DIVINA COMMEDIA: PARADISO


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Il Paradiso Dante lo scrive negli ultimi sei anni della sua vita, dal 1315 al 1321, anni in cui il poeta fiorentino si era trovato dapprima a Verona, sotto il magnanimo Cangrande della Scala e in seguito, più precisamente gli ultimi tre anni, da Guido da Polenta, a Ravenna dove spirò a causa di febbri malariche.

Il Paradiso rappresenta un cantico la cui scrittura prevedeva una serie di difficoltà maggiori rispetto alle due che l’avevano preceduta, la prima delle quali è certamente quella di non essere “fisicamente tangibile”: se l’inferno presenta un vero e proprio luogo, con fiumi da attraversare, pareti da ascendere (si pensi alla necessità di un vero e proprio “ascensore” quale quello di Gerione che trasporta Dante nel fondo del baratro, o ancora alla ricerca di un varco per salire i balzi purgatoriali, immaginati proprio come se si trovassero in una erta montagna), il Paradiso è un luogo che non esiste nella realtà immaginativa perché tutto comprende.

Un altro aspetto è certamente quello dell’incontro del poeta con le anime, anime che, essendo tutte beate, risiedono nell’unico luogo (seppur più lontane o vicine a Dio secondo il grado di felicità) loro destinato che è l’Empireo. Ciò dovrebbe far venir meno la gradualità dell’incontro, ma Dante lo risolve attraverso l’escamotage per cui sono le anime che scendono, spinte dalla carità, incontro a Dante, nel cielo che meglio le caratterizza e parlano con lui in un dialogo un po’ surreale, in quanto esse conoscono perfettamente che ciò che Dante chiede perché lo leggono precedentemente nella mente di Dio che tutto sa.

Il lettore, che segue le vicende del Dante agens, si rende conto del suo ascendere attraverso un processo luminoso: egli osserva l’intensificarsi dell’intensità della luce negli occhi di Beatrice: tale facoltà, che prescinde quella umana, fa sì che Dante viva un’esperienza oltre l’umano. Ma questo essere oltre l’umano non permette nel contempo a Dante di riportare con parole umane ciò che ha vissuto, perché ciò che ha visto è inesprimibile e perché lo deve riportare ad esperienza vissuta, quindi nel ricordo che è esso stesso facoltà umana, di contro all’esperienza divina.

Per ciò lo stile del Paradiso, oltre che naturaliter  “elevato” è fortemente lirico: non vi è alcuna azione descrittiva, ma solo l’impressione che l’io riporta nel suo animo.

A livello strutturale il Paradiso si configura in 7 cieli, rispettivamente quelli della Luna (spiriti che mancarono i voti), di Mercurio (spiriti attivi per desiderio di gloria), di Venere (spiriti amanti), del Sole (spiriti dei sapienti), di Marte (spiriti militanti), di Giove (spiriti dei giusti), di Saturno (spiriti contemplativi).

A questi si aggiunge l’VIII cielo che non contiene spiriti e che gira più lentamente degli altri e riceve l’impulso del movimento dal IX cielo dal cielo primo mobile. L’ultimo “luogo”, il X, ma che invero costituisce l’intero Paradiso è l’Empireo, sede di Dio.

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CANTO I
(Paradiso terrestre – Sfera del fuoco)

La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Veramente quant’io del regno santo
ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto.
O buono Appollo, a l’ultimo lavoro
fammi del tuo valor sì fatto vaso,
come dimandi a dar l’amato alloro.
Infino a qui l’un giogo di Parnaso
assai mi fu; ma or con amendue
m’è uopo intrar ne l’aringo rimaso.
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
O divina virtù, se mi ti presti
tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,
vedra’ mi al piè del tuo diletto legno
venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
Sì rade volte, padre, se ne coglie
per trïunfare o cesare o poeta,
colpa e vergogna de l’umane voglie,
che parturir letizia in su la lieta
delfica deïtà dovria la fronda
peneia, quando alcun di sé asseta.
Poca favilla gran fiamma seconda:
forse di retro a me con miglior voci
si pregherà perché Cirra risponda.
Surge ai mortali per diverse foci
la lucerna del mondo; ma da quella
che quattro cerchi giugne con tre croci,
con miglior corso e con migliore stella
esce congiunta, e la mondana cera
più a suo modo tempera e suggella.
Fatto avea di là mane e di qua sera
tal foce, e quasi tutto era là bianco
quello emisperio, e l’altra parte nera,
quando Beatrice in sul sinistro fianco
vidi rivolta e riguardar nel sole:
aguglia sì non li s’affisse unquanco.
E sì come secondo raggio suole
uscir del primo e risalire in suso,
pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso
ne l’imagine mia, il mio si fece,
e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.
Molto è licito là, che qui non lece
a le nostre virtù, mercé del loco
fatto per proprio de l’umana spece.
Io nol soffersi molto, né sì poco,
ch’io nol vedessi sfavillar dintorno,
com’ ferro che bogliente esce del foco;
e di sùbito parve giorno a giorno
essere aggiunto, come quei che puote
avesse il ciel d’un altro sole addorno.
Beatrice tutta ne l’etterne rote
fissa con li occhi stava; e io in lei
le luci fissi, di là sù rimote.
Nel suo aspetto tal dentro mi fei,
qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperïenza grazia serba.

S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
Quando la rota che tu sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
de la fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece alcun tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
di lor cagion m’accesero un disio
mai non sentito di cotanto acume.
Ond’ella, che vedea me sì com’io,
a quïetarmi l’animo commosso,
pria ch’io a dimandar, la bocca aprio
e cominciò: “Tu stesso ti fai grosso
col falso imaginar, sì che non vedi
ciò che vedresti se l’avessi scosso.
Tu non se’ in terra, sì come tu credi;
ma folgore, fuggendo il proprio sito,
non corse come tu ch’ad esso riedi”.
S’io fui del primo dubbio disvestito
per le sorrise parolette brevi,
dentro ad un nuovo più fu’ inretito
e dissi: “Già contento requïevi
di grande ammirazion; ma ora ammiro
com’io trascenda questi corpi levi”.
Ond’ella, appresso d’un pïo sospiro,
li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante
che madre fa sovra figlio deliro,
e cominciò: “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
de l’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Ne l’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar de l’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.
Questi ne porta il foco inver’ la luna;
questi ne’ cor mortali è permotore;
questi la terra in sé stringe e aduna;
né pur le creature che son fore
d’intelligenza quest’arco saetta,
ma quelle c’ hanno intelletto e amore.
La provedenza, che cotanto assetta,
del suo lume fa ’l ciel sempre quïeto
nel qual si volge quel c’ ha maggior fretta;
e ora lì, come a sito decreto,
cen porta la virtù di quella corda
che ciò che scocca drizza in segno lieto.
Vero è che, come forma non s’accorda
molte fïate a l’intenzion de l’arte,
perch’a risponder la materia è sorda,
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c’ ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte;
e sì come veder si può cadere
foco di nube, sì l’impeto primo
l’atterra torto da falso piacere.
Non dei più ammirar, se bene stimo,
lo tuo salir, se non come d’un rivo
se d’alto monte scende giuso ad imo.
Maraviglia sarebbe in te se, privo
d’impedimento, giù ti fossi assiso,
com’a terra quïete in foco vivo”.
Quinci rivolse inver’ lo cielo il viso.

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La gloria di Dio, che tutto muove, si diffonde in tutto l’universo, risplendendo in alcuni luoghi di più ed in altri di meno. Nel cielo che riceve più della sua luce, l’Empireo,  arrivai, e vidi là cose che raccontare non sa né può chi da lassù scende sulla terra; perché avvicinandosi tanto all’oggetto del suo desiderio, la nostra mente si addentra tanto nel mistero di Dio, che la memoria non riesce a tenergli dietro. Ciononostante, quanto del regno di Dio riuscii a raccogliere allora nella mia memoria, sarà ora argomento di questa nuova cantica. Oh buon Apollo, per questa ultima fatica, fammi ricettacolo del tuo valore, quanto ne richiedi per offrire la tanto desiderata corona d’alloro. Fino a questo punto l’aiuto delle Muse, che abitano una cima del monte Parnaso, mi è stato più che sufficiente; ma ora è bene che affronti con entrambe le cime (Nisa e Cirra) la prova ancora da superare. Entra nel mio petto, nel mio cuore, ed ispirami con quella potenza con cui Marsia, da te sconfitto nel canto, scorticasti poi delle sua stessa pelle. Oh virtù divina, se mi sostieni tanto che io possa descrivere l’immagine del regno dei beati, rimasta impressa nella mia memoria, mi vedrai arrivare ai piedi del tuo sacro alloro, ed incoronarmi con le foglie delle quali mi renderanno degno l’argomento trattato e tu stesso. Sono così rare le volte, Apollo, in cui si colgono dei rami dalla tua pianta per celebrare il trionfo di un imperatore o di un poeta, per colpa dei vergognosi desideri umani, tanto che dovrebbe dare felicità al sereno dio di Delfi, il fatto che il ramo peneio (di alloro, in quanto Dafne, trasformata in alloro, era la figlia del fiume Peneo) sia tanto desiderato da qualcuno. Talvolta una piccola scintilla genera un grande incendio: forse dopo di me, con un canto migliore, invocheranno Apollo, che abita l’altra cima, Cirra, affinché risponda. Sorge sulla gente mortale da diversi punti, a seconda della stagione, il Sole, luce del mondo;  ma quando sorge da quel punto, ad oriente, in cui si congiungono i quattro cerchi dell’equatore, durante gli equinozi, formando tre croci, da una migliore stagione e da costellazioni più favorevoli è allora accompagnato, e la Terra, come fosse cera, plasma e segna nella maniera più efficace. Là, in quella parte, sul Purgatorio, nel punto in cui si trovavano Dante e Beatrice, (emisfero australe) era sorto il mattino mentre qua, sulla Terra (emisfero boreale), in cui sono io, era calata la sera; quasi completamente illuminato era quell’emisfero mentre l’altro era ormai buio, quando mi accorsi che Beatrice era rivolta alla sua sinistra e guardava il sole: nessuna aquila lo fissò mai tanto intensamente. E come un raggio riflesso deriva necessariamente da quello originario e risale verso l’alto, allo stesso modo di un falco pellegrino che vuole tornare in quota dopo la picchiata, così, dal gesto di Beatrice, penetrato nella mia fantasia attraverso gli occhi, derivò un mio eguale gesto, e fissai quindi anche io lo sguardo al sole, oltre ogni possibilità umana. Molte cose sono là consentite che qui invece non sono permesse alle nostre facoltà, in grazia di quel luogo creato da Dio come dimora propria dell’umanità. Io non resistetti molto alla luce, ma non così poco da non vedere il sole mandare intorno scintille infuocate, come il ferro quando viene tolto ancora incandescente dal fuoco; ed subito mi sembrò che l’intensità della luce del giorno raddoppiasse, come se Dio, che tutto può, avesse fatto dono al cielo di un altro sole. Beatrice teneva fissi ai cieli i propri occhi; ed io fissai i miei nei suoi, dopo aver dopo averlo allontanato dal sole. Guardandola provai dentro di me una sensazione simile a quella che provò Glauco mentre assaporava l’erba che lo rese un Dio, compagno delle altre divinità marine. L’atto di elevarsi sopra i limiti umani non può essere descritto con le parole; basti perciò l’esempio di Glauco a coloro ai quali la grazia divina concederà di provare tale esperienza. Se in quel momento ero solamente ciò che avevi creato di me per ultimo (cioè l’anima), oh Dio che regni nei cieli, lo sai tu, dal momento che sei stato tu ad innalzarmi al cielo con la tua luce. Quando il moto circolare dei cieli, che rendi perpetuo con il desiderio di te, ebbe richiamato su di sé la mia attenzione con quella sua musica che tu regoli e moduli, mi sembrò che la luce del sole accendesse una parte del cielo ben più grande di quella occupata da qualsiasi lago, formato dalla pioggia o da un fiume. La novità del suono e l’intensa luce suscitarono in me un forte desiderio di conoscerne la ragione, più forte di quanto avessi mai provato. Per cui Beatrice, che capiva i miei pensieri così come me stesso, per calmare il mio animo turbato, prima ancora che io potessi domandare, aprì la bocca ed iniziò a spiegare: «Tu stesso ottundi la tua mente con false supposizioni, così da non riuscire poi a vedere ciò che vedresti senza quel pensiero sbagliato. Non ti trovi in questo momento sulla Terra, così come credi; ma un fulmine, allontanandosi dal suo punto di origine, non si mosse mai tanto velocemente quanto tu ti stai movendo adesso verso il Paradiso.» Se fui allora liberato dal primo dubbio, grazie a quelle poche parole pronunciate da una sorridente Beatrice, fui però successivamente colto da un nuovo dubbio e dissi quindi: «Sono ormai soddisfatto rispetto alla mia più grande perplessità; ma mi stupisco ora di come possa, con ancora il peso del corpo, levarmi attraverso questi corpi leggeri.»Per cui lei, dopo un lungo sospiro di pietà, alzò i propri occhi verso di me con uno sguardo simile a quello con cui una madre si rivolge al proprio figlio colto dalla febbre, cominciò quindi a dire: «Tutte le cose esistenti sono sottoposte ad un ordine, che è il principio che rende l’universo somigliante a Dio. In quell’ordine le creature superiori vedono l’impronta, il segno, della potenza di Dio, che è anche il fine ultimo a cui aspira l’ordine stesso a cui accenno. In questo universo ordinato del quale parlo, ricevono una certa predisposizione tutte le creature, a seconda delle loro diverse condizioni, più o meno vicine al loro creatore, a Dio; perciò esse si dirigono verso destinazioni differenti, attraverso il grande mare della vita, ciascuna creatura guidata dall’istinto a lei assegnato. Quest’ordine spinge il fuoco a salire verso il cielo della luna; questo regola le funzioni vitali negli esseri privi di ragione; che tiene unita e compatta la terra; ma non soltanto le creature prive di ragione sono spinte da quest’ordine verso il loro fine, ma anche le creature dotate di intelligenza e di volontà. La provvidenza divina, che è ha capo di questo ordine, con la propria luce rende appagato il cielo dell’Empireo, nel quale ruota la più veloce delle sfere celesti; ed ora lì, nell’Empireo, luogo ordinato come nostro fine, che ci porta la potenza di quella predisposizione, di quell’ordine provvidenziale, che indirizza ogni creatura verso il proprio fine, che sarà per essa fonte di gioia. È comunque vero che il risultato non corrisponde molte volte a quella che era l’intenzione dell’artefice, perché la materia non è disposta a comprenderla, e così a volte si allontana da questo ordine naturale l’uomo, avendo il potere di rivolgersi altrove, pur essendo stato indirizzato verso il bene; e così come è possibile vedere cadere il fuoco in forma di saetta da una nube, allo stesso modo l’inclinazione naturale rivolge verso terra l’uomo, naturalmente spinto verso il cielo, quando è traviato una falsa immagine del bene. Non devi quindi meravigliarti, come credo tu faccio, del fatto che stai salendo al cielo, più di quanto tu possa farlo per il fatto che un fiume scenda dall’alto di un monte fino a valle. Ti saresti dovuto piuttosto meravigliare se, libero da ogni impedimento, tu fossi rimasto inchiodato giù, come un fuoco vivo che rimane quieta a terra.» Detto questo, rivolse quindi al cielo il proprio viso.
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Già dalle prime parole del testo ci accorgiamo della diversa costruzione del canto, determinata dall’elevatezza del contenuto e del tono con cui si esprime. Basti per tutto a confrontarli con gli altri due incipit: se per l’Inferno bastavano le sole Muse, nel Purgatorio vi era la necessità che fosse Calliope, musa della poesia epica, ma qui occorre il dio della poesia stessa che con ambedue le ispirazioni, la terrena e la divina, rappresentate metaforicamente dalle due cime del monte Parnaso, lo sovvenga a tale difficile compito.

Se ciò è fondamentale per capire il concetto dello sforzo sovrumano cui si accinge Dante, lo stesso ce lo annuncia con una diversa proporzione nell’introdurre la cantica: ben 12 versi per la propositio, 24 per l’invocatio. (Nell’Inferno rispettivamente 6 e 3 nel 2° canto;  nel Purgatorio 6 e 6, nel 1° canto). Simile invece tra la seconda cantica e questa è la punizione per l’arroganza di chi ha voluto sfidare nel canto la facoltà divina: lo hanno saputo bene le Pieridi trasformate in gazze, prese ad esempio, nella montagna purgatoriale e qui il satiro Marsia, che viene addirittura scuoiato dal dio stesso. Ma tale professione d’umiltà non tocca la sfera dell’umano: consapevole della grandezza ed eccezionalità del compito cui si accinge egli sa di poter meritare l’alloro poetico, sebbene attenui tale posizione con l’affermazione che forse qualcuno, migliore di lui, potrà meglio rappresentare il mondo divino, non senza una nota polemica sullo stato della poesia, volto più a trarre benefici terreni che divini.

Ma, con una capacità limitata, in quanto dettata dalla potenza umana, egli riesce a darci l’ “idea” della luce, attraverso il concetto di luce riflessa, e quindi attraverso l’intensificarsi di essa, il suo ascendere e il suo trasformarsi “trasumanare”, neologismo con cui indica l’andare oltre se stesso e, pur nel ricordo, riesce a ricordare la “lezione” teologica di Beatrice che lo disgrossa riguardo il tendere verso Dio. Tutte le creature originate da Dio naturalmente sono tese a tornare da Lui, tra di esse anche quella umana. Non sempre, tuttavia quest’ultima segue la sua natura, ma spinta da falsi piaceri, da Lui si diparte, cadendo nel peccato, in questo modo Dante ribadisce il concetto di “libero arbitrio” come fondamentale del suo pensiero, pensiero reso vivido dalla metafora dell’arco e del fulmine. 

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CANTO II
(Cielo I – Luna)

Il canto si apre con un nuovo prologo rivolto al lettore:

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;
Minerva spira, e conducemi Appollo,
e nove Muse mi dimostran l’Orse.
Voialtri pochi che drizzaste il collo
per tempo al pan de li angeli, del quale
vivesi qui ma non sen vien satollo,
metter potete ben per l’alto sale
vostro navigio, servando mio solco
dinanzi a l’acqua che ritorna equale.
Que’ glorïosi che passaro al Colco
non s’ammiraron come voi farete,
quando Iasón vider fatto bifolco.

O voi che avete seguito con la vostra piccola barca il mio vascello che cantando si fa strada nei mari, tornate indietro, a rivedere la spiaggia da dove siete salpati; non vi avventurate in mare aperto, perché, forse, perdendo me di vista, vi trovereste smarriti. L’acqua che ora io prendo a solcare non è stata mai percorsa da nessuno; Minerva spira nelle vele della nave, Apollo è il mio nocchiero e le nove muse mi indicano le stelle dell’Orsa per orientarmi. Voi altri pochi, che per tempo vi volgeste al pane degli angeli, del quale qui si può vivere sì, ma senza saziarsene mai, voi potete ben avventurare per l’alto mare il vostro naviglio, seguendo la mia scia prima che l’acqua ritorni liscia com’era., cancellando la traccia del mio passaggio. Quei gloriosi Argonauti che per mare raggiunsero la Colchide non si stupirono come voi farete, quando videro Giasone trasformarsi in contadino.

Come nel primo canto, anche qui Dante sottolinea l’eccezionalità dell’argomento e dell’ispirazione che chiede un pubblico capace di seguirlo. Non è arroganza del poeta, ma consapevolezza dell’arduo “cammino” e quindi compito che il poeta s’accinge a percorrere. E’ evidente che pertanto solo si può avvicinare al canto chi si è già nutrito “del pan degli angeli”, di quella conoscenza dottrinale e teologica che è qui è necessaria per la piena comprensione: sicuramente una posizione diversa rispetto al più “democratico” Convivio, dove Dante offriva, a chi non aveva le possibilità “briciole” di sapienza.

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Il canto quindi prosegue affrontando due nodi dottrinali:

  • l’impenetrabilità dei corpi;
  • le macchie lunari.

Mentre salgono velocissimamente, Dante si trova immerso nel cielo della luna, chiedendosi come mai al suo penetrare in esso non sia corrisposto uno spostamento di materia lunare. E’ evidente che per Dante mondo terreno e mondo astronomico sono nettamente separati, pertanto anche la loro composizione è diversa. Il suo penetrare è frutto di quell’unione di umano e divino che ha permesso a Cristo di possedere le due nature e che di cui Dio gli ha fatto dono allora per “conoscere” il luogo sede di Dio.

Per le macchie lunari, Beatrice dà luogo ad una dimostrazione sillogistica: dapprima confuta quando già detto da Dante nel Convivio che individua la ragione nella minore o maggiore densità dei corpi, in quanto se così fosse quelle meno dense dovrebbero o attraversare il cielo della luna stessa o lasciar passare la luce nel caso d’eclissi. Quindi dimostra come la diversità dipende dalla virtù di Dio che piove dal Primo mobile fino al cerchio lunare, attraversando tutti i cieli e imprimendo loro la stessa virtù che muta al mutare della sostanza su cui si poggia e dal grado di beatitudine che essi stessi esprimono.

CANTO III
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)

Quel sol che pria d’amor mi scaldò ‘l petto,
di bella verità m’avea scoverto,
provando e riprovando, il dolce aspetto;
e io, per confessar corretto e certo
me stesso, tanto quanto si convenne
leva’ il capo a proferer più erto;
ma visione apparve che ritenne
a sé me tanto stretto, per vedersi,
che di mia confession non mi sovvenne.

Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi,
tornan d’i nostri visi le postille
debili sì, che perla in bianca fronte
non vien men forte a le nostre pupille;
tali vid’io più facce a parlar pronte;
per ch’io dentro a l’error contrario corsi
a quel ch’accese amor tra l’omo e ‘l fonte.
Sùbito sì com’io di lor m’accorsi,
quelle stimando specchiati sembianti,
per veder di cui fosser, li occhi torsi;
e nulla vidi, e ritorsili avanti
dritti nel lume de la dolce guida,
che, sorridendo, ardea ne li occhi santi.
«Non ti maravigliar perch’io sorrida»,
mi disse, «appresso il tuo pueril coto,
poi sopra ‘l vero ancor lo piè non fida,
ma te rivolve, come suole, a vòto:
vere sustanze son ciò che tu vedi,
qui rilegate per manco di voto.
Però parla con esse e odi e credi;
ché la verace luce che li appaga
da sé non lascia lor torcer li piedi». 

E io a l’ombra che parea più vaga
di ragionar, drizza’mi, e cominciai,
quasi com’uom cui troppa voglia smaga:
«O ben creato spirito, che a’ rai
di vita etterna la dolcezza senti
che, non gustata, non s’intende mai,
grazioso mi fia se mi contenti
del nome tuo e de la vostra sorte».
Ond’ella, pronta e con occhi ridenti:
«La nostra carità non serra porte
a giusta voglia, se non come quella
che vuol simile a sé tutta sua corte.
I’ fui nel mondo vergine sorella;
e se la mente tua ben sé riguarda,
non mi ti celerà l’esser più bella,
ma riconoscerai ch’i’ son Piccarda,
che, posta qui con questi altri beati,
beata sono in la spera più tarda.
Li nostri affetti, che solo infiammati
son nel piacer de lo Spirito Santo,
letizian del suo ordine formati.
E questa sorte che par giù cotanto,
però n’è data, perché fuor negletti
li nostri voti, e vòti in alcun canto».
Ond’io a lei: «Ne’ mirabili aspetti
vostri risplende non so che divino
che vi trasmuta da’ primi concetti:
però non fui a rimembrar festino;
ma or m’aiuta ciò che tu mi dici,
sì che raffigurar m’è più latino.
Ma dimmi: voi che siete qui felici,
disiderate voi più alto loco
per più vedere e per più farvi amici?».
Con quelle altr’ombre pria sorrise un poco;
da indi mi rispuose tanto lieta,
ch’arder parea d’amor nel primo foco:
«Frate, la nostra volontà quieta
virtù di carità, che fa volerne
sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta.
Se disiassimo esser più superne,
foran discordi li nostri disiri
dal voler di colui che qui ne cerne;
che vedrai non capere in questi giri,
s’essere in carità è qui necesse,
e se la sua natura ben rimiri.
Anzi è formale ad esto beato esse
tenersi dentro a la divina voglia,
per ch’una fansi nostre voglie stesse;
sì che, come noi sem di soglia in soglia
per questo regno, a tutto il regno piace
com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.
E ‘n la sua volontade è nostra pace:
ell’è quel mare al qual tutto si move
ciò ch’ella cria o che natura face».
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia
e d’un altro rimane ancor la gola,
che quel si chere e di quel si ringrazia,
così fec’io con atto e con parola,
per apprender da lei qual fu la tela
onde non trasse infino a co la spuola.
«Perfetta vita e alto merto inciela
donna più sù», mi disse, «a la cui norma
nel vostro mondo giù si veste e vela,
perché fino al morir si vegghi e dorma
con quello sposo ch’ogne voto accetta
che caritate a suo piacer conforma.
Dal mondo, per seguirla, giovinetta
fuggi’mi, e nel suo abito mi chiusi
e promisi la via de la sua setta.
Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
fuor mi rapiron de la dolce chiostra:
Iddio si sa qual poi mia vita fusi.
E quest’altro splendor che ti si mostra
da la mia destra parte e che s’accende
di tutto il lume de la spera nostra,
ciò ch’io dico di me, di sé intende;
sorella fu, e così le fu tolta
di capo l’ombra de le sacre bende.
Ma poi che pur al mondo fu rivolta
contra suo grado e contra buona usanza,
non fu dal vel del cor già mai disciolta.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ‘l terzo e l’ultima possanza».
Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,
Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
La vista mia, che tanto lei seguio
quanto possibil fu, poi che la perse,
volsesi al segno di maggior disio,
e a Beatrice tutta si converse;
ma quella folgorò nel mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse;
e ciò mi fece a dimandar più tardo. 

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Beatrice, sole che sin dall’inizio mi aveva colpito il cuore, mi aveva rivelato il dolce aspetto della verità, dimostrando la verità (sulle macchie lunari) e confutando l’errore; ed io per dimostrare d’aver corretto (la falsa opinione) e di esser sicuro, sollevai più in alto il capo, quanto più convenientemente per parlare, ma mi apparve una visione che mi catturò così tanto l’attenzione da non ricordare più la mia confessione. Come attraverso vetri trasparenti e puliti oppure attraverso acque così chiare e tranquille, non tanto profonde da rendere invisibili i fondali, si riflettono le immagini dei nostri visi  così deboli che una perla bianca sulla fronte non giunge meno evidente al nostro sguardo, allo stesso modo vidi io volti pronte a parlare; per cui mi imbattei nello stesso errore di quello di Narciso che fece innamorare l’uomo della fonte. Immediatamente, quando mi accorsi di loro, immaginandole immagini riflesse , mi volsi indietro per vedere chi fossero e, non vedendo nulla, rivolsi lo sguardo a Beatrice, che, sorridendo,  risplendeva nei santi occhi. Mi disse: «Non meravigliarti del mio sorridere a seguito del tuo puerile pensiero, dal momento che ancora non si basa sopra la verità, ma ti fa girare a vuoto, come al solito: quelle che tu vedi sono veri spiriti, qui confinati, per esser mancati ai voti. Perciò parla loro, ascoltale, e credi ciò che dicono, perché la vera luce che le soddisfa non permette loro di allontanarsi da se se stessa». Ed io mi rivolsi all’ombra che sembrava più desiderosa di parlare e cominciai come una persona a cui la troppa voglia toglie lucidità: «O spirito, eletto alla salvezza eterna, che senti la dolcezza dei raggi della vita eterna che, se non gustata, non la si può provare, mi sarebbe graditi se mi contentassi di rivelare il tuo nome e la vostra condizione». E lei, pronta e con occhi ridenti: «La carità di noi elette nella grazia, non chiude le porte ad un giusto desiderio, non diversamente come la carità di Dio che rende tutto il suo regno simile a Lui. Io fu nel mondo una monaca, e se la tua mente guarda con attenzione, non ti celerà che io, pur più bella, son Piccarda Donati, che, messa qui, fra gli altri beati, sono nel cerchio più lento, quello della luna.  I nostri sentimenti che ardono solo in ciò che piace allo Spirito Santo, godono in quanto corrispondono all’ordine da lui stabilito. E la sorte che ci ha confinato qui perciò ci è stata assegnata, perché non furono rispettati i nostri voti e mancanti in alcune parti». Ed io a lei: «Nei vostri meravigliosi aspetti risplende un non che di divino che vi trasfigura rispetto alle immagini che di voi abbiamo in terra; per questo non fui pronto a riconoscerti: ma ora mi aiuta ciò che dici, tanto che a ricordar la tua figura mi è più semplice. Ma dimmi, voi che avete in questo cielo il vostro grado di felicità, desiderate un luogo più alto (vicino) per farvi vedere e farvi riconoscere da Dio?». Con le altre anime dapprima sorrise un po’, quindi mi risposa con così tanta gioia da sembrare infiammata da amore divino: «Fratello, la nostra volontà appaga la nostra virtù di carità, che fa s^ che noi desideriamo solo quello che possediamo, senza bisogno d’altro. Se desiderassimo cose superiori, i nostri desideri sarebbero discordi dal volere di colui che qui ci ha destinato; cosa che tu vedrai non essere in questi giri , se essere in carità è qui necessario e se osservi bene la natura di questa carità. E’ anzi essenziale a questo essere in beatitudine attenersi alla volontà di Dio, per cui le nostre voglie diventano una sola con lei; cosicché piace a tutto il Paradiso che noi appariamo di cielo in cielo, allo stesso modo di un re che fa piacere ciò che lui vuole. Nella sua volontà è la nostra pace: essa è quel mare verso cui ogni cosa che è creata si muove o che fa  la natura. Allora mi fu chiaro come il Paradiso è dovunque, sebbene la Grazia non piova ugualmente. Ma così come succede che un cibo sazia e di un altro rimane ancora il desiderio, del secondo si chiede e del primo si ringrazia, così feci io negli atteggiamenti e nel chiedere, per sapere quale fu la trama che non riuscì a portare a termine». «Santità di vita e nobili meriti pone in alto una donna», mi disse «alla cui norma nel mondo si veste e mette il velo monacale, affinché, fino alla morte vegli e dorma con Gesù  che accetta tutti i voti conformi alla carità. Scappai dal mondo, giovinetta, per seguire la sua regola divenni monaca e promisi di seguire la via del suo ordine. Ma poi degli uomini, usi a far del male più che il bene, mi portarono fuori dal dolce chiostro: lo sa Dio quale vita in seguito condussi. E quest’altra anima illuminata, che ti si mostra alla mia destra e che si illumina della luce di questo cielo, ebbe la mia stessa sorte; fu suora, allo stesso modo le fu strappato dal capo il velo che le ombreggiava il viso: Ma dopo che fu riportata al mondo contro il suo volere e contro ogni norma morale, non sciolse mai il velo che custodiva in cuore. Questa è la luce della buona Costanza d’Altavilla che da Enrico VI (secondo potenza di Svezia, in quanto il primo è Federico Barbarossa), generò la terza potenza e l’ultima potenza (cioè Federico II, che fu il terzo, ma anche l’ultimo regnante della famiglia degli Svevi)». Così parlò e poi cantando svanì come un oggetto pesante nell’acqua scura. Il mio sguardo la seguì finché poté, poi si rivolse all’oggetto del mio desiderio e si protese completamente verso Beatrice; ma lei abbagliò il mio sguarda tanto che in principio non lo soffrii e ciò mi fece essere più tardivo nel porre domande.

Gustave_Doré_-_Paradiso,_Canto_III.jpgSe i primi due canti ci avevano introdotti nell’atmosfera paradisiaca, il primo in cui Dante si era “trasumanato” (neologismo dal forte valore semantico) ed il secondo, pur così teologico, ci aveva illustrato il problema delle macchie lunari,  è qui nel terzo che Dante incontra i primi personaggi che sono così diversi dalle immagini sia infernali che purgatoriali, da non rendersi conto nemmeno della loro “spiritualità”. Il loro essere è tanto diafano da essere scambiato per immagine riflessa e sarà solo Beatrice a chiarire la loro vera essenza. A parlare con lui sarà Piccarda Donati, sorella e figlia di quella famiglia che tanto dolore procurerà a Dante. Avevamo incontrato, non da molto, il di lei fratello, Forese, in un bel dialogo amicale nel XXIII canto del Purgatorio. Ed era stato proprio lui ad informare Dante dell’abisso infernale in cui era caduto Corso e della beatitudine della sorella (quasi a rappresentare una scala in cui il fratello maggiore era punito per la sua prepotenza, il mediano, Forsese scontava, pentendosi, il peccato di gola e la piccolina, Piccarda, si era salvata). Tuttavia nelle sue parole notiamo una incredibile violenza di cui i maschi si macchiavano nei confronti delle donne. Scelta la via delle Clarisse, quasi a sfuggire il clima di violenza che la circondava, Piccarda si trova strappata alla sua volontà di essere monaca per giacere al fianco di un uomo che non desiderava per problemi politici; stessa sorte sembra subire Costanza – la cui luminosità maggiore è forse determinata dall’importanza del personaggio – a cui venne strappato il velo. Il fatto è che per quest’ultima Dante sembra seguire una “diceria” piuttosto che la verità, in quanto è accertato che Costanza non si sia mai monaca. Ma non importa se Dante abbia qui dato retta ad una voce mandata in giro dai Guelfi per screditare il partito imperiale. Quello che importa è che egli disegni, con i tratti tenui che vogliono caratterizzare la femminilità, una forma non detta di stupro verso il mondo femminile.

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Un’ultima notazione riguarda le figura di Piccarda il cui modo di raccontare la sua storia l’apparenta a Pia dei Tolomei: è nel loro non detto che nasce la fascinazione per questi due personaggi femminili.

CANTO IV
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)

Dante è assalito da due dubbi, derivati entrambi dal dialogo avuto con Piccarda: il primo riguarda il luogo in cui sono posti i beati:

D’i Serafin colui che più s’india, 
Moisè, Samuel, e quel Giovanni 
che prender vuoli, io dico, non Maria, 
non hanno in altro cielo i loro scanni
che questi spirti che mo t’appariro, 
né hanno a l’esser lor più o meno anni; 
ma tutti fanno bello il primo giro,
e differentemente han dolce vita 
per sentir più e men l’etterno spiro. 
Qui si mostraro, non perché sortita 
sia questa spera lor, ma per far segno 
de la celestial c’ha men salita.

Quel Serafino che è più vicino a Dio, Mosè, Samuele, Giovanni Battista o Evangelista, addirittura Maria, hanno la loro sede nello stesso Cielo (Empireo) di questi spiriti che ti sono appena apparsi, né la loro permanenza lì ha una durata più lunga o più breve; ma tutti loro adornano il Cielo più alto, e hanno un grado di felicità diverso a seconda che sentano più o meno lo Spirito Santo. Ti sono apparsi qui nel I Cielo non perché esso sia assegnato loro come sede, ma per manifestare visibilmente il loro minor grado di beatitudine.

il secondo il perché di una “minore santità” se a non compiere pienamente il bene si è portati da una forza esterna violenta:

Se violenza è quando quel che pate 
niente conferisce a quel che sforza, 
non fuor quest’alme per essa scusate; 
ché volontà, se non vuol, non s’ammorza,
ma fa come natura face in foco, 
se mille volte violenza il torza. 
Per che, s’ella si piega assai o poco, 
segue la forza; e così queste fero 
possendo rifuggir nel santo loco.
Se fosse stato lor volere intero,
come tenne Lorenzo in su la grada,
e fece Muzio a la sua man severo,
così l’avria ripinte per la strada
ond’eran tratte, come fuoro sciolte;
ma così salda voglia è troppo rada.

Se la violenza sussiste quando colui che la subisce non asseconda in nulla colui che la compie, allora queste anime non furono scusate per essa; infatti la volontà, se non vuole, non viene meno, ma fa come il fuoco che tende per natura a salire, anche se mille volte la violenza (del vento) lo spinge in basso. Infatti, se la volontà si piega poco o molto, asseconda la violenza; e così fecero queste anime, dal momento che potevano tornare nel loro convento. Se la loro volontà fosse stata integra, come quella che tenne san Lorenzo sulla graticola e quella che indusse Mucio Scevola ad essere severo con la sua mano, essa le avrebbe riportate sulla strada da cui erano state portate via, non appena libere dall’impedimento fisico; ma una volontà suprema di tal genere è troppo rara.

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Quello che emerge in questo canto è che l’immagine che Dante ci descrive in realtà non esiste: le anime si presentano per la grazia che il Signore gli ha concesso e per continuare quell’ufficio “didattico” che il suo viaggio deve gli fornisce; interessante è inoltre l’aspetto sulla “colpa” che tali anime potrebbero avere. Il poeta divide tra volontà assoluta e volontà relativa: ma ponendo tale ambiguità tra le due non fa che illuminarci sui nostri limiti morali.

CANTO V
(Cielo I – Luna – Spiriti mancanti ai voti)
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena)

Il canto prosegue senza soluzione di continuità nel discorso dottrinale sul rispetto del voto, che, come detto, presenta il problema morale del suo compimento sulla base della volontà. Dante chiede se vi è possibilità, a fronte di una irrealizzabilità dello stesso, del mutamento dell’oggetto del voto. Beatrice precisa che il voto non è che una abdicazione volontaria della propria libertà. Quando esso si esprime vi è un rapporto, in questo caso, tra il fedele e Dio, che non può venir meno; in casi eccezionali potrebbe accadere, ma solo attraverso l’intermediazione della Chiesa.

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Dopo queste ulteriori spiegazioni dottrinali i due ascendono velocemente nel cielo di Mercurio. Appena giunti vengono circondati dalle anime che, seppur luminose, continuano ad avere un aspetto riconoscibile. Subito uno di essi si mostra ansioso di voler condividere con Dante uno scambio di cordialità, che fa sì che, nel parlare, la stessa luminosità prende il sopravvento, cancellando la labile ombra che denotava ancora il personaggio.

CANTO VI
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena)

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«Poscia che Costantin l’aquila volse
contr’al corso del ciel, ch’ella seguio
dietro a l’antico che Lavina tolse, 

cento e cent’anni e più l’uccel di Dio
ne lo stremo d’Europa si ritenne,
vicino a’ monti de’ quai prima uscìo;

e sotto l’ombra de le sacre penne
governò ‘l mondo lì di mano in mano,
e, sì cangiando, in su la mia pervenne.

Cesare fui e son Iustiniano,
che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ‘l vano.

E prima ch’io a l’ovra fossi attento,
una natura in Cristo esser, non piùe,
credea, e di tal fede era contento;

ma ‘l benedetto Agapito, che fue
sommo pastore, a la fede sincera
mi dirizzò con le parole sue.

Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,
vegg’io or chiaro sì, come tu vedi
ogni contradizione e falsa e vera.

Tosto che con la Chiesa mossi i piedi,
a Dio per grazia piacque di spirarmi
l’alto lavoro, e tutto ‘n lui mi diedi;

e al mio Belisar commendai l’armi,
cui la destra del ciel fu sì congiunta,
che segno fu ch’i’ dovessi posarmi.

Or qui a la question prima s’appunta
la mia risposta; ma sua condizione
mi stringe a seguitare alcuna giunta,

perché tu veggi con quanta ragione
si move contr’al sacrosanto segno
e chi ‘l s’appropria e chi a lui s’oppone.

Vedi quanta virtù l’ha fatto degno
di reverenza; e cominciò da l’ora
che Pallante morì per darli regno.

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora
per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.

E sai ch’el fé dal mal de le Sabine
al dolor di Lucrezia in sette regi,
vincendo intorno le genti vicine.

Sai quel ch’el fé portato da li egregi
Romani incontro a Brenno, incontro a Pirro, 
incontro a li altri principi e collegi;
onde Torquato e Quinzio, che dal cirro
negletto fu nomato, i Deci e ‘ Fabi 
ebber la fama che volontier mirro.
Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi
che di retro ad Annibale passaro 
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
Sott’esso giovanetti triunfaro
Scipione e Pompeo; e a quel colle 
sotto ’l qual tu nascesti parve amaro.
Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle
redur lo mondo a suo modo sereno, 
Cesare per voler di Roma il tolle.
E quel che fé da Varo infino a Reno,
Isara vide ed Era e vide Senna 
e ogne valle onde Rodano è pieno.
Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna
e saltò Rubicon, fu di tal volo, 
che nol seguiteria lingua né penna.
Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo,
poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse 
sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo.
Antandro e Simeonta, onde si mosse,
rivide e là dov’Ettore si cuba; 
e mal per Tolomeo poscia si scosse.
Da indi scese folgorando a Iuba; 
onde si volse nel vostro occidente, 
ove sentia la pompeana tuba.
Di quel che fé col baiulo seguente, 
Bruto con Cassio ne l’inferno latra, 
e Modena e Perugia fu dolente.
Piangene ancor la trista Cleopatra, 
che, fuggendoli innanzi, dal colubro 
la morte prese subitana e atra.
Con costui corse infino al lito rubro; 
con costui puose il mondo in tanta pace, 
che fu serrato a Giano il suo delubro.
Ma ciò che ‘l segno che parlar mi face 
fatto avea prima e poi era fatturo 
per lo regno mortal ch’a lui soggiace,
diventa in apparenza poco e scuro, 
se in mano al terzo Cesare si mira 
con occhio chiaro e con affetto puro;
ché la viva giustizia che mi spira, 
li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, 
gloria di far vendetta a la sua ira. 
Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replìco:
poscia con Tito a far vendetta corse 
de la vendetta del peccato antico.
E quando il dente longobardo morse 
la Santa Chiesa, sotto le sue ali 
Carlo Magno, vincendo, la soccorse.
Omai puoi giudicar di quei cotali 
ch’io accusai di sopra e di lor falli, 
che son cagion di tutti vostri mali.
L’uno al pubblico segno i gigli gialli 
oppone, e l’altro appropria quello a parte, 
sì ch’è forte a veder chi più si falli.
Faccian li Ghibellin, faccian lor arte 
sott’altro segno; ché mal segue quello 
sempre chi la giustizia e lui diparte;
e non l’abbatta esto Carlo novello 
coi Guelfi suoi, ma tema de li artigli 
ch’a più alto leon trasser lo vello.
Molte fiate già pianser li figli 
per la colpa del padre, e non si creda 
che Dio trasmuti l’arme per suoi gigli!
Questa picciola stella si correda 
di buoni spirti che son stati attivi 
perché onore e fama li succeda:
e quando li disiri poggian quivi, 
sì disviando, pur convien che i raggi 
del vero amore in sù poggin men vivi. 
Ma nel commensurar d’i nostri gaggi 
col merto è parte di nostra letizia, 
perché non li vedem minor né maggi. 
Quindi addolcisce la viva giustizia 
in noi l’affetto sì, che non si puote 
torcer già mai ad alcuna nequizia.
Diverse voci fanno dolci note; 
così diversi scanni in nostra vita 
rendon dolce armonia tra queste rote.
E dentro a la presente margarita 
luce la luce di Romeo, di cui 
fu l’ovra grande e bella mal gradita. 
Ma i Provenzai che fecer contra lui 
non hanno riso; e però mal cammina 
qual si fa danno del ben fare altrui. 
Quattro figlie ebbe, e ciascuna reina, 
Ramondo Beringhiere, e ciò li fece 
Romeo, persona umìle e peregrina. 
E poi il mosser le parole biece 
a dimandar ragione a questo giusto, 
che li assegnò sette e cinque per diece,
indi partissi povero e vetusto; 
e se ‘l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe 
mendicando sua vita a frusto a frusto, 
assai lo loda, e più lo loderebbe».

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«Dopo che Costantino portò l’aquila imperiale contro il corso del cielo (da Occidente a Oriente), che essa seguì dietro a Enea che prese in sposa Lavinia, l’uccello divino rimase più di duecento anni nell’estremità dell’Europa, vicino ai monti della Troade dai quali iniziò il suo volo; e lì governò il mondo all’ombra delle penne sacre, passando di mano in mano, fino a giungere nelle mie. Fui imperatore romano e mi chiamo Giustiniano: sono colui che, ispirato dallo Spirito Santo, eliminai dalle leggi ciò che era superfluo e ciò che era inutile. E prima che mi dedicassi a quest’opera, credevo che in Cristo ci fosse la sola natura divina, ed ero contento di questa fede; ma il benedetto Agapito, che fu sommo pontefice, mi indirizzò alla vera fede con le sue parole. Io gli credetti; e ora vedo ciò che era nella sua fede così chiaramente, come tu vedi che in un giudizio contraddittorio c’è una frase vera e una falsa. Non appena rientrai in seno alla Chiesa, Dio volle per sua grazia ispirarmi l’alta opera (il Corpus iuris civilis) e io mi dedicai anima e corpo ad esso; e affidai le armi al mio generale Belisario, che fu assistito dal cielo a tal punto che ciò fu segno che io dovessi fermarmi. Ora qui termina la mia prima risposta; ma ciò che ho detto mi induce a far seguire una aggiunta, affinché tu veda quanto ingiustamente agiscano contro il sacrosanto simbolo dell’aquila sia coloro che se ne appropriano (i Ghibellini), sia coloro che gli si oppongono (i Guelfi). Vedi quanta virtù ha reso il segno degno di riverenza; e ciò iniziò dal giorno in cui Pallante morì per assicurargli un regno. Tu sai che esso dimorò più di trecento anni ad Alba Longa, fino al momento in cui Orazi e Curiazi lottarono ancora per lui. E sai cosa fece dal ratto delle Sabine fino all’oltraggio a Lucrezia, all’epoca dei sette re di Roma, vincendo i popoli circonvicini. Sai che cosa fece, portato dai nobili Romani contro Brenno e Pirro, e contro altre repubbliche e monarchi dell’Italia; per cui Torquato e Quinzio Cincinnato, che fu detto così per la chioma trascurata, nonché Deci e Fabi ebbero la fama che io volentieri onoro. Esso abbatté l’orgoglio dei Cartaginesi che al seguito di Annibale passarono le Alpi, dalle quali tu, o fiume Po, discendi. Sotto di esso trionfarono, da giovani, Scipione e Pompeo; e parve amaro a quel colle (Fiesole) sotto il quale tu sei nato. Poi, quando fu vicino il tempo in cui il Cielo volle far diventare tutto il mondo sereno a sua immagine (per la nascita di Cristo), Cesare assunse il segno dell’aquila per volere di Roma. E ciò che esso (con Cesare) fece in dal fiume Varo fino al Reno, lo videro l’Isère, la Loira, la Senna e ogni valle di cui è pieno il Rodano. Quello che fece dopo essere uscito da Ravenna ed aver passato il Rubicone, fu un volo così veloce che né la lingua né la penna potrebbero descriverlo. Rivolse le truppe contro la Spagna e poi verso Durazzo, e colpì Farsàlo a tal punto che il dolore arrivò sino al caldo Nilo. L’aquila rivide il porto di Antandro e il fiume Simoenta da cui si mosse, e il sepolcro di Ettore; e poi ripartì per l’Egitto, con nefaste conseguenze per Tolomeo. Da lì scese come una folgore contro Giuba, re di Mauritania, e poi si portò nell’Occidente del vostro mondo, dove sentiva la tromba dei Pompeiani. Di quello che esso fece col successore di Cesare (Ottaviano), Bruto e Cassio ancora latrano nell’Inferno e Modena e Perugia ne furono dolenti. Ne piange ancora la triste Cleopatra, che, fuggendogli davanti, si diede la morte improvvisa e atroce col serpente. Con Ottaviano l’aquila corse fino al Mar Rosso; con lui ridusse il mondo in pace, al punto che fu chiuso il tempio di Giano. Ma ciò che il segno di cui parlo aveva fatto in precedenza e avrebbe fatto dopo per il regno mortale che gli è sottomesso, diventa poca cosa in apparenza se lo si paragona a ciò che fece col terzo imperatore (Tiberio), se si guarda con chiarezza e sincerità; infatti la giustizia divina che mi ispira gli concesse, in mano a Tiberio, la gloria di punire il peccato originale (con la crocifissione di Cristo). Ora prendi ammirazione per ciò che aggiungo: in seguito con Tito corse a vendicare la vendetta dell’antico peccato (con la distruzione di Gerusalemme). E quando la violenza dei Longobardi si rivolse contro la Santa Chiesa, Carlo Magno la soccorse sotto le ali dell’aquila, sconfiggendo quel popolo. Ormai puoi giudicare la condotta di quelli che ho accusato prima e le loro colpe, che sono causa di tutti i vostri mali. Gli uni (i Guelfi) oppongono al simbolo imperiale i gigli gialli della casa di Francia, e gli altri (i Ghibellini) se ne appropriano per la loro parte politica, così che è arduo stabilire chi sbagli di più.  Ghibellini facciano la loro politica sotto un altro simbolo, giacché chi lo separa sempre dalla giustizia ne fa un cattivo uso; e non creda di abbatterlo coi suoi Guelfi Carlo II d’Angiò, ma abbia timore dei suoi artigli che scuoiarono leoni più feroci di lui. Molte volte i figli hanno già pagato per le colpe dei padri, e quindi non creda Carlo che Dio cambi il proprio simbolo con i suoi gigli! Questo piccolo pianeta (Mercurio) accoglie i buoni spiriti che sono stati attivi nella ricerca dell’onore e della fama: e quando i desideri sono rivolti a questo, così deviando dal loro fine, è inevitabile che l’amore sia meno rivolto verso Dio. Tuttavia, se paragoniamo i nostri premi col nostro merito, ciò ci induce letizia, poiché non li vediamo né minori né maggiori. In tal modo la giustizia divina addolcisce il nostro sentimento, così che esso non può mai essere rivolto a un pensiero malvagio. Diverse voci producono dolci melodie; così i diversi gradi della nostra beatitudine rendono una dolce armonia in questi Cieli. E dentro questa stella risplende la luce di Romeo di Villanova, la cui opera bella e grande fu poco apprezzata. Ma i Provenzali, che agirono contro di lui, non hanno riso (furono puniti) e dunque percorre una cattiva strada chi è invidioso e considera un proprio danno le buone azioni degli altri. Raimondo Berengario ebbe quattro figlie, ognuna sposa di re, e ciò fu il risultato dell’opera di Romeo, persona umile e straniera. E poi le parole invidiose dei cortigiani lo indussero a chiedere conto dell’operato di quel giusto, che aveva accresciuto le rendite statali, per cui Romeo se ne andò povero e vecchio; e se il mondo sapesse con quanta dignità si ridusse a mendicare il pane, lo loderebbe ancor più di quanto già non faccia»
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E’ questo l’unico canto dell’intera Commedia in cui un personaggio prende la parola per gli interi 142 versi di cui è composto. Infatti nel V canto, quest’anima aveva sollecitato Dante a chiedere chi fosse e chi fossero i compagni in questo cielo di Mercurio ed ora risponde alle sue domande. Quello che tuttavia colpisce è che quest’anima non si presenta da subito, ma pone un altro protagonista, l’aquila imperiale, che diventa il centro ed il fulcro dell’intero canto. Ci troviamo infatti nel VI canto, quindi il canto politico che, come già visto, si distribuisce strutturalmente nelle tre cantiche:
  1. Inferno, Ciacco che parla della città dipartita, cioè Firenze;
  2. Purgatorio, in cui l’incontro con Sordello da Goito sollecita una riflessione sull’Italia;
  3. Paradiso, Giustiniano che ci parla dell’Impero e del suo “declino”, foriero di un futuro nebuloso ed oscuro;

La scelta di affidare la riflessione a Giustiniano non è casuale, non solo egli ha dato il “Corpus iuris civilis”, ma questo stesso era stato già richiamato nel Purgatorio come causa delle lotte interne nella lotta politica; inoltre Giustiniano è stato quell’imperatore che, con la guerra contro i Goti ha riportato all’unità l’Impero che Costantino alla sua morte aveva diviso.

