaliere. Bradamante capisce che non si tratta di Ruggiero, chiede il nome all’avversario, e saputo che si tratta di Marfisa, che le ha rubato l’amante, si accende subito d’ira ed è intenzionata ad ucciderla. Marfisa viene subito buttata a terra, appena Bradamante la tocca con la propria lancia incantata. Subito dopo esce Ruggiero, Bradamante lo riconosce e gli dice di volerlo uccidere. Ruggiero capisce che la causa di tutto è il suo non avere mantenuto i patti. Vorrebbe parlarle per spiegare le proprie ragioni ma Bradamante ha ormai già lanciato al galoppo il suo destriero contro di lui. Il pagano si stringe nell’armatura e tiene la lancia di lato per non ferirla. Lei all’ultimo non riesce a colpirlo e decide quindi di sfogare la propria ira contro gli altri avversari saraceni. Ruggiero riesce infine ad avvicinarsi all’amata ed a convincerla a lasciarlo parlare. Si allontanano quindi entrambi dal campo di battaglia. Marfisa, riuscita nel frattempo a risalire a cavallo e visto Ruggiero partire al galoppo all’inseguimento di Bradamante, li raggiunge.

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Bradamante e Marfisa si sfidano

Bradamante si lancia contro la donna, e danno vita a una cruenta sfida. Ruggiero tenta con le preghiere di separare le due guerriere senza ottenere ascolto, passa infine alle maniere forti e fa così indirizzare contro di sé l’ira di Marfisa. Bradamante rimane da parte a godersi la scena, tale da rimuovere ogni suo precedente dubbio riguardo alla loro relazione. Il duello tra i due è interrotto dalla voce del mago Atlante. Il mago comunica a Ruggiero e Marfisa che sono fratelli gemelli. Almonte e Troiano, padre di re Agramante, avevano ucciso il loro padre Ruggiero II ed abbandonato in mare la loro madre Galaciella. La fortuna aveva però messo in salvo la donna, che li aveva così dati alla luce ed era morta subito dopo.

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Ruggiero vs Marfisa, Bradamante e il mago Atlante

Atlante aveva dato sepoltura a Galaciella ed aveva allevato i due bambini, facendoli allattare da una leonessa. Un giorno un gruppo di arabi aveva rapido la bambina, ed a lui era rimasto solo Ruggiero. Detto questo, lo spirito del mago svanisce per raggiungere il regno degli inferi. Ruggiero e Marfisa si scoprono fratelli, abbandonano il combattimento e si abbracciano fraternamente. Ruggiero confessa quindi alla sorella l’amore che prova per Bradamante, le due donne si abbracciano affettuosamente ed abbandonano così anche loro ogni ostilità. Marfisa vuole sapere qualcosa di più riguardo alla loro madre ed al loro padre, Ruggiero le racconta la loro storia, di come Ruggiero II dovette combattere contro il re Agolante giunto in Italia con tre figli, tra cui Galaciella. Costei si convertì e appunto divenne la loro madre, mentre il padre trovò la morte dal re saraceno. Marfisa dichiara quindi la sua cristianità e dice infine di non voler più vedere il fratello in mezzo a cavalieri saraceni se non con l’intenzione di ucciderli. Il cavaliere non può però fare altro che promettere che aspetterà la prima buona occasione per lasciare l’esercito saraceno, senza compromettere il proprio onore.

Il canto XXXVII inizia con i tre (Bradamante, Marfisa e Ruggiero) che sentono un lamento e si dirigono nel luogo da dove proviene ed incontrano così tre donne, alle quali era stata tagliata la gonna fino all’ombelico. Sono le ambasciatrici mandate a portare lo scudo d’oro a Carlo.

i294.jpgBradamante, Marfisa e Ruggiero incontrano le donne con gli abiti tagliati

La donna le racconta che era stata così umiliata dagli abitanti di un castello vicino. La sera, i tre, con le donne al seguito alloggiano in un villaggio posto presso una collina e completamante abitato da donne. Ruggiero domanda ad una di loro il perché di quella situazione e gli viene quindi data la spiegazione. Il loro signore, Marganorre, aveva in odio il sesso femminile e le aveva perciò esiliate da ormai due anni al confine dei suoi possedimenti. Viene anche raccontato cos’è che ha portato all’istituzione di quella crudele usanza. Marganorre aveva due figli, Cilandro e Tanacro, molto cortesi ed ospitali verso chiunque passasse per quella terra. Un giorno capitò nel loro castello un cavaliere accompagnato da una bellissima dama. Cilandro si innamorò a tal punto della donna da scordare ogni regola di cortesia, che il cavaliere lo uccise. Anche Tanarco cadde nello stesso amore verso Drusilla, moglie del barone Olindro: se ne innamorò e cercò di impossessarsene con la forza. Ma per non cadere come suo fratello le uccide il marito. Drusilla capì di poter riuscire a vendicare la morte del marito solo con l’inganno: il giorno del matrimonio l’avvelena, fingendo di rispettare l’usanza di bere del liquore da uno stesso calice. Marganorre, rimasto privo di figli maturò odio contro le donne presenti e con la propria spada ne fece una strage. Quindi fece approvare una legge crudele, per cui le donne che capitavano in quella valle, dovevano essere fustigate e quindi umiliate con il taglio della gonna. Il mattino seguente Bradamante, Marfisa e Ruggiero si preparano per raggiungere il castello e mettere fine a quella legge crudele. Giunti nel borgo dove regna il crudele Marganorre, i tre cavalieri vengono subito circondati.

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Drusilla, Ullania e le altre donne si vendicano di Marganorre 

Marfisa si lancia contro il tiranno, lo lascia tramortito dopo averlo colpito alla testa con un pugno, lo lega e lo lascia quindi in custodia di una vecchia serva. Il tiranno viene quasi linciato dalla folla, il suo castello saccheggiato di ogni avere. Alle ambasciatrici viene restituito lo scudo d’oro e Marganorre viene buttato da una torre. Nel borgo sarà ora rispettata la legge dettata da Marfisa: saranno le donne a comandare nel villaggio, ogni terra e lo stesso castello sarà di loro proprietà. Inoltre, a nessuno straniero dovrà essere data ospitalità se non giura prima di essere per sempre amico delle donne e nemico dei loro nemici.

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Quindi, siamo nel canto XXXVIII, Ruggiero prende la via per la città di Arles, mentre Bradamante e Marfisa raggiungono insieme l’accampamento cristiano e ricevono un’accoglienza festosa. Re Carlo le accoglie personalmente e, per la prima volta in tutta la sua vita, Marfisa si inginocchia, e gli dice che l’aver conosciuto le proprie origini le aveva ora spento il furore verso i cristiani, ed acceso un profondo odio verso re Agramante.

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Re Carlo accoglie Marfisa tra i cavalieri

Marfisa dice anche di voler essere parente e serva di re Carlo, così come in passato lo era stato suo padre. Dice infine di volersi convertire al cristianesimo e di voler combattere contro i pagani. Re Carlo accetta di avere Marfisa non solo come parente ma anche come figlia. Il giorno dopo viene allestita una ricca cerimonia e la donna viene battezzata, con il re che le fa da padrino. Astolfo, intanto, presa con sé l’ampolla contenente il senno di Orlando, riceve dall’evangelista Giovanni le indicazioni per riuscire ad attraversare senza danni il deserto ed assalire Biserta, capitale del regno di Agramante. Il paladino raggiunge quindi in sella all’ippogrifo l’Etiopia, e fa organizzare l’esercito per muovere guerra contro i pagani. Giunto presso un colle, Astolfo mette i guerrieri più fidati alla sua base e ne raggiunge in volo la cima. Seguendo le indicazioni ricevute in paradiso, invoca l’evangelista Giovanni ed inizia a buttare dalla cima del colle dei sassi che, per miracolo, si trasformano in cavalli durante la caduta. Ogni fante diviene un cavaliere e l’esercito inizia a fare scorrerie per tutta l’Africa. I re messi da Agramante a guardia del suo regno, si muovono contro i cristiani, e mandano una nave in Francia per informare il loro signore degli avvenimenti. In Francia, ricevuto il messaggio dall’Africa, Agramante chiama a consiglio i re ed i principi pagani. Chiede consiglio a re Marsilio su come comportarsi ed il re di Spagna gli suggerisce di mandare in Africa solo poche sue navi, basterà la vista della sua bandiera per mettere in fuga gli oppressori e di non abbandonare quindi l’impresa in Francia. Il re Sobrino invece esorta Agramante a tornare in Africa. Non basta l’assenza di Orlando a fare sperare in una loro vittoria, dal momento che molti di loro sono comunque stati uccisi anche in assenza del paladino, ed ora quella guerra rischia di portarli all’estinzione. Per non perdere l’onore proponga a re Carlo di decidere la sorte di tutta la guerra con il combattimento di soli due cavalieri. Consiglia quindi di mettere il destino di tutti i pagani nelle mani di Ruggiero. Vengono mandati dei messaggeri da re Carlo, che subito accetta il patto sapendo di poter confidare nel valore di Rinaldo. Il paladino è onorato di essere stato scelto per l’impresa. Anche Ruggiero è onorato ma allo stesso tempo si duole profondamente sapendo che lo sfidante è il fratello della sua amata. Bradamante è disperata, capisce che qualunque possa essere l’esito di quel duello, lei non potrà che averne un danno. La maga Melissa ascolta le sue lacrime e le promette di darle tutto il suo aiuto per fare interrompere quel duello. Il giorno fissato per il combattimento entrambi gli eserciti escono dai loro accampamenti e si schierano l’uno di fronte all’altro.

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Re Carlo e re Agramante

Vengono eretti due altari e su di essi prima re Carlo e poi Agramante promettono sulle proprie scritture sacre di rispettare il patto: chi perde dovrà pagare un tributo in oro ogni anno al vincitore e non dovrà mai più muovergli guerra. Entrambi i cavalieri giurano quindi di abbandonare la loro schiera e di servire l’esercito avversario, se qualcuno dei loro dovesse intervenire nel combattimento. Inizia quindi il combattimento. Ruggiero, indeciso sul da farsi, è più impegnato a difendersi che ad attaccare.

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Ci troviamo ora nel canto XXXIX dove Ruggiero sa che se uccide Rinaldo perderà per sempre la sua amata Bradamante; ha l’animo tormentato e combatte più in difesa che in attacco. L’incontro inizia a sembrare impari ai pagani, anche perché Rinaldo combatte coraggiosamente, e temono il peggio.

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Rinaldo contro Ruggiero

Interviene dunque la maga Melissa che assunte le sembianze di Rodomonte, si avvicina ad Agramante e chiede al re rompere il patto e passare quindi all’azione con tutto l’esercito. Agramante, credendo di avere al fianco il feroce guerriero, presa fiducia, si spinge subito in avanti. Entrambi gli eserciti si lanciano subito al combattimento ed i due sfidanti abbandonano il duello, si mettono da parte in attesa di sapere chi abbia violato il patto, e giurano infine di essere nemici di quella fazione. Bradamante e Marfisa non resistono oltre e si lanciano in mezzo ai nemici facendo una strage. L’esercito pagano viene messo subito in fuga. Agramante cerca invano Rodomonte, re Marsilio e re Sobrino, ma il primo non era reale e gli altri due si sono prontamente ritirati nella città di Arles, timorosi per l’imminente castigo divino (Agramante era venuto meno ad un giuramento sul testo sacro). Tornando in Africa da Astolfo, contro il paladino e l’esercito di Etiopia si muove un esercito di africani guidato da re Branzardo, messo da Agramante a guardia del suo regno. Ma tutti i migliori cavalieri erano stati infatti inviati precedentemente in Francia e quindi lo scontro è impari. Re Branzardo, rifiugiatosi nella città di Biserta, capisce di non poter organizzare da solo le difese della città. Allora Astolfo getta in mare dei rami e, grazie ad un altro miracolo, vengono generate delle navi. L’esercito cristiano libera tutti i prigionieri senza alcuna difficoltà e viene poi allestito un sontuoso banchetto. I festeggiamenti vengono interrotti da un gran frastuono. Tutti i paladini si armano, corrono sul posto e vedono che i loro soldati sono stati aggrediti e uccisi da un uomo feroce, completamente nudo ed armato di un semplice bastone. Giunge in quel momento anche Fiordiligi, che subito getta le braccia al collo del suo amato Brandimarte, per ritrovare il quale era giunta fino in Africa. Fiordiligi riconosce il furioso guerriero nudo, è il conte Orlando:

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L’esercito di Agramante attacca

ORLANDO RINSAVITO
(XXXIX, 43-61)

Il gentil cavallier, non men giocondo
di veder la diletta e fida moglie
ch’amava più che cosa altra del mondo,
l’abraccia e stringe e dolcemente accoglie:
né per saziare al primo né al secondo
né al terzo bacio era l’accese voglie;
se non ch’alzando gli occhi ebbe veduto
Bardin che con la donna era venuto.

Stese le mani, ed abbracciar lo volle,
e insieme domandar perché venìa;
ma di poterlo far tempo gli tolle
il campo ch’in disordine fuggia
dinanzi a quel baston che ’l nudo folle
menava intorno, e gli facea dar via.
Fiordiligi mirò quel nudo in fronte,
e gridò a Brandimarte: «Eccovi il conte!»

Astolfo tutto a un tempo, ch’era quivi,
che questo Orlando fosse, ebbe palese
per alcun segno che dai vecchi divi
su nel terrestre paradiso intese.
Altrimente restavan tutti privi
di cognizion di quel signor cortese;
che per lungo sprezzarsi, come stolto,
avea di fera, più che d’uomo, il volto.

Astolfo per pietà che gli traffisse
il petto e il cor, si volse lacrimando;
ed a Dudon (che gli era appresso) disse,
ed indi ad Oliviero: «Eccovi Orlando!»
Quei gli occhi alquanto e le palpèbre fisse
tenendo in lui, l’andar raffigurando;
e ’l ritrovarlo in tal calamitade,
gli empì di meraviglie e di pietade.

Piangeano quei signor per la più parte:
sì lor ne dolse, e lor ne ’ncrebbe tanto.
«Tempo è (lor disse Astolfo) trovar arte
di risanarlo, e non di fargli il pianto.»
E saltò a piedi, e così Brandimarte,
Sansonetto, Oliviero e Dudon santo;
e s’aventaro al nipote di Carlo
tutti in un tempo; che volean pigliarlo.

Orlando che si vide fare il cerchio,
menò il baston da disperato e folle;
ed a Dudon che si facea coperchio
al capo de lo scudo ed entrar volle,
fe’ sentir ch’era grave di soperchio:
e se non che Olivier col brando tolle
parte del colpo, avria il bastone ingiusto
rotto lo scudo, l’elmo, il capo e il busto.

Lo scudo roppe solo, e su l’elmetto
tempestò sì, che Dudon cadde in terra.
Menò la spada a un tempo Sansonetto;
e del baston più di duo braccia afferra
con valor tal, che tutto il taglia netto.
Brandimarte ch’addosso se gli serra,
gli cinge i fianchi, quanto può, con ambe
le braccia, e Astolfo il piglia ne le gambe.

Scuotesi Orlando, e lungi dieci passi
da sé l’Inglese fe’ cader riverso:
non fa però che Brandimarte il lassi,
che con più forza l’ha preso a traverso.
Ad Olivier che troppo inanzi fassi,
menò un pugno sì duro e sì perverso,
che lo fe’ cader pallido ed esangue,
e dal naso e dagli occhi uscirgli il sangue.

E se non era l’elmo più che buono,
ch’avea Olivier, l’avria quel pugno ucciso:
cadde però, come se fatto dono
avesse de lo spirto al paradiso.
Dudone e Astolfo che levati sono,
ben che Dudone abbia gonfiato il viso,
e Sansonetto che ’l bel colpo ha fatto,
adosso a Orlando son tutti in un tratto.

Dudon con gran vigor dietro l’abbraccia,
pur tentando col piè farlo cadere:
Astolfo e gli altri gli han prese le braccia,
né lo puon tutti insieme anco tenere.
C’ha visto toro a cui si dia la caccia,
e ch’alle orecchie abbia le zanne fiere,
correr mugliando, e trarre ovunque corre
i cani seco, e non potersi sciorre;

imagini ch’Orlando fosse tale,
che tutti quei guerrier seco traea.
In quel tempo Olivier di terra sale,
là dove steso il gran pugno l’avea;
e visto che così si potea male
far di lui quel ch’Astolfo far volea,
si pensò un modo, ed ad effetto il messe,
di far cader Orlando, e gli successe.

Si fe’ quivi arrecar più d’una fune,
e con nodi correnti adattò presto;
ed alle gambe ed alle braccia alcune
fe’ porre al conte, ed a traverso il resto.
Di quelle i capi poi partì in commune,
e li diede a tenere a quello e a questo.
Per quella via che maniscalco atterra
cavallo o bue, fu tratto Orlando in terra.

Come egli è in terra, gli son tutti adosso,
e gli legan più forte e piedi e mani.
Assai di qua di là s’è Orlando scosso,
ma sono i suoi risforzi tutti vani.
Commanda Astolfo che sia quindi mosso,
che dice voler far che si risani.
Dudon ch’è grande, il leva in su le schene,
e porta al mar sopra l’estreme arene.

Lo fa lavar Astolfo sette volte;
e sette volte sotto acqua l’attuffa;
sì che dal viso e da le membra stolte
leva la brutta rugine e la muffa:
poi con certe erbe, a questo effetto colte,
la bocca chiuder fa, che soffia e buffa;
che non volea ch’avesse altro meato
onde spirar, che per lo naso, il fiato.

Aveasi Astolfo apparecchiato il vaso
in che il senno d’Orlando era rinchiuso;
e quello in modo appropinquogli al naso,
che nel tirar che fece il fiato in suso,
tutto il votò: maraviglioso caso!
che ritornò la mente al primier uso;
e ne’ suoi bei discorsi l’intelletto
rivenne, più che mai lucido e netto.

Come chi da noioso e grave sonno,
ove o vedere abominevol forme
di mostri che non son, né ch’esser ponno,
o gli par cosa far strana ed enorme,
ancor si maraviglia, poi che donno
è fatto de’ suoi sensi, e che non dorme;
così, poi che fu Orlando d’error tratto,
restò maraviglioso e stupefatto.

E Brandimarte, e il fratel d’Aldabella,
e quel che ’l senno in capo gli ridusse,
pur pensando riguarda, e non favella,
come egli quivi e quando si condusse.
Girava gli occhi in questa parte e in quella,
né sapea imaginar dove si fusse.
Si maraviglia che nudo si vede,
e tante funi ha da le spalle al piede.

Poi disse, come già disse Sileno
a quei che lo legar nel cavo speco:
«Solvite me», con viso sì sereno,
con guardo sì men de l’usato bieco,
che fu slegato; e de’ panni ch’avieno
fatti arrecar participaron seco,
consolandolo tutti del dolore,
che lo premea, di quel passato errore.

Poi che fu all’esser primo ritornato
Orlando più che mai saggio e virile,
d’amor si trovò insieme liberato;
sì che colei, che sì bella e gentile
gli parve dianzi, e ch’avea tanto amato,
non stima più se non per cosa vile.
Ogni suo studio, ogni disio rivolse
a racquistar quanto già amor gli tolse.

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Orlando legato

Il gentile cavaliere, non meno felice nel vedere la sua cara e fedele moglie, che amava più di qualunque altra cosa al mondo, l’abbraccia, la stringe a sé e la accoglie teneramente: non si lasciava saziare né con il primo, né con il secondo e neanche con il terzo bacio il suo acceso desiderio; se non che, alzando gli occhi, vide Bardino, che era arrivato insieme alla donna. // Stese le mani, e volle abbracciarlo ed allo stesso tempo domandare il perché della sua venuta; ma gli impedì di riuscire nel suo intento l’accampamento che fuggiva in modo disordinato di fronte a que bastone che l’uomo folle e completamente nudo agitava tutt’intorno, e gli faceva lasciare via libera. Fiordiligi guardò in viso quell’uomo nudo, e gridò a Brandimarte: «Ecco a voi il conte Orlando!» // Nello stesso istante anche Astolfo, che si trovava lì, vide chiaramente che si trattava di Orlando grazie ad alcuni segni che dai vecchi Santi aveva appreso quando si trovava lassù in Paradiso. Non fosse stato grazie a loro due, tutti gli altri sarebbero rimasti all’oscuro dell’identità di quel gentile signore; che per il lungo trascurarsi, per la sua follia, aveva il volto più simile a quello di un animale che di un uomo. // Astolfo a causa della commozione che gli trafisse il petto ed anche il cuore, si volse piangendo; e disse a Dudone (che era vicino a lui), ed anche ad Oliviero: «Ecco a voi Orlando!» Quei due, gli occhi e le palpebre tenendo a lungo fisse su di lui, iniziarono a riconoscerlo; ed il ritrovarlo in una tale disgraziata condizione, li riempì di meraviglie a di pietà. // Piangeva la maggior parte di quei signori: tanto a loro faceva provare dolore, tanto si dispiacevano per ciò che vedevano. «E’ il momento (disse loro Astolfo) di trovare il modo per farlo rinsavire, e non di dovergli fare un lamento funebre.» E saltò da cavallo, si mise in piedi, lo stesso fecero Brandimarte, Sansonetto, Oliviero ed il santo Dudone; e si avventarono, si lanciarono sul nipote di Carlo, Orlando, tutti nello stesso istante; con l’intenzione di immobilizzarlo. // Orlando che si vide circondato, agitò il suo bastone da disperato e da pazzo; e a Dudone, che si faceva protezione alla testa con lo scudo e voleva farsi avanti, fece sentire che era anche molto pesante: e non fosse stato grazie ad Oliviero che con la spada tolse parte della potenza al colpo, quel bastone ingiusto avrebbe rotto non solo lo scudo, ma anche l’elmo, la testa ed il busto. // Ruppe solamente lo scudo, e su l’elmo si abbatté con tale forza che Dudone cadde a terra. Sansonetto menò la sua spada nello stesso istante; e colpì il bastone a più di due braccia dall’estremità con una tale forza, da tagliarlo completamente di netto. Brandimarte che gli si gettò addosso, gli strinse i fianchi, tanto forte quanto poté, con entrambe le braccia, mentre Asfolfo gli afferrò le gambe. // Si scosse Orlando, e dieci passi lontano da sé lanciò e fece cadere riverso sulla schiena l’inglese: ciò non fece però lasciare la presa a Brandimarte, che con più forza l’aveva afferrato di traverso. Ad Oliviero che si era fatto troppo avanti, tirò un pugno tanto forte e violento, che lo fece cadere pallido ed esangue, con il sangue che gli usciva dal naso e dagli occhi. // E non fosse stato per l’elmo, più che di buona fattura, che indossa Oliviero, quel pugno l’avrebbe anche ucciso: cadde però come morto, come se avesse fatto dono della sua anima al Paradiso. Dudone ed Astolfo che si sono rialzati, sebbene Dudone abbia il viso tutto gonfio, e Sansonetto che ha inferto il bel colpo di spada, sono improvvisamente ancora tutti addosso ad Orlando. // Dudone lo abbracciò da dietro con grande forza, tentando più volte di fargli lo sgambetto: Astolfo e gli altri gli presero le braccia, ma tutti insieme non riiuscirono a tenerlo fermo. Chi ha visto un toro a cui viene data la caccia, e che sia stato azzannato alle orecchie dai cani, correre muggendo, e portare con sé ovunque correi cani, e non potersi liberare da loro; // immagini ora come Orlando si trovasse in una identica situazione, portandosi dietro attaccati tutti quei guerrieri. In quel momento Oliviero si rialzò da terra, da dove era stato steso da quel gran pugno ricevuto; e visto che in quel modo si poteva soltanto fare male ciò che Astolfo aveva intenzione di fare con lui, pensò ad un modo per agire, e lo mise anche in pratica, di fare cadere Orlando, e riuscì nel suo intento. // Si fece portare sul posto più di una fune, e subito le preparò con nodi scorsoi; ed alcune le fece porre intorno alle gambe ed alle braccia del conte, il resto invece di traverso al suo corpo. Ripartì poi i capi di tutte le funi fra tutti i presenti, ed li diede da tenere a questo ed a quel soldato. Allo stesso modo in cui il maniscalco atterra un cavallo o un bue, Orlando fu fatto cadere, fu messo a terra. // Non appena il conte è a terra, gli saltano tutti addosso, e gli legano più forte sia le mani che i piedi. Orlando si agita molto da una parte e dall’altra, ma i suoi sforzi furono tutti inutili. Astolfo comandò quindi che fosse spostato da lì, perché disse che voleva fare in modo che riavesse il senno. Dudone che era grande e grosso, se lo mise sulla schiena, e lo portò al mare fino all’estremità della spiaggia. // Astolfo lo fece lavare sette volte, e sette volte lo immerse nell’acqua; così che dal viso e dal suo corpo folle venga tolta tutta la sporcizia incrostata: poi con certe erbe, raccolte a questo scopo, gli fece tenere chiusa la bocca, che soffia e sbuffa; non volendo che avesse nessuna altra apertura da cui rilasciare il proprio fiato, se non il naso. // Astolfo si era preparato il vaso nel quale si trovava rinchiuso il senno di Orlando; e glielo avvicinò al naso in modo tale che quando il conte fece per tirare dentro il fiato, lo vuotò completamente: fatto meraviglioso! che la mente di Orlando ritornò alle sue vecchie abitudini; e nei suoi bei discorsi ricomparì l’intelletto, più che mai lucido e chiaro. // Come chi si riprende da un sonno pesante e tormentoso, nel quale o ha visto forme abominevoli di mostri che non esistono, e che non possono neanche esistere, o gli è sembrato di compiere un gesto strano o fuori dall’ordinario, ancora si meraviglia, dopo che è tornato padrone dei suoi sensi e non dorme più; allo stesso modo, Orlando, dopo che fu tolto dalla sua condizione di errore, restò meravigliato e stupefatto. // E Brandimarte, ed Oliviero, fratello di Aldabella, ed Astolfo, colui che nella testa gli aveva fatto tornare la ragione, guarda, ripensando, senza dire nulla, come e quando aveva potuto raggiungere quel posto. Girava gli occhi da questa e da quella parte, e non sapeva neanche immaginare dove si trovava. Si meravigliò di vedersi nudo, e con tante funi addosso, dalle spalle ai piedi. // Poi improvvisamente disse, come aveva già detto Sileno a quelli che lo avevano legato nella caverna: «Slegatemi», con una espressione tanto serena, con uno sguardo ancora meno malvagio di quello che era solito avere, che che ottenne di essere slegato; ed alcuni dei vestiti cha avevano fatto portare li condivisero con lui, dandogli tutti conforto dal dolore che lo opprimeva, causato dallo sbaglio fatto in passato. // Dopo che Orlando fu tornato come era prima, saggio e forte più che mai, si trovò anche liberato dalle catene d’amore; così che lei, Angelica, che tanto bella e gentile gli era sembrata in passato, e che aveva tanto amato, non considera più di quanto consideri una cosa di poco conto. Ogni sua attenzione, ogni suo desiderio rivolse alla volontà di riacquistare quanto aveva perduto a causa dell’amore (onore e gloria).

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Orlando viene immerso nell’acqua

E’ in questo passo che si può notare il passaggio dalla bestialità d’Orlando alla sua rinascita: tale passaggio avviene attraverso una reminiscenza di tipo teologico, quell’“Ecce homo” che nel poema diventa “Ecco Orlando”, “ecco il conte” pronunciato dai paladini Fiordiligi e Orlando. Ma la rinascita dell’uomo rinascimentale non può che avvenire soltanto grazie all’intelligenza che solo può riportate “onore e gloria”.

Orlando rimane al fianco di Astolfo per dare il suo aiuto nell’assedio di Biserta. La città verrà presa dai cristiani al primo scontro ed i pagani verranno messi in fuga. Tornando in Francia, molti soldati saraceni abbandonano il campo di battaglia e si rifugiano subito sulle navi, tanto temono per la loro vita stando sulla terra ferma. Agramante è abbandonato al pericolo, continua a combattere finché riesce, poi volta le spalle e corre al galoppo verso Arles. Bradamante e Marfisa lo inseguono a tutta velocità ma non riescono a raggiungerlo, il re si rifugia nella città e si imbarca infine con gli altri. Agramante chiude le porte di Arles dietrò di sé e fa tagliare i ponti sul Rodano. Il suo alleato, il re Marsilio si fa condurre in Spagna ed inizia i preparativi per sostenere la successiva guerra che sarà la sua rovina. Agramante fa ritorno in Africa con la sua flotta. Il destino vuole però che la sua flotta incontri quella comandata dal paladino Dudone. Agramante non avrebbe mai creduto di poter essere assalito per mare, non mette pertanto nessuna vedetta a controllare l’orizzonte. L’assalto avviene così di notte ed è una strage di pagani.

Sarà nel canto XL che Agramante fugge portandosi dietro il cavallo Brigliadoro (ricevuto da Ruggiero dopo che Mandricaro era stato ucciso). Tornando a Biserta, l’esercito cristiano è in assetto da guerra ed è pronto a dare inizio alla battaglia. A Sansonetto viene dato il comando di una flotta di navi, a Senapo quello di tenere le mura sotto una pioggia di dardi.

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Le mura colpite dalle frecce

Brandimarte conduce la sua parte di esercito sotto le mura. Viene accostata una scala, il paladino sale per primo ed incita gli altri a seguirlo. Non appena raggiunge la passatoia la scala va però in mille pezzi e Brandimarte si trova così solo all’interno delle mura nemiche. Il cavaliere, nonostante le preghiere dei compagni, non torna indietro, si lancia nella città e fa strage di tutti quelli che incontra. Altri paladini si affrettano a porre le scale per entrare oltre le mura ed andare in aiuto del cavaliere. Vengono anche aperte delle brecce utilizzando arieti ed in un solo istante tutto l’esercito cristiano si riversa nella città pagana, che viene così saccheggiata e data in pasto alle fiamme.

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La breccia con l’ariete

Il re Agramante, dalla barca con la quale è scampato all’assalto di Dudone, riesce a vedere la città di Biserta avvolta dalle fiamme e vorrebbe uccidersi, ma gli viene consigliato di trovare rifugio in Egitto e lo consola dicendogli infine che non faticherà a trovare nuovi alleati per riconquistare l’Africa. La nave con a bordo il re pagano viene colta da una violenta tempesta mentre si sta dirigendo ad oriente ed è quindi costretta ad approdare su di un’isola posta tra l’Africa e la Sicilia. Trovano sull’isola re Gradasso, che cerca di convincere Agramante a non andare in Egitto, suggerisce quindi un altro piano d’azione: mentre lui sfiderà e sconfiggerà in duello Orlando, le sue genti ed il popolo Etiope di fede non cristiana muoveranno guerra alla parte cristiana dell’Etiopia. Anche gli altri due re scenderanno a “singolar tenzone” con altrettanti paladini. La sede del combattimento sarà l’isola di Lampedusa. Un messaggero viene mandato subito a Biserta per lanciare la sfida al conte Orlando. Il paladino è più che contento di accettare, avendo saputo che re Gradasso è in possesso della sua spada Durindana e che Agramante ha invece il suo cavallo Brigliadoro ed il suo famoso corno. Oliviero e Brandimarte sono i due cavalieri scelti per combattere al suo fianco. Tornando a Parigi, Rinaldo e Ruggiero erano rimasti fuori dal combattimento in attesa di conoscere chi fosse stato per primo a rompere il giuramento ed infine vengono a sapere che è stato re Agramante a muoversi per primo. Nonostante tutte le evidenze, a Ruggiero sembra comunque ingiusto abbandonare il re in quel momento di difficoltà ed è quindi indeciso su cosa fare. Dopo un giorno ed una notte di tormenti, decide infine di seguire in Africa il suo re e torna pertanto ad Arles dove incontra Dudone, i guerrieri etiopi al suo seguito ed i pagani loro prigionieri. Ruggiero non riesce a sopportare la vista dei re pagani in lacrime, si lancia quindi subito contro quelli che li custodiscono. Dudone accorre per sfidare Ruggiero. I due prima si presentano e poi iniziano il duello. Ruggiero viene così a sapere che il suo sfidante, paladino di Francia, è cugino della sua Bradamante e cerca di non ferire l’avversario.

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Nel XLI, Dudone è ormai sfinito, riesce a stento a difendersi ma non riceve alcun colpo mortale. Chiede a Ruggiero di fare pace. Quest’ultimo accetta ma a condizione che vengano liberati i re prigionieri e gli sia concesso di raggiungere l’Africa. Dudone non si oppone e lascia fare.

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Ruggiero in mare

Ruggiero parte per mare ma, non appena la terra ferma scompare alla vista dei naviganti, ha inizio una terribile tempesta e l’imbarcazione viene battuta da enormi onde. Sembra ormai inevitabile che la nave vada a schiantarsi contro la roccia e Ruggiero si mette a nuotare per raggiungere uno scoglio e salvarsi. La nave nel frattempo, senza nessuno a bordo, cambia improvvisamente rotta ed in tutta tranquillità riprende il proprio viaggio per mare. Alla fine giunge a Biserta, dove viene ritrovata da Orlando. Il conte, Oliviero e Brandimarte salgono sull’imbarcazione e trovano così la spada, il cavallo e l’armatura lasciate da Ruggiero per riuscire a salvarsi a nuoto. I tre cavalieri prendono pertanto le armi di Rinaldo e raggiungono l’isola di Lampedusa, sede stabilita per il duello. Brandimarte, che in precedenza era stato amico di Agramante, cerca di convincere il re pagano ad abbandonare l’impresa, ma Agramante a quella proposta risponde irato dicendo che il suo destino e quello del suo regno è solamente nelle mani di Dio.

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Combattimento a Lampedusa

All’alba del giorno dopo sono già tutti pronti per combattere. Tornando ad occuparci di Ruggiero, il cavaliere si affatica a nuoto per cercare di raggiungere lo scoglio e mettersi così in salvo. Il giovane teme di essere vittima della punizione divina per non essersi battezzato quando avrebbe dovuto. Gli ritornano in mente anche tutte le altre promesse mancate, si dice pentito e giura la sua fede cristiana. Promette di non combattere mai più a favore del popolo pagano, di fare gli onori di re Carlo e di sposare infine la sua amata Bradamante. Il cavaliere sente crescere per miracolo le proprie forze, raggiunge a nuoto lo scoglio ed è così l’unico a salvarsi dalle acque. Teme però ora di morire di stenti in quel luogo. Si incammina per esplorare l’isoletta ed incontra così un eremita, che pur avendolo rimproverandolo per aver giurato la propria fedeltà a Dio solo quando si era sentito vittima della sua punizione, lo conforta dicendogli che comunque a nessuno viene mai negato il cielo quando lo chiede. L’eremita conduce Ruggiero alla sua cella, gli insegna quindi le basi della religione cristiana ed il giorno dopo lo battezza. Dio aveva mostrato al religioso ogni aspetto della vita futura di Ruggiero e della sua nobile discendenza. Sull’isola di Lampedusa intanto è iniziato il duello tra i tre pagani ed i tre cristiani. Lo scontro è durissimo: i paladini e i saraceni spesso cambiano di volta in volta gli avversari, le armature, pur incantate, non riescono a difendere totalmente chi le possiede; proprio mentre Brandimarte è chino per inferire su Agramante, Gradasso l’uccide alle spalle.

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Il duello prosegue nel XLII canto: Orlando arde d’ira nel vedere che il caro amico Brandimarte giace a terra ucciso da re Gradasso, e si lancia quindi subito contro gli avversari. Il conte taglia di netto la testa ad Agramante. Re Gradasso assiste alla scena e per la prima volta in vita sua trema di paura. Il pagano è ormai rassegnato a morire e non cerca neanche di difendersi dal colpo mortale che gli viene sferrato dal conte cristiano. Orlando non gioisce per la vittoria ottenuta, scende subito da cavallo e corre dall’amico Brandimarte. Il cavaliere muore subito dopo, chiede perdono a Dio per i propri peccati e raccomanda al conte la sua Fiordiligi.

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Orlando piange Brandimarte

Il saraceno re Sobrino è disteso al suolo senza forze ed ormai quasi dissanguato. Il conte aiuta Oliviero a liberarsi dal peso del cavallo ed a rialzarsi, poi preleva anche Sobrino e lo fa curare. Orlando vede infine arrivare dal mare un’imbarcazione leggera. Tornando in Francia, Bradamante vede il suo Ruggiero allontanarsi da lei ancora una volta e riprende così a disperarsi e a maledirlo. La donna si sfoga con Marfisa, sorella del cavaliere, che la consola dicendogli che non crede che Ruggiero possa commettere un simile errore, e se anche lo dovesse fare, ci penserà lei a vendicarla. Tutti i paladini si godono la meritata pace, ora che i saraceni sono stati fatti scappare, tranne Rinaldo, che è ancora tormentato dall’amore per la bella Angelica. Il cavaliere la cerca ovunque ed infine decide di affidarsi ai poteri magici di Malagigi per sapere dove essa si trovi. Malagigi informa Rinaldo dei fatti e cerca di convincerlo a non amare più la donna, ormai quasi di sicuro giunta in patria insieme al suo Medoro. Il paladino soffre e si tormenta al pensiero che un altro uomo abbia colto la verginità della sua amata. Spinto dal furore della gelosia, lascia la Francia senza nessuno al seguito. Rinaldo si tormenta perché la donna non gli abbia offerto la verginità. Mentre procede all’interno della Selva Nera, il cielo diviene improvvisamente nuvoloso e da una caverna esce un mostro dalle sembianze femminili (la Gelosia), Il cavaliere ha paura, ma cerca comunque di simulare il solito coraggio, stringe la spada e cerca di difendersi dai colpi del mostro, senza però riuscirci. Il paladino cristiano si mette infine in fuga ma il mostro è veloce a muoversi e sale anch’egli in groppa al suo cavallo. Giunge in suo aiuto un cavaliere (lo Sdegno), che colpisce di lato il mostro, lo fa cadere a terra e lo ricaccia infine nella sua caverna. Rinaldo ringrazia il suo salvatore, ne chiede il nome ma il cavaliere rimanda la risposta. I due giungono presso una gelida fonte, quella che spegne la passione amorosa ed il cavaliere misterioso propone a Rinaldo di rimanere lì a riposare. Il paladino accetta, subito si disseta bevendo alla fonte ed in uno stesso momento si libera della sete e del folle amore per Angelica. Il cavaliere confessa ora al paladino di essere lo Sdegno e subito scompare. Rinaldo prosegue comunque il suo viaggio verso l’India, questa volta veramente con l’intenzione di recuperare Baiardo. Giunto a Basilea viene a sapere che Orlando si sta preparando per sfidare a duello Gradasso e Agramante. Rinaldo vuole combattere al fianco del cugino, cambia meta e si dirige verso l’Italia. Nel cammino incontra un cavaliere che gli chiede se è sposato e, ricevuta una risposta positiva, lo invita quindi nel suo palazzo. Qui vede un’immensa fontana protetta da una volta sostenuta da otto statue di donna, tutte ugualmente belle. Fra di esse una raffigura sicuramente Alessandra Benucci, e chi la sostiene, è certamente Ariosto. Rinaldo ed il cavaliere banchettano in cortile. Terminata la cena, il padrone invita il paladino a bere per vedere se la sua donna gli è fedele o meno: Rinaldo è sul punto di tentare la prova, ma poi riflette su quanto sia pericolosa la verità.

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Rinaldo e l’oste

Nel canto XLIII Rinaldo decide di non bere e vede il padrone del castello piangere ed inizia a raccontare la sua storia. Se la fortuna non l’aveva fatto nascere ricco, la natura l’aveva reso bello. Nella sua stessa città aveva vissuto un uomo molto saggio che durante gli ultimi anni, convinse con del denaro una donna a concedersi a lui, rinunciando alla propria verginità. Da lei ebbe quindi una figlia. Non volendo che la figlia fosse simile alla madre, fece costruire quel ricco palazzo in un luogo solitario e lì si trasferì con la bambina. Fece quindi anche ritrarre in tutto il palazzo donne, che fossero da esempio alla ragazza per essersi opposte ad un amore peccaminoso. Quando la figlia raggiunse l’età per sposarsi, il signore del castello, allora ragazzo, venne ritenuto essere l’unico degno di diventarne lo sposo. Erano al quinto anno di matrimonio quando una nobile donna della vicina città, che conosceva la magia, s’innamorò del cavaliere. Il signore amava però a tal punto la sua donna, tanto si fidava della sua fedeltà, che non cedette mai alle richieste della maga, di nome Melissa. La maga tuttavia gli disse che la sua fedeltà era determinata dal non poter incontrare nessun altro uomo. Gli propose quindi di lasciarla sola nel castello, così da poter conoscere la sua vera natura. Melissa consegnò quindi al cavaliere quella brocca, dicendogli che sarebbe servita a mostrargli l’esito della prova. L’uomo assunse le sembianze di un bel cavaliere, governante di Ferrara, che, innamorato di sua moglie, più volte si era fatto avanti con proposte amorose ed altrettante volte era stato cacciato indietro. Il cavaliere, in quelle forme, poté vedere la moglie cedere alle lusinghe di un altro uomo. Riprese le sembianze originali, accusò la donna di essere disposta a tradirlo. Lei si arrabbiò per il gesto del marito ed infine si accese di odio per lui, raggiungendo il cavaliere di Ferrara e vivendo con lui. L’uomo soffre per il suo gesto e trova come unica consolazione il fatto che tutti i cavalieri ai quali aveva offerto la brocca non erano riusciti a bere una sola goccia di quel vino. Dopo aver dormito presso una barca, il mattino dopo il paladino passa presso la città di Ferrara, ripensa alle vicende del signore del palazzo in cui era stato ospite la sera prima. Uno degli uomini dell’imbarcazione dice che quel signore avrebbe dovuto fare tesoro di quanto era già accaduto in precedenza nella vicina Mantova. Viene infatti raccontata la storia di Anselmo e Adonio. Erano ambedue innamorati di una stessa donna, ma lei era moglie del primo, mentre il secondo per lei si era ridotto in miseria. Il povero Adonio, un giorno, vede un contadino cacciare una serpe, la salva e si scopre che essa nasconde la maga Manto. Ricostruito il suo patrimonio ed ottenuto un cane dai poteri magici, in cambio di quest’ultimo l’uomo riesce a vincere la resistenza della donna. Anselmo, deciso ad ucciderla, la cerca in tutta la Lombardia fino a giungere in uno straordinario palazzo il cui padrone è un orrendo etiope. Quest’ultimo chiede ad Anselmo di passare una notte con lui in cambio del palazzo e all’accettazione dell’uomo cade la magia di cui il palazzo faceva parte e appare la moglie che rinfaccia all’uomo che il peccato a lui proposto era molto più grave del suo. Infine decisero di considerare pari le loro colpe e tornarono entrambi a vivere d’amore e d’accordo.

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Anselmo, la moglie e l’etiope

Così finisce la storia del marinaio. Rinaldo nel frattempo giunge a Roma e poi a Lampedusa, ma vi giunge quando Orlando ha già ucciso Gradasso ed Agramante. Fiordiligi, intanto, viene a sapere la notizia della morte di Brandimarte e si unisce a Orlando che nel frattempo raggiunge la Sicilia, insieme ad Oliviero, per dare degna sepoltura al cavaliere. Il pomposo funerale si svolge la sera dopo. Fiordiligi deciderà di fare costruire un cella nella tomba dell’amato, e morirà non molto tempo dopo. Orlando, Oliviero, peggiorato in salute, e Rinaldo lasciano la Sicilia e, prima di tornare in Francia, su consiglio del comandante della nave, si fermano presso uno scoglio abitato da un eremita capace di compiere azioni miracolose. Il religioso dà la sua benedizione ad Oliviero e lo fa così guarire all’istante. Re Sobrino, visto il miracolo, subito si dichiara pronto a convertirsi al cristianesimo. Durante il sontuoso banchetto allestito per festeggiare le due guarigioni e la conversione di Sobrino, Ruggiero viene riconosciuto da tutti i cavalieri presenti e quindi festeggiato per la sua fresca conversione religiosa. Tra tutti, è Rinaldo il cavaliere che lo festeggia ed onora con maggiore affetto.

Ci troviamo nel XLIV canto, dove Astolfo, in Africa, sapute le vicende di Lampedusa e vedendo che ormai l’Africa non può più nuocere alla Francia, fa ritornare il popolo etiope alla sua terra di origine. Quindi parte per la Provenza e, su richiesta dell’evangelista Giovanni, lascia libero l’ippogrifo. Anche il suo corno magico non ha ormai più alcun potere, essendo rimasto il suo terribile suono sulla luna tra le cose perse. Astolfo giunge infine a Marsiglia il giorno stesso in cui ci giungono via mare anche gli altri. Tutti i cavalieri proseguono insieme il viaggio verso Parigi e vengono quindi accolti festosamente da Carlo Magno e da tutta la sua corte. Parigi è in festa ed i paladini vengono salutati come liberatori dell’impero. Rinaldo informa il padre Amonio di aver promesso Bradamante in sposa a Ruggiero. Il padre e la madre del cavaliere lo rimproverano però d’aver agito in autonomia e si oppongono alla sua volontà, avendo ormai deciso che la donna diverrà sposa di Leone, sicuramente più ricco e potente di Ruggiero. Viene chiesto a Bradamante di esporre la sua volontà, lei non osa però proferire parola e rimane in silenzio.

 

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Bradamante sola e disperata

Quando si trova finalmente da sola, la donna si dispera, non sapendo come comportarsi: ma, alla fine, si convince ad opporsi alla volontà dei genitori. Anche Ruggiero è tormentato dai suoi pensieri, avendo saputo che Amone e la moglie, Beatrice, volevano fare sposare la sua amata con il figlio dell’imperatore Costantino. Bradamante viene a sapere delle preoccupazioni che affliggono il cavaliere e manda una sua fedele cameriera a dirgli che il suo amore per lui è e rimarrà per sempre forte. Gli dice quindi che nessuna corona né ricchezza potrà mai modellare il suo cuore sull’immagine di un altro uomo. Ripreso il proprio originale coraggio, Bradamante si presenta da re Carlo e gli chiede, come riconoscimento per i servizi svolti, che le prometta di non lasciarla sposare a nessun uomo che non mostri di esserle superiore in armi. Il patto non viene fatto in segreto e la notizia non tarda a giungere alle orecchie dei genitori di Bradamante. Avendo capito che la figlia punta a sposare Ruggiero, Amone e Beatrice allontanano la donna da Parigi e la portano quindi nella loro fortezza di Roccaforte, con l’intenzione di mandarla poi in Oriente. Ruggiero, vedendo che la sua amata gli è stata sottratta e temendo che possa infine andare in sposa a Leone, indossa le armi per muovere guerra all’imperatore Costantino, ucciderlo ed impossessarsi del suo regno. Si mette in viaggio e giunge infine in Bulgaria. Vicino a Belgrado trova l’esercito dell’imperatore intento a combattere contro quello bulgaro, con l’obiettivo di riconquistare la capitale. L’esercito imperiale è nettamente superiore a quello avversario per numero e mezzi, ed in poco tempo i soldati bulgari vengono messi in fuga. Ruggiero interviene allora in difesa degli sconfitti, ferma la loro fuga e si lancia subito all’attacco. Il cavaliere fa una strage e l’esito della battaglia viene totalmente capovolto, sono ora i bulgari ad inseguire gli avversari in fuga. Leone vede gli avvenimenti da un colle e non può fare a meno di apprezzare il valore di quel cavaliere misterioso. Non si cura dei suoi che vengono uccisi ed anzi si preoccupa che l’uomo possa essere ferito. Il figlio dell’imperatore chiama infine la ritirata.