Ed è proprio da Costantino che parte, “colpevole” – sebbene Dante non lo dica esplicitamente – d’aver “politicizzato” la Chiesa (Dante credeva nel documento, poi rivelatosi falso della donazione di Costantino ) e di aver diviso l’impero.

Dante quindi fa una lunga carrellata della storia di Roma partendo da:

  1. Pallante, figlio di Evandro, ucciso da Turno, come ci racconta nei versi finali l’Eneide di Virgilio;
  2. La battaglia tra Orazi e Curiazi per il predominio tra Albalonga e Roma;
  3. Il periodo regio con il ratto delle Sabine ed il sacrificio di Lucrezia, violata dal figlio di Tarquinio il Superbo
  4. Il sacco di Roma con Brenno e l’impresa fallimentare di Pirro;
  5. Le guerre contro i Latini vinti da Tito Manlio Torquato e gli Equi, sconfitti da Lucio Quinzio Cincinnato, e il sacrificio dei tre fratelli della famiglia dei Deci ed i trecento Fabi.
  6. La guerra contro Cartagine, il cui comandante Annibale venne battuto da Scipione l’Africano e da Pompeo Magno
  7. L’insegna imperiale in mano Cesare che conquisto la Gallia (qui indicata col nome dei principali fiumi)
  8. Il passaggio del Rubicone: l’uccisione dei pompeiani in Spagna, l’inseguimento di Pompeo a Durazzo la sconfitta a Farsalo, quindi il passaggio nella vecchia Troade e poi di nuovo in Egitto. 
  9. La guerra contro Giuba, il re della Mauritania;
  10. L’uccisione di Cesare ed il potere ad Augusto che uccide a Modena Marco Antonio e a Perugia la sorella col marito.
  11. Potere augusteo chiusura della porta di Giano;
  12. Passaggio a Tiberio 
  13. Tito, diaspora ebraica.

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Quello che tuttavia interessa è che tale carrellata non si esaurisce nella raffigurazione di alcune “cartoline” con i più grandi personaggi della storia di Roma, ma che loro non sono che strumenti del potere di Dio rappresentato dall’aquila imperiale che non solo ideologicamente ma anche sintatticamente fa da soggetto (tu sai ch’el fece; E sai ch’el fé; Sai quel ch’el fé;). E l’aquila lo stemma della Chiesa ed è per questo che inizia questa carrellata deprecando sia i Ghibellini, che se ne appropriano e lo strumentalizzano, sia chi lo combatte.

CANTO VII
(Cielo II – Mercurio – Spiriti attivi per gloria terrena) 

E’ questo uno dei canti che Benedetto Croce, critico idealistica, avrebbe definito di non poesia, che in altri termini, vuol dire dottrinale: dopo un’incipit in cui riprende il canto VI, non avendo potuto il poeta chiosare le sue parole, in quanto il discorso di Giustiniano lo occupa per intero, lo riprende qui, con un movimento di danza del grande imperatore che, raddoppiando in lui la luminosità lo allontana, nonostante il poeta invitasse Beatrice a parlarle ancora e a risolvere un dubbio che le sue stesse parole gli aveva instillato. Tale dubbio ce lo spiega il Landino (lettore del ‘400 della poesia dantesca): “se giusta fu la morte del Cristo pel peccato dei primi parenti, ingiusta fu la vendetta presa da’ Giudei. E se la vendetta presa contro i Giudei fu giusta, adunque fu ingiusta la morte di Cristo”.

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Beatrice teologa per Dante

Tutto il canto consiste nella risposta di Beatrice che si muove su alcuni concetti derivati dalla patristica:

Adamo “uomo non nato” ha, con il suo peccato, fatto perdere all’intera umanità il Paradiso Terrestre, gettandola in una condizione d’infermità morale intrinseca ad ognuno. Cristo si è fatto uomo, pertanto anch’egli è entrato nell’intera umanità, ma la sua carne è pura in quanto è Dio fatto carne: per cui la sua morte è giusta da un punto di vista puramente umano è ingiusta da un punto di vista divino. Ma era proprio necessario il sacrificio di Cristo? Sì perché è un atto d’amore di Dio verso l’uomo, sacrificando per una nuova libertà umana il proprio figlio. D’altra parte il suo sacrificio e la sua resurrezione dimostrano all’uomo che alla fine dei tempi diverrà immortale, non nell’anima, com’egli stesso dimostra, ma con il corpo.

CANTO VIII
(Cielo III – Venere – Spiriti amanti)

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Il canto prende l’avvio dall’ascesa verso il cielo di Venere di Dante e Beatrice, ascesa testimoniata dal maggiore splendore dell’accompagnatrice. Qui vedono anime luminose girare intorno a maggiore o minore velocità, cantando “Osanna”. Una di esse, vedendo Dante, spinto da carità si mosse, chiedendogli di esprimere ogni sua voglia a voler comunicare, trovandosi egli con colui che aveva scritto: Voi ch’entendo il terzo ciel movete.

Poscia che li occhi miei si fuoro offerti
a la mia donna reverenti, ed essa
fatti li avea di sé contenti e certi,
rivolsersi a la luce che promessa
tanto s’avea, e «Deh, chi siete?» fue
la voce mia di grande affetto impressa
E quanta e quale vid’ io lei far piùe
per allegrezza nova che s’accrebbe,
quando parlai, a l’allegrezze sue!
Così fatta, mi disse: «Il mondo m’ebbe
giù poco tempo; e se più fosse stato,
molto sarà di mal, che non sarebbe.
La mia letizia mi ti tien celato
che mi raggia dintorno e mi nasconde
quasi animal di sua seta fasciato.
Assai m’amasti, e avesti ben onde;
che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
di mio amor più oltre che le fronde.
Quella sinistra riva che si lava
di Rodano poi ch’è misto con Sorga,
per suo segnore a tempo m’aspettava,
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
Fulgeami già in fronte la corona
di quella terra che ’l Danubio riga
poi che le ripe tedesche abbandona.
E la bella Trinacria, che caliga
tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga,
non per Tifeo ma per nascente solfo,
attesi avrebbe li suoi regi ancora,
nati per me di Carlo e di Ridolfo,
se mala segnoria, che sempre accora
li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.

E se mio frate questo antivedesse,
l’avara povertà di Catalogna
già fuggeria, perché non li offendesse;
ché veramente proveder bisogna
per lui, o per altrui, sì ch’a sua barca
carcata più d’incarco non si pogna.
La sua natura, che di larga parca
discese, avria mestier di tal milizia
che non curasse di mettere in arca».
«Però ch’i’ credo che l’alta letizia
che ’l tuo parlar m’infonde, segnor mio,
là ’ve ogne ben si termina e s’inizia,
per te si veggia come la vegg’ io,
grata m’è più; e anco quest’ ho caro
perché ’l discerni rimirando in Dio.
Fatto m’hai lieto, e così mi fa chiaro,
poi che, parlando, a dubitar m’hai mosso
com’ esser può, di dolce seme, amaro».
Questo io a lui; ed elli a me: «S’io posso
mostrarti un vero, a quel che tu dimandi
terrai lo viso come tien lo dosso.
Lo ben che tutto il regno che tu scandi
volge e contenta, fa esser virtute
sua provedenza in questi corpi grandi.
E non pur le nature provedute
sono in la mente ch’è da sé perfetta,
ma esse insieme con la lor salute:
per che quantunque quest’ arco saetta
disposto cade a proveduto fine,
sì come cosa in suo segno diretta.
Se ciò non fosse, il ciel che tu cammine
producerebbe sì li suoi effetti,
che non sarebbero arti, ma ruine;
e ciò esser non può, se li ’ntelletti
che muovon queste stelle non son manchi,
e manco il primo, che non li ha perfetti.
Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?».
E io: «Non già; ché impossibil veggio
che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi».
Ond’ elli ancora: «Or dì: sarebbe il peggio
per l’omo in terra, se non fosse cive?».
«Sì», rispuos’ io; «e qui ragion non cheggio».
«E puot’ elli esser, se giù non si vive
diversamente per diversi offici?
Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive».
Sì venne deducendo infino a quici;
poscia conchiuse: «Dunque esser diverse
convien di vostri effetti le radici:
per ch’un nasce Solone e altro Serse,
altro Melchisedèch e altro quello
che, volando per l’aere, il figlio perse.
La circular natura, ch’è suggello
a la cera mortal, fa ben sua arte,
ma non distingue l’un da l’altro ostello.
Quinci addivien ch’Esaù si diparte
per seme da Iacòb; e vien Quirino
da sì vil padre, che si rende a Marte.
Natura generata il suo cammino
simil farebbe sempre a’ generanti,
se non vincesse il proveder divino.
Or quel che t’era dietro t’è davanti:
ma perché sappi che di te mi giova,
un corollario voglio che t’ammanti.
Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sé, com’ ogne altra semente
fuor di sua regïon, fa mala prova.
E se ’l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avria buona la gente.
Ma voi torcete a la religïone
tal che fia nato a cignersi la spada,
e fate re di tal ch’è da sermone;
onde la traccia vostra è fuor di strada»

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Dopo aver rivolto con rispetto gli occhi verso Beatrice e dopo che lei li ebbe rassicurati e confermati del suo assenso, li voltai verso l’anima splendente che si era offerta tanto generosamente e «Dimmi, ti prego, chi siete?», furono le mie parole segnate da ardente desiderio. E quanto più grande e più splendente io vidi quell’anima diventare, per la nuova gioia che s’aggiunse, per le mie parole, alla sua letizia! Così diventata, mi rispose: «Vissi poco tempo sulla terra, e se fossi vissuto più a lungo, non ci sarebbero molti mali che invece avverranno. Mi tiene nascosta a te la mia beatitudine, che emana luce tutto intorno a me e mi vela come quell’animale che si fascia della sua seta. Mi hai amato profondamente, e ne hai avuto buon motivo; poiché se io fossi rimasto in terra, ti avrei dimostrato ben più delle foglie del mio affetto. La regione posta su quella sponda sinistra che si bagna nel Rodano dopo che vi è affluito il Sorga (la Provenza), mi attendeva come suo re al tempo dovuto, e pure quella parte dell’Italia che ha per città Bari, Gaeta e Catona, da dove il Tronto e il Verde sfociano nel mare. Mi risplendeva già nel capo la corona d’Ungheria, il paese che il Danubio bagna dopo aver lasciato le rive della Germania. E la bella Sicilia che si copre di caligine tra capo Pachino e capo Teloro, su quel golfo che subisce il colpo più forte dallo Scirocco, non a causa del gigante Tifeo, ma per le emanazioni di zolfo, ancora oggi attenderebbe come suoi re i discendenti, attraverso me, di Corrado e di Rodolfo, se il malgoverno, che opprime continuamente i popoli sottomessi, non avesse spinto i palermitani all’urlo di rivolta “Muoia, muoia!”. E se mio fratello sapesse prevedere ciò, rifuggirebbe sin d’ora dalla gretta avarizia dei catalani, perché non gli recasse danno, poiché davvero lui, o qualcun altro dovrebbe prendere provvedimenti affinché nel suo regno, già troppo carico (di oneri, problemi, debito), non si pongano altri pesi. la sua indole che discende avara da una stirpe liberale, avrebbe bisogno di collaboratori che non mirassero ad accumulare tesori negli scrigni. «Poiché, o mio signore, io so per fede che la profonda gioia che le tue parole mi infondono tu le vedi in Dio, dove ogni cosa ha inizio e fine, così come io la sente in me, essa mi è ancora più gradita; e anche quest’altra cosa mi è di gran piacere, il fatto che la vedi contemplando in Dio. mi hai già reso felice, e così chiarisci, dato che il tuo discorso mi ha fatto nascere un dubbio, come può essere che da un seme buono nasca una pianta cattiva.» Questo domandai; ed egli mi rispose: «Se io riuscirò a mostrarti una verità, tu avrai di fronte la risposta al dubbio, così come adesso gli volti le spalle. Dio, il sommo bene che muove e allieta i cieli che tu stai ascendendo, predispone che la sua Provvidenza si faccia virtù informante in queste vaste sfere celesti. E nella mente di Dio, che è perfetta di per se stessa, si provvede non solo alla creazione delle nature, ma al loro essere e al loro benessere: per cui qualunque cosa quest’arco scocca, giunge predisposto per uno scopo determinato, come una freccia indirizzata al suo bersaglio. Se non avvenisse così, il cielo che stai percorrendo produrrebbe i suoi effetti in maniera tale che non sarebbero benefici ma dannosi; e questo non può avvenire, a meno che le sfere celesti non siano imperfette e imperfetto il primo mobile che non le ha ben compiute. Vuoi che ti chiarisca di più questa verità?». Risposi: «No davvero, perché so che è impossibile che la natura venga meno in ciò che è necessario». Quindi replicò: «Adesso dimmi: per l’uomo sulla terra, sarebbe peggio se non vivesse in società». Risposi: «Certo, e di questo non chiedo spiegazioni». «E ciò può avvenire, se sulla terra ognuno non vivesse in modo diverso con compiti differenziati? No, se scrive bene il vostro maestro Aristotele». Così giunse ragionando fino a questo punto; quindi concluse: «Pertanto è necessario che le vostre azioni siano varie: per questo uno nasce Solone (legislatore) un altro Serse (guerriero), un altro Melchisedech (sacerdote), e un altro come Dedalo che, volando per il cieli, perse il figlio. Le influenze celesti che si imprimono nella materia terrena, compiono bene la loro funzione, ma non fanno distinzioni tra una casa e l’altra. Così accade che Esaù sia diverso per virtù ingenita da Giacobbe, e Romolo nasce da un genitore di così bassa condizione che viene attribuito (come figlio) a Marte. La natura dei discendenti seguirebbe sempre la stessa strada dei genitori, se la provvidenza divina non fosse più forte. Ora quello che ti era oscuro, è davanti ai tuoi occhi; ma affinché tu sappia che ti ho molto a cuore, desidero che un’ulteriore verità ti ricopra. L’inclinazione naturale dà sempre cattiva prova di sé se si scontra con un destino a lei contrario, proprio come qualsiasi seme che cada fuori dal terreno adatto. E se gli uomini sulla terra considerassero attentamente l’inclinazione che la virtù dei cieli infonde e l’assecondassero, ne otterrebbero persone migliori. Invece voi uomini costringete a diventare ecclesiastico chi è nato con la vocazione del guerriero e innalzate al trono chi ha la natura del predicatore, per cui il cammino umano è fuori dalla retta via».

E’ un canto importante per due motivi:

  1. intimo: probabilmente vi era stata una conoscenza diretta tra Dante e Carlo Martello, nel 1294, ed il giovane principe angioino aveva mostrato un certo interesse per l’attività letteraria del giovane Dante, se lo apostrofa citando una sua poesia; è in questo modo che dobbiamo intendere la presenza del figlio di Carlo II d’Angiò nel cielo degli spiriti amanti, cioè quello di un affetto fraterno tra due giovani ragazzi.
  2. L’aspetto più specificatamente teologico, in cui il nostro dà parola a Carlo Martello che spiegherà aspetti teologici che tuttavia avranno esiti terreni e quindi politici.

Il principe Carlo Martello, su cui è centrato l’intero canto, muore giovanissimo: nasce infatti nel 1271 e muore nel 1295 ad appena 24 anni. Dante percepisce in lui colui che avrebbe potuto portare la pace in Italia: si sperava infatti in un matrimonio tra lui, erede angioino con la figlia Clemenza di Rodolfo d’Asburgo, cioè mettere d’accordo i guelfi alleati storici degli Angioini francesi con i ghibellini dalla parte degli Asburgo. La morte precoce di Carlo fa fallire il piano di pace ed egli, che dall’alto dei cieli può osservare il prosieguo della storia, non può che vederla piena di errori per colpa del padre che ha così mal governato in Sicilia da dar vita alla ribellione popolare (i Vespri siciliani del 1282) e del fratello, che non reso edotto dello sbaglio paterno, continua a circondarsi di collaboratori avidi ed incapaci. Da qui sorge il dubbio dantesco: come può nascere da un ramo sano (quello degli avi angioini, così liberali e cortesi) una mala pianta come il fratello Roberto? Vi è un ordine cosmico voluto da Dio, amministrato grazie alla mediazione delle sfere celesti. Quest’ultime influiscono sul mondo terreno cercando di imprimergli armoniosità. Essendo l’uomo un essere sociale (riprende la filosofia aristotelica) tale armonia si ottiene attraverso la varietà che ogni cives rappresenta all’interno di essa, facendo ognuno di essi un’attività diversa ma che utile agli altri rende unita l’intera civitas. Se ne deduce che ogni uomo, attraverso la propria indole, dovrebbe scegliere il compito che la divina provvidenza ha fatto piovere dal cielo, non “ereditarlo”, poiché tale indole non si trasmette di padre in figlio. Da qui l’amara constatazione finale della “ruina” dell’Italia dantesca: quella di un re che fa le veci di un ecclestiatico e di quest’ultimo che riceve la corona regale.

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CANTO IX
(Cielo III – Venere – Spiriti amanti)

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Il canto non interrompe quello precedente: stesso cielo e stessi beati. Colui che aveva terminato di parlare, continua anche ora con una piccola chiosa che profetizza un futuro infausto per i suoi degeneri discendenti. Ed è proprio questo il motivo che innerva l’intero canto che viene scandito da tre personaggi, appunto Carlo Martello come si è detto, Cunizza da Romano e Folchetto da Marsiglia e dalle rispettive invettive.
Cunizza, dopo il topos delle descrizioni storiche geografiche, sottolinea la tirannide luciferina di suo fratello Ezzelino e, dopo aver narrato come abbia trasceso dall’amore terreno a quello spirituale, profetizzando (chiaramente post eventu), la sonora sconfitta che, nel 1314, i Padovani subiranno dai Vicentini e Veronesi.
Subentra quindi il terzo personaggio, il trovatore Folchetto da Marsiglia, il cui splendore riflette il gaudio della raggiunta beatitudine. Anche lui ha sublimato l’amore terreno in amore celeste, quindi presenta a Dante l’anima più alta e luminosa in quel cielo, quella della prostituta Raab, la prima a raggiungere il Paradiso dopo la discesa di Cristo, lei che per prima conquistò la città di Gerico allo stato d’Israele. Il compito del trovatore è infatti quello di sottolineare come i pontefici ed i cardinali siano disinteressati a quella terra, presi solo dalla cupidigia di potere e di denaro. Folchetto nel parlare del personaggio biblico sottolinea come nel cielo nel quale essi sono, come naturalmente quelli sui quali già hanno hanno attraversato la luminosità di Dio, finisce il cono d’ombra proiettato dalla terra, che in un certo qual modo “oscura” la luminosità divina.
 
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Renato Guttuso: Cunizza da Romano

CANTO X
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

Con una lunga precisazione astronomica di ben 27 versi, Dante ci comunica che abbandonati il cielo di Venere lui e Beatrice ascendono verso il cielo del Sole, per dirla con le ultime parole di Folchetto, abbandonano i cieli nei quali la terra ha ancora influenza (Luna, mancanti ai voti; Mercurio, Spiriti attivi per gloria terrena; Venere, Spiriti amanti) per innalzarli verso la sapienza che “illuminando” loro, glorificano Dio. Dodici di essi, come gli apostoli, brillanti più del sole, si presentano a Dante e a Beatrice ponendosi in cerchio intorno a loro, danzando e cantando.
 
 
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Da una delle luci esce una voce, quella di Tommaso d’Aquino, che con estrema semplicità, non prima di aver nominato lo spirito a lui accanto di Alberto Magno, si presenta come uno de la santa greggia che Domenico mena per cammino u’ ben s’impingua se non si vaneggia (dell’ordine che San Domenico guida con la sua regola, dove ci si arricchisce se non si va dietro le case vane). Quindi invita Dante a seguire con lo sguardo le anime che lui nomina: Francesco Graziano (maestro allo Studio di Bologna, che pose le basi del diritto canonico); Pietro Lombardo (teologo, autore dei Libri quattuor Sententiarum, testo ufficiale della dogmatica cristiana); Salomone, autore del Cantico dei Cantici; Dionigi L’Areopagita, il cui libro De coelesti hierarchia venne utilizzato da Dante per la questione delle Intelligenze motrici; Paolo Orosio, difensore nei suoi scritti dei christiana tempora; Severino Boezio, il suo De consolatione philosophiae fu uno dei testi più importanti del medioevo; Isidoro di Siviglia; Beda, il Venerabile, monaco benedettino sassone; Riccardo di San Vittore, agostiniano scozzese e Sigieri di Bramante, il più grande rappresentante dell’averroismo latino. Su quest’ultimo s’accanisce la critica dantesca: infatti Sigieri di Bramante venne combattuto proprio da Tommaso che lo fece processare dall’Inquisizione (vi era in lui la pericolosa teoria della separazione tra filosofia e teologia, pur lasciando a quest’ultima l’ultimo approdo per una verità sicura). Ci piace poter dire che “in questo cielo intellettualmente così aperto, così libero, così potentemente invaso dalla luce della ragione, Dante abbia voluto fare posto anche a chi quella ragione in buona fede si era sentito di seguire fino in fondo, anche attirandosi disapprovazione, odio, avversione. Piacerebbe poter dire che la carità di Dio sia più grande, più divinamente indulgente, delle scuole di pensiero filosofiche.” (Riccardo Bruscagli)
 
 
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CANTO XI
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)
 

O insensata cura de’ mortali,
quanto son difettivi silogismi
quei che ti fanno in basso batter l’ali!
Chi dietro a iura e chi ad amforismi
sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
e chi regnar per forza o per sofismi,
e chi rubare e chi civil negozio,
chi nel diletto de la carne involto
s’affaticava e chi si dava a l’ozio,
quando, da tutte queste cose sciolto,
con Bëatrice m’era suso in cielo
cotanto glorïosamente accolto.

Poi che ciascuno fu tornato ne lo
punto del cerchio in che avanti s’era,
fermossi, come a candellier candelo.
E io senti’ dentro a quella lumera
che pria m’avea parlato, sorridendo
incominciar, faccendosi più mera:
«Così com’ io del suo raggio resplendo,
sì, riguardando ne la luce etterna,
li tuoi pensieri onde cagioni apprendo.
Tu dubbi, e hai voler che si ricerna
in sì aperta e ’n sì distesa lingua
lo dicer mio, ch’al tuo sentir si sterna,
ove dinanzi dissi: “U’ ben s’impingua”,
e là u’ dissi: “Non nacque il secondo”;
e qui è uopo che ben si distingua.

thomas.jpgSan Tommaso

La provedenza, che governa il mondo
con quel consiglio nel quale ogne aspetto
creato è vinto pria che vada al fondo,
però che andasse ver’ lo suo diletto
la sposa di colui ch’ad alte grida
disposò lei col sangue benedetto,
in sé sicura e anche a lui più fida,
due principi ordinò in suo favore,
che quinci e quindi le fosser per guida.
L’un fu tutto serafico in ardore;
l’altro per sapïenza in terra fue
di cherubica luce uno splendore.

De l’un dirò, però che d’amendue
si dice l’un pregiando, qual ch’om prende,
perch’ ad un fine fur l’opere sue.
Intra Tupino e l’acqua che discende
del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
Di questa costa, là dov’ ella frange
più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.
Però chi d’esso loco fa parole,
non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.

Non era ancor molto lontan da l’orto,
ch’el cominciò a far sentir la terra
de la sua gran virtute alcun conforto;
ché per tal donna, giovinetto, in guerra
del padre corse, a cui, come a la morte,
la porta del piacer nessun diserra;
e dinanzi a la sua spirital corte
et coram patre le si fece unito;
poscia di dì in dì l’amò più forte.
Questa, privata del primo marito,
millecent’ anni e più dispetta e scura
fino a costui si stette sanza invito;
né valse udir che la trovò sicura
con Amiclate, al suon de la sua voce,
colui ch’a tutto ’l mondo fé paura;
né valse esser costante né feroce,
sì che, dove Maria rimase giuso,
ella con Cristo pianse in su la croce.
Ma perch’ io non proceda troppo chiuso,
Francesco e Povertà per questi amanti
prendi oramai nel mio parlar diffuso.
La lor concordia e i lor lieti sembianti,
amore e maraviglia e dolce sguardo
facieno esser cagion di pensier santi;
tanto che ’l venerabile Bernardo
si scalzò prima, e dietro a tanta pace
corse e, correndo, li parve esser tardo.
Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!
Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro
dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va quel padre e quel maestro
con la sua donna e con quella famiglia
che già legava l’umile capestro.
Né li gravò viltà di cuor le ciglia
per esser fi’ di Pietro Bernardone,
né per parer dispetto a maraviglia;
ma regalmente sua dura intenzione
ad Innocenzio aperse, e da lui ebbe
primo sigillo a sua religïone.
Poi che la gente poverella crebbe
dietro a costui, la cui mirabil vita
meglio in gloria del ciel si canterebbe,
di seconda corona redimita
fu per Onorio da l’Etterno Spiro
la santa voglia d’esto archimandrita.
E poi che, per la sete del martiro,
ne la presenza del Soldan superba
predicò Cristo e li altri che ’l seguiro,
e per trovare a conversione acerba
troppo la gente e per non stare indarno,
redissi al frutto de l’italica erba,
nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
Quando a colui ch’a tanto ben sortillo
piacque di trarlo suso a la mercede
ch’el meritò nel suo farsi pusillo,
a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede,
raccomandò la donna sua più cara,
e comandò che l’amassero a fede;
e del suo grembo l’anima preclara
mover si volle, tornando al suo regno,
e al suo corpo non volle altra bara.
Pensa oramai qual fu colui che degno
collega fu a mantener la barca
di Pietro in alto mar per dritto segno;
e questo fu il nostro patrïarca;
per che qual segue lui, com’ el comanda,
discerner puoi che buone merce carca.
Ma ’l suo pecuglio di nova vivanda
è fatto ghiotto, sì ch’esser non puote
che per diversi salti non si spanda;
e quanto le sue pecore remote
e vagabunde più da esso vanno,
più tornano a l’ovil di latte vòte.
Ben son di quelle che temono ’l danno
e stringonsi al pastor; ma son sì poche,
che le cappe fornisce poco panno.
Or, se le mie parole non son fioche,
se la tua audïenza è stata attenta,
se ciò ch’è detto a la mente revoche,
in parte fia la tua voglia contenta,
perché vedrai la pianta onde si scheggia,
e vedra’ il corrègger che argomenta
“U’ ben s’impingua, se non si vaneggia”».

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Giotto: L’approvazione dell’ordine di San Francesco

Oh uomini, quanto sono insensate le vostre preoccupazioni, quanto sono imperfetti i vostri ragionamenti, che vi fanno rivolgere agli interessi terreni! Chi si occupa della scienza del diritto e chi della medicina, chi insegue qualche carica religiosa senza averne vocazione e chi il dominio politico ottenuto con la violenza o con l’inganno, chi si occupa di rubare e chi segue gli affari civili, chi si affanna intento a soddisfare il piacere della carne e chi si dedica all’ozio, mentre io, libero da tutti questi vani interessi terreni, lassù in cielo, in compagnia di Beatrice, venivo tanto gloriosamente accolto in Paradiso. Dopo che tutte le anime beate furono tornate nel punto del cerchio in cui si trovavano inizialmente, si fermarono, fissandosi come una candele in un candeliere. Ed io sentii dentro quella luce, che mi aveva prima parlato, sorridendo e diventando ancora più pura, più luminosa, ricominciare a parlare: «Dal momento che la mia luminosità deriva dalla luce di Dio, così, guardando in essa, posso conoscere l’origine di tutti i tuoi pensieri. Tu hai dei dubbi e vorresti che vengano meglio spiegate, nel linguaggio più chiaro e più semplice possibile, così da agevolare la tua comprensione, le mie parole, quando prima ti ho detto: “Dove si ingrassa bene”, e anche dove dissi: “Non nacque il secondo”; ed ora è necessario che ti spieghi meglio le due affermazioni. La provvidenza divina, che regola il mondo con quella sapienza che la facoltà intellettiva di ogni creatura non può arrivare a comprendere a fondo, affinché potesse andare incontro al suo tenero amante la sposa, la Chiesa, di colui, Cristo, che con alte grida la prese in sposa versando il proprio sangue sulla croce, più sicura di sé ed anche più fedele a lui, istituì due uomini eccellenti che la servissero e che dall’una (nella sapienza) e dall’altra parte (nella carità) le facessero da guida. L’uno, San Francesco, fu simile ad un angelo Serafino nel suo ardore di carità; l’altro, San Domenico, fu in Terra uno splendore di sapienza come un Cherubino. Parlerò solo del primo, dal momento che di entrambi si parla comunque se si loda uno qualunque dei due, poiché le loro opere furono indirizzate verso un medesimo fine. Tra il fiume Tupino e il corso d’acqua, il fiume Chiascio, che scende dal colle prescelto da Ubaldo per la sua vita da eremita, si trova il fertile versante dell’alto monte Subasio, dal quale Perugia riceve, a seconda delle stagioni, freddo e caldo da Porta a Sole; mentre dall’altro lato sono oppresse da quell’alto monte le città di Nocera e Gualdo Tadino. Su questo versante, dalla parte in cui la montagna diviene meno ripida, nacque un uomo destinato ad illuminare il mondo, tanto luminoso e fertile quanto il sole durante l’equinozio di primavera. Perciò, chi parla di quel luogo non dica Assisi, perché direbbe troppo poco di esso, ma dica Oriente, origine del sole, se vuole essere preciso. Non era ancora molto in là con gli anni (lontano dalla nascita), che cominciò a fare sentire alla sua patria i benefici della sua grande virtù; poiché, ancora in giovane età, per amore di una donna, la Povertà, si oppose al proprio padre, una donna che, come si fa con la morte, nessuno ha il piacere ad accogliere; e così, di fronte alla curia episcopale di Assisi ed in presenza del padre, si unì con lei in matrimonio; e l’amo poi sempre di più giorno dopo giorno. Questa donna, rimasta vedova del suo primo marito, Gesù, per più di mille anni era stato trascurata e disprezzata, e fino all’arrivo di questo uomo era rimasta senza pretendenti; non valse a niente l’aver appreso della sicurezza che poté godere con lei, in compagnia anche di Amiclate, Cesare, colui che da tutto il mondo era temuto; non le valse a niente neanche l’essere stata tanto fedele e coraggiosa, laddove Maria era dovuta rimanere giù, da salire e piangere con Cristo dall’alto della croce. Ma affinché non continui in questo discorso troppo oscuro, San Francesco e la Povertà sono i due amanti ai quali faccio riferimento nel mio discorso. La loro concordia e i loro volti lieti, l’amore, l’ammirazione e i loro dolci sguardi davano origini e pensieri santi, puri; tanto che il venerabile Bernardo fu il primo che si tolse i sandali e dietro ad una tale pace corse e, per correndo, gli sembrava di essere in ritardo. Oh ricchezza sconosciuta! Oh grande abbondanza di virtù! Si tolse i sandali Egidio e se li tolse anche Silvestro per seguire lo sposo, Francesco, tanto piacque la sposa, la Povertà. Francesco, padre e maestro, andò quindi a Roma dal papa con la sua donna, Povertà, e con quel gruppo di fratelli che già si legavano alla vita l’umile cordone. Non abbassò lo sguardo per la vergogna di essere figlio di un semplice mercante, Pietro Bernardone, né per il proprio abito tanto spregevole da suscitare meraviglia; ma, al contrario, dichiarò con parole dignitose la propria dura regola religiosa a papa Innocenzo III, e da lui ricevette la prima approvazione per il nuovo ordine. Dopo che crebbe in numero il gruppo di seguaci senza beni materiali, sul suo esempio, la cui incredibile vita sarebbe degna di essere cantata dagli angeli del Paradiso, un seconda corona, una seconda approvazione, fu data dallo Spirito Santo, tramite papa Onorio III, al santo volere di questo pastore, all’ordine di San Francesco. E dopo che, per l’intenso desiderio di testimoniare, anche con il proprio sacrificio, la fedeltà a Gesù, in presenza del superbo Sultano d’Egitto predicò la dottrina di Cristo e dei suoi apostoli, trovando non ancora matura per la conversione quella gente, per non rimanere senza fare nulla, ritornò in Italia, dove la sua azione prometteva maggiori frutti, sulla cima rocciosa del monte Verna, tra la sorgente del Tevere e quella dell’Arno, e prese da Cristo le stigmate, l’ultimo sigillo al suo operato, che portò sul proprio corpo per due anni, fino alla morte. Quando a Dio, che lo aveva prescelto per compiere tanto bene, piacque di condurlo a sé per dargli la ricompensa che si era meritato vivendo, per vocazione, nella povertà, ai frati suoi seguaci, come legittimi eredi, raccomandò la sua più cara donna, la Povertà, e comandò loro di amarla fedelmente; e dal grembo di lei l’anima gloriosa di Francesco volle separarsi, per tornare al suo creatore, a Dio, e per il suo corpo non volle altro come sepoltura, se non il grembo di lei, posto nudo a terra. Pensa dunque ora a chi fu colui che fu prescelto come degno collega di San Francesco per mantenere la barca di Pietro, la Chiesa, sulla giusta rotta anche in alto mare, nelle grosse difficoltà; questo uomo fu il nostro patriarca, San Domenico, il fondatore del nostro ordine; perciò chi segue i suoi insegnamenti puoi ben capire quale ricco tesoro spirituale acquisisca. Ma il suo gregge è ormai diventato avido di un nuovo nutrimento, tanto che non può che disperdersi per diversi pascoli selvatici; e quanto più le sue pecorelle si allontanano per vagabondare lontano da lui, dai suoi insegnamenti, tanto più ritornano poi all’ovile prive di latte, di ricchezza di spirito. Ci sono anche frati che temono le conseguenze dell’allontanamento e si stringono quindi al pastore; ma sono così pochi che occorre poco panno per cucire i loro mantelli. Ora, se le mie parole non sono di difficile comprensione, se le hai ascoltate attentamente, se richiami alla mente ciò che ti ho detto, sarà stato in parte soddisfatto il tuo desiderio di sapere, perché vedrai come si stia guastando la pianta dell’ordine domenicano e capirai il significato della frase oscura “in cui si riceve un ricco nutrimento spirituale, se non ci si perde in cose futili”».

E’ il canto di San Francesco, qui nel cielo del Sole, dettato dalle parole di un altissimo rappresentante di un ordine diverso, a sottolineare ancora una volta come in questa cantica sia centrale il tema della carità. 

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Beato Angelico: San Domenico e San Francesco

Il canto inizia con una riflessione dantesca che se da una parte si richiama fortemente al verso di Persio O cura hominum! o quantum est in rebus inane non dimentica tuttavia il concetto ecclesiastico della vanitas vanitatum delle cose terrene, messa in relazione alla gioia delle danze e dei canti espressi dagli spiriti sapienti. Una volta tornate al punto del cerchio in cui erano, san Tommaso riprende il discorso dalla frase cui si era interrotto u’ ben s’impingua se non si vaneggia (dove ci si arricchisce se non si va dietro le case vane), per giungere al panegirico si San Francesco.

Per Dante non era semplice parlare del Santo d’Assisi: circolavano già leggende sulla sua vita (il suo parlare agli animali, il bacio al lebbroso) e Giotto aveva già affrescato la Basilica Superiore della sua città descrivendo gli aspetti più noti e favolistici della sua vita. Si trattava dunque di scegliere quale immagine e come inserirla all’interno di un discorso più ampio sul ruolo della Chiesa in quel preciso momento storico. 

Per questo Dante sceglie, foss’anche in modo polemico con la Chiesa (da Bonifacio VIII a Celestino V) il tema della povertà e lo fa scegliendo la via della metafora: egli infatti come un cavaliere cortese, contro la volontà paterna, innamoratosi di madonna povertà, si unisce a lei, rinunciando a tutto e si mette al suo servizio. Quindi, mostrando ad ognuno la loro saldezza, riescono ad unire intorno a sé un gran numero di seguaci. E’ curioso il termine con cui Dante si riferisce parlando della richiesta ad Innocenzo III per l’approvazione del suo ordine: regalmente contrariamente alle fonti che parlano di umiltà humiliter. Non dimentichiamoci che egli viene descritto come cavaliere e pertanto l’avverbio tende a sottolineare la sua magnificenza e generosità. Quindi ci riferisce del suo viaggio in Medio Oriente (le fonti storiche contraddicono qui il poeta, affermando che Francesco venne accolto con onore e non con superbia), da dove ritornò non riuscendo a convertire quelle popolazioni; la creazione dell’ordine, le stigmate e la morte sulla nuda terra.

1280px-Nicodemo_ferrucci,_morte_di_san_francesco,_1620-24_ca._03.jpgNicodemo Ferrucci: La morte di Francesco

A ripercorrere il canto non troviamo il Francesco delle Laudes creaturarum, nessun verso che lo richiami, se non appunto il voler rientrare in contatto con la terra, quasi a significare quel contatto con la natura che ha sempre caratterizzato la vita e l’opera del santo.

CANTO XII
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

canto-xii

Gustave Doré: XII canto

Sì tosto come l’ultima parola
la benedetta fiamma per dir tolse,
a rotar cominciò la santa mola;
e nel suo giro tutta non si volse
prima ch’un’altra di cerchio la chiuse,
e moto a moto e canto a canto colse;
canto che tanto vince nostre muse,
nostre serene in quelle dolci tube,
quanto primo splendor quel ch’e’ refuse.
Come si volgon per tenera nube
due archi paralelli e concolori,
quando Iunone a sua ancella iube,
nascendo di quel d’entro quel di fori,
a guisa del parlar di quella vaga
ch’amor consunse come sol vapori,
e fanno qui la gente esser presaga,
per lo patto che Dio con Noè puose,
del mondo che già mai più non s’allaga:
così di quelle sempiterne rose
volgiensi circa noi le due ghirlande,
e sì l’estrema a l’intima rispuose.
Poi che ’l tripudio e l’altra festa grande,
sì del cantare e sì del fiammeggiarsi
luce con luce gaudïose e blande,
insieme a punto e a voler quetarsi,
pur come li occhi ch’al piacer che i move
conviene insieme chiudere e levarsi;
del cor de l’una de le luci nove
si mosse voce, che l’ago a la stella
parer mi fece in volgermi al suo dove;
e cominciò: «L’amor che mi fa bella
mi tragge a ragionar de l’altro duca
per cui del mio sì ben ci si favella.
Degno è che, dov’ è l’un, l’altro s’induca:
sì che, com’ elli ad una militaro,
così la gloria loro insieme luca.
L’essercito di Cristo, che sì caro
costò a rïarmar, dietro a la ’nsegna
si movea tardo, sospeccioso e raro,
quando lo ’mperador che sempre regna
provide a la milizia, ch’era in forse,
per sola grazia, non per esser degna;
e, come è detto, a sua sposa soccorse
con due campioni, al cui fare, al cui dire
lo popol disvïato si raccorse.
In quella parte ove surge ad aprire
Zefiro dolce le novelle fronde
di che si vede Europa rivestire,
non molto lungi al percuoter de l’onde
dietro a le quali, per la lunga foga,
lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde,
siede la fortunata Calaroga
sotto la protezion del grande scudo
in che soggiace il leone e soggioga:
dentro vi nacque l’amoroso drudo
de la fede cristiana, il santo atleta
benigno a’ suoi e a’ nemici crudo;
e come fu creata, fu repleta
sì la sua mente di viva vertute,
che, ne la madre, lei fece profeta.
Poi che le sponsalizie fuor compiute
al sacro fonte intra lui e la Fede,
u’ si dotar di mutüa salute,
la donna che per lui l’assenso diede,
vide nel sonno il mirabile frutto
ch’uscir dovea di lui e de le rede;
e perché fosse qual era in costrutto,
quinci si mosse spirito a nomarlo
del possessivo di cui era tutto.
Domenico fu detto; e io ne parlo
sì come de l’agricola che Cristo
elesse a l’orto suo per aiutarlo.
Ben parve messo e famigliar di Cristo:
ché ’l primo amor che ’n lui fu manifesto,
fu al primo consiglio che diè Cristo.
Spesse fïate fu tacito e desto
trovato in terra da la sua nutrice,
come dicesse: ’Io son venuto a questo’.
Oh padre suo veramente Felice!
oh madre sua veramente Giovanna,
se, interpretata, val come si dice!
Non per lo mondo, per cui mo s’affanna
di retro ad Ostïense e a Taddeo,
ma per amor de la verace manna
in picciol tempo gran dottor si feo;
tal che si mise a circüir la vigna
che tosto imbianca, se ’l vignaio è reo.
E a la sedia che fu già benigna
più a’ poveri giusti, non per lei,
ma per colui che siede, che traligna,
non dispensare o due o tre per sei,
non la fortuna di prima vacante,
non decimas, quae sunt pauperum Dei,
addimandò, ma contro al mondo errante
licenza di combatter per lo seme
del qual ti fascian ventiquattro piante.
Poi, con dottrina e con volere insieme,
con l’officio appostolico si mosse
quasi torrente ch’alta vena preme;
e ne li sterpi eretici percosse
l’impeto suo, più vivamente quivi
dove le resistenze eran più grosse.
Di lui si fecer poi diversi rivi
onde l’orto catolico si riga,
sì che i suoi arbuscelli stan più vivi.
Se tal fu l’una rota de la biga
in che la Santa Chiesa si difese
e vinse in campo la sua civil briga,
ben ti dovrebbe assai esser palese
l’eccellenza de l’altra, di cui Tomma
dinanzi al mio venir fu sì cortese.
Ma l’orbita che fé la parte somma
di sua circunferenza, è derelitta,
sì ch’è la muffa dov’ era la gromma.
La sua famiglia, che si mosse dritta
coi piedi a le sue orme, è tanto volta,
che quel dinanzi a quel di retro gitta;
e tosto si vedrà de la ricolta
de la mala coltura, quando il loglio
si lagnerà che l’arca li sia tolta.
Ben dico, chi cercasse a foglio a foglio
nostro volume, ancor troveria carta
u’ leggerebbe “I’ mi son quel ch’i’ soglio”;
ma non fia da Casal né d’Acquasparta,
là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.
Io son la vita di Bonaventura
da Bagnoregio
, che ne’ grandi offici

sempre pospuosi la sinistra cura.
Illuminato e Augustin son quici,
che fuor de’ primi scalzi poverelli
che nel capestro a Dio si fero amici.
Ugo da San Vittore è qui con elli,
e Pietro Mangiadore e Pietro Spano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
Natàn profeta e ’l metropolitano
Crisostomo e Anselmo e quel Donato
ch’a la prim’ arte degnò porre mano.
Rabano è qui, e lucemi dallato
il calavrese abate Giovacchino
di spirito profetico dotato.
Ad inveggiar cotanto paladino
mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino;
e mosse meco questa compagnia».

unnamedSan Domenico

Non appena la fiamma benedetta di San Tommaso ebbe pronunciato l’ultima parola, il cerchio delle anime sante ricominciò a ruotare; nella sua danza non finì il primo giro che fu subito circondato da un altro cerchio di anime, e le si accordò sia nel movimento che nel canto; canto così superiore alla nostra poesia e alle sirene in quei dolci strumenti,  quanto la luce diretta rispetto a quella riflessa. Come si incurvano nel cielo attraverso una nuvola trasparente due arcobaleni concentrici e dello stesso colore, quando Giunone ordina alla sua messaggera Iride, e l’arco esterno nasce da quello interno, come la voce dell’errabonda ninfa Eco che per amore si consumò come fa il sole con la nebbia, e rendono la gente della Terra certa che la terra non verrà mai più allagata, grazie al patto che Dio fece con Noè; e così quei eterni cerchi giravano intorno a noi, e così quella più esterna si adeguò a quella interna. Dopo che la danza ed il grande ardore del canto, svolti all’unisono e con un rispondersi a vicenda nello splendore tra quelli luci beate e caritatevoli, si arrestarono nello stesso momento e con volontà unanime, come solo gli occhi, reagendo allo stimolo che li stimola, riescono a chiudersi e ad aprirsi insieme; dall’interno di una delle luci appena arrivate uscì una voce, che mi fece somigliare all’ago della bussola, nel mio voltarmi verso di lei; e cominciò: «La carità, che mi fa risplendere di bellezza, mi induce a parlarti del fondatore dell’altro ordine (S. Domenico), che ha spinto altri a tessere le lodi del fondatore del mio di ordine (San Francesco). E’ giusto che dove si parli di uno si ricordi anche l’altro: in modo che, così come essi combatterono per lo stesso fine, così risplenda insieme la loro gloria. L’esercito dei cristiani, che fu rifondata ad un così caro prezzo, seguiva lenta, dubbiosa e scarsa l’insegna della Santa Chiesa quando Dio, imperatore eterno, venne in soccorso ai suoi soldati, che erano incerti del futuro, non perché degni, ma spinto solo dalla sua carità; e, come è già stato detto, venne in soccorso alla Chiesa con due grandi combattenti, intorno alle cui opere e parole si raccolse la cristianità smarrita. In quella parte del terra, dove il dolce vento di Zefiro si leva a far germogliare le verdi foglie con cui si riveste l’Europa, non molto lontano dalle coste del mare, dietro le quali, dopo il suo lungo corso estivo, il sole tramonta per tutti gli uomini, si trova la fortunata città di Calaruega, protetta dalla gloriosa insegna nella quale appaiono due leoni uno in alto e uno in basso: in quella città vi nacque l’appassionato amante della fede cristiana, il santo atleta benevolo verso i suoi simili e spietato verso i nemici della fede; e non appena creata, la sua anima fu riempita di virtù tale da rendere, quando ancora era nel suo ventre, sua madre profeta. Dopo che furono celebrate le nozze con la Fede alla fonte battesimale, dove si scambiarono reciproca salvezza, la sua madrina, che diede il consenso per lui al battesimo, vide in sogno il mirabile risultato che avrebbe dovuto compiersi attraverso lui ed i suoi eredi; e poiché diventasse ciò che era stato concepito da Dio per lui, si mosse lo Spirito a chiamarlo con l’aggettivo  il suo nome potesse esprimere la sua natura, dal cielo discese l’ispirazione di chiamarlo con l’aggettivo possessivo a cui egli apparteneva nella sua interezza (anima e corpo). Fu chiamato Domenico; ed io ne parlo come dell’agricoltore che Cristo scelse per aiutarlo a coltivare il suo orto. Giustamente apparve inviato e servo di Cristo, tanto che il suo primo desiderio che egli manifestò fu il primo consiglio che gli diede Cristo (umiltà e povertà).  Spesse volte fu trovato giacere silenzioso e sveglio a terra dalla sua balia, come se dicesse: “Io sono venuto al mondo per questo.” Davvero fu Felice suo padre (nel possedere tale nome)! Oh veramente una Giovanna sua madre, se davvero si interpreta il significato del suo nome come “Grazia di Dio”! Non per onori terreni , per cui oggi ci si affanna a studiare diritto ecclesiastico di Enrico di Susa, detto l’Ostiense, e Taddeo d’Alderotto, famoso medico, ma solo per amore del cibo spirituale Domenico diventò in poco tempo un gran teologo; tanto che iniziò subito a vegliare, girandogli intorno, sulla vigna di Dio (la Chiesa), che presto si secca se il vignaiolo è cattivo. Ed alla Santa Sede, che in passato fu più generosa verso i poveri onesti, non per colpa sua ma per colpa di colui che la occupa e che tradisce il suo compito, domandò non le rendite della prima curia libera, non le decime, che sono dei poveri di Dio, ma chiese invece soltanto il permesso di combattere per quella fede da cui nacquero le ventiquattro anime che ora ti circondano. Poi, con sapienza religiosa ed insieme con zelo, con il mandato del Papa iniziò la sua opera come un torrente sospinto da una corrente di cascata; e contro l’erbaccia dell’eresia scagliò il proprio impeto, più violentemente laddove trovava una maggiore resistenza. Da lui si staccarono poi diversi fiumi, che arano il campo della Chiesa, in modo che le sue tenere piante siano più resistenti. Se dunque tale fu una delle due ruote della biga (san Domenico) con cui la Santa Chiesa si difese e vinse in battaglia la sua guerra civile contro gli eretici, dovresti ben comprendere l’eccellenza dell’altra ruota (San Francesco), di cui S. Tommaso ti ha parlato con tanta cortesia. Ma la strada tracciata dalla parte esterna sua ruota è abbandonata, cosicché c’è ora la muffa là dove prima c’era il tartaro. I suoi seguaci di S. Francesco, hanno talmente cambiato direzione, da camminare in senso contrario, e presto ci si accorgerà della cattiva coltivazione del raccolto, quando l’erbaccia si lamenterà  di non poter entrare nel granaio (quando lo sviamento dei Frati non permetterà loro di entrare in Paradiso). Credo che chi cercasse tra i francescani, foglio per foglio, come in un libro, potrebbe ancora trovare qualche pagina su cui poter leggere “Io sono umile come ero solito essere”; ma non saranno certamente i francescani seguaci di Ubertino da Casale né di Matteo d’Acquasparta, da dove proviene chi la Regola la elude e chi la irrigidisce. Io sono l’anima di Bonaventura da Bagnoregio, e rispetto alle grandi cariche ecclesiastiche che rivestii, misi sempre in secondo piano la cura dei beni terreni. Ci sono qui anche Illuminato e Agostino, che furono i primi poverelli scalzi, ad essere benvoluti da Dio per il rispetto della Regola. Qui con loro ci sono anche Ugo di San Vittore, Pietro Mangiatore e Pietro Ispano, la cui fama risplende ancora nei dodici libri delle Summulae logicales; il profeta Natan ed il vescovo di Costantinopoli Giovanni Crisostomo, Anselmo d’Aosta e quel Donato che si occupò della prima delle arti liberali, la grammatica. C’è qui Rabano Mauro, e risplende al mio fianco l’abate calabrese Gioacchino da Fiore, dotato di spirito profetico. Ad elogiare un così grande paladino della fede mi spinse l’ardente cortesia di San Tommaso ed il suo sapiente discorso; che seppe accendere di gioia anche queste anime che sono in mia compagnia».

maxresdefaultFrancesco e Domenico

Questo canto, insieme all’XI, dà vita ad una vero e proprio dittico, in quanto risulta evidente come Dante li abbia concepiti specularmente a partire dalla definizione di entrambi, come due pilastri voluti da Dio, per difendere la Chiesa.