Nel XLV vediamo che un cavaliere rumeno riconosce nelle insegne di Ruggiero quelle del cavaliere misterioso che aveva messo in fuga l’esercito imperiale il giorno prima, ed avvisa quindi subito della sua presenza Costantino. Il cavaliere viene così fatto prigioniero durante la notte. L’imperatore già assapora la vittoria contro i bulgari, sapendo che senza l’aiuto del cavaliere nulla potranno ora contro il suo esercito. Anche il figlio Leone si rallegra per l’avvenimento, non tanto perché Belgrado può ora essere riconquistata, quanto perché spera di farsi amico il valoroso guerriero. La crudele Teodora invece, sorella dell’imperatore, esulta per l’avvenimento in quanto vede la possibilità di vendicare la morte del figlio, ucciso dal guerriero il giorno prima. Ruggiero viene così incantenato in una torre in attesa che Teodora, a cui è stato affidato, decida come farlo morire. Nel frattempo in Francia re Carlo annuncia a tutti la decisione, come richiesto da Bradamante, di non lasciare maritare la donna a nessun cavaliere che non sia in grado di mostrarsi superiore a lei in duello. Amone e Beatrice, per rispettare la volontà del loro re e fanno così nuovamente ritorno a Parigi. Bradamante scopre che il suo amato ha abbandonato la corte di Carlo e teme che voglia dimenticarla. Il più delle volte la donna però si rimprovera per non aver avuto fiducia in Ruggiero e si pente di essere stata gelosa, ed anche di aver sospettato di lui. Bradamante invoca il ritorno dell’amato cavaliere, sapendo che basterà la sua solo vista per spegnere in lei ogni timore e dare nuova forza alla sua speranza. Intanto Leone viene a sapere che il cavaliere misterioso è tenuto prigioniero dalla crudele zia Teodora e, mosso dal profondo amore che nutre per il suo sovraumano valore, decide di salvargli la vita. Quindi con un inganno si fa aprire la cella in cui è tenuto il prigioniero e lo libera. Ruggiero da parte sua ringrazia Leone e si dice disposto a restituirgli il favore in qualunque condizione. Giunge intanto anche in Bulgaria la notizia del bando emesso da re Carlo. Leone, conoscendo i propri limiti, decide così di chiedere al cavaliere misterioso di partecipare al torneo al suo posto, sotto mentite spoglie. Il cavaliere non può che accettare l’incarico, tanto si sente in debito con il giovane. Ruggiero è disperato, sa che andrà incontro alla sua morte: per l’angoscia di vedere la sua amata tra le braccia di un altro uomo o altrimenti per propria mano, ma non può però rifiutare l’incarico e nemmeno pensare di non vincerlo. Il duello viene fissato per il giorno seguente. Ruggiero, per non essere riconosciuto, si presenta al combattimento completamente nascosto dall’armatura, senza il proprio cavallo e con una spada al fianco che non è la sua. Il cavaliere toglie perfino tutto il filo alla spada così da renderla completamente inoffensiva. Dall’altro lato Bradamante si presente con tutt’altri intenti, affila la propria spada e vuole solo poterla affondare nella carne del suo avversario. Si dà il via al combattimento e Bradamante subito assale l’avversario, ma pur colpendolo con tutta la forza non può nulla contro la sua armatura invulnerabile. Ruggiero pensa invece solo a difendersi, cercando di ferirla il meno possibile. Giunge infine la sera ed il combattimento viene interrotto. Leone ha ottenuto Bradamante in sposa. Ruggiero non si toglie l’elmo e torna subito all’accampamento del figlio di Costantino. Leone gli promette eterna riconoscenza. Il cavaliere soffre però d’amore e non riesce a trattenersi troppo; sale in sella al suo Frontino e si lascia da lui condurre ovunque voglia. Ruggiero passa tutta la notte piangendo e sa che per vendicarsi deve prendersela solo contro sé stesso. Ma soprattutto non vuole lasciare senza vendetta la amata Bradamante, alla quale ha arrecato un eguale danno. La mattina seguente Ruggiero giunge in un luogo selvaggio ed isolato, e lo reputa adatto come luogo per la sua morte segreta. Il cavaliere ringrazia Frontino, lo lascia libero e si inoltra poi a piedi nel fitto bosco con l’intenzione di lasciarsi morire. Tornando a Parigi, Bradamante sa di non potersi opporre al matrimonio con Leone, si dispera ed è decisa anche lei a togliersi la vita.

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Giosetta Fioroni: Marfisa

Il mattino dopo Marfisa si presenta di fronte a Carlo dicendo di non poter tollerare che a suo fratello Ruggiero venga tolta la sposa, e dichiara quindi di essere pronta a sostenere con la spada la sua causa. La donna dice anche che Bradamante si era già promessa al cavaliere. Il re fa subito chiamare Bradamante e lei, col suo silenzio, fa capire che la promessa è vera. Marfisa propone infine di lasciare che la questione venga decisa dal duello tra Leone e Ruggiero. Il figlio dell’imperatore accetta subito la proposta, credendo che il suo valoroso cavaliere non avrebbe avuto alcuna difficoltà a sconfiggere anche quel Ruggiero. Ma il giovane è ed infine parte Leone stesso con l’intenzione di ritrovarlo.

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Melissa e Leone

Nell’ultimo canto, il XLVI, incontriamo la maga Melissa, che vede il cavaliere all’interno di un fitto bosco, deciso a morire di fame. Quindi interviene in suo aiuto. La donna va incontro a Leone, e lo porta da Ruggiero che, stremato dal digiuno, continua a piangere e a dolersi per la sua sorte. Leone convince il cavaliere a esporgli la ragione del suo dolore, e così il cavaliere gli rivela di essere Ruggiero, gli racconta quindi la sua storia. Ascoltata la confessione dell’amico, Leone rimane come impietrito, ma non vuole essere da meno di Ruggiero per cortesia, e gli comunica la propria intenzione a rinunciare a Bradamante in suo favore. Si mettono infine tutti insieme in viaggio per tornare a Parigi. A Parigi Ruggiero troverà ad aspettarlo una ambasciata bulgara, giunta in Francia per incoronarlo re e consegnargli il dominio dei loro territori. Ruggiero, nascondendo la propria identità, si presenta al cospetto di Carlo Magno con le stesse insegne e la stessa sopraveste che aveva tenuto durante il combattimento contro Bradamante. Leone lo presenta quindi al re come colui che ha pieno diritto, stando a quanto dichiarava il bando, di ricevere per moglie la donna. Il giovane dichiara infine che quel cavaliere misterioso è disposto a sostenere con la spada ogni suo diritto acquisito. Marfisa, in assenza del fratello, si prende carico dell’impresa e, mossa dall’ira, è anche pronta a passare subito dalle parole ai fatti. Leone non esita però oltre e toglie l’elmo al cavaliere misterioso, rivelandone così l’identità. Riconosciuto Ruggiero, tutti corrono subito ad abbracciarlo. Leone racconta le vicende del cavaliere, infine si rivolge ad Amone e non solo riesce a fargli cambiare opinione, ma anche a fargli chiedere perdono a Ruggiero, pregandolo di accettarlo come padre e suocero. Saputa la notizia, Bradamante rishia quasi di morire per l’improvvisa gioia. Gli ambasciatori bulgari ricevono da Leone, l’assicurazione che nessuna guerra verrà più mossa contro loro dal suo esercito. Le nozze vengono organizzate dallo stesso re Carlo e sono maestose.

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Giungono signori ed ambasciate da ogni parte del mondo per festeggiare gli sposi. L’ultimo giorno dei festeggiamenti, nel momento del banchetto, dalla campagna si vede arrivare a cavallo un cavaliere vestito completamente di nero. Si tratta di Rodomonte. Il feroce guerriero, dopo che Bradamante gli aveva tolto le armi, aveva vissuto come un eremita per un anno, un mese ed un giorno, e terminata la sua punizione, subito si era poi riarmato ed avviato verso Parigi.

IL DUELLO TRA RUGGIERO E RODOMONTE
(XLVI, 105-115; 122-140)

 Poi che fu a Carlo et a Ruggiero a fronte,
con alta voce et orgoglioso grido:
«Son» disse «il re di Sarza, Rodomonte,
che te, Ruggiero, alla battaglia sfido;
e qui ti vo’, prima che ’l sol tramonte,
provar ch’al tuo signor sei stato infido;
e che non merti, che sei traditore,
fra questi cavallieri alcun onore.

Ben che tua fellonia si vegga aperta,
perché essendo cristian non pòi negarla;
pur per farla apparere anco più certa,
in questo campo vengoti a provarla:
e se persona hai qui che faccia offerta
di combatter per te, voglio accettarla.
Se non basta una, e quattro e sei n’accetto;
e a tutte manterrò quel ch’io t’ho detto.»

Ruggiero a quel parlar ritto levosse,
e con licenza rispose di Carlo,
che mentiva egli, e qualunqu’altro fosse,
che traditor volesse nominarlo;
che sempre col suo re così portosse,
che giustamente alcun non può biasmarlo;
e ch’era apparecchiato sostenere
che verso lui fe’ sempre il suo dovere:

e ch’a difender la sua causa era atto,
senza tòrre in aiuto suo veruno;
e che sperava di mostrargli in fatto,
ch’assai n’avrebbe e forse troppo d’uno.
Quivi Rinaldo, quivi Orlando tratto,
quivi il marchese, e ’l figlio bianco e ’l bruno,
Dudon, Marfisa, contra il pagan fiero
s’eran per la difesa di Ruggiero;

mostrando ch’essendo egli nuovo sposo,
non dovea conturbar le proprie nozze.
Ruggier rispose lor: «State in riposo;
che per me fôran queste scuse sozze.»
L’arme che tolse al Tartaro famoso,
vennero, e fur tutte le lunghe mozze.
Gli sproni il conte Orlando a Ruggier strinse,
e Carlo al fianco la spada gli cinse.

Bradamante e Marfisa la corazza
posta gli aveano, e tutto l’altro arnese.
Tenne Astolfo il destrier di buona razza,
tenne la staffa il figlio del Danese.
Feron d’intorno far subito piazza
Rinaldo, Namo et Olivier marchese:
cacciaro in fretta ognun de lo steccato
a tal bisogni sempre apparecchiato.

Donne e donzelle con pallida faccia
timide a guisa di columbe stanno,
che da’ granosi paschi ai nidi caccia
rabbia de’ venti che fremendo vanno
con tuoni e lampi, e’l nero aer minaccia
grandine e pioggia, e a’ campi strage e danno:
timide stanno per Ruggier; che male
a quel fiero pagan lor parea uguale.

Così a tutta la plebe e alla più parte
dei cavallieri e dei baron parea;
che di memoria ancor lor non si parte
quel ch’in Parigi il pagan fatto avea;
che, solo, a ferro e a fuoco una gran parte
n’avea distrutta, e ancor vi rimanea,
e rimarrà per molti giorni il segno:
né maggior danno altronde ebbe quel regno.

Tremava, più ch’a tutti gli altri, il core

a Bradamante; non ch’ella credesse
che ’l Saracin di forza, e del valore
che vien dal cor, più di Ruggier potesse;
né che ragion, che spesso dà l’onore
a chi l’ha seco, Rodomonte avesse:
pur stare ella non può senza sospetto;
che di temere, amando, ha degno effetto.

Oh quanto volentier sopra sé tolta
l’impresa avria di quella pugna incerta,
ancor che rimaner di vita sciolta
per quella fosse stata più che certa!
Avria eletto a morir più d’una volta,
se può più d’una morte esser sofferta,
più tosto che patir che ’l suo consorte
si ponesse a pericol de la morte.

Ma non sa ritrovar priego che vaglia,

perché Ruggiero a lei l’impresa lassi.
A riguardare adunque la battaglia
con mesto viso e cor trepido stassi.
Quinci Ruggier, quindi il pagan si scaglia,
e vengonsi a trovar coi ferri bassi.
Le lance all’incontrar parver di gielo;
i tronchi, augelli a salir verso il cielo.

Ha inizio il crudele duello, dapprima con le lance, quindi, spezzate quelle, con le spade. L’armatura del saraceno, al contrario di Ruggiero, non è così impenetrabile, tanto che in più punti essa si è rotta e mostra la carne ferita di Sacripante. Allora quest’ultimo:

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Con quella estrema forza che percuote
la machina ch’in Po sta su due navi,
e levata con uomini e con ruote
cader si lascia su le aguzze travi;
fere il pagan Ruggier, quanto più puote,
con ambe man sopra ogni peso gravi:
giova l’elmo incantato; che senza esso,
lui col cavallo avria in un colpo fesso.

Ruggiero andò due volte a capo chino,
e per cadere e braccia e gambe aperse.
Raddoppia il fiero colpo il Saracino,
che quel non abbia tempo a riaverse:

poi vien col terzo ancor; ma il brando fino
sì lungo martellar più non sofferse;
che volò in pezzi, et al crudel pagano
disarmata lasciò di sé la mano.

Rodomonte per questo non s’arresta,

ma s’aventa a Ruggier che nulla sente;
in tal modo intronata avea la testa,
in tal modo offuscata avea la mente.
Ma ben dal sonno il Saracin lo desta:
gli cinge il collo col braccio possente;
e con tal nodo e tanta forza afferra,
che de l’arcion lo svelle, e caccia in terra.

Non fu in terra sì tosto, che risorse,

via più che d’ira, di vergogna pieno;
però che a Bradamante gli occhi torse,
e turbar vide il bel viso sereno.
Ella al cader di lui rimase in forse,
e fu la vita sua per venir meno.
Ruggiero ad emendar presto quell’onta,
stringe la spada, e col pagan s’affronta.

Quel gli urta il destrier contra, ma Ruggiero

lo cansa accortamente, e si ritira,
e nel passare, al fren piglia il destriero
con la man manca, e intorno lo raggira;
e con la destra intanto al cavalliero
ferire il fianco o il ventre o il petto mira;
e di due punte fe’ sentirgli angoscia,
l’una nel fianco, e l’altra ne la coscia.

Rodomonte, ch’in mano ancor tenea
il pome e l’elsa de la spada rotta,
Ruggier su l’elmo in guisa percotea,
che lo potea stordire all’altra botta.
Ma Ruggier ch’a ragion vincer dovea,
gli prese il braccio, e tirò tanto allotta,
aggiungendo alla destra l’altra mano,
che fuor di sella al fin trasse il pagano.

Sua forza o sua destrezza vuol che cada
il pagan sì, ch’a Ruggier resti al paro:
vo’ dir che cadde in piè; che per la spada
Ruggiero averne il meglio giudicaro.
Ruggier cerca il pagan tenere a bada
lungi da sé, né di accostarsi ha caro:
per lui non fa lasciar venirsi adosso
un corpo così grande e così grosso.

E insanguinargli pur tuttavia il fianco
vede e la coscia e l’altre sue ferite.
Spera che venga a poco a poco manco,
sì che al fin gli abbia a dar vinta la lite.
L’elsa e ’l pome avea in mano il pagan anco,
e con tutte le forze insieme unite
da sé scagliolli, e sì Ruggier percosse,
che stordito ne fu più che mai fosse.

Ne la guancia de l’elmo, e ne la spalla

fu Ruggier colto, e sì quel colpo sente,
che tutto ne vacilla e ne traballa,
e ritto se sostien difficilmente.
Il pagan vuole entrar, ma il piè gli falla,
che per la coscia offesa era impotente:
e ’l volersi affrettar più del potere,
con un ginocchio in terra il fa cadere.

Ruggier non perde il tempo, e di grande urto
lo percuote nel petto e ne la faccia;
e sopra gli martella, e tien sì curto,
che con la mano in terra anco lo caccia.
Ma tanto fa il pagan che gli è risurto;

si stringe con Ruggier sì, che l’abbraccia:
l’uno e l’altro s’aggira, e scuote e preme,
arte aggiungendo alle sue forze estreme.

Di forza a Rodomonte una gran parte
la coscia e ’l fianco aperto aveano tolto.
Ruggiero avea destrezza, avea grande arte,
era alla lotta esercitato molto:
sente il vantaggio suo, né se ne parte;
e donde il sangue uscir vede più sciolto,
e dove più ferito il pagan vede,
puon braccia e petto, e l’uno e l’altro piede.

Rodomonte pien d’ira e di dispetto
Ruggier nel collo e ne le spalle prende:
or lo tira, or lo spinge, or sopra il petto
sollevato da terra lo sospende,
quinci e quindi lo ruota, e lo tien stretto,

e per farlo cader molto contende.
Ruggier sta in sé raccolto, e mette in opra
senno e valor, per rimaner di sopra.

Tanto le prese andò mutando il franco
e buon Ruggier, che Rodomonte cinse:
calcògli il petto sul sinistro fianco,
e con tutta sua forza ivi lo strinse.
La gamba destra a un tempo inanzi al manco
ginocchio e all’altro attraversogli e spinse;
e da la terra in alto sollevollo,
e con la testa in giù steso tornollo.

Del capo e de le schene Rodomonte

la terra impresse; e tal fu la percossa,
che da le piaghe sue, come da fonte,
lungi andò il sangue a far la terra rossa.
Ruggier, c’ha la Fortuna per la fronte,
perché levarsi il Saracin non possa,
l’una man col pugnal gli ha sopra gli occhi,
l’altra alla gola, al ventre gli ha i ginocchi.

Come talvolta, ove si cava l’oro
là tra’ Pannoni o ne le mine ibere,

se improvisa ruina su coloro
che vi condusse empia avarizia, fere,
ne restano sì oppressi, che può il loro
spirto a pena, onde uscire, adito avere:
così fu il Saracin non meno oppresso
dal vincitor, tosto ch’in terra messo.

Alla vista de l’elmo gli rappresenta
la punta del pugnal ch’avea già tratto;
e che si renda, minacciando, tenta,
e di lasciarlo vivo gli fa patto.
Ma quel, che di morir manco paventa,
che di mostrar viltade a un minimo atto,
si torce e scuote, e per por lui di sotto
mette ogni suo vigor, né gli fa motto.

Come mastin sotto il feroce alano
che fissi i denti ne la gola gli abbia,
molto s’affanna e si dibatte invano
con occhi ardenti e con spumose labbia,
e non può uscire al pretator di mano,
che vince di vigor, non già di rabbia:
così falla al pagano ogni pensiero
d’uscir di sotto al vincitor Ruggiero.

Pur si torce e dibatte sì, che viene
ad espetirsi col braccio migliore;
e con la destra man che ’l pugnal tiene,
che trasse anch’egli in quel contrasto fuore,
tenta ferir Ruggier sotto le rene:
ma il giovene s’accorse de l’errore
in che potea cader, per differire
di far quel empio Saracin morire.

E due e tre volte ne l’orribil fronte,
alzando, più ch’alzar si possa, il braccio,
il ferro del pugnale a Rodomonte

tutto nascose, e si levò d’impaccio.
Alle squalide ripe d’Acheronte,
sciolta dal corpo più freddo che giaccio,
bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa,
che fu sì altiera al mondo e sì orgogliosa.

Dopo che fu di fronte a Carlo e a Ruggiero, con voce alta e pieno di superbia disse: «Sono Rodomonte, re di Sargel (città d’Algeria), che sfido te Ruggiero a duello, e prima che il sole tramonti ti voglio qui dimostrare che sei stato infedele al tuo signore e che, poiché sei un traditore, non meriti alcun onore tra questi cavalieri. // Sebbene la tua viltà si manifesti apertamente, perché essendo diventato cristiano non puoi negarla, tuttavia vengo in questo campo a dimostrarla, per farla apparire ancora più certa: e se hai qualcuno che si offre di combattere al tuo posto, voglio accettarlo. Se non ne basta uno ne accetto anche quattro e sei, e con tutti manterrò fede a quanto detto». // A quelle parole Ruggiero si alzò in piedi e, con il permesso di Carlo, rispose che lui mentiva e chiunque lo avesse chiamato traditore, perché con il suo re si era sempre comportato in modo che nessuno avrebbe potuto a ragione biasimarlo, e che era pronto a sostenere di aver compiuto sempre il proprio dovere verso di lui; // che era capace di difendere la sua causa, senza chiamare nessuno in suo aiuto, e che sperava di dimostrargli nei fatti che ne avrebbe avuto abbastanza e forse troppo di uno solo. In quel momento si erano alzati in difesa di Ruggiero Rinaldo, Orlando, i marchese Oliviero e i suoi figli, uno biondo e uno moro, Dudone, Marfisa; // affermando che, essendo egli appena sposato, non doveva mettere in pericolo le proprie nozze. Ruggiero rispose loro: «Non vi preoccupate, per me queste sarebbero scuse infamanti». Giunsero le armi che egli strappò al famoso Tartaro (Mandricardo) e fu troncata ogni esitazione. A Ruggiero il conte Orlando strinse gli sproni e lo stesso Carlo gli cinse la spada al fianco. // Bradamante e Marfisa gli avevano messo la corazza e le altre parti dell’armatura. Astolfo teneva la briglia di un cavallo di razza, mentre il figlio del Danese (Dudone) reggeva la sella. Rinaldo, Namo e il marchese Oliviero sgomberarono la piazza e cacciarono tutti dallo steccato, sempre preparato a tale scopo. // Donne e giovinette con viso pallido sono timorose come colombe che la furia dei venti, accompagnati da tuoni e lampi, spinge dai campi di grano verso i nidi, e il cielo nero minaccia grandine e pioggia e devastazione e danni per i campi: stanno lì timorose per Ruggiero, che a loro sembrava inferiore a quel feroce saraceno. // Allo stesso modo sembrava a tutta la gente e alla maggior parte dei cavalieri e dei baroni, che conservano ancora la memoria di quello che il Pagano aveva fatto a Parigi, che solo ne aveva messo gran parte a ferro e a fuoco, la cui distruzione ancora rimaneva e lascerà il segno per molti anni ancora: quel regno d’altra parte non ebbe mai maggior danno. // Il cuore di Bradamante tremava più di tutti gli altri, non perché credeva che la forza e il coraggio del saraceno valessero più di quelle di Ruggiero, né che Rodomonte avesse ragione, cosa che spesso conduce alla vittoria: tuttavia ella non può non trovare timore, perché amando, ha un buon motivo per temere. // Oh quanto volentieri avrebbe compiuto l’impresa di quel duello incerto, anche se fosse stata sicura di perdere la vita a causa di quella! Avrebbe scelto di morire più di una volta se si potrebbe morire più di una volta, piuttosto che sopportare che il suo consorte si mettesse in pericolo di vita. // Ma non riesce a trovare preghiera che valga, perché Ruggiero lasci a lei il duello. A guardare dunque lo scontro, con viso triste e cuore trepidante, sta. Da una parte Ruggiero, da una parte il pagano si scagliano l’un contro l’altro con le lance abbassate. Le lance nello scontrarsi sembravano di ghiaccio, i brandelli, uccelli che salivano al cielo.
(…)
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Rodomonte interrompe il banchetto di nozze

Con quella estrema forza con cui colpisce la macchina che sta sul Po sopra due navi e che, sollevata da uomini e carrucole, si lascia cadere su pali appuntiti (battipalo usato per conficcare pali atti alle fondazioni), allo stesso modo il pagano ferisce Ruggiero, quanto più può, con tutt’e due le mani, pesanti più di ogni altro peso: giova a Ruggiero l’elmo incantato, che senza di esso, avrebbe spezzato in un solo colpo lui con il cavallo. // Ruggiero abbassa due volte la testa, e nel cadere aprì gambe e braccia. Il feroce Saracino raddoppia i colpi, affinché l’avversario non abbia tempo di riprendersi; poi aggiunge anche il terzo colpo, ma la spada non resistette a un così lungo martellare, che andò a pezzi, lasciando nuda la mano del crudele pagano. // Rodomonte non si ferma per questo, ma s’avventa su Ruggiero che non sente più nulla, tanto aveva intronata la testa e offuscata la mente. Ma il Saraceno lo costringe a riaversi, cingendogli con il braccio possente il collo e lo afferra con una tale stretta e tale forza che lo disarciona e getta in terra. // Non appena a terra si rialzò, più per vergogna che per ira, perché aveva volto il viso verso Bradamante e vide il suo viso turbarsi. Lei alla sua caduta restò così in dubbio che sembrò che la stessa sua vita venisse meno. Ruggiero per rimediare a quella vergogna, stringe la spada e s’avventa sul pagano. // Quello gli scaglia contro il destriero, ma Ruggiero lo scansa con prontezza, indietreggiando e nel passare afferra le redini con la mano sinistra e gli gira intorno: con la destra, intanto cerca di ferirlo sul ventre e sul petto; gli fece sentire dolore con due colpi, una al fianco, l’altra nella coscia. // Rodomonte che ancora aveva in mano l’impugnatura e la lama spezzata, picchiava Ruggiero sull’elmo, tanto che un’ulteriore botta l’avrebbe stordito. Ma Ruggiero che doveva necessariamente vincere, gli prese il braccio e aggiungendo l’altra mano lo tirò giù, finché lo fece cadere dalla sella. // Ma la sua forza o la sua destrezza fa sì che resti al pari di Ruggiero, voglio dire che cadde in piedi; e tutti giudicarono Ruggiero essere in vantaggio, avendo la spada intatta: Ruggiero cerca di tener lontano da sé il pagano né di avvicinarsi troppo; non sopporterebbe lasciarsi venire addosso un corpo così grande e grosso. // Ma vede insanguinargli il fianco, la coscia e altri parti del corpo. Spera che le forze gli vengano meno, sì che alla fine gli dia vinta la sfida. Il pagano aveva ancora l’elsa e l’impugnatura della spada, e con tutte le forze la scagliò e colpì Ruggiero, in modo da stordirlo più che mai. // Ruggiero fu colpito sul lato dell’elmo e nella spalla, e sente quel colpo così forte che vacilla e barcolla e si mantiene in piedi con difficoltà. Il pagano vuol farsi avanti, ma il piede non lo sorregge, impotente a causa della ferita sulla coscia, e il voler affrettarsi più di quanto possa, lo fa cadere in terra su un ginocchio. // Ruggiero non perde tempo e con un gran colpo lo percuote sul petto e sulla faccia; e lo colpisce sopra la testa e lo tiene alle strette che alla fine lo caccia in terra. Ma il pagano fa tanto che si rialza e si stringe così forte a Ruggiero tanto da abbracciarlo; entrambi si rigirano, si scuotono, si schiacciano, aggiungendo abilità alle loro ultime forze. // A Rodomonte avevano tolto gran parte della forza le ferite al fianco e sulla coscia. Ruggiero aveva abilità, grande capacità, si era esercitato molto nella lotta: sente di essere in vantaggio e non si allontana; e dove vede scorrere più copiosamente il sangue, e dove il pagano ha maggiormente ferite, pone il braccio, il petto ed entrambi i piedi. // Rodomonte, pieno di rabbia e di rancore, prende Ruggiero nel collo e nelle spalle: ora lo tira a sé, ora lo allontana, ora lo solleva e da una parte all’altra lo fa girare, lo tiene stretto e molto lotta per farlo cadere. Ruggiero sta molto attento, e mette in opera intelligenza e capacità, per conservare il vantaggio. // Il franco e buon Ruggiero riuscì a cambiare le prese e a cingere Rodomonte : gli strinse il petto sul fianco sinistro e con tutta la forza lo bloccò. Mise poi la gamba destra sopra il ginocchio sinistro e destro e lo spinse, lo sollevò da terra e lo fece tornare a terra a testa in giù. // Rodomonte impresse la terra con il capo e con la schiena, e tanto grande fu la botta che dalle sue ferite, come fossero fonti, uscì sangue che rosseggiò tutta la terra intorno. Ruggiero, che ha la Fortuna dalla sua parte, affinché il Saracino non possa alzarsi, ha una mano col pugnale sopra gli occhi, un’altra alla gola e le ginocchia sul ventre. // Come talvolta, dove si estrae l’oro, là tra gli Ungheresi o le miniere spagnole, se una frana improvvisa si abbatte su coloro che un’avidità perversa ha condotto fino là e ne restano schiacciati a tal punto che il loro respiro può a malapena avere una fessura da cui uscire, così il Saraceno fu allo stesso modo oppresso dal vincitore, non appena fu gettato a terra. // Ruggiero gli mostra davanti al viso la punta del pugnale che aveva già sguainato; e minacciandolo, tenta di farlo arrendere e gli promette che avrà salva la vita. Ma quello che ha meno paura di morire che di mostrare anche un piccolo atto di viltà, si contorce e si scuote e per porre lui sotto mette ogni forza, né gli risponde. // Come un mastino sotto un feroce alano, che abbia conficcato i denti nella sua gola, si affanna molto e si dibatte inutilmente con occhi ardenti e con labbra che schiumano, e non può sfuggire al suo predatore, che vince per la forza e non per rabbia, allo stesso modo fallisce al Saraceno ogni pensiero, di riuscire a sfuggire a Ruggiero. // Tuttavia si contorce e si dibatte talmente che riesce a liberare il braccio destro e con la mano, che afferra un pugnale, che anche lui tirò fuori, durante quel duello, con cui vuole ferire Ruggiero sotto le reni; ma il giovane s’accorse dell’errore in cui poteva cadere, per indugiare nell’uccidere l’empio Saraceno. // E due e tre volte nella spaventosa fronte di Rodomonte, alzando il più possibile il braccio, conficcò il pugnale e si tolse dall’impaccio. L’empia anima, che fu in vita così altezzosa e orgogliosa, bestemmiando fuggì dal corpo freddo più del ghiaccio verso le squallide rive dell’Acheronte.

E’ questo l’ultimo passo del poema, cui fa seguito solo il motto Pro bono malum (il male per il bene) a suggellare l’intero poema. Come si vede, il racconto ariostesco si chiude con Ruggiero protagonista sia per il suo matrimonio con Bradamante che per lo scontro finale con Sacripante. L’eroe eponimo diventa secondario, dopo la guarigione Orlando compare più come gregario che come un vero e proprio protagonista. Tutto ciò vuole ancora dimostrare la polidietricità del mondo ariostesco: non esiste un personaggio, ma un uomo poliedrico (folle o saggio, fedele o intemperante, avaro o prodigo e via discorrendo) che i vari protagonisti incarnano, ma che l’uomo rinascimentale sente come contemporanei, cui rivolgersi per sapere i suoi limiti e le sue debolezze. Ma per chiudere il poema, Ariosto ha bisogno di un supporto maggiormente letterario, più alto di quanto le chanson finora gli avevano offerto: ed ecco che già da Cloridano e Medoro Virgilio si era mostrato come nume tutelare per l’autore; così sarà per quest’ultimo episodio, modellato sullo scontro tra Enea (Ruggiero) e Turno (Sacripante), con la stesso indugio, che fa perdonare al lettore, la cruenta morte inflitta al nemico. A concorrere all’impressione di una maggiore “epicità” in questo episodio, rispetto ai mille altri letti sinora è l’estremo realismo con cui descrive il duello: non ci troviamo più in un iperrealismo ironico, dove a farla da padrone sono le amplificazioni sì retoriche, ma estremamente ironiche, si pensi al duello tra Bradamante e Sacripante nel primo canto i cui contendenti sono paragonati a leoni o tori (Non si vanno i leoni o i tori in salto a dar di petto, ad accozzar sì crudi, sì come i duo guerrieri al fiero assalto), e il cui duello risuona per tutta la compagna fino alle colline (Fe’ lo scontro tremar dal basso all’alto l’erbose valli insino ai poggi ignudi). Nell’ultimo scontro, invece è il realismo a prevalere: si sente l’odore di terra mista a sudore, sangue copioso; si segue la lotta sin nei minimi particolari di presa, si vede il feroce coltello di Ruggiero entrare nella fronte di Rodomonte, quasi a sentire lo squarcio del colpo. Nessuna parola a chiudere felicemente il racconto, un sorriso per la vittoria di Ruggiero stesso o di Bradamante, solo l’anima “empia” di Rodomonte verso i lidi dell’Inferno. Che si voglia, con questo, anche qui disegnare il fatto che, nonostante i suoi saggi consigli, l’uomo non possa fare a meno di violenza e di sangue (ricordiamoci il periodo storico in cui l’opera venne scritta)?

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Il matrimonio di Ruggiero e Bradamante nel disegno di bambini

Ma al di là di questo potremo definire la storia del poema chiusa? Abbiamo già visto come l’Orlando non inizia; parte in medias res, esattamente dove lo termina Boiardo e finisce con un duello; ma percepiamo che nulla sappiamo di che fine facciano gli altri eroi, se Orlando troverà pace con un’altra donna, se Rinaldo, dopo aver bevuto nella fontana dell’odio potrà ancora innamorarsi, se Angelica e Medoro avranno figli e via discorrendo. Cioè l’opera non chiude. Ma perché non chiude? Perché Ariosto non vuole mostrarci una parte del mondo, ma un frammento stesso del mondo, mentre quest’ultimo è gia vissuto, vive e vivrà in segui-to, soprattutto nei continuatori, che a quanto pare saranno numerosi e che poeteranno sulle avventure dei cavalieri cantati già da Boiardo e da Ariosto. Ciò ci testimonia il successo dell’opera del ferrarese, successo testimoniato da un grande autore spagnolo del ’600, Cervantes che afferma, attraverso la voce di un personaggio:

Ah! lo conosco molto bene, rispose il curato; ecco qua il signor Rinaldo di Montalbano cogli amici e compagni suoi più ladri di Caco, e i dodici paladini col loro storico veritiero Turpino la verità che sarei per condannarli soltanto ad eterno bando, non per altro se non perché hanno avuto gran parte nella invenzione del celebre Matteo Bojardo, d’onde ha poi ordila la sua tela il cristiano poeta Lodovico Ariosto; al quale, se qui si trovasse, e parlasse un idioma diverso dal suo proprio, non porterei rispetto, ma se fosse nel suo linguaggio originale, me lo riporrei sopra la testa. – Io lo tengo in italiano, disse il barbiere, ma non l’intendo. – Non è neppur bene che da voi sia inteso, rispose il curato; e perdoniamo per ora a quel signor capitano che lo ha tradotto in lingua castigliana, togliendogli gran parte del nativo suo pregio: ma così averrà a tutti coloro che s’impegnano a tradurre libri poetici, mentre, per quanto studio vi pongano, per quanta attitudine vi abbiano, non potranno mai darceli tali quali essi nacquero.

 

 

 

 

 

FRANCESCO GUICCIARDINI

Giuliano Bugiardini: Ritratto di Francesco Guicciardini (XVI secolo)

Francesco Guicciardini nasce a Firenze nel 1483, da una famiglia aristocratica che si era guadagnata, nel turbinoso periodo fiorentino, l’amicizia dei Medici. Vive i primi anni sotto il dominio del Savonarola, e dopo la morte del frate, trascorrerà la giovinezza nella repubblica di Pier Soderini. Avviato per volontà paterna agli studi giuridici li approfondirà nella prestigiosa università di Padova (dove si era rifugiato durante la tempesta politica nella sua città). Rientrato a Firenze nel 1505 ottiene l’incarico, non ancora laureato, per l’insegnamento di diritto civile. Si laurea brillantemente e inizia la sua carriera nell’avvocatura; dopo poco si fidanza, contro il volere paterno, con Maria Salviati, proveniente da una potentissima famiglia avversaria di Pier Soderini. E’ grazie al suocero che inizia una brillantissima carriera politica che culminerà, nel 1509, quando s’insedierà nel governo cittadino. Infatti è proprio all’inizio dello stesso anno che riceve ambasciatori dell’imperatore Massimiliano d’Asburgo a Lucca; l’anno successivo, nel 1510, ottiene l’incarico di ambasciatore presso la corte di Spagna, attività che gli consentirà di scrivere, nel 1514, la Relazione di Spagna. La lontananza dalla Toscana non gli faranno vivere le conseguenze per le sue scelte politiche che furono, invece, fatali per Machiavelli. Al rientro dei Medici (1513), dopo un primo tempo in cui si dedica ad attività private, ottiene l’incarico di governatore di Modena (1516); l’anno successivo, grazie all’elezione di Leone X, riceve da quest’ultimo l’incarico di governatore di Reggio e Parma; ancora nel 1521 viene nominato comandante delle truppe pontificie alleate con Carlo V contro i Francesi. Dopo la parentesi di Adriano VI, che lo porta ad allontanarsi dagli impegni con la curia papale, parentesi di un solo anno,  riprende la sua attività con il nuovo papa Clemente VII, che lo manda a governare la regione piuttosto turbolenta di Romagna, dove spadroneggiano potentati locali e dove Guicciardini mostra ottime capacità nel saper gestire la difficile situazione.

La sua fortuna comincia a declinare quando si fa promotore, presso il papa, di una nuova alleanza tra papato, stati italiani e Francia per arginare lo strapotere dell’esercito imperiale di Carlo V; prende dunque vita la lega di Cognac (1526). Ma questa viene sconfitta, determinando, a Firenze, il ritorno della Repubblica. Viene allontanato dalla politica per i suoi trascorsi, si rifugia in una sua villa nei pressi di Firenze e gli vengono confiscati i beni.

Sebastiano del Piombo: Clemente VII

Torna a Roma per mettersi di nuovo al servizio di Clemente VII. Al ritorno dei Medici (1531) diventa consigliere del granduca Alessandro; ma, il suo successore, Cosimo I (1537) non gli conferma la fiducia; si ritira dunque a vita privata: riordina I ricordi e scrive La Storia d’Italia.

Muore ad Arcetri nel 1540.

L’uomo

Non si può scindere la personalità di Guicciardini senza metterla in relazione con quella di Machiavelli, molti sono i punti di contatto:

  1. ambedue vivono un momento di profonda trasformazione e difficoltà della Repubblica fiorentina (li dividono soltanto 14 anni);
  2. si interessarono soprattutto di politica e di storia, entrambi con libertà di giudizio e con grande capacità critica;
  3. ottemperano ai bisogni dello Stato, sebbene il lavoro machiavelliano fosse quasi tutto inserito nel periodo di Pier Soderini e quello di Guicciardini maggiormente mediceo;
  4. ambedue vivono la sconfitta e la cocente delusione per la loro attività politica (anche se quella di Guicciardini ha inciso maggiormente)
  5. Le loro opere nascono soprattutto in un periodo di inattività: Il Principe, I Discorsi e La Mandragola per Machiavelli, i Ricordi e La Storia d’Italia per Guicciardini.

Opere

Come per Machiavelli anche per Guicciardini l’opera letteraria nasce dall’esperienza politica diretta, che egli fece da protagonista sia nella sua città che in altre parti dell’Italia e all’estero. Tuttavia è necessario qui sottolineare la differenza dell’atteggiamento politico per i due fiorentini: per Machiavelli la politica è una necessità vitale, una tensione di chi vota per essa la propria esistenza; Guicciardini non la sceglie, la vive per tradizione familiare; per meglio dire la sua strada era stata già tratteggiata nel momento in cui venne al mondo, influenzandone anche la scelta matrimoniale.

L’esperienza come ambasciatore in Spagna, diede vita ad una serie di opere, fra le quali la più importante è la Relazione di Spagna.  Il nostro, osservando la realtà politica del grande paese iberico, continuamente riscontra il ritardo strutturale in cui l’Italia si dibatte. Come collaboratore dei Medici invece scrive il Discorso di Logrogno e Del modo di ordinare il governo di Firenze opere nelle quali l’autore, come uno degli esponenti più in vista della città di Firenze, disegna il suo ideale politico che si può così riassumere: una repubblica oligarchica capace di governare con saggezza, contro la tirannia di un solo e la demagogia dei molti. Ben consapevole che la dinastia medicea mal avrebbe tollerato l’idea di un potere condiviso, egli precisa che a capo del governo ci sarebbe stato sì un Medici, ma coadiuvato dai savi delle grandi famiglie fiorentine.

Vogliamo ricordare come tali scritti non furono mai pubblicati in vita da Guicciardini; furono riscoperti molto più tardi: essi infatti assumevano il ruolo di riflessione per chi, come lui, svolgeva l’attività politica.

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Incisione con il ritratto di Francesco Guicciardini

Opere minori

 RICORDI

Anche i Ricordi sono, per così dire, un’opera privata, anzi il capolavoro dell’opere private di Guicciardini. E’ nata piano piano, scrivendo su quaderni riflessioni e pensieri che nel corso dell’attività rivedeva per correggerli o cambiarli. L’edizione definitiva, del 1530, si struttura, quindi come una serie di appunti ed aforismi (221) dettati dalla lunga esperienza politica.

Da ciò se ne deduce che, al contrario di Machiavelli, quest’opera non presenti una teoria sulla quale dar vita a dei comportamenti, ma come quest’ultimi siano determinati, in fondo, dalle circostanze sempre variabili che la realtà offre. Infatti non nasce con un disegno da presentare, né tantomeno come un piano di lavoro organico per la struttura di uno stato. Si tratta proprio della capacità di cogliere, sul piano umano, religioso, politico e culturale alcuni aspetti e di offrirli a se stesso, come vademecum, per affrontare la vita. Per questo l’opera si presenta frammentaria (ciò non vuol dire non unitaria) e si può veramente definire un anti-trattato.

Vediamo ora alcuni “pensieri” guicciardinaniani dividendoli per temi:

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LA STORIA

6: E’ grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogna le insegni la discrezione.

E’ un grande errore giudicare i fatti in modo indistinto e assoluto, cioè attraverso regole generali, perché quasi tutti i fatti si distinguono tra loro e rappresentano delle eccezioni per la grande varietà delle circostanze in cui sono accaduti, le quali circostanze non possono essere ricondotte ad un unico giudizio: e questi fatti che si distinguono tra loro e rappresentano delle eccezioni, non si trovano nei libri, ma ci aiuta a capirli la discrezione (la capacità di discernimento)

110: Quanto s’ingannano coloro che a ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esempio; il quale a chi ha le qualità disproporzionate, è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che un asino facesse il corso di un cavallo.

Quanto sbagliano coloro che ad ogni parola citano i Romani! Bisognerebbe avere una città strutturata cole la loro e quindi governare secondo il loro modello: il quale ha chi ha qualità così differenti è tanto differente, quanto sarebbe voler far correre un asino come un cavallo.

In queste due riflessioni si misura la distanza che separa i due pensatori fiorentini: se per Machiavelli “i fatti” possono essere giudicati a partire dall’assioma – unico ed universale – della malvagità “naturale” dell’uomo, da cui ogni altro discorso ne deriva, per Guicciardini ciò non è più possibile; la realtà è in continua trasformazione e solo la capacità di saper cogliere l’azione opportuna in un determinato momento può diventare criterio valido. Per questo è impossibile rifarsi a modelli “classici”, prendere la storia di Roma come riferimento per qualsiasi azione politica (si pensi ai Discorsi machiavelliani).

LA FORTUNA

30. Chi considera bene non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti e che non è in potestà degli uomini né a prevederli né a schifargli: e benché lo accorgimento e sollecitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna.

Chi ragiona bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha un grandissimo potere, perché in ogni momento si vede una gran quantità di fatti determinati da accidenti fortuiti, e che non è in potere degli uomini né prenderli né allontanarli e, sebbene gli accorgimenti e le sollecitudini umane possano alleviare molte cose, da soli non bastano, ma occorre anche una buona dose di fortuna.

Elihu Vedder: Dea Fortuna resti con noi (1893)

LA METAFISICA E LA RELIGIONE

125: E’ filosofi e e’ teologi e tutti gli altri che scrutano le cose sopra natura o che non si veggono, dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito a serve più a essercitare gli ingegni che a trovare la verità.

I filosofi e i teologi e tutti gli altri che si propongono d’indagare le cose sovrannaturali o che in natura non si vedono, dicono mille sciocchezze perché in realtà gli uomini sono all’oscuro delle cose e questa indagine è servita e serve più per esercitare l’intelligenza che per scoprire la verità.

La stessa idiosincrasia che Guicciardini mostra verso colui che guarda alla storia come modello per l’oggi, il nostro mostra verso coloro che invece pongono nell’aldilà il destino degli uomini e delle nazioni. Non c’è alcun disegno provvidenziale o ordine “regolato” secondo leggi fisse, che permetta una qualsiasi indagine o disegno. Ma se questo era già chiaro nelle precedenti riflessioni, quello che qui colpisce è l’assoluta immanenza del pensiero guicciardiniano che, uomo del Rinascimento, nega qualsiasi possibile ricerca che non sia basata sui fatti contingenti.

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Immagine per la metafisica e la religione

L’UOMO

134. Gli uomini tutti per natura sono inclinati più al bene che al male, né è alcuno il quale, dove altro motivo non lo tiri in contrario, non facesse più volentieri bene che male; ma è tanto fragile la natura degli uomini e sì spesse nel mondo le occasioni che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. E però i savi legislatori trovarono i premi e le pene: che non fu altro che con la speranza e col timore volere tenere fermi gli uomini nella inclinazione loro naturale.

Gli uomini, per natura, sono più rivolti verso il bene che verso il male, e non c’è nessuno il quale, qualora un altro motivo lo spinga, non operasse più volentieri verso il bene che verso il male, ma la natura dell’uomo è cosi fragile e così frequenti le occasioni che invitano al male, che gli uomini si lasciano facilmente deviare dal bene. Per questo motivo i saggi legislatori stabilirono premi e pene; e ciò nel voler mantenere gli uomini nella loro inclinazione naturale con la speranza (dei premi) ed il timore (delle pene).

Jattractions  on X: "The Redemption Song statue located at Emancipation  Park was designed by Laura Facey. #jamaica #Jattractions #history  #jamaicanhistory https://t.co/O4ww6QdBW7" / X

Laura Facey: Redemption song (1967)

Anche qui viene segnata una fondamentale differenza col pensiero machiavelliano: laddove l’autore de Il Principe costruiva tutta la sua teoria politica sull’assioma della “naturale” malvagità umana, Guicciardini rivendica la teoria dell’uomo “naturalmente” buono, che solo le circostanze rendono malvagio. Tuttavia ad un’osservazione più attenta, non si può fare a meno di riflettere come, partendo da presupposti così diversi, i due giungano a conclusioni similari: se l’uomo è “naturalmente cattivo”, serve un uomo forte e altrettanto cattivo per imporre il “non egoismo” che metterebbe a rischio lo stato e quindi la libertà di ognuno; se l’uomo invece è “naturalmente” buono, ma le circostanze lo inducono al compimento di azioni “non buone” ci penserà la legge a porlo nella retta via. Quando l’uomo sarà libero di essere cattivo o buono? I due pensatori fiorentini, pur così distanti, non gli danno alcuna fiducia.

File:Maarten van Heemskerck 011.jpgMaerten van Heemskerk: I pericoli dell’ambizione umana (1549)

LE AMBIZIONI UMANE

15. Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n’ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho mai trovato drento quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini.

Io ho desiderato, come la maggior parte degli uomini, onori e vantaggi materiali, e molte volte li ho raggiunti al di là delle mie speranze o desideri; e ciononostante non ho mai trovato in esse quella soddisfazione che mi ero immaginato; ragione, a chi bene la considera, potentissima a ridimensionare di molto le inutili cupidigie degli uomini.

Questo pensiero disegna un certo pessimismo di Guicciardini. Egli infatti, richiamandosi a Petrarca non fa che sottolineare le “vane cupidità dell’uomo”, ma con più distacco. Infatti passa dall’“io” dell’esperienza personale ad una meditazione universale. D’altra parte comincia ad affacciarsi qui il concetto che laddove non si può governare il mondo prevedendo gli eventi, lo si può fare con dedizione. Il fatto è che tale dedizione alla fine non è ripagata.

32: La ambizione non è dannabile, né da vituperare quello ambizioso che ha appetito d’avere gloria co’ mezzi onesti e onorevoli; anzi sono questi tali che operano cose grande e eccelse. E chi manca di questo desiderio, è spirito freddo e inclinato piú allo ozio che alle faccende. Quella è ambizione perniziosa e detestabile che ha per unico fine la grandezza, come hanno communemente e principi; e quali quando la propongono per idolo, per conseguire ciò che gli conduce quella fanno uno piano della coscienzia, dell’onore, della umanità e di ogni altra cosa.

Non bisogna condannare né biasimare l’ambizione; né bisogna disprezzare la persona ambiziosa che desidera avere gloria con mezzi onesti ed onorevoli: anzi sono loro che realizzano cose grandi ed eccelse, e chi non possiede questo desiderio, è apatico e inclinato più all’ozio che all’attività. E’ pericolosa e detestabile quell’ambizione che ha per unico fine la grandezza, come è comune tra i principi, i quali quando se la propongono come fine ultimo, per raggiungerla fanno tacere la coscienza, l’onore, l’umanità ed ogni altra virtù.

Anche Guicciardini, come Machiavelli, ha una concezione “vitalistica” dell’agire politico, non ammettendo, pur in una visione così poco governabile come egli la disegna, l’improduttività e l’ozio. A guidare questa azione è l’ambizione; egli tuttavia sottolinea che tale ambizione non può far “venire” meno i concetti classici della virtù, ribaltando il concetto machiavellico di virtù (che si fonda solo ed unicamente come valore politico).

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Paolo Veronese: Le nozze di Cana (1564)

I RAPPORTI SOCIALI

44. Fate ogni cosa per parere buoni, ché serve a infinite cose; ma perché le opinione false non durano, difficilmente vi riuscirà el parere lungamente buoni, se in verità non sarete: così mi ricordò già mio padre.

Fate ogni cosa per apparire buoni, perché serve per infinite cose; ma poiché le opinioni false non durano, difficilmente potreste apparire buoni a lungo se non lo siete in realtà. Così mi disse già mio padre.

Questa riflessione ricalca in parte già la prospettiva machiavelliana. Ma lo scarto qui è l’intenzione “privatistica” di tale pensiero, con il ricordo di una massima paterna.

Storia d'Italia di Francesco Guicciardini - Borroni e Scotti 1843/1844

La Storia d’Italia in un’edizione del 1843

LA STORIA D’ITALIA

Chi non crede in una teoria politica, non può affrontare una speculazione generale; suo compito sarà quello di prendere atto della realtà; per meglio dire descriverla nella sua mutevolezza e questo è compito dello storico.

Come Machiavelli fonda la politica come scienza, Guicciardini dà vita alla moderna storiografia: a lui non interessa la storia sociale, ma quella politica e psicologica; grazie alla sua professione e alla sua biografia egli può attingere a fonti di prima piano, che vaglia ed analizza attentamente. E’ qui la sua novità. La storia non ha schemi precostituiti: ma va analizzata nelle sue cause e negli effetti. Ciò gli permetterà di affrontare gli avvenimenti da lui affrontati in vero e proprio afflato europeo: non per niente dall’Italia felix al sacco di Roma l’intervento delle potenze straniere nella nostra penisola era stato continuo e devastante. Egli, così, come spiega la crisi fiorentina all’interno del sistema italiano, non può non spiegare la crisi d’Italia all’interno della più vasta storia europea. Molti i ritratti dei principali protagonisti storici, così come numerosi sono i “discorsi”: con essi l’autore vuole spiegarci l’indole ed il motivo delle loro azioni. La storia da lui raccontata in quest’ampia opera, divisa in 20 libri, va dal 1492 (morte di Lorenzo il Magnifico) fino 1534 (sacco di Roma e morte di Clemente VII). 

Se la concezione storica è moderna, lo stile ricalca il periodare classico, riprendendo il gusto classicista tipico dell’età rinascimentale.

INTRODUZIONE

Io ho deliberato di scrivere le cose accadute alla memoria nostra in Italia, dappoi che l’armi de’ franzesi, chiamate da’ nostri príncipi medesimi, cominciorono con grandissimo movimento a perturbarla: materia, per la varietà e grandezza loro, molto memorabile e piena di atrocissimi accidenti; avendo patito tanti anni Italia tutte quelle calamità con le quali sogliono i miseri mortali, ora per l’ira giusta d’Iddio ora dalla empietà e sceleratezze degli altri uomini, essere vessati. Dalla cognizione de’ quali casi, tanto vari e tanto gravi, potrà ciascuno, e per sé proprio e per bene publico, prendere molti salutiferi documenti onde per innumerabili esempli evidentemente apparirà a quanta instabilità, né altrimenti che uno mare concitato da’ venti, siano sottoposte le cose umane; quanto siano perniciosi, quasi sempre a se stessi ma sempre a’ popoli, i consigli male misurati di coloro che dominano, quando, avendo solamente innanzi agli occhi o errori vani o le cupidità presenti, non si ricordando delle spesse variazioni della fortuna, e convertendo in detrimento altrui la potestà conceduta loro per la salute comune, si fanno, poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuove turbazioni.

Io ho scelto di scrivere gli eventi successi ai nostri tempi in Italia, dopo che gli eserciti francesi, chiamati dagli stessi principi italiani, cominciarono con un grande movimento (di truppe) a sconvolgerla: argomento, per la complessità ed importanza loro, degno di memoria e pieno di crudelissimi eventi, avendo l’Italia subito tutte quelle disgrazie con le quali, ora per la giusta rabbia di Dio (nei nostri confronti) ora per l’empietà e per le scelleratezze degli altri uomini, i poveri mortali sono soliti essere perseguitati. Dalla conoscenza di questi avvenimenti, così diversi e così pericolosi, potrà ognuno, per un bene privato o pubblico, imparare molti salutari insegnamenti: da cui, attraverso innumerevoli esempi, capirà chiaramente a quanta instabilità siano sottoposte le vicende umane, come un mare agitato da forti venti; (capirà) quanto siano pericolosi, quasi sempre a se stessi, ma in special modo ai popoli, i consigli non ben ponderati dei governanti, quando o per errori inutili o per i desideri del momento, non ricordano i frequenti rivolgimenti della sorte e volgendo a danno altrui il potere che è stato concesso loro per il bene pubblico, si rendono, o per poca prudenza o per troppa ambizione, autori di nuovi turbamenti.

A leggere queste poche righe guicciardiniane ci si rende subito conto che:

  • A livello stilistico vi è una perfetta ripresa di uno stile altissimo, ricco di subordinate e incisi, che rendono “classico” il suo modo di presentare il suo ragionamento;
  • La immediata sottolineatura riguardo l’“io” testimone che narra, alla ricerca di una spiegazione, la catastrofe accaduta dopo il 1494, quando Carlo VIII, chiamato da Ludovico il Moro, scende in Italia;
  • Nonostante il richiamo a Dio, come tutto venga ridimensionato in una prospettiva imminente, dove la vera responsabilità è negli errori degli uomini;
  • La sottolineatura dell’incapacità delle classi al potere di pensare al bene comune, legate sole all’ambizione personale (interessante notare che quando ne I Ricordi Guicciardini parla di ambizione, lo fa come fine per il ben operare per il bene comune, non come fine personale);
  • La historia magistra vitae, ma capace d’additare, come valido e imprescindibile insegnamento le spesse variazioni della fortuna.

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Sebastiano Del Piombo: Ritratto postumo di Cristoforo Colombo (1519)

LA SCOPERTA DELL’AMERICA
(IV,9)

Ma più maravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnuoli, cominciata l’anno mille quattrocento novanta…, per invenzione di Cristoforo Colombo genovese. Il quale, avendo molte volte navigato per il mare Oceano, e congetturando per l’osservazione di certi venti quel che poi veramente gli succedette, impetrati dai re di Spagna certi legni e navigando verso l’occidente, scoperse, in capo di [trentatré] dì, nell’ultime estremità del nostro emisperio, alcune isole, delle quali prima niuna notizia s’aveva; felici per il sito del cielo per la fertilità della terra e perché, da certe popolazioni fierissime infuora che si cibano de’ corpi umani, quasi tutti gli abitatori, semplicissimi di costumi e contenti di quel che produce la benignità della natura, non sono tormentati né da avarizia né da ambizione; ma infelicissime perché, non avendo gli uomini né certa religione né notizia di lettere, non perizia di artifici non armi non arte di guerra non scienza non esperienza alcuna delle cose, sono, quasi non altrimenti che animali mansueti, facilissima preda di chiunque gli assalta. Onde allettati gli spagnuoli dalla facilità dell’occuparle e dalla ricchezza della preda, perché in esse sono state trovate vene abbondantissime d’oro, cominciorno molti di loro come in domicilio proprio ad abitarvi. E penetrato Cristoforo Colombo più oltre, e dopo lui Amerigo Vespucci fiorentino e successivamente molti altri, hanno scoperte altre isole e grandissimi paesi di terra ferma; e in alcuni di essi, benché in quasi tutti il contrario e nell’edificazione pubblicamente e privatamente, e nel vestire e nel conversare, costumi e pulitezza civile, ma tutte genti imbelli e facili a essere predate: ma tanto spazio di paesi nuovi che sono – senza comparazione maggiore spazio che l’abitato che prima era a notizia nostra. Ne’ quali distendendosi con nuove genti e con nuove navigazioni gli spagnuoli, e ora cavando oro e argento delle vene che sono in molti luoghi e dell’arene de’ fiumi, ora comperandone per prezzo di cose vilissime dagli abitatori, ora rubando il già accumulato, n’hanno condotto nella Spagna infinita quantità; navigandovi privatamente, benché con licenza del re e a spese proprie, molti, ma dandone ciascuno al re la quinta parte di tutto quello che o cavava o altrimenti gli perveniva nelle mani. Anzi è proceduto tanto oltre l’ardire degli spagnuoli che alcune navi, essendosi distese verso il mezzodì (cinquantatré) gradi sempre lungo la costa di terra ferma, e dipoi entrati in uno stretto mare e da quello per amplissimo pelago navigando nello oriente, e dipoi ritornando per la navigazione che fanno i portogallesi, hanno, come apparisce manifestamente, circuito tutta la terra. Degni, e i portogallesi e gli spagnuoli e precipuamente Colombo, inventore di questa più maravigliosa e più pericolosa navigazione, che con eterne laudi sia celebrata la perizia la industria l’ardire la vigilanza e le fatiche loro, per le quali è venuta al secolo nostro notizia di cose tanto grandi e tanto inopinate. Ma più degno di essere celebrato il proposito loro se a tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata dell’oro se a tanti pericoli e fatiche gli avesse indotti non la sete immoderata dell’oro e delle ricchezze ma la cupidità o di dare a se stessi e agli altri questa notizia di propagare la fede cristiana: benché questo sia in qualche parte proceduto per conseguenza, perché in molti luoghi sono stati convertiti alla nostra religione gli abitatori. 
Per queste navigazioni si è manifestato essersi nella cognizione della terra ingannati in molte cose gli antichi. Passarsi oltre alla linea equinoziale, abitarsi sotto la torrida zona; come medesimamente, contro all’opinione loro, si è per navigazione di altri compreso, abitarsi sotto le zone propinque a’ poli, sotto le quali affermavano non potersi abitare per i freddi immoderati, rispetto al sito del cielo tanto remoto dal corso del sole. Èssi manifestato quel che alcuni degli antichi credevano, altri riprendevano, che sotto i nostri piedi sono altri abitatori, detti da loro gli antipodi. Né solo ha questa navigazione confuso molte cose affermate dagli scrittori delle cose terrene, ma dato, oltre a ciò, qualche anzietà agli interpreti della scrittura sacra, soliti a interpretare che quel versicolo del salmo, che contiene che in tutta la terra uscì il suono loro e ne’ confini del mondo le parole loro, significasse che la fede di Cristo fusse, per la bocca degli apostoli, penetrata per tutto il mondo: interpretazione aliena dalla verità, perché non apparendo notizia alcuna di queste terre, né trovandosi segno o reliquia alcuna della nostra fede, è indegno di essere creduto o che la fede di Cristo vi sia stata innanzi a questi tempi o che questa parte sì vasta del mondo sia mai più stata scoperta o trovata da uomini del nostro emisperio.

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Dióscoro Puebla: Colombo Sbarcato nel Nuovo Mondo (1862)

Più meravigliosa ancora è stata la navigazione degli spagnoli, incominciata nel 1492, grazie a Cristoforo Colombo, genovese. Il quale, avendo navigato per il mar Oceano, e pensando di realizzare, avendo osservato certi venti, ciò che poi fu realmente, chiese ai Re di Spagna alcune navi, e navigando verso occidente, scoprì, dopo 33 giorni, gli ultimi estremi del nostro emisfero, alcune isole, delle quali non si aveva notizia della loro esistenza; (isole) felici per la loro posizione, per la fertilità della terra, e perché, salvo alcune popolazioni molto bellicose, che mangiano corpi umani, quasi tutti gli abitanti, di costumi molto semplici e soddisfatti di ciò che produce la natura benigna, non sono preda né dall’avarizia né dall’ambizione; ma molto felici, perché non possedendo gli uomini né una certa religione, né notizie di lettere, né abilità di artigiani, né armi, né arte della guerra, né scienza, né esperienza alcuna delle cose, sono quasi animali domestici e bottino molto facile per qualcuno che li attacchi. Per conseguenza gli spagnoli, sedotti dalla facilità di occuparle e per la ricchezza del bottino, poiché in quelle (isole) erano state trovate vene d’oro molto abbondanti, incominciarono molti di quelli a vivere lì come se fosse stato il loro domicilio; e penetrando più all’interno Cristoforo Colombo, dopo di lui Amerigo Vespucci, fiorentino, e successivamente molti altri, hanno scoperto molte isole e paesi grandissimi di terra ferma; e in alcuni trovarono buone usanze e buona civiltà (sebbene nella maggior parte non trovarono queste cose, né costruzioni pubbliche o private, né nel vestire, né nel conversare); tutte genti piuttosto codardi e facili ad essere depredate, ma hanno tanta estensione questi nuovi paesi che sono, senza paragone, più grandi delle terre che noi conosciamo. Nelle quali terre gli spagnoli si estesero con nuove genti e nuove navigazioni, e prendendo oro e argento dalle vene che si trovano in molti posti e nelle sabbie dei fiumi, oppure comprandolo dagli indigeni in cambio di oggetti insignificanti, oppure rubando quello che quelli avevano accumulato, hanno portato in Spagna quantità infinite; molti navigando fin là privatamente, anche col permesso dei Re di Spagna e a proprie spese, ma ognuno dando al Re la quinta parte di tutto quello che cavavano o che in qualche modo arrivava nelle loro mani. L’ardimento degli spagnoli è arrivato a tal punto che alcune navi avendo raggiunto il mezzogiorno dei 53 gradi, sempre lungo la costa della terraferma, e poi entrando in un mare stretto, e di qui ad un oceano più grande navigando verso oriente, e poi proseguendo la navigazione che usavano i portoghesi hanno, come s’è dimostrato, circumnavigato tutta la terra. Degni i portoghesi come gli spagnoli, e particolarmente Colombo scopritori di questa meravigliosa e più pericolosa navigazione, di chiunque si celebri, con lodi eterne, la perizia, l’abilità, il coraggio, l’osservazione accurata e i suoi sforzi per mezzo dei quali è arrivata al nostro secolo la notizia di fatti tanto grandi e tanto insperati. Però sarebbe più degno d’essere celebrata la sua prodezza se a tanti pericoli e sforzi non fossero stati indotti da una esagerata sete d’oro e di ricchezze, ma per la gloria di dare a quelli stessi e ai posteri la notizia della scoperta e di diffondere la fede cristiana, anche se quest’ultimo fatto si derivò, in alcun caso, dall’altro come conseguenza naturale, infatti in vari luoghi sono stati convertiti gl’indigeni alla nostra religione.
Come conseguenza di questa navigazione s’è dimostrato che gli antichi avevano sbagliato in molte cose con relazione alla terra. Come il poter navigare più in là, oltre la linea equatoriale; il poter vivere più in là della linea torrida; e anche contro la loro opinione, sappiamo dalla navigazione di altri; che si può vivere nelle zone vicine ai Poli, nelle quali affermano gli antichi che non poteva esserci vita per il troppo freddo, essendo lontane dal sole. E’ risultato certo, contrariamente a ciò che alcuni antichi affermavano, ed altri tramandavano, che sotto i nostri piedi esistono altri abitanti chiamati antipodi. Non solo tale navigazione ha smentito molte cose affermate dagli scrittori di cose terrene, bensì apportando, oltre ciò, alcune difficoltà per gli interpreti delle Sacre Scritture, i quali erano soliti interpretarle che quel verso del salmo che dice: ‘Che in tutta la terra si levò il suono di quelli e ai confini del mondo le loro parole’, significa che la fede di Cristo fosse per bocca degli apostoli penetrata in tutte le parti del mondo. Interpretazione lontana dalla verità, dato che, non avendo alcuna notizia di queste terre né trovando alcun segnale o reliquia della nostra fede, dobbiamo concludere che la fede di Cristo si diffuse lì prima, e poi si perse, o che questa parte tanto ampia del mondo non era stata mai, fino ad ora, scoperta o trovata da uomini del nostro emisfero.

Il passo è interessantissimo perché il Guicciardini, oserei dire tra le righe, ci parla di sopraffazione europea verso le appena conquistate “isole felicissime”. Infatti ci fa subito capire che la “felicità” per la ricchezza della natura comporta di conseguenza l'”infelicità” per essere appunto “naturali”, cioè privi di qualsiasi tecnologia e tantomeno di qualsiasi fede sino ad allora conosciuta. Proprio questa infelicità fa loro essere “prede” di conquistatori, dove lo stesso termine induce a pensare ad una diseguaglianza tra chi uccide e chi resta ucciso, dove “preda” non riguarda soltanto gli uomini (a cui alcuni ecclesiastici negavano il possesso dell’anima), ma anche il territorio, ricco d’oro per i paesi del vecchio continente. (E’ proprio di Guicciardini il sottolineare l’aspetto economico della conquista).

Abbiamo accennato all’aspetto religioso: esso viene messo in evidenza nell’ultimo paragrafo del passo in cui si cita un passo biblico in cui si viene sottolineata la presenza di Dio in ogni uomo abitante il pianeta, il fatto che questi uomini non lo conoscessero metteva in seria difficoltà la Chiesa. Non soltanto la religione riceveva un violento scossone circa la sua “verità”, ma era tutto un sapere classico che veniva rimesso in discussione, dalle teorie scientifico/astronomiche a quelle morali. 

Potremo concludere che se è vero che la civiltà europea si è introdotta con violenza e sopraffazione nel mondo “vergine” delle nuove terre, quest’ultime siano penetrate con il loro portato rivoluzionario in un sistema di credenze sino allora ritenuto immutabile e che avrà enormi conseguenze per il futuro della storia e della cultura europea. 

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Alessandro VI e il figlio

LA MORTE DI ALESSANDRO VI
(VI,4)

Ma ecco che nel colmo più alto delle maggiori speranze (come sono vani e fallaci i pensieri degli uomini) il pontefice, da una vigna appresso a Vaticano, dove era andato a cenare per ricrearsi da’ caldi, è repentinamente portato per morto nel palazzo pontificale e incontinente dietro è portato per morto il figliuolo: e il dì seguente, che fu il decimo ottavo dì d’agosto, è portato morto secondo l’uso de’ pontefici nella chiesa di San Piero, nero enfiato e bruttissimo, segni manifestissimi di veleno; ma il Valentino, col vigore dell’età e per avere usato subito medicine potenti e appropriate al veleno, salvò la vita, rimanendo oppresso da lunga e grave infermità. Credettesi costantemente che questo accidente fusse proceduto da veleno; e si racconta, secondo la fama più comune, l’ordine della cosa in questo modo: che avendo il Valentino, destinato alla medesima cena, deliberato di avvelenare Adriano cardinale di Corneto, nella vigna del quale doveano cenare (perché è cosa manifesta essere stata consuetudine frequente del padre e sua non solo di usare il veleno per vendicarsi contro agl’inimici o per assicurarsi de’ sospetti ma eziandio per scelerata cupidità di spogliare delle proprie facoltà le persone ricche, in cardinali e altri cortigiani, non avendo rispetto che da essi non avessino mai ricevuta offesa alcuna, come fu il cardinale molto ricco di Santo Angelo, ma né anche che gli fussino amicissimi e congiuntissimi, e alcuni di loro, come furono i cardinali di Capua e di Modona, stati utilissimi e fidatissimi ministri), narrasi adunque che avendo il Valentino mandati innanzi certi fiaschi di vino infetti di veleno, e avendogli fatti consegnare a un ministro non consapevole della cosa, con commissione che non gli desse ad alcuno, sopravenne per sorte il pontefice innanzi a l’ora della cena, e, vinto dalla sete e da’ caldi smisurati ch’erano, dimandò gli fusse dato da bere, ma perché non erano arrivate ancora di palazzo le provisioni per la cena, gli fu da quel ministro, che credeva riservarsi come vino più prezioso, dato da bere del vino che aveva mandato innanzi Valentino; il quale, sopragiugnendo mentre il padre beeva, si messe similmente a bere del medesimo vino. Concorse al corpo morto d’Alessandro in San Piero con incredibile allegrezza tutta Roma, non potendo saziarsi gli occhi d’alcuno di vedere spento un serpente che con la sua immoderata ambizione e pestifera perfidia, e con tutti gli esempli di orribile crudeltà di mostruosa libidine e di inaudita avarizia, vendendo senza distinzione le cose sacre e le profane, aveva attossicato tutto il mondo; e nondimeno era stato esaltato, con rarissima e quasi perpetua prosperità, dalla prima gioventù insino all’ultimo dì della vita sua, desiderando sempre cose grandissime e ottenendo più di quello desiderava. Esempio potente a confondere l’arroganza di coloro i quali, presumendosi di scorgere con la debolezza degli occhi umani la profondità de’ giudìci divini, affermano ciò che di prospero o di avverso avviene agli uomini procedere o da’ meriti o da’ demeriti loro: come se tutto dì non apparisse molti buoni essere vessati ingiustamente e molti di pravo animo essere esaltati indebitamente; o come se, altrimenti interpretando, si derogasse alla giustizia e alla potenza di Dio; la amplitudine della quale, non ristretta a’ termini brevi e presenti, in altro tempo e in altro luogo, con larga mano, con premi e con supplìci sempiterni, riconosce i giusti dagli ingiusti.

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Giuseppe Lorenzo Gatteri: Cesare Borgia lascia il Vaticano dopo la morte del padre (1877)

Ma ecco che nelle prospettive politiche che sembravano essere più favorevoli (come sono inutili e sbagliate le aspettative degli uomini), il papa Alessandro VI è immediatamente riportato come morto e dietro a lui il figlio, il duca di Valentino, allo stesso modo è portato da una vicina, vicino al palazzo pontificale, per ricrearsi del gran caldo. Il giorno successivo, il 18 agosto, è portato, ormai deceduto, com’è usanza per i pontefici nella chiesa di San Pietro, con la pelle nera, gonfio e trasformato in modo orrendo, segni inequivocabili di avvelenamento mentre il Valentino, sia per la giovane età e per aver preso immediatamente degli antidoti contro il veleno, riuscì a scampare, pur riportando per sempre una grave ed inguaribile infermità. Da subito si credette che tale infermità fosse stata determinata dal veleno e si racconta, secondo la fama che si diffondeva, il succedersi dei fatti in questo modo: il Valentino, invitato nella stessa cena alla quale era stato invitato il padre, avendo deciso di avvelenare nella propria vigna, Adriano Cardinale del Carneto, (perché si sa che era abitudine sua e del padre non solo di usare il veleno per uccidere nemici e per mettersi al sicuro da persone sospette, ma anche per delittuosa volontà di togliere beni alle persone ricche, specialmente verso cardinali e cortigiani, senza tener conto che coloro contro cui operavano non avevano ricevuto alcuna offesa, come accadde al ricchissimo cardinale veneto di Sant’Angelo, ma neanche che fossero molto amici ed intimi, come furono i cardinali di Capua e di Modena, molto utili e fidatissimi loro ministri). Si dice appunto che il duca di Valentino fece portare prima del suo arrivo fiaschi di vino infettati con il veleno, e li fece consegnare ad un ministro ignaro del fatto, con raccomandazione di non darlo da bere ad alcuno. Per caso il pontefice arrivò prima del figlio e, vinto dalla sete e dall’eccessivo caldo, domandò che gli fosse dato da bere, ma non essendo arrivati ancora le provviste per la cena, gli diede da bere il vino affidatogli dal Valentino, reputandolo vino di gran pregio. Valentino, giungendo mentre il padre beveva, cominciò, non sospettando fosse il “suo” vino, a berlo anche lui.  Accorse per vedere il cadavere del pontefice Alessandro nella chiesa di San Pietro tutta Roma, manifestando grande allegrezza, non potendo saziarsi dal vedere un serpente morto, che con la sua smisurata ambizione e micidiale perfidia e dagli atti di orribile crudeltà, infausta libidine e inaudita avidità, vendendo le cose sacre e profane, aveva avvelenato tutto il mondo; e nonostante ciò era stato esaltato con rara e quasi continua fortuna, dalla prima giovinezza sino all’ultimo delle sua vita, desiderando sempre il massimo ed ottenendo sempre di più. Esempio efficace a smentire l’arroganza di coloro che, avendo la presunzione di vedere con gli occhi degli uomini l’inafferrabilità dei giudizi divini, affermano che ciò che di fortuna o di sfortuna accade agli uomini derivi o dai loro meriti o dai loro demeriti, come se non si cogliesse continuamente che molti uomini giusti sia vessati dalla fortuna, mentre altri, di cattivo animo siano dalla stessa esaltati oppure come se, interpretando in modo diverso, disprezzassero la potenza e la giustizia di Dio, la grandezza delle quali, non si misura nel tempo breve dell’esistere, ma in altro luogo, con generosità, con premi e con eterne preghiere, riconosce i giusti dagli ingiusti.

Il passo qui offerto ci permette di confrontare la pagina machiavelliana da quella guicciardiniana su due aspetti fondamentali, avendo ambedue trattato il medesimo argomento:

  1. Machiavelli vede nella morte del pontefice e nella malattia del figlio, un fatto “politico”, in quanto non ha permesso al duca di Valentino di portare a compimento il suo progetto; Guicciardini vede nello stesso episodio un fatto storico, non esente da riflessione morale, sottolineando la contentezza del popolo romano per la morte di Alessandro VI;
  2. A dominare qui non è la storiografia di Tito Livio, che tante suggestioni hanno offerto per l’opera di Machiavelli, quanto quella tragica di Cornelio Tacito, che non sarà casualmente divenne lo storico di riferimento dalla metà del ‘500 sino a tutto il ‘600.

IL SACCO DI ROMA

Alloggiò Borbone con l’esercito, il quinto dí di maggio, ne’ Prati presso a Roma, con insolenza militare mandò uno trombetto a dimandare il passo al pontefice (ma per la città di Roma) per andare con l’esercito nel reame di Napoli, e la mattina seguente in su il fare del dí, deliberato o di morire o di vincere (perché certamente poca altra speranza restava alle cose sue), accostatosi al Borgo della banda del monte di Santo Spirito, cominciò una aspra battaglia; avendogli favoriti la fortuna nel fargli appresentare piú sicuramente, per beneficio di una folta nebbia che, levatasi innanzi al giorno, gli coperse insino a tanto si accostorno al luogo dove fu cominciata la battaglia. Nel principio della quale Borbone, spintosi innanzi a tutta la gente per ultima disperazione, non solo perché non ottenendo la vittoria non gli restava piú refugio alcuno ma perché vedeva i fanti tedeschi procedere con freddezza grande a dare l’assalto, ferito, nel principio dello assalto, di uno archibuso, cadde in terra morto. E nondimeno la morte sua non raffreddò l’ardore de’ soldati, anzi combattendo con grandissimo vigore, per spazio di due ore, entrorno finalmente nel Borgo; giovando loro non solamente la debolezza grandissima de’ ripari ma eziandio la mala resistenza che fu fatta dalla gente. Per la quale, come molte altre volte, si dimostrò a quegli che per gli esempli antichi non hanno ancora imparato le cose presenti, quanto sia differente la virtú degli uomini esercitati alla guerra agli eserciti nuovi congregati di turba collettizia, e alla moltitudine popolare: perché era alla difesa una parte della gioventú romana sotto i loro caporioni e bandiere del popolo; benché molti ghibellini e della fazione colonnese deliberassino o almanco non temessino la vittoria degli imperiali, sperando per il rispetto della fazione di non avere a essere offesi da loro; cosa che anche fece procedere la difesa piú freddamente. E nondimeno, perché è pure difficile espugnare le terre senza artiglieria, restorno morti circa mille fanti di quegli di fuora. I quali come si ebbeno aperta la via di entrare dentro, mettendosi ciascuno in manifestissima fuga, e molti concorrendo al Castello, restorono i borghi totalmente abbandonati in preda de’ vincitori; e il pontefice, che aspettava il successo nel palazzo di Vaticano, inteso gli inimici essere dentro, fuggí subito con molti cardinali nel Castello. Dove consultando se era da fermarsi quivi, o pure, per la via di Roma, accompagnati da’ cavalli leggieri della sua guardia, ridursi in luogo sicuro, destinato a essere esempio delle calamità che possono sopravenire a’ pontefici e anco quanto sia difficile a estinguere l’autorità e maestà loro, avuto nuove per Berardo da Padova, che fuggí dello esercito imperiale, della morte di Borbone e che tutta la gente, costernata per la morte del capitano, desiderava di fare accordo seco, mandato fuora a parlare co’ capi loro, lasciò indietro infelicemente il consiglio di partirsi; non stando egli e i suoi capitani manco irresoluti nelle provisioni del difendersi che fussino nelle espedizioni. Però il giorno medesimo gli spagnuoli, non avendo trovato né ordine né consiglio di difendere il Trastevere, non avuta resistenza alcuna, v’entrorono dentro; donde non trovando piú difficoltà, la sera medesima a ore ventitré, entrorono per ponte Sisto nella città di Roma: dove, da quegli in fuora che si confidavano nel nome della fazione, e da alcuni cardinali che per avere nome di avere seguitato le parti di Cesare credevano essere piú sicuri che gli altri, tutto il resto della corte e della città, come si fa ne’ casi tanto spaventosi, era in fuga e in confusione. Entrati dentro, cominciò ciascuno a discorrere tumultuosamente alla preda, non avendo rispetto non solo al nome degli amici né all’autorità e degnità de’ prelati, ma eziandio a’ templi a’ monasteri alle reliquie onorate dal concorso di tutto il mondo, e alle cose sagre. Però sarebbe impossibile non solo narrare ma quasi immaginarsi le calamità di quella città, destinata per ordine de’ cieli a somma grandezza ma eziandio a spesse direzioni; perché era l’anno…… che era stata saccheggiata da’ goti. Impossibile a narrare la grandezza della preda, essendovi accumulate tante ricchezze e tante cose preziose e rare, di cortigiani e di mercatanti; ma la fece ancora maggiore la qualità e numero grande de’ prigioni che si ebbeno a ricomperare con grossissime taglie: accumulando ancora la miseria e la infamia, che molti prelati presi da’ soldati, massime da’ fanti tedeschi, che per odio del nome della Chiesa romana erano crudeli e insolenti, erano in su bestie vili, con gli abiti e con le insegne delle loro dignità, menati a torno con grandissimo vilipendio per tutta Roma; molti, tormentati crudelissimamente, o morirono ne’ tormenti o trattati di sorte che, pagata che ebbono la taglia, finirono fra pochi dí la vita. Morirono, tra nella battaglia e nello impeto del sacco, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati i palazzi di tutti i cardinali (eziandio del cardinale Colonna che non era con l’esercito), eccetto quegli palazzi che, per salvare i mercatanti che vi erano rifuggiti con le robe loro e cosí le persone e le robe di molti altri, feciono grossissima imposizione in denari: e alcuni di quegli che composeno con gli spagnuoli furono poi o saccheggiati dai tedeschi o si ebbeno a ricomporre con loro. Compose la marchesana di Mantova il suo palazzo in cinquantaduemila ducati, che furono pagati da’ mercatanti e da altri che vi erano rifuggiti: de’ quali fu fama che don Ferrando suo figliuolo ne partecipasse di diecimila. Il cardinale di Siena: dedicato per antica eredità de’ suoi maggiori al nome imperiale, poiché ebbe composto sé e il suo palazzo con gli spagnuoli, fu fatto prigione da’ tedeschi; e si ebbe, poi che gli fu saccheggiato da loro il palazzo, e condotto in Borgo col capo nudo con molte pugna, a riscuotere da loro con cinquemila ducati. Quasi simile calamità patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta, che fatti prigioni da’ tedeschi pagorono la taglia, menati prima l’uno e l’altro di loro a processione per tutta Roma. I prelati e cortigiani spagnuoli e tedeschi, riputandosi sicuri dalla ingiuria delle loro nazioni, furono presi e trattati non manco acerbamente che gli altri. Sentivansi i gridi e urla miserabili delle donne romane e delle monache, condotte a torme da’ soldati per saziare la loro libidine: non potendo se non dirsi essere oscuri a’ mortali i giudizi di Dio, che comportasse che la castità famosa delle donne romane cadesse per forza in tanta bruttezza e miseria. Udivansi per tutto infiniti lamenti di quegli che erano miserabilmente tormentati, parte per astrignergli a fare la taglia parte per manifestare le robe ascoste. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le reliquie de’ santi, delle quali erano piene tutte le chiese, spogliate de’ loro ornamenti, erano gittate per terra; aggiugnendovi la barbarie tedesca infiniti vilipendi. E quello che avanzò alla preda de’ soldati (che furno le cose piú vili) tolseno poi i villani de’ Colonnesi, che venneno dentro. Pure il cardinale Colonna, che arrivò (credo) il dí seguente, salvò molte donne fuggite in casa sua. Ed era fama che, tra denari oro argento e gioie, fusse asceso il sacco a piú di uno milione di ducati, ma che di taglie avessino cavata ancora quantità molto maggiore.

Sacco di Roma (1527) - WikipediaJohannes Lingelbach: Il sacco di Roma

Il 5 maggio il Borbone prese alloggio in Prati, presso Roma, e con prepotenza militare inviò un araldo per chiedere al papa il permesso di attraversare il suo territorio (ma solo la città di Roma) per raggiungere con l’esercito il regno di Napoli, ed il giorno seguente all’alba, deciso o a morire o a vincere (perché non aveva altra speranza per portare a termine le sue operazioni), avvicinatosi alla città dalla parte del Monte Santo Spirito, cominciò una aspra lotta; avendo la fortuna dalla sua parte nel favorirli per avvicinarsi alle mura, scese una spessa nebbia che li nascose fino a che giunsero alle prime difese ormai colte di sorpresa. Al principio della battaglia  Borbone, fattosi avanti con tutti i suoi uomini come atto disperato, non solo perché non ottenendo la vittoria, non aveva alcun posto dove rifugiarsi, ma perchè la fanteria tedesca procedere con grande freddezza nel dare l’assalto, e lui stesso ferito, all’inizio dell’assalto, colpito da un archibugio, morì. Ma la sua morte non raffreddò l’impeto dei suoi uomini, anzi con grandissima vigorìa, dopo due ore di assalto, penetrarono in città, giovando loro non solo le deboli difesa, ma la scarsa resistenza fatta dalla popolazione. Questo fatto dimostra, come già è avvenuto moltissime altre volte, che attraverso gli esempi antichi non hanno imparato le cose presenti, e cioè quanto sia più efficace la forza esercitata da uomini usi alla guerra che nuovi eserciti composti da una folla raccogliticcia e dalla massa del popolo, perché c’erano alla difesa giovani romani sotto i loro comandanti e bandiere del popolo; inoltre c’erano anche i ghibellini e gente della fazione dei Colonna che desideravano o perlomeno non temevano la vittoria degli imperiali, sperando di non venir colpiti da loro, forse anche per questo la difesa combatteva più freddamente. E nonostante questo, perché è anche difficile espugnare le città senza artiglieria, ci furono circa mille fanti morti di assedianti. Quest’ultimi appena videro aperta una traccia per entrare dentro le mura, fecero sì che le persone assediate si mettessero immediatamente in fuga e molti di essi si diressero verso Castel Sant’Angelo, lasaciando così la città abbandonata completamente alla preda dei vincitori. Il pontefice, che aveva aspettato l’esito di vittoria dentro il palazzo vaticano, saputo che i nemici erano entrati in città, si rifigiò con molti cardinali all’interno di Castel Sant’Angelo. Qui, discutendo con i suoi se fosse necessario fermarsi lì o viceversa mettersi al sicuro attraversando la città con la sua guardia di cavalleria leggera, destinato così a diventare l’esempio delle disgrazie che possono capitare ai pontefici ed anche quanto sia difficile stinguere la loro autorità e potere, avute notizie da Bernardo da Padova, scappato dall’esercito imperiale, che il Borbone era morto e che l’intero esercito, costernato, desiderava fare un accordo con lui, uscito fuori per parlare con loro, lasciò perdere l’intenzione di partire, dato che egli e i suoi capitani non erano meno indecisi nei provvedimenti di difesa di quanto fossero nelle loro azioni. Perciò lo stesso giorno gli spagnoli, non trovando alcuno con l’ordine o la decisione di difendere Trastevere, non avendo avuta alcuna resistenza, entrarono; quindi non essendoci alcuna difficoltà, la sera stessa alle 23 entrarono attraverso ponte Sisto a Roma, dove, ad eccezione di coloro che confidavano nell’essere ghibellini e di quei cardinali che rivendicavano d’esser dalla parte dell’imperatore, tutto il resto della corete pentificia e della città, come succede nelle grandi calamità, era in fuga e in confusione. Una volta dentro, cominciarono tutti a correre alla ricerca di preda, non avendo rispetto alcuno non solo di coloro che si dichiaravano amici né dell’autorità né della dignità dei prelati, ma anche delle chiese, dei monasteri, delle reliquie a cui erano accorsi i fedeli di tutto il mondo e di tutte le cose sacre. Perciò sarebbe impossibile non solo raccontare, ma anche immaginare lo sfacelo di quella città, destinata per volere di Dio a somma grandezza ma anche a frequenti devastazioni, perché correva l’anno … che era stata saccheggiata dai goti. Impossibile narrare la magnificenza della preda, essendo state acculumate tantissime ricchezze e molissimi oggetti preziosi e rari, di uomini di corte e di mercanti; ma la preda divenne ancora maggiore  grazie alla qualità e al numero delle persone catturate che di dovette riscattare con onerosissime taglie, aggiungendo così alla loro condizione miseria ed infamia, tanto che molti prelati catturati dai soldati, soprattutto dalla fanteria tedesca, che, per odio della Chiesa romana, era insolente e crudele, li aveva messi su vili animali, con abiti ed insegne del loro grado e condotti in giro per la città con grandissima derisione. Molto di essi, dopo aver subito tormenti crudelissimi, o nel subirli morirono o, dopo aver pagato il loro riscatto, una volta liberati morirono dopo pochi giorni. Morirono, tra la battaglia e il sacco della città, circa quattromila uomini. Furono saccheggiati tutti i palazzi dei cardinali (anche del cardinale Colonna che non stava nell’esercito della lega), eccetto quei palazzi occupati da mercanti che, per salvare la loro roba insieme ad altre persone e alle loro cose, concordarono un’enorme taglia in denaro; ed alcuni di loro che si erano concordati con gli spagnoli furono poi saccheggiati dai tedeschi o dovettero concordare una nuova taglia con quest’ultimi. La marchesa di Mantova (Isabella d’Este) patteggiò il suo palazzo per cinquantaduemila ducati, che furono pagati dai mercanti e da altri che vi si erano rifugiati, fra i quali si dice che don Ferrando, suo figlio, vi partecipasse con diecimila. Il cardinale di Siena (Giovanni Piccolomini) devoto per antica tradizione dei suoi predecessori alla parte imperiale, poiché si fu accordato per sé e per il suo palazzo con gli spagnoli, fu fatto prigioniero dai tedeschi e quindi, dopo avergli saccheggiato il palazzo, fu condotto in città con molte percosse e capo nudo e costretto a riscattarsi da loro con cinquemila ducati. Simili disgrazie patirono il cardinale della Minerva e il Ponzetta che, catturati dai tedeschi, pagarono la taglia dopo esser stati condotti prima in giro per tutta Roma. I preti e i cortigiani spagnoli e tedeschi, sicuri per la loro nazionalità, furono catturati e trattati con non meno crudeltà. Si sentivano le grida e le urla delle donne romane e delle monache condotte a gruppi dai soldati sulle quali sfogavano la loro libidine: non potendo se non dirsi misteriosi agli occhi degli uomini il giudizio di Dio, che abbia permesso che la famosa pudicizia delle donne romane cadesse in così orrenda abiezione e miseria. Si udivano dappertutto gli infiniti lamenti di coloro che venivano torturati, parte per estorcergli una taglia, parte per farsi dire dove nascondevano i tesori. Tutte le cose sacre, i sacramenti e le relique dei santi che erano nelle chiese, private dei loro decori, erano sparse in terra; si aggiunga l’irreligiosità dei tedeschi e le infinite bestemmie. E quello che restò della preda dei soldati (che erano le cose di minor valore) rubarono poi i contadini dei Colonna che in seguito entrarono in città. Lo stesso cardinale Colonna, che arrivò il giorno dopo, salvò molte donne fuggite in casa sua. Era fama che tra oro argenti e gioielli il sacco fosse ammontato a più di un milione di ducati, ma che con le taglie fosse stata ricavata una cifra molto maggiore.

Guicciardini partecipò, come consigliere di Clemente VII, alla difesa della città di Roma e quindi venne ritenuto in parte responsabile del sacco della città da partte delle truppe imperiali di Carlo V. Il brano, condotto con estrema “impersonalità” vuole tuttavia mostrare che il fallimento era dovuto a più ragioni, alcune delle quali del tutto casuali – contrariamente alle teorie machiavelliane:

  • il comportamento del Borbone, spostatosi troppo lontano dai rifornimenti;
  • l’improvviso infittirsi della nebbia che non aveva reso possibile un efficace avvistamento dell’arrivo del nemico;
  • il rifiuto del papa di salvarsi.
  • l’impreparazione della difesa – ancora contro le teorie dell’autore del Principe rispetto alle armi proprie – dovuto all’approssimazione e al male armamento degli eserciti cittadini.

Tuttavia possiamo notare come egli descriva da una parte l’etrema indecisione papale, come a rafforzare la teoria secondo la quale egli cerchi di capire psicologicamente gli atteggiamenti dei protagonisti, dall’altra la precisione quasi “ragioneristica” attraverso la quale descrive le perdite in denaro dovute al sacco subito. Certo quest’evento produsse un vero e proprio shock nell’opinione pubblica contemporanea, ma lui riesce a “impressionarci” nascondendo la propria emotività.

 

NICCOLO’ MACHIAVELLI

File:Portrait of Niccolò Machiavelli by Santi di Tito.jpg - Wikipedia

Santi di Tito: Ritratto di Machiavelli (seconda metà XVI sec.)

Prima di affrontare il discorso sul grande intellettuale fiorentino, è necessario, proprio per il suo pensiero politico volto alla sua città e all’Italia intera, porre un accento particolare sulle vicende storico-politiche della capitale toscana:

Firenze tra la Repubblica e il Principato

Se storicamente ci occupiamo in modo particolare della città di Firenze è per due motivi:

  • E’ proprio il principe della città italiana ad aver costituito il perno sul quale poggiava tutta la politica italiana per un cinquantennio circa: è logico che quindi fu essa a subire le maggiori conseguenze ed influenze della storia cinquecentesca e a sperimentare varie forme di governo;
  • In questa città, proprio per ciò che si è detto, hanno operato i più grandi pensatori politici italiani che tanta influenza avranno per la filosofia e la letteratura europea.

File:Moretto da Brescia - Portrait of a Dominican, Presumed to be Girolamo Savonarola - WGA16226.jpg - Wikimedia Commons

Moretto da Brescia: Giacomo Savonarola

Dopo la morte di Lorenzo il Magnifico (1492), resse il governo di Firenze suo figlio Pietro che certo non aveva il carisma né le capacità politiche del padre. Quando Carlo VIII scese in Italia, l’accondiscendenza mostrata dal giovane duca, che ne accettò le esose condizioni, fece infuriare la popolazione che lo mandò via, ed è così che si instaurò a Firenze il governo repubblicano, ispirato dal frate Girolamo Savonarola, che, animato ad un’idea di libertà democratica concepita come libertà cristiana dal peccato, cercò di far convivere l’elemento religioso con l’elemento politico. I seguaci del frate (“Piagnoni”), con la loro esasperata censura verso tutto ciò che appariva “mondano”, si attirano le antipatie degli aristocratici e dei banchieri che, alleatisi con Alessandro VI, papa Borgia, stanco degli attacchi del domenicano e dopo averlo scomunicato, riuscirono a mandarlo al rogo nel 1498. Dopo lunghi quattro anni di conflitti tra le diverse forze sociali della città, il potere venne affidato a un gonfaloniere di giustizia Pier Soderini (1502) che rimarrà in carica fino al 1512, quando le truppe spagnole, dopo aver sconfitto Luigi XII, cui Soderini si era alleato, rimetteranno al potere la famiglia dei Medici. La situazione nei primi anni del ’500 per Firenze è assai turbolenta: la città vive il contrasto fra le grandi potenze (Francia e Spagna) interessate a contendersi il potere in un’Italia divisa e debole e con un papato, guidato da Alessandro VI e poi da Giulio II che intromettendosi tra i due contendenti, da una parte tenta di allargare il suo stato e d’imporre la sua voce, dall’altra esaspera una situazione già di per se stessa difficile. A tale scopo non è senza importanza, per la lettura che sulla sua figura farà Machiavelli, l’avventura del duca di Valentino, figlio di Alessandro VI, con il cui aiuto cercherà di creare un forte stato nell’Italia centrale. Le sorti della città di Firenze, che dopo 15 anni di guerra era riuscita a conquistare Pisa (1509), sono legate a Luigi XII, re di Francia, con cui è alleata e contro cui si contrappone la lega santa promossa da Giulio II con Venezia, Spagna, Inghilterra; battuto dalle soverchianti forze nemiche, difese dalle truppe “cittadine” organizzate da Machiavelli, Pier Soderini deve lasciare il posto al ritorno mediceo (1512).

Ridolfo Ghirlandaio | PORTRAIT OF PIERO SODERINI (1450-1522) | MutualArt

Rodolfo Ghirlandaio: Pier Soderini

Sul soglio pontificio viene posto un Medici (Leone X), quando Carlo V, re di Spagna, viene eletto imperatore (1519); la lotta tra Francia e Spagna riprende vigore: il nuovo re francese, Francesco I, coalizza intorno a sé Venezia, Genova, Firenze, ed il nuovo papa Clemente VII (sempre della famiglia dei Medici), che rovescia la precedente alleanza; la “calata dei lanzichenecchi”, le truppe imperiali di Carlo V, provoca il “sacco di Roma” (1527): l’umiliazione papale, fa rinascere la “repubblica” fiorentina dalla vita assai effimera (tre anni). La pace di Cateau-Cambresis (1530) sancisce la vittoria imperiale; Firenze viene cinta d’assedio e quindi viene ripristinato il potere mediceo con il duca Alessandro De’ Medici, la cui politica, come quella dell’intera Italia, orbiterà ormai sotto l’influenza di quella spagnola.

Biografia

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469, da una famiglia borghese: il padre, pur essendo notaio, era di modeste origini, mentre la madre Barolomea de Nelli, era di profonda religiosità. Non sappiamo molto della sua giovinezza, se non che ricevette un’educazione umanistica, ma fortemente antispiritualistica: non per niente tra gli autori latini preferiti vi è Lucrezio, autore del De Rerum Natura, con cui porta l’epicureismo a Roma. Ha 25 anni quando assiste alla discesa di Carlo VIII e alla conseguente cacciata dei Medici dalla città. Dopo un po’ appare la sua prima testimonianza di una visione politica, che risale al 1498, quando in una lettera critica aspramente il frate Savonarola. Alla morte del frate, nel 1498, inizia la sua attività politica, sotto il governatorato di Pier Soderini; egli fu nominato segretario della seconda cancelleria (politica interna della città). Inizia un’intensa attività diplomatica che lo porterà a visitare la Francia (1500, 1504, 1510), con la quale Firenze ha stretto alleanza, i territori di Massimiliano d’Asburgo (1508) ed il duca di Valentino (1502). Di questi viaggi sono testimonianza i Ritratti di cose di Francia, Ritratti di cose di Magna nonché di un volumetto Del modo tenuto dal duca di Valentino nell’uccidere Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini in Senigallia. Al rientro dei Medici (1513), accusato per la sua attività filofrancese con Pier Soderini, sospettato di aver partecipato ad una congiura antimedicea, imprigionato per quindici giorni, (liberato per l’elezione di Leone X) viene esonerato da tutte le cariche e si rifugia all’Albergaccio, sua residenza in campagna, dove redige i suoi capolavori Il principe, Dialogo sopra la prima deca di Tito Livio e la commedia La Mandragola. Dal 1516 frequenta gli Orti Oricellari, i cui partecipanti sono d’orientamento repubblicano e nel 1519 ricomincia a interessarsi della politica fiorentina per incarico di Giuliano De’ Medici (futuro Clemente VII), per invito del quale scriverà le Istorie fiorentine.

File:Angelo Bronzino - Portrait of Pope Clement VII - WGA3272.jpg - Wikipedia

Sebastiano del Piombo: Clemente VII

Una volta divenuto papa, quest’ultimo gli revocherà l’interdizione a ricoprire pubblici uffici e ne 1527, per l’appressarsi di Carlo V, gli viene affidato l’incarico di rinforzare le difese della città. Dopo il sacco di Roma, a Firenze viene ripristinata la repubblica, ma Machiavelli viene osservato con sospetto per l’aiuto dato al papa mediceo, così deluso, muore nel 1527.