La complementarietà dei due canti si può così riassumere:

  1. Panegirico rispettivamente di Francesco nell’XI e San Domenico nel XII: parallelamente, ma incrociata, la polemica degli ordini di cui loro sono i fondatori;
  2. Sono costruiti a chiasmo: San Tommaso, domenicano, tesse le lodi di Francesco, San Bonaventura, francescano, tesse le lodi di Domenico
  3. Le biografie e la polemica sono parallele: premessa nella prima parte del canto, biografie e loro azioni nella parte centrale, invettiva per la degenerazione per l’ordine di chi parla ultima parte;
  4. Il compito dei due santi parallelo: combattere la corruzione e l’eresia;
  5. I due matrimoni: Francesco con la povertà, Domenico con la Fede.

Beato Angelico San Domenico adora il crocefissoSan Domenico

Certo la biografia di Domenico presenta meno curiosità di quelle di Francesco, per cui una maggiore insistenza sul significato della nascita; anche il linguaggio usa un repertorio lessicale diverso, nel primo prevale il concetto di cortesia, d’amore, dove la Povertà assume le caratteristiche di una donna fedele; nel secondo il registro è maggiormente militaresco, a sottolineare la battaglia che Domenico deve compiere per liberare la Chiesa dal peccato.

CANTO XIII
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti)

San-Tommaso-dAquino-1San Tommaso

Il canto XIII è una dei maggiormente dottrinali del Paradiso dantesco, che ha diviso la critica definendolo da parte di alcuni “come il più povero” (Momigliano) altri come “dei più appassionati e appassionanti” (Toffanin). Questo alla luce di una lunghissima introduzione astronomica (tutta infarcita di sapienza medievale), in cui si parte dalle ventiquattro stelle, scisse in due nuove costellazioni, quindi esse si trasformano a formare due figure geometriche in movimento, come cerchi rotanti in senso contrario, che evocano  la trinità e l’incarnazione. Il loro armonioso canto cessa con sincronia insieme alla danza che lo accompagnava. La parte centrale è occupata da san Tommaso, che spiega a Dante la frase, apparsa nel X canto in cui parlando della stella in cui rifulge l’anima di Salomone, afferma che entro v’è l’alta mente u’ si profondo / saver fu messo, che, se ‘l vero è vero, / a veder tanto non surse il secondo. Infatti come può l’anima di Salomone essere la più sapiente del mondo? Tale qualità non spetta infatti al primo uomo, prima di essere cacciato dal Paradiso Terrestre? o meglio ancora a Gesù in qualità di uomo? La risposta riguarda una “sapienza relativa”: certamente Salomone non è il più sapiente di tutti gli uomini, lo è di tutti i re. Ciò porta Tommaso ad ammonire l’uomo riguardo la comprensione delle cose divine, che dovrebbero mostrare maggiore prudenza e a non incorrere negli errori della filosofia antica o degli eretici moderni le cui conclusioni sembrano non avere alcuna differenza con i chiacchiericci popolari.

CANTO XIV
(Cielo IV – Sole – Spiriti sapienti

Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

E’ un canto di passaggio in cui Dante attraversa il cielo del Sole dove ha parlato con gli spiriti sapienti di Domenico e Tommaso e il cielo di Marte dove gli appariranno gli spiriti combattenti per la fede in cui incontrerà Cacciaguida, figura centrale dell’intero percorso paradisiaco dantesco. Prima di questa parte importantissima, ultimo tra i sapienti, Dante vedrà l’anima di Salomone, evocato alla fine del canto precedente, re biblico di leggendaria sapienza, che risolverà un dubbio dantesco, rivoltogli con voce soave da Beatrice: dopo la resurrezione dei corpi le anime beate conserveranno la luminosità paradisiaca eternamente? Se ciò avvenisse come potranno i corpi sostenere una tale intensità di luce e come potrà la vista sostenere un così forte bagliore? 

E’ evidente che qui Dante sposi la teoria classica della resurrezione in cui i corpi, il giorno del giudizio universale, materialmente si riuniranno alle anime conservando intatte le caratteristiche fisiche, sebbene perfezionate al massimo grado. Saranno pertanto corpi veri, riconoscibili, ma irradianti luce divina. La gioia delle anime a questo annuncio, denota una carica di umanità che trascende il dato puramente teologico: la certezza di ridiventare “individui riconoscibili”, offre un nuovo modo con cui i credenti possono pensare ai loro cari nell’aldilà, dando maggiore forza e maggiore letizia immaginandoli nel loro essere a fianco a Dio.

Si giunge quindi alla seconda parte del canto, l’ascesa al cielo di Marte: essa inizia nel cielo del Sole, quando le anime dei sapienti si dispongono in cerchio emanando un così forte splendore che Dante deve chinare il viso; riacquistata la forza di risollevare lo sguardo, attraverso lo sguardo di Beatrice, si rende conto di ascendere al cielo rosseggiante di Marte, in cui vede le anime luminose muoversi lungo i bracci di una croce, sulla quale lampeggia per un attimo la passione di Cristo, che provoca un canto di lode da parte di tutti i beati. 

CANTO XV
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

All’improvviso il santo coro si tace, per permettere a Dante di poter dialogare con le anime beate. Un’anima si stacca, percorrendo un braccio della croce, pronunciando:

O sanguis meus, o superinfusa
gratïa Dei, sibï tibi cui
bis unquam celi ianüa reclusa

attirando l’attenzione del poeta. Dapprima parla in modo per cui lo stesso Dante non riesce a comprenderlo, cioè in un linguaggio che trascende la capacità umana, quindi, torna ad un eloquio comprensibile:

(…)
la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno, 
che nel mio seme se’ tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume 
du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume 
in ch’io ti parlo, mercè di colei 
ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei 
da quel ch’è primo, così come raia 
da l’un, se si conosce, il cinque e ‘l sei;
e però ch’io mi sia e perch’io paia
più gaudioso a te, non mi domandi, 
che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi ‘l vero; ché i minori e ‘ grandi 
di questa vita miran ne lo speglio 
in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché ‘l sacro amore in che io veglio
con perpetua vista e che m’asseta 
di dolce disiar, s’adempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta 
suoni la volontà, suoni ‘l disio, 
a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio 
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno 
che fece crescer l’ali al voler mio.
Poi cominciai così: «L’affetto e ‘l senno,
come la prima equalità v’apparse, 
d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ‘l sol che v’allumò e arse, 
col caldo e con la luce è sì iguali, 
che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali, 
per la cagion ch’a voi è manifesta, 
diversamente son pennuti in ali;
ond’io, che son mortal, mi sento in questa 
disagguaglianza, e però non ringrazio 
se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia preziosa ingemmi, 
perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi 
pur aspettando, io fui la tua radice»: 
cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’anni e piùe 
girato ha ‘l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue: 
ben si convien che la lunga fatica 
tu li raccorci con l’opere tue.

Quindi l’anima racconta la bellezza e l’alta moralità della Firenze ai tempi del bisnonno di Dante, quando non si conosceva ancora l’arroganza del potere mostrata attraverso il lusso ed i costumi erano morigerati. Ne furono testimonianza i nobili del tempo e le loro donne con abiti semplici e con gesti legati all’amore familiare.

A così riposato, a così bello 
viver di cittadini, a così fida 
cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo 
insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo; 
mia donna venne a me di val di Pado, 
e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo ‘mperador Currado; 
ed el mi cinse de la sua milizia, 
tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia 
di quella legge il cui popolo usurpa, 
per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu’ io da quella gente turpa 
disviluppato dal mondo fallace, 
lo cui amor molt’anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».

O sangue mio, o sovrabbondante grazia di Dio, a chi mai come a te la porta de cielo è stata dischiusa due volte?

(…) la prima cosa che compresi fu quando disse: «Benedetto sia tu, o Dio uno e trino, che sei tanto cortese verso il mio discendente!» Poi continuò: «Tu, o figlio, hai finalmente esaudito in questa luce in cui io ti parlo il gradito e lontano desiderio che avevo tratto leggendo dal gran volume (la mente divina) dove ogni cosa è immutabile, grazie a colei (Beatrice) che ti ha dato le ali per questo alto volo. Tu credi che il tuo pensiero venga a me da quello divino, così come dall’uno, se lo si conosce, derivano il cinque e il sei; e dunque non mi chiedi chi sono e perché sembri più felice per la tua presenza, rispetto a chiunque altro in questa beata schiera. Tu pensi il vero; infatti le anime più e meno beate del Paradiso osservano nella mente divina, come in uno specchio, nella quale, prima ancora che tu pensi, si riflette il tuo pensiero; tuttavia, affinché l’ardore di carità che io provo sempre grazie alla continua contemplazione di Dio e che mi accende di dolce desiderio si adempia perfettamente, la tua voce sicura, senza incertezze e lieta esprima la tua volontà, faccia risuonare il desiderio al quale la mia risposta è stata già decretata!» Io mi rivolsi a Beatrice e lei capì prima che parlassi, e mi sorrise con un cenno che fece crescere le ali al mio desiderio. Poi cominciai a dire: «Il sentimento e l’intelletto, non appena Dio vi apparse, si fecero per voi dello stesso peso, poiché il sole (Dio) che vi illuminò e scaldò è uguale nel suo sapere e nel suo amore, al punto che ogni altra uguaglianza è imperfetta. Ma sentimento e intelletto nei mortali hanno mezzi ben diversi, per la ragione che vi è nota; perciò io, che sono mortale, mi sento in questa insufficienza, dunque ringrazio solo col cuore per la festosa accoglienza. Ora ti supplico, splendente topazio che sei incastonato questo prezioso gioiello (la croce), di rivelarmi il tuo nome». Egli iniziò così a rispondermi: «O mio discendente, in cui mi sono compiaciuto anche solo aspettando, io fui il capostipite della tua famiglia». Poi proseguì: «Colui dal quale deriva il tuo cognome e che gira da più di cent’anni nella I Cornice del Purgatorio, fu mio figlio e il tuo bisnonno: è opportuno che tu abbrevi la sua lunga fatica con le tue preghiere. (…)  In una convivenza così pacifica e bella, in una comunità così unita di cittadini, in una così bella dimora mi fece nascere mia madre, invocando Maria nelle grida del parto; e nel vostro antico Battistero di S. Giovanni fui battezzato col nome di Cacciaguida. Miei fratelli furono Moronto ed Eliseo; mia moglie venne dalla Valpadana, e da lei ebbe origine il tuo cognome, Alighieri. Poi seguii l’imperatore Corrado III; ed egli mi fece cavaliere, a tal punto gli piacqui con il mio retto operare. Lo seguii in Terrasanta, contro la malvagità di quella religione (l’Islam) il cui popolo usurpa quei luoghi, a causa della trascuratezza dei pontefici. Lì quella gente maledetta mi strappò dal mondo fallace (mi uccise), il cui amore svia molte anime; e venni da quel martirio direttamente a questa pace».
 
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Giovanni Di Paolo: Canto XV

E’ questo il primo di una triade di canti dedicati all’antenato di Dante Cacciaguida. L’importanza di questa figura all’interno del percorso itinerale dantesco è dapprima strutturale, in quanto tale triade è posta al centro del Paradiso, quindi in essa convergono e si completano alcuni interrogativi del poeta sul compito e sul futuro che l’attende. Non è un caso che Dante abbia voluto riferirsi ad un antenato che era morto per la fede e non al padre oscuro mercante. Il compito di Cacciaguida di combattere e vincere, pur vinto, contro l’infedele diventa quindi exemplum del compito del poeta che deve combattere per riportare Firenze e i suoi concittadini alla moralità di un tempo, vero specchio di un retto modus vivendi che porta alla beatitudine. 

Tutto questo avviene nella narrazione attraverso tre fasi:

  • l’apostrofe latina che sottolinea l’estrema letizia con cui Cacciaguida accoglie un suo discendente cui Dio ha concesso la somma grazia di percorrere da vivo i suoi regni;
  • la descrizione della Fiorenza dentro la cerchia antica che fa da contrasto alla boria dei costumi attuali, resa ancora più incisiva dalla nostalgia della sua patria perduta per via dell’esilio;
  • lo svelamento del nome e in poche parole il suo martirio, martirio che acquista per l’eternità la pace dei beati.

CANTO XVI
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

E’ questo il secondo momento dedicato a Cacciaguida, che lo ha lasciato ricordando, quasi gloriandosi, il suo martirio. Ciò permette a Dante di riflettere  sulla nobiltà di sangue, di cui non ci deve vergognare in terra se è motivo di orgoglio in cielo, ma nel contempo non dev’essere fondata sull’eredità del nome, se non si fortifica con opere degne, come quella di Cacciaguida morto per la fede.

Quindi il nostro domanda come era Firenze ai tempi della sua gioventù: 

dissemi: «Da quel dì che fu detto ’Ave’
al parto in che mia madre, ch’è or santa,
s’allevïò di me ond’ era grave,
al suo Leon cinquecento cinquanta
e trenta fiate venne questo foco
a rinfiammarsi sotto la sua pianta.
Li antichi miei e io nacqui nel loco
dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annüal gioco.
Basti d’i miei maggiori udirne questo:
chi ei si fosser e onde venner quivi,
più è tacer che ragionare onesto.
Tutti color ch’a quel tempo eran ivi
da poter arme tra Marte e ’l Batista,
eran il quinto di quei ch’or son vivi.
Ma la cittadinanza, ch’è or mista
di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.
Oh quanto fora meglio esser vicine
quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,
che averle dentro e sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
Se la gente ch’al mondo più traligna
non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,
tal fatto è fiorentino e cambia e merca,
che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;
sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,
e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
Sempre la confusion de le persone
principio fu del mal de la cittade
,

come del vostro il cibo che s’appone;
e cieco toro più avaccio cade
che cieco agnello; e molte volte taglia
più e meglio una che le cinque spade.
Se tu riguardi Luni e Orbisaglia
come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,
udir come le schiatte si disfanno
non ti parrà nova cosa né forte,
poscia che le cittadi termine hanno.
Le vostre cose tutte hanno lor morte,
sì come voi; ma celasi in alcuna
che dura molto, e le vite son corte.
E come ‘l volger del ciel de la luna
cuopre e discuopre i liti sanza posa,
così fa di Fiorenza la Fortuna:
per che non dee parer mirabil cosa
ciò ch’io dirò de li alti Fiorentini
onde è la fama nel tempo nascosa.

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Dante e Beatrice con l’anima di Cacciaguida

mi disse: “Dal giorno dell’Annunciazione, in cui l’arcangelo Gabriele disse “Ave”, al giorno in cui mia madre, ora tra i beati in Paradiso, mi partorì, sotto il segno del Leone per ben cinquecentottanta volte ritornò il pianeta Marte a risplendere (passarono 1091 anni). I miei antenati ed io stesso nascemmo nel luogo di Firenze in cui si trova l’ultimo sestiere di quelli che corrono il vostro palio annuale di San Giovanni. Dei miei antenati ti basti sapere questo: chi essi fossero e da dove giunsero poi a Firenze, è più opportuno tacerlo. A quel tempo, tutti quelli che a Firenze, tra la statua di Marte sul Ponte Vecchio ed il Battistero, era buoni per le armi, erano complessivamente solo un quinto di quelli di adesso. Ma la cittadinanza, che ora è mischiata con genti di Campi Bisenzio, di Certaldo e di Figline Valdarno, allora l’avresti potuta vedere pura fino al più umile artigiano. Oh quanto sarebbe meglio poter avere solo come vicini quelle genti che ho appena nominato, ed avere i confini della città in corrispondenza delle borgate Trespiano e Galluzzo, piuttosto che averle dentro le mura e dover sopportare la puzza di quel campagnolo di Aguglione, o di quella di Signa, che ha l’occhio pronto quando c’è da ingannare! Se la gente, i papi ed i vescovi, che più si allontanano dalla via assegnata loro, non si fossero comportati come una matrigna nei confronti dell’imperatore, ma piuttosto come una madre amorevole nei confronti del proprio figlio, non sarebbero diventati fiorentini, esercitando il cambio ed il commercio, ed avrebbero continuato a vivere nel contado di Semifonte, dove i loro antenati erano mercanti itineranti; Montemurlo sarebbe ancora in mano ai Conti; i Cerchi vivrebbero ancora nel gruppo di parrocchie di Acone in val di Sieve, e forse i Buondelmonti in val di Greve. La mescolanza di stirpi diverse è sempre stata l’origine del male della città, che il cibo che va a sovrapporsi nello stomaco a quello non ancora digerito; ed un toro cieco cade prima di un agnello cieco; e molte volte taglia di più e meglio una spada sola che cinque spade. Se consideri come le città di Luni e Urbisaglia sono poi andate a finire, e come le stanno seguendo nella sorte Chiusi e Senigallia, il sentire come le stirpi si estinguano tanto facilmente non ti sembrerà cosa né strana né difficile, dal momento che anche le città hanno una loro fine. Tutte le cose umane sono destinate a morire, così come voi uomini; solo che in alcune la morte non si vede, perché durano molto, mentre le vostre vite sono brevi. E come il corso della luna determina il flusso delle maree, abbassando e diminuendo continuamente il livello sulle coste, così fa la Fortuna con Firenze: non ti deve perciò sembrare incredibile ciò che ti dirò riguardo agli illustri fiorentini, la cui fama è stata cancellata dal tempo.

Potremmo quasi commentare come questo discorso faccia da pendant a quello già iniziato nel quindicesimo, in cui si raccontava la bellezza e l’onesta della Firenze antica. Qui egli precisa: lui è nato nel 1091 al tempo in cui Firenze si limitava tra la statua di Marte sul ponte Vecchio e il Battistero, corrispondente al cuore della città vecchia. Quindi, a confortare il suo discorso, parla  del declino derivato dall’inurbamento di “genti del contado”. Ad una lettura superficiale potrebbe sembrare che qui Cacciaguida, e Dante con lui, ricerchi quasi una purezza etnica del popolo fiorentino, ma a leggere bene, attentamente il testo “possiamo dire che Dante non cade nella generalizzazione che invece è caratteristica di ogni politica d’esclusione; senza voler sottovalutare il suo senso di disgusto per l’imbastardimento del popolo fiorentino, è sintomatico però che, come sempre, egli additi responsabilità individuali precise, delitti e crimini civili dei singoli. Semmai, il fenomeno più generale che il discorso di Cacciaguida deplora (e questo sì, di grande peso ideologico e storico) è l’inurbamento come conseguenza del disfarsi dell’antica rete di castelli signorili in Toscana, specie dopo la disfatta imperiale di Benevento. E’ un fenomeno già presente nell’invettiva-compianto all’Italia del canto VI del Purgatorio e qui torma distintamente riconoscibile. Ancora una volta la responsabilità è attribuita alla Chiesa, noverca, cioè matrigna invece che madre amorosa, nei confronti del potere imperiale, da lei caparbiamente osteggiato” (Bruscagli-Giudizi)

CANTO XVII
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)

Qual venne a Climenè, per accertarsi
di ciò ch’avëa incontro a sé udito,
quei ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io, e tal era sentito
e da Beatrice e da la santa lampa
che pria per me avea mutato sito.
Per che mia donna «Manda fuor la vampa
del tuo disio», mi disse, «sì ch’ella esca
segnata bene de la interna stampa:
non perché nostra conoscenza cresca
per tuo parlare, ma perché t’ausi
a dir la sete, sì che l’uom ti mesca».
«O cara piota mia che sì t’insusi,
che, come veggion le terrene menti
non capere in trïangol due ottusi,
così vedi
 le cose contingenti
anzi che sieno in sé, mirando il punto
a cui tutti li tempi son presenti;
mentre ch’io era a Virgilio congiunto
su per lo monte che l’anime cura
e discendendo nel mondo defunto,
dette mi fuor di mia vita futura
parole gravi, avvegna ch’io mi senta
ben tetragono ai colpi di ventura;
per che la voglia mia saria contenta
d’intender qual fortuna mi s’appressa:
ché saetta previsa vien più lenta».
Così diss’ io a quella luce stessa
che pria m’avea parlato; e come volle
Beatrice, fu la mia voglia confessa.
Né per ambage, in che la gente folle
già s’inviscava pria che fosse anciso
l’Agnel di Dio che le peccata tolle,
ma per chiare parole e con preciso
latin rispuose quello amor paterno,
chiuso e parvente del suo proprio riso:
«La contingenza, che fuor del quaderno
de la vostra matera non si stende,
tutta è dipinta nel cospetto etterno;
necessità però quindi non prende
se non come dal viso in che si specchia
nave che per torrente giù discende.
Da indi, sì come viene ad orecchia
dolce armonia da organo, mi viene
a vista il tempo che ti s’apparecchia.
Qual si partio Ipolito d’Atene
per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca.
La colpa seguirà la parte offensa
in grido, come suol; ma la vendetta
fia testimonio al ver che la dispensa.
Tu lascerai ogne cosa diletta
più caramente; e questo è quello strale
che l’arco de lo essilio pria saetta.
Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale.

E quel che più ti graverà le spalle,
sarà la compagnia malvagia e scempia
con la qual tu cadrai in questa valle;
che tutta ingrata, tutta matta ed empia
si farà contr’ a te; ma, poco appresso,
ella, non tu, n’avrà rossa la tempia.
Di sua bestialitate il suo processo
farà la prova; sì ch’a te fia bello
averti fatta parte per te stesso.
Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello
sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;
ch’in te avrà sì benigno riguardo,
che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.
Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,
nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
Non se ne son le genti ancora accorte
per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;
ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,
parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.
Le sue magnificenze conosciute
saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.
A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;
e portera’ne scritto ne la mente
di lui, e nol dirai»; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
Poi giunse: «Figlio, queste son le chiose
di quel che ti fu detto; ecco le ’nsidie
che dietro a pochi giri son nascose.
Non vo’ però ch’a’ tuoi vicini invidie,
poscia che s’infutura la tua vita
vie più là che ’l punir di lor perfidie».
Poi che, tacendo, si mostrò spedita
l’anima santa di metter la trama
in quella tela ch’io le porsi ordita,
io cominciai, come colui che brama,
dubitando, consiglio da persona
che vede e vuol dirittamente e ama:
«Ben veggio, padre mio, sì come sprona
lo tempo verso me, per colpo darmi
tal, ch’è più grave a chi più s’abbandona;
per che di provedenza è buon ch’io m’armi,
sì che, se loco m’è tolto più caro,
io non perdessi li altri per miei carmi.
Giù per lo mondo sanza fine amaro,
e per lo monte del cui bel cacume
li occhi de la mia donna mi levaro,
e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agrume;
e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico».
La luce in che rideva il mio tesoro
ch’io trovai lì, si fé prima corusca,
quale a raggio di sole specchio d’oro;
indi rispuose: «Coscïenza fusca
o de la propria o de l’altrui vergogna
pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna,
tutta tua visïon fa manifesta;
e lascia pur grattar dov’ è la rogna.
Ché se la voce tua sarà molesta
nel primo gusto, vital nodrimento
lascerà poi, quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come vento,
che le più alte cime più percuote;
e ciò non fa d’onor poco argomento.
Però ti son mostrate in queste rote,
nel monte e ne la valle dolorosa
pur l’anime che son di fama note,
che l’animo di quel ch’ode, non posa
né ferma fede per essempro ch’aia
la sua radice incognita e ascosa,
né per altro argomento che non paia».

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Con la stessa ansia con cui si rivolse a Cimene, per accertarsi di ciò che aveva sentito dire su di sè, (Fetonte), sul cui esempio ancora oggi i padri sono prudenti nell’acconsentire troppo facilmente ai desideri dei figli; allo stesso modo ero ansioso io, e si accorse del mio stato sia Beatrice che quell’anima santa di Cacciaguida che per parlare con me aveva lasciato il suo posto presso la croce luminosa. Disse pertanto la mia donna: «Manifesta il tuo ardente desiderio, così da esprimere l’intima richiesta: non perché per comprenderlo meglio abbiamo bisogno delle tue parole, ma perché così ti abitui ad esporre le tue richieste, in modo che vengano soddisfatte.» «O mia cara radice che ti elevi tanto in alto che, come gli uomini riescono a comprendere che due angoli ottusi non possono essere contenuti in un triangolo, con la stessa chiarezza tu puoi conoscere gli eventi prima che accadano guardando in Dio, il luogo in cui tutto il tempo è presente; durante la mia salita insieme a Virgilio sulla montagna del Purgatorio, dove le anime si purificano e scendendo quindi nel regno dei morti nel peccato, mi furono rivolte parole preoccupanti riguardo il mio futuro, per quanto io mi senta preparato alle disgrazie della fortuna;  per questo il mio desiderio sarebbe appagato se potessi conoscere quale è la sorte che mi attende: perché una freccia prevista colpisce più lentamente.» Dissi queste parole a quella anima luminosa che poco prima mi aveva parlato; e come volle Beatrice, confessai quindi apertamente il mio desiderio. Non con il linguaggio ambiguo degli oracoli, nel quale le menti pagane si invischiavano già prima che ci fosse il sacrificio dell’Agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo, ma con parole chiare ed con un discorso diretto mi rispose quel padre amorevole, avvolto e visibile nella propria gioia: «Tutte le cose contingenti, che sono proprie soltanto del vostro mondo materiale, sono presenti nella mente di Dio; ma non per questo assumono carattere di necessità,  così come non dipende dallo sguardo di chi la osserva, il movimento di una nave che scende lungo un torrente. Dalla mente di Dio, così come giunge ad un orecchio la dolce melodia emessa da un organo, allo stesso modo giungono alla mia vista gli avvenimenti che ti attendono. Come Ippolito fu costretto a fuggire da Atene a causa della spietata e malefica matrigna, allo stesso modo dovrai allontanarti da Firenze. Questo si vuole e questo si cerca già di attuare, e presto verrà fatto da chi trama dove si fa mercato della religione cristiana. L’offesa, come è solito, sarà addossata a gran voce ai vinti; ma la vendetta di Dio sarà testimonianza della verità che la dispensa. Tu dovrai abbandonare tutte le cose che ami di più; e questo è il primo dolore che l’esilio provoca. Proverai così quanto è amaro il pane altrui, e quanto è faticoso salire e scendere per scale che non sono tue. Quello che ti renderà però l’esilio più duro, sarà la compagnia malvagia e divisa dei Bianchi, con la quale tu condividerai questa miseria; poiché si mostrerà tutta ingrata, irragionevole e crudele nei tuoi confronti; ma, subito dopo, sarà quella compagnia, e non tu, a doversene vergognare. La loro follia sarà dimostrata dal loro comportamento; così che sarà onorevole per te esserti isolato da loro. Il tuo primo rifugio e la tua prima dimora sarà presso il generoso signore di Verona (Bartolomeo della Scala), che nello stemma porta raffigurata l’aquila imperiale; avrà verso di te un atteggiamento tanto benevolo, che tra il chiedere ed il fare, tra i voi due, avverrà per primo il suo fare. Quando sarai presso la sua corte incontrerai colui (Cangrande) che, nascendo, ricevette l’influsso di questo pianeta in maniera così decisa da rendere memorabili le sue imprese. Il popolo non si è ancora accorto di questa sua eccezionalità a causa della sua giovane età, poiché per solo nove anni hanno girato questi cieli intorno a lui (ha solo nove anni); ma prima che il papa Clemente V possa ingannare Arrigo VII, i primi segnali del suo valore si manifesteranno nel suo disprezzo verso il denaro e verso ogni fatica. Le sue eccellenti virtù saranno allora manifeste, così che neanche i suoi nemici potranno fare a meno di parlarne. Riponi la tua fiducia in lui e nei suoi suoi benefici; la condizione di molte persone cambierà grazie a lui, scambiando di posto i ricchi con i mendicanti; conserva nella tua mente ciò che ti dico di lui, ma non lo dirlo a nessuno»; e disse poi cose che appariranno incredibili anche a chi le vivrà in prima persona. Aggiunse poi: «Figliolo, questa è la spiegazione di quello che ti è stato detto da altri; queste sono le insidie che ti aspettano in agguato nel giro di pochi anni. Non voglio però che tu nutra rancore nei confronti dei tuoi concittadini, dal momento che la tua vita durerà abbastanza per vedere la punizione che li attende per le loro malvagità.» Dopo che quell’anima santa, ormai in silenzio, si mostrò libera dal compito di dare una spiegazione a quei miei dubbi che le avevo esposto, cominciai io a parlare come chi, nel dubbio, desidera un consiglio da una persona che conosce le cose e vuole il bene e ama: «Capisco, padre mio, come incalzi il tempo contro me, per darmi un tale colpo che è ancora più grave a chi si lascia abbattere dalla sua forza; per cui è bene che io mi armi di previdenza affinché, se perdo il luogo a me tanto caro, non perda anche gli altri per colpa della mia poesia. Giù per l’amara voragine infernale e il monte dalla cui cima mi sollevarono gli occhi della mia donna e quindi in Paradiso di pianeta in pianeta io ho conosciuto cose che se dovessi ridirle, a molti riusciranno di sapore molto aspro, se dovessi essere restio a dirle, ho paura di non sopravvivere tra coloro che chiameranno questo tempo antico». La luce in cui gioiva l’amato antenato che io trovai in quel cielo, si fece prima più luminosa, come un raggio di sole su una lamina dorata, quindi rispose: «Una coscienza offuscata da una vergognosa colpa propria o di congiunti, sentirà certamente la durezza della tua parola. Nonostante questa, eliminata ogni menzogna, rendi manifesta ciò hai visto, e lascia che si gratti chi ha la rogna. Perché ciò che tu dirai, se in un primo momento sarà molesto, in seguito diventerà cibo nutriente una volta digerito. Questo tuo grido accusatore sarà come il vento, che colpisce le cime più alte, e questo non è piccolo motivo d’onore. Per questo ti sono state mostrate in questi cieli, nel monte purgatoriale e nella valle infernale soltanto anime di persone famose, perché le persone che le ascoltano, non si sofferma né crede chi non sia conosciuto e viva nascosto, o di altro argomento che non appaia evidente.» 

E’ questo il canto dell’exsul immeritus e non è a caso che, terzo del lungo episodio dedicato a Cacciaguida, venga messo al centro dell’itinerario paradisiaco. Qui infatti convergono tutte le profezie che sin dall’inferno Ciacco, Farinata e Brunetto Latini; nel viaggio purgatoriale Corrado Malaspini e Oderisi da Gubbio le avevano annunciato. Le riunisce in un diretto ed accorato discorso l’antenato che in modo chiaro non solo designerà l’immeritata cacciata della città, ma gli predirà altresì l’accoglienza nella famiglia veronese dei Della Scala. Si può dire che il canto dell’auctor riveda la vita del Dante agens quasi a chiarirne e a rafforzarne le scelte politiche, come quella di isolarsi dal partito dei Bianchi, il cui tentativo di rientrare a Firenze dapprima condiviso e poi rifiutato, vuole sottolinearlo alla luce di un rigorismo morale cui i suoi presunti compagni sarebbero venuti meno mostrando la loro malvagità e divisione. Ma tale canto è diventato famoso per la celeberrima terzina Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale. Si guardi infatti all’uso verbale sia dell’episodio precedente che di questa terzina: a dominare è il futuro, un futuro che l’auctor ha già vissuto e sta vivendo ma che nella struttura paradisiaca dovrà ancora avvenire, dotando il canto di un continuo colloquio tra Dante che scrive (presente), ricorda gli episodi salienti della sua vita (passato), proiettandoli nella predizione di Cacciaguida (futuro).

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Il canto è inoltre importante per il discorso che Dante fa sulla poesia: essa è tale se veritiera, se non nasconde e palesa la realtà, se mostra rigidità di giudizio quando si ha convinzione del  giusto: solo questo permette quella  gloria che nel I canto egli avoca a sé grazie al suo poema. Ma ancora più importante è l’idea che la sua poesia possa durare oltre la sua vita, dando vita, nella letteratura italiana, a quel concetto secondo cui la grande arte non muore con l’autore, ma continua a diffondere la sua voce nei lettori di domani, e a tale scopo il nostro utilizza una splendida parola infutura che ci dà il segno di come, grazie anche alle definitive parole di Cacciaguida egli costituisca l’exemplum per una rigenerazione politica e sociale dell’umanità.

CANTO XVIII
(Cielo V – Marte – Spiriti combattenti per la fede)
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Il canto inizia proseguendo il precedente: si tratta infatti del congedo di Cacciaguida che, prima di tornare alla croce luminosa, svela a Dante chi sono i personaggi che condividono con lui la beatitudine, da Giosué a Carlo Magno, da Goffredo di Buglione a Roberto il Guiscardo, chi, come il primo, legato al popolo d’Israele, chi difensore della fede e del Santo Sepolcro.

Quindi Dante ascende, senza che se accorga, al cielo di Giove e qui viene accolto da uno spettacolo stupefacente:

Io vidi in quella giovïal facella
lo sfavillar de l’amor che lì era
segnare a li occhi miei nostra favella.
E come augelli surti di rivera,
quasi congratulando a lor pasture,
fanno di sé or tonda or altra schiera,
sì dentro ai lumi sante creature
volitando cantavano, e faciensi
or D, or I, or L in sue figure.
Prima, cantando, a sua nota moviensi;
poi, diventando l’un di questi segni,
un poco s’arrestavano e taciensi.
O diva Pegasëa che li ’ngegni
fai glorïosi e rendili longevi,
ed essi teco le cittadi e ’ regni,
illustrami di te, sì ch’io rilevi
le lor figure com’ io l’ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrarsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
‘DILIGITE IUSTITIAM’, primai
fur verbo e nome di tutto ’l dipinto;
‘QUI IUDICATIS TERRAM’, fur sezzai.
Poscia ne l’emme del vocabol quinto
rimasero ordinate; sì che Giove
pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l’emme, e lì quetarsi
cantando, credo, il ben ch’a sé le move.
Poi, come nel percuoter d’i ciocchi arsi
surgono innumerabili faville,
onde li stolti sogliono agurarsi,
resurger parver quindi più di mille
luci e salir, qual assai e qual poco,
sì come ’l sol che l’accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e ’l collo d’un’aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi;
ma esso guida, e da lui si rammenta
quella virtù ch’è forma per li nidi.

Io vidi in quella luminosa sfera la luce sfavillante dell’amore lì presente comporre davanti ai miei occhi, segni del nostro parlare umano. E come gli uccelli s’innalzano dall’acqua come a festeggiare il loro pasto, mettendosi in cerchio o in altra forma, allo stesso le anime beate, fasciate della loro luce, cantavano volteggiando, formando con le loro figure ora una D, ora una I o una L. Prima si muovevano seguendo il loro canto, poi diventando uno di questi segni, si fermavano un poco e tacevano. O musa, che ti abbeveri alla fonte del fiume Pegaso, sul Parnaso, che gli ingegni dei poeti fai gloriosi e li rendi immortali e questi, grazie a te, rendono immortali le città e i regni, illuminami con la tua virtù tanto che io riesca a descrivere le loro forme così come le ho impresse nella mente: si dimostri la tua forza in questi piccoli versi! Mi mostrarono dunque trentacinque forme di vocali e consonanti; ed io annotai nella mente le singole lettere nell’ordine in cui apparivano. DILIGITE IUSTITIAM, furono il primo verbo ed il primo nome della raffigurazione; seguirono QUI IUDICATIS TERRAM. Quindi le anime si fermarono alla lettera M, tanto che il cielo di Giove si mostrava d’argento trapuntato d’oro. Vidi scendere altre anime là nel punto più alto della M e qui fermarsi inneggiando il bene, mi pare, che li attira a sé. Poi, allo stesso modo nel colpire tizzoni ardenti emergono numerose scintille, da cui gli ignoranti traggono auspici, mi parve risalissero più di mille anime luminose, chi più chi meno, si come ha destinato Dio, e fermata ciascuna nel luogo scelto, vidi la testa ed il collo di un’aquila raffigurati da quegli splendori. Colui che disegna tali figure in Paradiso, non ha maestro, ma è lui stesso maestro e modello e da lui si riconosce quella potenza che imprime la forma, in potenza, fin dal suo “annidarsi”.

“Particolarmente interessanti sono gli ultimi tre versi. L’idea di Dio creatore-artista, demiurgo, è affiorata altre volte (…). Ma qui vi è un’aggiunta: l’aquila che si vede nel cielo di Giove è più bella di quelle che si possono vedere in terra perché essa stessa è l’idea dell’aquila, che le cose terrene semplicemente e debolmente ricordano. Non da Platone, ma da una tradizione neoplatonica e agostiniana molto ampia Dante riceve questa nozione, che è divenuta quasi un luogo comune ma è anche riferimento stabile della sua cultura” (Riccardo Scrivano).

Il canto prosegue con un invettiva verso la corruzione della Chiesa; d’altra parte le espressioni formate dal movimento delle anime a formare il simbolo della giustizia, “amate la giustizia, voi che giudicate la terra,” rimandano proprio a quel Giovanni XXII, nemmeno nominato, se non con un “ma tu”, odiato da Dante per aver confermato la scelta di Avignone come sede papale e per aver oltraggiato la Chiesa con il commercio delle indulgenze.

CANTO XIX
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Il canto inizia con lo stupore, più che visivo uditivo, che viene prodotto dalla molteplicità delle anime illuminate che all’unisono parlano emettendo tuttavia una sola voce. Occasione unica per Dante per risolvere alcuni dubbi che i beati leggono nella sua mente, senza che lui li esprima.

Dopo che l’aquila rivela che è formata dagli spiriti giusti di uomini che furono famosi in terra per rettitudine, Dante, più che esprimere il primo dubbio, sapendo già che quei beati glielo leggono nella mente, gli rispondono relativamente alla giustizia divina, cui l’aquila stessa non può che affermare l’imperscrutabilità del modo in cui Dio giudica, salvando e punendo.

Ma è proprio qui che si pone il quesito forse più impellente e, in qualche modo ancora oggi attualissimo, che Dante questa volta chiede possa essere risolto:

ché tu dicevi: “Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’ è questa giustizia che ’l condanna?
ov’ è la colpa sua, se ei non crede?”.
Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?
Certo a colui che meco s’assottiglia,
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
(…)
«A questo regno
non salì mai chi non credette ’n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.

Perché tu ti chiedevi: «Un uomo che nasce presso la sponda dell’Indo e in questo luogo non vi è nessuno che predichi né che insegni né che scriva di Cristo, e tutte le sue intenzioni e azioni siano buone, per quanto può vedere la mente umana, senza peccato nelle azioni e nelle parole. Questi muore senza battesimo e senza fede: qual è la giustizia che lo condanna? Che colpa ha se non ha la possibilità di credere?» Chi sei tu , che ti ergi a giudice per giudicare cose lontanissime con la vista non più lunga di una spanna? Certo avrebbe motivi di dubbio chi cerca di ragionare sottilmente come se non avesse a vegliare su di lui le Sacre Scritture. O esseri mortali! O menti ottuse! La volontà divina, che è per se stessa buona, da sé, che è il bene sommo, non si è mai allontanata. Pertanto è giusto ciò che si accorda a lei: nessun bene creato la può attirare, ma, al contrario, deriva da essa irradiata dai suoi raggi». (…) «Al Paradiso non salì mai chi non credette in Cristo né venturo né venuto. Ma guarda: molti che gridano “Cristo, Cristo!”, nel giorno del giudizio si troveranno meno vicini a Lui di altri che non lo conobbero; e un tal cristiano sarà condannato da un Etiope, quando si divideranno le due schiere, una eternamente ricca (di beatitudine), l’altra povera (dannata).

Il passo riportato ci conduce ad una riflessione che è tipica di ogni cristiano: che colpa ha chi non ha avuto la possibilità di conoscere Cristo e quindi essere battezzato, tanto da non essere salvato? La risposta è chiara: chi sei tu che giudichi con mente umana ciò che è divino? L’errore, o il dubbio dantesco, sta nel non aver rovesciato la prospettiva e nel voler giudicare da uomo la volontà divina.

Segue a questa riflessione un lungo elenco di principi che la giustizia divina non ha salvato, dall’imperatore Alberto a Carlo d’Angiò.

CANTO XX
(Cielo VI – Giove – Spiriti giusti)

Ancora nel cielo di Giove, dove l’aquila, simbolo di Dio, sempre parlando con voce unica da parte dei suoi beati, ci mostra ora il suo occhio, formato da sei eminenti spiriti gioviali:

«La parte in me che vede e pate il sole
ne l’aguglie mortali», incominciommi,
«or fisamente riguardar si vole,
perché d’i fuochi ond’ io figura fommi,
quelli onde l’occhio in testa mi scintilla,
e’ di tutti lor gradi son li sommi.
Colui che luce in mezzo per pupilla,
fu il cantor de lo Spirito Santo,
che l’arca traslatò di villa in villa:
ora conosce il merto del suo canto,
in quanto effetto fu del suo consiglio,
per lo remunerar ch’è altrettanto.
Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta.
E quel che segue in la circunferenza
di che ragiono, per l’arco superno,
morte indugiò per vera penitenza:
ora conosce che ’l giudicio etterno
non si trasmuta, quando degno preco
fa crastino là giù de l’odïerno.
L’altro che segue, con le leggi e meco,
sotto buona intenzion che fé mal frutto,
per cedere al pastor si fece greco:
ora conosce come il mal dedutto
dal suo bene operar non li è nocivo,
avvegna che sia ’l mondo indi distrutto.
E quel che vedi ne l’arco declivo,
Guiglielmo fu, cui quella terra plora
che piagne Carlo e Federigo vivo:
ora conosce come s’innamora
lo ciel del giusto rege, e al sembiante
del suo fulgore il fa vedere ancora.
Chi crederebbe giù nel mondo errante
che Rifëo Troiano in questo tondo
fosse la quinta de le luci sante?
Ora conosce assai di quel che ’l mondo
veder non può de la divina grazia,
ben che sua vista non discerna il fondo».

Quella parte di me che nelle aquile terrene regge la vista del sole, cominciò a dirmi: «Ora devi osservare con attenzione, poiché degli spiriti luminosi che formano la mia figura, quelli per i quali l’occhio sul capo risplende, sono le anime più nobili dell’intera schiera. Colui che brilla al centro come pupilla, fu Davide, che cantò ispirato dallo Spirito Santo e trasportò l’Arca Santa di città in città: ora conosce il merito del suo canto perché la ricompensa è ad esso misurata. Delle altre cinque anime che formano il mio sopracciglio, quella più vicino al becco è lo spirito di Traiano di cui già in Purgatorio (X canto) si racconta come egli, re dei Romani, seppe consolare una povera vedova per la morte del figlio; ora sa quanto si paghi nel non seguire Cristo, per l’esperienza di questa vita paradisiaca e per l’opposta. L’anima successiva, nella parte più alta del sopracciglio, è quella di Ezechia che allontanò la morte con la vera penitenza; ora sa che il giudizio che il giudizio di Dio non cambia, quando una degna preghiera rimanda all’indomani ciò che dovrebbe accadere oggi. Lo spirito seguente, Costantino, con le leggi e con me (insegna imperiale), con l’ottima intenzione di donare terre al pontefice si trasferì in Oriente; ora sa che sebbene la sua buona azione abbia procurato cattive conseguenze, non è stato a lui dannoso, per quanto da esso in mondo sia stato rovinato. L’anima posta nella parte discendente del sopracciglio è quella di Guglielmo II d’Altavilla (re di Napoli e di Puglia) che le terre rimpiangono e che ora sono tenute da Carlo d’Angiò e Federico II; ora riconosce come il cielo premia un re giusto, e lo dimostra nell’aspetto del suo splendore. Chi penserebbe giù nel mondo peccaminoso, che il troiano Rifeo sia il quinto tra gli spiri beati del mio occhio? Ora conosce bene quello che l’uomo non può comprendere della grazia di Dio, per quanto la sua capacità intellettuale non sappia scorgere le ragioni ultime dell’operare divino».

Sembra questa parte del canto rispondere al quesito che Dante aveva posto nel canto precedente riguardo la “non colpa” di chi non aveva potuto conoscere Cristo. Di fronte alla risposta dell’aquila e dei componenti della sua parte così importante come quella dell’occhio, Dante non può non meravigliarsi vedendo sue anime “pagane”, l’imperatore Traiano e il troiano Rifeo. E’ che il primo, mentre era al Limbo, per intercessione del papa Gregorio Magno, potette ritornare in vita per poter ricevere la verità di Cristo, e Rifeo, visse in modo così esemplare e giusto che venne illuminato dalla sua grazia, tanto da poter prevedere l’arrivo di Cristo.

Al di là delle spiegazioni (in parte convalidate dalla filosofia e dalle credenze medievali) la salvazione di due anime beate inducono Dante a riflettere sull’imperscrutabilità della giustizia divina che non può essere spiegata secondo la ragione e la concezione che l’uomo ha dell’Aldilà) tipiche della mente umana. Si affaccia il discorso della predestinazione divina che va letta secondo la “loro” giustizia; infatti per i beati (tutti i beati sino qui incontrati) la giustizia divina è accordarsi alla sua volontà: essendo lui il Sommo Bene non vi può essere che infinita bontà nel premiare e infinita giustizia nel punire.

CANTO XXI
(Cielo VII – Saturno – Spiriti contemplativi)

Gustave Doré: Il canto XXI

Siamo all’ultimo pianeta, quello di Saturno, in cui si mostrano a Dante gli spiriti contemplativi, di limpidissima e trasparente luce. All’arrivo in questo cielo, non vi è stata la consueta accresciuta luminosità di Beatrice, ma lo stesso Dante sottolinea che lei “non ridea”; ciò è determinato dal fatto che, arrivata a questo punto nell’ascesa paradisiaca, le sue facoltà travalicherebbero quelle ancora umane del pellegrino, tanto che Dante rischierebbe di rimanere incenerito. Inoltre in questo assoluta trasparenza non vi è nemmeno musica ed è proprio in questo incredibile silenzio scendono da una scala dorata che s’innalza verso il cielo una schiera di beati, chi volteggiando, chi volando, chi rimanendo sul posto. Il loro silenzio viene motivato allo stesso modo con cui Beatrice ha motivato la sua mancanza di riso. Tra tali anime, una in particolare, facendo pulsare la sua luminosità, mostra di voler parlare con Dante e richiesto del perché mostri tale desiderio, egli risponde che non dipende da lui, ma dalle volontà di Dio, senza alcun motivo e la scelta, pur essendoci anime altrettanto caritatevoli come la sua, è solo legata all’imperscrutabilità della volontà di Dio. L’anima è quella di San Pier Damiani:

«Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,
e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria».
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: «Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
che pur con cibi di liquor d’ulivi
lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano,
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello,
che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
prendendo il cibo da qualunque ostello.
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’ una pelle:
oh pazïenza che tanto sostieni!».

«Tra la costa tirrenica e quella adriatica si innalzano dei monti, non così distanti dalla tua patria, tanto che le folgori scoppiano con fragore più basso, e formano una protuberanza, chiamata Catria, sotto la quale vi è un eremo benedetto, il quale era dsolito esser consacrato a Dio». In questo modo ricominciò a rivolgermi la terza parte del discorso; e poi continuando disse: «Qui mi consacrai con ferma determinazione a Dio e mangiando cibi conditi solamente con olio, trascorrevo felicemente sia i periodi estivi che quelli invernali, contento solo di meditazione contemplativa. Quel chiostro produceva in modo fruttuoso anime sante, ora è diventato sterile, tanto che tra breve è necessario si riveli la sua infruttuosità. In quel luogo vissi io Pietro Damiano e nella casa di Nostra Signora sul lido Adriatico fui conosciuto come Pietro Peccatore. Ero sul finire della mia vita terrena, quando fui chiamato ed innalzato alla dignità cardinalizia, che ora passa da persone indegne ad altre peggiori. Vissero poveri San Pietro e San Paolo, cibandosi del pane offerto da ogni casa. Ora i moderni prelati vogliono servi ciascuno da ogni lato che li sorreggano tanto sono obesi e dietro qualcuno che alzi loro il mantello cardinalizio. Cioprono con il mantello stesso i loro cavalli tanto che sotto una coperta vi sono due animali. Oh pazienza divina che tolleri tanta vergogna.»

Forse le fonti dantesche sulla figura di Pier Damiani non furono così attendibili, tanto da indurlo a confondere fra due monaci di Ravenna (città nella quale il poeta soggiornò nell’ultima parte della sua vita), un certo Pier Damiani e un Pietro Peccatore fondendoli in un unico personaggio. Cero Dante seppe della sua azione riformatrice, tanto nel Papato che dell’Impero, con la fondazione di numerosi monasteri. Ma più nota è la sua lotta contro la corruzione e l’avidità della Chiesa, qui evidenziata dal sarcasmo con cui raffigura i prelati del tempo del pellegrino, durante le processioni, in pompa magna, accusa avvalorata dalle grida di approvazioni delle anime sante.

CANTO XXII
(Cielo VII – Saturno – Spiriti contempletivi)
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Le grida di approvazione spaventano Dante, che verrà confortato da Beatrice, rivelando che dietro quel grido vi erano, per lui incomprensibili, parole che predicevano la vendetta divina contro coloro che in terra tradivano la missione affidata loro.

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Tra le anime che mostrano di aver letto il desiderio di Dante ve n’è una:

Quel monte a cui Cassino è ne la costa
fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;
e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.

Quel monte che ha sul suo versante la città di Cassino, fu frequentato un tempo sulla vetta da gente pagana e contraria alle fede cristiana, ed io sono colui che portai lassù per primo il nome di Cristo che tanto ci solleva; e una così intensa grazia divina mi illuminò che riuscii ad allontanare i villaggi vicini dal sacrilego culto pagano che traviò il mondo.