Epistolario

L’importanza dell’esperienza culturale di Machiavelli è talmente vasta da influenzare l’intero pensiero filosofico e letterario. I critici per definire il suo modo di concepire la realtà politica e per stigmatizzarlo, utilizzarono addirittura dal suo nome un aggettivo, “machiavellismo”, ad indicare un atteggiamento incline ad ottenere un fine con qualsiasi mezzo. E’ evidente che tale visione, riferita all’intellettuale fiorentino è riduttiva, ma oggi ci si riferisce per indicare un atteggiamento politicamente spavaldo, certo oggi un po’ attenuato, ma non così tanto da non percepirne la sua resistenza ed importanza. Ma per capire il letterato, bisogna capire l’uomo. L’opera che si avvicina a tale compito è certamente l’Epistolario. Tale opera in realtà non esiste: nessun progetto da parte dell’autore di pubblicare lettere. Tuttavia la loro raccolta ci permette di cogliere l’aspetto più autentico di Machiavelli. Il gruppo di lettere più numeroso riguarda quelle indirizzate a Francesco Vettori, dopo la sua esclusione dall’azione politica. La più importante è quella del 10 dicembre 1513; a Francesco che chiedeva ragguagli circa il suo modo di vivere, così risponde Machiavelli:

LETTERA AL VETTORI

Magnifico oratori Florentino Francisco Vectori apud Summum Pontificem et benefactori suo. Romae

Magnifico ambasciatore. Tarde non furon mai grazie divine*. Dico questo, perché mi pareva haver perduta no, ma smarrita la grazia vostra, sendo stato voi assai tempo senza scrivermi; ed ero dubbio donde potessi nascere la cagione. E di tutte quelle mi venivono nella mente tenevo poco conto, salvo che di quella quando io dubitavo non vi havessi ritirato da scrivermi, perché vi fussi suto scritto che io non fussi buon massaio delle vostre lettere; e io sapevo che, da Filippo e Pagolo in fuora, altri per mio conto non le haveva viste. Hònne rihaùto per l’ultima vostra de’ 23 del passato, dove io resto contentissimo vedere quanto ordinatamente e quietamente voi esercitate cotesto ufizio publico; e io vi conforto a seguire così, perché chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado. E poiché la fortuna vuol fare ogni cosa, ella si vuole lasciarla fare, stare quieto e non le dare briga, e aspettar tempo che la lasci fare qualche cosa agl’huomini; e all’hora starà bene a voi durare più fatica, vegliar più le cose, e a me partirmi di villa e dire: eccomi. Non posso pertanto, volendo rendere pari grazie, dirvi in questa mia lettera altro che qual sia la vita mia; e se voi giudicate che sia a barattarla con la vostra, io sarò contento mutarla.
Io mi sto in villa; e poi che seguirono quelli miei ultimi casi, non sono stato, ad accozzarli tutti, venti dí a Firenze. Ho insino a qui uccellato a’ tordi di mia mano. Levavomi innanzi dí, impaniavo, andavone oltre con un fascio di gabbie addosso, che parevo el Geta quando e’ tornava dal porto con i libri di Amphitrione; pigliavo el meno dua, el più sei tordi. E cosí stetti tutto settembre. Di poi questo badalucco, ancoraché dispettoso e strano, è mancato con mio dispiacere: e quale la vita mia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole, e vòmmene in un mio bosco che io fo tagliare, dove sto dua ore a rivedere l’opere del giorno passato, e a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mani o fra loro o co’ vicini. E circa questo bosco io vi harei a dire mille belle cose che mi sono intervenute, e con Frosino da Panzano e con altri che voleano di queste legne. E Frosino in spezie mandò per certe cataste senza dirmi nulla; e al pagamento, mi voleva rattenere dieci lire, che dice aveva havere da me quattro anni sono, che mi vinse a cricca in casa Antonio Guicciardini. Io cominciai a fare el diavolo, volevo accusare el vetturale, che vi era ito per esse, per ladro. Tandem Giovanni Machiavelli vi entrò di mezzo, e ci pose d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso del Bene e certi altri cittadini, quando quella tramontana soffiava, ognuno me ne prese una catasta. Io promessi a tutti; e manda’ne una a Tommaso, la quale tornò a Firenze per metà, perché a rizzarla vi era lui, la moglie, la fante, i figlioli, che pareva el Gaburra quando el giovedí con quelli suoi garzoni bastona un bue. Dimodoché, veduto in chi era guadagno, ho detto agli altri che io non ho più legne; e tutti ne hanno fatto capo grosso, e in specie Batista, che connumera questa tra le altre sciagure di Prato.
Partitomi del bosco, io me ne vo ad una fonte, e di quivi in un mio uccellare. Ho un libro sotto, o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili: leggo quelle loro amorose passioni, e quelli loro amori ricordomi de’ mia: gòdomi un pezzo in questo pensiero. Transferiscomi poi in sulla strada, nell’hosteria; parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de’ paesi loro; intendo varie cose, e noto varii gusti e diverse fantasie d’huomini. Viene in questo mentre l’hora del desinare, dove con la mia brigata mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell’hosteria: quivi è l’hoste, per l’ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose; e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi.
Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo havere inteso – io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e’ si acquistono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono. E se vi piacque mai alcuno mio ghiribizzo, questo non vi doverrebbe dispiacere; e a un principe, e massime a un principe nuovo, doverrebbe essere accetto: però io lo indirizzo alla Magnificentia di Giuliano. Filippo Casavecchia l’ha visto; vi potrà ragguagliare in parte e della cosa in sé e de’ ragionamenti ho hauto seco, ancora che tutta volta io l’ingrasso e ripulisco. Voi vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita, e venissi a godere con voi la vostra. Io lo farò in ogni modo; ma quello che mi tenta hora è certe mie faccende, che fra sei settimane l’harò fatte. Quello che mi fa star dubbio è, che sono costí quelli Soderini, e quali sarei forzato, venendo costí, visitarli e parlar loro. Dubiterei che alla tornata mia io non credessi scavalcare a casa, e scavalcassi nel Bargiello; perché, ancora che questo stato habbia grandissimi fondamenti e gran securità, tamen egli è nuovo, e per questo sospettoso; né manca di saccenti, che per parere, come Pagolo Bertini, metterebbono altri a scotto, e lascierebbono el pensiero a me. Pregovi mi solviate questa paura, e poi verrò in fra el tempo detto a trovarvi a ogni modo.
Io ho ragionato con Filippo di questo mio opuscolo, se gli era ben darlo o non lo dare; e, sendo ben darlo, se gli era bene che io lo portassi, o che io ve lo mandassi. Il non lo dare mi faceva dubitare che da Giuliano e’ non fussi, non che altro, letto; e che questo Ardinghelli si facessi onore di questa ultima mia fatica. El darlo mi faceva la necessità che mi caccia, perché io mi logoro, e lungo tempo non posso stare cosí che io non diventi per povertà contennendo. Appresso al desiderio harei che questi signori Medici mi cominciassino adoperare, se dovessino cominciare a farmi voltolare un sasso; perché, se poi io non me gli guadagnassi, io mi dorrei di me; e per questa cosa, quando la fussi letta, si vedrebbe che quindici anni, che io sono stato a studio all’arte dello stato, non gli ho né dormiti né giuocati; e doverrebbe ciascheduno haver caro servirsi di uno che alle spese di altri fussi pieno di esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, havendo sempre observato la fede, io non debbo imparare hora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatré anni, che io ho, non debbe poter mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia. Desidererei adunque che voi ancora mi scrivessi quello che sopra questa materia vi paia. E a voi mi raccomando. Sis felix.

Die 10 Decembris 1513.

 * Verso di Petrarca dai “Trionfi”

Lettere di Niccolò Machiavelli che si pubblicano per la prima volta. by MACHIAVELLI, Niccolò | LIBRERIA PAOLO BONGIORNO

Edizione di alcune lettere di Machiavelli pubblicate in Firenze nel 1767

A Francesco Vettori, magnifico ambasciatore fiorentino presso il Sommo Pontefice, proprio benefattore. Roma
Le grazie ricevute da Dio, anche se arrivano tardi, sono sempre gradite. Dico questo perché mi sembrava di aver non perduto, ma smarrito la vostra benevolenza perché siete stato tanto tempo senza scrivermi e mi chiedevo quale potesse essere il motivo. E tra tutti quelli che mi venivano in mente, tenevo per buono solo quello che mi convinceva di più, e cioè che vi fosse stato scritto che io non ero stato un buon custode delle vostre lettere, ma in realtà io non le ho mostrate a nessuno, tranne che a Filippo e Pagolo.
Ho riavuto il piacere della vostra benevolenza con la lettera del giorno 23 (di Novembre) in cui ho letto che svolgete il vostro incarico (di ambasciatore) in modo tranquillo e pacifico e io vi invito a continuare in questo modo perché chi dimentica il proprio comodo per fare il comodo degli altri perde il proprio e non gli viene nemmeno detto grazie.
E siccome la Fortuna vuole fare i suoi comodi, è meglio lasciarla stare e non contrastarla, aspettando che essa permetta agli uomini di agire in qualche modo e allora voi dovrete lavorare di più, stare più attento e io sarò pronto a dirvi “Eccomi”.
Stando così le cose, non posso far altro, per rendervi il favore che mi avete fatto (raccontandomi della vostra vita attuale), che raccontarvi come trascorro le mie giornate e se voi pensate che la mia vita possa essere scambiata con la vostra, io sarò contento di farlo.
Io sto in paese, e, dopo esser stato accusato di aver partecipato ad una congiura contro i Medici, non sono stato a Firenze, se li dovessi contare tutti, più di venti giorni. Fino ad oggi sono andato a caccia di tordi, mi sono alzato all’alba, ho preparato le panie, e sono andato con un fascio di gabbie addosso, che sembravo il Geta quando porta i libri del suo padrone Anfitrione; prendevo almeno due o al massimo sei tordi. Così trascorsi il tempo per tutto Settembre; poi questo passatempo, sebbene dispettoso e strano alle mie inclinazioni, è terminato con grande dispiacere, e quale sia la mia vita ora vi dirò. Mi alzo con il sole e vado in un mio bosco che faccio tagliare, quindi sto due ore a rivedere i lavori del giorno precedente, e a parlare con i tagliatori che hanno sempre qualche problema tra loro o con i loro vicini. E riguardo questo bosco io avrei mille cose che mi sono accadute da dirvi e con Frosino da Panzano e con altri che volevano acquistare questa legna, e soprattutto Frosino che è venuto a prenderne quattro cataste senza chiedermi nulla, e quando doveva pagarmi, voleva trattenermi dieci lire, in quanto afferma che dovevo restituirgliele dato che le aveva vinte a carte a casa di Antonio Guicciardini. Cominciai a fare il diavolo a quattro, volevo accusare il vetturale che era venuto a prenderle per ladro, infine intervenne Giovanni Machiavelli e ci mise d’accordo. Batista Guicciardini, Filippo Ginori, Tommaso Del Bene, quando cominciò il freddo ognuno se ne prese una catasta, e ne mandai una anche a Tommaso, la quale arrivò a Firenze che sembrava la metà, perché a stringerla c’era lui, la moglie, il servo, che sembrava il Guburra quando il giovedì con tutti i suoi operai bastona un bue. Quindi, visto che il guadagno era poco, ho mandato a dire che non avevo più legna da vendere, e tutti se ne sono lamentati e soprattutto Battista che annovera questa tra le altre sciagure di Prato.
Quando mi allontano dal bosco, me ne vado ad una fonte e qui in un luogo riservato alla caccia d’uccelli, mi porto un libro, o Dante, o Petrarca, o uno di quei poeti elegiaci latini, Tibullo o Ovidio e simili: leggo le loro passioni e le loro storie d’amore, mi ricordo delle mie e godo per un attimo in questo pensiero. Mi trasferisco poi nella strada verso l’osteria, parlo con quelli che passano, domando notizie dei loro paesi, ascolto varie cose e annoto le diverse e straordinarie fantasie degli uomini. Nel mentre giunge l’ora di cena, dove con la mia famiglia mangio ciò che la mia povera fattoria e la piccola rendita permette. Dopo mangiato torno all’osteria. Qui, come al solito, c’è l’oste, il macellaio, un mugnaio e due fornai. Con loro io m’incanaglisco per tutto il tempo giocando a tric e trac, e nascono mille contese e per lo più si litiga per un soldo e le nostre urla si sentono fino a San Casciano. E così, rivoltandomi in mezzo a questi pidocchi tengo il cervello in esercizio e sfogo la malignità della mia sorte, contento che mi calpesti in questo modo, per vedere infine se riesco a vergognarmi.
Venuta la sera, mi ritiro in casa, ed entro nel mio studio, e sulla porta mi spoglio di quella veste quotidiana piena di fango e mi vesto con panni reali e adatti alle corti e rivestito con dignità entro nelle corti degli uomini antichi dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi nutro di quel cibo che solo è mio ed io sono nato per lui, dove non mi vergogno di parlare con loro, e quelli, per il loro alto concetto di humanitas mi rispondono e per quattro ore non provo noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non ho paura della morte. Mi immergo tutto in loro. E siccome Dante ha scritto che non vi è conoscenza senza annotare ciò che si è capito – ho fatto capitale delle loro conversazioni e ho scritto un piccolo libro De principatibus dove io mi profondo completamente in questo argomento, trattando di cosa è un principato, di quali specie essi siano, come si conquistano, come si mantengono, perché si perdono; e se avete trovato piacere per qualche mio scritto, questo dovrebbe risultarvi gradito, perciò lo indirizzo alla Magnificenza di Giuliano de’ Medici. Filippo Casavecchia l’ha letto; vi potrà pertanto ragguagliare in parte sul contenuto e sul soggetto stesso e dei ragionamenti intorno ad esso che ho avuto con lui, sebbene ancora lo continui a rivedere e a limare. Tu vorresti, magnifico ambasciatore, che io lasciassi questa vita e venissi a stare bene da voi. Tenterò di farlo, ma quello che mi trattiene ora sono alcuni impegni che sbrigherò entro sei settimane. Quello che mi lascia dubbioso è che lì, dove siete voi, vi sono i Soderini e mi sentirei in obbligo di andare a trovarli e dialogare con loro. Temo che, quando tornerò a Firenze, non attraverserò il cancello di casa mia, ma del carcere del Bargello, perché, sebbene questo Stato poggi su buone fondamenta e gran sicurezza, tuttavia è nuovo e per questo sospettoso, né vi mancano dei saccenti che per apparire, come Pagolo Bertini, metterebbero qualcuno in carcere, facendomi pagare il conto. Se voi mi scioglierete da questo timore, verrò certamente, come ho detto, a trovarvi.
Ho ragionato con Filippo di questo mio libretto, se era opportuno consegnarlo o meno e se dovesse essere dato, se era giusto che io lo consegnassi direttamente o lo facessi consegnare. Il non darlo personalmente mi fa dubitare sul fatto che Giuliano lo leggesse e che Ardinghelli (colui che lo dovrebbe consegnare) si facesse bello di questa mia fatica. Il darlo di persona mi spinge la necessità, perché io mi logoro, e che non diventi per povertà spregevole. Avrei inoltre il desiderio che questi signori Medici cominciassero ad adoperarmi, foss’anche dovessi rotolare un sasso, perché se non dovessi guadagnare quello per cui mi adopero, mi dorrei con me stesso, e per questo libretto, quando fosse letto, si vedrebbe che quindici anni in cui sono stato in politica non ho né dormito né giocato e dovrebbe ciascuno gradire di servirsi di uno che ha accumulato tanta esperienza nel regime precedente. E della mia fedeltà non si dovrebbe dubitare, perché l’ho sempre osservata e non devo imparare ora a romperla; chi è stato buono e fedele per quarantatré anni, non può mutare la sua natura, e della mia fedeltà e bontà ne è testimonianza la mia povertà. Desidererei dunque che voi mi scriveste le vostre impressioni su quanto vi ho detto. Mi raccomando a voi. Siate felice.
10 Dicembre1513

San Casciano Val di Pesa: arte e storia nel Chianti Classico

Particolare della casa di Machiavelli in San Casciano, oggi albergo e ristorante 

Sin dalla prima lettura notiamo alcuni elementi d’estrema importanza per la comprensione del pensiero machiavelliano, partendo proprio dal primo paragrafo. In esso si colgono due aspetti, il primo riferito alla concezione pessimistica dell’uomo, il secondo alla fortuna: dice infatti Machiavelli chi lascia i sua comodi per li comodi d’altri, e’ perde e’ sua, e di quelli non li è saputo grado, lasciando intendere l’ingratitudine verso colui che dedica ogni suo sforzo per aiutare altri e non riceverne nemmeno gratitudine dove sembra riecheggiare il detto latino di Plauto (nell’Asinaria) ripreso dal filosofo Hobbes homo hominis lupus. O ancora il concetto di fortuna, centrale per la sua speculazione, in cui rivendica la sua imperscrutabilità ma allo stesso la capacità dell’uomo, laddove gli venga offerta l’occasione, per agire.

Nella descrizione della giornata invece, che occupa la seconda sequenza, il Machiavelli descrive le sue attività sia quotidiane che culturali: la mattina nel bosco a cacciare e poi perdersi tra le sue “questioni” economiche come venditore di legna. Sembrerebbe quasi sminuirsi, ma seppure lui, uomo che è stato a contatto con i più grandi protagonisti della storia europea, si perde in discussioni di poco conto, non può fare a meno di notare gli atteggiamenti umani, la cui conoscenza è fondamentale per la sua speculazione politica. Quindi pausa con la lettura di autori elegiaci e d’amore: ecco che la letteratura classica, sebbene per lui “minore”, serva a lui per capire e riflettere su se stesso, non diversamente da come farà con quella che Machiavelli considererà “maggiore”. Quindi il ritorno ad una quotidianità che comincia “nel cercare le fonti per elaborare il suo pensiero politico”, poi più degradata, dove all’homo economicus si sostuisce, oserei dire, l’istinto quasi animale, che non tollera la sopraffazione nemmeno se essa deriva da un gioco. Ma tale degradazione serve quasi a fare da contrasto col climax “narrativo dell’epistola”.

File:Niccolo Machiavelli uffizi.jpg - Wikipedia

Statua di Machiavelli a Firenze

Tale è la terza sequenza in cui egli ci narra il suo rapporto con i grandi classici, gli storici soprattutto. E’ quasi un passo teatrale: l’uomo che si mette in abiti “rigorosi” e alti, come alti sono i personaggi con cui entra a colloquio, perché andando alla ricerca del comportamento umano, egli trova le risposte nelle grandi azioni che gli uomini del passato hanno compiuto, ma che lui vorrebbe fossero ancora “modelli” per gli uomini di oggi ed è per questo che, come diligente scolaro, ha potuto scrivere Il principe che dovrà dare a Giuliano de’ Medici.

Nell’ultima parte della lettera, quella di doverla consegnare personalmente o tramite emissario si misura tutta la capacità machiavellica di andare dietro la realtà effettuale delle cose e quindi, una volta presone atto, decidere sul da fare (così come dovrebbe fare un principe).

Ma ci accora l’ultima richiesta che esula dall’opportunità “politica” e che individua in Machiavelli una vera e propria passione per l’arte politica che egli ha individuato, non ne può fare a meno: la vera prigione o il vero esilio, per lui, è l’inattività.

Opere minori

Le opere minori possono individuarsi in ufficiali, quali legazioni e dispacci per il governo oppure in brevi scritti politici in cui il nostro individua per la Repubblica alcuni aspetti utili per la sue scelte governative. A tale produzione ci piace ricordare quelle prettamente operative come Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati (1503) o, più tarde le riflessioni sulle grandi potenze europee: Rapporto delle cose della Magna (1508) e Ritratto delle cose di Francia (1510), il cui studio permette a Machiavelli d’individuare nel paese transalpino, unito e forte, un modello positivo, nell’Alemagna, per il frazionamenti politico, uno negativo.

Cesare Borgia - Wikipedia

Altobello Melone: Presunto ritratto di Cesare Borgia

Tra queste ci piace ricordarne una: nell’opera principale, pubblicata nel 1513, il Machiavelli individua nel duca di Valentino un modello di un moderno principe, capace di andare oltre la morale al fine di costruirsi uno stato. Tale idea al pensatore fiorentino venne quando fu mandato dal governo a Senigallia per seguire gli accadimenti che dovevano portare alla riappacificazione tra coloro che si erano ribellati al suo dominio. Tale esperienza Machiavelli la traduce in un piccolo testo Del modo tenuto dal duca di Valentino nell’uccidere Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsini in Senigallia, in cui descrive che, nel 1502, il duca Valentino Borgia, che ha costruito dal nulla uno stato molto potente, minaccia Bologna, governata da Giovanni Bentivoglio, con lo scopo di portarla sotto il suo dominio e renderla capitale del ducato di Romagna. Questa espansione, rapidissima e inarrestabile, preoccupa non solo gli avversari ma anche gli alleati. Così le potenti famiglie degli Orsini e dei Vitelli, che fino a quel momento avevano appoggiato il Valentino, organizzano un incontro nel castello della Magione, sul lago Trasimeno a cui partecipano il cardinale Giambattista Orsini, il capitano di ventura Vitellozzo Vitelli e i condottieri Olivierotto da Fermo, Paolo e Francesco, duca di Gavinana – tutti al soldo del Valentino – Giampaolo Baglioni tiranno di Perugia e Antonio da Venafro per conto della città di Siena. I congiurati stabiliscono di proteggere Bologna e di allearsi con i fiorentini, mandando in un luogo e nell’altro loro ambasciatori promettendo aiuto ai bolognesi spingendo i fiorentini ad unirsi per combattere il nemico comune. Alla congiura del Magione seguono numerose ribellioni: il Valentino sembra in pericolo, ma poi, con la rapidità che lo caratterizza, riesce ad avere la meglio sui rivoltosi. Riportato l’ordine, annuncia che si recherà a Senigallia per incontrare i congiurati e giungere a una pacificazione. Vitellozzo e i suoi compagni, protagonisti di un dramma ineluttabile di cui hanno il presentimento, vanno incontro al loro destino senza alcuna possibilità di difesa; il senso d’impotenza e d’isolamento che li circonda prepara l’esplodere della crudeltà e della violenza che culmina nella scena della loro uccisione:

IL DUCA DI VALENTINO: L’OMICIDIO COME LEGGE POLITICA

Vitellozzo, Pagolo e duca di Gravina in su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli; e Vitellozzo, disarmato, con una cappa foderata di verde, tutto afflitto come se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé (conosciuta la virtù dello uomo e la passata sua fortuna) qualche ammirazione. E si dice che quando e’ si partì da le sua genti per venire a Sinigaglia e andare contro al duca, a li suoi capi raccomandò la sua casa e le fortune di quella, ed e nipoti ammunì che non della fortuna di casa loro, ma della virtù de’ loro padri e de’ loro zii si ricordassino. Arrivati adunque questi tre davanti al duca, e salutatolo umanamente, furono da quelli ricevuti con buono volto, e subito da quelli a chi era commesso fussino osservati, furno messi in mezzo. Ma veduto il Duca come Oliverotto vi mancava, il quale era rimaso con le sue genti a Sinigaglia, e attendeva innanzi alla piazza del suo alloggiamento sopra il fiume a tenerle nell’ordine, ed esercitarle in quello), accennò coll’occhio a Don Michele, al quale la cura di Oliverotto era data, che provvedesse in modo che Oliverotto non scampasse. Donde Don Michele cavalcò avanti, e giunto da Oliverotto li disse come e’ non era tempo da tenere le genti insieme fuora dello alloggia­mento, perchè sarebbe tolto loro da quelli del Duca; e però lo confortava ad alloggiarle, e venisse seco ad incontrare il Duca. Ed avendo Oliverotto eseguito tale ordine, sopraggiunse il Duca, e veduto quello lo chiamò; al qual Oliverotto avendo fatto riverenza, si accompagnò con gli altri.  Ed entrati in Sinigaglia, e scavalcati tutti a lo alloggiamento del duca ed entrati seco in una stanza secreta, furno dal duca fatti prigioni. El quale subito montò a cavallo, e comandò che fussino svaligiate le genti di Liverotto e degli Orsini. Quelle di Oliverotto furno messe a sacco, per essere propinque. Quelle degli Orsini e dei Vitegli sendo discosto e avendo presentito la ruina de’ loro padroni, ebbono tempo di mettersi insieme; e ricordatosi la virtù e disciplina di casa Vitellesca, strette insieme, contro alla voglia del paese e degli uomini inimici si salvorno. Ma e’ soldati del duca non sendo contenti del sacco della  gente di Liverotto, cominciorno a saccheggiare Sinigaglia; e se non fussi che il duca con la morte di molti represse la insolenzia loro, l’arebbono saccheggiata tutta.
Ma venuta la notte, e fermi e tumulti, al duca parve di fare ammazzare Vitellozzo e Liverotto; e conduttogli in uno luogo insieme, gli fe’ strangolare. Dove non fu usato da alcuno di loro parole degne della loro passata vita: perché Vitellozzo pregò che si supplicassi al papa che gli dessi de’ suoi peccati indulgenzia plenaria; e Liverotto tutta la colpa delle iniurie fatte al duca, piangendo rivolgeva addosso a Vitellozzo. Pagolo e el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino che il duca intese che a Roma el papa aveva preso el cardinale Orsino, l’arcivescovo di Firenze e messer Iacopo da santa Croce; dopo la quale nuova, a’ dì diciotto di gennaio, a Castel della Pieve furno ancora loro nel medesimo modo strangolati.

ritratto di Vitellozzo Vitelli (dipinto) di Dell'Altissimo Cristofano (sec. XVI) — LodView

Vitellozzo Vitelli

Vitellozzo Vitelli, Paolo e Francesco Orsini, duca di Gravina su piccoli mezzi di trasporto andarono incontro al duca, accompagnati da cavalli; Vitellozzo disarmato, con un mantello foderato di verde, completamente assorto nella sua afflizione, consapevole che stava andando a morire, offriva di sé (saputo da tutti il suo valore e la sua trascorsa fortuna) qualche meraviglia (per lo stato in cui si era ridotto). Si dice che quando si allontanò dalla sua famiglia per andare dal duca, si accomiatò come fosse per l’ultima volta, raccomandando ai suoi uomini principali la casa ed il patrimonio e ammonì i suoi nipoti affinché ricordassero non la fortuna di quella casata, ma la virtù di essa per mezzo dei loro padri e zii. Arrivati davanti al duca, lo salutarono cortesemente e furono accolti da lui con un altrettanto volto cortese ed immediatamente furono consegnati a coloro ai quali era stato assegnato il compito di prenderli in custodia. Il duca notò che mancava Oliverotto da Fermo (che era rimasto con i suoi fanti a Senigallia ed era impegnato, davanti al suo alloggio sulla piazza sopra il fiume, a tenerli in ordine e a esercitarsi) diede un cenno con l’occhio a don Michele, che lo doveva prendere in consegna, affinché non scappasse. Don Michele a cavallo lo raggiunse e gli disse che non era il momento di tenere le truppe fuori dall’alloggiamento, perché lo stesso sarebbe stato occupato dalle truppe del duca, ma ne frattempo potevano rientrare, in quanto lui lo doveva seguire per incontrare il duca. Eseguito quanto gli veniva detto, sopraggiunse davanti al duca che lo chiamò e al quale rivolse una riverenza, quindi si unì agli altri. Entrati a Senigallia scesero dai cavalli ed entrarono nell’alloggiamento del duca ed entrati in una stanza segreta li fece prigionieri. Quindi il duca montò a cavallo ed ordinò affinché gli uomini di Oliverotto e degli Orsini fossero catturate. Quelli di Oliverotto furono presi e portati vicini; quelli di Vitellio e degli Orsini, essendo più lontani e sapendo che fine toccasse a loro padroni, si misero insieme e ricordandosi della virtù della casa di Vitellio, contro la volontà degli uomini del paese e dei loro nemici, riuscirono a salvarsi. Ma i soldati del duca, non contenti della cattura degli uomini di Oliverotto, cominciarono a saccheggiare Senigallia e se non fosse intervenuto il duca, che uccise i più insolenti tra gli abitanti della città, l’avrebbero saccheggiata tutta.
Arrivata la notte, cessati i tumulti, il duca risolse di uccidere Vitellozzo e Oliverotto e, portatili in un luogo, li fece strozzare. Egli non si curò di ascoltare parole da loro volte, degne della loro vita passata: Vitellozzo lo supplicò affinché ricevesse dal papa la remissione di tutti i suoi peccati, Oliverotto, invece, piangendo, dava la colpa a Vittellozzo per tutte le ingiurie che gli avevano rivolto. Paolo ne Francesco Orsini, duca di Gravina, furono lasciati vivi fino a quando Cesare Borgia venne a sapere che il papa aveva arrestato il cardinale Giambattista Orsini, Rinaldo Orsini, arcivescovo di Firenze e Iacopo di Santa Croce (partigiano degli Orsini): dopo questa notizia, il 18 gennaio, a Castel di Pieve furono anche loro strangolati.  

Machiavelli racconta un qualcosa a cui aveva assistito personalmente: la distanza tra l’episodio e il momento di raccontarla permette al nostro di mantenere un atteggiamento quasi distaccato, da storico. Attraverso esso egli ci vuole mostrare  l’agire profondamente politico del duca di Valentino, che esula da qualsiasi aspetto che non sia legato ad esso: mantenere, anche a costo dell’omicidio politico, lo stato contro le forze disgregatrici. Ma nonostante questo Machiavelli,  pur con lo sguardo distaccato e impersonale dello storico mette in luce la sua grande capacità di drammaturgo che mette in scena una tragedia destinata a coinvolgere e scuotere il pubblico. Nel passo letto, Machiavelli esprime a pieno il suo gusto per la narrazione e la rappresentazione teatrale.

IL PRINCIPE

Il Principe viene composto nel 1513, quando Machiavelli sta all’Albergaccio, in una pausa della stesura dei Discorsi, opera di commento storico-politico su Livio. Tale opera, per stile e tempo di composizione (pochi mesi), sembra quasi indicarci l’impellenza con cui la scrisse, l’urgenza di sviluppare un discorso che, come dice nella lettera al Vettori, aveva maturato nel dialogo con i grandi del passato e non solo, la volontà, non certo venata da orgoglio, di collaborare per liberare l’Italia, come dirà nell’accorata preghiera dell’ultimo capitolo.

Quest’opera, infatti, segna un punto fondamentale nella storia del pensiero europeo: di contro agli specula principis in cui si trattava del dover esser di un regnante, egli disegna un ritratto, pur a tinte fosche, di come egli è e si deve comportare per l’alto compito che gli è affidato. Affinché ciò avvenga la politica dev’essere liberata dalla morale; pertanto essa “è”, in quanto autonoma e obbediente a leggi proprie, e non più un “dovrebbe essere”, in quanto vincolata alla religione e all’etica, ed è naturale, per questo, che acquisti lo statuto di scienza.

La scienza è tale se si basa su principi immutabili: si tratta di costruire l’assioma entro cui inserire le derivazioni razionali di un pensiero politico; tale assioma è nell’eternità ed immutabilità dell’uomo che governa e degli uomini che sono da lui governati. Tutti, in quanto uomini, sono naturalmente portati al loro male. Se si parte da ciò il resto viene da sé. Vediamone ora gli aspetti fondamentali.

Ritratto di Lorenzo de' Medici duca di Urbino (Raffaello) - Wikipedia

Raffaello: Ritratto di Lorenzo de Medici

DEDICA A LORENZO DE’ MEDICI

Sogliono, el più delle volte, coloro che desiderano acquistar grazia appresso uno Principe, farsegli incontro con quelle cose che infra le loro abbino più care, o delle quali veghino lui più delettarsi; donde si vede molte volte essere loro presentati cavagli, arme, drappi d’oro, pietre preziose e simili ornamenti degni della grandeza di quelli. Desiderando io adunque, offerirmi alla vostra Magnificenzia con qualche testimone della servitù mia verso di quella, non ho trovato (intra la mia supellettile) cosa quale io abbia più cara o tanto existimi quanto la cognizione delle actioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga experienza delle cose moderne et una continua lectione delle antiche: le quali avendo io con gran diligenzia lungamente excogitate et examinate, et ora in uno piccolo volume ridotte, mando alla Magnificenzia Vostra.
E benché io iudichi questa opera indegna della presenzia di quella, tamen confido assai che per sua umanità gli debba essere accepta, considerato come da me non gli possa esser fatto magiore dono, che darle facultà ad potere in brevissimo tempo intendere tutto quello che io (in tanti anni e con tanti mia disagi e pericoli) ho cogniosciuto et inteso. La qual opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento extrinseco, con li quali molti sogliono le loro cose descrivere et ornare; perché io ho voluto, o che veruna cosa la onori, o che solamente la varietà della materia e la gravità del subietto la facci grata. Né voglio sia imputata prosumptione se uno uomo di basso et infimo stato ardiscie discorrere e regolare e’ governi de’ principi. Perché, cosí come coloro che disegniano e paesi si pongano bassi nel piano a considerare la natura de’ monti e de’ luoghi alti, e per considerare quella de’ bassi si pongano alto sopra monti, similmente, ad cognoscere bene la natura de’ populi, bisogna essere principe, et a conoscere bene quella de’ principi, bisogna essere populare.

Coloro che desiderano ingraziarsi un Principe sono soliti andare loro incontro con quelle cose che fra le loro ritengono più care e quelle di cui vedono il Principe dilettarsi; per cui si vede che molte volte gli sono presentati cavalli, armi, tessuti dorati, pietre preziose e quelle cose che fungono da ornamento alla grandezza di quello. Desiderando dunque presentarmi alla Vostra Magnificenza con qualche testimonianza della mia devozione verso di essa, non ho trovato tra le mie cose qualcosa che io ritenga tanto cara o stimi talmente quanto la conoscenza delle azioni dei grandi uomini imparata da me con una lunga esperienza delle cose moderne e da uno studio assiduo delle antiche, le quali, avendo io per lungo tempo meditate ed esaminate, riportate in un piccolo libello, ora mando alla Vostra Magnificenza.
E benché io giudichi questa mia opera indegna al cospetto di quella, tuttavia confido molto che per la sua umanità gli risulti gradita, considerando come da me non possa essere fatto maggiore dono che offrirle la possibilità di potere in brevissimo tempo capire tutto ciò che io ho conosciuto e capito in tanti anni e con molti disagi e pericoli. La quale opera scrivendola io non ho ornato né riempito di periodi complessi o di parole ridondanti e magnifiche, o di qualche altra graziosità od ornamento estraneo all’argomento, con i quali molti sono soliti descrivere ed ornare; perché ho voluto o che nessuna cosa la onori o che solamente la varietà dell’argomento e l’importanza del soggetto gliela rendano gradita. Non voglio sia reputate presunzione che un uomo di basso ed umile stato abbia l’ardire di parlare e dettare le regole dei governi dei principi; perché così come coloro che debbono disegnare i paesi si pongono in pianura per esaminare l’altezza dei monti, e per esaminare la pianura si pongono in altitudine, allo stesso modo per conoscere bene la natura dei popoli bisogna essere un principe, e viceversa per conoscere quella dei principi bisogna essere uno del popolo.

Questo brano è importantissimo perché ci permette di cogliere alcuni aspetti essenziali che attengono al significato dell’opera:

  • In primo luogo dobbiamo notare che essa non è più dedicata a Giuliano, fratello del papa, ma a Lorenzo, in quanto il primo era morto nel 1516 e il giovane Lorenzo faceva le veci di suo zio Giovanni, che era diventato papa col nome di Leone X;
  • La rivendicazione dell’esperienza che, come abbiamo già visto nella lettera al Vettori, non si basa soltanto sull’osservazione dell’uomo, ma anche sull’imitazione dell’antico (concetto umanistico);
  • La ricerca di una prosa aderente alle cose;
  • La necessità della distanza per osservare ciò che si deve descrivere o commentare.

Ciò ci dice che Il Principe è un’opera assolutamente innovativa rispetto ad opere simili, il cui scopo era quella di cercare nel Medioevo un principe sottomesso ai valori religiosi, in età umanistica ai grandi classici. Machiavelli invece parte dalla realtà che, pur comparandola con le opere del passato, cerca attraverso il presente e la storia, leggi politiche. Ciò che lo distanzia è inoltre l’uso di una lingua priva di abbellimenti retorici, che per Machiavelli allontanano il lettore dall’importanza del dettato, per arrivare direttamente al concetto, in quanto il suo trattato non deve “relegarsi” a fatto letterario ma ad vero e proprio modus operandi.

Italia rinascimentale mappa concettuale | Algor Education

L’Italia nel 1500

QUOT SINT GENERA PRINCIPATUUM ET QUIBUS MODIS ACQUIRANTUR
Di quante ragioni siano e' principati e in che modo si acquistino
(cap. I)

Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto et hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E’ principati sono o ereditarii, de’ quali el sangue del loro signore ne sia suto lungo tempo principe, o e’ sono nuovi. E’ nuovi, o sono nuovi tutti, come fu Milano a Francesco Sforza, o sono come membri aggiunti allo stato ereditario del principe che li acquista, come è el regno di Napoli al re di Spagna. Sono questi dominii cosí acquistati, o consueti a vivere sotto uno principe, o usi ad essere liberi; et acquistonsi, o con le armi d’altri o con le proprie, o per fortuna o per virtù.

Tutti gli stati, tutti i domini che hanno avuto sovranità sugli uomini sono stati o sono o repubbliche o principati. E i principati sono o ereditari, dei quali il sangue del loro signore sia stato da lungo tempo principe, o sono nuovi. I nuovi o sono nuovi del tutto, come è stata Milano di Francesco Sforza, o come membri aggiunti del principe che li conquista, come il regno di Napoli per il re di Spagna. Sono questi stati così conquistati o abituati a vivere sotto un principe o abituati ad essere liberi e si acquistano o con soldati mercenari o con propri soldati, o per mezzo di fortuna o per mezzo di virtù.

In questo testo Machiavelli procede in modo dilemmatico propagginato, cioè egli cita sempre due membri, poi partendo dal secondo di essi ne sviluppa altri due e così via. E’ un metodo “scientifico” in quanto si basa sulla propagginazione logica di dati realmente esistenti, infatti non è dato che gli stati siano repubbliche o principati in quanto “esistenti”, ma in quanto “sperimentati” e “verificati”. E’ questo, infatti, un dato “reale” e quindi inoppugnabile che gli stati si strutturano o in repubbliche o retti da un sovrano. Una volta stabilito questo è naturale che tutto il resto ne derivi.

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Anonimo: Cesare Borgia detto Duca di Valentino

DE PRINCIPATIBUS NOVIS QUI ALIENIS ARMIS ET FORTUNA ACQUIRUNTUR
I principati nuovi che si acquistano con le armi e la fortuna altrui
(cap. VII)

Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono: e non hanno alcuna difficultà tra via, perchè vi volano; ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti. E questi tali sono quando è concesso ad alcuno uno stato o per danari o per grazia di chi lo concede: come intervenne a molti in Grecia nelle città di Ionia e di Ellesponto, dove furono fatti principi da Dario, acciò le tenessino per sua sicurtà e gloria; come erano ancora fatti ancora quelli imperatori che di privati, per corruzione de’ soldati, pervenivano allo imperio.
Questi stanno semplicemente in sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime e instabili. E non sanno e non possano tenere quello grado: non sanno, perché, se non è omo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vixuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele. Dipoi gli stati che vengono subito, come tutte l’altre cose della natura che nascono e crescono presto, non possono avere le barbe e corrispondenzie loro in modo che il primo tempo adverso non le spenga; se già quelli tali (come è detto) che sì de repente sono diventati principi non sono di tanta virtù, che quello che la fortuna ha messo loro in grembo, e’ sappino subito prepararsi a conservarlo, e quelli fondamenti che gli altri hanno fatti avanti che diventino principi, gli faccino poi.
Io voglio a l’uno e l’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua exempli stati né dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco per li debiti mezi, e con una grande sua virtù, di privato diventò Duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, com poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo Duca Valentino, aquistò lo Stato con la fortuna del Padre e con quella lo perdé, non obstante che per lui si usassi ogni opera e facessinsi tutte quelle cose che per uno prudente e virtuoso uomo si doveva fare, per mettere le barbe sua in quelli stati che l’arme e fortuna di altri gli aveva concessi. Perché (come di sopra si disse) chi non fa e fondamenti prima, gli potrebbe con una grande virtù farli poi, ancora che si faccino con disagio dello architettore e pericolo dello edificio. Se adunque si considerrà tutti e progressi del duca, si vedrà quanto lui aversi fatti grandi fondamenti alla futura potenzia; li quali non iudico superfluo discorrere, perché io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno principe nuovo, che lo exemplo delle actioni sue. E se gli ordini suoi non gli profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una extraordinaria ed extrema malignità di fortuna. Aveva Alexandro VI, nel volere fare grande il Duca suo figliuolo, assai difficultà presente e future. Prima, e’ non vedeva via di poterlo fare signore di alcuno stato che non fussi stato di chiesa; e vogendosi a tôrre quello della chiesa, sapeva che il Duca di Milano et ‘Viniziani non gliene consentirebbono, perché Faenza e Rimino erano di già sotto la protectione de’ Viniziani. Vedeva oltre a questo l’arme di Italia, e quelle in spezie di chi si fussi potuto servire, essere nelle mani di coloro che dovevano temere la grandeza del papa; e però non se ne poteva fidare, sendo tutte nelli Orsini e colomnesi e loro complici. Era adunque necessario si turbassero quelli ordini e disordinare gli Stati de Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli; il che gli fu facile perché trovò e Veniziani che, mossi da altre cagioni, si erano volti ad fare ripassare i Franzesi in Italia; il che non solamente non contradisse, ma fe’ più facile con la resoluzione del matrimonio antico del Re Luigi.
Passò adunque il Re in Italia con lo aiuto de’ Veniziani e consenso di Alexandro; né prima fu in Milano, che il Papa ebbe da llui gente per la impresa di Romagna, la quale gli fu aconsentita per la reputazione del Re. Acquistata adunque il Duca la Romagna e sbattuti i colonnesi, volendo mantenere quella e procedere più avanti, lo impedivano dua cose: l’una le armi sua che non gli parevano fedele, l’altra, la volontà di Francia; cioè che l’arme orsine, delle quali si era valuto, gli mancassino sotto e non solamente gl’impedissino lo acquistare, ma gli togliessino lo acquistato; e che il re ancora non li facessi il simile. Delli Orsini ne ebbe uno riscontro quando, doppo la expugnazione di Faenza, asaltò Bologna: ché gli vidde andare freddi in quello assalto. E circa il re, conobbe lo animo suo quando, preso el Ducato di Urbino, assaltò la Toscana: dalla quale impresa il re lo fece desistere.
Onde che il duca deliberò di non dependere più dalle arme e fortuna d’altri. E la prima cosa, indebolì le parti orsine e colomnese in Roma: perché tutti gli aderenti loro che fussino gentili omini se gli guadagnò, faccendoli suoi gentili omini e dando loro grande provisioni; et onorògli, secondo le loro qualità, di condotte e di governi; in modo che im pochi mesi negli animi loro l’affectione delle parte si spense e tutta si volse nel duca. Doppo questo, aspettò la occasione di spegniere e capi Orsini, avendo dispersi quelli di casa Colonna: la quale gli venne bene e lui la usò meglio. Perché, advedutosi gli Orsini tardi che la grandeza del duca e della chiesa era la loro ruina, feciono una dieta alla Magione nel perugino; da quella nacque la ribellione di Urbino, gli tumulti di Romagna ed infiniti pericoli del duca, e quali tutti superò con l’aiuto delli Franzesi. E ritornatoli la reputazione, né si fidando di Francia, né de altre forze externe, per non le avere a cimentare si volse agl’inganni. E seppe tanto dissimulare l’animo suo, che gli Orsini, mediante il Signor Paulo si riconciliarono seco; con il quale il duca non mancò d’ogni ragione di offizio per assicurarlo, dandoli dinari, veste e cavalli; tanto che la simplicità loro gli condusse a Sinigaglia nella sua mane.
Spenti adunque questi capi e ridotti li partigiani loro sua amici, aveva il Duca gittati assai buoni fondamenti alla potenzia sua, avendo tutta la Romagna col Ducato di Urbino; parendoli maxime aversi acquista amica la Romagnia e guadagnatosi quelli popoli, per avere cominciato a gustare il bene essere loro. E perché questa parte è degna di notizia e da essere imitata da altri, non la voglio lassare indietro. Presa che ebbe il duca la Romagna e trovandola suta comandata da Signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e loro subditi, che corretti e dato loro materia di disunione non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia; iudicò fussi necessario, ad volerla ridurre pacifica ed ubidiente al braccio regio, dargli buono governo. E però vi prepose messer Ramirro de Orco, uomo crudele ed expedito, al quale dette plenissima potestà: costui im poco tempo la ridusse pacifica et unita, con grandissima reputazione.
Di poi iudicò il duca non essere necessaria sì excessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudizio civile nel mezo della provincia, con uno presidente excellentissimo, dove ogni città vi aveva lo advocato suo. E perché cognosceva le rigorosità passate avergli generato qualche odio, per purgare li animi di quegli populi e guadagniarseli in tutto volse mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita, non era causata da llui ma dall’acerba natura del ministro. E preso sopra questo occasione, lo fece a Cesena una mattina mettere in dua pezi in sulla piaza, con un pezo di legne et uno coltello sanguinoso accanto; la ferocità del quale spettaculo fece quegli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.
Ma torniamo donde noi partimmo. Dico, che trovandosi il duca assai potente et in parte assicurato de’ presenti periculi, per essersi armato a ssuo modo et avere in buona parte spente quelle arme che (vicine) lo potevano offendere, gli restava (volendo procedere collo acquisto) el respecto del Re di Francia; perché conosceva come dal Re, il quale tardi s’era acorto dello errore suo, non gli sarebbe sopportato. E cominciò per questo a cercare amicizie nuove e vacillare con Francia, nella venuta che li Franzesi facevano verso el Regno di Napoli contro alli Spagniuoli che assediavano Gaeta. E lo animo suo era assicurarsi di loro; il che già sare’ presto riuscito, se Alexandro viveva. E questi furno e governi sua, quanto  alle cose presente.
Ma quanto alle future, lui aveva ad dubitare im prima che un nuovo successore alla chiesa non gli fussi amico e cercassi torgli quello che Alexandro li aveva dato. Di che pensò assicurarsi in quatro modi: prima, di spegniere tutti e sangui di quelli signori che lui aveva spogliati, per tôrre al Papa quella occasione; secondo, di guadagniarsi tutti e gentili omini di Roma (come è detto) per potere con quelli tenere il papa in freno; terzio,  ridurre il Collegio più suo che poteva; quarto, aquistare tanto imperio avanti che il papa morissi, che potessi per se medesimo resistere a uno primo impeto.
Di queste quatro cose alla morte di Alexandro ne aveva condotte tre; la quarta aveva quasi per condotta: perché de’ signori spogliati ne ammazzò quanti ne poté aggiugniere e pochissimi si salvarono; i gentili omini romani si aveva guadagnati e nel Collegio aveva grandissima parte; e quanto al nuovo acquisto, aveva disegniato diventare Signore di Toscana, e possedeva di già Perugia e Piombino, e di Pisa aveva presa la protectione. E come non avessi avuto ad avere rispetto a Francia (che non gliene aveva ad avere più, per essere di già e Franzesi spogliati del Regno di Napoli dalli Spagniuoli, di qualità che ciascuno di loro era necessitato comperare l’amicizia sua), egli saltava in Pisa. Doppo questo Lucca e Siena cedeva subito, parte per invidia de’ Fiorentini, parte per paura: e Fiorentini non avevano rimedio. Il che se gli fussi riuscito (che gli riusciva l’anno medesimo che Alexandro morì), si acquistava tante forze e tanta reputazione che per se stesso si sarebbe retto, e non sare’ più dependuto dalla fortuna o forze di altri ma solo dalla potenzia e virtù sua.
Ma Alexandro morì doppo cinque anni che egli aveva incominciato a trarre fuora la spada: lasciollo con lo Stato di Romagnia solamente assolidato, con tutti li altri in aria, infra dua potentissimi exerciti inimici e malato ad morte. Et era nel duca tanta ferocità e tanta virtù e si bene conosceva come li omini si hanno a guadagnare o perdere, e tanto erano validi e fondamenti che in sì poco tempo si aveva fatti che, se non avessi avuto quelli exerciti addosso o lui fussi stato sano, arebbe retto ad ogni difficultà. E che e fondamenti sua fussino buoni, si vidde: ché la Romagnia lo aspettò più di uno mese; in Roma ancora che mezo vivo stette sicuro; e benché Baglioni, Vitelli et Orsini venissino in Roma, non ebbono seguito contro di lui; potè fare se non chi e’ volle papa, almeno che non fussi chi egli non voleva. Ma se nella morte di Alexandro fussi stato sano, ogni cosa gli era facile: e lui mi disse, negli dì che fu creato Julio II, che avea pensato a cciò che potessi nasciere morendo el padre et ad tutto aveva trovato rimedio; excepto che non pensò mai, in su la sua morte, di stare ancora lui per morire.
Racolte io adunque tutte le actioni del duca, non saprei riprenderlo; anzi mi pare, come io ho fatto, di preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con le arme di altri sono ascesi allo imperio. Perché lui, avendo l’animo grande e la sua intenzione alta, non si poteva governare altrimenti; e solo si oppose alli sua disegni la brevità della vita di Alexandro, e la sua malattia. Chi adunque iudica necessario nel suo principato nuovo assicurarsi delli inimici, guadagniarsi delli amici, vincere o per forza o per fraude, farsi amare e temere da’ populi, seguire e riverire da’ soldati, spegniere quelli che ti possono o debbono offendere, innovare con nuovi modi gli ordini antiqui, essere severo e grato, magnanimo e liberale, spegniere la milizia infedele, creare della nuova, mantenersi le amicizie degli re e de’ principi in modo che ti abbino a beneficare con grazia o offendere con respecto: non può trovare più freschi exempi, che le actioni di costui.
Solamente si può acusarlo nella creazione di Julio pontefice, nella quale il duca ebbe mala electione. Perché (come è detto) non potendo fare uno papa a suo modo, poteva tenere che uno non fussi papa; e non doveva mai consentire al papato di quelli cardinali, che lui avessi offesi o che, divenuti papa, avessino ad avere paura di lui: perché gli uomini offendono o per paura, o per odio. Quelli che lui aveva offeso erano infra gli altri Sancto Pietro ad Vincula, Colonna, San Giorgio, Ascanio; tutti li altri avevano (divenuti papi) ad temerlo, eccepto Roano e gli Spagniuoli: questi per cogniunzione et obligo, quello per potenzia, avendo coniunto seco el Regno di Francia. Pertanto el duca innanzi ad ogni cosa doveva creare papa uno spagniuolo; e non potendo, dovea consentire a Roano non a San Pietro ad Vincula. E chi crede che nelli personaggi grandi benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vechie, s’inganna. Errò adunque el duca in questa electione e fu cagione dell’ultima ruina sua.

Anonimo: Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI

Coloro che, affidandosi solamente alla fortuna, diventano da privati cittadini principi, lo diventano facilmente ma con molta difficoltà mantengono il loro stato; e non hanno alcuna opposizione nell’acquisizione del principato, ma molte una volta insediati. E questi principi lo diventano quando è concesso loro da qualcuno uno stato o dietro pagamento o perché lo riceve in dono da chi lo concede: come capitò a molti nelle città greche della Ionia e dell’Ellesponto, dove divennereo principi grazie a Dario affinché le governassero per garantirgli sicurezza e gloria; allo stesso modo erano eletti imperatori da cittadini privati dopo aver corrotto i soldati ottenendo così l’Impero.
Coloro che sono diventati principi in questo modo si appoggiano soltanto sulla volontà o la fortuna di chi ha concesso loro lo stato, che sono assolutamente volubili ed instabili. E non sanno ne possono  mantenere quella posizione: non sanno, perché, se non vi è un uomo di grandissima capacità e virtù, non è pensabile che, avendo vissuto sempre da cittadino privato, sappia comandare; non possono, perché non possiedono armi proprie che siano loro obbedienti e fedeli. Inoltre gli stati che si sviluppano all’improvviso, come tutte le cose che crescono velocemente in natura, non possono avere radici e ramificazioni in modo che alla prima intemperie non appassiscano; a meno che gli stessi (come già detto) che improvvisamente sono diventati principi non possiedono tanta virtù che ciò che la fortuna ha procurato loro si apprestino da subito a mantenerlo, e le basi (degli stati) che gli altri hanno fatto prima di essere principi, facciano in seguito.
Voglio, riguardo ai due modi citati, cioè diventare principe per virtù o per fortuna, riportare due esempi tratti dalla contemporaneità e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, con azioni opportune e con grande capacità politica, da cittadino privato divenne Duca di Milano e ciò che aveva acquistato con mille difficoltà, mantenne con poca fatica. L’altro, Cesare Borgia, chiamato Duca di Valentino, acquistò lo stato grazie alla potenza del padre e con la stessa lo perse; nonostante che, da parte sua, si facesse di tutto e si mettessero in opera tutte quelle azioni che un uomo saggio e virtuoso doveva fare, affinché si mettessero quelle radici in quegli stati che la forza e la fortuna di altri gli avevano concesso. Perché (come già detto) chi non pone fondamenta prima, potrebbe con grande capacità, farle in seguito, sebbene si facciano con difficoltà dell’architetto e pericolo di crollo dell’edificio. Se dunque si esamineranno tutti i comportamenti del duca, si vedrà che lui aveva messo solide fondamenta per la  sua futura potenza, che giudico necessario analizzare, perché non saprei quali consigli più validi offrire ad un principe nuovo che l’esempio delle sue azioni. E se le azioni fatte non gli giovarono, non fu per colpa sua, perché derivarono da una eccezionale e grandissima avversità della sorte.  
Alessandro VI aveva, nel voler rendere potente suo figlio molte difficoltà sia nell’immediato che nel futuro. per prima cosa non vedeva il modo di poterlo fare signore di alcuno stato che non fosse lo Stato della Chiesa e decidendosi a prendere (parte di) quello stesso, sapeva che il Duca di Milano e i Veneziani non glielo avrebbero consentito, perché Faenza e Rimini erano già sotto protezione veneziana. Vedeva inoltre le forze militari in Italia, soprattutto quelle di cui si sarebbe dovuto servire, essere nella mani di coloro che non desideravano che la potenza della chiesa si ingrandisse; e perciò non se ne poteva fidare, stando tutte nelle mani degli Orsini e dei Colonna e dei loro alleati. Era dunque necessario si mettesse in discussione quell’equilibrio politico e si mettessero in crisi gli stati italiani, per potersi impossessare di parte di quelli senza correre troppi rischi, cosa che gli fu piuttosto facile perché trovò i veneziani che, mossi da loro motivazioni (diverse da quelle di Alessandro)  si erano decisi a richiamare i Francesi, il che non contraddisse i suoi piani, ma li rese più facili con lo scioglimento del matrimonio di re Luigi XII con l’antica sposa (Giovanna di Francia per prendere, in seconde nozze, Anna di Bretagna, vedova di Carlo VIII e discendente dei Visconti).
Venne dunque il re di Francia in Italia, con l’aiuto di Venezia e il consenso di Alessandro VI e non aveva ancora raggiunto Milano  che il papa ricevette da lui soldati per la conquista della Romagna, che fu resa possibile grazie al prestigio del re. Il duca, presa dunque la Romagna e sconfitti i Colonna, volendola mantenere e continuare nella sua politica espansionista, era ostacolato da due cose, la prima che le sue forze militari non gli fossero fedeli, l’altra la proibizione della Francia; cioè che le armi degli Orsini, delle quali si era servito, gli venissero a mancare e non solamente gli impedissero d’allargare le sue conquiste, ma che gli togliessero anche quelle già fatte e che il re di Francia non facesse le stesse cose. Degli Orsini ebbe  la prova quando, dopo Faenza, assaltò Bologna, che li vide non impegnarsi troppo in quell’attacco; riguardo il re di Francia capì le sue intenzioni quando, conquistato il ducato di Urbino, assaltò la Toscana, ma fu fermato per ordine del re.
E perciò il duca decise  di non dipendere più dalle armi e dalla fortuna offerte da altri. Innanzi tutto indebolì i Colonna e gli Orsini a Roma facendo in modo di allontanare da loro e guadagnarli per sé tutti i loro partigiani in città, offrendo lauti stipendi e onorandoli affidando incarichi militari e politici, secondo le loro competenze di modo che, in pochi mesi, la partigianeria si spense e si rivolse verso il duca. In seguito aspettò l’occasione per uccidere i comandanti degli Orsini, dopo aver costretto alla fuga quelli dei Colonna, la quale occasione seppe sfruttare bene e utilizzare ancor meglio. Infatti, gli Orsini resisi conto tardi dell’accresciuta potenza del duca e della chiesa rappresentava la rovina per loro, indissero un’adunanza in Megione presso Perugia: da essa derivarono la ribellione di Urbino, la ribellione della Romagna ed altri innumerevoli pericoli per il duca, che superò grazie all’aiuto dei Francesi. Il duca, riacquistata la forza (che era stata in pericolo) non fidandosi completamente dei francesi né di altre forze esterne, per non metterle alla prova, decise di operare attraverso gli inganni. Seppe nascondere così bene le sue intenzioni che gli Orsini, grazie alla mediazione del signor Paolo Orsini, si riconciliarono con lui, e con Paolo il duca non mancò mai di ogni atto di cortesia per rassicurarlo, donandogli soldi, vesti e cavalli, tanto che la loro semplicità li portò a Senigallia a cadere nelle sue mani. 
Uccisi dunque questi capi militari e fatti passare dalla sua parte i loro fautori, il duca aveva posto le basi per il suo potere, avendo sotto di sé tutta la Romagna ed il ducato di Urbino; sembrandogli soprattutto avere ottenuto il favore di tutta quanta la Romagna e di essersi guadagnato la fedeltà della popolazione per aver iniziato a sperimentare i vantaggi del suo governo. E perché questo fatto è degno di commento e di essere imitata, non la voglio trascurare. Il duca, presa la Romagna e trovandola governata da signori incapaci che avevano piuttosto spogliato che guidato i loro cittadini e dato loro motivo di disunione più che di unione, per il fatto che quella provincia era completamente piena di ruberie, rivalità e d’ogni altra prepotenza; il duca giudicò fosse necessario  ridurla pacifica ed obbediente al suo sovrano e darle un buon governo. Perciò vi mise a capo Ramiro de Lorqua, uomo crudele e sbrigativo, a cui dette pienissima libertà d’azione; costui, in poco tempo, la riportò pacifica e obbediente.
In un secondo tempo il duca credette che non fosse più necessaria una così estrema autorità, perché pensava potesse diventare odiosa e pose a capo della Romagna una magistratura civile con sede nella regione con un presidente eccellentissimo, presso la quale magistratura ogni città della regione aveva il suo rappresentante. Poiché sapeva che la severità passata gli aveva procurato qualche risentimento, per liberare gli animi di quei popoli e guadagnare la loro fedeltà volle dare la dimostrazione che, se vi era stata qualche crudeltà, non dipendeva da lui, dal ministro preposto al governo, e preso a motivo l’odio dei suoi sudditi verso di lui, una mattina gli fece tagliare la testa su di un ceppo con una mannaia e un coltellaccio insanguinato, la ferocia di quello spettacolo fece in un attimo rimanere tutti quei popoli allo stesso tempo contenti e stupefatti. 
Ma torniamo da dove siamo partiti: dico che il duca, trovandosi il duca in una posizione di forza ed essendosi assicurato dai pericoli immediati, per essersi procurato milizie proprie e per aver battuto quelle più prossime che potevano colpirlo, gli rimaneva, per allargare i suoi confini, il timore del re di Francia, perché sapeva come lo stesso re, il quale si era accorto troppo tardi del suo errore (nell’aver favorito il duca), non avrebbe mai concesso un allargamento della sua potenza. Per questo cominciò a cercare nuove alleanze e a tentennare nell’amicizia con i Francesi, in occasione della discesa di quest’ultimi verso il regno di Napoli contro gli Spagnoli che assediavano Gaeta. E il suo tentativo era quello di rendere innocui i Francesi, il che gli sarebbe riuscito se Alessandro VI non fosse morto. E queste furono le sue scelte politiche riguardo le cose presenti.
Ma quanto alle cose future, lui doveva temere per prima cosa che il nuovo pontefice non gli fosse amico e cercasse di togliergli quello che Alessandro VI gli aveva dato. Per cui pensò di neutralizzare questo rischio in quattro modi: primo, eliminare tutti i discendenti di quelli a cui aveva tolto lo stato, al fine di togliere al nuovo papa l’occasione di sfruttare le rivendicazioni dei signori e degli eredi spodestati; secondo, guadagnare a sé tutti i nobili di Roma (come è stato già detto) per potere, per mezzo loro, tenere a freno il papa; terzo, avere il maggior numero possibile di cardinali a lui favorevoli (per impedire l’elezione di un papa ostile); quarto, acquistare tanto potere prima che il papa suo padre morisse, da poter resistere con le proprie forze a un primo assalto. Di queste quattro cose alla morte di Alessandro ne aveva condotte tre, la quarta quasi realizzata: perché dei signori spodestati ammazzò tutti quelli che aveva potuto raggiungere e pochissimi tra loro scamparono; i nobili romani se li era fatti amici e nel collegio cardinalizio aveva un numero alto di prelati a lui favorevoli. Riguardo al nuovo territorio da conquistare, aveva progettato di diventare signore della Toscana e possedeva già Perugia e Piombino e aveva messo dsotto sua protezione Pisa. E non appena non avesse dovuto più temere i Francesi (e non doveva quasi averne più, avendo essi perso il regno di Napoli a favore degli Spagnoli in modo che sia la Francia sia la Spagna si trovavano nella necessità di comprare la sua amicizia), egli si sarebbe gettato su Pisa. Dopo questo Lucca e Siena si sarebbero immediatamente arrese, parte per rivalità dei Fiorentini, parte per paura; e i Fiorentini non avrebbero più avuto scampo. Il diventare duca di Toscana se gli fosse riuscito (che gli sarebbe riuscito l’anno stesso della morte di Alessandro) avrebbe acquisito tanta forza e tanto rispetto che si sarebbe sostenuto con le proprie forze e non sarebbe più dipeso dalla sorte e forze di altri, ma soltanto dalla sua potenza e capacità politica.  
Ma Alessandro morì dopo cinque anni che il Valentino aveva iniziato le sue attività militari e lo lasciò con il solo stato di Romagna assicurato e con tutti gli altri non ancora assestati  tra i due potentissimi nemici tra i Francesi e gli Spagnoli e gravemente ammalato. Eppure vi era nel duca tanta ferocia e tanta capacità  e conosceva perfettamente come portare gli uomini dalla propria parte o annientarli, e tanto erano valide le basi che si era costruite che, se non avesse avuto eserciti minacciosi intorno o se non si fosse ammalato, avrebbe resistito a tutte le difficoltà. E che le fondamenta sua fossero valide, si vide con chiarezza, perché la Romagna lo aspettò per più di un mese; a Roma, benché gravemente malato, rimase in sicurezza e benché il governatore di Bologna, Baglioni, i Vitelli e gli Orsini fossero venuti a Roma, non trovarono aiuti contro di lui; se non riuscì a fare eleggere papa chi voleva lui, riuscì a impedire che fosse eletto chi non voleva. Ma se durante la morte di Alessandro fosse rimasto sano, ogni cosa gli sarebbe stata facile: lui mi disse, nei giorni in cui venne creato pontefice Giulio II, che aveva pensato a quello che sarebbe successo dopo la morte del padre e a tutto ciò che dopo la morte del padre potesse succedere aveva trovato rimedio; eccetto che non pensò mai, di fronte alla morte del padre, di stare anche lui per morire.
Ho riunite tutte le azioni del duca e non saprei criticarlo, anzi mi sembra (come ho fatto) di proporlo come modello per tutti coloro che per fortuna o per forza di altri sono arrivati al potere; perché lui avendo un animo magnanimo e un grande obiettivo, non poteva comportarsi diversamente e solamente si oppose ai suoi propositi la brevità della vita di Alessandro VI e la propria malattia. Chi dunque giudica necessario per il suo principato nuovo mettersi al sicuro dai nemici, guadagnarsi dagli amici; vincere per forza o per inganno; farsi amare o temere dai popoli; seguire e farsi rispettare dai soldati; uccidere quelli che ti possono o devono offendere; rinnovare le istituzioni vigenti prima dell’ascesa del principe; essere severo e ben accetto; di grande animo e generoso; eliminare la forza militare infedele, crearne una nuova; mantenere l’amicizia dei re e dei principi in modo che rechino benefici con riconoscenza o recare qualche danno con esitazione; non può trovare i più recenti esempi che le azioni di costui.
Solamente si può accusarlo della nomina di Giulio II come papa, nella quale il duca fece una cattiva scelta. Perché (come già detto) non potendo fare un papa a suo gradimento, poteva ottenere che non ne venisse eletto un altro; e non doveva permettere che venisse eletto papa uno di quei cardinali che lui avesse offeso o che, diventati papa, avesse motivo di aver paura di lui: perché gli uomini offendono per paura o per odio. Quelli che lui aveva offeso vi erano, fra gli altri, Giuliano della Rovere, cardinale di San Pietro in Vincoli, i cardinali Giovanni Colonna, Raffaello Riario, Ascanio Sforza; tutti gli altri, diventati papi, lo avrebbero dovuto temere, ad eccezione dei Roano e dei cardinali spagnoli, quest’ultimi per i legami di nazionalità e per obbligazione e quello di Roano per il suo potere, avendo l’appoggio di tutti i Francesi. Per cui il duca prima di tutto doveva creare papa uno spagnolo e, non potendo, doveva consentire a Roano, ma non a un Della Rovere. E chi crede che nei personaggi magnanimi i nuovi benefici facciano dimenticare le antiche ingiurie, si sbaglia. Sbagliò dunque il duca in questa scelta e ciò fu motivo della propria definitiva caduta.    

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John Collier: Un bicchiere di vino con Cesare Borgia (1914)

Questo lungo passo è da mettere in relazione con l’operetta Del modo che tenne el duca di Valentino per ammazzar Vitellozzo, Oliverotto da Fermo, il signor Paolo e il Duca di Gravina Orsini in Senigaglia in cui si descrive in modo dettagliato il modo di operare di Cesare Borgia. E’ proprio in quella occasione, a cui per ordine del governo fiorentino assistette personalmente, che poté misurare l’abilità del duca di Valentino, abilità ancora più apprezzabile in quanto costretta alla crudeltà. Nel passo precedente, tuttavia, quello che emerge è lo sguardo storico che, pur ammirato, osserva il momento e lo registra.

Ne Il Principe Machiavelli, dopo aver appena accennato alla “fortuna” di Francesco Sforza che, dopo esser stato a capo delle milizie di Milano impegnate nella guerra contro Venezia, rivolge le armi contro la propria città, ne abbatte il governo, e sposa la figlia del defunto Francesco Maria Visconti, diventando così “nuovo” signore della città Ambrosiana, incentra tutto il discorso su Cesare Borgia, la cui figura è inquadrata nella sua totalità. Infatti muore nel 1507 e lo scrittore fiorentino, nei cinque anni di distanza che lo separano dall’opera, può misurare l’intera sua grandezza politica, strutturando l’argomento in sei parti fondamentali:

  1. Parte dall’assioma scientifico: chi guadagna lo stato con le armi altrui o con la fortuna, lo raggiunge facilmente, ma difficilmente lo mantiene. 
  2. conforta, con personalità contemporanee, l’assioma precedente nella figura di Francesco Sforza, che, ottenuto lo stato con difficoltà lo mantiene semplicemente e quello di Cesare Borgia che ottenuto facilmente dal padre, pur operando “politicamente” in modo virtuoso, per malignità della “fortuna” lo perde.
  3.  Ripercorre la storia politica del duca a partire dalla politica nepotista di Adriano VI che lo condurrà in seguito alla piena conquista della Romagna e del ducato di Urbino.
  4. Mostra come un principe debba mantenere e rafforzare la sua posizione appena ottenuta anche con l’inganno: è l’episodio di Remirro de Orco (Ramiro de Lorqua) suo scudiero a cui viene ordinato per sedare gli scontenti e i facinorosi di usare la forza, quindi addossandogli tutta la responsabilità della violenza messa in atto, lo uccide, guadagnandosi la fama di pacificatore.
  5. Raggiunto l’apice del successo il Valentino comincia il suo declino per “malignità” della fortuna: gli muore il padre e lui si ammala: egli non riuscirà a gestire, nel pieno delle sue forze, le trame che porteranno all’elezione di un nuovo pontefice che non sia, nei suoi confronti, nemico. 
  6. Valutazione finale sull’operato del figlio di Alessandro: egli mise in atto tutte le azioni gloriose ma, per una straordinaria cattiva sorte, non poté portarla a termine. 

Se si considera il modello logico seguito dal Machiavelli nel disegnare la figura del Valentino due sono gli elementi che emergono:

  1. Lo sguardo di Machiavelli non è più storico ma politico: le azioni di Cesare Borgia vengono valutate alla luce del loro effetto politico e, a partire da esso, proposte come modello per il nuovo principe;
  2. La contraddizione tragica, e perciò poetica, di Cesare che si muove tra virtù e fortuna. Se nell’assioma iniziale, infatti, si afferma che chi raggiunge l’obiettivo politico grazie ad una concessione lo deve mantenere con estrema fatica e virtù, il duca di Valentino si mostra non solo capace, ma addirittura esemplare nel metterla in opera, ma tragicamente, la dea bendata gli volge le spalle.     

Per Machiavelli dunque qual è il modo per non ruinare del tutto?

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Sebastiano del Piombo: ritratto di Cesare Borgia

DE HIS REBUS QUIBUS HOMINES ET PRAESERTIM PRINCIPES LAUDANTUR AUT VITUPERANTUR
Di quelle cose per le quali gli uomini e specialmente i principi sono lodati o vituperati
(cap. XV)

Resta ora a vedere quali debbino essere e modi e governi di uno principe o con subditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scripto, dubito (scrivendone ancora io) non essere tenuto prosumptuoso, partendomi maxime nel disputare questa materia, dalli ordini delli altri. Ma, sendo l’intenzione mia stata scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa; e molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti invero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive ad come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua. Perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usarlo secondo la necessità.
Lasciando adunque adietro le cose circa un Principe immaginate, e discorrendo quelle che son vere, dico, che tutti li uomini, quando se ne parla (e maxime e principi, per esser posti più alti) sono notati di alcuna di queste qualità che arrecano loro o biasimo, o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per rapina desidera d’avere, misero chiamiamo noi quello si astiene troppo dall’usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce ed animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave, l’altro legieri; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. Et io so che ciascuno confesserà, che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi di tutte le sopraddette qualità, quelle che sono tenute buone. Ma perché non si possono avere tutte, né interamente observare, per le condizioni umane che non lo consentono; è necessario essere tanto prudente che sappi fugire la infamia di quelli vizii che gli torrebbano lo Stato; e da quegli che non gliene tolgano guardarsi, se gli è possibile, ma non possendo, vi si può con minor respecto lasciare andare. Et etiam non si curi d’incorrere nell’infamia di quelli vizii, sanza i quali possa difficilmente salvare lo stato. Perchè se si considera bene tutto, si troverà qualche cosa che parrà virtù, e seguendola sare’ la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e seguendola ne nascie la sicurtà et il bene essere suo.

Dobbiamo ora considerare quale debba essere il modo di comportarsi di un principe verso i propri sudditi o gli amici. E siccome so che già molti hanno trattato questo argomento, dubito, scrivendone anche io, di sembrare presuntuoso, allontanandomi, soprattutto nel trattare questa materia, dal modo in cui l’hanno trattata gli altri. Ma avendo l’intenzione di scrivere una cosa utile a chi è in grado di capirla, mi è parso più giusto andare dietro la verità effettuale della realtà piuttosto che immaginarmela. Infatti molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti o non esistono affatto. Perché è tanto distante da come si dovrebbe vivere che colui il quale trascura ciò che si deve fare per ciò che si dovrebbe fare, impara piuttosto la sua rovina che la sua salvezza, perché un uomo che voglia apparire in tutte le cose buono, accade che rovini in mezzo a tanti altri che buoni non sono. Pertanto è necessario per un principe, volendo mantenere il proprio stato, imparare a poter essere non buono, e usare o non usare questa capacità, secondo la necessità.
Non prendendo dunque in considerazione  le fantasticherie dette sui principi ed esaminando attentamente le verità di fatto, dico che tutti gli uomini (soprattutto i principi, perché posti più in vista degli altri) si distinguono per alcune qualità che arrecano loro il biasimo o la lode. Ciò significa che qualcuno è ritenuto generoso, qualcuno avaro (usando un termine toscano, perché in italiano avaro è colui che per avidità desidera la roba altrui, mentre misero definiamo noi colui che esagera nel non voler utilizzare i suoi beni); qualcuno generoso nel donare, qualcun’altro abile ad accaparrarsi le altrui cose; uno spietato, uno misericordioso; sleale, leale; debole e vile, bellicoso e coraggioso; benigno, presuntuoso; preda dei piaceri oppure casto; onesto e dissimulatore; severo, accondiscendente; serio o superficiale; religioso o scettico e altre caratteristiche simili. E so che tutti penseranno che sarebbe una cosa estremamente lodevole che si trovino, in uno stesso principe, tutte le qualità sopra elencate, ritenute buone. Ma poiché non è possibile possederle tutte, né metterle in pratica in ogni circostanza, perché i limiti umani non lo consentono, è necessario, per un principe essere tanto saggio da evitare quei difetti che potrebbero fargli perdere il potere e deve guardarsi anche da quelli che non glielo toglierebbero, se possibile, ma laddove non fosse possibile, può indulgervi con minor paura. Ma anche non si faccia scrupolo di guadagnarsi il biasimo per quei vizi senza i quali, difficilmente, potrebbe mantenere il potere. Perché se si prende in considerazione tutto (cioè la morale e l’azione politica), si troveranno qualità che sembrano virtù ma portano alla rovina del principe che le segue, e qualche altra virtù che sembra vizio che genererà il sicurezza per lo stato e benessere per il principe che l’ha seguita.

Questo capitolo rappresenta l’esplicitazione del pensiero di Machiavelli riguardo la politica. Ed è per questo che egli la indirizza a chi è in grado d’intenderla, cioè a chi è in grado di mettere in pratica la scienza della politica, di cui lui è il fondatore. Infatti egli mette in evidenza sin da subito la differenza tra quelli che un tempo erano gli specula principis  dove regnava l’idea di un regno e di un principe reggente immaginato. Ora lui si basa sulla realtà e questa è effettuale, cioè “effettiva, positiva, basata su fatti (effetto per fatto è comune nel ‘500) è creazione del Machiavelli” (Luigi Russo). Allora ne consegue logicamente che egli non deve insegnare come si doverrebbe vivere ma come si deve vivere, più precisamente non come un principe dovrebbe governare, ma come deve governare. 

Detto questo può quindi illustrare, in binomi oppositivi le qualità che ogni principe, in quanto uomo, possiede, ma deve altresì insegnare come tra questi, anche quelli più palesemente annoverabili tra i vizi, possano, laddove siano i soli a permettere la propria esistenza e quello dello stato, diventare virtù. 

Il centauro Chirone e il giovane Achille

Chirone ed Achille: affresco del I sec. d. C.

QUOMODO FIDES A PRINCIPIBUS SIT SERVANDA
In che modo i principi debbano mantenere la parola data

(cap. XVIII)

Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimanco si vede per experienza, nelli nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e cervelli delli uomini et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.
Dovete adunque sapere come sono dua generazioni di combattere: l’uno con le leggie; l’altro, con la forza. Quel primo è propio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegniata alli principi copertamente dalli antichi scriptori: li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire ad Chirone centauro che sotto la sua disciplina li costudissi. Il che non vuol dire altro, avere per preceptore uno mezo bestia et mezo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo adunque necessitato uno principe sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano.
Non può per tanto uno signore prudente, né debbe observare la fede, quando tale observanzia gli torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se li uomini fussino tutti buoni, questo precepto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la observarebbono a te, tu etiam non l’hai ad observare a loro: né mai a uno principe mancorno cagioni legittime di colorire la inobservanzia. Di questo se ne potre’ dare infiniti exempli moderni e monstrare quanta pace quante promisse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto ubidiscono alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.
Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro sexto non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini: e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi magiore efficacia in asseverare e con magiori iuramenti affermassi una cosa, che l’observassi meno: nondimeno, sempre gli succederono gl’inganni ad votum, perché conosceva bene questa parte del mondo.
A uno principe, adunque, non è necessario avere in fatto tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi ardirò di dire questo, che avendole et observandole sempre, sono damnose, e parendo di averle, sono utili; come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato con lo l’animo che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo: che uno principe (e maxime uno principe nuovo) non può observare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni, sendo spesso necessitato (per mantenere lo stato) operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbia uno animo disposto a volgersi secondo che e venti della fortuna e le variazioni delle cose gli comandano; e (come di sopra dixi), non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato. Debba adunque uno principe  avere gran cura che non li esca mai di boca una cosa che non sia piena delle soprascripte cinque qualità: e paia, ad udirlo e vederlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto relligione. E non è cosa più necessaria ad parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano piú alli ochi che alle mani: perché tocca a vedere a ogniuno, a sentire a pochi; ogniuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla oppinione di molti, che abbino la maestà dello stato che gli difenda. E nelle azioni di tutti li uomini e maxime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi sempre fieno iudicati onorevoli e da ciascuno laudati. Perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo; e pochi ci hanno luogo quando gli assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede; e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando egli l’avessi observata, gli arebbe piú volte tolto o la reputazione e lo stato.

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Un’immagine in cui l’autrice vuole rappresentare la forza e l’astuzia 

Ognuno può capire quanto sia degno di lode, per un principe, mantenere la parola data e vivere con onestà e non con dissimulazione. Ciononostante  si vede per esperienza diretta che nei nostri tempi i principi che hanno compiuto grandi imprese non si sono preoccupati di mantenere la parola data e che hanno saputo con furbizia confondere le idee della gente ed alla fine hanno avuto più potere di quelli che hanno basato il loro comportamento sulla sincerità.
Dunque, dovete sapere che esistono due modi di combattere (i propri nemici): : uno per mezzo delle leggi, l’altro per mezzo della forza: il primo è proprio dell’uomo, il secondo della bestia. Ma poiché il primo a volte non è sufficiente, è necessario ricorrere al secondo; pertanto un principe deve essere capace di servirsi (in modo politicamente efficace) sia delle qualità animali sia delle umane. Questo aspetto è stato insegnato ai principi dagli autori antichi sotto una veste mitologica: infatti essi scrivono come Achille ed altri principi antichi furono lasciati in custodia al centauro Chirone affinché li allevasse secondo le regole. L’avere come precettore un essere mezzo bestia e mezzo uomo non significa altro  se non che un principe debba imparare ad usare entrambe le nature perché l’una senza l’altra non può durare. Poiché dunque necessario che il principe sappia usare bene l’indole della bestia, deve prendere ad esempio quella della volpe e del leone in quanto quest’ultimo non sa difendersi dagli lacci (inganni) mentre la volpe non sa difendersi dai lupi. Bisogna dunque essere astuto come una volpe per evitare gli inganni e forte come un leone per scacciare i lupi. Coloro che fondano il potere soltanto sulla forza non comprendono la natura della politica.
Pertanto un principe saggio non può e non deve mantenere la parola data quando tale osservanza gli risulti dannosa e quando sono venuti a mancare i motivi che lo indussero a promettere. Se gli uomini fossero tutti leali, questo consiglio non sarebbe valido; ma poiché sono cattivi e non manterrebbero la parola data a te, neppure tu devi mantenerla a loro, né mai ad un principe sono venute meno le ragioni per giustificare l’inosservanza della parola data. Di questo atteggiamento si possono trovare infiniti esempi nei nostri tempi e (si può) dimostrare quanti trattati di pace e quante promesse siano state rese inefficaci e vane per l’infedeltà dei principi e quel principe che ha saputo meglio agire alla maniera della volpe ha avuto maggior successo. Ma è necessario saper ben mascherare la qualità dell’astuzia ed essere un gran simulatore e dissimulatore e gli uomini sono tanto ingenui e costretti a piegarsi alle necessità contingenti, che colui che ordisce inganni troverà sempre chi si lascerà ingannare.
Voglio farvi un esempio contemporaneo. Alessandro VI non ha fatto mai altro e non ha pensato mai ad altro se non ad ingannare gli uomini e ha sempre trovato qualcuno che gli ha permesso di farlo. Non vi fu mai un altro uomo che avesse capacità di persuadere e che garantisse con maggiore fermezza una cosa alla quale non teneva fede: ciononostante gli inganni riuscirono sempre secondo il suo desiderio, perché conosceva bene questa parte della politica. 
Non è dunque necessario che in realtà un principe possieda tutte le qualità che ho già detto* ma è assolutamente necessario che simuli di averle. Anzi, oserò dire questo: che il possederle e l’osservarle sempre è dannoso, mentre torna utile simulare di avere: come sembrare clemente, leale, umano, onesto e religioso, ma occorre stare con l’animo pronto, qualora sia necessario non esserlo e mutarti nel contrario. E devi capire questo: che un principe (e soprattutto un principe nuovo) non può avere tutte quelle qualità per le quali gli uomini sono ritenuti buoni, perché è spesso costretto, per mantenere il potere, ad agire in modo contrario alla lealtà, alla carità, all’umanità e alla religione. Perciò bisogna che il principe abbia un animo disposto a cambiare atteggiamento in base ai venti della fortuna e ai mutamenti delle circostanze; e (come ho detto prima*) non allontanarsi dal bene, potendo, ma anche sapere agire con malvagità quando è costretto. Quindi un principe deve stare attento a non farsi mai sfuggire dalla bocca un discorso che non sia improntato alle cinque qualità di cui ho parlato e deve parere, a vederlo e udirlo, tutto clemenza, lealtà, integrità, umanità e religione. E non c’è qualità che sia più necessario sembrare di avere che quest’ultima. Infatti gli uomini generalmente giudicano secondo l’apparenza più che secondo la concretezza, perché a tutti è concesso vedere, a pochi comprendere; ognuno vede ciò che appari, pochi percepiscono quello che sei e quei pochi non osano opporsi alla opinione dei molti che hanno dalla loro la grandezza e il prestigio del potere. Per giudicare le azioni di tutti gli uomini e soprattutto dei principi, per i quali non c’è tribunale a cui fare appello, si guarda al risultato finale. Agisca dunque un principe in modo tale da conquistare e mantenere il potere e i mezzi saranno giudicati leali e lodati da tutti. Perché la massa deve essere sempre attirata con le apparenze e con il successo finale: nel mondo non vi è che un’umanità passiva priva di giudizio critico e le poche o persone avvedute non hanno possibilità di farsi notare se la massa è appoggiata dall’autorità del potere. Un principe dei nostri tempi, che è bene non nominare**, non predica altro che pace e bene sebbene sia nemico di entrambe e l’una e l’altra (la pace e il bene) se l’avesse osservate gli avrebbero fatto togliere il prestigio ed il potere.   
* cap. XV
** Ferdinando il Cattolico 
Ferdinando II d'Aragona - Wikipedia

Michel Sittow: Ritratto di Ferdinando il Cattolico

E’ un capitolo piuttosto controverso perché se è  pur vero che nel precedente veniva conservata la possibilità da parte del principe di usare, secondo le circostanze, qualità positive o negative ma che, se lette in modo politico, perdevano il loro valore morale per acquisire quello dell’azione necessaria per la conservazione del potere e dello stato, qui Machiavelli va oltre, abbandona infatti il suo sistema dilemmatico e lascia soltanto un ramo sui cui lavorare che è quello della dissimulazione, da cui deriva a sua volta non lo scegliere quale delle due forme bestiali sia da preferire, ma come utilizzarle entrambi. 

L’assioma da cui si parte è il seguente: è meglio usare l’astuzia che garantisce la salvezza dello stato piuttosto che la lealtà che significa il suo decadimento; da qui passa all’utilizzo del mito, quello di Chirone, il quale, come sottolinea il critico Ezio Raimondi, dà l’immagine di un sovrano giovane e forte di contro a quella “anziano” circondato da un alone religioso; dopo questo spiega qual è il modo in cui un principe debba utilizzare la forza del leone e l’astuzia della volpe, mostrando capacità di capire il momento opportuno che in politica si chiama duttilità.

Ma ciò che colpisce è il profondo pessimismo di Machiavelli, quale si evince nel momento in cui parla della massa: E li uomini in universali iudicano piú alli ochi che alle mani: perché tocca a vedere a ogniuno, a sentire a pochi; ogniuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla oppinione di molti, che abbino la maestà dello stato che gli difenda in cui riesce a sottolineare il conformismo nonché il rifugiarsi sotto l’ala protettrice del potente. 

Papa Giulio II - Wikipedia

Raffaello Sanzio: Giulio II

QUANTUM FORTUNA IN REBUS HUMANIS POSSIT ET QUOMODO ILLI SIT OCCURRENDUM
Quanto potere ha la fortuna nelle cose umane e in che modo ci si può opporre ad essa. 
(XXV)

E’ non mi è incognito come molti hanno avuto et hanno oppinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che li uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo, potrebbano iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose, ma lasciarsi governare alla sorte. Questa oppinione è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dí, fuora d’ogni umana coniettura. Ad che pensando io qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella oppenione loro. Nondimanco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle actioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà (o presso) a noi. Et assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e piani, rovinano li albori e li edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra: ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede all’impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e con argini, in modo che, crescendo poi, o andrebbono per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna: la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle: e quivi volta ’i sua impeti, dove ella sa che non sono fatti gli argini né ripari ad tenerla. E se voi considerrete la Italia, che è la sedia di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo; ché, s’ella fussi riparata da conveniente virtù come è la Magna, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grande che la ha, o ella non ci sare’ venuta.
E questo voglio basti avere detto quanto allo avere detto allo opporsi alla fortuna, in universali.
Ma, restringendomi più a’ particulari, dico come si vede oggi questo principe felicitare e domani ruinare, sanza avergli veduto mutare natura o qualità alcuna: il che credo che nasca, prima, dalle cagioni che si sono lungamente per lo adrieto discorse, cioè che quel principe che s’appoggia tutto in sulla fortuna, rovina, come quella varia. Credo ancora che sia felice quello che riscontra il modo del procedere suo con la qualità de’ tempi; e similmente sia infelice quello che con il procedere suo si discordano e tempi. Perché si vede gli uomini, nelle cose che gli conducano al fine quale ciascuno ha innanzi (cioè glorie e ricchezze) procedervi variamente: l’uno con respetto, l’altro con impeto; l’uno per violenzia, l’altro con arte; l’uno per pazienzia, l’altro con il suo contrario: e ciascuno con questi diversi modi vi può pervenire. E vedesi ancora dua respettivi, l’uno pervenire al suo disegno, l’altro no; e similmente dua egualmente felicitare con dua diversi studii, sendo l’uno respettivo e l’altro impetuoso: il che non nasce da altro, se non dalla qualità de’ tempi, che si conformano o no col procedere loro. Di qui nasce quello ho detto: che dua, diversamente operando, sortiscano el medesimo effetto; e dua egualmente operando, l’uno si conduce al suo fine, e l’altro no. Da questo ancora depende la variazione del bene: perché, se uno che si governa con respetti e pazienzia, e tempi e le cose girono in modo che il governo suo sia buono, e’ viene felicitando; ma, se è tempi e le cose si mutano, rovina, perché non muta modo di procedere. Né si truova uomo sì prudente che si sappia accomodare a questo; sí perché non si può deviare da quello a che la natura lo inclina; sí etiam perché, avendo sempre uno prosperato camminando per una via, non si può persuadere partirsi da quella. E però lo uomo respettivo, quando elli è tempo di venire allo impeto, non lo sa fare; donde rovina: ché, se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna.
Papa Iulio II procedé in ogni sua cosa impetuosamente, e trovò tanto e tempi e le cose conforme a quello suo modo di procedere, che sempre sortì felice fine. Considerate la prima impresa che fe’ di Bologna, vivendo ancora Messer Giovanni Bentivogli. Viniziani non se ne contentavano, el Re di Spagna quel medesimo con Francia aveva ragionamenti di tale impresa: e lui nondimanco, con la sua ferocità ed impeto, si mosse personalmente ad quella expedizione; la qual mossa fece star sospesi e fermi Spagna e Viniziani; quegli per paura e quell’altro per il desiderio di ricuperare tutto il Regno di Napoli. E dall’altro canto si tirò dietro il Re di Francia: perché vedutolo quel re mosso e desiderando farselo amico per abbassare ‘Viniziani, iudicò non poterli negare gli exerciti sua senza iniuriarlo manifestamente.
Condusse adunque Iulio con la sua mossa impetuosa quello che mai altro Pontefice con tutta l’umana prudenza non avria condutto; perchè se egli aspettava di partirsi da Roma con le conclusione ferme, e tutte le cose ordinate, come qualunque altro Pontefice arebbe fatto, mai non gli riusciva. Perchè il Re di Francia arebbe avuto mille scuse, e gli altri gli arebbero messo mille paure. Io voglio lasciare stare le altre sue actioni, che tutte sono state simili, e tutte gli sono successe bene. E la brevità della vita non li ha lasciato sentire il contrario; perché se fussero sopravvenuti tempi che fosse bisogniato procedere con rispetti, ne seguiva la sua rovina; perché mai non arebbe deviato da quelli modi, a’ quali la natura lo inchinava. 
Concludo, adunque, che, variando la fortuna, e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici mentre concordano insieme, e, come discordano, infelici. Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo; perché la fortuna è donna, et è necessario, volendola tenere sotto, batterla et urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci e con più audacia la comandano.

ritratto di Giovanni Bentivoglio dipinto, 1552 - 1568

Giovanni Bentivoglio, primo cittadino di Bologna

Non mi è sconosciuto come molti hanno creduto e credono tuttora che i fatti del mondo siano così governati o dalla fortuna (dal caso) o da Dio e che gli uomini con la loro capacità non possono interferire, anzi non possono cambiarli affatto, e per questo che sarebbe inopportuno dedicare tanta fatica nel cambiare i fatti del mondo, ma piuttosto lasciarsi trascinare dalla sorte. Questa opinione è stata maggiormente in auge in questi tempi, per i mutamenti continui che si vedono ogni giorno, fuori da ogni umana considerazione. Pensando a ciò, anch’io talvolta mi sono lasciato trascinare da questa opinione. Tuttavia affinché il nostro libero arbitrio non sia del tutto spento, ritengo sia vero che la fortuna governi la metà delle azioni umane, ma che anche lei ci lasci governare all’incirca l’altra metà. Io infatti la fortuna la raffiguro così: fiumi rovinosi che quando si gonfiano allagano i campi, distruggono gli alberi e le case, levano la terra da una parte per depositarla in un’altra; tutti fuggono davanti ad essi, tutti cedono al loro impeto senza potervi contrapporre. E sebbene avvenga ciò, nulla impedisce, però, che durante il bel tempo, non si possano mettere ripari ed argini, di modo che i fiumi impetuosi, potrebbero poi trovare dei canali dove scaricare la loro forza, senza essere così dannosi. Allo stesso modo accade per la fortuna, che mostra tutta la sua potenza laddove non esiste la virtù umana per contrastarla. E se questo pensiero lo applicate all’Italia, che è la sede di tutte le variazioni e da cui è partito il moto dei cambiamenti, la potete vedere come una campagna senza argini e senza riparo: perché se essa fosse stata riparata con sufficiente virtù, come in Germania, Spagna e Francia, avreste potuto vedere come questa piena non avrebbe avuto così grandi conseguenze o non avrebbe avuto luogo.
E questo sia sufficiente per quanto riguarda la fortuna in generale.
Ed ora, entrando ancor di più nel particolare, affermo che oggi si può vedere un principe ottenere buoni risultati e domani vederlo andare in rovina, senza che egli abbia mutato affatto la sua natura e le sue qualità; credo che ciò avvenga, in primo luogo, per le ragioni che si sono precedentemente affrontate, cioè che quel principe che basa la sua azione sulla sola fortuna, quando questa cambia, vada in rovina. Credo anche che sia felice quel principe le cui qualità si accordano con i tempi e vada incontro all’insuccesso quello le cui qualità non si accordano con i tempi. In quanto si vedono gli uomini andare verso i loro obiettivi, cioè la gloria e la ricchezza, in modo vario: chi con prudenza, chi con impeto, chi con violenza, chi con astuzia, chi con pazienza, chi con impazienza e tutti, con i diversi modi sovra citati può giungervi. E si vedano ancora due prudenti, uno giungere al suo obiettivo e l’altro no e ugualmente due ottenere lo stesso buon esito con diversi modi, uno con prudenza e l’altro con impeto, e tutto questo non nasce da altro se non dalla situazione del tempo che si accorda o no all’agire. Da qui nasce ciò che ho detto: che due agendo in modo completamente diverso ottengano il medesimo risultato; due agendo in maniera uguale giungono ad esiti differenti. Da ciò dipende la giusta azione del politico: se uno governa con prudenza e pazienza ed i tempi e le cose del mondo girano in modo che il suo modo di governare sia adatto, egli ottiene buoni esiti; ma se i tempi e le cose del mondo mutano egli andrà incontro a rovina se non muta il suo modo di governare. E non si trova un principe prudente che si sappia adattare a questo, perché difficilmente si può deviare da come la natura ci ha predisposto ed anche perché se uno ha ottenuto buoni risultati comportandosi in un certo modo, difficilmente potrà cambiare il suo modo di agire. E perciò l’uomo prudente quando è il momento di diventare impetuoso non lo sa essere e quindi va verso la sua rovina; perché se si fosse capaci di mutare la propria natura secondo le circostanze, la fortuna non l’avrebbe mai vinta.
Papa Giulio II procedette in ogni sua azione impetuosamente e trovò sempre le circostanze conformi al suo modo di agire, tanto che ebbe sempre successo. Considerate la prima conquista che fece di Bologna, mentre era ancora in vita Giovanni Bentivoglio. I Veneziani non la vedevano di buon occhio e anche il re di Spagna era contrario; Giulio II era in trattative con la Francia riguardo a tale impresa: e, nonostante ciò, con la sua audacia e il suo impeto, prese iniziativa di quella spedizione, partecipandovi personalmente. Tale iniziativa costrinse i Veneziani e la Spagna a rimanere neutrali. quelli (i Veneziani) per paura (di perdere i loro possedimenti nel regno di Napoli, se il papa si fosse alleato con la Spagna), l’altro (Ferdinando il Cattolico, re di Spagna) perché aspirava a ricostruire l’intero regno di Napoli. Dall’altra Giulio II indusse il re di Francia ad appoggiarlo militarmente; e questo re, vedendo che il papa aveva già avviato quella spedizione, ritenne di non potergli negare l’aiuto dei propri soldati senza recargli una chiara offesa.
Giulio II realizzò, con la sua veemente iniziativa, quello che nessun altro pontefice con tutta la cautela umana, avrebbe mai potuto fare: perché se avesse atteso per allontanarsi da Roma, il re di Francia avrebbe avuto mille scuse (per non aiutarlo) e gli altri avrebbero opposto mille paure. Non voglio parlare delle altre sue azioni, contotte tutte in modo simili e tutte concluse felicemente. E la brevità della vita non gli ha permesso di provare il contrario: perché se fosse giunto il momento in cui avrebbe dovuto adoperare la prudenza, avrebbe sicuramente fallito, né si sarebbe mai allontanatoda quel modo di agire al quale era incline per natura. 
Concludo dunque che mutando la fortuna e rimanendo gli uomini fermi nel loro modo d’agire politico sono felici se il loro modo s’accorda e, non appena discorda, infelici. Io ritengo tuttavia che è meglio essere impetuosi che prudenti, perché la fortuna è femmina ed è necessario, volendola sottomettere, aggredirla e batterla e si capirà che lei si lascia vincere piuttosto dagli impetuosi che dai prudenti. E perciò sempre, come femmina, è amica dei giovani, perché sono meno prudenti, più arditi e la comandano con più audacia.

E’ questo un altro dei capitoli fondamentali de Il Principe. Infatti dopo aver affrontato la questione morale, scindendola definitivamente da quella politica, ora affronta uno dei temi centrali per la cultura cinquecentesca, quello della fortuna. Analizziamo il passo sopra riportato:

  • Machiavelli fa riferimento all’opinione comune secondo cui, di fronte alla catastrofe italiana, bisogna far riferimento all’operato della “fortuna” o di Dio. Egli invece ribadisce il concetto che, se da una parte vi sono delle circostanze imprevedibili, dall’altra c’è sempre l’azione dell’uomo;
  • Il paragone con il fiume in piena: proprio qui Machiavelli sottolinea l’importanza della “previsione” dell’azione politica. Bisogna cioè prevenire la fortuna, costruendo gli argini a tempo opportuno, cioè prendere le dovute misure prima che sia troppo tardi.
  • L’uomo deve agire sempre contro o accompagnando la fortuna e l’uomo: i mezzi per farlo li possiede (ancora la concezione antropocentrica rinascimentale); può agire appunto con rispetto o con impeto a seconda della circostanza.
  • Appare tuttavia un certo “pessimismo”: l’uomo difficilmente è in grado di cambiare la propria natura; gli stessi impetuosi possono andare in rovina se il loro modo d’agire non corrisponde alle necessità del momento;
  • L’ultima metafora riguarda la donna: per Machiavelli la fortuna è femmina e bisogna sottometterla e per far questo bisogna essere giovani e forti: Machiavelli ha una concezione “vitalistica” dell’agire politico.