La presentazione di San Benedetto non si discosta molto da quella di Pier Damiani, il quale dopo essersi presentato e aver indicato a Dante le anime benedette così luminose di carità in quella scala santa, non può non rivolgere, come il predecessore, una critica alla situazione del suo monastero, come si era trasformato da luogo di santificazione a luogo di corruzione:

Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
che fa il cor de’ monaci sì folle;
ché quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
non di parenti né d’altro più brutto.
La carne d’i mortali è tanto blanda,
che giù non basta buon cominciamento
dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento,
e io con orazione e con digiuno,
e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.
Veramente Iordan vòlto retrorso
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
mirabile a veder che qui ’l soccorso»

«Le mura che erano soliti esser conventi, sono ora diventati covi di ladroni, e i sai monacali sono sacche ripiene di farina guasta. Ma nessuna grave forma di usura va contro la volontà divina quanto impossessarsi delle rendite conventuali che rendono il cuore dei monaci così cattivo, perché dovunque la Chiesa guardi, Dio comanda che tutto sia dato ai poveri, non ai parenti o a persone turpi. La natura degli uomini è tanto debole, che un’opera ben iniziata non dura un periodo sufficiente a quello che intercorre tra la nascita di una quercia e il suo fruttificare. San Pietro iniziò senza oro e senza argento, io con preghiere e digiuni, San Francesco il suo ordine con umiltà, e se ora guardi come hanno iniziato bene (con l’apostolato, gli ordini benedettini e francescani) e dopo fai attenzione a come sono arrivati, vedrai il bianco esser diventato scuro. In verità il ritirarsi del fiume Giordano e l’aprirsi del Mar Rosso, quando Dio volle, furono miracoli più stupefacenti di quanto il suo intervento d’aiuto in questo caso»

La struttura è la stessa, sebbene di minore lunghezza, con il canto XI e XII, se lì infatti avevamo visto il parallelismo tra San Francesco e e San Domenico, qui tale parallelismo è tra Pier Damiani e san Benedetto. Il fatto che si tratti di una vera e propria diade è testimoniato da una struttura simile: da una parte la fondazione, voluta dal Signore, quindi il sottolineare la povertà come modello di vita, facendo riferimento il primo a San Pietro e San Paolo, e lo stesso Benedetto cita la povertà di San Pietro e San Francesco, cui aggiunge la propria scelta. Ma ciò che interessa è che in questi spiriti contemplanti, tutti rivolti verso Dio, non si perde mai il riferimento alla storia della terra, il loro sguardo verso il mondo così diverso da quello paradisiaco.

Questi ci viene proprio dimostrato nell’ascesa verso il cielo delle Stelle Fisse, qui Dante incontra la sua costellazione, quella dei Gemelli, cui dedica un’apostrofe perché è grazie a lei che ha potuto dedicarsi alla poesia (secondo l’astrologia medievale la costellazione dei Gemelli presiedeva agli studi e alle arti liberali); poi su invito di Beatrice volge lo sguardo al percorso fatto:

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone,
quivi sostenni, e vidi com’ si move
circa e vicino a lui Maia e Dïone.
Quindi m’apparve il temperar di Giove
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro
il varïar che fanno di lor dove;
e tutti e sette mi si dimostraro
quanto son grandi e quanto son veloci
e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’ io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

Con lo sguardo riattraversai i sette cieli inferiori, e vidi la terra in tale modo che mi spinse a sorridere per il suo aspetto meschino, e approvo quel consiglio che la considera poco e chi pensa a cose ulteriori chiamo saggio. Vidi la luna (figlia di Latona) luminosa senza quelle macchie lunari che mi fecero pensare alla sua maggiore e minora densità. Sostenni con lo sguardo la vista del Sole (figlio della luna) e vidi anche come si muovono i cieli a lui vicini, quello di Mercurio e Venere. Di lì mi apparve Giove, che attenua il calore posto com’è tra il padre Saturno ed il figlio Marte e quindi mi furono chiari i loro movimenti e tutti e sette mi mostrarono nella loro grandezza e velocità quanta distanza c’è tra di loro. La piccola aia (la terra abitata dagli uomini) che ci rende così crudeli, girando insieme alla costellazione dei Gemelli, mi apparve interamente dalle montagne ai mari, quindi rivolsi lo sguardo verso gli occhi di Beatrice.

E come se lo sguardo definitivo verso il percorso fatto e soprattutto verso la terra “vile”, “aiuola che ci fa tanto crudeli”, segni una definitiva rottura fra ciò che umano, terreno e ciò che è divino. Al pellegrino Dante ormai non rimane che l’ascesa verso l’Empireo, la sede di Dio.

CANTO XXIII
(Cielo VIII – Stelle fisse)

E’ un canto che segna il distacco totale di Dante dall’Universo al Paradiso, dai pianeti a Dio. Tale esperienza richiede una nuova voce, un nuovo modo di rendere percepibile ai lettori la sua straordinaria esperienza, basata sulla visione, così come sulla luce, splendore, riflesso, ed altri termini riferentesi a questo campo semantico, primeggiano in quest’ultima parte del “sacrato poema”.

Infatti è solo per Beatrice, al fatto che lei infonda in lui maggiore grazia “illuminante”, per mezzo del suo splendore che Dante può ammirare il trionfo di Cristo:

Quale ne’ plenilunïi sereni
Trivïa ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni,
vid’ i’ sopra migliaia di lucerne
un sol che tutte quante l’accendea,
come fa ’l nostro le viste superne;
e per la viva luce trasparea
la lucente sustanza tanto chiara
nel viso mio, che non la sostenea.
Oh Bëatrice, dolce guida e cara!
Ella mi disse: «Quel che ti sobranza
è virtù da cui nulla si ripara.
Quivi è la sapïenza e la possanza
ch’aprì le strade tra ’l cielo e la terra,
onde fu già sì lunga disïanza».
Come foco di nube si diserra
per dilatarsi sì che non vi cape,
e fuor di sua natura in giù s’atterra,
la mente mia così, tra quelle dape
fatta più grande, di sé stessa uscìo,
e che si fesse rimembrar non sape.

Come nelle notti serene di plenilunio, la luna splende tra le altre stelle immortali che illuminano il cielo in ogni parte, così io vidi al di sopra di quelle innumerevoli luci un sole che le faceva risplendere tutte quante, come fa il nostro sole quando accende le stelle del cielo e per il vivo splendore traspariva in modo così lucente l’essenza di quella luce davanti ai miei occhi che io non riuscivo a sostenerla. Beatrice, dolce e chiara guida!. Lei mi disse: «Quello che ti sovrasta e una forza virtuosa da cui nulla può trovare riparo. Qui vi è la sapienza e la forza (di Cristo) che fecero da tramite tra il cielo e la terra (che ristabilirono la pace tra Dio e l’uomo) per cui il desiderio di lui si attese molto a lungo». Come un fulmine si sprigiona da una nuvola per il fatto che i vapori di cui è formato non possono più essere contenuti, tanto che, contro sua natura, si scaglia verso terra, così la mia mente, esaltata da quelle visioni (vivande) divine, uscì fuori da se stessa e che cosa facesse allora non è più in grado di ricordare.

Dante può, ma non sa come, osservare il trionfo di Cristo, tanto da doversi quasi scusare per la sua incapacità espressiva:

Ma chi pensasse il ponderoso tema
e l’omero mortal che se ne carca,
nol biasmerebbe se sott’ esso trema:
non è pareggio da picciola barca
quel che fendendo va l’ardita prora,
né da nocchier ch’a sé medesmo parca.

Ma chi riflettesse sull’onerosa materia e sulla spalla umana che se ne fa carico, non farebbe rimproveri se sotto il suo peso vacilla: non è un piccolo tratto di mare per una piccola imbarcazione , quello che la mia coraggiosa nave sta percorrendo, né da nocchiere che si risparmi la fatica.

Franz Bayros: Illustrazione per il XXIII canto del Paradiso

Il trionfo di Cristo, così lontano dal concetto di triumphus classico, (un dux seguito da soldati), si configura come puro splendore formato dalla luminosità di tutte le anime che tutte le sovrasta. Di fronte a tale inusuale paesaggio, al Paradiso frutto della mente dantesca, del suo impegno intellettuale e conoscenza biblica e teologica, non può essere “definito”, servono comparazioni che ne danno solo una pallida immagine: il plenilunio, la folgore, immagini che possono solo evocare non rappresentare e questo ci testimonia il poeta.

Il canto prosegue con l’elevarsi di Cristo per permettere a Dante l’osservazione del trionfo della Madonna, baciata dai raggi del figlio. I beati ne cantano le lodi e un angelo (forse l’arcangelo Gabriele la incorona); quando anch’ella si librerà verso il cielo tutte le anime la seguiranno per raggiungerla nell’Emireo.

CANTO XXIV
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Il canto inizia con la preghiera di Beatrice ai beati perché rendano partecipi il pellegrino della loro sapienza: loro infatti rappresentano un “ecclesia” di santi che danzano intorno a loro due, con maggiore o minore velocità, secondo il grado di beatitudine. Da essi si stacca l’anima di San Pietro, chiamata dalla dolce guida di Dante:

Ed ella: «O luce etterna del gran viro
a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi,
ch’ei portò giù, di questo gaudio miro,
tenta costui di punti lievi e gravi,
come ti piace, intorno de la fede,
per la qual tu su per lo mare andavi.
S’elli ama bene e bene spera e crede,
non t’è occulto, perché ’l viso hai quivi
dov’ ogne cosa dipinta si vede;
ma perché questo regno ha fatto civi
per la verace fede, a glorïarla,
di lei parlare è ben ch’a lui arrivi».
Sì come il baccialier s’arma e non parla
fin che ’l maestro la question propone,
per approvarla, non per terminarla,
così m’armava io d’ogne ragione
mentre ch’ella dicea, per esser presto
a tal querente e a tal professione.
«Dì, buon Cristiano, fatti manifesto:
fede che è?». Ond’ io levai la fronte
in quella luce onde spirava questo;
poi mi volsi a Beatrice, ed essa pronte
sembianze femmi perch’ ïo spandessi
l’acqua di fuor del mio interno fonte.
«La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»,
comincia’ io, «da l’alto primipilo,
faccia li miei concetti bene espressi».
E seguitai: «Come ’l verace stilo
ne scrisse, padre, del tuo caro frate
che mise teco Roma nel buon filo,
fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi;
e questa pare a me sua quiditate».
Allora udi’: «Dirittamente senti,
se bene intendi perché la ripuose
tra le sustanze, e poi tra li argomenti».
E io appresso: «Le profonde cose
che mi largiscon qui la lor parvenza,
a li occhi di là giù son sì ascose,
che l’esser loro v’è in sola credenza,
sopra la qual si fonda l’alta spene;
e però di sustanza prende intenza.
E da questa credenza ci convene
silogizzar, sanz’ avere altra vista:
però intenza d’argomento tene».

Simone Martini: San Pietro

E lei: «O anima luminosa del grande uomo, a cui Cristo consegnò le chiavi, che portò giù sulla terra da questo luogo di gioia meravigliosa, metti alla prova questo uomo su questioni secondari ed essenziali, come credi più opportuno, sull’argomento della fede, grazie alla quale tu camminasti sulle acque. Non ti è nascosto se egli possiede la carità, la speranza e la fede, in quanto il tuo sguardo è rivolto al volto di Dio dove appare ogni verità, ma poichè questo regno ha creato i suoi cittadini attraverso l’adesione alla vera fede, è opportuno che che a lui tocchi di parlarne al fine di gloriarla». Come il baccelliere (dottorando in teologia) si prepara e non parla fino al momento in cui il professore non pone la domanda, per fornire delle argomentazioni, non per concluderla (compito del maestro), così mi preparavo io di tutte le cose da dire, mentre Beatrice parlava, per esser pronto a un tale interrogante e auna tale materia. «Di’, buon cristiano, rendi palese la tua credenza: che cos’è la fede?» Per cui io alzai il viso verso quella luce da cui uscivano queste parole; poi mi rivolsi a Beatrice, e lei mi fece cenno affinché facessi sgorgare al di fuori l’acqua dal mio interno (facessi uscire all’esterno le mie conoscenze). Cominciai: «La Grazia che mi offre la possibilità di professare la mia fede richiestami da chi ne fu il primo comandante, renda le mie argomentazioni bene espresse.» E continuai: «Come la verace penna del tuo caro fratello San Paolo, che con te indirizzò il popolo nella retta via, ha scritto, la fede è il principio fondamentale di quello che speriamo e prova delle cose che non cadono sotto i nostri sensi; e questa mi sembra essere la sua essenza». Allora sentii dirmi: «Giustamente pensi, se ben hai compreso perché san Paolo la mise prima tra le sostanze e poi tra le prove». Per cui io. «Le profonde verità che qui, in Paradiso, mi offrono la vista del loro aspetto, sono tanto inacessibili agli occhi sulla terra che la loro realtà risiede soltanto nella loro credenza, sopra la quale si fonda la nobile speranza ed è per questo prende nome di sostanza. E da questa speranza che giù in terra è necessario ragionare, senza avere altra conoscenza, per questo prende nome di argomento».

Il brano proposto metaforizza quello che in realtà era un vero e proprio esame universitario: l’alunno /Dante deve mostrare di conoscere non soltanto i termini paolini relativi alla “sostanza” e all’ “argomento”, ma anche come, attraverso la filosofia tomistica, egli ne sia entrato in possesso. E’ pur vero che è un canto dottrinale, ma la poesia è proprio in questa volontà di insegnare la verità al lettore, affinché esca dall’errore di una vita fatta di corruzione ed egoismi, e lo conduca verso la “retta via”.

San Pietro e Dante

Il canto prosegue con l’interrogatorio di San Pietro che, dopo aver appurato la conoscenza di Dante rispetto alla verità sulla fede, domanda al nostro del suo possesso, e rispostogli affermativamente, il santo gli chiede come vi è arrivato, e saputo che vi è giunto dalle Sacre Scritture, vuol sapere come mai le ritiene parola di Dio; “per i miracoli che ne seguirono”. Soltanto dopo l’ultima risposta dantesca, le anime fanno risuonare un “Lodiamo il Signore”. L’esame di San Pietro ora si fa più intenso: non le basta aver sentito parole veritiere circa la fede, vuole ora che Dante esprima la sostanza del suo credere, tanto che il canto si chiude con “Il credo” del poeta.

CANTO XXV
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Pur essendo in Paradiso, Dante, forse perchè giunto alla piena maturità e saggezza, può guardare, senza più acrimonia, alla sua patria, con struggente nostalgia:

Se mai continga che ‘l poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra
sì che m’ha fatto per più anni macro,
vinca la crudeltà che fuor mi serra
dal bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello,
ritornerò poeta, ed in sul fonte
del mio battesmo prenderò ‘l cappello;
però che ne la Fede, che fa conte
l’anime a Dio, qui intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.

Se un giorno accadrà che il poema sacro, alla quale ha posto mano sia la dottrina divina sia la scienza umana, tanto che per molti mi ha logorato, vincerà l’ingiusta violenza chi mi tiene lontano dalla dolce patria dove io passai la giovane età, inviso soltanto ai malvagi, allora con maggiore fama, con capelli incanutiti, ritornerò con il nome di poeta e sulla fonte battesimale riceverò l’alloro poetico, poiché lì ricevetti la fede, che rende le anime gradite a Dio e qui san Pietro, per quella fede, ha cinto il mio capo con la sua luce.

William Blake: San Pietro incontra San Giacomo

L’esordio del canto sembra interrompere la narrazione dell’iter paradisiaco del Dante agens e soffermarsi sul Dante auctor, che, di fronte all’esser cinto sul capo da San Pietro, spera che tale atto le venga offerto dai suoi cittadini di Firenze. Non è un caso che tale passo funga da cerniera tra il canto della fede e quello di speranza; la nostalgia della patria, la maturità anagrafica e la consapevolezza di aver dato vita ad un’opera in cui ha posto mano terra e cielo, gli fa sperare che i cittadini, lasciando alle spalle il passato, lo accolgano e lo incoronino come grande poeta.

Quindi a San Pietro si unisce con letizia l’anima di san Giacomo, che si pone di fronte al poeta per il secondo interrogatorio:

«Poi che per grazia vuol che tu t’affronti
lo nostro Imperadore, anzi la morte,
ne l’aula più secreta co’ suoi conti,
sì che, veduto il ver di questa corte,
la spene, che là giù bene innamora,
in te e in altrui di ciò conforte,
dì quel ch’ell’ è, dì come se ne ’nfiora
la mente tua, e dì onde a te venne».
Così seguì ’l secondo lume ancora.
(…)
«Spene», diss’ io, «è uno attender certo
de la gloria futura, il qual produce
grazia divina e precedente merto.
Da molte stelle mi vien questa luce;
ma quei la distillò nel mio cor pria
che fu sommo cantor del sommo duce.
‘Sperino in te’, ne la sua tëodia
dice, ‘color che sanno il nome tuo’:
e chi nol sa, s’elli ha la fede mia?
Tu mi stillasti, con lo stillar suo,
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
e in altrui vostra pioggia repluo».

«Dal momento in cui la grazia di Dio, il nostro imperatore, vuole che tu incontri, prima di morire, nel posto più riposto del Paradiso, i suoi dignitari, cosicchè, visto la verità di questo regn, tu possa rafforzare in te e negli altri la speranza, che in terra attira al vero amore, dimmi cosa essa sia, di come se ne abbellisce il tuo animo, e da dove ti giunge». Così continuò a parlare ancora San Giacomo (…) «La speranza è l’attesa sicura della nostra salvezza, e che giunge dalla grazia di Dio e dalle nostre azioni già acquisite. Questa verità mi giunge da molti padri; ma colui che la istillò per la prima volta nel mio cuore fu il più grande poeta di Dio (Davide, autore dei Salmi). Egli scrive nel suo canto a Dio: “Sperino in te, chi conosce il nome tuo”: e chi non lo conosce, se egli possiede la stessa fede? Tu mi instillasti (la fede nella speranza), attraverso la sua ispirazione, ed anche nella sua lettera, tanto che io ne sono così pieno, da riversare in altri la vostra grazia (pioggia)

Anche il secondo interrogatorio, come quello di San Pietro, si struttura come una vera e propria risposta teologica, ma qui è più “personale”, col sottolineare la “sua prima volta” in cui ha ricevuto il dono della seperanza e con quell’interrogativa retorica, che attenua l’elevatezza del riferimento all’autore dei Salmi, appunto.

CANTO XXVI
(Cielo VIII – Stelle fisse)

Il canto XXVI si apre con l’appatizione di San Giovanni che sottopone Dante al terzo interrogatorio, quello sulla carità. Infatti a lui si deve l’affermazione, nelle Lettere dell’apostolo, Deus caritas est. L’esame lo svolge privo della vista, perchè acceccato dalla luminosità dell’evangelista, ed è meno “impegnativo” rispetto a quello sulla fede e sulla speranza, in quanto non chiede la definizione teologica, ma a chi tale carità si rivolga. Questa è la risposta di Dante:

E io: «Per filosofici argomenti
e per l’autorità che quinci scende
cotale amor convien che in me s’imprenti.
ché il bene, in quanto ben, come s’intende
così accende amore, e tanto maggio
quanto più di bontade in sé comprende.
Dunque a l’essenza ov’è tanto avvantaggio,
che ciascun ben che fuor di lei si trova
altro non è che un lume di suo raggio,
più che in altra convien che si muova
la mente, amando, di ciascun che cerne
il vero in che si fonda questa prova.
Tal vero a l’intelletto mio sterne
colui che mi dimostra il primo amore
di tutte le sustanze sempiterne.
Sternel la voce del verace autore
che dice a Moisé, di sé parlando:
‘Io ti farò vedere ogni valore’.
Sternilmi tu ancora, incominciando
l’alto preconio che grida l’arcano
ne la pistola poi; sì ch’io son pieno,
di qui la giù sovra ogni altro bando».

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Ed io: «Attraverso ragionamenti filosofici e dall’autorità che deriva da qui (Paradiso) tale amore di carità è naturale che sia impresso in me: perché il bene, in quanto bene, appena si prova, fa nascere il sentimento amoroso, ed è tanto più grande, quando ha in sé maggiore bontà. Perciò l’intelletto di ogni uomo in grado di distinguere la verità sulla quale si basa questa argomentazione deve di necessità volgersi con amore, piuttosto che a uno diverso, all’Essere così favorito dal fatto che ogni bene a Lui estraneo non è se non una luce riflessa del suo splendore. Questa verità la spiega alla mia mente colui (Aristotele) che mi dimostra l’esistenza di un primo amore a cui tendono tutti gli esseri immortali. Me la spiega la parola di Dio, autore delle Scritture, che dice a Mosé “Io ti farò vedere ogni cosa buona”. E me la spieghi ancora tu, col sublime manifesto che rivela più solenne di ogni altra voce, i misteri celesti là nel mondo più di ogni altro messaggio».

L’argomentazione prodotta da Dante può sorprendere perché sembra citare Aristotele a cui l’intero medioevo attribuiva (erroneamente) l’opera De causis, che faceva derivare tutte le cose da un principio. Quindi l’amore che egli prova deriva da Dio stesso. D’altra parte è proprio Giovanni che nell’incipit del suo Vangelo aveva detto “In principium erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, Deus erat Verbum.” individuando la fonte da cui tutto deriva grazie all’amore / carità dell’essere supremo.

San Giovanni apostolo

Il canto prosegue con la riconquista di Dante della vista, tanto da poter incontrare l’anima di Adamo, che racconta al pellegrino di sé, di come fu creato, di quanto tempo rimase in Purgatorio, quale sia stata la natura del suo peccato e in che lingua parlò. Da qui l’occasione per Dante di riflettere sulla lingua:

La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
Opera naturale è ch’uom favella;
ma così o così, natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella.
Pria ch’i’ scendessi a l’infernale ambascia,
I s’appellava in terra il sommo bene
onde vien la letizia che mi fascia;
e El si chiamò poi: e ciò convene,
ché l’uso d’i mortali è come fronda
in ramo, che sen va e altra vene.

La lingua che parlai era già del tutto sparita prima che la gente di Nembròt si fissasse all’opera destinata a rimanere incompiuta (la torre di Babele); perché nessun prodotto della ragione umana, per il gusto degli uomini che continuamente cambia, seguendo il corso dei cieli, durò mai in eterno. Fatto naturale è che l’uomo parli; ma quanto al modo, la natura lascia poi che decidere all’uomo, nel modo che vi piace. Prima che io scendessi nelle sofferenze dell’Inferno (Limbo), sulla terra il nome di Dio, sommo bene, da cui proviene la luce che mi fascia, era I; poi si chiamo El, e questo è naturale, dal momento che l’uso delle cose umane è come a quello della foglia sul ramo, che quando cade un’altra vi spunta.

Adamo di fronte a Dante

Il discorso sulla lingua dantesco in questo passo mostra una maturazione del nostro rispetto a quanto detto nel De vulgari eloquentia. “Mentre nel De vulgari è, al pari del latino, sottratto alla deperibilità del parlato in quanto prodotto divino e perciò immutabile e perfetto, il linguaggio adamitico nel Paradiso, ricondotto com’è all’iniziativa personale del parlante, rientra nelle leggi di instrinseca variabilità che presiedono ad ogni lingua. Qui, e chiaramente, si prospetta una soluzione generale al problema delle lingue antiche e moderne, si sostiene che, se è naturale che l’uomo si esprima con un sistema significante di parole, la scelta espressiva, cioè l’adozione di questa o quella lingua, è opera fatale dell’arbitrio umano. L’asserita mobilità, la caducità effimera di ogni linguaggio, spinge Adamo a rapida esemplificazione personale ed empirica: la distinzione tra i nomi con i quali Dio si chiamava nell’idioma primitivo (I) e in quello ebraico (El) gli serve per ribadire la morte della lingua adamitica, avvenuta prima della confusione babelica, e la nascita di quella ebraica, sorta dopo sulle ceneri dell’originaria e prima” (Antonio Quaglio).

CANTO XXVII
(Cielo VIII – Stelle fisse)
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Le anime luminose insieme a quelle di Pietro, Giacomo, Giovanni e Adamo, ora innalzano un “gloria” a Dio, a festeggiare la promozione di Dante, dopo aver superato le interrogazioni dei santi. Ma l’anima di san Pietro improvvisamente si “arrossa”, per esprimere la sua rabbia per la corruzione della Chiesa di cui lui è stato padre. In seguito tutti i beati ascendono in cielo, sparendo dallo sguardo del poeta: Beatrice chiede a Dante di gettare per l’ultima volta uno sguardo sulla terra, prima di salire al Primo Mobile o Cristallino. Beatrice, al colmo della felicità, spiega a Dante le principali caratteristiche del nono cielo, il più esterno del mondo fisico ed è quello da cui dipende il movimento e il tempo unioversale.

 

Quindi anche Beatrice rivolge un’invettiva alla corrutibilità dell’animo umano, che nasce con il naturale desiderio di bene per poi cominciare a decadere moralmente sin dall’adolescenza. Ma la stessa termina il discorso con un’espressione di speranza, perché Dio interverrà a riportare giustizia e ordine nel mondo.

 

CANTO XXVIII
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Il canto inizia con l’apparizione di un punto luminosissimo in cui si manifesta la divinità:

E com’io mi rivolsi e furon tocchi
li miei da ciò che pare in quel volume
quandunque nel suo giro ben s’adocchi,
un punto vidi che raggiava lume
acuto sì, che il viso ch’egli affoca
chiuder conviensi per lo forte acume;
e quale stella par quinci più poca,
partrebbe luna, locata con esso
come stella con stella si colloca
.

E come mi girai ed il mio sguardo fu colpito da quello che appariva in quel cielo, ogni volta che si osservi a fondo il suo movimento circolare, vidi un punto che emetteva una luce così intensa, che è necessario che l’occhio che esso illumina si chiuda a causa della grande intensità di quella; ed ogni stella che dalla terra appare più piccola, sembrerebbe grande coma la luna, vicino a quel punto come se si collocasse una dstella vicina a un’altra.

La divinità è circondata da nove cerchi angelici, illustrati a Dante da Beatrice:

E quella che vedëa i pensier dubi
ne la mia mente, disse: «I cerchi primi
t’hanno mostrato Serafi e Cherubi.
Così veloci seguono i suoi vimi,
per somigliarsi al punto quanto ponno;
e posson quanto a veder son soblimi.
Quelli altri amori che ’ntorno li vonno,
si chiaman Troni del divino aspetto,
per che ’l primo ternaro terminonno;
e dei saper che tutti hanno diletto
quanto la sua veduta si profonda
nel vero in che si queta ogne intelletto.
Quinci si può veder come si fonda
l’esser beato ne l’atto che vede,
non in quel ch’ama, che poscia seconda;
e del vedere è misura mercede,
che grazia partorisce e buona voglia:
così di grado in grado si procede.
L’altro ternaro, che così germoglia
in questa primavera sempiterna
che notturno Arïete non dispoglia,
perpetüalemente ’Osanna’ sberna
con tre melode, che suonano in tree
ordini di letizia onde s’interna.
In essa gerarcia son l’altre dee:
prima Dominazioni, e poi Virtudi;
l’ordine terzo di Podestadi èe.
Poscia ne’ due penultimi tripudi
Principati e Arcangeli si girano;
l’ultimo è tutto d’Angelici ludi.
Questi ordini di sù tutti s’ammirano,
e di giù vincon sì, che verso Dio
tutti tirati sono e tutti tirano.
E Dïonisio con tanto disio
a contemplar questi ordini si mise,
che li nomò e distinse com’ io.
Ma Gregorio da lui poi si divise;
onde, sì tosto come li occhi aperse
in questo ciel, di sé medesmo rise.
E se tanto secreto ver proferse
mortale in terra, non voglio ch’ammiri:
ché chi ’l vide qua sù gliel discoperse
con altro assai del ver di questi giri».

E Beatrice, colei che leggeva nel mio pensiero i miei dubbi, mi disse: «I primi due cerchi luminosi ti hanno mostrato i Serafini e i Cherubini. Essi seguono così velocemente i loro legami per poter identificarsi a Dio quanto più possono, e lo possono in quanto sono perfetti nella loro visione di Dio. Gli spiriti che girano intorno a loro si chiamano Troni di Dio e loro furono posti a chiudere la prima triplice gerarchia celeste. Devi apprendere che tutti costoro hanno la loro felicità quanto si profonda la loro visione in Dio, verità in cui ogni mente trova pace. Da questo si può comprendere come la beatutudine si basa sulla visione e non sull’amore, che la segue; e la misura della capacità di vedere il merito che la Grazia e la buona volontà generano: così si accresce in beatitudine. L’altra gerarchia formata da tre cori angelici, che fiorisce rigogliosa in questa eterna primavera celeste che non c’è autunno che possa far appassire, canta in eterno Osanna con tre melodie, che risuonano in tre cori angelici in cui essi si compongono. In questa gerarchia ci sono altri divinità angeliche: prima le Dominazioni, poi le Virtù ed il terzo ordine è quello delle Potestà. Poi nel terzultimo e penultimo ordine ruotano con tripudio i Principati e gli Arcangeli; l’ultimo cerchio è composto da angeli festanti. Tutti questi ordini angelici tendono verso Dio e verso il basso esercitano la loro influenza affinché tutti vengano attirati e attirino loro stessi verso Dio. E Dionigi l’Areopagita con grande desiderio si mise a contemplare tali gerarchie angeliche dando loro nome, così come io te li ho riportati. Ma Gregorio Magno in seguito dissentì da lui, per cui, non appena si rese conto qui in Paradiso del suo errore, sorrise di se stesso. E non voglio che tu ti ammiri che un uomo mortale nel mondo terreno poté annunciare una verità tanto sublime, poiché glielo rivelò San Paolo, che vide qui in cielo insieme a tante altre sfere celesti.  

“Dionigi Areopagita è figura di grande spicco nella trasmissione del sapere antico e nella costituzione della teologia cristiana. Convertito  da San Paolo nel 52, fu poi vescovo di Atene e morì nel 95. Gli vennero attribuite molte opere, tra cui la più frequentata, anche da da Dante, è il De coelesti hierarchia, ma oggi si sa bene che sono tutte apocrife e che furono stese nel V secolo da un neoplatonico. E infatti le teorie dello pseudo-Dionigi sono una combinazione di neoplatonismo e di cristianesimo, cioè di emanatismo, secondo il quale Dio si manifesta nell’universo e tutto l’universo tende a ritornare a lui, e di creazionismo, per cui l’universo è opera diretta e istantanea di Dio. Gran parte della teologia tardoantica e medievale si era aggirata su questi temi, che giungono a penetrare anche la cultura protorinascimentale, anche se allora tutto ciò sarà complessivamente a contatto con motivi addirittura contrari.” (Riccardo Scrivano) 

CANTO XXIX
(Cielo IX – Primo Mobile o Cristallino)

Quasi come in un dittico, prosegue la spiegazione sull’angelologia di Beatrice. Dopo aver illustrato a Dante la loro il loro ordine e la loro gerarchia, ora la bella guida gli spiega l’ubi ed il quando della creazione, che chiaramente non avviene perché Dio avesse bisogno della loro creazione per sentirsi maggiormante perfetto, in quanto la perfezione è parte della sua essenza divina, ma dalla gratuita espansione de suo essere, con cui loro stessi possono dire subsisto (io esisto). Dio crea tutto: la forma (le pure intelligenze angeliche), la materia (la materia prima del mondo sublunare) e la sussistenza di intelligenza e materia che sono i cieli. Non è lecito chiedersi cosa vi era prima, perchè il prima non esisteva non esistendo il tempo. Quindi Beatrice parla della ribellione di Lucifero, ma solo per dirci che, contrariamente a lui, ci sono angeli buoni. Questi non hanno memoria, perchè contemplano tutto nell’eterno presente della luce divina. Il canto si conclude con la critica piuttosto puntuta contro chi, predicando in modo errato e non seguendo le Sacre Scritture disvia dalla verità e chi, per conquistare numerosi uditori per ottenere indulgenze, riempe le sue prediche di “ciance” e “motti”.

 

  CANTO XXX
(Cielo IX - Primo Mobile o Cristallino)

(Cielo X - Empireo)

Forse semilia miglia di lontano
ci ferve l’ora sesta, e questo mondo
china già l’ombra quasi al letto piano,
quando ’l mezzo del cielo, a noi profondo,
comincia a farsi tal, ch’alcuna stella
perde il parere infino a questo fondo;
e come vien la chiarissima ancella
del sol più oltre, così ’l ciel si chiude
di vista in vista infino a la più bella.
Non altrimenti il trïunfo che lude
sempre dintorno al punto che mi vinse,
parendo inchiuso da quel ch’elli ’nchiude,
a poco a poco al mio veder si stinse:
per che tornar con li occhi a Bëatrice
nulla vedere e amor mi costrinse.
Se quanto infino a qui di lei si dice
fosse conchiuso tutto in una loda,
poca sarebbe a fornir questa vice.
La bellezza ch’io vidi si trasmoda
non pur di là da noi, ma certo io credo
che solo il suo fattor tutta la goda.
Da questo passo vinto mi concedo
più che già mai da punto di suo tema
soprato fosse comico o tragedo:
ché, come sole in viso che più trema,
così lo rimembrar del dolce riso
la mente mia da me medesmo scema.
Dal primo giorno ch’i’ vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m’è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l’ultimo suo ciascuno artista.
Cotal qual io la lascio a maggior bando
che quel de la mia tuba, che deduce
l’ardüa sua matera terminando,
con atto e voce di spedito duce
ricominciò: «Noi siamo usciti fore
del maggior corpo al ciel ch’è pura luce:
luce intellettüal, piena d’amore;
amor di vero ben, pien di letizia;
letizia che trascende ogne dolzore.
Qui vederai l’una e l’altra milizia
di paradiso, e l’una in quelli aspetti
che tu vedrai a l’ultima giustizia».

Come sùbito lampo che discetti
li spiriti visivi, sì che priva
da l’atto l’occhio di più forti obietti,
così mi circunfulse luce viva,
e lasciommi fasciato di tal velo
del suo fulgor, che nulla m’appariva.
«Sempre l’amor che queta questo cielo
accoglie in sé con sì fatta salute,
per far disposto a sua fiamma il candelo».
Non fur più tosto dentro a me venute
queste parole brievi, ch’io compresi
me sormontar di sopr’ a mia virtute;
e di novella vista mi raccesi
tale, che nulla luce è tanto mera,
che li occhi miei non si fosser difesi;
e vidi lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive;
poi, come inebrïate da li odori,
riprofondavan sé nel miro gurge,
e s’una intrava, un’altra n’uscia fori.
«L’alto disio che mo t’infiamma e urge,
d’aver notizia di ciò che tu vei,
tanto mi piace più quanto più turge;
ma di quest’ acqua convien che tu bei
prima che tanta sete in te si sazi»:
così mi disse il sol de li occhi miei.
Anche soggiunse: «Il fiume e li topazi
ch’entrano ed escono e ’l rider de l’erbe
son di lor vero umbriferi prefazi.
Non che da sé sian queste cose acerbe;
ma è difetto da la parte tua,
che non hai viste ancor tanto superbe».
Non è fantin che sì sùbito rua
col volto verso il latte, se si svegli
molto tardato da l’usanza sua,
come fec’ io, per far migliori spegli
ancor de li occhi, chinandomi a l’onda
che si deriva perché vi s’immegli;
e sì come di lei bevve la gronda
de le palpebre mie, così mi parve
di sua lunghezza divenuta tonda.
Poi, come gente stata sotto larve,
che pare altro che prima, se si sveste
la sembianza non süa in che disparve,
così mi si cambiaro in maggior feste
li fiori e le faville, sì ch’io vidi
ambo le corti del ciel manifeste.
O isplendor di Dio, per cu’ io vidi
l’alto trïunfo del regno verace,
dammi virtù a dir com’ ïo il vidi!
Lume è là sù che visibile face
lo creatore a quella creatura
che solo in lui vedere ha la sua pace.
E’ si distende in circular figura,
in tanto che la sua circunferenza
sarebbe al sol troppo larga cintura.
Fassi di raggio tutta sua parvenza
reflesso al sommo del mobile primo,
che prende quindi vivere e potenza.
E come clivo in acqua di suo imo
si specchia, quasi per vedersi addorno,
quando è nel verde e ne’ fioretti opimo,
sì, soprastando al lume intorno intorno,
vidi specchiarsi in più di mille soglie
quanto di noi là sù fatto ha ritorno.
E se l’infimo grado in sé raccoglie
sì grande lume, quanta è la larghezza
di questa rosa ne l’estreme foglie!
La vista mia ne l’ampio e ne l’altezza
non si smarriva, ma tutto prendeva
il quanto e ’l quale di quella allegrezza.
Presso e lontano, lì, né pon né leva:
ché dove Dio sanza mezzo governa,
la legge natural nulla rileva.
Nel giallo de la rosa sempiterna,
che si digrada e dilata e redole
odor di lode al sol che sempre verna,
qual è colui che tace e dicer vole,
mi trasse Bëatrice, e disse: «Mira
quanto è ’l convento de le bianche stole!
Vedi nostra città quant’ ella gira;
vedi li nostri scanni sì ripieni,
che poca gente più ci si disira.
E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni
per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,
sederà l’alma, che fia giù agosta,
de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v’ammalia
simili fatti v’ha al fantolino
che muor per fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel foro divino
allora tal, che palese e coverto
non anderà con lui per un cammino.
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,
e farà quel d’Alagna intrar più giuso».

In un luogo distante circa seimila miglia (da questo) arde il mezzogiorno e in esso la terra proietta già il cono d’ombra quasi all’altezza del nostro orizzonte , quando l’atmosfera del cielo, alta sopra di noi comincia a farsi tale che qualche stella comincia a esser visibile fin quaggiù sulla terra, e via via che l’aurora avanza, luminosa ancella del Sole, progressivamente il cielo sembra nascondere le sue stelle, sino alla più luminosa. Non diversamente i cori degli angeli che in eterno tripudiano intorno al punto dalla cui luce fui sopraffatto, che circondano e sono al contempo circondati, a poco a poco svanirono dalla mia vista: per cui il non vedere nulla e l’affetto mi spinsero a rivolgere gli occhi verso Beatrice. Se si potesse concetrare tutto in un’unica espressione di lode, questa sarebbe inadeguata ad esaurire tale compito. La bellezza che io vidi va al di là delle nostre capacità umane, ma solo Dio creatore può gioirne appieno. Mi dichiaro vinto da questo passaggio del mio poema, più che mai poeta comico o tragico si sentisse sovrastato da qualche punto del tema assunto a oggetto della sua poesia, perché come la luce del sole batte su occhi traballanti, alòlo stesso modo il sorriso di Beatrice fa venir meno il mio intelletto a me stesso. Dal giorno in cui vidi il suo viso nella vita terrena, sino a questa visione, non sono stato impedito dal seguire precisamente il mio canto, ma ora è inevitabile che il mio poetare venga meno nel seguire la sua bellezza, come ciascun poeta quando arriva al limite della sua capacità espressiva. Così, rispetto al mio fare poetico, che sta portando a termine l’ardua impresa,  l’affido a poeta in grado di poterla cantare nel modo in cui, con atteggiamento e parole di sicura guida riniziò a dirmi: «Noi siamo usciti fuori dal Primo Mobile verso il cielo che è pura luce: luce intellettuale (non fisica), piena d’amore, amore del vero bene, che infonde pienezza di gioia, gioia che sovrasta ogni dolcezza. Qui vedrai i beati e gli angeli del Paradiso ed i primi con l’aspetto che prenderanno nel giorno del giudizio universale». Come un lampo improvviso che disperda sin da subito la capacità visiva, privando l’occhio dal cogliere oggetti diventati troppo intensi per lui, così una luce intensa mi circondò col suo splendore e mi lasciò fasciato da talò luminosità da non poter veder nulla. «La carità di Dio, che riempie della sua pace questo cielo, accoglie vsempre in sé chi vi entri con un siffatto saluto, affinché l’anima possa ricevere il suo ardore, come una candela la fiamma». Queste poche parole non mi giunsero più velocemente di quanto io compresi di quanto di sollevarmi al di sopra delle mie capacità, e ripresi a vedere con una più accentuata capacità visiva tale che non vi è luce così fulgenre che i miei occhi non potessero osservare; e vidi una luce riplendente di fulgore che scorreva tra due rive adorne di mirabile fioritura primaverile. Da tale fiume emergevano faville vive che si posavano sui fiori come rubini incastonati nell’oro, poi, come inebriate dal profumo, si rigettavano nel fiume e mentre esse si immergevano altre sgorgavano all’esterno. «Il grande desiderio che ora arde in te e ti stimola, di sapere cos’è ciò che vedi, tanto mi piace quanto più cresce d’intensità; ma è necessario che tu beva quest’acqua, prima che la sete (il tuo desiderio) possa essere saziata», così mi disse la luce degli occhi miei. E quindi aggiunse: «Il fiume e le faville splendenti come pietre preziose che entrano eed escono nell’acqua del fiume, costituiscono velate prefigurazioni del loro autentico essere. Non perchè tali cose siano imperfette, ma per ancora tua incapacità, che non possiedi occhi così potenti». Non vi è bambino che corra velocemente verso la mammella materna se si sveglia un po’ più tardi del solito, di quanto feci io, per rendere i miei occhi più efficaci, chinandomi sull’acqua del fiume che scorre perché ci si renda migliori, e come gli occhi miei bevvero di quell’acqua, mi parve che il fiume da lungo diventasse circolare (allagasse l’intero spazio). Poi come persone sotto la maschera, diverse da come sembrano essere, se si svestono di essa, allo stesso modo i fiori e le faville si trasformarono in uno spettacolo ancora più festante, in quanto eserciti di Dio. Oh, splendore di Dio, grazie al quale potei osservare l’alto trionfo dell’autentico regno, dammi la forza affinché affinché rioesca a descriverlo così come lo vidi! Luce è lassù che rende visibile il Creatore a colui che nel contemplarlo trova il suo appagamento.  Questa luce si estende in forma circolare tanto che la siua circonferenza sarebbe troppo grande a contenere il sole. L’insieme di tale luminosità deriva da un unico raggio proveniente da Dio che si riflette sulla superficie esterna del Primo Mobile, ricevendo così la vita e la forza, tali da essere trasmessi ai cieli inferiori. E come un pendio che si riflette in uno specchio d’acqua ai suoi piedi , quasi per compiacersi della sua bellezza quando, in primavera, è verde e ricco di fiori , così allo stesso modo vidi tutte le anime beate, stando sopra tutt’intorno a quella luce, rispecchiarsi in essa disposti in innumerevoli gradini. E se l’ultimo gradino contiene una tale quantità di luce, quanta ne accoglie nei petali più lontani dalla luce, quindi più estesi! La mia capacità visiva non si smarriva per la vastità e la profondità, ma riusciva a cogliere la quantità e la qualità di quella beatitudine. Nell’Empireo il concetto di lontananza e vicinanza non hanno valore, perché dove Dio governa senza altro mezzo, le leggi fisiche non contano. Nel giallo (luogo degli stami e dei pistilli) della candida rosa che si distende progressivamente amplisandosi ed emana un profumo di lode al Signore, come persona che non dice ma desidera, mi condusse Beatrice e disse: «Osserva quanto è numerosa la riunione dei beati! Guarda la nostra città per quanto si estende; osserva i seggi come sono pieni, c he poca gente manca a riempirli. Ed in quel gran seggio su cui hai posto gli occhi, su cui è posta la corona imperiale, prima che tu ti sieda a questo banchetto di felicità eterna (prima della tua morte) si poserà l’anima che sarà nel mondo Augusta (imperiale) del nobile Arrigo, che giungerà in Italia per riportarla sulla retta via, prima di quanto essa sia preparata ad accoglierlo. La sordida avarizia che vi strega vi ha reso simili ad un infante che piuttosto muore di fame, pur di scacciare la balia. E in quel tempo sarà a capo della Chiesa un tale (Clemente V) che apertamente e nascostamente si distaccherà dal suo cammino. Ma Dio lo sopporterà poco a capo della Chiesa, tanto da essere gettato nel profondo là dove paga il suo peccato di simonia Niccolò III, facendo sprofondare più in basso Bonifacio VIII». 

Con questo canto Dante entra nel Paradiso vero e proprio, uscendo da quel luogo fisico che ancora il Primo mobile rappresentava. E lo fa attraverso la “difficile” descrizione di ciò che la sua vista può permettergli di ammirare: cioè, per meglio dire, della capacità visiva che, grazie a Dio, fuori da quella umana, consentirà a lui di osservare la “verità” che solo gli angeli e i beati “conoscono perchè la vivono”. Tale facoltà visiva, tuttavia, sembra contrastare con la capacità della parola: tanto aumenta l’una quanto diminuisce l’altra. Infatti dapprima riesce a percepire l’allontanamento degli angeli, lasciando il cielo vuoto, a preparare un nuovo spettacolo; quando si rivolge a Beatrice affinché possa illustrare ciò che accade, la sua bellezza o la sua essenza divina è talmente forte da non poter trovare parole umane che la possano rappresentare; riappare, cioè il topos dell’ineffabile. E questo accade anche quando, dopo un momentaneo accecamento, riacquisendo la facoltà visiva, si trova di fronte ad un lago di luce in cui ciò che era si trasformerà in ciò che sarà per sempre. Infatti Beatrice gli rivelerà che lui sta assistendo a ciò che avverrà il giorno del giudizio universale, quando corpo e anima si riuniranno a cantare le lodi del Signore. Dopo tanta ineffabile poesia, dopo essere stati invasi da immagini che rimandavano alla luce, allo splendore, a raggi riflessi, non poteva mancare un “accenno” a chi parteciperà a tale esplosione di gioia e luce e a chi ne sarà escluso: torna la storia, l’urgenza politica e Clemente V e Arrigo VII riceveranno da Dio pena e gloria, ma nella realtà tale esito non avrà effetti.

CANTO XXXI
(Cielo X – Empireo)

Il canto esprime l’estasi con cui Dante osserva la candida rosa. Angeli, con ali dorate, che vanno e tornano dagli eletti a Dio, comunicando pace e carità. Lo sguardo del poeta è rapito ed estasiato, e per fare in modo che il lettore possa partecipare a ciò che anche per lui è ineffabile, etereo, puro nel suo splendore, ricorre ad esempi umili, come quello dell’uomo dei paesi del nord che prova meraviglia di fronte allo splendore della città eterna, o di un pellegrino che si ritrova nel santuario che aveva deciso di visitare. Allo stesso lui, muto e stupefatto di fronte all’eccezionale spettacolo che Dio gli offre, volge lo sguardo per chiedere a Beatrice, lei non c’è più:

Uno intendëa, e altro mi rispuose:
credea veder Beatrice e vidi un sene
vestito con le genti glorïose.
Diffuso era per li occhi e per le gene
di benigna letizia, in atto pio
quale a tenero padre si convene.
E «Ov’ è ella?», sùbito diss’ io.
Ond’ elli: «A terminar lo tuo disiro
mosse Beatrice me del loco mio;
e se riguardi sù nel terzo giro
dal sommo grado, tu la rivedrai
nel trono che suoi merti le sortiro».
Sanza risponder, li occhi sù levai,
e vidi lei che si facea corona
reflettendo da sé li etterni rai.
Da quella regïon che più sù tona
occhio mortale alcun tanto non dista,
qualunque in mare più giù s’abbandona,
quanto lì da Beatrice la mia vista;
ma nulla mi facea, ché süa effige
non discendëa a me per mezzo mista.
«O donna in cui la mia speranza vige,
e che soffristi per la mia salute
in inferno lasciar le tue vestige,
di tante cose quant’ i’ ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute.
Tu m’hai di servo tratto a libertate
per tutte quelle vie, per tutt’ i modi
che di ciò fare avei la potestate.
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi».
Così orai; e quella, sì lontana
come parea, sorrise e riguardommi;
poi si tornò a l’etterna fontana.

Pensavo di rivolgermi ad una persona e mi rispose un’altra: credevo di vedere Beatrice e vidi un vecchio vestito come un beato. Era diffusa negli occhi e nel volto una amorevole gioia, nell’atto caritatevole come dev’essere un tenero padre. E subito io gli domandai: «Dov’è lei?» E lui: «A terminare il tuo desiderio, Beatrice mi ha fatto venire qui dal posto in cui ero, e se guardi in alto nel gradino più alto , tu potrai vederla nel seggio che i suoi meriti le hanno destinato». Senza rispondergli, volsi lo sguardo e la vidi che si circondava di un’aureola di luce riflettendo i raggi di luce divina. Da quella zona del cielo in cui più in alto risuonano i tuoni non è lontana la vista di nessun uomo, neanche di quello che più s’immerge nel mare, tanto quanto distava la mia da Beatrice in quel luogo, ma questo non aveva effetto, giacché la sua immagine non mi raggiungeva offuscata da elementi fisici. «O donna, per la quale si rafforza la mia speranza, e che hai sopportato di lasciare le tue impronte nel luogo infernale per la mnia salvezza, di tutte le cose che ho vedute, riconosco che la Grazia e la Virtù sono derivate dalla tua forza e dalla tua bontà. Tu da servo mi hai portato alla libertà per tutte quelle vie e con tutti i mezzi di cui tu possedevi il potere. Conserva in me la tua magnificenza, di modo che l’anima mia che hai reso pura, si separi dal corpo a te gradita». Così pregai, e Beatrice da tanto lontana come appariva, sorrise e mi guardò, quindi si rivolse a Dio, fonte infinita di grazia. 

L’assenza improvvisa di Beatrice e al suo posto l’apparizione di un vecchio, non produce su Dante lo sesso effetto che ebbe la scomparsa, anch’essa improvvisa di Virgilio, in quanto essa dà al nostro soltanto una sensazione di vuoto, che si colma subito vedendola divisa da uno spazio inesistente, seduta circondata dal raggio di Dio. Solo ora si innalza una preghiera che sembra portare a compimento ciò che nella Vita nuova “Apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei”. E sembra che la preghiera in suo onore sia la degna chiusura di un rapporto, con un cambio pronominale che la rende più vicina in quanto è proprio grazie a lei che egli ora è giunto da “schiavo” a “libero”. E dopo averlo ringraziato, Beatrice si allontana da lui, rivolgendosi a Dio. Nel volgere lo sguardo verso il Signore, la donna prediletta si allontana definitivamente con un congedo che equivale a un addio.

Il “sene” è San Bernardo di Chiaravalle. Egli è scelto da Dante per due motivi: la ripresa della sua visione mistica con angeli e beati in mezzo ai fiori nel suo De diligendo Deo, dall’altra nel suo essere devoto in particolar modo a Maria, come attesta in altri scritti. La sua opera e il suo ruolo ebbero molta fama nel Mediovo come promotore della seconda crociata, consigliere di papi, critico verso il razionalismo di Abelardo, ma soprattutto per il suo rigoroso ascetismo.

Sarà san Bernardo che chiederà a Dante di sollevare lo sguardo per osservare là dove sedeva Maria Vergine il cui splendore vinceva quello dell’ultimo gradino. Intorno a lei gli angeli facevano festa che ricevevano a loro volta il suo splendore. Il santo visto che il suo nuovo discepolo guardava con occhi ardenti lo splendore di Maria, rivolse anch’egli gli occhi alla Madonna.