Il Principe si conclude con un’esortazione rivolta ai principi per liberare l’Italia. E’ il capitolo conclusivo dell’opera, nel quale Machiavelli, abbandonando la prosa scientifica, assume uno stile fortemente oratorio, giocato su figure retoriche che riprendono il periodare classico.

EXHORTATIO AD CAPESSENDAM ITALIAM IN LIBERTATEMQUE A BARBARIS VINDICANDAM
Esortazione a prendere l'Italia e a liberarla dai barbari
(XXVI)

Considerato adunque tutte le cose di sopra discorse, e pensando meco medesimo se al presente in Italia correvano tempi da onorare un principe nuovo, e se ci era materia che dessi occasione a uno prudente e virtuoso d’introdurvi forma, che facessi onore a lui e bene alla università delli uomini di quella: mi pare concorrino tante cose in benefizio di uno principe nuovo, che io non so qual mai tempo fussi più atto a questo. E se (come io dixi) era necessario, volendo vedere la virtù di Moysè, che il popul d’Istrael fussi schiavo in Egipto; et a conoscere la grandeza dello animo di Cyro, che ‘ Persi fussino oppressati da’ Medi, e la excellenzia di Theseo, che li Atheniesi fussino dispersi: così al presente, volendo conosciere la virtù di uno spirito italiano, era necessario che l’Italia si riducessi ne’ termini presenti e che la fussi più stiava che li Hebrei, più serva che ‘ Persi, più dispersa che gli Ateniesi; sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa; et avessi sopportato d’ogni sorta rovine.
E benché infino a qui si sia mostro qualche spiraculo in qualcuno, da potere iudicare che fussi ordinato da Dio per sua redemptione; tamen si è visto come di poi, nel più alto corso delle actioni sua, è stato dalla fortuna reprobato. In modo che, rimasa come sanza vita, aspetta quale possa essere quello che sani le sua ferite e ponga fine a’ sachi di Lombardia, alle taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca da quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite. Vedesi come la priega Iddio che li mandi qualcuno che la redima da queste crudeltà et insolenzie barbare. Vedesi ancora tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, purché ci sia alcuno che la pigli. Né ci si vede, al presente, in quale lei possa più sperare che nella illustre casa vostra; la quale con la sua fortuna e virtù, favorita da Dio e dalla chiesa (della quale è ora principe), possa farsi capo di questa redemptione: il che non fia molto difficile, se vi recherete innanzi le actioni e vite de’ soprannominati. E benché quelli uomini sieno rari e maravigliosi, nondimeno furono uomini et ebbe ciascuno di loro minore occasione che la presente: perché la impresa loro non fu più iusta di questa, né più facile; né fu Dio più amico loro che a voi. Qui è iustizia grande: «iustum enim est bellum quibus necessarium et pia arma ubi nulla nisi spes est». Qui è disposizione grandissima: né può essere, dove è grande disposizione, grande difficultà; pure che quella pigli delli ordini di coloro che io vi ho proposto per mira. Oltre a di questo, qui si veggono extraordinarii senza exemplo, condutti da Dio: el mare si è aperto, una nube vi ha scorto il camino, la pietra ha versato acque, qui è piovuto la manna, ogni cosa è concorsa nella vostra grandeza. El rimanente dovete fare voi: Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci tôrre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi. E non è maraviglia se alcuno de’ prenominati italiani non ha possuto fare quello che si può sperare facci la illustre casa vostra; e se, in tante revoluzioni di Italia et in tanti maneggi di guerra, e’ pare sempre che in Italia la virtù militare sia spenta: perché questo nascie che gli ordini antichi di quella non erono buoni e non ci è suto alcuno che abbia saputo trovare de’ nuovi. E veruna cosa fa tanto onore ad uno uomo che di nuovo surga, quanto fa le nuove leggie e li nuovi ordini trovati da lui: queste cose, quando sono ben fondate et abbino in loro grandeza, lo fanno reverendo e mirabile. Et in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma: qui è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse ne’ capi. Specchiatevi ne’ duelli e ne’ congressi de’ pochi, quanto gli Italiani sieno superiori con le forze, con la destreza, con lo ingegno; ma come si viene alli exerciti, non compariscano. E tutto procede dalla deboleza de’ capi: perché quegli che sanno non sono ubiditi et ad ciascuno pare sapere, non ci essendo insino a qui suto alcuno che si sia rilevato tanto (e per virtù e per fortuna) che li altri cedino. Di qui nascie che in tanto tempo, in tante guerre fatte nelli passati XX anni, quando gli è stato un esercito tutto italiano, sempre ha fatto mala pruova: di che è testimone prima el Taro, di poi Alexandria, Capua, Genova, Vailà, Bologna, Mestri.
Volendo adunque la illustre casa vostra seguitare quelli excellenti uomini che redimerno le provincie loro, è necessario innanzi a tutte le altre cose (come vero fondamento d’ogni impresa) provedersi d’arme proprie; perché non si può avere né più fidi, né più veri, né migliori soldati; e benché ciascuno di epsi sia buono, tutti insieme diventeranno migliori quando si vedessino comandare dal loro principe, e da quello onorare ed intrattenere. E’ necessario pertanto prepararsi ad queste arme per potersi con virtù italiana defendere dagli externi. E benché la fanteria svizera e spagniuola sia existimata terribile, nondimanco in ambedua è difetto, per il quale uno ordine terzo potrebbe non solamente opporsi loro, ma confidare di superargli. Perché gli Spagniuoli non possono sostenere e cavagli e li Svizeri hanno ad avere paura de’ fanti, quando gli riscontrino nel combattere obstinati come loro: donde si è veduto e vedrassi per experienzia li Spagniuoli non potere sostenere una cavalleria franzese e li Svizeri essere rovinati da una fanteria spagniuola. E benché di questo ultimo non se ne sia visto intera experienza; tamen se ne è veduto uno saggio nella giornata di Ravenna, quando le fanterie spagniuole si affrontorno con le battaglie tedesche (le quali servano el medesimo ordine che ‘ Svizeri): dove gli Spagniuoli, con l’agilità del corpo et aiuto delli loro brocchieri, erano entrati tra lle picche loro sotto e stavano sicuri ad offendergli, sanza che ‘ Tedeschi vi avessino remedio; e se non fussi la cavalleria che gli urtò, gli arebono consumati tutti. Puossi adunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, ordinarne una di nuovo, la quale resista a’ cavalli e non abbia paura de’ fanti: il che lo farà la generazione delle arme e la variazione delli ordini. E queste sono di quelle cose che, di nuovo ordinate, danno reputazione e grandeza a uno principe nuovo.
Non si deve adunque lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia vegga dopo tanto tempo apparire un suo redemptore. Né posso exprimere con quale amore egli fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni externe, con qual sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se li serrerebbono? Quali popoli gli negherebbano la obedienza? Quale invidia se li opporrebbe? Quale italiano gli negherebbe lo obsequio? Ad ogniuno puzza questo barbaro dominio. Pigli adunque la illustre casa vostra questo absunto con quello animo, e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste, acciò che sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e sotto i suoi auspizii si verifichi quel detto del Petrarca:

Virtù contro a furore
prenderà l’arme, e fia el combatter corto;
ché l’antico valore
nell’italici cor non è ancor morto.

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William Dermoyen: Battaglia di Pavia tra Francesco I e Carlo V

Dopo aver considerato tutte le cose che ho trattato prima, e meditando tra me e me se oggi in Italia siano maturi i tempi per onorare un nuovo principe e se ci sono le condizioni necessarie per dare ad un uomo prudente e saggio l’occasione d’introdurre un ordinamento nuovo, tale che desse onore a lui e benefici alla maggioranza dei suoi abitanti, mi pare che tanti elementi concorrano a favore di un principe nuovo e non so quale altro periodo di tempo potrebbe essere più favorevole di questo. E se, come dissi, era necessario per vedere le grandi virtù di Mosè che il popolo fosse schiavo in Egitto, per conoscere la grandezza d’animo di Ciro, che i Persiani fossero oppressi dai Medi e l’eccellenza di Teseo che gli Ateniesi fossero dispersi; allo stesso modo ora, per riconoscere la virtù di un principe era necessario che l’Italia si riducesse nelle condizioni in cui si trova e che essa fosse più schiava degli Ebrei, più serva dei Persiani, più dispersa degli Ateniesi, senza principe, senza ordinamenti propri, sottomessa da armi straniere, depredata, impoverita, devastata da scorrerie di eserciti invasori e avesse sopportato ogni genere di sventure.
E benché in qualcuno si sia mostrato qualche barlume di virtù da pensare che fosse mandato Dio per il riscatto dell’Italia, tuttavia si è poi visto come, nel momento decisivo delle azioni, non sia stato favorito dalla fortuna. E così, quasi rimasta senza vita, l’Italia aspetta chi possa essere colui che sia in grado di sanare le sue ferite, ponga fine ai saccheggi della Lombardia, ai pesanti tributi del Regno di Napoli e della Toscana e guarisca in lei quelle piaghe ormai divenute croniche. Si vede bene come essa preghi Dio che le mandi qualcuno che la liberi da queste crudeltà e barbare insolenze. Si vede bene anche come essa sia tutta pronta a seguire una bandiera, purché ci sia uno che la stringa in pugno.
Nè si vede al presente in quale casata l’Italia possa sperare se non della Vostra Illustre Famiglia, che con la sua fortuna e la sua virtù, favorita da Dio e dalla Chiesa, di cui ora è a capo (Leone X, Giovanni di Lorenzo de’ Medici) possa mettersi a guidare questo riscatto. Il che non sarà molto difficile se terrete a mente le imprese e la vita dei personaggi sopra nominati: e benché quegli uomini siano stati eccezionali e meravigliosi, tuttavia furono uomini e ciascuno di loro ebbe un’occasione meno importante della presente, perché la loro impresa non fu più giusta e più facile della presente, né Dio fu con loro più amico che con voi. In questa impresa la giustizia è grande iustum enim est bellum quibus necessarium, et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est*. In questa impresa ogni evento è favorevole, né ci possono essere grandi difficoltà dove tutto è favorevole, purché la Vostra Casata imiti le azioni di coloro che ho indicato come modelli. Oltre a ciò, in questa impresa si vedono prodigi straordinari voluti da Dio: il mare si è aperto, una nube vi ha indicato il cammino, da una pietra è scaturita l’acqua, qui la manna è caduta dal cielo: ogni evento ha contribuito alla vostra grandezza. Il resto dovete farlo voi. Dio non vuole fare ogni cosa, per non toglierci il libero arbitrio e quella parte di gloria che tocca a noi.  Non c’è da meravigliarsi se nessuno dei già nominati italiani ha potuto fare quello che si può sperare che faccia la Vostra illustre Casa, e se in Italia in tanti rivolgimenti e in tante vicende belliche pare che per sempre sia spento il valore militare. Questo dipende dal fatto che i vecchi ordinamenti dell’Italia non erano più buoni, e non c’è stato nessuno che sia stato capace di trovarne di nuovi: niente dà tanta reputazione a un principe nuovo quanto possono darla le nuove leggi e i nuovi ordinamenti militari creati da lui. Queste cose, quando hanno solide basi e una loro grandiosità, lo rendono ammirevole e degno di rispetto: e in Italia non manca la materia per introdurvi i nuovi ordinamenti militari. Qui c’è il grande valore del popolo, qualora non mancasse nei capi. Esaminate quanto gli Italiani siano superiori per forza, per destrezza e per ingegno nei duelli e nei combattimenti fra pochi. Ma quando fanno parte degli eserciti, non fanno una buona figura. Tutto dipende dalla debolezza dei capi; perché quelli che sono bravi non sono obbediti e ognuno crede di saper comandare, non essendoci stato finora nessuno capace di distinguersi, sia per virtù che per fortuna tanto che gli altri si facciano da parte. Da ciò possiamo capire perché in tanto tempo, in tante guerre avutesi negli ultimi vent’anni, un esercito tutto italiano, quando c’è stato, ha sempre dato cattiva prova di sé. Ne sono testimoni prima la battaglia del Taro, poi quelle di Alessandria, Capua, Genova, Vailate-Agnadello, Bologna, Mestre.
Volendo dunque la illustre Casa Vostra imitare gli eccellenti uomini che liberarono le loro terre, è necessario innanzi tutto, come vero fondamento di ogni impresa, provvedersi di un proprio esercito; perché non si possono avere soldati né più fedeli, né più leali, né migliori. E quantunque ciascuno di essi sia valente, tutti insieme diventeranno migliori, quando si vedranno comandare dal loro principe e da lui essere onorati ed intrattenuti. È necessario, pertanto, preparare questo esercito per potere, col valore degli italiani, difendersi dai nemici esterni.
E benché le fanterie svizzera e spagnola siano considerate terribili, tuttavia in entrambe ci sono difetti, per cui un terzo tipo di esercito potrebbe non solamente opporsi ad esse, ma aver la fiducia di batterle. Gli Spagnoli, infatti, non sanno resistere all’assalto della cavalleria e gli Svizzeri debbono temere i fanti, quando ritrovano questi determinati a combattere come loro. Perciò si è visto, e si vedrà, che gli Spagnoli non hanno la forza di sostenere l’urto della cavalleria francese, e gli Svizzeri essere sconfitti dalla fanteria spagnola. E benché quest’ultimo caso non si sia visto del tutto nella realtà, tuttavia se ne è veduto un saggio nella battaglia di Ravenna, quando le fanterie spagnole affrontarono i battaglioni tedeschi che adottano lo stesso schieramento degli Svizzeri: gli Spagnoli, con l’agilità del corpo e l’uso dei loro brocchieri, erano penetrati sotto le picche nemiche e li colpivano stando al sicuro, senza che i Tedeschi vi avessero scampo; e se non fosse arrivata la cavalleria che li assaltò, li avrebbero uccisi tutti. Si può, dunque, conosciuto il difetto dell’una e dell’altra di queste fanterie, istituirne una di tipo nuovo, che resista ai cavalli e non abbia paura dei fanti, e questo risultato può essere raggiunto dal tipo di armi e dal nuovo tipo di schieramento sul campo di battaglia. E l’esercito è una di quelle cose che, con un nuovo modello di schieramento, dà prestigio e grandezza a un principe nuovo.
Non si deve dunque lasciar passare questa occasione affinché l’Italia, dopo tanto tempo, veda un suo redentore. Né posso esprimere con quale amore sarebbe accolto in tutte quelle regioni che hanno patito per queste invasioni straniere; con quale sete di vendetta, con quale fede ostinata, con quale devozione, con quali lacrime. Quali porte verrebbero chiuse davanti a lui? Quali popoli gli negherebbero la loro obbedienza? Quale rivalità gli si opporrebbe? Quale Italiano gli negherebbe il rispetto? A ognuno puzza questo barbaro dominio! Prenda dunque, l’illustre Casa Vostra, questo impegno, con quel coraggio e quella speranza con cui si prendono le imprese giuste, affinché sotto la sua insegna la patria sia nobilitata e sotto i suoi auspici si avveri quel detto del Petrarca: Il valore italiano combatterà contro la selvaggia furia // e la battaglia sarà breve, // perché l’antico valore // non si è ancora spento negli italiani.
*giusta infatti è la guerra per coloro i quali è necessaria, e pie le armi, quando non vi è speranza se non nelle armi (Tito Livio, Ab urbe condita, IX, 1)

L’ultimo capitolo de Il Principe è decisamente diverso dai precedenti: una teoria critica situa la Dedica e questa Exhortatio posteriori rispetto al resto dell’opera: a dirlo del primo è lo scambio di persona cui viene offerta l’opera (da Giuliano a Lorenzo) qui è lo stile e l’abbandono della prosa scientifica. Tale abbandono è presente a partire dal ritmo sostenuto, con riferimenti biblici e storici e frasi latine citate a memoria; dallo stile con metafore e accostamento di parole per asindeto che servono ad incalzare di più il discorso e ancora domande retoriche. Come diverso ed innalzato il discorso si fa nel momento in cui lo si conclude con le parole di Petrarca, poeta, retoricamente alto nella sua canzone politica All’Italia.

Nell’ultimo testo troviamo, tuttavia, alcuni concetti fondamentali che lo legano a quanto scritto precedentemente: 

  • l’azione nasce dalla realtà effettuale: oggi la realtà effettuale vede l’Italia sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa; et avessi (aver) sopportato d’ogni sorta rovine; tale realtà non può che spingere ad un risveglio (redemptione) che la ponga fuori dalla sottomissione politica e militare cui è costretta e questo lo può fare soltanto con la guida di un principe nuovo;
  • la situazione (quindi la stessa realtà) aveva spinto qualcuno a cercare di prendere l’iniziativa e qui il riferimento è Cesare Borgia, abbandonato, poi, dalla fortuna per la morte del padre (Adriano VI); ora Lorenzo si trova nella condizione di avere un papa che lo può sostenere (Alessandro X) nel portare a compimento l’azione fallita per colpa della malignità della sorte.
  • il discorso sull’esercito, che riprenderà in forma più organica ne l’Arte della guerra: per poter portare avanti un’azione politica con il supporto di quella militare è necessario avere delle “armi proprie”.
5. Title page from Il Principe” by Niccolò' Machiavelli | Flickr

Il Principe edizione del 1769, commentato dallo storico francese Abraham Nicolas Amelot de la Houssaye

DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO

Se Il Principe è stato scritto di getto, mosso dall’urgenza della situazione politica italiana, ben diversa è la gestazione dei Discorsi, iniziati poco prima, ma nello stesso anno, interrotti e quindi ripresi nel biennio tra il ’15 e il ’17 nel clima degli Orti Oricellari (palazzo costruito dalla famiglia nobile dei Rucellai, nel quale sin dal ‘400 si riunivano intellettuali per discutere di arte e filosofia), i cui appartenenti guardavano a Machiavelli come un maestro, tra i quali appunto Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, cui il pensatore fiorentino dedica l’opera.  I Discorsi si presentano non unitari: si tratta infatti di un commento, pieno di divagazioni, sulla prima deca (i primi dieci libri) dell’opera dello storico romano Tito Livio. Vediamone un po’ la struttura:

  • nel primo libro Machiavelli affronta il problema delle prime istituzioni della Roma repubblicana e della sua organizzazione e della religione. Egli rimpiange la religione pagana in quando essa permetteva al cittadino romano d’identificarsi nello stato romano; la religione romana era pertanto un instrumentum regni che faceva da collante all’intera comunità;
  • il secondo libro è dedicato alla politica estera, alla guerra e alla milizia. E’ chiara qui la polemica machiavelliana verso le milizie mercenarie degli Stati italiani. Il cives romano difendeva la patria in quanto quest’ultima conteneva e prometteva appezzamenti di terreno da coltivare. Per il soldato, pagato al soldo, la guerra è solo un mezzo per guadagnare; perciò non difende strenuamente ciò che non gli appartiene; anzi l’unica cosa veramente sua, cioè la vita, cerca di salvarla con ogni mezzo, al di là del motivo per cui combatte;
  • il terzo libro è più vario e si parla delle azioni di uomini eccezionali, che hanno reso grande Roma, sia delle trasformazioni degli Stati, come si evolvano e decadano. Qui si fanno chiari riferimenti alla “corruzione” di Firenze.

PROEMIO

Considerando adunque quanto onore si attribuisca all’antiquità, e come molte volte, lasciando andare infiniti altri esempli, un frammento d’una antiqua statua sia suto comperato gran prezzo, per averlo appresso di sé, onorarne la sua casa e poterlo fare imitare a coloro che di quella arte si dilettono; e come quegli dipoi con ogni industria si sforzono in tutte le loro opere rappresentarlo; e veggiendo, da l’altro canto, le virtuosissime operazioni che le storie ci mostrono, che sono state operate da regni e republiche antique, dai re, capitani, cittadini, latori di leggi, ed altri che si sono per la loro patria affaticati, essere più presto ammirate che imitate; anzi, in tanto da ciascuno in ogni minima cosa fuggite, che di quella antiqua virtù non ci è rimasto alcun segno; non posso fare che insieme non me ne maravigli e dolga. E tanto più, quanto io veggo nelle diferenzie che intra cittadini civilmente nascano, o nelle malattie nelle quali li uomini incorrono, essersi sempre ricorso a quelli iudizii o a quelli remedii che dagli antichi sono stati iudicati o ordinati: perché le leggi civili non sono altro che sentenze date dagli antiqui iureconsulti, le quali, ridutte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti iudicare insegnano. Né ancora la medicina è altro che esperienze fatte dagli antiqui medici, sopra le quali fondano e’ medici presenti e’ loro iudizii. Nondimanco, nello ordinare le republiche, nel mantenere li stati, nel governare e’ regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel iudicare e’ sudditi, nello accrescere l’imperio, non si truova principe né republica che agli esempli delli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto da la debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte provincie e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé. Donde nasce che infiniti che le leggono, pigliono piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono, sanza pensare altrimenti di imitarle, iudicando la imitazione non solo difficile ma impossibile; come se il cielo, il sole, li elementi, li uomini, fussino variati di moto, di ordine e di potenza, da quello che gli erono antiquamente. Volendo, pertanto, trarre li uomini di questo errore, ho giudicato necessario scrivere, sopra tutti quelli libri di Tito Livio che dalla malignità de’ tempi non ci sono stati intercetti, quello che io, secondo le cognizione delle antique e moderne cose, iudicherò essere necessario per maggiore intelligenzia di essi, a ciò che coloro che leggeranno queste mia declarazioni, possino più facilmente trarne quella utilità per la quale si debbe cercare la cognizione delle istorie. E benché questa impresa sia difficile, nondimanco, aiutato da coloro che mi hanno, ad entrare sotto questo peso, confortato, credo portarlo in modo, che ad un altro resterà breve cammino a condurlo a loco destinato.

Lot 326 - Machiavelli (Niccolo). Discorsi, Venice 1543

Edizione del 1543

Considerando quanta importanza venga attribuita all’antichità e come molte volte (tralasciando altri esempi) un frammento di un’antica statua sia stato acquistato ad un prezzo elevato per possederlo e per accrescere, con esso, l’onorabilità della propria casa, per farlo riprodurre dagli scultori, come coloro che si sforzano di rappresentarlo di nuovo con grande impegno e vedendo, con stupore, allo stesso modo le azioni virtuose che sono state compiute dai regni e dalle repubbliche antiche, dai re, dai capitani di eserciti, da legislatori e altre personalità che si sono impegnati per la loro patria con grande virtù che la storia ci mostra, essere più lodate che imitate; anzi evitate da ciascuno  che non è rimasta traccia di quella antica virtù, non posso fare a meno di meravigliarmi e dolermi allo stesso tempo. E questo soprattutto (quando vedo) nelle controversie tra privati cittadini  e nelle malattie degli uomini essersi rivolti sempre alle leggi e ai rimedi trovati dagli antichi. Perché  le leggi civili non sono altro che quelle date dagli antichi legislatori che, messe in ordine, insegnano ancora a giudicare ai nostri avvocati e neppure la medicina non è altro se non quella proposta dai medici antichi sulla quale quelli moderno fondano le le loro diagnosi. Tuttavia nel dare un ordinamento ad uno stato repubblicano, nel conservare le istituzioni, nell’organizzare l’esercito e nel condurre guerre, nel giudicare i sudditi, nell’accrescere il potere non si trova né un principe, né una repubblica, né un capitano dell’esercito, né un privato cittadino che ricorra agli esempi degli antichi. Sono convinto che ciò derivi non dalla debolezza con cui la poca educazione ha condotto il mondo o da un costume ozioso che ha ridotto in questo stato molte provincie e città cristiane, quanto da non conoscere la storia, per non tirare fuori da essa, dopo averla letta, quel significato degli avvenimenti presenti in essa, né trovare quel piacere della verità che esse hanno in sé. Per cui i numerosissimi lettori delle storie provano gusto nel sentire la varietà degli episodi che esse contengono, senza pensare per niente ad imitarle, giudicando non solo difficile imitarle, ma addirittura impossibile: come se il cielo, il sole, gli altri elementi astrologici avessero cambiato il movimento, la forma e la loro potenza dalla loro antichità. Volendo dunque allontanare gli uomini da questo loro errore ho giudicato scrivere, considerati tutti quei libri che per sfortuna non ci sono stati tramandati, soprattutto quello che comparando i tempi antichi con i moderni risultino necessari per una maggiore comprensione per loro, affinché gli stessi possano trarne utilità per la quale è necessaria la conoscenza della storia. E benché sia un compito arduo, aiutato da coloro che in questo mi hanno aiutato e confortato, credo poterlo portare avanti in che qualcuno potrà percorrere il breve tratto che lo condurrà al fine a lui destinato.  

Il Proemio ci illustra come il classicismo machiavelliano, ed in parte dell’intero Rinascimento, non si basi soltanto sull’imitazione estetica, ma, come nel pensiero dell’intellettuale fiorentino, diventi “militante”, capace cioè di dare linfa vitale all’asfittica e debole politica italiana.

Partendo dall’assunto che l’uomo, fisicamente, è ancora governato dai rimedi della medicina antica, giurisdizionalmente a quelli degli iura classici, non si capisce perché non debba esserlo riguardo il suo impegno politico che dovrebbe, necessariamente, osservare le grandi azioni dei grandi uomini del passato. Per questo l’opera non è soltanto un esercizio storiografico sull’opera liviana, ma un attento esame che deve insegnare l’agire politico contemporaneo.

Ci si potrebbe chiedere quale sia stata la spinta a continuare l’opera dopo il lavoro De principatibus: possiamo azzardare l’ipotesi secondo cui l’azione propugnata ne Il Principe, spieghi l’urgenza politica con cui un uomo (e quindi un personaggio autorevole) avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di liberare l’Italia dagli eserciti stranieri (spagnoli e francesi). I primi dieci libri di Livio, invece, gli offrono la possibilità di soffermarsi sull’insegnamento dell’autore latino della storia come “magistra vitae“, e quindi superare e in un certo modo di “cancellare” l’opera precedente ispirata a Cesare Borgia, personaggio, in seguito, caduto in disgrazia.

E se la storia si propugna come magistra vitae, alla sua stregua dovremo utilizzare la religio come importantissimo instrumentum regni:

I DANNI DELLA CHIESA IN ITALIA

Quelli príncipi o quelle repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d’una provincia, che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è in su che sia fondata la religione dove l’uomo è nato; perché ogni religione ha il fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la sètta degli indovini e degli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifici e riti, dependevano da queste; perché loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni ed ogni altra cerimonia in venerarli: per che l’oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone ed altri celebri oracoli i quali riempivano il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de’ potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne’ popoli, diventarono gli uomini increduli ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono adunque i príncipi d’una republica o d’uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro repubblica religiosa, e per conseguente buona e unita. E debbono tutte le cose che nascono in favore di quella, come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l’opinione dei miracoli che si celebrano nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio e’ si nascano, e l’autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi miracoli ne fu a Roma assai, intra i quali fu che saccheggiando i soldati romani la città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla immagine di quella e dicendole Vis venire Romam?, parve a alcuno vedere che la accennasse, a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di religione (il che dimostra Tito Livio, perché nello entrare nel tempio vi entrarono sanza tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che alla domanda loro per avventura si avevano presupposta; la quale opinione e credulità da Cammillo e dagli altri prìncipi della città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale religione se ne’ prìncipi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d’essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le repubbliche cristiane più unite, piú felici assai che le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe essere propinquo sanza dubbio o la rovina o il fragello.

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Suovetaurilia: rito che prevedeva l’uccisione di un maiale, di un montone e di un toro (Museo del Louvre)

Quei principati e quelle repubbliche che vogliono rimanere immuni dalla corruzione, devono sopra ogni cosa mantenere inalterati i riti della loro religione, e tenerli sempre in massima considerazione, perché non si può avere maggior segno dell’instabilità di una nazione che vedere disprezzato il culto divino. Questo è facile a capirsi nel momento in cui si conosce il fondamento della propria religione, proprio perché le religioni si muovono su fondamenti propri. La struttura della religione pagana si basava sui responsi degli oracoli e sulla casta degli indovini e degli auruspici: tutti i loro riti erano programmati da questi due, perché loro semplicemente credevano che quel dio che poteva predire un futuro, sia esso favorevole o sfavorevole te lo potesse anche concedere. Da questa credenza nacquero i templi, i sacrifici, le preghiere e tutte le altre cerimonie con cui venerarli: da qui l’oracolo di Apollo (Delo), il tempio di Giove Ammone (divinità egizia), ed altri celebri oracoli che riempivano il mondo di ammirazione e devozione. Appena loro iniziarono in seguito a parlare secondo gli interessi dei potenti, e questa falsità fu scoperta dalla gente, gli uomini diventarono non credenti e pronti a scardinare ogni ordine religioso e civile. Devono dunque i reggitori di una repubblica o di una monarchia mantenere saldi i principi della loro religione, e, fatto questo, sarà semplice per loro mantenere il loro stato religioso, e conseguentemente rispettoso e coeso. E devono altresì favorire ed accrescere tutte le cose che la riguardano, sebbene essi possano ritenerle false, e lo devono fare quanto più sono prudenti ed esperti della realtà naturale. E perché questo è stato osservato in tutti gli uomini saggi, ne è nata l’opinione che i miracoli siano veri anche nelle religioni “false”, perché i governanti accorti li incrementano da qualunque principio essi nascano, e la loro autorità fornisce a quelli credito ovunque. Di questi miracoli ce ne furono molti a Roma, tra i quali questo, che alcuni Romani, saccheggiando Veio, entrarono nel tempio di Giunone e avvicinandosi alla sua statua e dicendole Vuoi venire a Roma? sembrò che acconsentisse. Poiché quegli uomini erano fortemente religiosi (perché, come afferma Tito Livio, entrarono nel tempio silenziosi e con rispetto e pieni di devozione), sembrò loro ascoltare quella risposta che volevano essa dicesse, opinione e credulità che fu assolutamente accresciuta e aumentata da Furio Camillo e dagli altri generali. Se la religione cristiana si fosse mantenuta secondo le regole che lo stesso Cristo le aveva assegnato, sarebbero gli stati cristiani più uniti e molto più saldi di quanto siano adesso. Né si può fare maggiore deduzione di questa affermazione quanto vedere come quei popoli che sono vicini alla Chiesa Romana, la base della nostra religione, siano meno religiosi, e coloro che considerassero quanto i riti e gli atteggiamenti di questa religione siano molto diversi dai comportamenti di costoro, capirebbe subito esser vicino il tempo della loro rovina.

Sembra, leggendo questa pagina, che l’autore de Il principe non distingua poi tanto la riflessione sulla storia e la costruzione scientifica della politica. Ma per Machiavelli ciò non può essere, perché analizzando con attenzione i fatti di ieri e paragonandoli all’oggi, non si può non rendersi conto che la storia è la politica degli anni passati e la politica di oggi sarà, a sua volta, la storia di domani. Così si potrà ben comprendere quale insegnamento i “reggitori” di uno Stato devono apprendere dall’atteggiamento di Camillo, nell’usare un episodio religioso a fine politico: ma non dobbiamo dimenticare che la presa di Veio è un fatto storico anche per Tito Livio. E’ poi evidente, qui, il discorso di Machiavelli riguardo l’incidenza della Chiesa sulla disunione della penisola italiana, la sua feroce critica verso atteggiamenti amorali e non in linea con la profonda religiosità della gente, della sua vera e propria “indifferenza religiosa”: questi atteggiamenti non aiutano un popolo a trovare unità, anzi, creano fazioni, come è successo a Firenze con il Savonarola.

Si è discusso molto, a livello critico, sulla visione “repubblicana” di Machiavelli, soprattutto alla luce del pensiero politico emerso nelle pagine de Il Principe e nella valorizzazione della figura impetuosa e autoritaria di Cesare Borgia, che, nella sua mente, incarnava il perfetto principe. Eppure a ben guardare, il suo pensiero politico è più complesso, come ci mostra la riflessione sul popolo, in un capitolo, il 58°, che, al sui inizio, afferma che non vi è differenza “qualitativa” tra moltitudine e principe se ambedue non sono guidati, e nel contempo frenati, dalle leggi, quindi prosegue:

LA MOLTITUDINE

Conchiudo adunque, contro alla commune opinione; la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili ed ingrati; affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne’ principi particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma traendone i principi, s’inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe, eziandio stimato savio: e dall’altra parte, un principe, sciolto dalle leggi, sarà ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E che la variazione del procedere loro nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è a un modo, e, se vi è vantaggio di bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della sua patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l’una cosa e l’altra. E se alcuno mi allegasse la ingratitudine ch’egli usò contra a Scipione, rispondo quello che di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno ingrati de’ principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si assomiglia la voce d’un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione universale fare effetti maravigliosi ne’ pronostichi suoi; talché pare che per occulta virtù ei prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte, quando egli ode duo concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità che egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra; molte volte erra ancora un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono molte più che quelle de’ popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di lunga, migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo, che sia bene tirare alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie si persuade a un principe. Vedesi uno popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti secoli stare in quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell’una e dell’altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il popolo romano: il quale in tante centinaia d’anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome regio, che nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome, poté fargli fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli sono principi, fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono state sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de’ re, ed Atene da poi che la si liberò da Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori governi quegli de’ popoli che quegli de’ principi. Né voglio che si opponga a questa mia opinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i disordini de’ popoli, tutti i disordini de’ principi, tutte le glorie de’ popoli e tutte quelle de’ principi, si vedrà il popolo di bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se i principi sono superiori a’ popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, ch’egli aggiungono sanza dubbio alla gloria di coloro che l’ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa materia, dico come hanno durato assai gli stati de’ principi, hanno durato assai gli stati delle republiche, e l’uno e l’altro ha avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi: perché un principe che può fare ciò ch’ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare cio che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d’un principe obligato alle leggi, e d’un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si ragionerà dell’uno e dell’altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e tumultuario, gli può da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della malattia dell’uno e dell’altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si temano le pazzie che quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che ne può nascere, potendo nascere, infra tanta confusione, uno tiranno. Ma ne’ principi cattivi interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì che vedete la differenza dell’uno e dell’altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a quelle che hanno a essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che occupi il bene commune: quelle d’un principe sono contro a chi ei temano che occupi il bene proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de’ popoli ciascuno dice male sanza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de’ principi si parla sempre con mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi vi tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali confederazioni altri si possa più fidare; o di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe.

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Cesare Maccari: Il cieco al Senato Romano (1880)

Dunque concludo contro l’opinione generale che dice che i popoli, quando sono alla guida di uno stato, sono volubili, incostanti ed ingrati, affermando che in loro vi sono gli stessi vizi di un reggitore singolare. Ora accusando un principe ed il popolo nello stesso tempo si potrebbe raggiungere la verità, ma sottraendo all’analisi un principe si incorre nell’errore, perché un popolo al potere e guidato da buone leggi, sarà stabile, prudente, gradito non diversamente di un principe o addirittura  meglio di un principe, quand’anche fosse estremamente saggio. D’altra parte un principe non frenato da alcuna legge sarà incostante ed imprudente più di un popolo. Si è che la diversità tra loro non è nella diversità della loro natura, perché in tutti gli uomini è uguale e se vi è una superiorità di bene non è insito nel popolo, ma dall’avere, sia per esso che per il principe preso singolarmente, più o meno rispetto verso le leggi in cui l’uno e l’altro si trovano ad operare. E se si guarda con attenzione il popolo popolo romano, lo si vedrà essere stato per quattrocento anni nemico del nome di re ed amante della gloria e del bene comune per la sa patria e si accorgerà per i tanti esempi di ambedue i suoi atteggiamenti; e se qualcuno mi portasse ad esempio l’episodio di Scipione rispondo allo stesso modo in cui ho già parlato di tale argomento, dove ho mostrato che il popolo fu, nei suoi confronti, meno ingrato dei senatori. Ma quando parlo di prudenza e di stabilità affermo che il popolo è più prudente, più fermo e di maggiore lungimiranza rispetto ad un principe. Per questo si dice che la voce del popolo somiglia a quella di Dio, perché si vede un’opinione presa dalla moltitudine sortire meravigliosi effetti, tanto che sembra che, per un’arcana virtù, riesca ad intuire il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare qualsiasi opinione, si vede rarissimamente, quando si trova di fronte a due oratori, ambedue di eguale virtù, che il popolo non scelga quello migliore e che non sia in grado di capire la verità di ciò che ha ascoltato. E se nelle decisioni prese appassionatamente e che all’apparenza sono utili il popolo s’inganna, spesso s’inganna anche un principe nelle sue passioni, che sono  molte di più di quelle del popolo. Si veda come nelle elezioni dei suoi magistrati il popolo farà di gran lunga una scelta migliore di un principe, né mai sarà possibile convincere un popolo che sia buona cosa eleggere a una carica pubblica un uomo infame e corrotto, cosa di cui più facilmente e per vie tortuose può essere convinto un principe. Si veda ancora una cosa essere in orrore al popolo e per molti secoli conservare tale opinione, cosa che non accade ad un principe. Di queste due ultime cose voglio che mi sia testimone il popolo romano, che in tante centinaia di anni, in tante elezioni di consoli e tribuni, non fece quattro elezioni di cui pentirsi, ed ebbe, come già detto, tanto in odio il nome di re che nessun cittadino romano che avesse tentato di conquistare il potere assoluto sfuggì alla debita punizione, per quanti meriti egli avesse. Si veda, oltre a questo, le città dove i popoli sono al governo fare in poco tempo allargamenti territoriali estremamente maggiori di quanti ne possa fare un principe, come fece Roma, dopo la cacciata dei re e Atene dopo che si liberò dal tiranno Pisistrato e questo deriva dal fatto che i governi retti dai popoli sono migliori di quelli retti da un principe. Nè voglio che si opponga a ciò tutto quello che Livio afferma nel brano di cui stiamo parlando o in ogni altra parte dell’opera, perché se si analizzeranno tutti i disordini e tutte le glorie dei popoli e dei principi , si vedrà il popolo di gran lunga essere migliore per bontà e gloria, e se i principi sono superiori ai popoli nel legiferare, organizzare la società civile, creare istituzioni ed emanare provvedimenti, i popoli sono tanto più in grado di conservare in vita per lungo tempo quello stato così ordinato da eguagliare senza dubbio la gloria dei primi ordinatori.
Insomma, in conclusione, affermo che come sono durati gli stati guidati da un principe allo stesso modo sono durati gli stati retti dal popolo ed ambedue hanno bisogno di essere guidati dalla legge, perché un principe che può fare ciò che vuole è pazzo, un popolo che non ha nessun freno non è saggio. Se si ragionerà di un principe obbligato ad esser sottomesso alla legge e di un popolo regolato secondo le leggi, si vedrà più virtù nel popolo che nel singolo reggitore; se si vedrà sia l’uno che l’altro sciolto dall’obbedienza della legge, si vedranno meno errori nel popolo che nel principe e di minore entità ed avranno più facile soluzione, perché un popolo senza licenza e ribelle può essere attraverso le parole di un uomo saggio essere riportato nella retta via; un principe malvagio non può essere corretto da nessuno e non c’è altra soluzione che il tirannicidio. Da ciò si può fare un esempio sui difetti dell’uno e dell’altro, perché se a porre rimedio a quello del popolo bastano le parole e a quella del principe occorre l’omicidio è naturale che dove occorre un rimedio più radicale i “mali” siano maggiori. Quando un popolo non è frenato, non si temono le pazzie che potrebbe fare, né si teme di quello che può al momento succedere, ma si teme quello che può nascere, potendo emergere, in tale confusione, la figura di un tiranno. Ma nei principi malvagi accade il contrario, perché si ha paura del presente e si spera nel futuro, convincendosi gli uomini che dalla sua cattiva vita possa nascere la libertà. Ora vedete la differenza tra l’uno e l’altro, la quale dimostra come le cose sono e come dovrebbero essere. Le violenze della moltitudine sono rivolte contro chi essa teme che voglia impossersi del bene comune, quelle di un principe sono rivolte contro chi teme voglia usurpargli il potere personale. Ma i giudizi negativi contro il popolo nasce perché nei governi repubblicani chiunque può parlare male senza paura e liberamente anche quando è a guida popolare; dei principi si parla sempre con mille paure e mille attenzioni. Nè mi sembra fuori argomento, poiché il discorso fatto fin qui me ne dà l’occasione, parlare nel prossimo capitolo di quali alleanze ci si possa più fidare, se quelle fatte con una repubblica o quelle fatte con un principe. 

Sembra che questo passo neghi quanto dallo stesso è stato detto riguardo il principe: Machiavelli, infatti, nel brano proposto sottolinea che il popolo retto da giuste leggi sia da preferire al tiranno. Si ripete qui il profondo pessimismo machiavelliano: perché l’uomo ha bisogno di essere frenato, sia esso espressione di un gruppo o di se stesso, delle leggi? Perché l’uomo “naturalmente” non è in grado di uscire da quello stato di ferinità nel quale si trova da quando è nato: ecco l’importanza delle leggi.

Ma perché il passo è importante? Perché ci pone di fronte alla contraddizione machiavelliana di esaltazione del principe nel De principatibus e della moltitudine e quindi repubblica nei Dialoghi: illuminanti a tal proposito le parole di Luperini: “Si è a lungo discusso sulla relazione fra Il Principe e i Discorsi. Le base teoriche delle due opere sono le stesse; ma la prima pone il problema di fondare uno Stato nuovo (e ciò può avvenire solo a partire dalla “virtù” di un individuo, il principe), la seconda quello della durata e della continuazione dello Stato. Quando è un unico individuo a creare uno Stato nuovo, questo può assumere solo la forma del principato; ma perché poi lo Stato possa durare gli occorre l’appoggio del “popolo” e un equilibrio fra i poteri che solo la repubblica può garantire.” Ribadite con la stessa chiarezza da Grosser: “Machiavelli mostra di credere che un governo monarchico sia più efficace al momento della formazione o del riordinamento di uno stato, ma che poi sul lungo periodo, a garantirne cioè la durata, sia assai più efficace un governo popolare, purché limitato da buoni leggi”. 

L’ARTE DELLA GUERRA

Composto tra il 1519 ed il 1521 è un trattato in forma dialogica in cui Machiavelli riprende alcuni concetti già espressi sia ne Il Principe che nei Discorsi: egli infatti sostiene la necessità di formare un esercito di cittadini, mostrando la sua contrarietà alle truppe mercenarie. Si sofferma, quindi, dopo aver sostenuto la superiorità della fanteria rispetto alla cavalleria, anche su aspetti maggiormente tecnici, come l’arruolamento dei soldati, quale fosse lo schieramento migliore e l’allineamento degli accampamenti.

E’ Fabrizio Colonna, che nel dialogo fa da portavoce alle idee di Machiavelli ad individuare nella viltà dei principi l’esito disastroso delle guerre in Italia:

L’INETTITUDINE DEI PRINCIPI ITALIANI

Ma torniamo agli Italiani, i quali, per non avere avuti i principi savi non hanno preso alcuno ordine buono, e per non avere avuto quella necessità che hanno avuta gli Spagnuoli non gli hanno per loro medesimi presi; tale che rimangono il vituperio del mondo. Ma i popoli non ne hanno colpa, ma sì bene i principi loro; i quali ne sono stati gastigati e della ignoranza loro ne hanno portate giuste pene, perdendo ignominiosamente lo stato e sanza alcuno essemplo virtuoso. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre sono state in Italia dalla passata del re Carlo ad oggi; e solendo le guerre fare uomini bellicosi e riputati, queste quanto più sono state grandi e fiere tanto più hanno fatto perdere di riputazione alle membra et a’ capi suoi. Questo conviene che nasca che gli ordini consueti non erano e non sono buoni; e degli ordini nuovi non ci è alcuno che abbia saputo pigliarne. Né crediate mai che si renda riputazione alle armi italiane se non per quella via che io ho dimostra, e mediante coloro che tengono stati grossi in Italia. Perché questa forma si può imprimere negli uomini semplici, rozi e proprii, non ne’ maligni, male custoditi e forestieri; né si troverrà mai alcuno buono scultore che creda fare una bella statua d’un pezzo di marmo male abbozzato, ma sì bene d’uno rozzo. Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ subditi avaramente e superbamente marcirsi nello ocio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi ; né si accorgievano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero poi nel MCCCCLXXXXIIII i grandi spaventi, le sùbite fughe e le miracolose perdite; e così tre potentissimi stati che erano in Italia, sono stati più volte saccheggiati e guasti. Ma quello che è peggio, che quegli che ci restano stanno nel medesimo errore e vivono nel medesimo disordine. E non considerano che quegli che anticamente volevano tenere lo stato, facevano e facevano fare tutte quelle cose che da me si sono ragionate, e che il loro studio era preparare il corpo a’ disagi e lo animo a non temere i pericoli. Onde nasceva che Cesare, Alessandro e tutti quegli uomeni e principi eccellenti, erano i primi tra ’ combattitori, andavano armati a piè, e se pure perdevano lo stato, e’ volevano perdere la vita; talmente che vivevano e morivano virtuosamente. E se in loro o in parte di loro si poteva dannare troppa ambizione di regnare, mai non si troverrà che in loro si danni alcuna mollizia o alcuna cosa che faccia gli uomini delicati et imbelli. Le quali cose se da questi principi fussero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non mutassero forma di vivere e le provincie loro non mutassero fortuna.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è bad-war.jpgLanzichenecchi

Ma torniamo a parlare degli Italiani i quali, non avendo avuto governanti saggi, non hanno adottato nessuno degli antichi ordini militari, e per non aver avuto la necessità degli Spagnoli, non lo hanno adottato per loro volontà, tanto da essere ormai vergogna del mondo. Ma la colpa non è dei popoli, ma dei loro principi, che ne sono stati castigati e hanno pagato giustamente, per la loro ignoranza, la pena, perdendo lo stato senza aver dato alcun esempio di valore. Volete voi vedere se questo che io dico è vero? Considerate quante guerre ci sono stare in Italia dalla discesa di Carlo VIII ad oggi, ed essendo le guerre atte a rendere gli uomini pronti a combattere e degni di reputazione, queste svolte in Italia, quanto più grandi e feroci tanto più hanno fatto perdere la reputazione ai popoli e ai loro governanti. Ciò dipende dal fatto che gli ordini militari tradizionali non erano né sono efficaci, e quelli nuovi non vi è stato alcun principe in grado di adottarli. Non crediate che gli eserciti italiani possano raggiungere una buona reputazione se non nel modo in cui vi ho esposto e per iniziativa di coloro che governano gli Stati più grandi. Perché questa capacità si può imprimere negli uomini semplici, rozzi e sudditi del proprio stato, non nei disonesti, difficili da gestire e forestieri; né mai si troverà un buono scultore che creda di fare una bella statua da un pezzo di marmo a cui si è già impressa una forma sbagliata, ma la farà bene su un pezzo di marmo grezzo. I nostri principi italiani credevano, prima che assaggiassero i colpi delle guerre degli eserciti transalpini, che ad un principe bastasse mostrare cultura nei gabinetti, pensare un’arguta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare con le parole l’argomento e il modo di esprimerlo, saper ordire un inganno, riempirsi d’oro e di pietre preziose, dormire e mangiare con ricercatezza superiore agli altri, circondarsi di dissolutezze, rapportarsi ai sudditi con avidità e superbia, abbandonarsi all’ozio, concedere gradi militari come favori, mostrarsi sprezzanti se qualcuno dimostrasse loro miglioramenti nell’esercito, volere che gli altri ritenessero le loro parole come dette da oracoli, né di accorgevano i vigliacchi che si preparavano ad essere preda di chiunque li avesse assaliti. da qui nacquero nel 1494 le grandi paure, le immediate fughe, le inaspettate perdite, e così tre potentissimi stati italiani (Napoli, Milano e Venezia), sono stati più volte saccheggiati e rovinati. Ma ciò che è peggio, che i principi che sono ancora in Italia, continuano a commettere gli stessi sbagli e vivono nello stesso disordine. Non considerano che i governanti antichi che volevano mantenere lo stato, facevano tutte le cose sulle quali ho ragionato, e che la loro preoccupazione era quella di preparare il corpo alle privazioni e all’animo a non perdere il coraggio. Da ciò deriva che Cesare, Alessandro e tutti gli uomini e principi eccellenti, erano i migliori dei loro soldati, combattevano a piedi come i fanti, e se pure perdevano lo stato, sacrificavano per lui anche la loro vita tanto che vivevano e morivano in modo virtuoso. E se in loro o in alcuni di loro si poteva condannare l’eccessivo desiderio di potere, mai si troverà che in loro si condanni alcuna mollezza o altre cose che li rendano delicati e non adatti alla guerra. Le quali cose se da questi principi fossero lette e credute, sarebbe impossibile che loro non volessero mutare modo di vitae gli Starti non mutassero la loro situazione.