CANTO XXXII
(Cielo X – Empireo)

In questo canto San Bernardo si fa precettore ed illustra l’Empireo a Dante. Vi è un anima ritta ai piedi di Maria, è Eva; quindi da una parte donne antiche sia bibliche che ebree, dall’altra in modo corrispondente uomini; queste anime sono ulteriormente divise tra coloro che credettero in Cristo venturo e in Cristo venuto. Inoltre al centro di questo empireo a forma sia di petali che di anfiteatro vi sono i bimbi morti in grazia di Dio, pur non avendo potuto esercitare il libero arbitrio. Infanti tutti loro hanno ricevuto una forma di “battesimo” a seconda il periodo in cui nacquero. Al tempo di Adamo ed Eva bastava seguire la fede genitoriale; da Abramo a Gesù fu necessaria la circoncisione e quindi dopo l’arrivo di Gesù il battesimo. Quindi come se ci trovassimo in una corte medievale, Bernardo illustra coloro che sono più vicini a Dio. Ma nel frattempo invita il pellegrino a prepararsi per la visione finale di Dio.

Paradiso 32 – Digital Dante

CANTO XXXIII
(Cielo X – Empireo)

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,
tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ’ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.
Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,
supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.
E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,
perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ’l sommo piacer li si dispieghi.
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.
Vinca tua guardia i movimenti umani:
vedi Beatrice con quanti beati
per li miei prieghi ti chiudon le mani!».
Li occhi da Dio diletti e venerati,
fissi ne l’orator, ne dimostraro
quanto i devoti prieghi le son grati;
indi a l’etterno lume s’addrizzaro,
nel qual non si dee creder che s’invii
per creatura l’occhio tanto chiaro.
E io ch’al fine di tutt’ i disii
appropinquava, sì com’ io dovea,
l’ardor del desiderio in me finii.
Bernardo m’accennava, e sorridea,
perch’ io guardassi suso; ma io era
già per me stesso tal qual ei volea:
ché la mia vista, venendo sincera,
e più e più intrava per lo raggio
de l’alta luce che da sé è vera.
Da quinci innanzi il mio veder fu maggio
che ’l parlar mostra, ch’a tal vista cede,
e cede la memoria a tanto oltraggio.
Qual è colüi che sognando vede,
che dopo ’l sogno la passione impressa
rimane, e l’altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visïone, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Così la neve al sol si disigilla;
così al vento ne le foglie levi
si perdea la sentenza di Sibilla.
O somma luce che tanto ti levi
da’ concetti mortali, a la mia mente
ripresta un poco di quel che parevi,
e fa la lingua mia tanto possente,
ch’una favilla sol de la tua gloria
possa lasciare a la futura gente;
ché, per tornare alquanto a mia memoria
e per sonare un poco in questi versi,
più si conceperà di tua vittoria.
Io credo, per l’acume ch’io soffersi
del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi.
E’ mi ricorda ch’io fui più ardito
per questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi
l’aspetto mio col valore infinito.
Oh abbondante grazia ond’ io presunsi
ficcar lo viso per la luce etterna,
tanto che la veduta vi consunsi!
Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna:
sustanze e accidenti e lor costume
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.
Un punto solo m’è maggior letargo
che venticinque secoli a la ’mpresa
che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fissa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
A quella luce cotal si diventa,
che volgersi da lei per altro aspetto
è impossibil che mai si consenta;
però che ’l ben, ch’è del volere obietto,
tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella
è defettivo ciò ch’è lì perfetto.
Omai sarà più corta mia favella,
pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante
che bagni ancor la lingua a la mammella.
Non perché più ch’un semplice sembiante
fosse nel vivo lume ch’io mirava,
che tal è sempre qual s’era davante;
ma per la vista che s’avvalorava
in me guardando, una sola parvenza,
mutandom’ io, a me si travagliava.
Ne la profonda e chiara sussistenza
de l’alto lume parvermi tre giri
di tre colori e d’una contenenza;
e l’un da l’altro come iri da iri
parea reflesso, e ’l terzo parea foco
che quinci e quindi igualmente si spiri.
Oh quanto è corto il dire e come fioco
al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi,
è tanto, che non basta a dicer ’poco’.
O luce etterna che sola in te sidi,
sola t’intendi, e da te intelletta
e intendente te ami e arridi!
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che ’l mio viso in lei tutto era messo.
Qual è ’l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’ elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.

«Vergine madre, figlia di tuo figlio, la più umile e la più nobile di ogni essere creato, fine e scopo predestinati del volere divino, tu sei colei che hai talmente nobilitato l’intera umanità, che il suo creatore non rifiutò di diventar creatura. Nel tuo seno si accese nuovamente l’amore di Dio per l’uomo (interrotto dopo il peccato originale) grazie al calore del quale è germinato questo fiore dei beati. Qui sei per noi (angeli e beati) fiaccola di carità e giù, tra i mortali, sei perenne fontana di speranza. Signora, sei così grande e di così grande virtù, che chiunque desidera Dio e non si rivolge a te, il suo desiderio è destinato a fallire. La tua volontà di bene non solo corre in soccorso a chi lo chiede, ma spesso previene spontaneamente la domanda. In te misericordia, in te disposizione al bene, in te magnificenza, in te si raccoglie tutto ciò che di virtuoso c’è in un essere creato. Ora costui, che dal punto più basso dell’universo (l’inferno) ha fino qui visto gli stati delle anime nelle vita ultraterrena, ti supplica, per grazia, tanta virtù affinché possa elevarsi più in alto verso l’estrema salvezza. Ed io, che mai arsi di più per vedere Dio di quanto faccia per lui, ti porgo tutte le mie preghiere, e prego che non siano insufficienti, affinché tu con le tue preghiere lo liberi da ogni tenebra della sua natura mortale, di modo che Dio si sveli integralmente di fronte alla sua presenza. Ti prego ancora, o madre regina, che puoi realizzare ciò che vuoi che, dopo tale vista, lui conservi puri i suoi sentimenti. Vinca la tua protezione le sue passioni terrene, vedi come Beatrice, insieme a tanti beati, congiunga le mani alla mia preghiera». Gli occhi della Vergine, amati e venerati dallo stesso Dio, rivolti verso l’oratore, ci dimostrarono quanto siano a lei gradite le devote preghiere; quindi si rivolsero direttamente verso Dio, in cui non bisogna credere che si possa guardare in modo così chiaro (come quelli della Madonna) da parte di quasiasi altro essere creato (beati ed angeli). Ed io che mi avvicinavo al termine di tutti i miei desideri, così come doveva essere, sentii in me il massimo ardore di tale desiderio. Bernardo mi faceva segno, e sorrideva, per farmi guardar in alto, ma io già lo facevo di mia iniziativa: perché la mia capacità visiva, acquisendo chiarezza, penetrava via via con maggior forza dentro il raggio della profonda luce che per la sua essenza è veritiera. Da qui in poi il mio vedere fu maggiore di quanto la mia parola possa mostrare, che non regge di fronte ad un oggetto che eccede la possibilità per una visione a cui anche la stessa facoltà del ricordo si arrende. Come accade a colui che sogna e che, dopo il sogno, rimane impressa la sensazione di esso, ma non le immagini, allo stesso modo sono ora io, in quanto è svanito l’oggetto della mia visione, ma ancora permane nel mio animo una stilla della dolcezza scesa da quella visione. Così la neve si scioglie al sole, così la sentenza della Sibilla si perdeva nelle foglie colpite dal vento. O somma luce che così in alto ti sollevi dai pensieri umani, ridona un po’ alla mia mente come mi apparisti, e rendi la mia lingua tanto potente di modo che possa lasciare ai lettori futuri solamente una favilla della tua gloria; perché se ritornerà anche solo una piccola parte del mio ricordo e risuonerà parzialmente nei miei versi (ciò che io vidi) gli uomini comprenderanno meglio la tua sublime eccellenza. Io credo, per l’intensità del raggio luminoso che mi colpì, che sarei perduto (rimasto abbagliato) se avessi allontanato gli occhi da lui. E mi ricordo che appunto per questo motivo osai con maggior coraggio persistere a sopportare quell’intenso splendore, al punto da congiungere il mio sguardo con la divina essenza. Oh generosa grazia divina per merito della quale io ardii spingere lo sguardo attraverso la luce di Dio, tanto che vi impegai l’intera mia capacità visiva! Nella profondità delll’essenza divina vidi internarsi riunito con amore in un solo legame in un tutt’uno tutto quello che nell’universo appare distinto: le realtà che esistono per se stesse e il modo in cui esplicano la loro essenza e le loro reciproche relazioni, come intimamente compenetrati, di modo che il io modo di rappresentarlo è appena un piccolo barlume del vero. Il principio primo di tale compenetrazione credo di averlo visto, perché solo nell’affermarlo mi sento pieno di gioia. Un solo istante della visione è causa di maggiore oblio che venticinque secoli per l’impresa che fece stupire Nettuno nel vedere l’ombra della nave Argo. Allo stesso modo la mia mente, tutta assorta, guardava fissa, ferma e concentrata e sempre cresceva l’ardore della contemplazione. Sotto l’effetto di una luce così ci si diventa, che è impossibile assentire di volgere lo sguardo per un altro oggetto; per il fatto che il bene, che è oggetto della volontà, si raccoglie completamente in essa e quello che in questa luce (in lei) è perfetto, è imperfetto fuori di lei. Ormai sarà più inadeguato il mio dire, rispetto a ciò che costituisce il mio ricordo, di quanto un bimbo che suggelli ancora il latte da una mammella. Non perché vi fosse più di un solo aspetto nella luce vivida di Dio che io contemplavo, che anzi è eternamente tale e quale è sempre stata; ma a causa della mia facoltà visiva che in me s’accresceva di potenza mediante la contemplazione, una sola immagine, mutandomi io, si trasformava di fronte al mio sguardo. Nella profonda e luminosa essenza mi apparevero tre cerchi rotanti di tre colori e di una stessa dimensione; ed il secondo di questi pareva riflesso dal primo, come un arcobaleno si raddoppia da un altro, mentre il terzo sembrava un giro di fuoco che venisse alimentato dai primi due in pari misura (figura in cui si rivela la Trinità Padre Figlio e Spirito Santo). Oh quanto è inadeguato il mio dire e come è incolore il concetto rispetto a quello che della visione ho inteso e ciò, a paragone di quanto ho veduto è di tal misura che non è sufficiente affermare che è poco. O luce eterna che stai in te sola, sola ti comprendi (Padre) e intesa da te e intendendo te (Figlio) gioisci d’amore (Spirito Santo). Quel cerchio che in te appariva generato quale luce riflessa, osservato attentamente dal mio sguardo per un certo periodo, mi sembrava effigiato della nostra stessa natura umana: per cui il mio viso si era tutto affissato in lei. Come il matematico che si concentra con tutte le capacità intellettuali nel tentativo di trovare la quadratura del cerchio, ma non riesce a rinvenire, pur arrovellandosi strenuamente, il principio matematico risolutore del quale ha bisogno, allo stesso modo ero io di fronte a quella nuova visione: volevo vedere come la figura umana poteva adattarsi alla forma del cerchio e come in essa si collochi; ma le mie forze intellettuiali non erano sufficienti per svelare il mistero: ed ecco che la mia mente fu colpita da un lampo di luce; grazie al quale il suo desiderio fu esaudito. Alla mia forza immaginativa che si era sollevata così in alto, venne meno a questo punto la forza: ma già Dio, sommo amore che fa girare il sole e le altre stelle, faceva già girare il mio desiderio e la mia volontà, imprimendo in esse lo stesso movimento.  

E’ questo non solo il canto con cui si chiude la cantica del Paradiso, ma quello che conclude l’intera Comedìa. Era stato Virgilio a promettere a Dante (altro viaggio, dirà nel I canto infernale) che egli sarebbe stato tra le beati genti, guidato da Beatrice, ma soprattutto come nel II canto sarà la Vergine Maria a sollecitare Beatrice affinchè vada in soccorso a colui che per lei uscì dalla volgare schiera. Ed è proprio dalla Vergine Maria, a cui Bernardo nel canto precedente aveva invitato Dante a rivolgere lo sguardo, che prende avvio il canto, con una preghiera umanissima, in cui si sottolinea la gioia provata da Lei nel beneficare e quindi Le chiede di intercedere affinché il pellegrino possa ora trovare compimento al suo viaggio osservando la Dei imago. 

Da questo punto in poi la Commedia diventa un racconto in cui il Dante auctor cerca di ricordare ciò che il Dante agens ha vissuto, ma di tale elevatezza che il Dante “odierno” rammenta appena un’ombra, ma che neppure essa può essere rappresentata dalla limitatezza della parola umana. Il topos secondo cui il trasumanar significar per verba non si poria si alterna ad una descrizione iperbolica in cui alla luce accecante segue una descrizione – in linea con l’ortodossia cattolica – della trinità rappresentata con la visione di tre cerchi. Ed è proprio all’interno di essi che si verifica la metamorfosi in cui s’inscrive l’incarnazione divina nell’uomo: ma ciò che egli intuisce non può essere vissuto umanamente, in quanto egli ha provato l’excessus mentis o meglio una visione mistica in cui si è trovato in armonia con il creatore e le cose create.  

 
 

DIVINA COMMEDIA: PURGATORIO

Il Purgatorio viene scritto tra il 1306 e il 1312, quando Dante, già in esilio, trascorre questi primi anni, in Toscana, quindi un probabile viaggio dapprima a Parigi, quindi a Genova, infine a Milano, dove sembra abbia incontrato Arrigo VII, e quindi a Verona, da Cangrande Della Scala, dove viene ipotizzato che il poeta concludesse la seconda parte del poema e che cominciò a circolare dal 1315.

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Il Purgatorio dantesco è soprattutto una sua invenzione: non che lo stesso luogo non fosse stato, seppur piuttosto recentemente, inserito all’interno del dogma ecclesiastico, ma la sua struttura viene immaginata alla luce della visione oltremondana dantesca in cui la terra spostata dalla caduta di Lucifero formerà nell’emisfero australe una montagna al cui vertice si trova l’Eden, il paradiso perduto dall’uomo, caduto nel peccato.

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Il purgatorio

Canto I
Antipurgatorio

Per correr miglior acque alza le vele
omai la navicella del mio ingegno,
che lascia dietro a sé mar sì crudele;
e canterò di quel secondo regno
dove l’umano spirito si purga
e di salire al ciel diventa degno.
Ma qui la morta poesì resurga,
o sante Muse, poi che vostro sono;
e qui Calïopè alquanto surga,
seguitando il mio canto con quel suono
di cui le Piche misere sentiro
lo colpo tal, che disperar perdono.
Dolce color d’orïental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro,
a li occhi miei ricominciò diletto,
tosto ch’io usci’ fuor de l’aura morta
che m’avea contristati li occhi e ’l petto.
Lo bel pianeto che d’amar conforta
faceva tutto rider l’orïente,
velando i Pesci ch’erano in sua scorta.
I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ’l ciel di lor fiammelle:
oh settentrïonal vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l’altro polo,
là onde ’l Carro già era sparito,
vidi presso di me un veglio solo,
degno di tanta reverenza in vista,
che più non dee a padre alcun figliuolo.
Lunga la barba e di pel bianco mista
portava, a’ suoi capelli simigliante,
de’ quai cadeva al petto doppia lista.
Li raggi de le quattro luci sante
fregiavan sì la sua faccia di lume,
ch’i’ ’l vedea come ’l sol fosse davante.
«Chi siete voi che contro al cieco fiume
fuggita avete la pregione etterna?»,
diss’el, movendo quelle oneste piume.
«Chi v’ ha guidati, o che vi fu lucerna,
uscendo fuor de la profonda notte
che sempre nera fa la valle inferna?
Son le leggi d’abisso così rotte?
o è mutato in ciel novo consiglio,
che, dannati, venite a le mie grotte?».
Lo duca mio allor mi diè di piglio,
e con parole e con mani e con cenni
reverenti mi fé le gambe e ’l ciglio.
Poscia rispuose lui: «Da me non venni:
donna scese del ciel, per li cui prieghi
de la mia compagnia costui sovvenni.
Ma da ch’è tuo voler che più si spieghi
di nostra condizion com’ell’è vera,
esser non puote il mio che a te si nieghi.
Questi non vide mai l’ultima sera;
ma per la sua follia le fu sì presso,
che molto poco tempo a volger era.
Sì com’io dissi, fui mandato ad esso
per lui campare; e non lì era altra via
che questa per la quale i’ mi son messo.
Mostrata ho lui tutta la gente ria;
e ora intendo mostrar quelli spirti
che purgan sé sotto la tua balìa.
Com’io l’ ho tratto, saria lungo a dirti;
de l’alto scende virtù che m’aiuta
conducerlo a vederti e a udirti.
Or ti piaccia gradir la sua venuta:
libertà va cercando, ch’è sì cara,
come sa chi per lei vita rifiuta.
Tu ’l sai, ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara.
Non son li editti etterni per noi guasti,
ché questi vive e Minòs me non lega;
ma son del cerchio ove son li occhi casti
di Marzia tua, che ’n vista ancor ti priega,
o santo petto, che per tua la tegni:
per lo suo amore adunque a noi ti piega.
Lasciane andar per li tuoi sette regni;
grazie riporterò di te a lei,
se d’esser mentovato là giù degni».
«Marzïa piacque tanto a li occhi miei
mentre ch’i’ fu’ di là», diss’elli allora,
«che quante grazie volse da me, fei.
Or che di là dal mal fiume dimora,
più muover non mi può, per quella legge
che fatta fu quando me n’usci’ fora.
Ma se donna del ciel ti move e regge,
come tu di’, non c’è mestier lusinghe:
bastisi ben che per lei mi richegge.
Va dunque, e fa che tu costui ricinghe
d’un giunco schietto e che li lavi ’l viso,
sì ch’ogne sucidume quindi stinghe;
ché non si converria, l’occhio sorpriso
d’alcuna nebbia, andar dinanzi al primo
ministro, ch’è di quei di paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
là giù colà dove la batte l’onda,
porta di giunchi sovra ’l molle limo:
null’altra pianta che facesse fronda
o indurasse, vi puote aver vita,
però ch’a le percosse non seconda.
Poscia non sia di qua vostra reddita;
lo sol vi mosterrà, che surge omai,
prendere il monte a più lieve salita».
Così sparì; e io sù mi levai
sanza parlare, e tutto mi ritrassi
al duca mio, e li occhi a lui drizzai.
El cominciò: «Figliuol, segui i miei passi:
volgianci in dietro, ché di qua dichina
questa pianura a’ suoi termini bassi».
L’alba vinceva l’ora mattutina
che fuggia innanzi, sì che di lontano
conobbi il tremolar de la marina.
Noi andavam per lo solingo piano
com’om che torna a la perduta strada,
che ’nfino ad essa li pare ire in vano.
Quando noi fummo là ’ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ’l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose;
ivi mi fece tutto discoverto
quel color che l’inferno mi nascose.
Venimmo poi in sul lito diserto,
che mai non vide navicar sue acque
omo, che di tornar sia poscia esperto.
Quivi mi cinse sì com’altrui piacque:
oh maraviglia! ché qual elli scelse
l’umile pianta, cotal si rinacque
subitamente là onde l’avelse.

Illustrazione per il primo canto del Purgatorio

Per solcare acque migliori, per trattare argomenti più elevati, innalza adesso le proprie vele la nave del mio intelletto, lasciandosi alle spalle quel mare tanto spaventoso dell’Inferno; canterò quindi di quel secondo regno, del mondo dell’aldilà, nel quale le anime umane si purificano dalle proprie colpe per poter diventare meritevoli di salire al cielo, in Paradiso. Per fare ciò, possa la mia poesia risorgere, innalzarsi di nuovo, oh sante Muse, poiché appartengo a voi; e possa ora avere nuova forza il potere di Calliope, Musa della poesia epica, così che possa accompagnare il mio canto con lo stesso suono con cui sconfisse la superbia delle Piche, infliggendo loro un colpo tale che esse persero la speranza di poter ottenere il perdono. Un azzurro delicato, simile a quello degli zaffiri d’oriente, che si diffondeva nella serenità dell’atmosfera, puro fino al lontano orizzonte, diede nuovamente ai miei occhi la gioia della vista, non appena potei uscire da quell’aria intrisa di morte che mi aveva riempito occhi e cuore di tristezza ed angoscia. Il bel pianeta, Venere, che ci spinge ad amare, faceva risplendere tutta la parte orientale del cielo, mettendo in secondo piano, con la propria luce, la costellazione dei pesci, a lui vicina. Mi voltai verso destra e rivolsi l’attenzione all’altro emisfero, e vidi quindi quattro stelle mai viste da uomo ad eccezione dei primi, Adamo ed Eva. Il cielo sembrava gioire della loro luce: oh povero emisfero settentrionale, che non hai la possibilità di ammirare la bellezza di quelle stelle! Non appena distolsi la mia attenzione da loro, volgendo un poco il mio sguardo verso l’altro emisfero, là dove la costellazione del Carro, l’Orsa Maggiore, era ormai sparita sotto l’orizzonte, vidi accanto a me un vecchio, solo, dall’aspetto meritevole di tanto riverenza, di tanto profondo rispetto, che di più non ne deve un figlio al proprio padre. Aveva una lunga barba, bianca in alcuni punti, simile ai suoi capelli, che cadevano sul suo petto divisi in due parti. I raggi luminosi delle quattro stelle sante, facevano risplendere il suo viso tanto da rendermelo visibile come se fossimo stati in pieno giorno. «Chi siete voi che, percorrendo la riva del fiume sotterraneo a ritroso, siete scappati fuori dalla prigione eterna dell’Inferno?» chiese il vecchio, scuotendo la barba e la chioma. «Chi vi ha guidati, o cosa vi ha illuminato la strada, nel cammino per uscire dalla notte profonda, che oscura in eterno la grotta dell’inferno? Le leggi dell’Inferno sono state infrante? Oppure è cambiata la legge in paradiso, e voi anime dannate potete ora raggiungere queste grotte?» Il mio maestro a quella vista ed a quelle parole, mi afferrò, e con parole, gesti e cenni mi fece inginocchiare ed assumere una posizione di riverenza. Quindi rispose lui a quel vecchio: «Non sono giunto fin qui per mia iniziativa, una donna, Beatrice, scese dal cielo ed ascoltate le sue preghiere andai in soccorso di costui. Ma dal momento che vuoi che venga meglio spiegata la nostra condizione, come è nella realtà, non può il mio volere andare contro al tuo. Costui, Dante, non ha ancora visto la sua ultima sera, è vivo; ma a causa della sua follia, della sua arroganza intellettuale, fu tanto vicino alla morte, che mancava molto poco prima che gli capitasse. Come ti ho già detto, fui mandato da lui per salvarlo; e per fare ciò non esisteva altra via se non quella lungo la quale mi sono incamminato. Gli ho mostrato tutte le anime dannate; ed ora ho intenzione di mostrargli quegli spiriti che si purificano dei propri peccati sotto il tuo controllo. Come sono riuscito a condurlo attraverso l’Inferno, sarebbe lungo da raccontare; dal Cielo arriva una forza che mi ha aiutato a condurlo qui a vedere la tua persona e ad ascoltare le tue parole. Ti sia quindi cortesemente gratido il suo arrivo: Dante è alla ricerca della libertà, tanto cara, preziosa, come bene lo sa che per lei rifiuta la propria vita. Tu questo lo sai bene, poiché in nome della libertà non ti fu mai amaro andare incontro alla morte in Utica,  là dove lasciati quel corpo che tanto risplenderà nel giorno del giudizio. Non abbiamo infranto le eterne leggi divine, poiché costui è ancora vivo ed io non sono soggetto alle leggi infernali di Minosse; ma mi trovo invece nel Limbo, quel cerchio dove si trovano anche gli occhi casti della tua cara Marzia, che sembra tanto pregare, o santo cuore, perché tu possa ancora considerarla tua moglie: in nome dell’amore che ti lega a lei, esaudisci quindi le nostre richieste. Lasciaci andare per le sette cornici di cui sei custode; ed io riporterò a lei la mia gratitudine nei tuoi confronti, se desideri essere menzionato laggiù nell’Inferno.» »«La vista di Marzia fu tanto gradita ai miei occhi, tanto l’amai, fintanto che vissi», disse allora Catone, «che feci per lei qualunque cosa le fosse gradita. Ma ora che si trova, per l’eternità, al di là del fiume infernale, le sue richieste non possono smuovermi più, per quella legge divina che fu istituita quanto lasciai il Limbo. Ma se una donna del cielo ti spinge nel lungo viaggio e ti guida, come tu mi hai detto, non c’è bisogno allora di adularmi: basta soltanto che tu mi chiedi il permesso in nome suo. Procedi pure oltre, ma curati di cingere la vita di costui con un giunco liscio e di lavargli il viso, così che possa essere ripulito da ogni sporcizia; poiché non sarebbe opportuno che, con gli occhi offuscati da qualche velo, si presentasse al cospetto del primo ministro di Dio, uno degli angeli del Paradiso. Nei punti più bassi delle spiagge intorno a questa isoletta, laggiù dove si infrangono le onde del mare, potete trovare dei giunchi cresciuti sull’umida sabbia: nessuna altra pianta che produca fronde o che diventi legnosa, indurendosi, può vivere in quei punti, poiché non è in grado di piegarsi alle continue percosse delle onde, assecondandole. Dopo aver fatto ciò, non riprendete il vostro cammino da qua; il sole, che sta ormai per sorgere, vi mostrerà un via meno ripida da cui poter scalare il monte». Detto questo, scomparve; ed io mi alzai in piedi senza dire nulla, mi andai vicino alla mia guida ed il mio sguardo rivolsi a lui. Virgilio incominciò a dire: «Figliolo, segui i miei passi: torniamo indietro, perché da questa parte questa pianura scende di livello fino ai suoi punti più bassi.» L’alba incominciava ad avere la meglio sull’ultima ora della notte, che oramai fuggiva di fronte a lei, così che da lontano, grazie alla luce, potei riconoscere il luccichio tremolante del mare. Procedevamo lungo quella pianura deserta come chi ritorna alla strada che aveva perduto e sente di procedere inutilmente finché non l’ha raggiunta. Quando arrivammo a Nord dell’isola, là dove la rugiada combatte con il sole per non estinguersi, trovandosi in parte all’ombra ed evaporando quindi lentamente, entrambe le mani aperte pose delicatamente sull’erba tenera il mio maestro: allora io, essendomi reso conto delle sue intenzioni, gli porsi le mie guance rigate dalle lacrime; mi ripulì il viso con la rugiada, rendendo visibile quel colore che la sporcizia dell’inferno aveva offuscato. Raggiungemmo infine una spiaggia deserta, che non vide mai navigare, sulle acque che la bagnavano, uomini che furono poi in grado di tornare indietro. Qui mi cinse con un giunco, come Dio volle: che cosa meravigliosa! Non appena scelse e colse l’umile pianta, ne rinacque subito un’altra nello stesso punto dove aveva strappato la prima.

Il primo canto del Purgatorio ci presenta sin a subito un clima diverso, sia per stile che per contenuto. Tutto ciò è derivato da una ripresa “classica” della struttura proemiale della seconda cantica che vede la divisione classica tra argumentum ed invocatio. Se tale divisione “classica” non è presente nell’Inferno è perché il primo canto di essa non è un’introduzione alla prima cantica, bensì dell’intero poema e quindi ci tocca aspettare il secondo canto, con l’invocazione alle Muse. Qui invece tutto si svolge all’inizio del primo con la metafora della navicella che percorre “miglior acque” avendo abbandonato il “mar sì crudele” per poi sottolineare come la poesia precedente fosse “morta” e che quindi ora debba “risorgere”. Ecco che allora anche l’invocazione delle Muse viene specificato meglio, chiedendo l’intervento di Calliope, musa della poesia epica, che con il suo aiuto potrà sollevare un poco il suo canto (riprende qui il mito riportato da Ovidio delle figlie di Pierio, pieridi infatti, che tentarono di sfidare nel canto la musa stessa e che, per la loro presunzione, le trasformò in gazze). Perché sollevare un poco e non in modo assoluto? Proprio perché in questa cantica quello che deve prevalere è lo stile elegiaco, non sublime, in quanto egli si trova ora nel regno di mezzo, riservandosi pertanto di utilizzare lo stile sublime quando si troverà nel regno di Dio. Quindi il canto prosegue non più con sensazioni prevalentemente uditive (l’inferno è buio), quanto visive e, guardando il cielo, cominciano quelle precisazioni astrologiche che enorme importanza hanno nella conoscenza filosofica medievale. Il cielo ora appare in tutta la sua immensità, nel suo scorrere tra mattina e sera, come scorrere dovranno le anime purganti tal buio del peccato alla piena luce della beatitudine.

Guillon Lethiere: La morte di Catone l’Uticense

All’improvviso appare l’anima del guardiano del Purgatorio: la sua figura si mostra come quella di un uomo saggio, il cui volto è illuminato da quattro stelle (che rappresentano, simbolicamente le quattro virtù cardinali: giustizia, fortezza, temperanza, prudenza), visibili soltanto dai primi uomini (Adamo ed Eva) abitatori del paradiso terrestre (quindi la sommità del monte purgatoriale è posta nell’emisfero australe). Egli si rivelerà essere Catone l’Uticense, campione, secondo l’immagine che il medioevo si era raffigurato di lui, della filosofia stoica e del concetto di libertà. La sua figura presenta, sin da subito, alcune problematiche critiche: storicamente egli era un fiero avversario di Cesare della tirannia del quale si era liberato uccidendosi: secondo la logica dantesca pertanto, in quanto nemico di Cesare, doveva essere in bocca a Lucifero insieme a Bruto e Cassio, oppure, in quanto suicida, nella selva infernale insieme a Pier delle Vigne e se proprio Dante lo avesse voluto “salvare” nel Limbo insieme a Virgilio e a sua moglie Marzia. Perché invece lo troviamo qui, come custode del Purgatorio?  Nel medioevo la cultura vedeva in Catone il campione della libertà: la sua morte infatti veniva letta non come rifiuto e quindi come atto vigliacco, ma come esempio estremo di protesta al fine di evitare un giogo degradante ed infamante; d’altra parte lo stesso Sant’Agostino (e quindi la Chiesa) ammetteva il suicidio in casi eccezionali. Pertanto Dante lo assume nel Purgatorio come esempio di Libertà. Tale esempio, d’altra parte, è fondamentale in questo regno, dove è necessaria la libertà morale, senza la quale non può esistere impegno per poter raggiungere Dio.

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William Blake: La purificazione dantesca 

Il canto prosegue con il suo intervento, ma è un intervento che ci dice molto di lui: egli, come custode del Purgatorio, ha un compito ben individuato dal Signore, quello d’essere il guardiano del regno che burocraticamente deve far rispettare le regole che presiedono a tale luogo. Infatti si presenta di sorpresa, sorpresa a cui risponderà in modo forse inadeguato Virgilio stesso, spiegando come Dante e lui stesso fossero giunti dopo il pellegrinaggio infernale, voluto da tre donne del cielo, come illustrato nel secondo canto dell’Inferno. Virgilio chiede al veglio (vecchio dal francese vieille) di compiacere al loro viaggio facendo leva sul sentimento, ricordandogli la sua compagna Marzia che adesso è ospitata nel Limbo (la donna è ricordata come emblema di fedeltà, essendo dapprima giovanissima sposa di Catone, poi data dal padre ad un altro uomo per fini procreativi e, alla cui morte, tornò dal primo marito). Ma la risposta di Catone è netta, forse un po’ dura, a sottolineare ormai la lontananza che separa le anime del luogo del peccato da quelle purganti. La captatio benevolentiae di Virgilio è sintomatica di una non certezza sul modus agendi del poeta latino nel Purgatorio e tale incertezza è determinata dal fatto che lui, come Dante, è neofita del secondo regno. Se nell’Inferno Virgilio non fa che affermarci che lui non fa che ripercorrere il luogo infernale, così come ci ha raccontato Lucano grazie alla maga Erittonio, nel Purgatorio lui è come Dante e questo permette al poeta di presentarci un nuovo rapporto che non è più di maestro e allievo, ma di compagno di viaggio, alla scoperta anch’esso del luogo e dei suoi abitatori. Catone quindi, dopo aver accettato la loro presenza grazie alla mediazione delle donne benedette, invita Dante a compiere gli atti di umiltà, necessari per “ripulirsi” del sudiciume infernale e cominciar così il nuovo viaggio.

Ci piace ricordare come D’Annunzio riprese un verso di questo canto, così efficace da divenire topos descrittivo. Dante: L’alba vinceva l’ora mattutina che fuggia innanzi, sì che di lontano conobbi il tremolar de la marina. D’Annunzio: O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina! (I pastori).

Canto II
Antipurgatorio

Spiaggia

Il canto inizia con una lunga digressione astronomica, nella quale Dante, precisando che il tempo tra l’emisfero boreale, al cui centro vi è Gerusalemme e quello dell’emisfero australe, in cui emerge, tra le acque, la montagna del Purgatorio, vi sono 12 ore. Il poeta quindi precisa che il momento in cui si trova nella spiaggia corrisponde alle sei del mattino, dove insieme a Virgilio, trovandosi in luogo sconosciuto ad entrambi, cerca il punto maggiormente digradante della montagna attraverso il quale iniziare l’ascesa.

All’improvviso da lontano appare dapprima un punto luminoso, quindi, dopo un attimo, questo diviene ancora più splendente, avvicinandosi si riconoscono subito due elementi distinti da un bagliore accecante, e infine si individuano con consapevolezza due ali.

Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ’l suol marino,

cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio per domandar lo duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogne lato ad esso m’appario
un non sapeva che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui uscìo. 

Ed ecco che, come Marte, sorpreso dalla prima luce del mattina, appare con il suo colore rosso in mezzo alla fitta nebbia ad occidente, sull’orizzonte del mare, allo stesso modo mi apparve, e possa io in futuro rivederla, una luce che si muoveva sul mare tanto velocemente che nessun volo naturale può essere simile a lei per rapidità. Staccai per poco tempo il mio sguardo da quella luce per guardare la mia guida e domandare cosa fosse, e quando riguardai, la vidi più luminosa e più grande, più vicina di prima. Poi vidi apparire da ogni lato di quella luce qualcosa di bianco che non riuscivo a definire, e, a poco a poco, apparire anche sotto ad essa.

Prima che tocchi terra, Virgilio invita il suo discepolo ad inginocchiarsi, perché si trova  di fronte all’Angelo nocchiero che, su un vascelletto veloce, trasporta le anime che insieme intonano il salmo In exitu Isräel de Aegypto. Quindi si riversano sulla spiaggia e l’Angelo, dopo aver rivolto loro il segno della croce, si allontana velocemente. 

Con la solita circonlocuzione astronomica Dante ci informa che non sono passati che trenta minuti, quando le anime sbarcate, anche loro inesperte del luogo chiedono informazioni ai due pellegrini su come salire al monte. Mentre Virgilio spiega loro che anch’essi sono da poco giunti, il loro sguardo si affissa su Dante, notando, dall’atto del respirare, che era vivo e, provando una tal meraviglia da impallidire.

All’improvviso un’anima si stacca dalle altre:

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L’angelo nocchiero in una miniatura

E come messager che porta ulivo
tragge la gente per udir novelle,
e di calcar nessun si mostra schivo,
così al viso mio s’affisar quelle
anime fortunate tutte quante,
quasi obliando d’ire a farsi belle.
Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi, con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto.
Di maraviglia, credo, mi dipinsi;
per che l’ombra sorrise e si ritrasse,
e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.
Soavemente disse ch’io posasse;
allor conobbi chi era, e pregai
che, per parlarmi, un poco s’arrestasse.
Rispuosemi: «Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?»
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo vïaggio»,
diss’io; «ma a te com’è tanta ora tolta?»
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio,
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.
A quella foce ha elli or dritta l’ala,
però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala».
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!»
Amor che ne la mente mi ragiona
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente. 

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Gustave Doré: L’arrivo della navicella con l’angelo

E allo stesso modo attorno al messo che porta liete notizie, accorre molta gente per apprendere le novità, e nessuno si ritrae dallo stringersi attorno, così intorno aklla mia persona si rivolsero fisse, quasi dimenticando di andarsi a purificare. Vidi quindi una di quelle anime avanzare verso di me ed abbracciarmi, con un affetto tanto profondo, che non potei fare a meno di ricambiare l’abbraccio. Ahimè, ombre senza nessuna consistenza, se non all’apparenza! Per tre volte strinsi le braccia intorno a lei, ed altrettante non riuscii ad afferrare nulla e tornai a toccare il mio petto. Credo di aver assunto quindi un’espressione di stupore; poiché l’anima sorrise e si allontanò un poco, ed io, per seguirla, avanzai.  Mi disse dolcemente di fermarmi, di non procedere oltre; sentendo la sua voce, riconobbi quindi chi era e la pregai di rimanere a parlare con me. Mi rispose: «Tanto ti ho amato quando avevo un corpo mortale, tanto ti amo ora che sono una anima libera: perciò, come mi chiedi, mi trattengo; ma perché fai questo viaggio?» «Mio caro Casella, per poter tornare ancora, dopo morto, qui dove mi trovo adesso, ho intrapreso questo viaggio», gli risposi; «ma tu, che sei morto già da tanto tempo, come mai arrivi solo ora?» Mi rispose lui: «Non mi è stato fatto alcun torto, se l’angelo che decide chi traghettare e quando partire, per più volte mi ha negato questo viaggio; poiché attraverso la sua volontà si manifesta quella di Dio: in verità negli ultimi tre mesi l’angelo ha preso a bordo ogni anima che voleva salirci, senza nessuna opposizione. Perciò io, che ero in quel momento rivolto al tratto di mare in cui sfociano le acque del Tevere, fui benevolmente accolto da lui. L’angelo ha ora di nuovo rivolto le sue ali verso quella foce, perché si raccolgono sempre in quel luogo le anime che non dovranno scendere al fiume Acheronte. Dissi allora io: «Se le nuove leggi dell’aldilà non ti hanno privato della memoria, o della facoltà di cantare rime d’amore, con cui riuscivi ad alleviare tutti i miei dispiaceri, ti prego di consolare un poco con una canzone la mia anima, che, giunta fino a questo punto insieme al suo corpo, si è tanto affaticata!» Amor che ne la mente mi ragiona cominciò ad intonare allora Casella, con tanta dolcezza che ancora adesso posso sentirla dentro di me. Il mio maestro, io e tutte le anime che si trovavano con Casella, sembravano così felicemente rapiti da quel canto, come se la loro mente non fosse attraversata da nessun altro pensiero.

Ma ecco che riappare Catone, con la sua inflessibilità, a ricordare loro che il compito è quello di andare a purificarsi. Tanta è la vergogna per il loro essere stati ad indugiare, che corrono via veloci verso la base della montagna e i nostri due eroi non sono da meno.

12danteelanavedelleanimedorgallerycassell1890_zpsd7c42cd9-807x1024.jpgL’angelo con Dante in ginocchio

Il secondo canto sin da subito presenta delle caratteristiche che poi troveremo inserite all’interno dell’intera cantica: 

  • la precisazione astrologica
  • la condizione psicologica dell’incertezza
  • il rapporto tra passato e presente

La precisazione astrologica è fondamentale non tanto per il dettato, quanto per sottolineare il concetto temporale (assente completamente nell’Inferno, come lo sarà nel Paradiso) perché la purificazione è un percorso, ed è un percorso che anche figurativamente avviene in uno spazio “immaginabile” realmente e quindi soggetto alle variazioni temporali;

Miniatura del secondo canto

La condizione dell’incertezza è tipica di queste anime, a detonare una fragilità interiore. Non è un caso che esse, come dice Casella, debbano aspettare un “tempo” deciso da Dio per imbarcarsi verso il Purgatorio e non è altrettanto un caso il fatto che esse, per rafforzarsi debbano intonare il salmo In exitu Isräel de Aegypto che Dante nel Convivio aveva definito anagogico, il cui sovrasenso è quello di liberarsi dalla situazione di peccato per ritrovarsi nella libertà della beatitudine;

Salvator Dalì: La navicella dell’angelo nocchiero

Il terzo è quello di Casella, il cui gesto ci ricorda il VI libro dell’Eneide, quando Enea per tre volte tenta inutilmente di abbracciare Anchise, che ci illustra come in questa cantica il “ruolo” dell’amicizia sia fondamentale. Ma ci dice anche come, in questa “sospensione” del secondo regno l’elemento storico combatta con l’elemento presente e come il primo spesso non permetta alle anime dei purganti di vedere fino a fondo il proprio bene.

Canto III
Antipurgatorio

Spiaggia
(Spiriti negligenti – I° schiera: scomunicati)

Gli spiriti negligenti

Avvegna che la subitana fuga
dispergesse color per la campagna,
rivolti al monte ove ragion ne fruga,
i’ mi ristrinsi a la fida compagna:

e come sare’ io sanza lui corso?
chi m’avria tratto su per la montagna?
El mi parea da sé stesso rimorso:
o dignitosa coscïenza e netta,
come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta,
che l’onestade ad ogn’atto dismaga,
la mente mia, che prima era ristretta, 
lo ’ntento rallargò, sì come vaga,
e diedi ’l viso mio incontr’al poggio
che ’nverso ’l ciel più alto si dislaga.
Lo sol, che dietro fiammeggiava roggio,
rotto m’era dinanzi a la figura,
ch’avëa in me de’ suoi raggi l’appoggio.
Io mi volsi dallato con paura
d’essere abbandonato, quand’io vidi
solo dinanzi a me la terra oscura;
e ’l mio conforto: «Perché pur diffidi?»,
a dir mi cominciò tutto rivolto;
«non credi tu me teco e ch’io ti guidi?

Vespero è già colà dov’è sepolto
lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ ha, e da Brandizio è tolto.
Ora, se innanzi a me nulla s’aombra,
non ti maravigliar più che d’i cieli
che l’uno a l’altro raggio non ingombra.
A sofferir tormenti, caldi e geli
simili corpi la Virtù dispone
che, come fa, non vuol ch’a noi si sveli.
Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria;

e disïar vedeste sanza frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch’etternalmente è dato lor per lutto:
io dico d’Aristotile e di Plato
e di molt’altri»; e qui chinò la fronte,
e più non disse, e rimase turbato.
Noi divenimmo intanto a piè del monte;
quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.
Tra Lerice e Turbìa la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
«Or chi sa da qual man la costa cala»,
disse ’l maestro mio fermando ’l passo,
«sì che possa salir chi va sanz’ala?».
E mentre ch’e’ tenendo ’l viso basso
essaminava del cammin la mente,
e io mirava suso intorno al sasso,
da man sinistra m’apparì una gente
d’anime, che movieno i piè ver’ noi,
e non pareva, sì venïan lente.
«Leva», diss’io, «maestro, li occhi tuoi:
ecco di qua chi ne darà consiglio,
se tu da te medesmo aver nol puoi».
Guardò allora, e con libero piglio
rispuose: «Andiamo in là, ch’ei vegnon piano;
e tu ferma la spene, dolce figlio».
Ancora era quel popol di lontano,
i’ dico dopo i nostri mille passi,
quanto un buon gittator trarria con mano,
quando si strinser tutti ai duri massi
de l’alta ripa, e stetter fermi e stretti
com’a guardar, chi va dubbiando, stassi.
«O ben finiti, o già spiriti eletti»,
Virgilio incominciò, «per quella pace
ch’i’ credo che per voi tutti s’aspetti,
ditene dove la montagna giace,
sì che possibil sia l’andare in suso;
ché perder tempo a chi più sa più spiace».
Come le pecorelle escon del chiuso
a una, a due, a tre, e l’altre stanno
timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;
e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,
addossandosi a lei, s’ella s’arresta,
semplici e quete, e lo ’mperché non sanno;

sì vid’io muovere a venir la testa
di quella mandra fortunata allotta,
pudica in faccia e ne l’andare onesta.
Come color dinanzi vider rotta
la luce in terra dal mio destro canto,
sì che l’ombra era da me a la grotta,
restaro, e trasser sé in dietro alquanto,
e tutti li altri che venieno appresso,
non sappiendo ’l perché, fenno altrettanto.
«Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete;
per che ’l lume del sole in terra è fesso.
Non vi maravigliate, ma credete
che non sanza virtù che da ciel vegna
cerchi di soverchiar questa parete».
Così ’l maestro; e quella gente degna
«Tornate», disse, «intrate innanzi dunque»,
coi dossi de le man faccendo insegna.

Dante e Manfredi 

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.

Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza».

Illustrazione che mostra l’incontro tra Dante e Manfredi

Sebbene l’improvvisa fuga avesse fatto disperdere tutte le anime per la pianura circostante, in direzione di quel monte dove la giustizia divina ci purifica con adeguate punizioni, io riuscii a riunirmi alla mia fidata guida: come avrei potuto correre senza di lui? chi mi avrebbe condotto su per la montagna? Virgilio sembrava si rimproverasse da sé, per la debolezza mostrata: oh coscienza limpida e piena di dignità, quanto amaro ti può apparire ogni tuo minimo errore! Quando i suoi piedi rallentarono il passo, terminando la fuga, che toglie dignità ad ogni azione, la mia mente, che prima era concentrata su un unico pensiero, allargò il proprio orizzonte, spinta dal desidero di nuove conoscenze, e rivolsi quindi lo sguardo verso il monte, che si slanciava alto, più della spiaggia circostante, verso il cielo. Il sole, che splendeva rosso mie spalle, aveva i suoi raggi interrotti davanti alla mia figura, trovando in me un ostacolo. Mi volsi di lato con la paura di trovarmi solo, abbandonato, quando vidi proiettata in terra davanti a me la mia sola ombra; Virgilio mi confortò: «Perché non hai fiducia in me?» cominciò a dirmi, premuroso nei miei confronti; «Credi che non sarò al tuo fianco e che non ti guiderò? La sera è ormai giunta là dove si trova sepolto il corpo dentro al quale potevo anch’io creare un ombra; ora il mio corpo è a Napoli, prima era a Brindisi. Quindi se davanti a me non vedi nessuna ombra, non provare più sorpresa di quanta tu possa provarne per il fatto che i cieli non impediscono l’uno all’altro il passaggio dei raggi solari. A sentire l’effetto del tormento causato dal caldo e dal freddo, questi corpi sono sono preparati dalla potenza di Dio, che non vuole mai che venga a noi rivelato come riesca a fare ciò. Solo un pazzo può sperare che la ragione umana possa comprendere la logica divina, la quale tiene in tre distinte persone una unica sostanza. Uomini, cercate di accontentarvi dei fatti, senza pretendere di conoscere anche i motivi; perché, se aveste potuto conoscere tutto, Maria non avrebbe dovuto partorire il figlio di dio; e avreste dovuto vedere, continuare a desiderare la conoscenza senza alcun successo, uomini di un tale ingegno che, fosse stato possibile, avrebbero sicuramente potuto soddisfare il loro desiderio, che si è invece trasformato nella loro eterna pena. sto parlando di Aristotele e di Platone e di molti altri.» Detto questo chinò il capo, non disse più nulla ed apparve turbato. Nel frattempo eravamo giunti ai piedi del monte; ci trovammo di fronte una parete tanto ripida che le gambe si sarebbero stancate inutilmente nel tentativo di scalarla. Il più selvaggio ed il più ripido pendio sulla costa tra Lerici e La Turbie, è in confronto a quella rupe una agevole ed ampia scalinata. «Chi può sapere ora da che parte diventa meno rigido il pendio», disse la mia guida fermandosi pensieroso, «così che possa salire al monte anche chi non può volare?» Nel frattempo che, tenendo bassa la propria testa, lui rifletteva su un possibile percorso ed io osservavo la parte alta di quel monte, alla mia sinistra mi apparve una folla di anime che muovevano i propri piedi verso di noi, pur sembrando ferme, tanto lentamente procedevano. Dissi a Virgilio: «Maestro, solleva il tuo sguardo: ecco arrivare qualcuno che potrà indicarci la via per salire, se tu non riesci a trovarla da solo.» Virgilio vide il gruppo di anime e, con espressione libera da preoccupazioni, rispose: «Andiamo noi là da loro, perché esse procedono troppo lente; e tu rafforza la speranza, caro figliolo.» Quella folla di anime ara ancora lontana da noi, anche dopo che eravamo avanzati verso loro di molti passi, per una distanza pari a quella che un buon tiratore può coprire con un sasso, quando le vidi stringersi tutte introno alle dure rocce di quell’alto pendio, e stare immobili e vicine, come si sofferma a guardarsi in giro chi procede incerto sulla via da seguire. «Oh anime morte in grazia di Dio, spiriti ormai eletti», cominciò a dire Virgilio, «in nome di quella pace che credo tutti voi vi aspettiate di ottenere, indicateci dove la montagna diviene meno ripida, e rende quindi possibile la sua scalata; perché a chi ha più conoscenza più dispiace perdere tempo.» Come le pecorelle escono dall’ovile una, a due, a tre per volta, e le altre stanno ferme, timorose, tenendo il muso e lo sguardo a terra; e ciò che fa la prima lo fanno anche le altre, stringendosi intorno a lei se lei si arresta, docili e serene, senza sapere il perché delle proprie azioni; così vidi io una anima muoversi la prima linea di quella mandria fortunata, di quella folla fortunata, umile nell’espressione del volto e decorosa nell’andatura. Non appena le prime anime videro interrotta in terra la luce del sole alla mia destra, formando un’ombra che dal mio corpo arrivava fino alla roccia, si fermarono ed indietreggiarono un poco, e tutte le altre che procedevano dietro di loro fecero altrettanto, non sapendo la motivazione di quel gesto. «Senza che voi me lo dobbiate domandare, vi rivelo che questo che vedete è un corpo in carne ed ossa; e perciò la luce del sole viene interrotta sul terreno. Non vi meravigliate, ma credete al fatto che è con l’aiuto di un potere divino che cerchiamo di scalare questa parete.» Così Virgilio spiegò loro la situazione; e quella folle di anime elette disse «Tornate indietro se volete salire sul monte», facendo segno con il dorso della mano. Uno di loro cominciò quindi a dire: «Chiunque tu sia, che hai intrapreso questo cammino, rivolgi a me lo sguardo e cerca di ricordare se mi hai mai visto quand’ero in vita.» Io rivolsi il mio sguardo verso di lui e lo guardai attentamente: era biondo, bello e dall’aspetto legante, ma il viso era sfigurato da colpo di spada aveva diviso in due una delle sue sopracciglia. Quando ebbi umilmente rinunciato al tentativo di riconoscerlo, lui mi disse: «Guarda allora»; e mi mostrò una ferita che aveva nella parte alta del petto. Proseguì quindi sorridendo: «Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza; e perciò ti prego, quando tornerai nel mondo dei vivi, di andare dalla mia bella figlia, madre dei due re di Sicilia e di Aragona, a raccontarle la mia vera storia, se viene raccontata un’altra versione. Dopo che il mio corpo subì queste due ferite mortali, io affidai la mia anima, piangendo per il pentimento, a Dio, lui che è sempre disposto a perdonare. I peccati che commisi in vita furono orribili; ma l’infinità bontà di Dio ha delle braccia tanto larghe che abbraccia chiunque si rivolga a lei, perdona chiunque si penta realmente. Se il vescovo di Cosenza, che fu mandato in cerca del mio corpo da papa Clemente dopo la mia morte, avesse ben compreso questo aspetto di Dio, le ossa del mio corpo si troverebbero ancora all’estremità del ponte presso Benevento, custodite dal quel pesante mucchio di pietre che le ricopriva. Ora stanno senza sepoltura, le bagna la pioggia e le smuove il vento, fuori dai confini del mio regno, presso il fiume Liri, là dove il vescovo le portò con una processione a candele spente. La loro scomunica non può comunque evitare la possibilità che possa tornare l’eterno amore di dio, fintanto che c’è anche la minima speranza. Tuttavia, è comunque vero che chi muore dopo essere stato cacciato dalla Santa Sede, scomunicato, anche se si pente sul punto di morte, prima di poter entrare nel purgatorio dovrà aspettare un tempo pari a trenta volte il periodo in cui si è ostinato a vivere nel peccato, a meno che tale sentenza non venga ridotta grazie alle preghiere pronunciate per lui da persone buone. Adesso che sai la mia storia, vedi se riesci ad accontentarmi, rivelando alla mia buona figlia Costanza che mi hai visto qui e non all’inferno, ed anche che mi viene ancora vietata l’ascesa; perché noi anime del purgatorio possiamo ottenere molto dalle preghiere dei vivi.»