All’interno dell’opera ritroviamo lo stesso principio secondo cui bisogna avere delle truppe proprie, ovvero sia un esercito formato dai sudditi e cittadini, se si vuole conservare lo stato. Ma quello che colpisce lo scrittore fiorentino è l’inettitudine dei principi che dà vita ad una “sferzante quanto desolata ironia. In particolare colpisce l’accusa senza riserve nei confronti delle illusioni umanistiche, nelle quali si sono persi i prìncipi abili soltanto nella diplomazia e nella retorica, ma del tutto incapaci di assolvere i propri compiti politici e militari come pure di accorgersi che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava” (Barberi-Squarotti)

mandragola_rosanna_schiaffino_alberto_lattuada_006_jpg_xwmd.jpegLocandina del film tratto dalla Mandragola (1955)

LA MANDRAGOLA

La Mandragola è una commedia in cinque atti, scritta forse nel 1518, ed è considerata un vero e proprio capolavoro della commedia rinascimentale.

L’anziano Messer Nicia e la sua bella moglie Lucrezia sono delusi di non aver figli. Di ciò e della balordaggine di Nicia approfitta Callimaco, innamorato di Lucrezia. Con l’aiuto del mezzano Ligurio si fa passare per un famoso dottore e assicura a Nicia che Lucrezia avrà un bambino se berrà una pozione di mandragola, ma che è morte certa giacere con lei subito dopo; lo persuade poi che bisogna trovare un poveraccio che si presti all’opera quella notte. A convincere Lucrezia provvedono la sua sciocca madre Sostrata e il cinico fra Timoteo. Naturalmente è Callimaco travestito che quella notte sarà nel letto di Lucrezia la quale, conosciuta la leggerezza del marito, non esiterà a eleggere Callimaco suo signore.

La Mandragola s’inserisce in quella ripresa umanistico-rinascimentale del teatro comico latino, soprattutto di quella plautina. Infatti qui si riconosce l’adulescens (Callimaco), la donna di cui è innamorato (Lucrezia), il senex che è il proprietario – in questo caso il marito – (Nicia) ed il servus callidus (Ligurio). Eppure in Machiavelli la commedia è assolutamente “nuova” e non sembra così lontana dal suo trattato politico. Vediamo il perché, attraverso l’analisi dei personaggi:

Nicia rappresenta il vecchio sciocco, quello da “beffare”. Tuttavia in lui non vi è solamente l’aspetto dell’incapace, dello sprovveduto facile da circuire. Egli è “cattivo”, malvagio, avaro, sprezzante ogni morale (non gli importa nulla se quello che giacerà con Lucrezia dopo dovrà morire), probabilmente impotente. Incapace d’agire sembra rappresentare i fiorentini del tempo di Machiavelli che potevano vedere in lui, inconsciamente, se stessi, come nel brano seguente:

NICIA
(Atto II, scena III)

NICIAQuesto tuo è un gran valente uomo.
SIROPiù che voi non dite.
NICIAIl re di Francia ne de’ fare conto.
SIROAssai.
NICIAE’ per questa cagione e’ debbe stare volentieri in Francia.
SIROCosì credo.
NICIAE fa molto bene. In questa terra non ci è se non cacastecchi, non ci s’apprezza virtù alcuna. S’egli stessi qua, non ci sarebbe uomo che lo guardassi in viso. Io ne so ragionare, che ho cacato le curatelle per imparare due hac: e se io avessi a vivere, io starei fresco, ti so dire!
SIROGuadagnate voi cento ducati?
NICIANon cento lire, non cento grossi, oh va’! E questo è, che chi non ha lo stato in questa terra, de’ nostri pari, non truova cane che gli abbai, e non siamo buoni ad altro che andare a’ mortori o alle ragunate d’un mogliazzo o a starci tutto dì in sulla panca del Proconsolo a donzellarci. Ma io ne li disgrazio, io non ho bisogno di persona; così stessi chi sta peggio di me. Non vorrei però che le fussino mia parole, che io arei di fatto qualche balzello o qualche porro di drieto che mi fare’ sudare.

NICIA: Il tuo padrone è proprio un gran uomo. SIRO: Più di quanto dite. NICIA: Il re di Francia lo deve tenere molto in considerazione. SIRO: Molto. NICIA: E’ per questo che egli deve stare molto in Francia. SIRO: Credo che sia così. NICIA: E fa bene. In questa terra non ci sono che spilorci e chi ha qualche virtù non ha possibilità di crescere. Se egli abitasse qui, nessuno lo guarderebbe in faccia. Ne so qualcosa io, che ho fatto una fatica cane ad imparare un po’ di latino; e se io dovessi qui guadagnare, starei fresco. Questi ti dico. SIRO: Voi guadagnate cento ducati l’anno? NICIA: Nemmeno cento lire e cento grossi (monete di minor valore del ducato), va là! Questo è: chi in questa terra non ha lo status dei suoi pari, non trova nessuno che gli dia considerazione. Non siamo capaci che andare ai funerali, alle feste dei matrimoni e tutto il giorno sulla panchina della via principale a non fare niente. Ma io non mi curo di loro, non ho bisogno di nessuno. Magari stesse così chi sta peggio di me. Non vorrei però che queste parole fossero riferite come mie, che io subirei qualche pagamento o grossa fregatura che mi farebbe penare.

Ligurio è il vero “princeps”: lui, una volta osservata la realtà effettuale (stupidità di Nicia, corruttibilità di fra Timoteo, scarsa virtù di Sostrata) decide l’inganno valutandone i pro e i contro; così se dapprima convince Nicia a portare Lucrezia ai bagni per far incontrare la stessa con Callimaco, dopo attenta valutazione ritiene tale piano poco fattibile riguardo l’obiettivo (Lucrezia potrebbe incontrare ai bagni qualcuno più ricco e più bello di Callimaco) e pertanto ordisce un secondo e più sicuro inganno. Rappresenta, nell’economia della commedia, la figura del servus callidus. Inoltre è l’unico il cui impegno avrà come ricompensa una sola e semplice cena e la compagnia amicale, che sembra organizzata più per soddisfazione che come vero e proprio guadagno.

Callimaco è l’adulescens del teatro comico classico. Tuttavia rispetto ai modelli plautini e terenziani Callimaco mostra un vitalismo che essi non possedevano. Egli è disposto a tutto pur di ottenere ciò che desidera, sapendo che il suo fine rappresenta la sua salvezza. La donna che vuole possedere non è né una liberta né una schiava da riscattare con denaro, ma una donna borghese, sposata, probabilmente insoddisfatta sessualmente, fatto cui Callimaco dove porre rimedio.

LIGURIO E CALLIMACO
(Atto I, scena III)

LIGURIOEgli (Nicia) è uno uomo della qualità che tu sai, di poca prudenzia, di meno animo, e partesi mal volentieri da Firenze; pure, io ce l’ho riscaldato: e mi ha detto infine che farà ogni cosa; e credo che, quando e’ ti piaccia questo partito, che noi ve lo condurreno, ma io non so se noi ci fareno el bisogno nostro.
CALLIMACOPerché?
LIGURIOChe so io? Tu sai che a questi bagni va d’ogni qualità gente, e potrebbe venirvi uomo a chi madonna Lucrezia piacessi come a te, che fussi ricco più di te, che avessi più grazia di te: in modo che si porta pericolo di non durare questa fatica per altri, e che c’intervenga che la copia de’ concorrenti la faccino più dura, o che, dimesticandosi, la si volga ad un altro e non a te.
CALLIMACOIo conosco che tu di’ el vero. Ma come ho a fare? Che partito ho a pigliare? Dove mi ho a volgere? A me bisogna tentare qualche cosa, sia grande, sia periculosa, sia dannosa, sia infame. Meglio è morire che vivere così. Se io potessi dormire la notte, se io potessi mangiare, se io potessi conversare, se io potessi pigliare piacere di cosa veruna, io sarei più paziente ad aspettare el tempo; ma qui non c’è rimedio; e, se io non sono tenuto in speranza da qualche partito, i’ mi morrò in ogni modo; e, veggendo d’avere a morire, non sono per temere cosa alcuna, ma per pigliare qualche partito bestiale, crudele, nefando.
LIGURIONon dire così, raffrena cotesto impeto dello animo.
CALLIMACOTu vedi bene che, per raffrenarlo, io mi pasco di simili pensieri. E però è necessario o che noi seguitiamo di mandare costui al bagno, o che noi entriano per qualche altra via, che mi pasca d’una speranza, se non vera, falsa almeno, per la quale io nutrisca un pensiero, che mitighi in parte tanti mia affanni.
LIGURIOTu hai ragione, ed io sono per farlo.
CALLIMACOIo lo credo ancora che io sappia che e pari tuoi vivino di uccellare li uomini. Nondimanco, io non credo essere in quel numero, perché, quando tu el facessi ed io me ne avvedessi, cercherei valermene, e perderesti per ora l’uso della casa mia, e la speranza di avere quello che per lo avvenire t’ho promesso.
LIGURIONon dubitare della fede mia, ché, quando e’ non ci fussi l’utile che io sento e che io spero, e’ c’è che ’l tuo sangue si confà col mio, e desidero che tu adempia questo tuo desiderio presso a quanto tu. Ma lasciamo ir questo. El dottore mi ha commesso che io truovi un medico, e intenda a quale bagno sia bene andare. Io voglio che tu faccia a mio modo, e questo è che tu dica di avere studiato in medicina, e che abbi fatto a Parigi qualche sperienzia: lui è per crederlo facilmente per la semplicità sua, e per essere tu litterato e poterli dire qualche cosa in gramatica.
CALLIMACOA che ci ha a servire cotesto?
LIGURIOServiracci a mandarlo a qual bagno noi vorreno, ed a pigliare qualche altro partito che io ho pensato, che sarà più corto, più certo, più riuscibile che ’l bagno.
CALLIMACOChe di’ tu?
LIGURIODico che, se tu arai animo e se tu confiderai in me, io ti do questa cosa fatta, innanzi che sia domani questa otta. E, quando e’ fussi uomo che non è, da ricercare se tu se’ o non se’ medico, la brevità del tempo, la cosa in sé farà o che non ne ragionerà o che non sarà a tempo a guastarci el disegno, quando bene e’ ne ragionassi.
CALLIMACOTu mi risusciti. Questa è troppa gran promessa, e pascimi di troppa gran speranza. Come farai?
LIGURIOTu el saprai, quando e’ fia tempo; per ora non occorre che io te lo dica, perché el tempo ci mancherà a fare, nonché dire. Tu, vanne in casa, e quivi m’aspetta, ed io andrò a trovare el dottore, e, se io lo conduco a te, andrai seguitando el mio parlare ed accomodandoti a quello.
CALLIMACOCosì farò, ancora che tu mi riempia d’una speranza, che io temo non se ne vadia in fumo.

LICURGO: Nicia è un uomo di cui sai la qualità, non avveduto, pauroso, e parte molto mal volentieri da Firenze. Eppure io l’ho convinto, e infine mi ha detto che farà di tutto per andarsene. Credo che quando noi decidessimo che lui vada, noi lo porteremo via. Ma non so se tutto questo sarà per noi conveniente. CALLIMACO: Perché? LIGURIO: Che ti posso dire? Sai che a questi bagni va una gran quantità di gente e che quindi potrebbe venirci un uomo che a madonna Lucrezia piaccia più di te, che fosse più ricco di te, che avesse più eleganza di te; tanto che noi portiamo avanti questo “pericoloso” progetto per favorire un altro, che intervenga l’abbondanza dei concorrenti che renda il nostro piano più difficile a realizzarsi, e che prendendo amicizia con altra gente lei si rivolga ad un altro e non a te. CALLIMACO: Riconosco che dici la verità. Ma che devo fare? Quale decisione prendere? Dove mi devo rivolgere? Per me è necessario provare qualche cosa, sia pure grande, pericolosa, dannosa o infame. Se io riuscissi a dormire, a mangiare, a parlare con gli amici, se potesse piacermi qualsiasi altra cosa, io sarei disposto ad aspettare con pazienza; ma qui non c’è possibilità di riuscita, e se io non avrò la possibilità di sperare con qualche azione, io morirò, e sapendo che devo morire, non devo avere paura di prendere qualsiasi decisione sia essa violenta, crudele, nefanda. LICURGO: Non dire così, calma questo tuo animo infuocato. CALLIMACO: Vedi bene che per calmarmi io mi nutro di questi pensieri. Dunque è necessario o che noi continuiamo affinché costui va-da ai bagni, o che noi prendiamo qualche altra azione con la quale io possa nutrirmi di una speranza che, se non vera, possa essere anche falsa, che alimenti un pensiero che plachi per un momento questa mia angoscia. LICURGO: Hai ragione e sto per farlo. CALLIMACO: Lo credo, sebbene sappia che la gente come te è nata per prendere in giro gli altri uomini. Tuttavia io credo di non essere tra costoro, perché se lo faresti e me ne accorgessi, mi vendicherei e non potresti più frequentare casa mia né avere quello che ti ho già promesso. LICURGO: Non mettere in dubbio la mia fedeltà e se non ci fosse l’utile che io invece sento e spero, è che il tuo sangue è simile al mio e voglio che il tuo desiderio vada a buon fine quanto te. Ma lasciamo andare queste chiacchiere. Il dottore mi ha affidato il compito di trovargli un medico affinché possa intendere a quale bagno gli convenga andare. Voglio che tu faccia a modo mio e cioè che tu dica di aver studiato medicina e di aver fatto qualche esperienza a Parigi. Lui ci crederà con facilità per il fatto che è stupido e per esser tu letterato e potergli dire qualcosa in latino. CALLIMACO: E questo a cosa ci servirà? LICURGO: Potrà servirci per mandarlo a quel bagno che noi vorremo oppure a pensare a qualche altro piano che ho in mente che sarà più breve, più sicuro, con migliore possibilità di successo dei bagni. CALLIMACO: Che dici? LICURGO: Dico che se tu sarai coraggioso e ti fiderai di me ti offro questo cosa come fatta prima della stessa ora di domani. E quando tu diventassi un uomo che non sei, tale da indagare se tu sei medico o no, la brevità del tempo, il fatto in sé, farà sì che egli non ci penserà o che non avrà il tempo per ripensarci, quando egli ci ragionerà un po’. CALLIMACO: Mi risusciti. Questa è una grande promessa e mi nutre di una grande speranza. Ma come farai? LICURGO: Lo saprai quando sarà il momento; per ora non è necessario che io ti sveli tutto, perché ci mancherà il tempo per fare se lo dedichiamo a dire. Tu vai a casa e aspettami, io andrò a trovare il dottore e se te lo porterò, seguirai il mio ragionamento e ti collegherai ad esso. CALLIMACO: Così farò, sebbene tu mi riempia di una speranza che temo possa andare in fumo.

Sostrata è la madre di Lucrezia. E’ presentata da Machiavelli come una donna dai costumi non irreprensibili. Anche lei avrà parte nell’inganno, con l’intento d’acquisire un nipote.

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Locandina teatrale della Compagnia teatrale Il Castello per la rappresentazione a Perugia dell’opera di Machiavelli

SOSTRATA
(Atto III, scena I e scena X)

SOSTRATAIo ho sempremai sentito dire che gli è ufizio d’un prudente pigliare de’ cattivi partiti el migliore: se, ad avere figliuoli, voi non avete altro rimedio che questo, si vuole pigliarlo, quando e’ non si gravi la coscienzia.
NICIAEgli è così.
LIGURIOVoi ve ne andrete a trovare la vostra figliuola, e messere ed io andreno a trovare fra’ Timoteo, suo confessoro, e narreregli el caso, acciò che non abbiate a dirlo voi: vedrete quello che vi dirà.
SOSTRATACosì sarà fatto. La via vostra è di costà; ed io vo a trovare la Lucrezia, e la merrò a parlare al frate, in ogni modo.
(…)
SOSTRATAIo credo che tu creda, figliuola mia, che io stimi l’onore ed el bene tuo quanto persona del mondo, e che io non ti consiglierei di cosa che non stessi bene. Io ti ho detto e ridicoti, che se fra’ Timoteo ti dice che non ti sia carico di conscienzia, che tu lo faccia sanza pensarvi.
LUCREZIAIo ho sempremai dubitato che la voglia, che messer Nicia ha d’avere figliuoli, non ci facci fare qualche errore; e per questo, sempre che lui mi ha parlato di alcuna cosa, io ne sono stata in gelosia e sospesa, massime poi che m’intervenne quello che vi sapete, per andare a’ Servi. Ma di tutte le cose, che si son tentate, questa mi pare la più strana, di avere a sottomettere el corpo mio a questo vituperio, ad esser cagione che uno uomo muoia per vituperarmi: perché io non crederrei, se io fussi sola rimasa nel mondo e da me avessi a risurgere l’umana natura, che mi fussi simile partito concesso.
SOSTRATAIo non ti so dire tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi, da chi ti vuole bene.
LUCREZIAIo sudo per la passione.

SOSTRATA: Io ho sempre sentito che un uomo giudizioso prenda tra tutti i cattivi partiti il meno cattivo: se, per avere figli, voi non avete che questo e si deve prendere, quando non vi pesi sulla coscienza. NICIA: E’ così. LIGURIO: Voi andate a trovare vostra figlia, che io e messer Nicia andiamo a trovare fra’ Timoteo, il suo confessore, che gli esporrà il fatto, senza che glielo diciate voi. Sentite cosa vi dirà. SOSTRATA: E così sarà fatto; la vostra via è di là. Io vado a trovare Lucrezia, e la condurrò a parlare col frate, ad ogni modo.
(…)
SOSTRATA: Io credo che tu sappia, figliola, che io stimi il tuo onore più di ogni altra persona al mondo e non ti consiglierei di compiere un’azione peccaminosa. Io ti dico e ti ripeto che se frate Timoteo dice che non c’è peccato, tu debba fare ciò che ti viene richiesto senza pensarci. LUCREZIA: Io ho sempre temuto che la voglia di messer Nicia di avere figli ci faccia compiere qualche sbaglio. E per questo, quando lui mi ha parlato di qualche cosa, io ne sono rimasta sempre sospettosa e preoccupata, soprattutto dopo essere andata al convento de’ Servi, (probabilmente quella di fra’ Timoteo, dove ho subito le inopportune attenzioni di un frate) come sapete. Ma di tutte le cose che si sono tentate (per farmi rimanere incinta) questa mi sembra la più strana, di sottomettere il mio corpo a questa vergogna, ed essere motivo per cui l’uomo dovrà morire dopo avermi svergognato, che io non crederei, fossi pure rimasta l’unica donna sulla terra dalla quale dover far nascere tutto il genere umano, mi sarebbe stato proposto. SOSTRATA: Io non so dire tante cose, figliola. Parlane al frate, vedi quello che ti consiglierà e poi ti comporterai secondo il suo consiglio, il nostro e di tutti quelli che ti vogliono bene. LUCREZIA: Tremo per paura.

Fra Timoteo: personaggio della Chiesa, ma la chiesa così come Machiavelli pensa sia al suo tempo. Egli è cinico, corrotto, dedito ai piaceri e ben si presta, in cambio di denaro, ad ordire l’inganno “immorale” contro l’immorale Nicia, come si vede in questo passo dove piega la logica cattolica ad azioni assolutamente antireligiose.

FRA TIMOTEO
(Atto III, scena XI)

TIMOTEOVoi siate le ben venute! Io so quello che voi volete intendere da me, perché messer Nicia mi ha parlato. Veramente io son stato in su’ libri più di dua ore a studiare questo caso, e dopo molte esamine, io truovo di molte cose che e in particulare e in generale fanno per noi.
LUCREZIAParlate voi da vero o motteggiate?
TIMOTEOAh, madonna Lucrezia! son queste cose da motteggiare? Avetemi voi a conoscere ora?
LUCREZIAPadre, no; ma questa mi pare la più strana cosa che mai si udissi.
TIMOTEOMadonna, io ve lo credo, ma io non voglio che voi diciate più così. E’ sono molte cose che discosto paiano terribile, insopportabile, strane, e quando tu ti appressi loro, le riescono umane, sopportabili, dimestiche; e però si dice che sono maggiori li spaventi ch’e mali: e questa è una di quelle.
LUCREZIADio el voglia!
TIMOTEOIo voglio tornare a quello che io dicevo prima. Voi avete, quanto alla conscienzia, a pigliare questa generalità, che dove è un bene certo e un male incerto non si debbe mai lasciare quel bene per paura di quel male. Qui è un bene certo, che voi ingraviderete, acquisterete una anima a messer Domenedio: el male incerto è che colui che iacerà doppo la pozione con voi, si muoia: ma e’ si truova anche di quelli che non muoiono. Ma perché la cosa è dubia, però è bene che messer Nicia non corra quel periculo. Quanto allo atto, che sia peccato, questo è una favola, perché la volontà è quella che pecca, non el corpo; e la cagione del peccato è dispiacere al marito, e voi li compiacete; pigliarne piacere, e voi ne avete dispiacere. Oltra di questo, el fine si ha a riguardare in tutte le cose: el fine vostro si è riempiere una sedia in paradiso, contentare el marito vostro. Dice la Bibbia che le figliuole di Lotto, credendosi essere rimase sole nel mondo, usorno con el padre; e, perché la loro intenzione fu buona, non peccorno.
LUCREZIAChe cosa mi persuadete voi?
SOSTRATALasciati persuadere, figliuola mia. Non vedi tu che una donna che non ha figliuoli non ha casa? Muorsi el marito, resta com’una bestia, abandonata da ognuno.
TIMOTEOIo vi giuro, madonna, per questo petto sacrato, che tanta conscienzia vi è ottemperare in questo caso al marito vostro, quanto vi è mangiare carne el mercoledì, che è un peccato che se ne va con l’acqua benedetta.
LUCREZIAA che mi conducete voi, padre?
TIMOTEOConducovi a cose che voi sempre arete cagione di pregare Dio per me, e più vi satisfarà questo altro anno che ora.
SOSTRATAElla farà ciò che voi vorrete. Io la voglio mettere stasera al letto io. Di che hai tu paura, moccicona? E’ c’è cinquanta donne in questa terra che ne alzerebbono le mani al cielo.
LUCREZIAIo sono contenta, ma non credo mai essere viva domattina.
TIMOTEONon dubitare, figliuola mia: io pregherrò Dio per te, io dirò l’orazione dell’agnol Raffaello che t’accompagni. Andate in buona ora, e preparatevi a questo misterio, ché si fa sera.
SOSTRATARimanete in pace, padre.
LUCREZIADio m’aiuti e la Nostra Donna, che io non capiti male!

TIMOTEO: Siate le benvenute! So cosa volete da me, perché ho già parlato con messer Nicia. A dire il vero io sono stato due giorni interi a studiare questo caso, e dopo molte verifiche ho trovato molti argomenti sia in particolare che in generale che ben si adattano al vostro caso. LUCREZIA: Dite veramente o scherzate? TIMOTEO: Ah, madonna Lucrezia! Sono queste cosa su cui scherzare? Mi conoscete solo da ora? LUCREZIA: No, padre. Ma questa è la cosa più strana che mai si è udita sinora. TIMOTEO: Madonna ve lo concedo. Ma io non voglio che voi diciate più così. Ci sono molte cose che, viste da lontano ci sembrano terribili, insopportabili, strane, e quando ci si avvicina risultano normali, sopportabili, quotidiane; per questo si dice che sono maggiori gli spaventi delle cose malvagie che li procurano: il vostro caso è uno di quelli. LUCREZIA: Dio lo voglia! TIMOTEO: Voglio riprendere da dove mi son fermato. Voi dovete, riguardo alla coscienza, prendere questa regola generale, che dove c’è un bene sicuro ed un male insicuro, non bisogna lasciare il primo per paura del secondo. Qui c’è un bene certo, ed è che voi rimarrete incinta e acquisterete un’anima a Dio; il male incerto è che colui che giacerà con voi, dopo debba morire; ma ci sono anche coloro che non muoiono. Tuttavia la cosa è incerta: per questo non è bene che messer Nicia corra il pericolo. Quanto all’atto, che questo costituisca peccato, è una bugia. E’ la volontà che pecca, non il corpo; e il motivo del peccato sta nel dispiacere al marito mentre voi lo compiacete; nel provare piacere, mentre voi ne provate dispiacere: Oltre a tutto questo bisogna osservare il fine di tutto questo: il vostro fine è quello di riempire una sedia in Paradiso e far contento vostro marito. Dice la Bibbia che le figlie di Lot, pensando d’essere sole al mondo, giacquero con padre e poiché la loro intenzione fu buona, non peccarono. LUCREZIA: Di che cosa mi state convincendo? SOSTRATA: Convinciti, figlia mia. Non vedi che una donna senza figli non ha una casa? Muore il marito e resta come un animale, abbandonata da tutti. TIMOTEO: Io vi giuro, per questo petto consacrato, che tanto peccato vi è nell’obbedire in questo caso a vostro marito, quanto mangiare la carne il mercoledì, peccato che se ne va bagnandosi con l’acqua benedetta. LUCREZIA: Dove mi portate, padre? TIMOTEO: Vi porto a cose che una volta fatte avrete sempre ragione di pregare Dio per me, e questo accadrà l’anno venturo più che questo. SOSTRATA: Lei farà ciò che vorrete. La metterò io a letto stanotte. Di cosa hai paura, bambinona? Ci sono perlomeno cinquanta donne qui in giro che al posto tuo alzerebbero le mani al cielo per ringraziare il Signore! LUCREZIA: Lo farò, ma non so se arriverò a domani viva nell’anima. TIMOTEO: Non dubitare, figlia mia. Pregherò Dio per te, farò un’invocazione all’angelo Raffaele, perché ti guidi. Andate ora e preparatevi a questo mistero, che si fa tardi.

Lucrezia giovane donna virtuosa, che non ama il marito, ma gli è fedele. Donna che non conosce le gioie dell’amore, vittima delle trame della madre e del frate, alla fine cede. E scoperta la felicità dell’amore, contro la dabbenaggine del marito, sceglie Callimaco come amante.

L’ULTIMA SCENA
(ATTO IV, scena VI) 

TIMOTEOIo vengo fuora perché Callimaco e Ligurio m’hanno detto che el dottore e le donne vengono alla chiesa.
NICIABona dies, padre!
TIMOTEOVoi siate le benvenute, e buon pro vi faccia, madonna, che Dio vi dia a fare un bello figliuolo maschio!
LUCREZIADio el voglia!
TIMOTEOE’ lo vorrà in ogni modo.
NICIAVeggh’io in chiesa Ligurio e maestro Callimaco?
TIMOTEOMesser sì.
NICIAAccennateli.
TIMOTEOVenite!
CALLIMACODio vi salvi!
NICIAMaestro, toccate la mano qui alla donna mia.
CALLIMACOVolentieri.
NICIALucrezia, costui è quello che sarà cagione che noi areno un bastone che sostenga la nostra vecchiezza.
LUCREZIAIo l’ho molto caro, e vuolsi che sia nostro compare.
NICIAOr benedetta sia tu! E voglio che lui e Ligurio venghino stamani a desinare con esso noi.
LUCREZIAIn ogni modo.
NICIAE vo’ dare loro la chiave della camera terrena d’in sulla loggia, perché possino tornarsi quivi a lor commodità, ché non hanno donne in casa e stanno come bestie.
CALLIMACOIo l’accetto, per usarla quando mi acaggia.
TIMOTEOIo ho avere e danari per la limosina?
NICIABen sapete come, domine, oggi vi si manderanno.
LIGURIODi Siro non è uomo che si ricordi?
NICIAChiegga, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti grossi hai a dare al frate per entrare in santo?
LUCREZIADategliene dieci.
NICIAAffogaggine!
TIMOTEOVoi, madonna Sostrata, avete, secondo mi pare, messo un tallo in sul vecchio.
SOSTRATAChi non sarebbe allegra?
TIMOTEOAndianne tutti in chiesa, e quivi direno l’orazione ordinaria; dipoi doppo l’uficio ne andrete a desinare a vostra posta. Voi, aspettatori, non aspettate che noi usciàno più fuora: l’uficio è lungo, e io mi rimarrò in chiesa, e loro per l’uscio del fianco se ne andranno a casa. Valète!

TIMOTEO: Esco fuori perché Callimaco e Ligurio mi hanno detto che il dottore e le donne stanno venendo in chiesa. NICIA: Buon giorno, padre. TIMOTEO: Voi siate le benvenute, buon pro vi faccia!, signora, e che Dio vi doni un bel figlio maschio! LUCREZIA: Dio lo voglia. TIMOTEO: Certamente lo vorrà. NICIA: Vedo in chiesa Ligurio e il maestro Callimaco? TIMOTEO: Si signore. NICIA: Chiamateli. TIMOTEO: Venite. CALLIMACO: Dio vi salvi. NICIA: Maestro, prendete la mano di mia moglie. CALLIMACO: Volentieri. NICIA: Lucrezia, questo è colui che ci darà un bastone per la nostra vecchiaia. LUCREZIA: L’ho molto caro, e vorrei fosse nostro compare. NICIA: Benedetta sia tu. Voglio che lui e Ligurio vengano a mangiare da noi oggi. LUCREZIA: Certamente. NICIA: E voglio dar loro le chiavi di una camera al pianterreno sulla loggia, affinché possano tornare qui, a loro comodo, perché non hanno donne in casa e stanno come animali. L’accetto, per usarla quando mi capita. TIMOTEO: Devo avere denari per l’elemosina? NICIA: Già sapete, signore, che oggi li riceverete. LIGURIO: Di Siro non c’è nessuno che si ricordi? NICIA: Chieda, ciò che io ho è suo. Tu, Lucrezia, quanti denari hai da dare al frate per andare in Santo (espressione con la quale si indicava alle puerpere l’entrare in chiesa per il futuro battesimo del nascituro)? LUCREZIA: Dagliene dieci. NICIA: Accidenti! TIMOTEO: Voi, madonna Sostrata, sembrate ringiovanita! SOSTRATA: Chi non sarebbe felice oggi? TIMOTEO: Andiamo tutti in chiesa, e qui diremo la preghiera quotidiana. Poi dopo l’ufficio, andrete a casa vostra. Voi spettatori non aspettateci più fuori. L’ufficio è lungo ed io rimarrò dentro, mentre loro usciranno di lato e andranno a casa. State bene!

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Costumi per la Mandragola

Da quanto abbiamo detto è chiaro che la Mandragola non è solo una parentesi piacevole di Machiavelli tra le opere politiche e storiche. Essa ci mostra il profondo pessimismo dello scrittore fiorentino sull’uomo. Quest’ultimo è mosso da un estirpabile egoismo (egoisti sono tutti i personaggi della commedia), ma al contempo Machiavelli riesce anche a disegnare l’ottimismo della volontà ed un vitalismo (elementi che deve possedere un principe) per ottenere un obiettivo. Per questo la commedia dello scrittore fiorentino è stata letta come la trasposizione letteraria del suo trattato politico.

RINASCIMENTO

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Heinrich Petri, Sebastian Münster, “Italia”, 1538

I termini Umanesimo e Rinascimento trovano a livello critico letterario una difficile determinazione in quanto gli elementi emersi durante il secolo XV trovano la piena affermazione nella prima metà del Cinquecento.
Più semplice, a veder bene, è tale demarcazione se dovessimo soffermarci solamente sugli avvenimenti storici, infatti la scoperta dell’America del 1492, la fine della libertà italiana e la lotta per il predominio in Europa tra Francia e Spagna (con la conseguente cancellazione di ogni idea imperiale), la riforma protestante (la perdita della centralità politico e culturale della chiesa) segnano quella che gli storici indicano come “età moderna”.

Per limitarci al nostro paese, che, è bene ricordarlo, continua ad essere egemone e punto di riferimento per gli intellettuali europei,  con il termine Rinascimento s’intende quel periodo storico-culturale compreso tra il 1494 ed il 1559, caratterizzato a livello politico dalla perdita dell’indipendenza degli Stati della nostra penisola e a livello artistico con il fiorire di tutte le arti verso vette che saranno in seguito difficilmente raggiungibili. Storicamente la politica dell’equilibrio fra i vari Stati italiani, perseguita da Lorenzo il Magnifico, se da una parte garantì una cinquantina di anni di pace nella nostra penisola, dall’altra la cristallizzò su formule che ormai apparivano superate nel resto d’Europa. Infatti la Francia, la Spagna e l’Inghilterra si evolvevano verso forme di vere e proprie entità nazionali, mentre, come già detto, la politica d’equilibrio negava a qualsiasi stato italiano un allargamento tale da potersi contrapporre alle conquiste “nazionali” del resto d’Europa. Ciò determinò, sin dal 1494, un’invasione nei nostri territori da parte dapprima di Carlo VIII; in seguito, nel 1499, da Luigi XII, ambedue re francesi. La facilità con la quale i due sovrani percorsero l’Italia, convinse la Spagna ad intervenire anch’essa, determinando un cinquantennio di guerre fra il paese transalpino e quello iberico che devastarono e procurarono una profonda ferita nei territori italiani.File:Francesco granacci, entrata di Carlo VIII a Firenze.jpg - Wikipedia

Francesco Granacci, Entrata di Carlo VIII a Firenze (1494)

Veri e propri protagonisti della storia cinquecentesca furono soprattutto i paesi della penisola iberica, Spagna e Portogallo, che ormai strutturatisi come veri e propri stati sovrani, poterono raccogliere ingenti capitali per finanziare le imprese coloniali che lasciarono l’America del centro-sud in mano agli spagnoli (ad eccezione del Brasile, portoghese). Ma il vero sovrano che sotto il suo scettro guidò quasi l’intera Europa fu Carlo V. Erede per parte di madre della Spagna e dei suoi relativi possessi (Sardegna, Sicilia, regno di Napoli e i territori americani), per linea paterna ereditò tutti i possedimenti asburgici. Nemico di Carlo V, perché accerchiato da tanta potenza, fu il francese Francesco I, che tuttavia non riuscì a scardinare la forza dell’imperatore ispano-asburgico. Vinse l’imperatore e la guerra si concluse soltanto nel 1559 con la pace di Cateau-Cambrésis, che sancì, infine, il predominio spagnolo nella penisola. Persero così l’indipendenza il Regno di Napoli e il Ducato di Milano che dapprima in mano francese finirono sotto il dominio spagnolo. Altri Stati conservarono la loro libertà, ma la pagarono a caro prezzo limitando la loro autonomia politica fin dove i due contendenti maggiori potevano permetterlo. Anche lo Stato della Chiesa, dopo aver cercato di “barcamenarsi” fra i due rivali, dovette capitolare al predominio spagnolo (ci piace ricordare qui il cosiddetto sacco di Roma del 1527 – a memoria di quello di Alarico e Genserico – compiuto dai lanzinecchi, soldati asburgici, che misero a ferro e a fuoco la città, mentre il papa, impotente, guardava le ferite inferte nella capitale della sacralità da una finestra di Castel Sant’Angelo). La stessa Repubblica di Venezia cessò le sue velleità espansionistiche e si limitò a controllare il proprio territorio, anche a causa dell’avanzata turca, che dopo aver debellato l’Impero d’Oriente (1473), minacciava l’Europa cristiana, cancellando le “stazioni” commerciali nel Baltico, fonte di lauti guadagni per la città lagunare. Tutto questo denota la perdita di centralità dell’Italia all’interno della politica europea, avvenuta soprattutto per due fatti fondamentali: la scoperta dell’America (1492) che sposta l’asse del commercio europeo dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico e la riforma protestante, promossa dal teologo tedesco Martin Lutero, (1517) che tolse al Papato il controllo ed i tributi di larghe fasce di credenti.

Tiziano, l'imperatore Carlo V a Mühlberg > ArtesplorandoTiziano: Ritratto di Carlo V d’Asburgo

La cultura rinascimentale

Culturalmente la situazione su descritta non determinò un indebolimento della tradizione italiana come la più importante dell’Europa; anzi, se così si può dire, i nostri intellettuali diedero vita ad una stagione prodigiosa che a livello artistico portò a risultati eccezionali: se nel ‘400 Leonardo aveva posto la figura al centro della natura, ma tuttavia armonicamente inserita in essa, come nella Gioconda, Michelangelo con il Giudizio Universale ed il David e Raffaello mostrano in tutta evidenza la tensione dell’uomo verso la ricerca della perfezione; negli affreschi e nei marmi del primo, tutti gli arti mostrano la tensione nervosa, la lotta del soggetto per affermare se stesso; nella Scuola di Atene raffaellesca, la tensione intellettuale di Leonardo e quella morale di Michelangelo si fondono in un tutt’uno di maggiore spiritualità, che pone l’uomo al centro della creazione divina e l’orgoglio dello stesso per questa centralità.

Sul piano letterario si evince, al di là degli esiti straordinari che in questa età verranno raggiunti, l’esigenza di contrapporre una certezza, che potesse in qualche modo contrapporsi al disordine della storia: nasce cioè la trattatistica che spiega il modo di scrivere o di governare in cui l’uomo del Rinascimento deve riconoscersi.

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Tiziano: Ritratto di Pietro Bembo (1539)

Per primo non sembra inopportuno richiamarsi al veneziano Pietro Bembo autore delle Prose della vulgar lingua. Nato nella città lagunare nel 1470 apprese, come gran parte degli intellettuali d’allora, in modo approfondito la cultura classica, ma, cosa rivoluzionaria per il suo tempo, curò l’edizione filologica dei classici italiani, Dante e Petrarca per le prestigiose edizioni a stampa di Manuzio. Si affaccia nella letteratura con il prosimetro sull’amore di stampo neoplatonico: gli Asolani.

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Pietro Bembo: Gli Asolani, dedicati a Lucrezia Borgia (edizione conservata in Francia)

Alla ricerca di una sistemazione all’interno di una corte signorile dove poter proseguire gli studi, abbandonata Venezia, si recò dapprima ad Urbino, dove rimase dal 1506 al 1512, per trasferirsi in seguito a Roma, dove divenne segretario del papa Leone X. Nonostante il suo esercizio all’interno dello Stato ecclesiastico lo facesse un intellettuale votato al latino, non tralasciò l’esercizio dell’uso del volgare pubblicando il suo capolavoro nel 1525 e, dopo cinque anni, la seconda edizione degli Asolani e le fondamentali Rime, che aprirono la via alla lirica petrarchesca. Divenuto cardinale nel 1539, onusto di gloria letteraria, si riconciliò con la sua patria e divenne storiografo ufficiale della Repubblica veneta. Muore a Roma nel 1547.

Il lavoro più importante di Bembo è costituito dalle Prose della volgar lingua del 1525, trattato a forma di dialogo – com’era uso nella filosofia classica – nel quale s’incontrano Carlo Bembo, fratello e portavoce delle tesi di Pietro Bembo, basate sul principio dell’imitazione dei grandi trecentisti, Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa; Giuliano de’ Medici, nell’epoca in cui è ambientato il dialogo, duca di Nembours, che si fa portavoce della teoria del fiorentino allora in uso; Federigo Fregoso, umanista e futuro cardinale, che vede nell’intera tradizione volgare un modello da seguire ed infine Ercole Strozzi, umanista che propone l’uso del latino.

LA SUPREMAZIA DEL FIORENTINO SUGLI ALTRI VOLGARI 
(I,15)

«E’ adunque la fiorentina lingua» disse lo Strozza «più gentile e più vaga, messer Carlo, della vostra?»
«E’ senza dubbio alcuno», rispose egli «né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua più tosto che in questa dettando e commentando».
«Ma perché è», rispose lo Strozza «che quella lingua più gentile sia che la vostra?»
Allora disse mio fratello: «Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose; perciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, più dolce, più vago, più ispedito, più vivo; né elle tronche si vede che sieno e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. Oltre a questo, hanno il loro cominciamento più proprio, hanno il mezzo più ordinato, hanno più soave e più dilicato il fine, né sono così sciolte, così languide; alle regole hanno più risguardo, a’ tempi, a’ numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure che non usiam noi, le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de’ quali più in pregio è stato a’ suoi tempi, o pure a’ nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura, le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le Giustiniane . E se il Cosmico è stato letto già, e ora si legge, è forse perciò che egli non ha in tutto composto vinizianamente, anzi s’è egli dal suo natìo parlare più che mezzanamente discostato. La qual povertà e mancamento di scrittori, istimo essere avenuto perciò che nello scrivere la lingua non sodisfà, posta, dico, nelle carte tale quale ella è nel popolo ragionando e favellando, e pigliarla dalle scritture non si può, ché degni e accettati scrittori noi, come io dissi, non abbiamo. Là dove la toscana e nel parlare è vaga e nelle scritture si legge ordinatissima, con ciò sia cosa che ella, da molti suoi scrittori di tempo in tempo indirizzata, è ora in guisa e regolata e gentile, che oggimai poco disiderare si può più oltra, massimamente veggendosi quello, che non è meno che altro da disiderare che vi sia, e ciò è che allei copia e ampiezza non mancano. La qual cosa scorgere si può per questo, che ella, e alle quantunque alte e gravi materie dà bastevolmente voci che le spongono, niente meno che si dia la latina, e alle basse e leggiere altresì; a’ quali due stremi quando si sodisfà, non è da dubitare che al mezzano stato si manchi. Anzi alcuna volta eziandio piú abondevole si potrebbe per aventura dire che ella fosse. Perciò che rivolgendo ogni cosa, con qual voce i latini dicano quello che da’ toscani molto usatamente valore è detto, non troverete. E perciò che tanto sono le lingue belle e buone più e meno l’una dell’altra, quanto elle più o meno hanno illustri e onorati scrittori, sicuramente dire si può, messer Ercole, la fiorentina lingua essere non solamente della mia, che senza contesa la si mette innanzi, ma ancora di tutte l’altre volgari, che a nostro conoscimento pervengono, di gran lunga primiera».

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Edizione delle “Prose della vulgar lingua” pubblicata a Napoli nel 1714

«E’ dunque il fiorentino», disse Ercole Strozzi (scrittore esclusivamente latino), più gentile e più elegante, signor Carlo  (Bembo, fratello e qui portavoce delle idee di Pietro) del vostro veneziano?»
«Certamente», gli rispose «e non esiterò a confessarvi quello che mio fratello Pietro ha confessato a tutti, scegliendo di scrivere in fiorentino piuttosto che in veneziano».
«Ma perché», riprese Strozzi, «quella lingua è più gentile della vostra?».
Allora disse mio fratello: «Signor Ercole, si potrebbero addurre molti argomenti, dal momento che, principalmente, si vede che le parole toscane hanno un miglior suono rispetto alle veneziane, più dolce, più leggiadro, più sciolto, più vivace; né nel toscano mancano i troncamenti delle sillabe finali, fenomeno invece assai frequente nel veneziano insieme all’uso di consonanti non raddoppiate. Oltre a questo hanno le sillabe inizianti delle parole derivanti da quelle latine, le sillabe centrali poste in modo armonioso e la stessa fine (della parola) più dolce e delicata, né sono così allentate, né così languide. Hanno maggior rispetto della morfologia, rispetto al tempo (verbale), al singolare e al plurale, agli articoli e al maschile e al femminile. I toscani usano molti modi di dire, pieni di avvedutezza, molto gradevoli e piene di ornamenti (stilistici) che noi non abbiamo e non occorre notare quanto simili abbellimenti contribuiscano ad adornare la lingua. Ma non voglio dire altro se non questo: che non c’è alcun scrittore di prosa che venga letto e che sia conosciuto, di versi, senza dubbio, molto pochi; uno dei quali è stato più apprezzato ai suoi tempi ed anche ai nostri, per la musica, più che per la lingua usata, le cui canzoni, dal suo nome sono dette e ancora si dicono Giustiniane. E se (il poeta padovano) Cosmico è stato letto e lo è ancora e forse determinato dal fatto che egli non ha scritto in veneziano, anzi egli si è decisamente, scrivendo, allontanato dalla lingua natia. La mancanza o la povertà di scrittori credo dipenda dal fatto che la lingua parlata nei discorsi o nei ragionamenti dal popolo non rende trasportata tale e quale nella pagina scritta e non si può derivarla dagli scritti, mancando del tutto scrittori degni e accettabili, come già detto. Al contrario la toscana è nell’uso piacevole e si legge nelle scritture in modo grammaticalmente corretto; questo perché essa, modellata dall’uso che ne fecero nel tempo molti scrittori, si presenta ora regolare ed armonica, tanto che oggi non si potrebbe quasi desiderare di più; e questo soprattutto osservando l’abbondanza di vocaboli propria del toscano e la loro ampiezza di significato, la qual cosa è importante non meno di altre. Questo si può vedere da ciò, che il toscano sebbene possieda sufficienti vocaboli per esprimere cose profonde e importanti non meno del latino, possiede anche sufficienti voci per le cose superficiali e meno serie, e se è capace di rendere con completezza questi due estremi saprà dare, senza manchevolezza, voce alle cose che si trovano a metà tra le due. Anzi, talvolta può persino possedere più varietà di espressione del latino, infatti ricercando accuratamente in latino ciò che in toscano è il significato di valore non lo troverete. Dal momento che le lingue sono belle ed efficaci (da utilizzare) tanto più esse hanno più o meno scrittori illustri e pieni d’onore, certamente si può dire, signor Ercole, che la lingua fiorentina è di gran lunga la principale non dico solamente del veneziano, che senza alcuna discussione la precede, ma anche di tutti gli altri volgari che conosciamo.      

Il passo su riportato appartiene ad un dibattito, piuttosto acceso all’inizio del Cinquecento, sulla lingua letteraria da utilizzare nelle opere. E’ evidente che tale questione nasce alla luce dell’allargamento della produzione letteraria e la necessità di trovare una lingua comune che permetta una lettura che vada al di là del municipio, come avveniva nel Trecento, ma anche ancora nell’Umanesimo, se il problema non si era posto nel ‘400, dove l’opera forse più rappresentativa del secolo, l’Orlando innamorato, nata al di fuori delle mura toscane, è pieno di idiotismi vernacolari.

Il Bembo s’inserisce nel dibattito, confutando la teoria di altri notevoli intellettuali, fra i quali ricordiamo il Castiglione che proponeva l’uso della lingua di Roma, perché proprio nella città del papa convergevano le più alte intellettualità, pertanto la mediazione tra di esse avrebbe fornito l’exemplum princeps linguistico. 

Per Bembo una lingua, per essere valida, non deve essere parlata, ma deve possedere una tradizione letteraria, l’unica che, in quanto scritta, possiede una grammatica studiabile e quindi riproponibile, fornendo un modello a cui tutti possono attingere. 