Re Manfredi di Svevia

Il canto terzo inizia al punto in cui si era interrotto il secondo: a seguito del rimprovero di Catone, tutte si disperdono, colte in fallo per aver indugiato nell’ascoltare il canto di Casella. Non è un caso che tra di essi vi sia anche Virgilio, che, in quanto simbolo della “ragione”, avrebbe dovuto sin da subito non partecipare a quel momento di piacere laico. Ma proprio perché nessun passo in Dante si presenta senza sotto-testo, capiamo che nell’indugiare anche del poeta latino, il nostro abbia voluto sottolineare l’insufficienza della ragione nell’atto della purificazione. Anche essa deve “subire” un percorso iniziatico, in cui accompagnerà il suo discepolo fin che Dio lo desidera. L’insufficienza è sottolineata d’altra parte teologicamente attraverso due momenti conseguenti, ma al contempo diversi: la consapevolezza del fallo compiuto da parte di Virgilio e l’accorgersi da parte di Dante della propria ombra (elemento che diverrà topico nell’intera cantica, svolgendosi in un luogo e in un tempo transuente). In questi due passi Virgilio legge l’impossibilità di una cultura laica (qui rappresentata da Platone ed Aristotele) di raggiungere la verità. Essa non può essere capita “razionalmente”, perché solo attraverso il mistero della fede si può comprendere come le anime infernali o purgatoriali possano sentire il caldo, il freddo o provare dolore fisico, pur essendo incorporee (non proiettano ombra), così come si può comprendere l’incarnazione di Dio.

Costanza d’Altavilla

Il terzo canto ci presenta, inoltre, il primo grande personaggio della seconda cantica, Manfredi di Svevia, figlio del famoso Federigo II e padre di Costanza d’Altavilla, madre a sua volta del re di Sicilia (Federico) e di quello d’Aragona (Giacomo). Lui è insieme a una turba di uomini che camminando in senso inverso a Dante, si spaventano vedendo che il suo corpo non fa trapassare la luce. La similitudine dantesca è “ripresa” da quella evangelica: sono infatti paragonate a pecorelle, che si muovono, senza un motivo, all’unisono (il vero motivo è l’espiazione per tutti uguale). 

Dante nel presentarcelo si destreggia con estrema capacità tra il giudizio negativo della Chiesa e il favore popolare di cui godeva:

  • attraverso le parole di Manfredi stesso: Orribil furon li peccati miei
  • la descrizione del volto biondo era e bello e di gentile aspetto

Ma ancora più importante è il giudizio teologico che Dante sottolinea: quello che conta non è il giudizio della Chiesa, che, per quanto ispirato da Dio, è prodotto da uomini, ma ciò che l’uomo stesso prova in interiore animi, anche se provato un solo attimo prima di morire. Allora Dio saprà valutare la sincerità di un affido alle sua mani e per questo sarà degno di essere perdonato.

Canto IV
Antipurgatorio

I° Balzo
(Spiriti negligenti – II° schiera: pigri a pentirsi)

Da quando Dante ha parlando con Manfredi, con una lunga circonlocuzione, l’autore ci dice che erano passate circa tre ore e al passare delle quali viene mostrato ai due pellegrini il passaggio per salire; è veramente difficile inerpicarsi per quel sentiero incuneato tra le rocce, che obbliga ad una grande fatica sottolineata dal verbo “carpando” ad indicare che sale carponi dietro la sua guida; spossato, col volto verso l’alto non vede altro che roccia e vedendo il suo compagno continuare a salire, Dante teme di rimanere solo, ma sarà proprio la sua guida a spronarlo fino a raggiungere il primo balzo. 

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Luca Signorelli: Canto IV (Duomo di Orvieto)

Arrivati sin qui i due danno uno sguardo all’orizzonte e Dante si meraviglia vedendo il sole percorrere il cielo da sinistra: Virgilio ribadisce che il Purgatorio, nell’emisfero australe, è in posizione opposta a Gerusalemme (emisfero boreale): non muta il corso dell’astro solare ma il punto di osservazione. Quindi il poeta, provato dalla fatica nel percorrere il primo tratto vuole sapere se sempre così sarà il tragitto. Virgilio gli risponde che il percorso sarà sempre meno difficile, finché completamente libero sciolto, si renderà conto d’aver superato anche questo tragitto che porta alla libertà di Dio. Allora si percepisce una voce che ironicamente lo apostrofa sulla sua stanchezza: è Belacqua che sta scontando la sua pena dietro un masso, raccolta, la testa tra le ginocchia, mostrando la fatica che farebbe a compiere qualsiasi gesto. Quest’ultimo gli rivela che dovrà aspettare, per muoversi da quel balzo tanti anni quanto furono quelli della sua vita, a meno che il percorso non venga affrettato dalle preghiere dei viventi rivolte al Signore.

Canto V
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – III° schiera: morti di morte violenta)

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Dante e le anime degli spirito morti assassinati

Io era già da quell’ombre partito,
e seguitava l’orme del mio duca,
quando di retro a me, drizzando ’l dito,
una gridò: «Ve’ che non par che luca
lo raggio da sinistra a quel di sotto,
e come vivo par che si conduca!».
Li occhi rivolsi al suon di questo motto,
e vidile guardar per maraviglia
pur me, pur me, e ’l lume ch’era rotto.
«Perché l’animo tuo tanto s’impiglia»,
disse ’l maestro, «che l’andare allenti?
che ti fa ciò che quivi si pispiglia?
Vien dietro a me, e lascia dir le genti:
sta come torre ferma, che non crolla
già mai la cima per soffiar di venti;
ché sempre l’omo in cui pensier rampolla
sovra pensier, da sé dilunga il segno,
perché la foga l’un de l’altro insolla»
.

Che potea io ridir, se non «Io vegno»?
Dissilo, alquanto del color consperso
che fa l’uom di perdon talvolta degno.
E ’ntanto per la costa di traverso
venivan genti innanzi a noi un poco,
cantando Miserere a verso a verso.
Quando s’accorser ch’i’ non dava loco
per lo mio corpo al trapassar d’i raggi,
mutar lor canto in un «oh!» lungo e roco;
e due di loro, in forma di messaggi,
corsero incontr’a noi e dimandarne:
«Di vostra condizion fatene saggi».
E ’l mio maestro: «Voi potete andarne
e ritrarre a color che vi mandaro
che ’l corpo di costui è vera carne.
Se per veder la sua ombra restaro,
com’io avviso, assai è lor risposto:
fàccianli onore, ed esser può lor caro».
Vapori accesi non vid’io sì tosto
di prima notte mai fender sereno,
né, sol calando, nuvole d’agosto,
che color non tornasser suso in meno;
e, giunti là, con li altri a noi dier volta,
come schiera che scorre sanza freno.
«Questa gente che preme a noi è molta,
e vegnonti a pregar», disse ’l poeta:
«però pur va, e in andando ascolta».
«O anima che vai per esser lieta
con quelle membra con le quai nascesti»,
venian gridando, «un poco il passo queta.
Guarda s’alcun di noi unqua vedesti,
sì che di lui di là novella porti:
deh, perché vai? deh, perché non t’arresti?
Noi fummo tutti già per forza morti,
e peccatori infino a l’ultima ora;
quivi lume del ciel ne fece accorti
sì che, pentendo e perdonando, fora
di vita uscimmo a Dio pacificati,
che del disio di sé veder n’accora».
E io: «Perché ne’ vostri visi guati,
non riconosco alcun; ma s’a voi piace
cosa ch’io possa, spiriti ben nati,
voi dite, e io farò per quella pace
che, dietro a’ piedi di sì fatta guida,
di mondo in mondo cercar mi si face».
E uno incominciò: «Ciascun si fida
del beneficio tuo sanza giurarlo,
pur che ’l voler nonpossa non ricida.
Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,
ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,
che tu mi sie di tuoi prieghi cortese
in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.

Quindi fu’ io; ma li profondi fóri
ond’uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,
là dov’io più sicuro esser credea:
quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,
quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.
Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco
m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco».
Poi disse un altro: «Deh, se quel disio
si compia che ti tragge a l’alto monte,
con buona pïetate aiuta il mio!

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Buonconte di Montefeltro

Io fui di Montefeltro, io son Bonconte;
Giovanna o altri non ha di me cura;
per ch’io vo tra costor con bassa fronte».
E io a lui: «Qual forza o qual ventura
ti travïò sì fuor di Campaldino,
che non si seppe mai tua sepultura?».
«Oh!», rispuos’elli, «a piè del Casentino
traversa un’acqua c’ ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino.
Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria fini’, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola.
Io dirò vero, e tu ’l ridì tra ’ vivi:
l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno
gridava: “O tu del ciel, perché mi privi?
Tu te ne porti di costui l’etterno
per una lagrimetta che ’l mi toglie;
ma io farò de l’altro altro governo!”.
Ben sai come ne l’aere si raccoglie
quell’umido vapor che in acqua riede,
tosto che sale dove ’l freddo il coglie.
Giunse quel mal voler che pur mal chiede
con lo ’ntelletto, e mosse il fummo e ’l vento
per la virtù che sua natura diede.
Indi la valle, come ’l dì fu spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento,
sì che ’l pregno aere in acqua si converse;
la pioggia cadde, e a’ fossati venne
di lei ciò che la terra non sofferse;
e come ai rivi grandi si convenne,
ver’ lo fiume real tanto veloce
si ruinò, che nulla la ritenne.
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce
ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;
voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse».
«Deh, quando tu sarai tornato al mondo
e riposato de la lunga via»,
seguitò ‘l terzo spirito al secondo,
«ricorditi di me, che son la Pia;
Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ’nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma».

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Mi ero ormai allontanato da quelle anime negligenti (che si pentirono sul punto di morte), e stavo seguendo da vicino la mia guida quando da dietro a me, puntandomi contro il dito, uno spirito gridò: “Guardate, sembra che non risplendano i raggi del sole alla sinistra di quello che cammina più in basso, e sembra quindi che si muova come un uomo vivo!” Al suono di queste parole rivolsi indietro lo sguardo, e vidi che le anime mi guardavano fisso con stupore, guardavano me e la luce che veniva interrotta dal mio corpo. “Perché la tua mente si distrae tanto”, disse il mio maestro Virgilio, “da farti rallentare il passo? Che ti importa di ciò che viene bisbigliato dietro a te? Continua a seguirmi e lascia parlare le altre persone: devi comportarti come la torre immobile, che non inclina mai la propria cima al soffiare dei venti; poiché sempre l’uomo i cui pensieri crescono l’uno sopra l’altro, finisce per allontanare da sé il suo fine ultimo, dato che la forza del nuovo pensiero è tale da indebolire il precedente.” Che cosa potevo rispondergli se non “Ti seguo”? Lo dissi arrossendo alquanto, cosa che a volte favorisce l’uomo nell’ottenere il perdono. Nel frattempo, trasversalmente lungo il versante del monte, vidi procedere delle anime un poco più in alto rispetto a noi, cantando a versetti alternati ‘Miserere’.Quando si accorsero che io non facevo attraversare il mio corpo dai raggi del sole, mutarono il loro canto in un grido di stupore lungo e roco; due di loro, scelti come messaggeri, ci corsero incontro e chiesero: “Rendeteci per piacere nota la vostra condizione.” Ed il mio maestro rispose: “Potete tornare e riferire a chi vi hanno mandato da noi che il corpo di questo uomo è di carne viva. Se si sono fermati per aver visto la sua ombra, come credo che sia, allora hanno ora una risposta soddisfacente: gli rendano onore, può essere vantaggioso per loro.”Non vidi mai stelle cadenti attraversare così velocemente il cielo nelle prime ore della notte, né, al calare del sole, saettare lampi tra le nuvole d’Agosto, quanto lo furono quelle due anime nel tornare su; e, raggiunto il loro gruppo, ritornarono verso di noi insieme a tutti gli altri, come una folle che corre senza controllo. “La folla di anime che si avvicina è molto numerosa, e viene per pregarti”, mi disse Virgilio: “continua però a salire, ed ascolta le loro parole camminando.” “Oh anima che sali verso la beatitudine con quello stesso corpo con cui sei nata in terra”, gridavano venendoci incontro, “rallenta un poco il passo. Guarda se riesci a riconoscere qualcuno di noi, così da poterne portare notizia nel mondo dei vivi: perché continui a camminare? Perché non ti fermi un poco? Noi anime siamo state tutte strappate alla vita con la violenza, e fino all’ultima ora siamo rimaste nel peccato; in quell’ultimo istante però la Grazia divina ci mostrò il male in cui vivevamo, così che, pentendoci dei nostri peccati e perdonando i nostri uccisori, lasciammo la vita in pace con Dio, che adesso ci affligge con il desiderio di vederlo.” Gli dissi io: “Per quanto guardi con attenzione i vostri volti, non riesco a riconoscere nessuno; ma se, anime destinate alla beatitudine, avete piacere che io faccia qualcosa per voi, nel limite delle mie possibilità, ditemelo, ed io lo farò in nome di quella pace che, al seguito di una tale guida, mi si permette di cercare passando da un regno all’altro.” Incominciò allora uno a parlare: “Ognuno di noi ha fiducia che farai il bene che ci hai promesso, senza bisogno che lo giuri, a meno che non ti risulti impossibile attuare la tua volontà. Perciò io (Iacopo del Cassero), che parlo da solo prima degli altri, ti prego, se mai vedi quel paese che si estende tra la Romagna ed il regno di Napoli, governato da Carlo d’Angiò, che tu sia così cortese da chiedere ai miei parenti e conoscenti di Fano, di adorare Dio per me, così che io venga aiutato ad espiare i miei gravi peccati. Nacqui in quel territorio; ma le profonde ferite da cui sgorgò il sangue nel quale soggiornava la mia anima, mi furono inferte nel territorio di Padova, là dove avevo creduto di poter vivere più al sicuro: me le fece infliggere il signore d’Este, che mi aveva in odio molto più di quanto ne avesse diritto. Ma se fossi fuggito in direzione di Mira, quando venni raggiunto dai miei assassini ad Oriago, mi troverei ora ancora tra i vivi. Corsi invece verso la palude del Brenta, e le canne di bambù ed il fango mi intralciarono la fuga fino a farmi cadere; e vidi perciò lì il mio sangue formare un lago sulla terra. Disse poi un’altra anima: “Possa realizzarsi il tuo desiderio di pace che ti spinge a salire l’alto monte, abbi la pietà di aiutarmi a realizzare il mio di desiderio! Il mio casato è dei Montefeltro, il mio nome è Buonconte; la mia vedova Giovanna e gli altri miei parenti non si curarono di pregare per me; perciò io per la tristezza cammino tra queste anime a testa bassa.” Gli chiesi allora: “Quale forza maggiore o quale caso fortuito ti trascinò così lontano da Campaldino, che non seppe mai il luogo della tua sepoltura?” Mi rispose l’anima: “Appena a sud del Casentino scorre un fiume chiamato Archiano, che nasce nell’Appennino sopra l’eremo di Camaldoli. Nel punto in cui questo fiume perde il suo nome, gettandosi nell’Arno, giunsi con una grave ferita alla gola, mentre fuggivo a piedi e bagnavo la pianura con il mio sangue. In quel punto persi la vista e la parola, morii; l’ultima mia parola fu il nome di Maria, poi lì caddi, ed abbandonai il mio corpo. Ti dirò la verità su quello che accadde in seguito, tu diffondila poi nel mondo dei vivi: l’Angelo di Dio mi prese con sé, mentre l’inviato dell’Inferno gridava: “Creatura del cielo, perché me lo porti via? Tu ti prendi l’anima di costui solo per una lacrimuccia, che quindi me ne priva; tratterò allora diversamente l’altra parte di costui, il suo copro!” Sai bene che nell’aria si raccoglie in nubi il vapore, che ritorna poi nuovamente acqua non appena raggiunge gli strati più freddi dell’atmosfera. Quel demonio unì la sua volontà malvagia, che aspira solo al male, all’intelligenza, ed agitò il vapore acqueo ed il vento, utilizzando i poteri propri dalla sua natura diabolica. Non appena il giorno fu terminato, coprì quindi tutta la valle, da Pratomagno alla catena dell’Appennino, di nebbia; e riempì il cielo che la sovrasta di denso vapore tanto che l’aria satura di umidità di tramutò in acqua; cadde la pioggia e fluì poi verso i fossati la parte di acqua che la terra non fu in grado di assorbire; ed appena si riversò nei fiumi più grandi, corse poi verso l’Arno, che sfocia nel mare, tanto velocemente che nessun ostacolo riuscì a trattenerla. Il mio corpo congelato per il freddo fu trovato dall’Archiano in piena alla sua foce; che lo spinse poi nell’Arno e fu così sciolta la croce che avevo formato sul petto con le braccia sul punto di morte; la corrente mi fece rotolare contro le sponde ed il letto del fiume, che infine mi sommerse con i suoi detriti.” “Quando sari tornato nel mondo dei vivi e ti sarai riposato del lungo viaggio”, disse un terzo spirito dopo le parole del secondo, “ricordati di far pregare anche per me, che sono la Pia; nacqui a Siena e morii nella Maremma: come sa bene colui che prima, sposandomi, mi aveva messo al dito il suo anello.”

pia-de-tolomei-viene-portata-in-maremma-orig.jpegPompeo Molmenti: Pia de’ Tolomei condotta in Maremma

Il canto ripete al suo inizio il topos letterario della presenza corporea dantesca: ma tale ripetizione non è peregrina, perché la morte violenta attraverso l’assassinio, ricorda loro il momento o la situazione i cui è stata tolta ogni dignità ai loro corpi. Dapprima, contrariamente ai penitenti del canto precedente, le anime di questo balzo che traversano perpendicolarmente il  dorso della montagna, senza timore due di esse si avvicinano a Dante e Virgilio per conoscere la natura dell’autore fiorentino; sentitola da Virgilio, corrono a riferirla ai loro compagni e quindi tutti insieme s’ apprestano perché sperano, essendo Dante vivo, che una volta rientrato nel mondo possa riferire a chi vuol loro bene di pregare per far sì che le loro anime raggiungano prima la salvezza eterna. L’urgenza è diversa dalla lentezza degli scomunicati, l’ieraticità di Manfredi contrasta con la vigoria dei due guerrieri della battaglia di Campaldino e non importa che essi siano di partito avverso: Iacopo del Cassero  e Buonconte di Montefeltro. 

Il primo di cui Dante non cita il nome ma la cui attribuzione è certa è Iacopo del Cassero, del partito Guelfo. Nato a Fano, fu chiamato come potestà a Bologna, e lì, come reggitore della città si oppose al tentativo degli Estensi di entrare in conflitto in contrasto con Firenze; quando venne chiamato come podestà a Milano i sicari dei signori ferraresi lo raggiunsero a Padova e fecero strazio del suo corpo. Quello che colpisce e la meditazione sulla morte. Se al posto di passare in territorio patavino avesse scelto il territorio veneziano non sarebbe stato raggiunto. il pensiero di Iacopo si accentra quasi sulla casualità della morte, ribadendo come il destino imperscrutabile colpisce quando Dio vuole. A contrasto con la sua figura abbiamo Buonconte di Montefeltro in questo caso ghibellino. Dante domanda che fine abbia fatto il suo corpo, che non viene numerato né tra i vinti né tra i vincitori della battaglia di Campaldino. Anche lui troviamo mentre corre, completamente insanguinato, a piedi della fonte dell’Arno, dove lascia la sua vita nel nome di Maria. Appena morto scendono dal cielo il diavolo e l’angelo per contendersi l’anima di Buonconte che raccolta da Dio, provoca l’ira del diavolo a cui rimane far scempio del corpo. Con il suo potere fa scoppaire un tremendo temporale che ingrossando le acque del fiume lo rapisce sciogliendo le braccia poste in segno di croce.

Io terzo personaggio si staglia da solo: 7 versi di cui i primi due di cortesia, rivolti a Dante, il terzo d’intermezzo dell’autore, e quindi nome e luogo di nascita. Come muore? Lo sa chi l’ha sposata con un anello di gemme.

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Gustave Doré: Pia dei Tolomei

Pia dei Tolomei non ci dice quasi niente: eppure la sua forza poetica è proprio nell’ellissi; poeti, pittori, si sono ispirati alla sua figura che si staglia rispetto agli due penitenti, corporei e sanguinolenti, con la grazia di un suono femminile la cui preoccupazione, da donna è che Dante possa star bene: Un accenno alla sua richiesta di preghiere “ricordati di me, che son la Pia”, ad indicare forse che nella terra non è rimasto nessuno a conservarne la memoria; dalle sue parole emerge una pudicizia tale da ritenerla una, dopo quella di Francesca, figure femminili più importanti.

Canto VI
Antipurgatorio
II° Balzo
(Spiriti negligenti – III° schiera: morti di morte violenta)

L’inizio del canto ci mostra le anime che premono intorno a Dante, chiedendogli di intercedere, una volta tornato in terra, per “affrettare” la loro salvezza. Ciò determina un dubbio al pellegrino: Virgilio in un suo passo dell’Eneide aveva affermato desine fata deum sperare precando (non sperare che i decreti del cielo possano essere piegati dalla preghiera); in ultima analisi il compito che Dante si sta assumendo di riferire ai restanti in terra di pregare per i loro congiunti, non è inutile, visto che Dio ha già loro stabilito il tempo di permanenza nel Purgatorio? La risposa è certamente teologica: la preghiera non piega la volontà di Dio, anzi la rafforza; se il poeta latino aveva affermato un’altra verità dipendeva dal fatto che le preghiere non erano rivolte al vero Dio. Tuttavia soltanto Beatrice potrà illuminarlo completamente. 

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Cesare Zocchi: Dante e Virgilio incontrano Sordello (1896)

Quindi riprendono il cammino, cercando di camminare il più possibile finché è giorno. Infine vedono un’anima che può indicare loro la via: Virgilio gli si avvicina, ma il penitente vuol sapere chi gli sta rivolgendo la domanda, e non appena Virgilio pronuncia il nome di Mantova, egli si alza, per abbracciarlo, dichiarando di essere Sordello da Goito. Tale gesto sta alla base della “digressione”, come la chiama lo stesso Dante, sulla situazione italiana:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!

Quell’anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è vòta?
Sanz’esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.

O Alberto tedesco ch’abbandoni
costei ch’è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s’ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m’è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l’abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l’accorger nostro scisso?
Ché le città d’Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l’arco;
ma il popol tuo l’ ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace e tu con senno!
S’io dico ’l ver, l’effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l’antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch’a mezzo novembre
non giugne quel che tu d’ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato, e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma.

Ahi serva Italia, luogo di dolore, nave senza timoniere nella gran tempesta, non più signora di province, ma bordello! Quell’anima nobile fu così svelta soltanto per aver sentito risuonare il dolce nome della sua città, a festeggiare qui il suo concittadino; e invece i tuoi abitanti non stanno in te senza farsi guerra, anzi si dilaniano fra loro persino quelli che abitano rinchiusi da un unico muro e un unico fossato. Guarda misera, le tue marine lungo i litorali, e poi guarda nel tuo stesso seno, per vedere se alcuna parte di te vive in pace. A che valse che Giustiniano abbia restaurato per te il freno delle leggi, se la sella manca del cavaliere? La vergogna sarebbe minore se non vi fossero tali leggi. Ahi gente della Chiesa che dovresti essere obbediente al volere di Dio e lasciare che Cesare stia sulla sella, se comprendi nel senso giusto ciò che Dio ordina, guarda come questa bestia selvaggia è diventata ribelle perché non è governata dagli sproni dell’imperatore, dopo che tu prendesti le redini. O Albergo d’Asburgo che abbandoni l’Italia che è diventata ribelle e selvaggia, mentre dovresti guidarla cavalcandola, la giusta punizione scenda dal cielo contro la tua stirpe, e sia tremenda e chiara, in modo tale che il tuo successore ne abbia terrore! Perché tu e tuo padre avete sopportato, distolti dalla cupidigia dei domini tedeschi, che il giardino dell’Impero restasse abbandonato. Veni a vedere le lotte fra Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, uomo che non ti prendi cura: i primi già abbattuti e i secondi col timore di esserlo! Vieni, o crudele, vieni e guarda la tribolazione dei tuoi seguaci, e cura i loro mali; e vedrai com’è in decadenza Santafiora! Vieni a vedere la tua Roma che, abbondonata dal marito piange e chiama giorno e notte: «Cesare, perché non i guidi?». Vieni a vedere quanto si ama la gente! e se non ti muove nessuna pietà di noi, vieni a vergognarti della tua fama. E se mi è permesso, o sommo Cristo, che fosti crocefisso per noi sulla terra, la tua giustizia si è rivolta altrove? Oppure nella profondità della tua mente provvidenziale prepari un qualche bene, assolutamente disgiunto dalla nostra capacità di capire. Perché tutte le città d’Italia sono tutte piene di tiranni, e ogni villano che si destreggia nei partiti, diviene un Marcello. Firenze mia, puoi ben essere contenta di questa mia digressione che non ti riguarda, grazie all’opera del tuo popolo che si ingegna a ben operare. Molti hanno la giustizia nel cuore, ma si manifesta tardi, perché non scocchi la freccia del giudizio senza ponderazione; ma il tuo popolo l’ha in punta di labbra. Molti rifiutano il peso delle cariche pubbliche; ma il tuo popolo pronto senza esser chiamato risponde e grida: «Accetto la grave responsabilità!». Ora rallegrati, perché tu hai ben di che rallegrarti: tu che sei ricca, che vivi in pace, che hai in giudizio! I fatti mostrano chiaramente se io dico la verità. Atene e Sparta, che crearono le antiche leggi e furono tanto civili, fornirono per quanto riguarda io vivere civile un ben magro esempio a paragone di te, che emani provvedimenti così sottili, che quello che tu crei ad ottobre non giunge a metà novembre. Quante volte, nel tempo che ricordi, tu hai cambiato leggi, moneta, uffici pubblici e consuetudini, e hai rinnovato i tuoi cittadini! E se ben ricordi e hai ancora discernimento, potrai paragonare te a quell’inferma che non riesce a trovare una posizione riposante nel letto, ma cerca rivoltandosi di trovare sollievo al suo dolore.

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Miniatura di Sordello da Goito

La digressione politica s’inserisce, a livello strutturale, al pari degli altri VI canti delle tre cantiche: se nell’Inferno è lo stesso Ciacco a descrivere in modo negativo la situazione di Firenze, qui è la presenza di Sordello a far sì che Dante rifletta sulla situazione italiana, mentre nel Paradiso sarà Giustiniano a disegnare la storia ed il ruolo dell’Impero.

Il brano, posto a chiusura del canto e che interrompe la narrazione del viaggio purgatoriale, nasce da un atteggiamento di fratellanza che fa riflettere Dante sulle divisioni interne della nostra penisola. Essa è paragonata all’inizio per contrasto: ostello, ma di dolore; una nave senza timoniere, non padrona ma bordello. La personificazione della patria serve a sottolineare la mancanza di pace all’interno di essa e, addirittura, nelle stesse città. Essa stessa, su invito del poeta (anafora di vieni a veder / vieni crudele) sembra rendersi conto  della desolazione che l’attraversa dalle sue coste alle città dell’interno. La situazione attuale  Dante l’analizza attraverso un ragionamento sillogistico:

A: l’Italia è senza pace;
B: manca una guida;
C: l’Italia è preda all’anarchia

Dante riprende il suo concetto politico secondo il quale la mancanza di una guida politica e di una guida spirituale producono soltanto una situazione in cui la volontà di ogni città di prevalere sulle altre genera guerre e perdita morale. Il problema è che se Arrigo d’Asburgo si disinteressa completamente della sorte dell’Italia, è la stessa Chiesa che pur non cavalcando il cavallo Italia, prendendolo per le briglie, non permette che nessuno ci salga. Lo stupore per la situazione lo induce addirittura a rivolgersi a Dio, quasi la situazione attuale dipenda da un suo disegno imperscrutabile. L’indifferenza dell’Imperatore è per Dante imperdonabile, tanto da meritarsi la maledizione dello stesso pellegrino.

Così come l’apostrofe era cominciata nel nome dell’Italia, ora si chiude nel nome di Firenze; in quest’ultima parte Dante usa l’antifrasi, sfiorando il sarcasmo; quando il poeta afferma Molti rifiutan lo comune incarco; / ma il popol tuo solicito risponde / sanza chiamare, e grida: «I’ mi sobbarco!», probabilmente fa riferimento a Baldo d’Aguglione che non permise il rientro degli esuli bianchi (1311). Firenze è malata, ci dice il poeta, una malattia che non le dà posa e la rende, tra le città d’Italia, la meno stabile e la più vile. 

Canto VII
Antipurgatorio
II° Balzo

(Spiriti negligenti – IV° schiera: principi negligenti)

Il canto riprende il racconto là dove esso si era interrotto a causa della digressione. All’abbraccio affettuoso tra i due concittadini, segue ora un vero gesto di venerazione, non appena Sordello viene a sapere che di fronte a sé ha il poeta latino. Quindi, dopo aver spiegato ai due pellegrini che, dopo il tramonto del sole, poiché sta giungendo la notte, non si può più procedere, li conduce in una valle fiorita dove mostra loro vari principi. 

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Gustave Dorè: Dante nella valletta fiorita

Canto VIII
Antipurgatorio
Valletta fiorita
(Spiriti negligenti – IV° schiera: principi negligenti)

E’ l’ora del tramonto:

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ‘ntenerisce il core
lo dì c’ han detto ai dolci amici addio;
e che lo novo peregrin d’amore
punge, se ode squilla di lontano
che paia il giorno pianger che si more
;

Era l’ora in cui il ricordo fa rivolgere il pensiero ai naviganti al giorno in cui dissero addio e intenerisce il loro cuore e in cui fa soffrire d’amore colui che da poco si è messo in viaggio, non appena sente il suono lontano di una campana che sembra piangere il giorno che finisce;

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Miniatura che accompagna l’VIII canto

Questo è uno dei maggiori incipit con cui Dante apre un canto: il rapporto tra momento divino e momento umano si fa intenso, struggente, velando il tutto di malinconia. E’ quasi sera, è il momento della riflessione, a livello religioso è quello della Compieta, quando liturgicamente si recita l’ultima preghiera, prima di andare a dormire, ma è questo anche il momento in cui Dante viene a contatto con la tentazione, sentimento cui i grandi principi, in quanto reggitori in terra,  potevano cadere, tentazione colpita dalla spada divina. 

Il canto prosegue descrivendo come i principi all’interno di questa valletta, rivolti ad oriente, intonino un inno Te lucis ante… (terminum). Quindi Dante invita il lettore a porre attenzione a ciò che succede: mentre i principi, pallidi e umili, innalzano lo sguardo ad osservare il cielo, dall’alto scendono due angeli, vestiti di verde, uno si mette sopra le anime, l’altro dalla parte opposta a comprendere tutta la valletta. Sordello preannuncia che tra poco sbucherà un serpente (simbolo delle tentazioni). Mentre Dante, un po’ spaventato, scende nella valletta, vede uno che lo guarda intensamente, quindi s’avvicina e, nonostante la luce si affievoliva sempre più, riconosce in lui Nino Visconti, signore del giudicato di Gallura. Al sapere che Dante è ancora vivo, sia Sordello che il giudice, si ritraggono un poco e chiama presso di sé un altro penitente, Corrado Malaspina. Nino Visconti chiederà a Dante, tornato in terra, di rivolgersi alla figlia Giovanna, perché alla moglie, andata in sposa ad un Este, non importa più nulla di lui. Dante volge gli occhi al cielo e vede tre stelle (fede speranza e carità) prendere il posto delle quattro presenti nella spiaggia purgatoriale e mentre Virgilio gli spiega la loro presenza in cielo, Sordello li avvisa dell’arrivo di una biscia; Dante non vede in che modo i due angeli si siano mossi ma al loro alzarsi, la biscia sparisce, mentre gli stessi servitori di Dio si alzano in cielo.   

Segue l’incontro con Corrado:

L’ombra che s’era al giudice raccolta
quando chiamò, per tutto quello assalto
punto non fu da me guardare sciolta.
«Se la lucerna che ti mena in alto
truovi nel tuo arbitrio tanta cera
quant’è mestiere infino al sommo smalto»,
cominciò ella, «se novella vera
di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.
Fui chiamato Currado Malaspina;
non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina».
«Oh!», diss’io lui, «per li vostri paesi
già mai non fui; ma dove si dimora
per tutta Europa ch’ei non sien palesi?
La fama che la vostra casa onora,
grida i segnori e grida la contrada,
sì che ne sa chi non vi fu ancora;
e io vi giuro, s’io di sopra vada,
che vostra gente onrata non si sfregia
del pregio de la borsa e de la spada.
Uso e natura sì la privilegia,
che, perché il capo reo il mondo torca,
sola va dritta e ’l mal cammin dispregia».
Ed elli: «Or va; che ’l sol non si ricorca
sette volte nel letto che ’l Montone
con tutti e quattro i piè cuopre e inforca,
che cotesta cortese oppinïone
ti fia chiavata in mezzo de la testa
con maggior chiovi che d’altrui sermone,
se corso di giudicio non s’arresta».

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Lo spirito che si era avvicinato al giudice quando venne chiamato, non smise mai di guardarmi per tutta la durata dell’assalto e cominciò a dirmi: «Possa la luce divina che ti conduce in alto trovare nella tua volontà tanta perseveranza che ti conduca al paradiso terrestre, se sai qualche notizia veritiera della Val di Magra o dei paesi vicini, dimmelo, che fui un tempo famoso presso quei luoghi. Mi chiamarono Corrado Malaspina, non il vecchio, da cui discendo: verso la mia famiglia provai l’amore che qui si purifica. Gli risposi: «Purtroppo, non sono mai stato in quei luoghi, ma c’è un posto in tutta Europa dove non siano conosciuti? La fama che onora la vostra casata viene detta a gran voce sia dei signori che dei luoghi tanto da essere nota anche da chi non vi è mai stato; ed io vi giuro, possa giungere nella sommità del monte, che la vostra onorata famiglia non cessa di gloriarsi per la liberalità e per l’esercizio delle armi. La tradizione e l’indole la privilegiano al punto che, sebbene il capo della Chiesa tradisca il suo compito, essa cammina sola nel giusto, disprezzando il cattivo cammino». E lui: «Ora va’: il sole non tornerà sette volte nella costellazione dell’Ariete (non passeranno sette anni), che questa cortese opinione ti si fisserà nella mente con maggiori argomentazioni, sempre che non venga meno il giudizio divino». 

L’incontro con Corrado Malaspina è particolarmente importante perché rappresenta il primo caso di una “profezia” rovesciata: se infatti sinora, nel percorso infernale, tutte le profezie sottolineavano il concetto di dolore e solitudine, in questo caso, invece, si evince come il futuro dell’esule Dante possa diventare meno drammatico grazie all’ospitalità di Franceschino Malaspina, cugino di Corrado II qui presente nel Purgatorio, nei territori della Lunigiana, uno dei luoghi percorsi dall’autore fiorentino. 

Canto IX
Antipurgatorio
Valletta fiorita – Porta del Purgatorio

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Francesco Scaramuzza: L’aquila trasporta Dante in sogno

Il IX canto è una canto dottrinale, ma anche nodale nella narrazione della seconda cantica: infatti è il canto dove si entra nel Purgatorio vero e proprio, dove Dante stesso, per arrivare alla sua soglia deve librarsi, cioè distaccarsi ancor più di quanto ha fatto nell’Antipurgatorio dalle tentazioni. Il canto inizia infatti con Dante, che alle 9 di sera, (la terza ora secondo il computo dantesco) s’addormenta. Mentre dorme sogna che un aquila d’oro lo afferri per gli artigli e lo sollevi fino alla sfera del fuoco. L’ardore di tale luogo lo fa svegliare all’improvviso; il sogno spaventa Dante ma Virgilio lo rassicura dicendogli che all’alba era giunta Santa Lucia che, preso tra le braccia, lo aveva condotto fino alla porta del Purgatorio. Salendo per uno stretto spiraglio Dante si ritrova di fronte a tre scalini, il primo bianco come il marmo, il secondo scuro come pietra, il terzo rosso come il sangue; sull’ultimo è posto l’angelo con una spada fiammeggiante con la quale segna sette P sulla fronte di Dante. Alla richiesta di Dante di farlo entrare, l’angelo prende un mazzo con due chiavi, una d’oro e una d’argento; quindi apre la porta i cui cardini stridono. L’angelo raccomanda ai visitatori di non voltarsi mai.

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William Blake: Dante tra le braccia di Santa Lucia

E’ evidente che il canto è pieno di simbologie a partire dall’aquila, simbolo sia della grazia che della giustizia divina), per poi; quindi i tre gradini di cui il primo, bianco, rappresenta la contritio cordis, cioè l’esame di coscienza; il secondo, di colore scuro, la confessio oris, la vera e propria confessione verbale; il terzo, rosso fiammeggiante la satisfactio operis, la penitenza da espiare con le opere. Le sette P indicano i sette peccati capitali (superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia); la durezza della porta, la forza morale per espiare i peccati.

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Gustave Dorè: L’angelo sulla porta del Purgatorio

Canto X
I cornice – I superbi

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Gabriele Dell’Otto: Illustrazione per il canto X

Superata la porta Dante e Virgilio devono procedere in tortuoso percorso che li conduce nella prima cornice. Qui essi si trovano di fronte, lungo la parete interna del monte, alla rappresentazione in bassorilievo di scene di umiltà: l’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria; Davide re che, per onorare Dio, si umilia danzando con la veste alzata, ricevendo lo sguardo riprovevole della moglie; Traiano che, mentre sta per partire in guerra, riceve la preghiera di una vedova e, per ottemperare al suo desiderio di vendetta per la morte del figlio, rimanda la partenza. Mentre Dante guarda le immagini, Virgilio lo avvisa di una moltitudine che avanza esasperatamente lenta, gravata da pesi che non permettono loro di alzare lo sguardo: sono i superbi.

Canto XI
I cornice – I superbi

f319003cb8f93b16f70186ea8a0d888d.jpegMiniatura per il canto XI

Il canto si apre con una preghiera:

«O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,
laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.
Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.
Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.
Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.
E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.
Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.
Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro».
Così a sé e noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,
disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.
Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’ hanno al voler buona radice?
Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.
«Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,
mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala;
ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco».
Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;
ma fu detto: «A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.
E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,
cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.
Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,
ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.
E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra’ morti».
Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ’mpaccia,
e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.

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Dante s’inchina per parlare con i superbi

«Oh!», diss’io lui, «non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?».
«Frate», diss’elli, «più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!
Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ‘pappo’ e ’l ‘dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.
Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,
ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.

La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba».
E io a lui: «Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?».
«Quelli è», rispuose, «Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.
Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso».
E io: «Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende, 
se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?».
«Quando vivea più glorïoso», disse,
«liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;
e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena. 
Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.
Quest’opera li tolse quei confini».

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La prima cornice

«Padre nostro, che stai, nei cieli, non perché in essi rinchiuso, ma per più amore che nutri nei confronti delle tue prime creazioni che hai posto lassù, siano lodati il tuo nome e la tua potenza da ogni creatura, come è giusto che si renda grazia al tuo dolce spirito. Arrivi a noi la pace del tuo regno, perché noi non riusciremmo a conquistarla da soli, anche con tutti i nostri sforzi, se non fosse lei a venire da noi. Come i tuoi Angeli sacrificano a Te la loro volontà cantando “osanna” in tuo onore, lo stesso facciano gli uomini con la propria di volontà. Dacci oggi il nostro cibo quotidiano, senza il quale, per questo difficile deserto, chi più si affatica per procedere, più andrà invece indietro. E come noi perdoniamo a tutti il male che ci è stato fatto, tu perdona noi, misericordiosamente, e non giudicarci sulla base dei nostri meriti. La nostra virtù, che così facilmente si lascia abbattere, non metterla alla prova con l’antico nemico Satana, ma liberaci invece da lui, che la spinge al male. Questa ultima preghiera, Signore caro, non la facciamo per noi, non avendone più bisogno, ma per coloro che sono rimasti sulla terra.» Così quelle anime, pregando per la loro e per la nostra buona sorte, andavano sotto il peso, simile a quello di un incubo notturno, tormentate in misura diversa, a seconda del peso sostenuto, tutte disposte in cerchio e stremate, su per la prima cornice, purificandosi dalla sporcizia del mondo. Se nell’Aldilà si parla sempre a nostro favore, di qua, sulla terra, cosa si potrebbe fare e dire a loro favore, da parte di quelli che hanno una predisposizione a fare del bene? E’ necessario aiutarli a lavarsi da quelle macchie che si portarono dietro dal mondo dei vivi, così che, puri e leggeri, possano uscire e volare fino ai cieli stellati. «Possano la giustizia e la misericordia liberarvi presto, così che possiate volare ed innalzarvi in cielo come è vostro desiderio e mostrateci da quale parte si può andare più velocemente verso la scala; e se c’è più di un passaggio, indicateci quello che meno ripido; perché costui, che procede con me, per il peso di quel corpo umano che porta ancora con sé, fatica, nonostante la sua buona volontà, a salire.» Le loro parole, in risposta a quelle pronunciate dalla mia guida, non fu chiaro da chi provenissero; ma fu detto: «Verso destra, lungo la parete del monte, venite insieme a noi, e potrete raggiungere quel passaggio attraverso il quale può salire anche una persona viva. E se non me lo impedisse questo sasso che piega la mia testa di uomo superbo, per cui mi conviene procedere con la testa bassa, costui, che è ancora in vita e non ha detto ancora il suo nome, guarderei in viso, per vedere se lo conosco, e per renderlo pietoso per questo peso che mi opprime. Da vivo sono stato italiano, figlio di un nobile toscano: mio padre si chiamava Guglielmo degli Aldobrandeschi: non so se abbiate mai sentito il suo nome. L’origine nobile e le imprese virtuose dei miei antenati, mi resero tanto arrogante che, non pensando che siamo tutti figli di una stessa madre, ebbi a tal punto ogni uomo in disprezzo da morirne, come sanno gli abitanti di Siena e come a Campagnatico (dove aveva un castello) sa ogni bambino. Io sono Omberto, e la superbia non ha recato danno solo a me, ma a tutti i miei parenti che sono stati trascinati da lei nella rovina. E’ necessario che io porti questo peso per espiare la colpa della mia superbia tutto quel tempo finché Dio ne sia soddisfatto, poiché non l’ho fatto tra i vivi, qui tra i morti».  Per ascoltarlo meglio, abbassai anch’io la testa; ed uno di loro, non quello che aveva parlato, si contorse sotto il peso che ne impediva i movimenti, mi vide, mi riconobbe e mi chiamò, tenendo con fatica gli occhi fissi su di me, che procedevo ora insieme a loro anche io piegato in avanti. «Oh!», chiesi io a lui, «non sei tu forse Oderisi, motivo di gloria per Gubbio e per quell’arte, la miniatura, che a Parigi viene chiamata enluminer?» «Fratello», rispose allora lui, «sono molto più colorate le miniature dipinte da Franco Bolognese; l’onore ora è tutto suo e il mio solo in parte. Certamente sono sarei stato così generoso quando ero in vita, per il gran desiderio d’eccellere su ogni altro cui tesi ogni sforzo. Per tale superbia si paga qui la punizione; e certamente non sarei qui, in Purgatorio, se non fosse che, pur potendo continuare a vivere peccaminosamente (nella superbia) mi rivolsi a Dio. O vanità della potenza umana, come dura poco la gloria (il verde sulla cima) a meno che non è seguita da un’età di decadenza! Credette Cimabue di dominare nel campo della pittura, ma ora Giotto ha la gloria, tanto che a sua fama si pè oscurata. Così Cavalcanti ha tolto la gloria a Guinizelli, è forse è già nato chi prenderà loro il posto. Non è nient’altro il rumore della fama mondana che un fiato di vento, che ora viene da una parte, ora dall’altra e cambia nome, perché cambia direzione, Che fama avrai tu, se muori vecchio o muori prima di pronunciare “pappa” e “dindi”, prima che passino mille anni? che è uno tempo infinitesimale rispetto al tempo eterno, come lo sbattere di ciglia rispetto al cerchio del cielo più lento. La fama di quell’anima che procede poco davanti a me, risuonò per tutta la Toscana; adesso a malapena di lui a Siena si bisbiglia, dov’era signora quando si distrusse l’arroganza fiorentina, allora così superba, quanto ora puttana. La fama umana è come il colore dell’erba che sparisce allo stesso modo in cui appare, ed è lo stesso sole che la fa nascere a toglierle il colore.» Ed io a lui: «La verità che mi hai detto, mi incoraggia verso la buona umiltà e mitiga in me il grande male della superbia, ma dimmi chi è colui di cui prima mi parlavi?». Rispose: «Quello è Provenzano Salviati ed è qui perché ha valuto ridurre Siena tutta in suo potere. E’ andato e così continua ad andare, senza mai riposarsi, dal giorno in cui morì; deve pagare tale debito chi ha osato troppo al di là del lecito». Chiesi allora io: “Se uno spirito aspetta prima di pentirsi l’ultimo istante della propria vita, allora dovrà aspettare nell’Antipurgatorio e non potrà salire su, qui dove ci troviamo, a meno di non essere aiutato dalle preghiere di persone in grazia di Dio, un periodo di tempo pari alla propria vita; allora come è possibile che a lui sia stato concesso di salire?» Mi rispose: «Quando Provenzano era al punto più glorioso”, mi rispose «per propria volontà si mise in mezzo alla Piazza del Campo a Siena, senza alcuna vergogna; e lì si umiliò fino a far tremare ogni vena dentro di sé, chiedendo l’elemosina per far uscire un suo amico dalla prigione di re Carlo d’Angiò (pagandone il riscatto). Non ti dirò altro, e so che le mie parole ti appariranno oscure; ma non passerà gran tempo che i tuoi concittadini di daranno la possibilità d’intendere ciò che ho detto con chiarezza. Fu quest’opera che lo liberò dai confini dell’Antipurgatorio.

Il canto “personifica” il peccato di superbia, anche a livello icastico: le anime con un masso che grava loro il capo imparano l’umiltà, guardando in terra; sembra un ulteriore punizione il non poter guardare quell’uomo vivo che in linea con loro si abbassa per cercare di vedere chi gli rivolge la parola. A farlo sono due, ma i protagonisti sono tre, ognuno di loro “superbo” in un campo: il primo, Ombero Aldobrandeshi per nobiltà, il secondo Oderisi da Gubbio, nell’arte, il terzo Provenzale Salviati per il politico. Il primo è dimentico della comune natura da cui origina l’essere umano; il secondo disquisisce sulla vanità della gloria umana e sul tempo legata ad essa – appare qui una piccola carrellata legata alla pittura e alla letteratura: su quest’ultima si è accusato lo stesso Dante di “superbia”, facendo riferimento a se stesso come successore, nella gloria letteraria, di Cavalcanti; tuttavia se inserissimo tale affermazione all’interno della vanità della gloria in relazione al tempo, e quindi alla fine della stessa anche per lui, cessa tale accusa – l’ultimo ci viene presentato da Oderisi stesso ed è il senese Provenzano Salviati, la cui condizione suscita curiosità. Infatti il politico non è costretto a trascorrere l’inizio della penitenza nell’Antipurgatorio, ma comincia la sua redenzione dal peccato proprio nella prima cornice. A condurlo lì è un azione, descritta in modo esemplare, in cui il superbo reggitore di Siena, si umilia a Piazza del Campo a chiedere l’elemosina per pagare l’esoso riscatto di Carlo d’Angiò, che teneva prigioniero un suo amico.

2. Amos Cassioli.jpgAmos Cassioli: Provenzano Salviati a Piazza del Campo (1873)

Canto XII
I cornice – I superbi

Salita alla seconda cornice

E’ un canto senza protagonisti: se all’inizio Dante aveva visto ed ammirato le figure parietali, poste sulle pareti della montagna, ora invece è colpito dai bassorilievi incisi sul pavimento dove invece vengono rappresentati esempi di superbia punita: s’inizia da Lucifero, poi i giganti, tra cui Nembrot, costruttore della torre di Babele, Niobe che si era anteposta a Latona come madre prolifica, Aracne che aveva sfidato nella tessitura Atene ed altri ancora. Camminando ed osservando verso il basso, Dante e Virgilio giungono ai piedi di una scala, più stretta ma più agevole. Essa è custodita da un angelo, con un abito bianco il quale cancella dalla fronte del poeta fiorentino una P con un soffio di piuma. Nell’atto dell’uscita i beati intonano Beati i poveri di spirito ed è in quel momento che Virgilio gli comunica che una P gli è stata cancellata mentre Dante va cercandola con la mano.

Canto XIII
II cornice – Gli invidiosi

Dante entra così nella seconda cornice dove incontra il secondo peccato più grave, dopo la superbia (ricordiamo che la successione dei peccati è posta in modo contrario a quella dell’Inferno). La parete della montagna, questa volta è livida e grigia, proprio color di roccia; a colpire i dannati questa volta è l’organo dell’udito: infatti voci si diffondono nell’aria con esempi di amore caritatevole come Maria Maddalena nelle nozze di Cana, Oreste e Pilade, disposti a morire uno al posto dell’altro, Gesù che invita ad amare i nemici. La loro pena, d’altra parte non permette di vedere (invideo), infatti hanno le palpebre cucite con il fil di ferro. Di fronte alla loro situazione Dante si sente in imbarazzo, perché vedente risultava non veduto. Per cui su invito di Virgilio, domanda concisamente se vi sia un latino: 

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Gustave Doré: Dante e Virgilio nella cornice degli invidiosi

SAPIA

«Io fui sanese», rispuose, «e con questi
altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.
Savia non fui, avvegna che Sapìa
fossi chiamata, e fui de li altrui danni
più lieta assai che di ventura mia.
E perché tu non creda ch’io t’inganni,
odi s’i’ fui, com’io ti dico, folle,
già discendendo l’arco d’i miei anni.
Eran li cittadin miei presso a Colle
in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.
Rotti fuor quivi e vòlti ne li amari
passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,
tanto ch’io volsi in sù l’ardita faccia,
gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”,
come fé ’l merlo per poca bonaccia.
Pace volli con Dio in su lo stremo
de la mia vita; e ancor non sarebbe
lo mio dover per penitenza scemo,
se ciò non fosse, ch’a memoria m’ebbe
Pier Pettinaio in sue sante orazioni,
a cui di me per caritate increbbe». 

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Adeodato Malatesta: Sapia (1839)

«Io fui senese», rispose, «e con questi purifico qui la mia colpevole vita, rivolgendo le lacrime a Dio affinché sia compassionevole (nei nostri confronti). Non fui saggia, sebbene fossi chiamata Sapìa e in vita godetti più dei danni altrui che delle mia sorte. E perché tu non creda che io non dica la verità, ascolta, come ti dico, se io non fui folle, quando ormai non ero più giovane. I miei cittadini erano scesi in campo contro gli avversari (fiorentini) in Colle Val d’Esla, ed io pregavo Dio di quello che poi effettivamente volle. Qui i senesi furono scossi e volti ad un’amara fuga, e vedendo la caccia (l’inseguimento dei vincitori), provai una gioia talmente grande da alzare il volto verso Dio e gridare “ormai non ho paura di Te”, proprio come fa il merlo, rallegrandosi per poca bonaccia. Volli fare pace con Dio alla fine della mia vita; e non avrei ancora scontato il debito nei suoi confronti con la penitenza se non si fosse ricordato di me Pier Pettinaio, che ebbe nei miei confronti compassione per pura carità.

Non cessa la perplessità critica su questa figura di donna senese: alcuni la reputano tracotante e spocchiosa, altri invece loquace ed affabile; ancora polemica, altri consapevole della colpa e vogliosa d’espiazione. Ma cosa rende Sapìa un personaggio non chiaro, la cui psicologia lascia sospesi? Indubbiamente il timbro militaresco al centro della sua narrazione, quasi godesse nel vedere lo schieramento dei suoi concittadini, la loro rotta, la fuga arricchita dalla caccia; in seguito la maledizione ottenuta per intercessione divina (sembra dire), col volto in aria ed espressione soddisfatta e la chiusa popolaresca con la rappresentazione del merlo. Ma ad attenuare c’è quell’alone di santità di Pier Pettinaio. Eppure sembra che l’antico vizio non sia completamente sparito quando chiede a Dante chi sia e perché, libero di vedere, va ad investigare sui dannati, sembra proprio che invidi la sua posizione.   

Canto XIV
II cornice – Gli invidiosi

Il canto continua nella seconda cornice, con le parole di un purgante che rivolgendosi ad un compagno chiede chi sia costui che, ancora vivo, ad occhi aperti varca il purgatorio, e l’altro, di rimando gli dice di domandarglielo con cortesia, per ottenere una gentile risposta. Il primo è Guido del Duca, colui che per tutto il canto prenderà la parola, l’altro è Rinieri da Calboli. A far partire la requisitoria contro i toscani è Dante stesso che, non rivelandogli sin da subito il nome ma riferendosi al fiume Arno, fa sì che il penitente parta per criticare aspramente le genti che vivono là dove il fiume trascorre; tale “cattiveria” sarà punita da un nipote, Fulceri,  del dannato Rinieri, là con Guido, che sarà potestà nella città di Firenze, portando morte e distruzione tra i ghibellini e i guelfi rimasti in città (si riferisce al 1303). La crudeltà di Fulceri sarà a sua volta motivo per denigrare le popolazioni emiliane, le cui casate hanno dimenticato oggi il valore della cortesia, che sembra essersi fermato appunto nella figura di Rinieri.

724b797d8c830d9fd2fff3ccd2607c34.jpegMiniatura medievale che illustra Dante con Guido del Duca e Rinieri da Calboli 

Canto XV
II cornice – Salita alla III cornice – III cornice (Iracondi)

E’ un canto privo di personaggi o per meglio dire senza penitenti con cui dialogare. Egli sì, percepisce dei suoni, ma sono inni che completano e chiudono la cornice degli invidiosi. Quindi, dapprima colpito dalla luce del sole, poi dal bagliore di un angelo, invitato da quest’ultimo, comincia a salire una scala, più agevole della precedente. Mentre salgono la scala Virgilio, ma solo in parte,  risolve un dubbio che scuote Dante dal colloquio con Guido del Duca, quando gli disse “o gente umana, perché poni il core / là v’è mestier di consorte divieto?” (“o uomini, perché vi attaccate a beni che necessariamente portano con sé l’impossibilità di fruirne in comune?”). Virgilio gli risponde che più sono gli uomini più sarà impossibile condividere i beni terreni che risulteranno sempre minori, ma se si rivolgesse lo sguardo all’unico bene indivisibile, cioè l’amore per Dio e quindi la carità tale problema non esisterebbe. Ma aggiunge che tale risposta è certamente limitativa perché solo la sapienza di Beatrice potrà rispondergli in modo più adeguato. Quindi Dante stesso viene quasi travolto da immagini estatiche che preannunciano i penitenti della terza cornice; sono immagini di mansuetudine come Maria che rimprovera con dolcezza Gesù che si era attardato con i dottori del Tempio; Pisistrato che di fronte a un ragazzo che aveva baciato sua figlia in strada e verso cui la moglie chiede una punizione esemplare risponde “e se trattassimo così chi ci ama, come dovremmo trattare chi ci vuol male?” ed ancora Santo Stefano che picchiato fino alla morte steso in terra, alza gli occhi al cielo per chiedere il pardono nei loro confronti. Risvegliatosi da quella sensazione un po’ svagata con cui aveva “vissuto” le immagini, Dante e Virgilio, giunti alla terza cornice, vengono immersi in una densa nube scura.

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Canto XVI
III cornice (Iracondi)

E’ questo il canto di Marco Lombardo:

Buio d’inferno e di notte privata
d’ogne pianeto, sotto pover cielo,
quant’esser può di nuvol tenebrata,
non fece al viso mio sì grosso velo
come quel fummo ch’ivi ci coperse,
né a sentir di così aspro pelo,
che l’occhio stare aperto non sofferse;
onde la scorta mia saputa e fida
mi s’accostò e l’omero m’offerse.
Sì come cieco va dietro a sua guida
per non smarrirsi e per non dar di cozzo
in cosa che ’l molesti, o forse ancida,
m’andava io per l’aere amaro e sozzo,
ascoltando il mio duca che diceva
pur: «Guarda che da me tu non sia mozzo».
Io sentia voci, e ciascuna pareva
pregar per pace e per misericordia
l’Agnel di Dio che le peccata leva.
Pur ‘Agnus Dei’ eran le loro essordia;
una parola in tutte era e un modo,
sì che parea tra esse ogne concordia.
«Quei sono spirti, maestro, ch’i’ odo?»,
diss’io. Ed elli a me: «Tu vero apprendi,
e d’iracundia van solvendo il nodo».
«Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi,
e di noi parli pur come se tue
partissi ancor lo tempo per calendi?».
Così per una voce detto fue;
onde ’l maestro mio disse: «Rispondi,
e domanda se quinci si va sùe».
E io: «O creatura che ti mondi
per tornar bella a colui che ti fece,
maraviglia udirai, se mi secondi».
«Io ti seguiterò quanto mi lece»,
rispuose; «e se veder fummo non lascia,
l’udir ci terrà giunti in quella vece».
Allora incominciai: «Con quella fascia
che la morte dissolve men vo suso,
e venni qui per l’infernale ambascia.
E se Dio m’ ha in sua grazia rinchiuso,
tanto che vuol ch’i’ veggia la sua corte
per modo tutto fuor del moderno uso,
non mi celar chi fosti anzi la morte,
ma dilmi, e dimmi s’i’ vo bene al varco;
e tue parole fier le nostre scorte»

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Gustave Doré: Dante e Virgilio incontrano Marco Lombardo

«Lombardo fui, e fu’ chiamato Marco;
del mondo seppi, e quel valore amai
al quale ha or ciascun disteso l’arco.
Per montar sù dirittamente vai».
Così rispuose, e soggiunse: «I’ ti prego
che per me prieghi quando sù sarai».
E io a lui: «Per fede mi ti lego
di far ciò che mi chiedi; ma io scoppio
dentro ad un dubbio, s’io non me ne spiego.

Prima era scempio, e ora è fatto doppio
ne la sentenza tua, che mi fa certo
qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio.
Lo mondo è ben così tutto diserto
d’ogne virtute, come tu mi sone,
e di malizia gravido e coverto;
ma priego che m’addite la cagione,
sì ch’i’ la veggia e ch’i’ la mostri altrui;
ché nel cielo uno, e un qua giù la pone».
Alto sospir, che duolo strinse in «uhi!»,
mise fuor prima; e poi cominciò: «Frate,
lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui.
Voi che vivete ogne cagion recate
pur suso al cielo, pur come se tutto
movesse seco di necessitate.
Se così fosse, in voi fora distrutto
libero arbitrio, e non fora giustizia
per ben letizia, e per male aver lutto.
Lo cielo i vostri movimenti inizia;
non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,
lume v’è dato a bene e a malizia,
e libero voler; che, se fatica
ne le prime battaglie col ciel dura,
poi vince tutto, se ben si notrica.
A maggior forza e a miglior natura
liberi soggiacete; e quella cria
la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura.
Però, se ’l mondo presente disvia,
in voi è la cagione, in voi si cheggia;
e io te ne sarò or vera spia.
Esce di mano a lui che la vagheggia
prima che sia, a guisa di fanciulla
che piangendo e ridendo pargoleggia,
l’anima semplicetta che sa nulla,
salvo che, mossa da lieto fattore,
volontier torna a ciò che la trastulla.
Di picciol bene in pria sente sapore;
quivi s’inganna, e dietro ad esso corre,
se guida o fren non torce suo amore.
Onde convenne legge per fren porre;
convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre.
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ‘l pastor che procede,
rugumar può, ma non ha l’unghie fesse;
per che la gente, che sua guida vede
pur a quel ben fedire ond’ella è ghiotta,
di quel si pasce, e più oltre non chiede.
Ben puoi veder che la mala condotta
è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,
e non natura che ’n voi sia corrotta.

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme:
se non mi credi, pon mente a la spiga,
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
In sul paese ch’Adice e Po riga,
solea valore e cortesia trovarsi,
prima che Federigo avesse briga;
or può sicuramente indi passarsi
per qualunque lasciasse, per vergogna,
di ragionar coi buoni o d’appressarsi.
Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna
l’antica età la nova, e par lor tardo
che Dio a miglior vita li ripogna:
Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo
Guido da Castel, che mei si noma,
francescamente, il semplice Lombardo.
Dì oggimai che la Chiesa di Roma,
per confondere in sé due reggimenti,
cade nel fango, e sé brutta e la soma».
«O Marco mio», diss’io, «bene argomenti;
e or discerno perché dal retaggio
li figli di Levì furono essenti.
Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio
di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?».
«O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta»,
rispuose a me; «ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.
Per altro sopranome io nol conosco,
s’io nol togliessi da sua figlia Gaia.
Dio sia con voi, ché più non vegno vosco.
Vedi l’albor che per lo fummo raia
già biancheggiare, e me convien partirmi
(l’angelo è ivi) prima ch’io li paia».
Così tornò, e più non volle udirmi.

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Scuola italiana: La III cornice

Mai il buio dell’inferno né una notte priva di qualunque stella, sotto un cielo senza luce, annerito quanto è possibile dalle nubi, pose davanti al mio viso un velo tanto scuro quanto fece quel fumo che ci avvolse nella terza cornice, né fu mai così sgradevole a sentirsi tanto che i miei occhi faticarono a restare aperti; perciò la mia attenta e fedele guida mi si accostò e mi offrì la sua spalla per condurmi. Così come un cieco va dietro alla sua guida per non perdersi e per non urtare violentemente contro qualcosa che possa fargli male, se non addirittura ucciderlo, allo stesso modo procedevo io attraverso quell’aria pungente e densa, ascoltando la mia guida, Virgilio, che mi avvertiva continuamente: «Stai attento a non allontanarti da me.» Sentivo delle voci intorno a me e ciascuna sembrava pregare per la pace e la misericordia l’agnello di Dio, che toglie i peccati dell’uomo. Tutte con ‘Agnus Dei’ iniziavano le loro preghiere; cantando tutti le stesse parole con la stessa intonazione, tanto che sembrava regnasse tra loro l’armonia. «Maestro, sono anime queste che sento cantare?», chiesi. Mi rispose Virgilio: «Tu credi il vero, sono anime e stanno espiando i loro peccati d’ira.» «Chi sei tu che attraversi il fumo che ci avvolge, e parli di noi come se tu dividessi ancora il tempo in mesi e giorni?» Queste parole furono pronunciate da una voce; per cui il mio maestro mi disse: «Rispondigli, e chiedigli anche se è per questa strada che si sale alla prossima cornice.» Dissi: «Oh anima che ti purifichi qui dei tuoi peccati per poter poi tornare completamente pura a Dio, che ti creò, sentirai qualcosa di incredibile se mi segui.» «Io ti seguirò per quanto mi è concesso farlo», rispose, «e se il fumo non mi lascia vedere dove vado, sarà l’udito a tenerci vicini, facendo le veci della vista.» Cominciai allora a dire: «Con quell’involucro dell’anima, che la morte poi distrugge, salgo verso il cielo, e sono giunto qui dopo aver attraversato le sofferenze dell’inferno. E se Dio mi ha accolto nella sua Grazia, tanto da volere che io veda la sua corte celeste in un modo completamente diverso da quello è solito, non nascondermi la tua identità, chi eri prima di morire, ma anzi dimmelo, e dimmi anche se procedo nella direzione giusta verso la prossima cornice; siano le tue parole la nostra scorta.» «Nacqui nell’Italia settentrionale ed il mio nome fu Marco; fui molto esperto delle regole del mondo ed amai sempre quel valore morale, la cortesia, al quale ormai nessuno tende più. Per salire alla prossima cornice continua a camminare dritto.» Così mi rispose ad aggiunse infine: «Ti chiedo di pregare Dio per me quando sarai in cielo.» E gli dissi allora io: «Ti prometto solennemente di fare ciò che mi chiedi; ma rischio ora di scoppiare per un grosso dubbio che mi attanaglia se non me ne sbarazzo subito. Prima era semplice, piccolo, adesso è diventato doppio dopo la tua affermazione, che mi conferma qui, come già altrove, la frase a cui accoppio la tua. Il mondo è certamente privo di ogni valore, come tu stesso mi hai detto, ed è invece invaso e pieno di ogni forma di malvagità; ma ti prego di indicarmi la ragione, la causa di ciò, così che io la possa conoscere e quindi spiegarli anche ad altri; perché alcuni la attribuiscono agli influssi celesti, altri alla semplice responsabilità umana.» Un profondo sospiro, che il dolore tramutò in un lamento, fu prima emesso dallo spirito; che poi cominciò a dire: «Fratello, il mondo è cieco e tu, con questa domanda, dimostri di provenire proprio da lì. Voi che siete ancora in vita attribuite la causa di ogni cosa solo e sempre al cielo, come se necessariamente il cielo muovendosi trascinasse tutto con sé. Se così fosse, in voi cesserebbe di esistere il libero arbitrio, e non sarebbe giusto ricevere un premio per il bene compiuto e una punizione per il male. Il cielo dà l’impulso iniziale alle vostre azioni; non proprio a tutte, ma, ammesso anche che siano tutte, vi è comunque sempre data la facoltà di distinguere il male dal bene, ed anche la libera volontà; la quale, se fatica nei primi momenti ad opporsi alle tendenze suggerite dal cielo, in seguito ha sempre la meglio, se viene ben coltivata. Ad una forza maggiore e ad una natura superiore a quella degli astri voi siete soggetti, pur essendo liberi; è quella che crea la vostra mente, su cui il cielo non può influire. Perciò, se il mondo abbandona la retta via, la causa è in voi, in voi deve essere ricercata; e te ne darò ora la vera dimostrazione. L’anima esce dalla mano di Dio, che la pensa prima ancora di farla esistere, come una bambina che con innocenza passa dal pianto al riso, completamente ignara di tutto, salvo che, provenendo dall’infinita gioia del suo creatore, si rivolge spontaneamente verso ciò che le dà gioia. Nei primi tempi l’anima fa esperienza di un bene di poca importanza; questo la trae in inganno, e così l’anima corre dietro ad esso, a meno che una guida o un freno non riescano a distogliere la sua attenzione. Per questo fu necessario istituire delle leggi per porre il freno; fu necessario creare l’autorità del re, che distinguesse almeno la torre della vera città (la Giustizia). Le leggi ci sono, ma chi si preoccupa di farle rispettare? Nessuno, poiché il pastore che conduce il gregge, può ruminare (riflettere) ma non ha le unghie tagliate in due (la capacità di distinguere il bene dal male); perciò le persone, che vedono la loro guida desiderare soltanto quei beni materiali di cui è tanto avida, si nutrono a loro volta di quelli, e non desiderano nient’altro. Puoi vedere chiaramente che la cattiva gestione del Papa è la causa prima che ha reso malvagio tutto il mondo, non lo è la parte corrotta della vostra natura umana. Roma, che rese buono il mondo, era solita avere due diversi soli ad illuminare l’una e l’altra strada, quella materiale e quella spirituale. Adesso uno dei due ha spento la luce dell’altro; il potere imperiale si è unito con quello spirituale, e così uniti a forza, è inevitabile che vadano entrambi male; poiché, così messi insieme, non si controllano a vicenda come dovrebbero: se non mi credi, pensa alla spiga, perché ogni pianta si riconosce dal suo seme (che è poi contenuto nel suo frutto). Nel territorio italiano bagnato dai fiumi Adige e Po, un tempo si trovavano facilmente cortesia e virtù, prima che l’imperatore Federico II subisse l’attacco della Chiesa; ora può in tutta sicurezza passare da lì qualunque persona che prima evitava, vergognandosi della propria malvagità, di parlare o di avere semplicemente a che fare con le persone oneste. Ci sono in verità ancora tre vecchi attraverso la cui persona il passato rimprovera aspramente il presente, ed ai quali sembra non arrivare mai il giorno della loro morte: Corrado da Palazzo, il buon Gherardo da Camino e Guido da Castello, che è meglio conosciuto, alla francese, come il semplice Lombardo. Puoi dunque ormai affermare che la Chiesa di Roma, per aver voluto unire in sé due diversi poteri, cade nel fango ed imbratta così sé stessa e tutto il suo carico.» «O Marco mio», dissi io allora, «dici il giusto: ed ora capisco perché furono esclusi delle eredità materiali i Leviti, i sacerdoti degli Ebrei. Ma chi è quel Gherardo cui ti riferisci parlando di quell’uomo saggio che è rimasto ancora in vita, esempio della generazione scomparsa, a rimprovero di questo secolo incivile?» «O le tue parole non mi sono chiare, oppure vuoi provocarmi», mi rispose; «dal momento che, da toscano quale sei, sembra che tu non sappia nulla del buon Gherardo. Io non lo conosco con nessun altro soprannome, a meno che non lo prenda da sua figlia Gaia. Vi saluto, che Dio sia con voi, perché non posso più venire insieme a voi. Vedi che il sole con i suoi raggi, che attraversano il fumo, rischiara ormai la cornice, e mi conviene quindi allontanarmi, l’Angelo del perdono è poco distante e non vorrei comparirgli davanti.» Detto questo tornò indietro e non volle più stare ad ascoltarmi.

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L’incipit del canto sembra quasi riportarci all’inferno: era dall’inizio del Purgatorio che non lo abbiamo più trovato, ma è un buio diverso, derivato da nubi meteorologiche sebbene denso tanto da dar fastidio agli occhi. In questo buio s’incontrano con Marco Lombardi ed è un incontro che ricorda quella di un altro grande protagonista, Federico degli Uberti. Lì era un “O Tosco che per la città del foco vivo ten vai così parlando onesto, piacciati di restare in questo loco.”, qui vi è quasi lo stessa domanda, la stessa lieta sorpresa d’incontrare un vivo, non dimenticando nè l’uno né l’altro, un po’ di supponenza e di alterigia: “Or tu chi se’ che ’l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi?. Ambedue rivolgono il loro sguardo alla loro “storia”: Montaperti per il dannato, il nord d’Italia per Marco. Ma chi è Marco Lombardo, che presenta se stesso con uno splendido chiasmo? Non sappiamo nulla di lui, ci dice qualcosa il Novellino; fu probabilmente un nobile uomo di corte, non certo ricco e sembra che sulla sua figura abbia messo molto se stesso e delle sue idee politiche. E’ infatti un canto politico, in cui Dante, partendo dal concetto di libero arbitrio arriva alla teoria dei due soli, espressa in modo compiuto nel De monarchia, attraverso un ragionamento fortemente logico: il libero arbitrio, lasciando l’uomo appunto libero di scegliere il bene o il male ha bisogno di una legge che lo guidi; la legge a sua volta ha bisogno di chi la fa rispettare, ma se a farla rispettare è una istituzione che ha altro compito, come la “giurisdizione” divina, la guida è fallace in quanto non mitigata da chi è deputato a tale compito, la giurisdizione terrena, cioè quella imperiale. E’ evidente che tale visione, certamente, retrograda rispetto ai cambiamenti italiani del ‘300, conduca ad una forma di nostalgia, ben espressa da Marco Lombardo verso l’esiguità del numero di chi conserva il concetto di cortesia rispetto alla malignità del presente.

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Rubens: Progne e Tereo

Canto XVII
III cornice (Iracondi) – Salita alla IV cornice (accidiosi)

Posto al centro dell’iter purgatoriale, questo canto funge la funzione che nell’Inferno aveva avuto il canto XI, per meglio dire quello di spiegazione della struttura morale che sottintende l’intera montagna purgatoriale.

Il canto si può dividere in tre momenti: 

vv. 1-39: mentre riemergono dalla nebbia degli iracondi, a Dante appaiono le visioni dell’iracondia punita. Esse sono tre:

  • Progne, mito ripreso dal Vi libro di Ovidio in cui si narra del re della Tracia, sposo appunto di Progne. Quando viene a trovare quest’ultima la sorella Filomena, Tereo se ne infiamma e cogliendo il momento opportuno, la violenta. Affinché non riveli nulla alla sorella le taglia la lingua, ma riuscendo a gesti a confidarsi, ambedue imbandiscono a Tereo le carni del figlioletto: Progne verrà trasformata in usignolo, Filomena in rondine e Terreo in upupa;
  • Aman, nella corte di Assuero, re persiano, è l’eunuco che ha il compito di trovare delle vergini da portare all’harem, per sostituire la sposa del re fuggita. Tra esse vi è Ester, che vive col cugino Mardocheo. Costui diviene intimo del re e scopre un complotto degli eunuchi, mentre quest’ultimi, su istigazione di Aman, vogliono processare i giudei che non s’inchinano al sovrano. Sarà proprio l’eunuco ad essere ucciso tramite crocifissione.
  • Amata, madre di Lavinia che si uccide perché non vuole che la figlia, già fidanzata a Turno, re dei Rutuli, andasse sposa ad Enea. 

Il secondo momento è racchiuso tra i vv. 40 – 69: riemergendo dall’oscurità, una luce che sovrasta la capacità visiva di Dante, lo invita a salire: è l’angelo della pace. Prima che giunga la notte, in cui, com’è noto, non si procede, i pellegrini giungono nel IV cerchio.

Vv. 70 – 139: comincia qui la terza parte del canto in cui Virgilio spiega la ripartizione purgatoriale a partire dal concetto dell’amore. Ed egli a partire dal peccato dell’accidia (l’amore del bene, insufficiente rispetto al dovere), spiega appunto cosa sia l’amore, insito in ogni uomo: naturale, quindi, ma anche d’elezione (scelta dell’uomo). Quando quest’ultimo sceglie il d’amare il male o, come qui, non distogliendosi dal bene, ama troppo i beni secondi, distogliendogli dall’unico vero bene che è Dio, li purgherà qui nel Purgatorio.

Canto XVIII
IV cornice (accidiosi)

Il canto XVIII si lega con il precedente senza soluzione di continuità. Sembra quasi che Dante non si senta soddisfatto della teoria dell’amore illustrataci da Dante e cerchi di approfondire il discorso. 

Ond’io: «Maestro, il mio veder s’avviva
sì nel tuo lume, ch’io discerno chiaro
quanto la tua ragion parta o descriva.
Però ti prego, padre caro,
che mi dimostri amore, a cui reduci
ogni buono operare e il suo contrario».

Allora io: «Maestro, il mio intelletto si rischiara così vivamente attraverso la tua sapienza, che comprendo facilmente ciò che la tua ragione formula e analizza. Perciò ti prego, padre caro, che tu mi spieghi cosa sia l’amore, al quale fai dipendere ogni azione buona o malvagia»

in altre parole, la domanda di Dante è chiara: mi spieghi che cosa è l’amore? Risulta evidente che da tale domanda ne discenda una spiegazione dottrinale. Virgilio le risponde semplicemente che l’amore è un sentimento innato in noi, che rivolge, sin dalla nascita il nostro volere verso il bene. Come il fuoco s’innalza verso l’alto, così l’amore che tende verso Dio si alimenta ancor di più tanto che l’amore, più s’avvicina al suo bene, più aspira alla perfezione dell’amore che non è mai paga (se non nella beatitudine). Alla domanda di Dante secondo cui, se l’amore è innato, non è colpa dell’uomo se tale amore va verso il bene o verso il male, Virgilio risponde che tale concetto lo potrà meglio capire da Beatrice, ma per il momento non può che sottolineare che Dio ha dato l’uomo la ragione, quindi il discernimento, che deve guidare gli istinti naturali, è pertanto la ragione degli uomini che permette loro di amare in modo pieno, o con minore intensità, come qui nel Purgatorio, o amare il male, come si è già visto nell’inferno.  

57608933_317266438946694_6680211510533257176_n.jpgAffresco che illustra la IV cornice del Purgatorio

E’ notte alta e dopo la spiegazione di Virgilio Dante si trova in una situazione di sonnolenza, che scompare improvvisamente dall’arrivo di anime che, dalle nostre spalle, si dirige verso di noi. Questa folla giunge correndo, declamando esempi contrari al loro peccato dell’accidia. Ad esse Virgilio domanda qual è il varco per continuare la salita ed essi, che non possono fermarsi, invitano i pellegrini a seguirli, e quindi rivelano la loro identità, tra cui l’abate di San Zeno di Verona e due anime che lamentano uno la scarsa volontà nel seguire Mosè nell’attraversare il Giordano, l’altro i compagni d’Enea, che rimasti in Sicilia, non poterono partecipare alla gloria di Roma. Ma mentre Dante li vede già allontanarsi, si perde in pensieri al fine di domandar loro, ma gli stessi si trasformano in sogno.

Canto XIX
IV cornice (accidiosi) – V girone (avari e prodighi)

Dante, dopo la solita precisazione astrologica che indica il momento più freddo della notte, poco prima dell’alba, sogna:

mi venne in sogno una femmina balba,
ne li occhi guercia, e sovra i piè distorta,
con le man monche, e di colore scialba.
Io la mirava; e come ’l sol conforta
le fredde membra che la notte aggrava,
così lo sguardo mio le facea scorta
la lingua, e poscia tutta la drizzava
in poco d’ora, e lo smarrito volto,
com’amor vuol, così le colorava.
Poi ch’ell’avea ’l parlar così disciolto,
cominciava a cantar sì, che con pena
da lei avrei mio intento rivolto.
«Io son», cantava, «io son dolce serena,
che ’ marinari in mezzo mar dismago;
tanto son di piacere a sentir piena!
Io volsi Ulisse del suo cammin vago
al canto mio; e qual meco s’ausa,
rado sen parte; sì tutto l’appago!».
Ancor non era sua bocca richiusa,
quand’una donna apparve santa e presta
lunghesso me per far colei confusa.
«O Virgilio, Virgilio, chi è questa?»,
fieramente dicea; ed el venìa
con li occhi fitti pur in quella onesta.
L’altra prendea, e dinanzi l’apria
fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre;
quel mi svegliò col puzzo che n’uscia.

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Dante in sogno

mi apparve in sogno una donna balbuziente, con lo sguardo strabico, storpia nel modo in cui si reggeva in piedi, con le mani monche e dal colorito pallido smorto. Io la fissavo; e così come il sole ridà vigore al corpo infreddolito ed intorpidito dalla notte appena passata, allo stesso modo il mio sguardo su di lei le sciolse la lingua (la fece parlare), e subito dopo le raddrizzava la postura in poco tempo, ed al suo volto pallido, come è capace di fare l’amore, ridava infine anche colore. Quando, in ultimo, la sua lingua, la sua capacità di parlare fu sciolta a sufficienza, cominciò a cantare con una tale grazia, che solo a fatica sarei riuscito a distogliere da lei la mia attenzione. «Io sono», cantava, «io sono la dolce sirena, che incanta i marinai in mezzo al mare; tanto è il piacere che si può provare nell’ascoltarmi! Io distolsi l’attenzione di Ulisse dal suo vagare per mareper rivolgerla al mio canto; e chi si abitua a stare con me, raramente poi decide di andarsene; tanto riesco ad appagarlo, a soddisfarlo! La sua bocca non si era ancora richiusa dopo il canto, quando una seconda donna, dall’aspetto santo e premuroso, mi apparve e si mise al mio fianco per confondere la prima, la sirena. «Oh Virgilio, Virgilio, chi è questa donna?» urlò con voce sdegnata; e Virgilio a quel punto venne da noi tenendo i suoi occhi fissi solamente sulla donna onesta. Afferrò poi l’altra, e le aprì la parte anteriore del vestito strappandone i lembi di stoffa, fino a mostrarmi il suo ventre; la terribile puzza che ne uscì mi risvegliò bruscamente.

Il passo presentato è stato uno dei più discussi, eppure l’allegoria in esso presente appare piuttosto chiaro: una donna deforme, balbuziente, si trasforma in una suadente “sirena”, ma interviene una “donna santa” che spinge Virgilio a lacerarle i panni, per cui si mostra l’immonda natura: cioè il vizio, il cui fascino ci attira percependolo come piacere, fino a quando interviene la ragione a ricondurci nella “dritta via”. Fino a qui ci troviamo di fronte ad una vera e propria simbologia medievale, che tuttavia lascia delle questioni aperte, soprattutto due:

  • Ulisse: nel medioevo era chiaro che il mito dell’eroe greco si conosceva, eppure qui ci troviamo di fronte ad una interpretazione secondo la quale Ulisse venne “desvia” grazie al canto di esse. La fonte è certamente ciceroniana (sappiamo che Dante non conosceva il greco e quindi l’opera omerica) dal De finibus: il filosofo arpinate afferma che il compito delle sirene era quello di flectere, piegare verso loro, che rappresentavano la conoscenza;  
  • la donna santa ha avuto moltissime interpretazioni, ma quella più appropriata ci sembra la filosofia/ragione, proprio perché più si lega al concetto di conoscenza prima illustrato; la conoscenza, per essere valida dev’essere guidata dall’apporto morale; d’altra parte a stracciare la veste menzognera è Virgilio, che sin dall’inizio del poema dantesco riveste il ruolo della ragione. 

Subito dopo, dopo l’incitamento di Virgilio a salire, Dante arriva alla V cornice in cui trova distesi in terra i penitenti del peccato di avarizia. Essi con il volto a terra intonano il salmo Adhesit pavimento anima mea (L’anima mia è prostata a terra), – in quanto gli avari furono troppo attratti dalle cose terrene – e, richiesti da Virgilio su quale fosse la via da seguire e individuato da chi giungesse la risposta, Dante, sente dire scias quod ego successor Petri (Adriano V, ma in realtà la persona di cui qui parla Dante è Adriano IV) e quindi  s’inchina per osservarlo meglio, ma lui lo invita a rialzarsi perché nel Purgatorio tutte le anime, al di là del grado di provenienza, sono uguali a Dio. Costui racconta che, appena eletto papa, si rese conto di quale fosse il suo compito, sebbene avesse potuto derogare da esso, ma il suo pontificato è stato di breve durata e se mai il pellegrino fiorentino dovesse tornare sulla terra, si rivolgesse a sua nipote Alagia, l’unica, forse, se non verrà corrotta dai familiari, la cui moralità permetterà di innalzare preghiere a Dio in grado di sollevarlo al cielo. E’ evidente il riferimento all’episodio dei simoniaci nel XIX canto dell’Inferno con la figura di Niccolò III: qui un esempio della chiesa morale, là la critica verso una mondanizzazione contraria, per Dante, al suo compito originario. 

Canto XX
V cornice (avari e prodighi)

Dante dopo il colloquio con Adriano continua a camminare nel girone, non dimenticando, però, di far pronunciare a Dante auctor un’invettiva contro l’avarizia, simboleggiata ancora dalla lupa che, all’inizio del poema sacro gli aveva impedito il cammino.

In seguito avviene l’incontro con Ugo Capeto:

Io fui radice de la mala pianta
che la terra cristiana tutta aduggia,
sì che buon frutto rado se ne schianta. 
Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia
potesser, tosto ne saria vendetta;
e io la cheggio a lui che tutto giuggia. 
Chiamato fui di là Ugo Ciappetta;
di me son nati i Filippi e i Luigi
per cui novellamente è Francia retta. 
Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi:
quando li regi antichi venner meno
tutti, fuor ch’un renduto in panni bigi, 
trova’ mi stretto ne le mani il freno
del governo del regno, e tanta possa
di nuovo acquisto, e sì d’amici pieno, 
ch’a la corona vedova promossa
la testa di mio figlio fu, dal quale
cominciar di costor le sacrate ossa. 
Mentre che la gran dota provenzale
al sangue mio non tolse la vergogna,
poco valea, ma pur non facea male. 
Lì cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina; e poscia, per ammenda,
Pontì e Normandia prese e Guascogna. 
Carlo venne in Italia e, per ammenda,
vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda. 
Tempo vegg’io, non molto dopo ancoi,
che tragge un altro Carlo fuor di Francia,
per far conoscer meglio e sé e ’ suoi. 
Sanz’arme n’esce e solo con la lancia
con la qual giostrò Giuda, e quella ponta
sì, ch’a Fiorenza fa scoppiar la pancia. 
Quindi non terra, ma peccato e onta
guadagnerà, per sé tanto più grave,
quanto più lieve simil danno conta. 
L’altro, che già uscì preso di nave,
veggio vender sua figlia e patteggiarne
come fanno i corsar de l’altre schiave. 
O avarizia, che puoi tu più farne,
poscia c’ ha’ il mio sangue a te sì tratto,
che non si cura de la propria carne? 
Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
 

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso. 
Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele. 
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira tua nel tuo secreto? 

Coronation_of_Hugues_Capet_2.jpgUgo Capeto

Io sono stato la radice di quella pianta malvagia (il capostipite di quella malvagia famiglia) che ora danneggia tutto il mondo cristiano, tanto che raramente da essa si può raccogliere un buon frutto. Ma se le città di Douai, Lille, Gand e Bruges potessero, questa sua malvagità verrebbe subito punita; ed io chiedo che accada a Dio che tutto giudica. Il mio nome in vita è stato Ugo Capeto; da me sono discesi i Filippi ed i Luigi da cui attualmente la Francia è governata. Ero figlio di un macellaio di Parigi; quando l’antica dinastia dei sovrani si estinse completamente, tranne che per un discendente fattosi frate, mi trovai strette tra le mie mani le redini per guidare sia il governo che il regno, ed una così smisurata potenza derivante dalle nuove conquiste, ed una così ampia cerchia di amici, che la corona rimasta vacante fu posta sulla testa di mio figlio, dal quale discese poi tutta la dinastia dei re consacrati (i Filippi ed i Luigi). Finché il dominio della Provenza, ricevuto in dote da mia moglie, non tolse ai miei discendenti la capacità di contenere i propri impulsi, la dinastia aveva scarso valore, ma almeno non commetteva male alcuno.  Da lì iniziò però poi a compiere, usando la forza e l’inganno, le sue rapine; ed in seguito, per espiare tale peccato, estese il suo dominio sul Ponthieu, sulla Normandia e sulla Guascogna. Carlo I d’Angiò venne in Italia e, per penitenza, uccise, Corradino; e poi rispedì anche in cielo Tommaso, sempre per penitenza. Vedo che arriverà un giorno, non molto lontano da oggi, in cui un altro Carlo uscirà fuori dai confini della Francia, per far meglio conoscere il valore suo e dei suoi uomini. Uscirà senza nessuna arma ma solo con la lancia (l’astuzia e l’inganno) che fu in passato già utilizzata da Giuda, e la punterà con una tale precisione da fare scoppiare la pancia a Firenze. Pertanto, nessun dominio territoriale, ma solamente colpa e vergogna guadagnerà con questo suo operare, tanto più grave per sé quanto meno reputa valere una simile punizione. L’altro Carlo (Carlo II d’Angiò), che era già uscito dalla Francia su di una nave, come prigioniero, lo vedo vendere sua figlia e contrattare sul prezzo così come fanno i corsari con le figlie degli altri catturate e fatte schiave. Oh avidità, che cosa puoi fare peggio di così, dopo che la mia discendenza, la mia stirpe hai tirato a te a tal punto che non ha ora più cura nemmeno dei propri parenti stretti? Ma perché sembri meno grave il male che verrà fatto e quello già compiuto, vedo anche entrare nella cittadina di Anagni il giglio di Firenze, e vedo Cristo essere catturato nella persona del suo vicario in terra, il papa. Le vedo venire deriso ancora una volta; lo vedo subire nuovamente l’offesa dell’aceto e del fiele, ed essere infine nuovamente ucciso in mezzo a ladroni vivi. Vedo il nuovo Pilato (Filippo il Bello) essere tanto crudele da non sentirsi appagato da questa morte, e, senza permesso, dirigere le vele della sua avidità contro l’ordine dei Templari. Oh mio Signore, quando potrò finalmente gioire nel vedere punita tanta crudeltà che, nascosta agli uomini, rende più dolce la tua ira nella tua mente per noi inesplorabile?

Questo passo ci allontana dal clima di penitenza che sottende la cantica purgatoriale: L’unica eccezione l’avevamo già vista nel canto di Sordello, ma lì si trattava di una “digressione”; ora riprende l’argomento politico, piegando la storia secondo il fine dimostrativo che vuole dare a questa pagina, la cui forza e oggettività ideologica è rafforzata dal fatto che a pronunciarla sia proprio il fondatore della dinastia francese. Di me son nati i Filippi e i Luigi, afferma Ugo Capeto, che tanto male hanno fatto al mondo conosciuto.

Tre sono i peccati che Dante ascrive loro:

  • l’uccisione di Corradino di Svevia e la politica antimperialista che ha trascinato con sé, l’intervento della Chiesa nel gioco politico italiano, portandola ad una forte instabilità politica; 
  • il discesa a Firenze di Filippo il Bello, chiamato da Bonifacio VIII con la scusa di riportare la pace in Firenze ma in realtà per insediarci i Neri da cui deriverà l’esilio di Dante;
  • lo schiaffo di Anagni, nel 1303, contro cui l’emissario del re di Francia o un Colonna, che condivideva la politica francese, schiaffeggiarono Bonifacio VIII perché non voleva sottomettersi alla politica transalpina (vogliamo ricordare che subito dopo la morte di Bonifacio, la Chiesa, nel 1309, venne spostata ad Avignone) e la distruzione dell’ordina dei Templari (1307).

Non ci può sorprendere che Dante riprenda i re francesi di aver “schiaffeggiato” Bonifacio VIII, conoscendo l’opinione che il poeta fiorentino ha su tale pontefice: ma non è la persona che viene colpita, ma il ruolo che ricopre, che è pur sempre quello di vicario di Cristo in terra.

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Alphonse-Marie-Adolphe de Neuville: Lo schiaffo di Sciarra Colonna

Abbandonando il re francese i due vengono sorpresi da un terremoto, accompagnato dal canto Gloria in excelsis Deo, che lascia i due pellegrini in uno stato di sospensione che sarà risolto solo nel canto seguente.

Canto XXI
V cornice (avari e prodighi)

La sete natural che mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta
samaritana domandò la grazia, 

mi travagliava, e pungeami la fretta
per la ’mpacciata via dietro al mio duca,
e condoleami a la giusta vendetta. 
Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a’ due ch’erano in via,
già surto fuor de la sepulcral buca, 

ci apparve un’ombra, e dietro a noi venìa,
dal piè guardando la turba che giace;
né ci addemmo di lei, sì parlò pria, 
dicendo: “O frati miei, Dio vi dea pace”.
Noi ci volgemmo sùbiti, e Virgilio
rendéli ’l cenno ch’a ciò si conface. 

Poi cominciò: “Nel beato concilio
ti ponga in pace la verace corte
che me rilega ne l’etterno essilio”. 
“Come!”, diss’elli, e parte andavam forte:
“se voi siete ombre che Dio sù non degni,
chi v’ ha per la sua scala tanto scorte?”. 
E ’l dottor mio: “Se tu riguardi a’ segni
che questi porta e che l’angel profila,
ben vedrai che coi buon convien ch’e’ regni. 
Ma perché lei che dì e notte fila
non li avea tratta ancora la conocchia
che Cloto impone a ciascuno e compila,
l’anima sua, ch’è tua e mia serocchia,

venendo sù, non potea venir sola,
però ch’al nostro modo non adocchia.
Ond’io fui tratto fuor de l’ampia gola
d’inferno per mostrarli, e mosterrolli
oltre, quanto ’l potrà menar mia scola.
Ma dimmi, se tu sai, perché tai crolli
diè dianzi ’l monte, e perché tutto ad una
parve gridare infino a’ suoi piè molli”.
Sì mi diè, dimandando, per la cruna
del mio disio, che pur con la speranza
si fece la mia sete men digiuna.
Quei cominciò: “Cosa non è che sanza
ordine senta la religïone
de la montagna, o che sia fuor d’usanza.
Libero è qui da ogne alterazione:
di quel che ’l ciel da sé in sé riceve
esser ci puote, e non d’altro, cagione.
Per che non pioggia, non grando, non neve,
non rugiada, non brina più sù cade
che la scaletta di tre gradi breve; 
nuvole spesse non paion né rade,
né coruscar, né figlia di Taumante,
che di là cangia sovente contrade; 
secco vapor non surge più avante
ch’al sommo d’i tre gradi ch’io parlai,
dov’ ha ’l vicario di Pietro le piante. 
Trema forse più giù poco o assai;
ma per vento che ’n terra si nasconda,
non so come, qua sù non tremò mai. 
Tremaci quando alcuna anima monda
sentesi, sì che surga o che si mova
per salir sù; e tal grido seconda.
De la mondizia sol voler fa prova,
che, tutto libero a mutar convento,
l’alma sorprende, e di voler le giova.
Prima vuol ben, ma non lascia il talento
che divina giustizia, contra voglia,
come fu al peccar, pone al tormento.
E io, che son giaciuto a questa doglia
cinquecent’anni e più, pur mo sentii
libera volontà di miglior soglia:
però sentisti il tremoto e li pii
spiriti per lo monte render lode
a quel Segnor, che tosto sù li ’nvii”.
Così ne disse; e però ch’el si gode
tanto del ber quant’è grande la sete,
non saprei dir quant’el mi fece prode.
E ’l savio duca: “Omai veggio la rete
che qui vi ’mpiglia e come si scalappia,
perché ci trema e di che congaudete.
Ora chi fosti, piacciati ch’io sappia,
e perché tanti secoli giaciuto
qui se’, ne le parole tue mi cappia”.
“Nel tempo che ’l buon Tito, con l’aiuto
del sommo rege, vendicò le fóra
ond’uscì ’l sangue per Giuda venduto,
col nome che più dura e più onora
era io di là”, rispuose quello spirto,
“famoso assai, ma non con fede ancora.
Tanto fu dolce mio vocale spirto,
che, tolosano, a sé mi trasse Roma,
dove mertai le tempie ornar di mirto.
Stazio la gente ancor di là mi noma:
cantai di Tebe, e poi del grande Achille;
ma caddi in via con la seconda soma.
Al mio ardor fuor seme le faville,
che mi scaldar, de la divina fiamma
onde sono allumati più di mille;
de l’Eneïda dico, la qual mamma
fummi, e fummi nutrice, poetando:
sanz’essa non fermai peso di dramma.

E per esser vivuto di là quando
visse Virgilio, assentirei un sole
più che non deggio al mio uscir di bando”.
Volser Virgilio a me queste parole
con viso che, tacendo, disse ’Taci’;
ma non può tutto la virtù che vuole;
ché riso e pianto son tanto seguaci
a la passion di che ciascun si spicca,
che men seguon voler ne’ più veraci.
Io pur sorrisi come l’uom ch’ammicca;
per che l’ombra si tacque, e riguardommi
ne li occhi ove ’l sembiante più si ficca;
e “Se tanto labore in bene assommi”,
disse, “perché la tua faccia testeso
un lampeggiar di riso dimostrommi?”.
Or son io d’una parte e d’altra preso:
l’una mi fa tacer, l’altra scongiura
ch’io dica; ond’io sospiro, e sono inteso
dal mio maestro, e “Non aver paura”,
mi dice, “di parlar; ma parla e digli
quel ch’e’ dimanda con cotanta cura”.
Ond’io: “Forse che tu ti maravigli,
antico spirto, del rider ch’io fei;
ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli.
Questi che guida in alto li occhi miei,
è quel Virgilio dal qual tu togliesti
forte a cantar de li uomini e d’i dèi.
Se cagion altra al mio rider credesti,
lasciala per non vera, ed esser credi
quelle parole che di lui dicesti”.
Già s’inchinava ad abbracciar li piedi
al mio dottor, ma el li disse: “Frate,
non far, ché tu se’ ombra e ombra vedi”.
Ed ei surgendo: “Or puoi la quantitate
comprender de l’amor ch’a te mi scalda,
quand’io dismento nostra vanitate,
trattando l’ombre come cosa salda”.

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La sete naturale di sapere, che non si sazia mai se non bevendo l’acqua della verità divina, quella che la donna samaritana chiese a Gesù, mi tormentava e mi stimolava la fretta di seguire la mia guida lungo quella strada ostruita dalle anime, con le quali condividevo la sofferenza per la giusta punizione. Ed ecco che, proprio come nel vangelo Luca è scritto che Cristo apparve a due discepoli che erano in cammino, dopo essere risorto dal suo sepolcro, ci apparve all’ora un’ombra, che avanzava dietro a noi, mentre facevamo attenzione a non calpestare la folla di anime distese sulla via; ma non ci accorgemmo subito di lei, se non quando ci parlò, dicendoci: «Fratelli miei, possa Dio darvi la pace». Ci voltammo subito indietro e Virgilio le rese il cenno di saluto. Poi comincio a dire: «Possa concederti la pace nell’assemblea dei beati l’infallibile giudizio divino, che pone invece me in un eterno esilio». «Come è possibile?» disse all’ora l’anima, mentre tutti e tre camminavamo intanto in fretta: «Se voi siete anime indegne di salire fino a Dio, chi vi ha condotto così in alto sulla scala che conduce a lui?» Ed il mio maestro: «Se tu osservi i segni che costui porta sulla fronte, che vengono incisi dall’angelo custode, puoi ben capire che è giusto che lui faccia parte il regno dei buoni. Ma perché  colei che fila giorno e notte (Lachesi), non aveva ancora finito di filare tutta la lana della sua vita, che Cloto pone ed avvolge sulla rocca, (Atropo era la terza parca che recide il filo della vita) la sua anima, sorella mia e tua, nel suo salire non poteva procedere dal sola, senza una guida, non essendo in grado di percepire la realtà come possiamo noi puri spiriti. Per questo motivo fui chiamato fuori dalla profonda cavità infernale per mostrargli la via, e gli farò ancora da guida fin dove il mio insegnamento potrà condurlo. Ma spiegami, se lo sai, il motivo per cui ha tremato così tanto poco fa il monte, e perché all’unisono ha innalzato un grido fin dalla sua parte più bassa, immersa nel mare». Virgilio, ponendo questa domanda, colpì così bene nel segno il mio desiderio inespresso, che già solo con la speranza di essere soddisfatta la mia sete di sapere divenne meno intensa. Cominciò a rispondere quell’anima: «Non esiste cosa che la legge sacra della montagna faccia senza obbedire all’ordine divino, o che non sia per lei usuale. Questo luogo è immune da ogni perturbazione atmosferica: solo da ciò che il Cielo riceve in sé e produce da sé, non da altro, possono essere originate delle perturbazioni. Perciò né pioggia, né grandine o neve, né rugiada o brina può cadere sul monte al di sopra del punto in cui si trova la piccola scala di ingresso formata da tre soli gradini, ingresso del Purgatorio; non si vedono nuvole, né voluminose né tenui, non si vedono fulmini e neanche Iride, l’arcobaleno, figlia di Taumante, che nel mondo terreno cambia spesso luogo; il vapore secco non sale in cielo oltre il terzo, e più alto, dei tre gradini ai quali mi sono riferito, là dove tiene appoggiati i piedi il vicario di san Pietro, l’Angelo portiere del Purgatorio. Si verificano forse terremoti più o meno intensi al di sotto dei tre gradini; ma per il vento secco che resta chiuso nella terra, non so come, qua su non si verificarono mai dei terremoti. Qui i terremoti si verificano solo quando un’anima si sente ormai purificata, così da potersi alzare o muoversi per salire in Paradiso; ed il canto che hai potuto udire accompagna queste scosse della montagna. L’unica prova dell’avvenuta purificazione è la volontà, che, del tutto libero di cambiare luogo e compagnia, si impadronisce dell’anima e l’asseconda. Anche prima l’anima desidera salire, ma non glielo permette la volontà relativa, che la giustizia divina, contro la volontà assoluta (che tende a Dio), spinge verso la pena così come in vita la volontà relativa ha spinto l’anima a peccare. Ed io, che ho subito questa pena stando sdraiato per più di cinquecento anni, solo poco fa ho sentito la volontà, ora libera da impedimenti, di raggiungere una dimora più elevata: per tale motivo hai potuto sentire prima il terremoto e le anime buone ringraziare da ogni luogo del monte il Signore, pregandolo di farle salire presto fino a lui». Parlò così quell’anima; e poiché si ottiene tanta più soddisfazione dal bere quanto più si ha sete, non saprei esprimere a parole quanto mi fu gradito il suo discorso. Disse allora la mia saggia guida: «Comprendo ora quale sia l’impedimento che vi trattiene qui e come ve ne liberate, perché il monte tremi e per che motivo gioite tutte insieme. Ti piaccia però di rivelarmi ora anche chi sei stato nella vita terrena, ed il perché per così tanti secoli sei rimasto disteso qui me lo faccia capire le tue parole». «Nel tempo in cui il valoroso Tito, con l’aiuto di Dio, il supremo re, vendicò le ferite da cui uscì il sangue venduto per tre danari da Giuda, con il nome di poeta, che dona la fame più longeva e più grande», rispose a Virgilio quello spirito, «ero al mondo molto famoso, ma non avevo ancora la fede in Cristo. La mia poesia fu tanto armoniosa che, nato a Tolosa, fui chiamato a Roma, dove ottenni il merito di essere incoronato con le foglie di mirto. Nel mondo terreno sono ancora noto con il nome di Stazio: cantai la città di Tebe e scrissi poi dell’eroe Achille; ma morii mentre ero ancora intento a compiere questa seconda opera. Alimentarono il mio entusiasmo di poeta le scintille, ed anche mi scaldarono, di quella somma fiamma da cui furono accesi moltissimi poeti; sto parlando dell’Eneide, che fu per me come una madre e come una balia, nel campo della poesia: senza di essa non avrei fissato con la penna nulla che potesse avere il minimo peso. E per poter essere vissuto al mondo al tempo in cui visse Virgilio, sarei disposto ad uscire dal mio esilio in Purgatorio anche un anno oltre il dovuto». Queste ultime parole fecero volgere Virgilio verso di me con un atteggiamento tale che, senza bisogno di parole, mi diceva “Taci”; ma la volontà non può tutto; perché il riso ed il pianto seguono così rapidamente le passioni dalle quali hanno origine, da essere nelle persone più sincere molto poco assoggettate al controllo della volontà. Feci infatti un sorriso che fu come un cenno; perciò l’anima tacque e mi fissò quindi negli occhi, là dove si concentra maggiormente l’espressione del viso; e «Possa tu concludere bene la tua grande fatica», mi disse Stazio, «ma dimmi, perché il tuo viso è stato illuminato poco fa da un sorriso?» Mi trovo questo punto combattuto tra due fuochi: uno mi ordina di tacere, l’altro mi supplica di parlare; sospiro nell’indecisione, viene poi compresa la mia condizione dal mio maestro, che «Non avere paura», mi dice, «di parlare; ma parla pura e dagli la risposta che chiede con tanto interesse. Dissi io pertanto: «Se ti sei prima stupito, oh antico spirito, del fatto che io sorridessi; ma voglio adesso che tu abbia un motivo di maggiore meraviglia. Questa anima che mi guida verso l’alto è quel Virgilio dal quale tu hai assunto l’abilità poetica per cantare le vicende degli uomini e degli dei. Se hai creduto che fosse un altro il motivo del mio sorriso, lascialo ora perdere in quanto non vero, credi invece al fatto che la causa furono le parole che hai detto riguardo a lui». Stazio si era già inchinato per abbracciare i piedi del mio maestro, che però gli disse: «Fratello, non lo fare, perché sei uno spirito e davanti a te vedi un altro spirito.» Stazio, rialzandosi in piedi, rispose: «Puoi adesso comprendere l’intensità dell’amore che provo per te, per il fatto che mi fa dimenticare la nostra condizione incorporea, e tratto gli spiriti come fossero corpi solidi».