PETRARCA E BOCCACCIO OTTIMI MODELLI
(II,2; 9)

(…) Vennero appresso a Dante, anzi pure con esso lui, ma allui sopravissero, messer Cino, vago e gentil poeta e sopra tutto amoroso e dolce, ma nel vero di molto minore spirito, e Dino Frescobaldi, poeta a quel tempo assai famoso ancora egli, e Iacopo Alaghieri, figliuol di Dante, molto, non solamente del padre, ma ancora di costui minore e men chiaro. Seguì a costoro il Petrarca, nel quale uno tutte le grazie della volgar poesia raccolte. Furono altresì molti prosatori tra quelli tempi, de’ quali tutti Giovan Villani, che al tempo di Dante fu e la istoria fiorentina scrisse, non è da sprezzare; e molto meno Pietro Crescenzo bolognese, di costui più antico, a nome del quale dodici libri delle bisogne del contado, in volgare fiorentino scritti, per mano si tengono. E alcuni di quelli ancora che in verso scrissero, medesimamente scrissero in prosa, sì come fu Guido Giudice di Messina, e Dante istesso e degli altri. Ma ciascun di loro vinto e superato fu dal Boccaccio, e questi medesimo da sé stesso; con ciò sia cosa che tra molte composizioni sue tanto ciascuna fu migliore, quanto ella nacque dalla fanciullezza di lui più lontana. Il qual Boccaccio, come che in verso altresì molte cose componesse, nondimeno assai apertamente si conosce che egli solamente nacque alle prose. Sono dopo questi stati, nell’una facultà e nell’altra, molti scrittori. Vedesi tuttavolta che il grande crescere della lingua a questi due, al Petrarca e al Boccaccio, solamente pervenne; da indi innanzi, non che passar più oltre, ma pure a questi termini giugnere ancora niuno s’è veduto. Il che senza dubbio a vergogna del nostro secolo si trarrà; nel quale, essendosi la latina lingua in tanto purgata dalla ruggine degl’indotti secoli per adietro stati, che ella oggimai l’antico suo splendore e vaghezza ha ripresa, non pare che ragionevolmente questa lingua, la quale a comperazione di quella di poco nata dire si può, così tosto si debba essere fermata, per non ir più innanzi. Per la qual cosa io per me conforto i nostri uomini, che si diano allo scrivere volgarmente, poscia che ella nostra lingua è, sì come nelle raccontate cose, nel primo libro raccolte, si disse. Perciò che con quale lingua scrivere più convenevolmente si può e più agevolmente, che con quella con la quale ragioniamo?
(…)
Ma come che sia, venendo al fatto, dico che egli si potrebbe considerare, quanto alcuna composizione meriti loda o non meriti, ancora per questa via: che perciò che due parti sono quelle che fanno bella ogni scrittura, la gravità e la piacevolezza; e le cose poi, che empiono e compiono queste due parti, son tre, il suono, il numero, la variazione, dico che di queste tre cose aver si dee risguardo partitamente, ciascuna delle quali all’una e all’altra giova delle due primiere che io dissi. E affine che voi meglio queste due medesime parti conosciate, come e quanto sono differenti tra loro, sotto la gravità ripongo l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza, la grandezza, e le loro somiglianti; sotto la piacevolezza ristringo la grazia, la soavità, la vaghezza, la dolcezza, gli scherzi, i giuochi, e se altro è di questa maniera. Perciò che egli può molto bene alcuna composizione essere piacevole e non grave, e allo ‘ncontro alcuna altra potrà grave essere, senza piacevolezza; sí come aviene delle composizioni di messer Cino e di Dante, ché tra quelle di Dante molte son gravi, senza piacevolezza, e tra quelle di messer Cino molte sono piacevoli, senza gravità. Non dico già tuttavolta, che in quelle medesime che io gravi chiamo, non vi sia qualche voce ancora piacevole, e in quelle che dico essere piacevoli, alcun’altra non se ne legga scritta gravemente, ma dico per la gran parte. Sí come se io dicessi eziandio che in alcune parti delle composizioni loro né gravità né piacevolezza vi si vede alcuna, direi ciò avenire per lo piú, e non perché in quelle medesime parti niuna voce o grave o piacevole non si leggesse. Dove il Petrarca l’una e l’altra di queste parti empié maravigliosamente, in maniera che scegliere non si può, in quale delle due egli fosse maggior maestro.

Dopo Dante, ed alcuni insieme a lui, ma gli sopravvissero, ci furono Cino da Pistoia, poeta piacevole e gentile e soprattutto poeta d’amore e dal verso armonioso, ma, in vero, molto inferiore per capacità di spirito (a Dante) e Dino Frescobaldi, allora al tempo di Dante poeta molto famoso e Iacopo Alighieri , figlio di Dante, di molto inferiore e famoso del padre. Dopo di loro venne Petrarca, nella cui poesia si scorgono tutta la bellezza della precedente. Ci furono, inoltre molti prosatori in quei tempi, tra cui Giovanni Villani, che visse al tempo di Dante e scrisse la storia di Firenze, che non è da disprezzare, e lo è ancor meno il bolognese Pietro Crescenzo, antecedente al VIllani, che portò in toscano (dal latino) un trattato sui bisogni della campagna (attribuzione errata da parte di Bembo) che ancora si leggono. Ci sono poi autori che scrissero in versi ed in prosa, tra cui Guido delle Colonne, giudice di Messina, Dante stesso ed altri. Ma tutti furono vinti e superati da Giovanni Boccaccio e questo da se stesso; in quanto tra le molte composizioni, furono migliori quelle che scrisse nella maturità. Lo stesso Boccaccio, sebbene avesse scritto molte opere in versi, si sa palesemente quanto sia votato per la prosa. Tuttavia si vede che il rapido progresso della lingua condusse a Petrarca e a Boccaccio e poi si arrestò, in quanto dopo di loro non si è visto nessuno che li abbia superati e neppure raggiunti, il che è avvenuto per la vergogna del nostro secolo, che ha visto il progresso della lingua latina ritornata ormai all’antico splendore, non è ragionevole pensare che la lingua volgare, tanto più giovane di quella, debba essersi fermata, così da non poter progredire. Perciò cerco di spronare agli scrittori di adesso, di comporre le loro opere in volgare, dal momento che è la nostra lingua, così come si è detto precedentemente nel primo libro. Per cui con quale più conveniente si può scrivere se non nella lingua nella quale svolgiamo i nostri ragionamenti?
(…)
Ma in qualunque modo stiano le cose, venendo al punto, dico che bisognerebbe considerare se un componimento  sia meritevole o meno di un plauso, secondo criteri estetici, dal momento che sono due i criteri che rendono bella ogni tipo di scritto, la compostezza e la piacevolezza, e le cose che queste due contengono sono tre: il suono, il numero e la variazione; affermo che di queste ultime tre bisogna parlare separatamente poiché ciascuna di esse giova alle prime due ricordate prima. E affinché voi conosciate in modo migliore le due parti, come sono diverse tra loro, sotto la compostezza metto l’onestà, la dignità, la maestà, la magnificenza e la grandezza e tutto ciò che somiglia loro; sotto la piacevolezza metto la grazia, la leggerezza, la bellezza, la dolcezza, gli scherzi ed i giochi e ciò che a questa può apparentarsi. Per cui può capitare che una composizione sia piacevole e non grave e viceversa, così come avviene in quelle di Cino da Pistoia che sono piacevoli ma non gravi o di Dante che sono sostenute ma non piacevoli. Non voglio dire che non esistono poesie in cui se via piacevolezza non vi sia gravità e viceversa, ma dico che la maggior parte di esse appartengono o all’una o all’altra cosa. Come se io dicessi altresì che in alcune parti delle loro composizioni non trovassi né gravità né piacevolezza, lo direi perché per la maggior parte son così e non perché in esse manchi la parola grave o piacevole. In questa stessa cosa operò perfettamente il Petrarca in maniera che non si può scegliere dove operi meglio, se in gravità o in piacevolezza, perché seppe operare splendidamente in ambedue. 

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Medaglione con il ritratto di Pietro Bembo

La pagina bembiana ci offre un chiaro esempio di quello che si suol definire il “classicismo rinascimentale”. Cominciamo col dire che la capacità critica bembiana si concentra soprattutto sul fatto stilistico e non contenutistico. Il Boccaccio, infatti, sembra aver portato alle estreme conseguenze l’iter cronologico della lingua toscana, pervenendo con essa, a livello prosastico, alla maggiore perfezione sino allora possibile per la lingua volgare; il Petrarca per la poesia raggiunge l’armonia (termine chiave per l’intera cultura rinascimentale) tra la sublimità del testo e l’euritmia che lo sottende: tale capacità va valutata esteticamente, oserei dire, formalmente. Aspetti fonici, ritmici, quantitativi, la variatio per evitare la monotonia sono elementi fondamentali con i quali giudicare l’opera d’arte.

Ma tali modelli sono soprattutto importanti perché, in quanto formali, sono replicabili: il classicismo rinascimentale si basa sulla capacità non solo di emulare ma di eguagliare i grandi classici e questo avviene linguisticamente. Il ‘400 aveva riportato a dignità letteraria il latino, togliendogli di dosso le scorie spurie del latino medievale; si trattava ora di portare alla stessa dignità il volgare. Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa avevano posto un termine dal quale ripartire, ricorrendo alla loro capacità estetica, per produrre opere dall’alto valore culturale. 

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Cranach il Giovane: ritratto di Pietro Bembo 

Lo stesso Bembo mise in pratica la sua concezione poetica da lui elaborata nelle Prose pubblicando le Rime (1535), testo di un’importanza fondamentale per l’affermazione del petrarchismo europeo. Portiamo ad esempio il sonetto proemiale: 

PIANSI E CANTAI LO STRATIO
(I)

Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra,
ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni,
et la cagion di così lunghi affanni,
cose prima non mai vedute in terra.

Dive, per cui s’apre Helicona et serra,
use far a la morte illustri inganni,
date a lo stil, che nacque de’ miei danni,
viver quand’io sarò spento e sotterra.

Ché potranno talhor gli amanti accorti,
queste rime leggendo, al van desio
ritoglier l’alme col mio duro exempio;

et quella strada, ch’a buon fine porti,
scorger da l’altre, et quanto adorar Dio
solo si dee nel mondo, ch’è suo tempio.

Piansi e cantai il dolore e la dura battaglia (d’amore) che dovetti affrontare per moltissimi anni ed il motivo di così prolungati tormenti, cose prima mai viste sulla terra. // Dee, per le quali si apre e si chiude la fonte dell’Elicona, abituate a tessere illustri inganni alla morte, date al mio stile, che è nato dal mio dolore, la possibilità di vivere, anche quando sarò morto. // Perché potranno talvolta gli amanti avveduti, leggendo queste rime, grazie al mio doloroso esempio, sottrarre le (loro) anime all’irraggiungibile desiderio // e vedere tra le altre strade quella che conduce al buon fine e quanto si deve adorare solamente Dio nel mondo, che è il suo tempio. 

Il tema è quello del ricordo doloroso d’amore (Piansi et cantai lo stratio et l’aspra guerra, / ch’i’ ebbi a sostener molti et molt’anni), e nell’incipit del poeta troviamo il richiamo lessicale petrarchesco (piango e ragiono); così come lo troviamo nell’ultimo verso (solo si dee nel mondo contro quanto piace al mondo). Ma se l’uso delle parole è fortemente debitore dell’autore aretino, ben diverso è il fine dell’opera: in Voi ch’ascoltate di rime sparse tutto è svolto in interiore hominis in cui si sottolinea la vacuità del desiderio e la vergogna verso se stessi; qui invece tutto si svolge in modo esterno da se stessi, sia quando invoca le Muse per rendere la sua poesia imperitura sia quando la sua poesia diventa avvertimento per gli amanti affinché sappiano scegliere la via verso il Signore. 

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Raffaello Sanzio: Ritratto di Baldassare Castiglione (1515)

Altro grande intellettuale rinascimentale, che si muove sempre all’interno della trattatistica e che nel suo libro fondamentale per la cultura dell’epoca tratta temi, potremmo dire, di carattere morale, è Baldassarre Castiglione. Egli nasce nel 1478 da una famiglia nobiliare imparentata con i Gonzaga di Mantova in un paese vicino alla città lombarda. Approfondisce gli studi classici a Milano. Poi dal 1499 dapprima nella signoria natia e quindi ad Urbino presso il duca di Montefeltro, a cui succede Francesco della Rovere, nipote del papa Giulio II, si dà alla vita cortigiana, svolgendo per i signori attività diplomatiche presso i re di Francia e d’Inghilterra. Nel 1513 con l’elezione al soglio papale di Leone X (1513) si trasferisce a Roma, come ambasciatore del Della Rovere, ma alla sua deposizione voluta da papa ed il ritorno di quest’ultimo a Mantova, il Castiglione lo segue. Qui, dopo aver rotto i rapporti con il suo signore, si riavvicina ai Gonzaga che lo rimandano a Roma presso Clemente VII, papa dal 1523. Mandato a Madrid per intessere relazioni con l’Impero Spagnolo, fu accusato di non aver saputo cogliere l’intenzione di Carlo d’Asburgo di mettere a fuoco la città di Roma (sacco di Roma, 1527). Caduto in disgrazia si trattenne in Spagna, morendo a Toledo nel 1529.

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Tiziano: Francesco Maria della Rovere

Il capolavoro del Castiglione è Il Cortegiano pubblicato l’anno precedente la morte. E’ un dialogo, secondo la trattatistica classica ed umanista, ma qui, composto in forma nuova: infatti non vi è un personaggio che fa la parte di colui che tenta di convincere gli altri interlocutori e che di solito è il portatore della visione dell’autore, ma tutti i dialoganti cooperano nella descrizione dei compiti del perfetto cortigiano.

L’opera, nella quale s’immagina il dialogo nella corte d’Urbino nel 1506, è divisa in quattro libri:

  1. Ludovico di Canossa delinea l’aspetto fisico e morale e, nell’ambito dell’affettazione, affronta il problema della lingua;
  2. Federigo Fregoso affronta i modi in cui le qualità del cortigiano debbano realizzarsi, ispirandosi al concetto di “onore” e “lode”. Quindi il Bibbiena parla delle facezie (motti arguti, amenità) da esplicarsi all’interno della corte;
  3. Giuliano de’ Medici parla della “cortigiana” difendendola dalle accuse misogene in cui era avvolta;
  4. Ottaviano Fregoso illustra quali debbono essere i rapporti tra principe e cortegiano, mente Pietro Bembo sviluppa il tema dell’amore platonico. 

NOBILTA’ E CORTIGIANERIA
(I, XIV)

«Voglio adunque che questo nostro cortegiano sia nato nobile e di generosa famiglia; perché molto men si disdice ad un ignobile mancar di far operazioni virtuose, che ad uno nobile, il qual se desvia dal camino dei sui antecessori, macula il nome della famiglia e non solamente non acquista, ma perde il già acquistato; perché la nobiltà è quasi una chiara lampa, che manifesta e fa veder l’opere bone e le male ed accende e sprona alla virtú cosí col timor d’infamia, come ancor con la speranza di laude; e non scoprendo questo splendor di nobiltà l’opere degli ignobili, essi mancano dello stimulo e del timore di quella infamia, né par loro d’esser obligati passar più avanti di quello che fatto abbiano i sui antecessori; ed ai nobili par biasimo non giunger almeno al termine da’ sui primi mostratogli. Però intervien quasi sempre che e nelle arme e nelle altre virtuose operazioni gli omini piú segnalati sono nobili perché la natura in ogni cosa ha insito quello occulto seme, che porge una certa forza e proprietà del suo principio a tutto quello che da esso deriva ed a sé lo fa simile; come non solamente vedemo nelle razze de’ cavalli e d’altri animali, ma ancor negli alberi, i rampolli dei quali quasi sempre s’assimigliano al tronco; e se qualche volta degenerano, procede dal mal agricultore. E cosí intervien degli omini, i quali, se di bona crianza sono cultivati, quasi sempre son simili a quelli d’onde procedono e spesso migliorano; ma se manca loro chi gli curi bene, divengono come selvatichi, né mai si maturano. Vero è che, o sia per favor delle stelle, o di natura, nascono alcuni accompagnati da tante grazie, che par che non siano nati, ma che un qualche dio con le proprie mani formati gli abbia ed ornati de tutti i beni dell’animo e del corpo; sí come ancor molti si veggono tanto inetti e sgarbati, che non si po credere se non che la natura per dispetto o per ludibrio produtti gli abbia al mondo. Questi sí come per assidua diligenzia e bona crianza poco frutto per lo piú delle volte posson fare, cosí quegli altri con poca fatica vengon in colmo di summa eccellenzia. E per darvi un esempio, vedete il signor don Ippolito da Este cardinal di Ferrara, il quale tanto di felicità ha portato dal nascere suo, che la persona, lo aspetto, le parole e tutti i sui movimenti sono talmente di questa grazia composti ed accommodati, che tra i piú antichi prelati, avvenga che sia giovane, rappresenta una tanto grave autorità, che piú presto pare atto ad insegnare, che bisognoso d’imparare; medesimamente, nel conversare con omini e con donne d’ogni qualità, nel giocare, nel ridere e nel motteggiare tiene una certa dolcezza e cosí graziosi costumi, che forza è che ciascun che gli parla o pur lo vede gli resti perpetuamente affezionato. Ma, tornando al proposito nostro, dico che tra questa eccellente grazia e quella insensata sciocchezza si trova ancora il mezzo; e posson quei che non son da natura cosí perfettamente dotati, con studio e fatica limare e correggere in gran parte i diffetti naturali. Il cortegiano, adunque, oltre alla nobiltà, voglio che sia in questa parte fortunato, ed abbia da natura non solamente lo ingegno e bella forma di persona e di volto, ma una certa grazia e, come si dice, un sangue, che lo faccia al primo aspetto a chiunque lo vede grato ed amabile; e sia questo un ornamento che componga e compagni tutte le operazioni sue e prometta nella fronte quel tale esser degno del commerzio e grazia d’ogni gran signore».

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Banchetto rinascimentale all’aperto

«Voglio dunque che questo nostro cortigiano sia di discendenza nobiliare e di famiglia onorata; perché un comportamento non ispirato alla virtù è più facilmente tollerato in una persona di basso stato sociale che non in un nobile, che se si allontana dal cammino dei suoi antenati, macchia il nome della famiglia e solamente non acquista (in lode), ma perde quello che aveva ottenuto; perché la nobiltà è come una luce che rende manifeste e fa vedere le cose buone e quelle cattive e fa da sprone alla virtù, sia con il timore d’infamia quanto con la speranza di lode. Questa luce, non splendendo nelle opere delle persone comuni, viene loro meno lo stimolo ed il timore d’infami, né per essi è d’obbligo superare le condizioni dei loro antenati, mentre ai nobili parrebbe vergognoso non raggiungere almeno il livello (di fama, virtù ed onore) raggiunto dai loro predecessori. Per questo accade sempre che nelle armi e nelle altre azioni virtuose gli uomini più in vista sono nobili, perché la natura ha posto in ogni seme una forza o proprietà nascosta che tutto ciò che da esso proviene lo fa simile, così come vediamo nelle razze dei cavalli e di altri animali, ma anche negli alberi, i cui germogli hanno lo stesso tipo di tronco e se qualche volta degenerano è colpa di chi ha seminato. Lo stesso accade agli uomini che se sono cresciuti con buoni costumi, quasi sempre somigliano alla famiglia di provenienza e spesso la migliorano, ma se viene meno colui che si prenda cura di loro diventano come rozzi e non si educano più. E’ pur vero che, sia per volontà del cielo o della natura, vi sono degli uomini accompagnati da tante virtù che pare non siano nati, ma plasmati da qualche dio che li abbia forniti di ogni bene dell’anima e del corpo, così come molti altri se ne vedono tanto incapaci quanto sgraziati che viene quasi da pensare che la natura li abbia creati per dispetto o per scherno. Questi ultimi così con poco successo possono essere educati alla compostezza e alla buona creanza, mentre i primi con poca fatica raggiungono il culmine della massima eccellenza. Guardate, ad esempio, il signor Ippolito d’Este, cardinale di Ferrara che ha ricevuto dalla stirpe di cui è nato tanto di felicità che la persona, l’aspetto, le parole e tutti i suoi atti sono a tal punto composti e accordati, che tra i anziani prelati, sebbene sia egli giovane, rappresenta una tanto rilevante autorità, che sembra piuttosto in grado d’insegnare che d’imparare; allo stesso modo nel conversare con uomini e con donne d’ogni stato sociale, nel giocare, nel ridere, nel discorrere con ironia, ha un modo così elegante e aggraziato che è inevitabile che chiunque gli parla e lo vede gli rimane affezionato. Ma tornando al nostro discorso, affermo che tra questa eccellente grazia e quella rozzezza senza senso, si trova una via di mezzo e possono coloro che non sono stati così dotati dalla natura correggere in gran parte i difetti naturali con studio e fatica. Pertanto ritengo indispensabile che un cortigiano, oltre all’essere nobile, sia da questo punto di vista fortunato tanto da avere dalla natura non solo l’intelligenza e un aspetto gradevole, ma anche una certa grazia e, come si dice, un umore affidabile che lo renda alla prima impressione per chi lo vede piacevole e amabile e sia questo un ornamento che accompagni tutte le sue operazioni e fin dall’aspetto esteriore garantisca che quel cortigiano è degno della compagnia e dei favori del suo signore»    

Il discorso di Castiglione ci conduce ad un passaggio cruciale circa il concetto di nobiltà: se nell’età comunale tale “nobiltà” si era affrancata dall’essere di sangue per diventare una dote intellettuale che distingueva l’uomo gentile da quello villano, tra il Quattrocento ed il Cinquecento tale concetto cambia e tale mutamento è frutto della società signorile entro la quale Castiglione stesso s’inserisce. Se è pur vero che l’essere nobili non basta a possedere la “grazia” e pur vero che fornisce quel quid in più che permette di raggiungerla. E’ che nella corte essere un nobile è già di per sé una qualità che sta all’uomo saperla raffinare con la consapevolezza della sua discendenza e delle possibilità che la sua condizione gli offre.

LA SPREZZATURA
(I, XXVI)

«Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne’ verdi prati sempre tra l’erbe va carpendo i fiori, cosí il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que’ che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che piú sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simile al re Ferrando minore d’Aragona, né in altro avea posto cura d’imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosí da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand’omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande ch’ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l’omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che ’l studio e l’arte; la qual se fosse stata conosciuta, aría dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l’arte ed un cosí intento studio levi la grazia d’ogni cosa. Qual di voi è che non rida quando il nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que’ saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? Qual occhio è così cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti così la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?»

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Maestro di danza rinascimentale

Chi dunque vorrà essere un buon discepolo, oltre a fare le cose bene, deve sempre porre la massima attenzione per rendersi simile al maestro e, se fosse possibile, trasformarsi in lui. E quando ha la sensazione di aver raggiunto lo scopo, è molto utile osservare diversi uomini che fanno la professione (del cortigiano) e comportandosi con gran giudizio, che sempre lo deve guidare, per scegliere tra i loro comportamenti, or da uno ora da un altro, vari utili atteggiamenti. Come l’ape nei prati verdi va succhiando il nettare di fiore in fiore, così il nostro cortigiano dovrà rubare questa grazia da chi gli sembra ne abbia di più e da ciascuno di essi quella che gli parrà più lodevole; e non comportarsi come un nostro amico, che voi tutti conoscete,  che pensava di rendersi molto simile a Fernando II d’Aragona, re di Napoli e non in altro aveva posto l’attenzione se non in quella di alzare la testa, torcendo in parte la bocca, la cui torsione il re aveva contratto da una malattia. E si trovano molti di quelli che pensano di farsi molto apprezzare purché si rendano simili ad un grand’uomo in qualcosa, e spesso si attaccano a quella cosa che in quella personalità, sola, è un difetto. Ma avendo io spesse volte pensato dove nasca questa grazia, lasciando da parte quelli che l’hanno ricevuta dalla natura, ho trovato una regola universale che mi pare valida per quanto riguarda questo argomento e cioè fuggire quanto più si può, come se ci trovassimo di fronte ad un ruvidissmo e pericoloso scoglio, in tutte le cose umane che si fanno o si dicono dall’affettazione e per dir forse qualcosa di nuovo, usare in ogni cosa una certa “sprezzatura” che nasconda l’arte e dimostri che ciò che si fa e si dice venga fatto nasca senza fatica e quasi senza pensarvi. Secondo me da questo deriva la grazia, perché tutti sanno quanta difficoltà ci sia nelle cose rare e ben fatte e quanta meraviglia susciti se svolte con facilità; al contrario lo sforzare e, come si dice, tirar per i capelli dà vita ad una goffa disarmonia e fa reputare poco ogni cosa, per quanto grande possa essere. Perciò si può dire che appare vera arte quella che non sembra essere arte e che si deve porre ogni studio nel nasconderla perché, se evidente, toglie tutto il pregio e produce disistima verso l’uomo che la fa. E ricordo di aver letto che ci sono stati grandissimi oratori  i quali, tra le loro capacità, inserivano anche quella di non avere alcuna conoscenza di letteratura e dissimulando di conoscerla mostravano che le loro orazioni erano semplicissime (senza alcun ornamento) e piuttosto nate dalla naturalità (del dire) e dalla realtà dei fatti, piuttosto che dallo studio e dall’arte retorica; cosa che se si fosse saputa  avrebbe istillato nella gente il dubbio  di essere ingannati. Vedete dunque come il mostrare l’arte ed una così intensa cura tolga grazia da ogni cosa. Chi vi è di voi che non rida quando il nostro signor Pierpaolo danza secondo la sua maniera, con quei saltelli e quelle gambe rigide in punta di piedi, senza muovere la testa, come se fosse fatto di legno, con tanta attenzione, che sembra stia contando i passi? Chi è così cieco da non vedere in questo la goffaggine dell’affettazione? e (chi invece vede) la grazia in molti uomini e donne qui presenti, di quella naturalezza disinvolta (che nei loro movimenti molti così la chiamano) nel parlare o ridere o adeguarsi nel muovere le mani, mostrando di non dar peso a ciò che fanno e di pensare ad ogni altra cosa più che a quello, facendo credere e chi li vede quasi di non sapere né poter sbagliare? 

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Edizione antica del “Cortegiano”

Questo passo è fondamentale perché ci aiuta a capire un aspetto fondamentale di un cambiamento culturale che sarà precorritore della nuova cultura che si svilupperà nella seconda metà del Cinquecento. Il concetto di “grazia”, infatti, come sviluppato dallo stesso Castiglione non è derivato, ma frutto di un processo pedagogico “terreno”. Cerco di spiegarmi meglio: nella cultura del primo umanesimo essa poteva essere assimilata ad un processo metafisico per cui se la possiede è perché innata nell’uomo. Castiglione invece ne fa un qualcosa di esterno, verificabile, piena di connotati completamente raggiungibili attraverso studio e applicazione. “Ciò significa spostare in qualche modo il discorso dall’ideale al reale, dalla teoria alla prassi, dall’astrazione metafisica (il modello platonico delle idee) alla concretezza pedagogica (il modello aristotelico delle virtù che si possono apprendere ed effettivamente esercitare) (Grosser)”. 

Alla grazia Castiglione associa il concetto della naturalezza: se la grazia come dono di Dio è di per sé una naturale perfezione, la grazia acquisita con studio e fatica deve tendere alla perfezione simulando la naturalezza: ciò è quello che Castiglione chiama “sprezzatura”.  

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Pontormo: Ritratto di Giovanni Della Casa (1541)

Opera minore rispetto alle due precedenti, ma iscritta sempre all’interno della trattatistica e di notevole successo è il Galateo, opera di Giovanni Della Casa. Nato a Firenze e formatosi a Bologna, il nostro ebbe una vita piuttosto movimentata, fatta di amicizie (fra le quali ricordiamo quella con Pietro Bembo) e di legazioni. Dal 1537 iniziò la carriera ecclesiastica che lo portò a Venezia, dove partecipò all’azione repressiva della Chiesa contro il nascente riformismo luterano e istituì l’Index librorum prohibitorum. Se con Paolo III la sua posizione all’interno della Chiesa fu di una certa rilevanza, con il suo successore, Giulio III, il Della Casa venne in parte emarginato, quindi si ritirò a Treviso, dove si diede ad un’intensa attività letteraria. Salito al soglio Paolo IV, venne reintegrato e chiamato a Roma, dove divenne segretario di Stato, ma morì l’anno successivo (1556).

Il Della Casa è un autore piuttosto prolifico: di lui abbiamo eleganti scritture latine, orazioni, un ricco epistolario, componimenti berneschi d’argomento osceno e rime petrarchesche.

Il suo libro di maggior successo è il Galateo ovvero dei costumi, dedicato a Galeazzo Florimonte (Galatheus è il nome latino di Galeazzo) ed è stato composto tra il 1550 e il 1552. Vi si finge che un illetterato si accinga a d ammaestrare un suo giovinetto alle buone maniere, dando per scontato il presupposto etico.

IL RISPETTO PER LE REGOLE
(I,II)

Con ciò sia cosa che tu incominci pur ora quel viaggio del quale io ho la maggior parte, sì come tu vedi, fornito, cioè questa vita mortale, amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo di venirti mostrando quando un luogo e quando altro, dove io, come colui che gli ho sperimentati, temo che tu, caminando per essa, possi agevolmente o cadere, o come che sia, errare: acciò che tu, ammaestrato da me, possi tenere la diritta via con la salute dell’anima tua e con laude et onore della tua orrevole e nobile famiglia. E perciò che la tua tenera età non sarebbe sufficiente a ricevere più prencipali e più sottili ammaestramenti, riserbandogli a più convenevol tempo, io incomincerò da quello che per aventura potrebbe a molti parer frivolo: cioè quello che io stimo che si convenga di fare per potere, in comunicando et in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera: il che non di meno è o virtù o cosa a virtù somigliante. E come che l’esser liberale o constante o magnanimo sia per sé sanza alcun fallo più laudabil cosa e maggiore che non è l’essere avenente e costumato, non di meno forse che la dolcezza de’ costumi e la convenevolezza de’ modi e delle maniere e delle parole giovano non meno a’ possessori di esse che la grandezza dell’animo e la sicurezza altresì a’ loro possessori non fanno: perciò che queste si convengono essercitare ogni dì molte volte, essendo a ciascuno necessario di usare con gli altri uomini ogni dì et ogni dì favellare con esso loro; ma la giustitia, la fortezza e le altre virtù più nobili e maggiori si pongono in opera più di rado; né il largo et il magnanimo è astretto di operare ad ogni ora magnificamente, anzi non è chi possa ciò fare in alcun modo molto spesso; e gli animosi uomini e sicuri similmente rade volte sono constretti a dimostrare il valore e la virtù loro con opera. Adunque, quanto quelle di grandezza e quasi di peso vincono queste, tanto queste in numero et in ispessezza avanzano quelle: e potre’ ti, se egli stesse bene di farlo, nominare di molti, i quali, essendo per altro di poca stima, sono stati, e tuttavia sono, apprezzati assai per cagion della loro piacevole e gratiosa maniera solamente; dalla quale aiutati e sollevati, sono pervenuti ad altissimi gradi, lasciandosi lunghissimo spatio adietro coloro che erano dotati di quelle più nobili e più chiare virtù che io ho dette. E come i piacevoli modi e gentili hanno forza di eccitare la benivolenza di coloro co’ quali noi viviamo, così per lo contrario i zotichi e rozzi incitano altrui ad odio et a disprezzo di noi. Per la qual cosa, quantunque niuna pena abbiano ordinata le leggi alla spiacevolezza et alla rozzezza de’ costumi (sì come a quel peccato che loro è paruto leggieri, e certo egli non è grave), noi veggiamo non di meno che la natura istessa ce ne castiga con aspra disciplina, privandoci per questa cagione del consortio e della benivolenza degli uomini: e certo, come i peccati gravi più nuocono, così questo leggieri più noia o noia almeno più spesso; e sì come gli uomini temono le fiere salvatiche e di alcuni piccioli animali, come le zanzare sono e le mosche, niuno timore hanno, e non di meno, per la continua noia che eglino ricevono da loro, più spesso si ramaricano di questi che di quelli non fanno, così adiviene che il più delle persone odia altrettanto gli spiacevoli uomini et i rincrescevoli quanto i malvagi, o più. Per la qual cosa niuno può dubitare che a chiunque si dispone di vivere non per le solitudini o ne’ romitorii, ma nelle città e tra gli uomini, non sia utilissima cosa il sapere essere ne’ suoi costumi e nelle sue maniere gratioso e piacevole; sanza che le altre virtù hanno mestiero di più arredi, i quali mancando, esse nulla o poco adoperano; dove questa, sanza altro patrimonio, è ricca e possente, sì come quella che consiste in parole et in atti solamente. Il che acciò che tu più agevolmente apprenda di fare, dèi sapere che a te convien temperare et ordinare i tuoi modi non secondo il tuo arbitrio, ma secondo il piacer di coloro co’ quali tu usi, et a quello indirizzargli; e ciò si vuol fare mezzanamente, perciò che chi si diletta di troppo secondare il piacere altrui nella conversatione e nella usanza, pare più tosto buffone o giucolare, o per aventura lusinghiero, che costumato gentiluomo. Sì come, per lo contrario, chi di piacere o di dispiacere altrui non si dà alcun pensiero è zotico e scostumato e disavenente. Adunque, con ciò sia che le nostre maniere sieno allora dilettevoli, quando noi abbiamo risguardo all’altrui e non al nostro diletto, se noi investigheremo quali sono quelle cose che dilettano generalmente il più degli uomini, e quali quelle che noiano, potremo agevolmente trovare quali modi siano da schifarsi nel vivere con esso loro e quali siano da eleggersi. Diciamo adunque che ciascun atto che è di noia ad alcuno de’ sensi, e ciò che è contrario all’appetito, et oltre a ciò quello che rappresenta alla imaginatione cose male da lei gradite, e similmente ciò che lo ‘ntelletto have a schifo, spiace e non si dèe fare.

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Edizione del Galateo del 1940

Poiché è giunto il momento in cui tu cominci il viaggio della vita che io, come puoi vedere,  ho già per la maggior parte compiuto, volendoti molto bene (si pensa possa essere suo nipote, Annibale Ruccellai) mi sono riproposto di mostrarti alcune circostanze  in cui io, avendole già sperimentate, temo tu possa incapparvi e sbagliare nell’affrontarle, affinché tu, con il mio insegnamento, possa mantenere la giusta direzione con la salvezza della tua anima e con lode ed onore della tua onorata e nobile famiglia. Dal momento in cui la tua giovinezza non è ancora sufficiente per apprendere i più importanti e profondi insegnamenti, riservandoli ad un tempo più opportuno, inizierò da quelli, per alcuni frivoli, che io credo si debba tenere, nella comunicazione e nella relazione tra persone, per apparire costumato, piacevole e di buone maniere, che pur non essendo propriamente virtù di molto gli si avvicina. E benché essere generosi e fermi nelle decisioni e di elevati costumi sia di per sé, senza dubbio, cosa più lodevole e importante che non essere di bella persona e di buoni modi, nondimeno la dolcezza nel comportarsi e usare modi e atteggiamenti convenevoli  sono utili a costoro alla stessa maniera in cui la grandezza d’animo e la fermezza lo siano per chi ce l’abbia; perché queste cose sono esercitate continuamente, essendo la pratica dell’incontrarsi e del conversare con gli altri necessaria, mentre le virtù più nobili e più grandi vengono messe in opera più raramente; e nemmeno uomini liberali e generosi  sono costretti a dimostrare continuamente tutta la loro magnificenza, anzi non c’è la possibilità di poterla mettere in opera spesso  e quelli forti e coraggiosi  allo stesso modo non possano mettere in atto continuamente tutta la loro virtù. Quindi quanto le virtù più nobili vincono per importanza e gravità quelle del buon comportamento, quanto quest’ultime vincono le prime per numero e frequenza. Potrei, se fosse lecito, nominare molti uomini che essendo di per se stessi poco meritevoli, sono stati e sono ancora molto apprezzati per via della loro piacevole e gradevole presenza, dalla quale aiutati ed innalzati a più alto grado, hanno lasciato indietro quelli che  possedevano le già nominate grandi virtù e allo stesso modo come i modi piacevoli e gentili hanno la forza di stimolare la benevolenza di quelli con cui viviamo e la sgarbatezza ed il comportamento inadeguato spingono gli altri all’odio e al disprezzo; per cui, benché le legge non prevedano pene per la sregolatezza e la maleducazione dei comportamenti (una colpa che è parsa di di poco rilievo ed è certo non grave), tuttavia vediamo come la stessa natura ce li fa scontare duramente allontanandoci, a causa loro, dalla partecipazione sociale e dalla disponibilità delle persone. Naturalmente come i peccati più gravi nuocciono maggiormente, così questi più veniali danno fastidio e recano più spesso insofferenza; allo stesso modo gli uomini temono di più gli animali selvatici, mentre dei piccoli insetti, come le zanzare e le mosche non hanno paura; ma per la numerosità più spesso si lamentano di loro, come per gli uomini che odiano quelli dai costumi spiacevoli e riprovevoli piuttosto di quelli dai costumi malvagi. Perciò nessuno deve dubitare, a meno che non decida di vivere da solo o in un monastero, ma in città, in mezzo ad altri uomini, che il sapere essere gentile e costumato, senza aggiungere altro, servirebbe a poco; mentre questa capacità, senza bisogno di altri valori, s’impone di per sé, in quanto consiste solo di parole e comportamenti.
Affinché tu apprenda più agevolmente il comportamento (da tenere), devi sapere che ti conviene moderare e gestire le tue maniere non secondo la tua volontà ma secondo il piacere di coloro con i quali ti relazioni e finalizzarli a loro; e ciò si può ottenere con misura, senza esagerare, perché chi si presta esageratamente ad assecondare il piacere altrui nel conversare e nello stare con lui, sembra piuttosto un buffone o un saltimbanco o quasi lusingatore piuttosto che un educato gentiluomo. Allo stesso   modo, al contrario, chi non si preoccupa per nulla del piacere o dispiacere altrui è uno zotico, scostumato e sgradevole. Infine, affinché le nostre maniere siano nei momenti opportuni piacevoli, quando noi abbiamo rispetto dell’altro e non per piacere nostro, se noi investigassimo quali sono le cose che generalmente piacciono di più agli uomini e quali quelli che più li infastidiscono, potremo facilmente trovare quali modi siano da evitarsi e quali da preferirsi nel rapportarsi con loro. Diciamo dunque che ciascun atto che è poco stimolante ed è contrario al desiderio e tutto ciò che rappresenta all’immaginazione cose estremamente sgradite e allo stesso modo ciò che l’intelletto ritiene odioso , spiace e non si deve fare.

La prospettiva del libro del Della Casa è fortemente didascalica: sin dalle prime righe egli, pur assimilandosi ad un vecchio idiota, si assume il compito d’ammaestrare il giovane di buna famiglia a comportarsi in modo adeguato. Come il più alto Cortegiano, anche il Galateo passa da un prospettiva teorica ad una pratica, ma se nel primo l’anelito morale è ancora presente nella ricerca della “grazia”, qui tutto si riduce ad una forma che non ha alcun valore dentro di sé. Infatti ci si deve comportare secondo le aspettative di colui con il quale si instaura una relazione: questo vuol dire abdicare a qualsiasi forma inerente all’individuo interno per combaciare in modo acritico alle attese dell’individuo che si ha di fronte; per meglio dire, racchiudere nella forma delle buone maniere il vuoto del proprio io che trova forma in una serie di sterili gesti e atteggiamenti che rendono elegante l’uomo. Il Della Casa sottolinea spesso questo aspetto: l’uomo geniale e d’altissime virtù è poco amato, l’uomo con poche attitudini positive è circondato dall’amore di molti. Il giudizio degli altri diventa metro fondamentale entro cui misurare il grado di piacevolezza all’interno della società.

Come abbiamo già visto a proposito del Bembo, durante il Cinquecento prende forma un’importante produzione poetica, tutta segnata dall’insegnamento dell’intellettuale veneziano che fa del Petrarca il modello inimitabile. Molti gli intellettuali che si cimentano nella produzione di sonetti, ma fra essi ci piace ricordare il più grande artista del  Cinquecento, Michelangelo Buonarroti, che, tra le altre, inserisce nelle sue rime la tensione artistica che contraddistingue la sua insuperabile arte scultorea e pittorica:

NON HA L’OTTIMO ARTISTA ALCUN CONCETTO

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.

Il mal ch’io fuggo, e ’l ben ch’io mi prometto,
in te, donna leggiadra, altera e diva,
tal si nasconde; e perch’io più non viva,
contraria ho l’arte al disïato effetto.

Amor dunque non ha, né tua beltate
o durezza o fortuna o gran disdegno,
del mio mal colpa, o mio destino o sorte;

se dentro del tuo cor morte e pietate
porti in un tempo, e che ’l mio basso ingegno
non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

L’ottimo scultore non concepisce un’idea che il solo marmo non contenga già in sé, con la parte superflua, e la mano riesce a raggiungerla solo se ubbidisce al pensiero. // Il male che io fuggo, e il bene che cerco, si nascondono così in te, donna leggiadra, altera e divina; ma la mia arte non giunge all’effetto desiderato perché io non possa continuare a vivere. // Dunque non ne hanno colpa né Amore, né la bellezza, né la durezza (del cuore), né la fortuna né lo sdegno, o il mio destino o la sorte; // se nel tuo cuore porti nello stesso tempo la morte e la pietà, e la mia inadeguata capacità non sappia, pur ardendo, trarne che la morte.

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Michelangelo: Ritratto di Vittoria Colonna

Il sonetto, dedicato a Vittoria Colonna, ci offre un quadro inusuale di Michelangelo (lui stesso definisce la sua produzione poetica “cosa sciocca”) ma vediamo in esso un interessante concetto che fa del poeta un petrarchista “sui generis”. Il tappeto fonico del testo ci rimanda più all’asprezza “petrosa” dantesca, con il ricorso insistito alla durezza di suoni (l’incontro di quattro consonanti “nscr”, nella seconda strofe in forma chiasmatica tra il primo e il quarto verso il “prometto” con il “contraria” e si potrebbe continuare – l’insistito uso della “r” nell’ultimo verso”) ma anche alla dittologia del poeta aretino (“il mal… e il ben, v. 5; morte e pietate v. 11). Tuttavia quello che qui è emerge è ancora il neoplatonismo fiorentino, figlio dell’Umanesimo di quella città: vengono qui messe a paragone le potenzialità dell’arte e quelle dell’amore: l’artista che ha il compito d’estrarre dalla materia l’idea di bellezza, così come l’amante quello all’interno della donna; se il primo è possibile grazie alla mano, il secondo va incontro al fallimento: al posto del bene dentro di lei coglie la morte e il senso di peccato.

Altro importante aspetto del petrarchismo cinquecentesco è la poesia femminile. Nel 1559 venne dato alle stampe un libro Rime diverse di alcune nobilissime e virtuosissime donne, a dimostrazione, forse per la prima volta nella poesia italiana, dell’alto grado letterario raggiunto anche da chi fino ad allora era stato “oggetto” del fare letterario. Sono due le tipologie di donne di cui possediamo il loro canzoniere: le nobildonne, animatrici nella corte della vita culturale e le cortigiane. che dispongono di un largo spettro di competenze culturali – musica, danza, canto e poesia – con cui intrattenere il loro protettore.

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Girolamo Muziano: Ritratto di Vittoria Colonna (1530)

La prima di loro che ricordiamo è Vittoria Colonna (dedicataria del sonetto presentato prima di Buonarroti) di antica e nobile famiglia romana. Andò in sposa al marchese di Pescara Ferrante d’Avalos, soldato nell’esercito di Carlo V. Alla sua morte la poetessa si consacra alla sua memoria, cercando conforto in pratiche religiose che l’avvicineranno sempre più ad una profonda tensione spirituale. Il suo Canzoniere, diviso come quello di Petrarca in vita e in morte dell’amato marito, troviamo nella prima parte poesie d’argomento amoroso, nella seconda poesie spirituali. Da esso traiamo un sonetto:

NELLA LUCE DEL SOGNO

Quando ’l gran lume appar nell’ Oriente,
che ’l negro manto della notte sgombra,
e dalla terra il gelo, e la fredd’ ombra
dissolve, e scaccia col suo raggio ardente;

dell’ usate mie pene alquanto lente,
per l’ inganno del sonno, allor m’ ingombra,
ond’ ogni mio piacer risolve in ombra,
quando da ciascun lato ha l’ altre spente.

O viver mio nojoso, o avversa sorte!
cerco l’ oscurità, fuggo la luce,
odio la vita ognor, bramo la morte.

Quel, ch’ agli occhi altrui nuoce, a’ miei riluce,
perchè chiudendo lor, s’ apron le porte
alla cagion, ch’ al mio Sol mi conduce.

Quando il Sole nasce ad Oriente, che allontana il nero manto della notte (l’oscurità) e che dissolve il gelo e scaccia l’ombra fredda dalla terra col suo raggio luminoso // mi grava di nuovo delle pene abituali che il sonno aveva alquanto alleviato, per cui ogni mia gioia tramuta in pena quando da ogni parte le altre ombre ha portato via (quelle della notte). // Oh vivere mio angoscioso, oh sorte avversa! Cerco l’oscurità fuggendo la luce, ho in odio la vita e desidero sempre la morte. // Quello che (la notte) agli occhi degli altri dà fastidio per me, invece, splende perché chiudendoli (gli occhi) si aprono le porte del sonno, mezzo che mi conduce al mio amato consorte (Sole).

Nella poesia della Colonna ripercorriamo il dualismo petrarchesco che oppone la notte alla luce solare che fa da metafora alla vita e alla morte: infatti nel sonno la poetessa dimentica gli affanni derivati dall’amore per l’uomo che ormai non c’è più, mentre il giorno li rende vividi, procurando dolore; l’opposizione pertanto non è solo interiore ma riguarda l’intera umanità: la gioia del Sole (simbolo di Dio) di contro alla buia notte, piena di pericoli e misteri. Ma la Colonna sa sciogliere tale opposizione in un anelito religioso: se la notte equivale alla morte e all’annullamento di sé ella la invoca, in quanto le apre le porte dove potrà riabbracciare l’amore morto che costituisce il suo vivificante sole.

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Disegno raffigurante Gaspara Stampa

Altra grande poetessa rinascimentale è Gaspara Stampa. Nasce a Padova nel 1523, figlia di un musicista, che la lascerà presto orfana. Fu probabilmente una cortigiana e visse una vita libera ed elegante, innamorandosi del conte Collatino di Collalto, con cui ebbe una burrascosa relazione. Lui lascerà per una donna di più alto livello sociale, mentre lei si consolerà con un amore meno appossionato. Morì giovane nel 1554, colta da un’improvvisa malattia. Il libro, pubblicato a Venezia nello stesso anno della morte, ci riporta 311 versi, di cui leggiamo il sonetto proemiale:

VOI CH’ASCOLTATE IN QUESTE MESTE RIME

Voi, ch’ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l’altre prime,

ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de’ miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.

E spero ancor che debba dir qualcuna:
«Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!

Deh, perché tant’amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch’anch’io n’andrei con tanta donna a paro?»

Voi che ascoltate in queste dolenti rime, in questi accorati, in questi oscuri accenti il suono dei miei lamenti d’amore e delle sofferenze più intense di tutte le altre, // dove vi sia qualcuno che apprezzi e stimi il valore (del mio sentimento) spero trovare tra le persone d’alta sensibilità, la gloria e non solo il perdono dei miei lamenti, dal momento che la loro motivazione è tanto nobile. // E spero inoltre che qualcuna debba dire: «Felicissima lei, da quando sopportò un così grave danno per una causa tanto gloriosa! // Ahimè, perché un così forte amore, una così grande fortuna (d’essere amata) da parte di un così nobile signore a me non è capitata, per cui anch’io potrei stare alla pari con una donna così?»

Non si tratta di soli accenni petrarcheschi, ma di veri e propri calchi: si prenda il primo verso del sonetto proemiale del Canzoniere e questo della Stampa “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”  “Voi, ch’ascoltate in queste meste rime”, o ancora “ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono” e “ove fia chi valor apprezzi e stime, gloria, non che perdon, de’ miei lamenti spero trovar“. Ma il calco lessicale (ci piace ricordare che, nei salotti da lei animati, spesso cantava i versi di Petrarca da lei messi in musica) non lede lo svolgimento personale della lirica della poetessa. Infatti se nel poeta aretino l’illusione dell’amore s’accompagna all’illusione di tutte le cose terrene, per cui aver vissuto la passione non fa che procuragli vergogna, per la Stampa essa dovrebbe procurare invidia, in quanto l’amore passionale verso Collatino è stato così intenso da procurare un dolore altrettanto profondo. E’ segnificativo lo scarto semantico tra il concetto di pietà del primo e di gloria del secondo: se il primo sottolinea il suo dissidio, Gaspara rivendica con orgoglio l’amore e questo è dato dal chiasmo “per sì chiara cagion danno sì chiaro!” in cui sottolinea la piena consapevolezza con cui lei ha amato e del dolore che un amore così grande le ha procurato. 

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Copertina di una biografia di Gaspara Stampa del 1909

Forse quello che la Stampa inserisce nel sonetto proemiale corrisponde a verità (non avremo motivo di metterlo in dubbio) ma ciò non toglie l’idea che il petrarchismo del Cinquecento sia stato in alcuni casi utilizzato per scopi mondani, in un gioco di rimandi intellettuali che spesso hanno nascosto le vere motivazioni del grande poeta trecentesco.