E’ il canto di Stazio, che proseguirà nel successivo, ma è, riprendendo il IV canto dell’Inferno, un nuovo tassello che il poeta fiorentino ci offrirà come testimonianza dei suoi amori letterari e dell’importanza che egli stesso afferma di possedere nei loro confronti.

Il XXI inizia laddove avevamo lasciato Dante, stupito da quel terremoto di cui cerca le ragioni e a spiegarlo, sopraggiunge un’anima alle loro spalle, che ancora non si rivela, ma afferma che il movimento terrestre che loro hanno sentito insieme al canto all’unisono di tutte le anime penitenziali sta ad indicare che una di loro viene accolta alla corte di Dio, cioè ascende in paradiso. Da qui il primo dubbio del lettore: non doveva l’anima percorrere l’intera montagna per espiare e quindi liberarsi definitivamente? Per questo personaggio, che afferma che la chiamata al cielo avviene quando l’anima si sente completamente libera dalla necessità che Dio le aveva imposto per espiare e che questo è avvenuto per lei dopo cinquecento anni, dobbiamo chiederci se tale “promozione” avviene all’improvviso o se sta percorrendo l’intera montagna per cui Dante lo incontra o ancora che, non avendo peccati ulteriori non deve necessariamente salire con fatica la cima del monte. Problema irrisolto, ma forse poco importa; più importante è certamente la figura di Stazio, che nel presentarsi mette prima il nome di poeta e quindi della poesia, poi circoscrive il tempo in cui è vissuto, nel tempo della Resurrezione di Cristo e della cacciata degli Ebrei da parte dell’imperatore Tito (in verità suo padre Vespasiano) e quindi pronuncia il suo nome e le opere per le quali è conosciuto la Tebaide – che Dante conosce assai bene – e l’Achilleide, non terminata per la sopraggiunta morte.

S’inserisce ora nella terza parte del canto un frammento che potremmo definire quasi “quotidiano”: Stazio afferma che l’ispirazione per il suo poema gliela ha offerta Virgilio con l’Eneide; Virgilio fa cenno a Dante di tacere, ma al Dante umano scappa un sorriso che viene quasi frainteso da Stazio stesso. Per evitare ciò la guida di Dante lo invita a chiarirsi e quindi lo stesso fa il nome del poeta latino, per cui l’autore della Tebaide si prostra ai suoi piedi per abbracciarlo, ma essendo pura materia il gesto non sarà che simbolico.

Canto XXII
VI cornice (golosi)

I tre poeti salgono insieme dal V al VI girone, con maggiore facilità, avendo Dante lavato man mano i peccati da lui incontrati fin qui. L’affetto di Stazio per Virgilio, mostrato alla fine del canto precedente, trova conferma dalle parole riferite al poeta mantovano da Giovenale, appena giunto nel Limbo. Tale sentimento spinge Virgilio a domandare del perché egli sia stato posto da Dio nel girone degli avari, ma Stazio nega che tale sia il suo peccato, e che, viceversa, egli sia macchiato del peccato inverso, la prodigalità. Ma è stato un verso dell’Eneide a riportarlo nella retta via. Quando era intento nella stesura della Tebaide, grazie ancora alle Egloghe virgiliane, la IV per esattezza, egli si convertì e ricevette il battesimo; ma non rese palese la nuova fede, non venendo meno, tuttavia, dall’aiutare i cristiani perseguitati. Per questo venne punito ed è stato punito, sino ad allora, per quattrocento anni. Quindi i tre poeti giungono alla VI cornice, dove vedono un grande albero dalle cui foglie sgorga un’acqua limpidissima, ma una voce li ammonisce di non bere né di nutrirsi. E’ il girone dei golosi. 

8f79c494179631ea2990af35925ba7ac.jpegCodice che illustra il canto XXII

Canto XXIII
VI girone (golosi)

Già era in ammirar che sì li affama,
per la cagione ancor non manifesta
di lor magrezza e di lor trista squama,
ed ecco del profondo de la testa
volse a me li occhi un’ombra e guardò fiso;
poi gridò forte: «Qual grazia m’è questa?».
Mai non l’avrei riconosciuto al viso;
ma ne la voce sua mi fu palese
ciò che l’aspetto in sé avea conquiso.
Questa favilla tutta mi raccese
mia conoscenza a la cangiata labbia,
e ravvisai la faccia di Forese.
«Deh, non contendere a l’asciutta scabbia
che mi scolora», pregava, «la pelle,
né a difetto di carne ch’io abbia;
ma dimmi il ver di te, dì chi son quelle
due anime che là ti fanno scorta;
non rimaner che tu non mi favelle!».
«La faccia tua, ch’io lagrimai già morta,
mi dà di pianger mo non minor doglia»,
rispuos’io lui, «veggendola sì torta.
Però mi dì, per Dio, che sì vi sfoglia;
non mi far dir mentr’io mi maraviglio,
ché mal può dir chi è pien d’altra voglia».
Ed elli a me: «De l’etterno consiglio
cade vertù ne l’acqua e ne la pianta
rimasa dietro, ond’io sì m’assottiglio.
Tutta esta gente che piangendo canta
per seguitar la gola oltra misura,
in fame e ‘n sete qui si rifà santa.

Di bere e di mangiar n’accende cura
l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo
che si distende su per sua verdura.
E non pur una volta, questo spazzo
girando, si rinfresca nostra pena:
io dico pena, e dovria dir sollazzo,
ché quella voglia a li alberi ci mena
che menò Cristo lieto a dire ‘Elì’,
quando ne liberò con la sua vena».
E io a lui: «Forese, da quel dì
nel qual mutasti mondo a miglior vita,
cinqu’ anni non son vòlti infino a qui.
Se prima fu la possa in te finita
di peccar più, che sovvenisse l’ora
del buon dolor ch’a Dio ne rimarita,
come se’ tu qua sù venuto ancora?
Io ti credea trovar là giù di sotto,
dove tempo per tempo si ristora».
Ond’elli a me: «Sì tosto m’ ha condotto
a ber lo dolce assenzo d’i martìri
la Nella mia con suo pianger dirotto.
Con suoi prieghi devoti e con sospiri
tratto m’ ha de la costa ove s’aspetta,
e liberato m’ ha de li altri giri.
Tanto è a Dio più cara e più diletta
la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;
ché la Barbagia di Sardigna assai
ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
O dolce frate, che vuo’ tu ch’io dica?
Tempo futuro m’è già nel cospetto,
cui non sarà quest’ora molto antica,
nel qual sarà in pergamo interdetto
a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
Quai barbare fuor mai, quai saracine,
cui bisognasse, per farle ir coperte,
o spiritali o altre discipline?
Ma se le svergognate fosser certe
di quel che ’l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l’antiveder qui non m’inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna».

dante-forese-donati-purgatorio-divina-commedia-dorè-cult-stories.jpgDante incontra Forese

Già ero intento ad osservare che cosa fosse che li rendesse così affamati, perchè non mi era ancora chiaro il motivo della loro magrezza e della loro pelle squamosa, quando all’improvviso dal fondo di occhiaie scavate un’anima rivolse gli occhi verso me e mi guardò fissamente, poi a voce alta: «Che grazia è questa che mi viene offerta?». Non l’avrei certo riconosciuto dal volto, ma dalla sua voce mi rivelò ciò che l’aspetto mi aveva nascosto. Questo indizio mi riportò alla mente tutta la conoscenza di quel volto così mutato e riconobbi Forese. «Deh, non far caso alla secca pelle che m’impallidisce» pregava «né alla mia magrezza, ma dimmi la verità su di te, chi sono le due anime che ti fanno da scorta, non restare senza parlarmi!». Gli risposi: «La tua faccia, che io piansi già morta, ora mi fa piangere con non meno dolore per essere così tanto trasfigurata. Perciò dimmi, in nome di Dio, cos’è che vi consuma in tal modo. Non mi fare parlare mentre sono così stupito, perché la curiosità non soddisfatta potrebbe farmi parlare in modo svogliato». E lui a me: «Per l’eterna volontà divina, scende nell’albero e nell’acqua che sono rimaste alle spalle una virtù che ci fa dimagrire. Tutta questa gente che cantando il Miserere piangendo per aver secondato il piacere della gola eccessivamente e qui si purifica soffrendo la fame e la sete. L’odore che proviene dall’albero e dallo spruzzo d’acqua che come pioggia si sparge sulle foglie verdi suscita in noi il desiderio di bere e mangiare. E non solo una volta la nostra pena si rinnova mentre giriamo intorno alla cornice. Dico pena e dovrei dire gioia, perché ci conduce agli alberi quella stessa volontà che condusse Cristo a pronunciare Elì (o Dio) quando liberò l’uomo dal peccato originale con la sua morte». Ed io a lui: «Forese, da quel giorno i cui moristi per raggiungere un mondo migliore, non sono passati che cinque anni. Se la facoltà di peccare venne meno in te prima che giungesse in tuo soccorso l’ora del pentimento sincero che ci riconcilia con Dio (se ti sei pentito solo in punto di morte), come mai sei già giunto in questa cornice? Credevo di trovarti nella spiaggia dell’Antipurgatorio, dove al ritardo nel pentirsi corrisponde più tempo nell’espiazione.» E lui mi rispose: «Così presto mi ha condotto ad affrontare la lieta sofferenza della pena mia moglie Nella, con il suo continuo pianto Con le sue preghiere devoti e con i sospiri mi ha sottratto dal costone della montagna dove le anime attendono di essere ammesse alla purificazione e dalle pene delle altre cornici. Tanto è più cara e devota la mia vedovella a Dio, che amai molto, quanto è più sola nel comportarsi virtuosamente, che le donne della Sardegna centrale sono assai più pudiche della Barbagia in cui io la lasciai. Dolce fratello, cosa vuoi che io ti dica? Vedo già il tempo futuro, non così lontano da ora, durante il quale dal pulpito delle chiese sarà proibito alle sfacciate donne fiorentine andare in giro mostrando il petto e le mammelle. Quali donne barbare, quali saracene, per cui fosse necessario, per farle andar coperte, stabilire sanzioni ecclesiastiche o civili? Ma se le donne svergognate sapessero con certezza quel che prepara il cielo contro di loro, già urlerebbero per il terrore, che se la capacità di prevedere non m’inganna, saranno rattristate prima che un bambino, ora consolato con la nanna, metta la barba». 

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E’ un canto che ci ricorda, almeno nell’incontro con l’anima di Forese, quello assai più famoso con Brunetto Latini nel canto XV dell’Inferno. In entrambi vi è incredulità, stupore quando incontrano l’anima vivente di Dante. “Qual meraviglia” dice il primo “Qual grazia m’è data” dice il secondo. Ad assimilarli c’è forse la stessa aria di dolce giovinezza condivisa con giovani cortesi che si dilettavano nel parlare d’amore. Ma se Brunetto Latini aveva insegnato a Dante “come l’uom si etterna“, con Forese se l’erano dette di tutti i colori nella famosa tenzone che si scambiarono: Dante dice a Forese che è un mezzo impotente e, vista la “leggerezza” della madre, non si sa nemmeno se sia suo figlio, Forese gli risponde che il padre è un uomo pieno di debiti tanto da vivere chiedendo la carità e che suo figlio, cioé Dante, gli somiglia tanto in quanto vigliacco e vendicativo verso chi richiama il dovuto a suo padre. Insomma non si era scambiati caramelline. Ma forse il tutto era un gioco all’interno della poesia comico-realista della fine del ‘200 ed inizio del ‘300. Ma qui Dante sembra fare ammenda, soprattutto quando fa una specie di apologia a Nella, moglie di Forese, uno dei suoi strali nella tenzone.

Il canto prosegue con la rivelazione a Forese del compito che Dio ha affidato Dante, chi sono le sue guide e chi sarà quando anch’esse cesseranno il loro compito. 

Canto XXIV
VI cornice (golosi)

Il canto inizia dove il precedente terminava: Dante e Forese continuano, come buoni amici, a parlare tra loro e così si viene a sapere che Piccarda, la sorella minore di Forese, sta tra i beati. Quindi questo mostra alcuni personaggi ai tre viandanti e li cita quasi passandoli in rassegna, tra essi vi è Bonagiunta Orbicciani, Ubaldino della Pila e Bonifacio dei Fieschi. Ma, tra essi, chi si mostra più voglioso di parlare è il primo, il poeta di Lucca: 

El mormorava; e non so che «Gentucca»
sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.
«O anima», diss’io, «che par sì vaga
di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga».
«Femmina è nata, e non porta ancor benda»,
cominciò el, «che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda.
Tu te n’andrai con questo antivedere:
se nel mio mormorar prendesti errore,
dichiareranti ancor le cose vere.
Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”».
E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».
«O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator sen vanno strette,
che de le nostre certo non avvenne;
e qual più a gradire oltre si mette,
non vede più da l’uno a l’altro stilo»;
e, quasi contentato, si tacette.

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Egli mormorava: «Gentucca» sulla sua bocca, là dove lui sentiva più forte la pena della giustizia divina che così li scarna. «O anima», dissi io «che sembri così desiderosa di parlarmi, fatti capire meglio, e appaga me e te con il tuo dire». «E’ nata una donna, non ancora sposata», lui cominciò, che ti renderà gradita la mia città, nonostante le gente ne dica così male. tu andrai via da qui con questa previsione, e se il mio mormorare precedente ti ha fatto cadere in errore, i fatti reali ti chiariranno quanto detto. Ma dimmi se io qui vedo colui che iniziò una nuova poesia, a partire da “Donne che avete intelletto d’amore”. E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore lo ispira, annoto quello che mi dice e cerco di trascriverlo nel modo in cui lui me l’ho detta». «Fratello mio, adesso vedo l’impedimento che Giacomo da Lentini e Guittone d’Arezzo hanno trattenuto al di qua del dolce stile nuovo di cui ora sento parlare! Io vedo chiaramente come i vostri scritti seguono da vicino colui che l’ispira, l’Amore, che certo non avvenne nei nostri; e chiunque voglia procedere in modo più approfondito, non trova differenza tra lo stile dell’uno o dell’altro», e quasi soddisfatto, si tacque.
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E’ uno dei passi più importanti dell’intera Commedia alla luce della dichiarazione di poetica che qui Dante fa pronunciare da Bonagiunta. Infatti quest’ultimo non è certo il più importante fra i poeti siculi-toscani, ma è colui che certamente aveva capito e mostrato la differenza tra un “vecchio” ed un “nuovo” modo di poetare nel sonetto Voi ch’avete mutata la mainera. E’ quindi certamente il personaggio più adatto a discutere con Dante di “teoria letteraria”. Ma qui è importante fare una distinzione tra il Dante agens ed il Dante auctor e se è il primo che fa parlare a Bonagiunta è il secondo che mette in bocca allo stesso una propria poetica di cui lui è pienamente consapevole. Si parte infatti dalla Vita nuova ed esattamente dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, testo chiave in cui Dante inaugura la poesia “della loda”. Essa si ottiene ascoltando l’amore e facendosi quasi dettare da quest’ultimo le parole per farsi descrivere. Certo non s’intende con questo una poesia “spontanea”, anzi, al contrario, osservare “oggettivamente”, quasi “scientificamente” come l’amore ci possieda. Si tratta in ultima analisi d’osservare in modo più distaccato possibile la “fenomenologia dell’amore” e quindi la sua intellettualizzazione.

Dopo l’incontro con Bonagiunta, Dante e Forese continuano da buoni amici a discorrere (ci sorprende questa area fortemente tenera che i due instaurano, dopo essersene dette di tutti i colori nella tenzone ma, probabilmente, si trattava di un divertissement), domandandosi quando potrebbero incontrarsi e qui, Forese, parla dell’altro suo congiunto, Corso Donati, uno dei più violenti politici fiorentini del partito dei Neri, che è giù nell’Inferno, dopo esser stato trascinato da una coda di un cavallo (punizione data ai traditori). In seguito Forese si allontana e i tre pellegrini vedono un altro albero, il cui seme è lo stesso di quello del Paradiso terrestre; intorno ad esso i penitenti assetati. All’improvviso appare un angelo illuminato da un’abbagliante veste rossa. Invita i pellegrini a lasciare il cerchio e a salire al successivo e mentre lo dice Dante percepisce una lieve brezza che gli circonda il capo: è un’altra P che viene lavata. 

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Canto XXV
VII cornice (lussuriosi)

E’ questo un canto dottrinale, nato dalla volontà di capire da parte di Dante come possano le anime dei golosi dimagrire non essendo corpo, ma puri spiriti? Domanda assolutamente lecita, la cui risposta, non di Virgilio ma di Stazio (più addentro alle cose purgatoriali) sta tra il teologico e lo scientifico, tenendo ben presente che i due campi, nel medioevo, non erano affatto separati. Dapprima, dall’unione del seme maschile e ovulo femminile (che per Dante sono una parte pura e raffinata sanguigna) nasce l’anima vegetativa. Ad essa, nata quindi dall’unione sessuale, si aggiunge quella divina, che, attraverso la virtù celeste, offre l’anima intellettiva: da qui l’unicità dell’essere umano. Nella morte l’anima si scioglie dal corpo ed essendo dono di Dio sopravvive, rafforzando tuttavia, le sue capacità che aveva in vita (memoria, intelligenza, forza) che una volta libera la corcondano permettendo allo spirito di avere sensazioni come quando era in vita. I tre poeti camminano durante questa spiegazione fino a quando giungono ad una parete di fuoco. 

Canto XXVI
VII cornice (lussuriosi)

Mentre i tre poeti passano lungo il margine esterno della cornice, Virgilio avvisa Dante di stare attento perché il sole, colpendogli la spalla, irradiava chiarendo il colore del cielo, ma in parte rendeva più scuro il rosseggiare della parete infuocata, suscitando l’interesse delle anime che vi bruciavano dentro.

Questa fu la cagion che diede inizio
loro a parlar di me; e cominciarsi
a dir: «Colui non par corpo fittizio»;
poi verso me, quanto potean farsi,
certi si fero, sempre con riguardo
di non uscir dove non fosser arsi.
«O tu che vai, non per esser più tardo,
ma forse reverente, a li altri dopo,
rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo.
Né solo a me la tua risposta è uopo; 
ché tutti questi n’hanno maggior sete 
che d’acqua fredda Indo o Etïopo.
Dinne com’è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora

di morte intrato dentro da la rete».

Questo fu il motivo che li spinse a parlare e cominciarono a dire: «Questo non sembra un corpo spirituale, cercarono di accertarsi, attenti a non uscire dalle fiamme: «O tu che vai, non per lentezza, ma forse per reverenza, dietro gli altri due, rispondimi, che ardo nella sete (di conoscere) e nel fuoco (per purgarmi). La tua risposta non è necessaria solo a me, che tutti questi  hanno una sete maggiore di quanti vivono in India o in Etiopia. Dicci com’è che tu impedisca al sole di passare, come se non fossi ancora caduto nella rete della morte»

Mentre un anima gli rivolgeva queste parole, Dante fu colpito da una schiera che al centro delle fiamme venne in senso contrario rispetto a coloro che con cui parlavo e incontrandosi si scambiavano un bacio dicendo uno “Sodoma e Gomorra” (omosessuali), e l’altro “Pasife entra nella vacca per soddisfare le voglie del toro” (eterosessuali); quindi tornavano indietro in senso opposto recitando esempi di castità. Quindi quelli che precedentemente avevano iniziato il discorso con Dante riprendono ad ascoltarlo:

e raccostansi a me, come davanti, 
essi medesmi che m’avean pregato, 
attenti ad ascoltar ne’ lor sembianti.
Io, che due volte avea visto lor grato,
incominciai: «O anime sicure
d’aver, quando che sia, di pace stato,
non son rimase acerbe né mature 
le membra mie di là, ma son qui meco 
col sangue suo e con le sue giunture.   
Quinci sù vo per non esser più cieco; 
donna è di sopra che m’acquista grazia, 
per che ’l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba 
che se ne va di retro a’ vostri terghi».             
Non altrimenti stupido si turba 
lo montanaro, e rimirando ammuta, 
quando rozzo e salvatico s’inurba,
che ciascun’ombra fece in sua paruta; 
ma poi che furon di stupore scarche, 
lo qual ne li alti cuor tosto s’attuta,
«Beato te, che de le nostre marche», 
ricominciò colei che pria m’inchiese, 
«per morir meglio, esperienza imbarche!
La gente che non vien con noi, offese 
di ciò per che già Cesar, triunfando, 
‘Regina’ contra sé chiamar s’intese:  
però si parton ‘Soddoma’ gridando, 
rimproverando a sé, com’hai udito, 
e aiutan l’arsura vergognando.
Nostro peccato fu ermafrodito; 
ma perché non servammo umana legge, 
seguendo come bestie l’appetito,       
in obbrobrio di noi, per noi si legge, 
quando partinci, il nome di colei 
che s’imbestiò ne le ’mbestiate schegge.
Or sai nostri atti e di che fummo rei: 
se forse a nome vuo’ saper chi semo, 
tempo non è di dire, e non saprei.
Farotti ben di me volere scemo: 
son Guido Guinizzelli; e già mi purgo 
per ben dolermi prima ch’a lo stremo».
Quali ne la tristizia di Ligurgo 
si fer due figli a riveder la madre, 
tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo, 
quand’io odo nomar sé stesso il padre 
mio e de li altri miei miglior che mai 
rime d’amore usar dolci e leggiadre;
e sanza udire e dir pensoso andai 
lunga fiata rimirando lui, 
né, per lo foco, in là più m’appressai. 
Poi che di riguardar pasciuto fui, 
tutto m’offersi pronto al suo servigio 
con l’affermar che fa credere altrui.
Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, 
per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, 
che Leté nol può tòrre né far bigio.
Ma se le tue parole or ver giuraro, 
dimmi che è cagion per che dimostri 
nel dire e nel guardar d’avermi caro».
E io a lui: «Li dolci detti vostri, 
che, quanto durerà l’uso moderno, 
faranno cari ancora i loro incostri».
«O frate», disse, «questi ch’io ti cerno 
col dito», e additò un spirto innanzi, 
«fu miglior fabbro del parlar materno.
Versi d’amore e prose di romanzi 
soverchiò tutti; e lascia dir li stolti 
che quel di Lemosì credon ch’avanzi.
A voce più ch’al ver drizzan li volti, 
e così ferman sua oppinione 
prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti.
Così fer molti antichi di Guittone, 
di grido in grido pur lui dando pregio, 
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
Or se tu hai sì ampio privilegio, 
che licito ti sia l’andare al chiostro 
nel quale è Cristo abate del collegio,
falli per me un dir d’un paternostro, 
quanto bisogna a noi di questo mondo, 
dove poter peccar non è più nostro».
Poi, forse per dar luogo altrui secondo 
che presso avea, disparve per lo foco, 
come per l’acqua il pesce andando al fondo.
Io mi fei al mostrato innanzi un poco, 
e dissi ch’al suo nome il mio disire 
apparecchiava grazioso loco.
El cominciò liberamente a dire: 
«Tan m’abellis vostre cortes deman,
qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire.
Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan;
consiros vei la passada folor,
e vei jausen lo joi qu’esper, denan.
Ara vos prec, per aquella valor
que vos guida al som de l’escalina,
sovenha vos a temps de ma dolor!».
Poi s’ascose nel foco che li affina.

pg184_scaramuzza_purgatorio-xxvi_31-36.jpge come prima, si avvicinarono a me quelle stesse anime che mi avevano pregato di parlare, attenti nel loro atteggiamento ad ascoltarmi. Io, che per due volte avevo visto come costoro gradivano conoscere, cominciai: «O anime certe di raggiungere, quanto che sia, lo stato di pace eterna, le mie membra non sono rimaste giù in terra ne prematuramente né in età matura, ma sono qui com me con il loro sangue e con le loro articolazioni. Da qui salgo nel cielo per non essere più nelle tenebre dell’errore; c’è una donna più in alto che mi procura la grazia per poter condurre il mio corpo mortale nel vostro mondo. Ma possa il vostro maggiore desiderio presto addivenire, sicché possiate risiedere nel cielo che è pieno d’amore e che è infinito, ditemi, affinché lo scriva, chi siete voi e chi quella turba di anime che procede in direzione a voi opposta». Non diversamente si mostra stupito il montanaro e guardandosi attorno ammutolisce, quando rozzo e selvatico entra in città, allo stesso modo fecero all’apparenza quelle anime, ma dopo aver superato lo stupore, che negli spiriti superiori subito si smorza: «Beato te che delle nostre contrade», ricominciò colui che prima mi chiese di parlare «raccogli l’esperienza, per morire in grazia di Dio!». La gente che non cammina con noi, paga l’offesa di ciò che Cesare, durante il trionfo, si sentì rivolgersi contro l’epiteto di regina, per  questo si allontanano con il grido di Sodoma, rinfacciandosi il peccato al fine di accrescere la sete di espiazione con la vergogna. Il nostro peccato fu eterosessale, ma poiché non usammo la legge umana, ma seguimmo bestialmente l’appetito, quando partiamo da noi si dice, in vergogna di noi stessi, il nome di Pasife che si nascose in una bestia lignea (per unirsi con il toro). Ora conosci i nostri peccati e perché fummo colpevoli: se forse vuoi conoscere il nome delle anime che vi sono qui, non c’è abbastanza tempo e non lo conosco di tutte. Tuttavia di soddisferò del mio: sono Guido Guinizzelli, e qui mi purgo per essermi pentito prima della morte». Come nella disgrazia di Licurgo (che condannò a morte Isifile, per aver lasciato incustodito il figlio) corsero i due figli a vedere la madre (per salvarla), allo stesso modo io, ma non a giungere a tanto (gettarmi nel fuoco), quando sentii il nome di mio padre e dei compagni migliori di me, che in ogni tempo scrissero rime d’amore dolci ed eleganti; e in silenzio camminai per un bel po’ di tempo, osservandolo, non avvicinandomi più vicino a lui per il fuoco. Dopo averlo guardato, tutto mi offrii per accontentare ogni suo desiderio, con un giuramento che rende veritiero il mio dire. Ed egli a me: «Tu lasci una tale traccia, per quello che io sento, in me e tanto luminosa che il fiume Leté non potrà cancellare né oscurarla. Ma se le tue parole hanno detto il vero, dimmi qual è il motivo per cui dimostri nel parlare e nel guardarmi, di volermi così bene» E io a lui «I vostri scritti, che per quanto durerà la lingua volgare, renderanno graditi i codici in cui verranno vergati». «O fratello», disse «questo che io ti indico col dito» e mi mostrò uno spirito davanti a lui «fu il più grande artefice del suo volgare. Superò tutti nella poesia d’amore e nei romanzi cortesi, e lascia perdere gli sciocchi che antepongono a lui Giraut de Bornelh (nato nella regione del Lemosino). Danno retta più alla voce corrente che alla verità, e così formano la loro opinione prima d’ascoltare arte e la ragione. Così hanno fatto molti con Guittone, dandogli importanza di voce in voce, finché dal confronto con altri poeti, ha vinto la verità. Ora se tu hai un così grande privilegio di andare nel luogo dove è Cristo signore, recitagli per me un padrenostro, quanto è necessario a noi del purgatorio, dove non possiamo più peccare». Poi, forse per cedere il posto ad altri che gli erano vicini, sparì nel fuoco, allo stesso modo di un pesce in fondo all’acqua. Io mi diressi un poco più vicino alla persona indicata, e gli chiesi il suo nome che avrebbe ricevuto una gradita accoglienza. Ed egli così cominciò liberamente a dire: «Tanto mi piace la vostra gentile domanda, che io non voglio e non posso nascondermi a te. Io sono Arnaut (Daniel), che piango e vado cantando; afflitto vedo la passata follia, e vedo goioso davanti a me il giorno che aspetto con speranza. Quindi, vi prego, in nome di quella grazia che vi guida al sommo della scala purgatoriale, che al tempo opportuno vi sovvenga del mio dolore». Poi si nascose nel fuoco che purifica. 
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Questo canto costituisce quasi un dittico col precedente: ambedue sono dominati dal tema della poesia e sono i poeti, uno Bonagiunta Orbicciani, famoso per esser stato il tramite della definizione di dolce stil novo, questo, Guido Guinizzelli per esserne il padre: così lo definisce un Dante commosso. L’analisi poetica del canto XXV, diventa qui un’analisi delle fonti da cui essa nasce: se Guido ne è il primo, tutto tuttavia deriva dalla grande scuola provenzale. La derivazione dantesca è tanto più sottolineata dall’uso che lo stesso fa della lingua occitanica: certo non è sfoggio da parte di Dante mostrare la sua conoscenza linguistica, ma un vero e proprio omaggio di chi ha studiato e si è servito di della grande lezione di lingua, stile e contenuti che la poesia ed il romanzo cortese hanno avuto per la poesia italiana. 

Questo tema, così centrale ed importante per il percorso che sino ad allora aveva compiuto la poesia volgare, non ha nulla di astratto o, se si vuole, pedantesco: il tono che si respira è di dolcezza, di quella meravigliosa terzina in cui Guido Guinizzelli gli domanda del perché Dante gli voglia così bene. Si respira un’aurea di dolcezza, intimità di sentimenti che rende il canto elegiaco, elegia che si rafforza nei versi di Arnaut in lingua d’oc, vergati tutti in quella sospensione purgatoriale che li rene eterei.

Una cosa tuttavia ci lascia perplessi: la sorte degli omosessuali. Li avevano incontrati nel XV dell’Inferno sotto la pioggia infernale. Il loro peccato era derubricato tra i violenti, in questo caso verso natura. Che Dante abbia cambiato opinione su di loro, tanto da metterli nel Purgatorio? Non è certo una questione di personaggi: la parole che rivolge all’eterosessuale Guido (che tuttavia condivide la stessa pena, la lussuria) non sono diverse da quelle verso il maestro Brunetto Latini e ci mostra un Dante che non differenzia più l’amore omo o etero: qui rende punibili coloro che esercitarono il sesso con eccessivo impulso, senza ragione.   

Canto XXVII
VII cornice – Paradiso Terrestre 

E’ il tramonto: ecco un angelo di Dio, sul ciglio di una cornice che, con voce melodiosa intona “Beati i puri di cuore”, poi esorta i tre poeti ad attraversare il muro di fuoco. Dante è impaurito dal dover attraversare le fiamme e Virgilio lo rassicura, ricordando all’esitante Dante che dopo quel muro vi è Beatrice. Riconfortatolo entra tra le fiamme prima Virgilio, poi Dante e Stazio, dietro di lui. E pur vero che il poeta sente un calòore fortissimo, ma il poeta continua a ricordare lui la figura di Beatrice e così passano ino a trovare la scala per salire. Invitati da una voce i tre cominciano a salire, ma sparito il sole all’orizzonte si fermano su un gradino, Dante si addormenta sotto lo sguardo benevolo dei due poeti latini. Nel sonno appare una donna bella giovane camminare raccogliendo fiori, è Lia, personaggio biblico, con questi ha intenzione di adornarsi, mentre afferma che la sorella, Rachele è ferma a contemplare. Svanito il sogno e sollevatosi, Virgilio rivolge queste parole a Dante:

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William Blake: Canto XXVII

«Quel dolce pome che per tanti rami 
cercando va la cura de’ mortali, 
oggi porrà in pace le tue fami».
Virgilio inverso me queste cotali 
parole usò; e mai non furo strenne 
che fosser di piacere a queste iguali.
Tanto voler sopra voler mi venne 
de l’esser sù, ch’ad ogne passo poi 
al volo mi sentia crescer le penne.
Come la scala tutta sotto noi 
fu corsa e fummo in su ‘l grado superno, 
in me ficcò Virgilio li occhi suoi,
e disse: «Il temporal foco e l’etterno 
veduto hai, figlio; e se’ venuto in parte 
dov’io per me più oltre non discerno.
Tratto t’ho qui con ingegno e con arte; 
lo tuo piacere omai prendi per duce; 
fuor se’ de l’erte vie, fuor se’ de l’arte.
Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce; 
vedi l’erbette, i fiori e li arbuscelli 
che qui la terra sol da sé produce.
Mentre che vegnan lieti li occhi belli 
che, lagrimando, a te venir mi fenno, 
seder ti puoi e puoi andar tra elli.
Non aspettar mio dir più né mio cenno; 
libero, dritto e sano è tuo arbitrio, 
e fallo fora non fare a suo senno: 
per ch’io te sovra te corono e mitrio».   

«Quel dolce frutto che l’affannosa sollecitudine dei mortali va cercando per tanti rami, oggi placherà i tuoi desideri». Virgilio, rivolto a me, pronunciò tali parole, e non ci furono mai doni augurali che procurassero piacere uguali a queste. un grande desiderio si aggiunse al desiderio di salire in alto, che ad ogni passo mi sentivo crescere la lena di salire. Non appena la scala fu salita tutta da parte nostra e ci trovammo nel gradino più alto, Virgilio mi guardò negli occhi e disse: «Figliolo, hai visto le punizioni temporanee e quelle eterne e sei giunto in in luogo in cui io non riesco più a distinguere oltre il mio cammino. Ti ho portato qui con i miei insegnamenti e gli aiuti, prendi ormai il tuo volere come guida, se fuori dalle vie erte, fuori sei da quelle strette. Vedi il sole che ti splende sulla fronte, vedi le erbette, i fiori, gli alberelli che qui la terra produce spontaneamente. Fino a che verranno gli occhi belli di Beatrice che, pieni di lacrime, mi portarono a soccorrerti, puoi sederti e metterti tra essi. Non aspettarti più una mia parola o un mio cenno; il tuo volere è libero (da ogni tentazione), indirizzato in maniera retta e sanato nella sua perfezione e sarebbe sbagliato non seguirlo: perciò sopra te stesso t’incorono e t’impongo la mitra». 

E’ il canto dove simbolismo e realismo si sposano in modo mirabile: il tramonto ed il sogno. Durante il tramonto Dante deve percorrere l’ultimo passo prima di raggiungere la perfezione spirituale, attraversare la barriera di fuoco. La bufera infernale ed il fuoco dei lussuriosi appaiono come i primi e gli ultimi ostacoli del poeta Dante coinvolto all’inizio del suo percorso dal peccato dell’amore corporeo e giunto, finalmente, a superare tale ultima barriera per raggiungere l’amore divino. E’ umana la paura, è umano il tentennamento e faticoso, ed il sole che tramonta all’orizzonte sembra quasi indicare l’ultima resistenza oscura nell’animo di Dante. Durante la notte, sotto gli occhi attenti delle due auctoritates, il poeta sogna la vita attiva e la vita contemplativa che si alleano per rinforzare la scelta giusta di Dante. Allora il cammino diventa più rapido per giungere infine in un paesaggio idillico di pace e serenità. E’ qui che Virgilio rivolge le ultime parole a Dante, perlomeno le ultime parole che la sua memoria (che non erra) registra. Sono parole di commiato e quasi malinconiche: ti ho portato fin qui con tutto me stesso, le mie parole e le mie azioni ti sono state di soccorso e di guida, ma ora non sono in grado di dirti o fare qualcosa per te. In ultima analisi, ti ho cresciuto spiritualmente, adesso cammina da solo. La malinconia pervade il passo ed il lettore, quest’ultimo sa con certezza che saranno le ultime.

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L’incoronazione di Dante da parte di Virgilio

Canto XXVIII
Paradiso Terrestre 

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E’ il canto del paradiso terrestre:

Un’aura dolce, sanza mutamento
avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;
per cui le fronde, tremolando, pronte
tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;
non però dal loro esser dritto sparte
tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;
ma con piena letizia l’ore prime,
cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,
tal qual di ramo in ramo si raccoglie
per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,
quand’Eolo scilocco fuor discioglie. 

Già m’avean trasportato i lenti passi 
dentro a la selva antica tanto, ch’io 
non potea rivedere ond’io mi ‘ntrassi;
ed ecco più andar mi tolse un rio, 
che ‘nver’ sinistra con sue picciole onde 
piegava l’erba che ‘n sua ripa uscìo.
Tutte l’acque che son di qua più monde, 
parrieno avere in sé mistura alcuna, 
verso di quella, che nulla nasconde,
avvegna che si mova bruna bruna 
sotto l’ombra perpetua, che mai 
raggiar non lascia sole ivi né luna.
Coi piè ristretti e con li occhi passai 
di là dal fiumicello, per mirare 
la gran variazion d’i freschi mai;
e là m’apparve, sì com’elli appare 
subitamente cosa che disvia 
per maraviglia tutto altro pensare,
una donna soletta che si gia 
e cantando e scegliendo fior da fiore 
ond’era pinta tutta la sua via.
«Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore 
ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti 
che soglion esser testimon del core,
vegnati in voglia di trarreti avanti», 
diss’io a lei, «verso questa rivera, 
tanto ch’io possa intender che tu canti.
Tu mi fai rimembrar dove e qual era 
Proserpina nel tempo che perdette 
la madre lei, ed ella primavera».

Una brezza dolce e regolare mi colpiva la fronte, non più forte di un dolce vento; a causa di essa le fronde, tremolando, si piegavano tutte verso la parte (a occidente) in cui il santo monte proietta la prima ombra; tuttavia non si piegavano tanto che gli uccellini, sui rami, cessassero di adoperare ogni loro arte (di cantare); ma con piena gioia, cantando, accoglievano le prime ore del giorno tra le foglie, che facevano accompagnamento ai loro canti, proprio come avviene di ramo in ramo nella pineta sul lido di Classe, quando Eolo scioglie il vento di scirocco. Ormai i lenti passi mi avevano trasportato dentro l’antica selva al punto che non potevo più vedere da dove ero entrato; ed ecco che mi impedì di procedere oltre un fiumicello (il Lete), che con le sue piccole onde piegava verso sinistra l’erba che cresceva sulla sua sponda. Tutte le acque che sulla Terra sono più pure, sembrerebbero sporche e fangose a paragone di quella, che non nasconde nulla, anche se scorre scura sotto quell’ombra perpetua, che non lascia mai filtrare i raggi del sole o della luna. Arrestai il passo e spinsi lo sguardo al di là del fiumicello, per osservare la gran varietà dei rami fioriti; e là mi apparve, come appare all’improvviso una cosa che, destando meraviglia, distoglie da ogni altro pensiero, una donna che se ne andava tutta sola, e mentre cantava coglieva i fiori di cui era cosparso il suo cammino. «Orsù, bella donna, che sei riscaldata dall’amore, se voglio credere all’aspetto che di solito è specchio fedele dei sentimenti, abbi la compiacenza di farti un poco avanti, verso questo fiume, così che io possa capire che cosa stai cantando. Tu mi fai ricordare dove si trovava e come era Proserpina, nel momento in cui la madre la perse, e lei l’eterna primavera (o i fiori che aveva raccolto)».

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E’ certamente questo uno dei momenti in cui poesia e simbologia si sposano in modo mirabile. Ci troviamo infatti in un locus amoenus,, nell’Eden cristiano, opposto alla “selva selvaggia”, su cui una donna dalle fattezze stilnovistiche, cogliendo fiori, invita alla pace e alla serenità. Vi è infatti in lei, di cui ancora non sappiamo il nome, una qualità salvifica: fra lei e i poeti vi è un fiume, il cui passaggio per il momento è interdetto.

Nel proseguo del canto, rispondendo, la donna chiarisce un dubbio che al poeta era venuto sentendo Stazio, che gli aveva detto che al di là della porta purgatoriale non potevano esserci fenomeni naturali o metereologici. Ella afferma infatti che qui, in quanto ancora partecipe dell’aria vivificante creata grazie al movimento dei cieli, sin dal primo mobile, è stato normale che vi fosse vita, tutta la vita, come anticipazione delle perfezione paradisiaca. Infatti qui è eterna primavera ed il fiume che scorre dalla fonte è il Letè che conduce all’oblio, l’altro che scorre in modo contrario è l’Eunoè colui che fa riacquistare la memoria delle cose belle e non si ottiene questo se non si è gustata l’acqua di entrabi i fiumi. La donna conclude affermando che questo Eden non è nient’altro che il Parnaso, cantato dai poeti classici. A tale affermazione Dante si volta e sorride ai due poeti.

Canto XXIX
Paradiso Terrestre 

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William Blake: Canto XXIX

Il canto continua quello precedente e la donna va verso la fonte, seguita, nell’opposta riva dai poeti. Giunti si volgono a guardare la santa processione: dapprima sfilano sette candelabri  luminosi (simbolo dei sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà, timore di Dio), seguono ventiquattro anziani che innalzano, cantando le lodi dio (simbolo dei libri della Bibbia), ancora quattro animali, coronati di alloro con sei ali piene di occhi (simbolo dei Vangeli) . In mezzo ad essi sta il carro trionfante trainato da un grifone con ali gigantesche (simbolo della Chiesa): a fianco alla ruota destra danzano tre donne (virtù teologali) a quella sinistra quattro (virtù cardinali). Dietro loro altri vecchi: San Luca, autore degli Atti degli Apostoli, San Paolo, delle Epistole; i santi Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, autori delle Epistole Canoniche, san Giovanni, autore dell’Apocalisse. Quando la processione giunge davanti al poeta si sente un tuono e quindi si arresta.

Canto XXX
Paradiso Terrestre 

Quando il settentrion del primo cielo,
che né occaso mai seppe né orto 
né d’altra nebbia che di colpa velo,
e che faceva lì ciascun accorto
di suo dover, come ‘l più basso face
qual temon gira per venire a porto, 
fermo s’affisse: la gente verace,
venuta prima tra ‘l grifone ed esso, 
al carro volse sé come a sua pace; 
e un di loro, quasi da ciel messo,
Veni, sponsa, de Libano’ cantando 
gridò tre volte, e tutti li altri appresso.
Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna, 
la revestita voce alleluiando, 
cotali in su la divina basterna
si levar cento, ad vocem tanti senis
ministri e messaggier di vita etterna. 
Tutti dicean: ‘Benedictus qui venis!’, 
e fior gittando e di sopra e dintorno, 
Manibus, oh, date lilia plenis!’. 
Io vidi già nel cominciar del giorno
la parte oriental tutta rosata, 
e l’altro ciel di bel sereno addorno;
e la faccia del sol nascere ombrata, 
sì che per temperanza di vapori 
l’occhio la sostenea lunga fiata: 
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva 
e ricadeva in giù dentro e di fori, 
sovra candido vel cinta d’uliva 
donna m’apparve, sotto verde manto 
vestita di color di fiamma viva.
E lo spirito mio, che già cotanto
tempo era stato ch’a la sua presenza 
non era di stupor, tremando, affranto, 
sanza de li occhi aver più conoscenza,
per occulta virtù che da lei mosse, 
d’antico amor sentì la gran potenza. 
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto 
prima ch’io fuor di puerizia fosse, 
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma 
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio: ‘Men che dramma
di sangue m’è rimaso che non tremi: 
conosco i segni de l’antica fiamma’. 
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi
di sé, Virgilio dolcissimo patre, 
Virgilio a cui per mia salute die’mi;  
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada, 
che, lagrimando, non tornasser atre. 
«Dante, perché Virgilio se ne vada, 
non pianger anco, non pianger ancora; 
ché pianger ti conven per altra spada». 
Quasi ammiraglio che in poppa e in prora
viene a veder la gente che ministra 
per li altri legni, e a ben far l’incora; 
in su la sponda del carro sinistra,
quando mi volsi al suon del nome mio, 
che di necessità qui si registra, 
vidi la donna che pria m’appario
velata sotto l’angelica festa, 
drizzar li occhi ver’ me di qua dal rio.
Tutto che ‘l vel che le scendea di testa, 
cerchiato de le fronde di Minerva, 
non la lasciasse parer manifesta, 
regalmente ne l’atto ancor proterva
continuò come colui che dice 
e ‘l più caldo parlar dietro reserva: 
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte? 
non sapei tu che qui è l’uom felice?». 
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba, 
tanta vergogna mi gravò la fronte.  
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro 
sente il sapor de la pietade acerba. 
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’; 
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
Sì come neve tra le vive travi 
per lo dosso d’Italia si congela, 
soffiata e stretta da li venti schiavi,
poi, liquefatta, in sé stessa trapela,
pur che la terra che perde ombra spiri, 
sì che par foco fonder la candela; 
così fui sanza lagrime e sospiri
anzi ‘l cantar di quei che notan sempre 
dietro a le note de li etterni giri; 
ma poi che ‘ntesi ne le dolci tempre
lor compatire a me, par che se detto 
avesser: ‘Donna, perché sì lo stempre?’,  
lo gel che m’era intorno al cor ristretto,
spirito e acqua fessi, e con angoscia 
de la bocca e de li occhi uscì del petto. 
Ella, pur ferma in su la detta coscia
del carro stando, a le sustanze pie 
volse le sue parole così poscia: 
«Voi vigilate ne l’etterno die, 
sì che notte né sonno a voi non fura 
passo che faccia il secol per sue vie; 
onde la mia risposta è con più cura
che m’intenda colui che di là piagne, 
perché sia colpa e duol d’una misura. 
Non pur per ovra de le rote magne, 
che drizzan ciascun seme ad alcun fine 
secondo che le stelle son compagne, 
ma per larghezza di grazie divine,
che sì alti vapori hanno a lor piova, 
che nostre viste là non van vicine, 
questi fu tal ne la sua vita nova
virtualmente, ch’ogne abito destro 
fatto averebbe in lui mirabil prova. 
Ma tanto più maligno e più silvestro
si fa ‘l terren col mal seme e non cólto, 
quant’elli ha più di buon vigor terrestro. 
Alcun tempo il sostenni col mio volto: 
mostrando li occhi giovanetti a lui, 
meco il menava in dritta parte vòlto. 
Sì tosto come in su la soglia fui
di mia seconda etade e mutai vita, 
questi si tolse a me, e diessi altrui. 
Quando di carne a spirto era salita 
e bellezza e virtù cresciuta m’era, 
fu’ io a lui men cara e men gradita; 
e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false, 
che nulla promession rendono intera.
Né l’impetrare ispirazion mi valse,
con le quali e in sogno e altrimenti 
lo rivocai; sì poco a lui ne calse! 
Tanto giù cadde, che tutti argomenti 
a la salute sua eran già corti, 
fuor che mostrarli le perdute genti. 
Per questo visitai l’uscio d’i morti
e a colui che l’ha qua sù condotto, 
li prieghi miei, piangendo, furon porti. 
Alto fato di Dio sarebbe rotto, 
se Leté si passasse e tal vivanda 
fosse gustata sanza alcuno scotto 
di pentimento che lagrime spanda».  

Quando la costellazione formata da sette stelle dell’Empireo (i candelabri), che non ha mai conosciuto alba o tramonto, né è mai stata offuscata da nebbia se non quella del peccato, e che lì indicava a ciascuno il suo dovere, proprio come l’Orsa Maggiore indica la via a chiunque gira il timone per giungere in porto, si fermò, la gente santa (i ventiquattro vecchi) che era venuta tra essa e il grifone si voltò verso il carro, come alla sua pace; e uno dei vecchi, come se fosse un inviato del cielo, gridò cantando per tre volte ‘Vieni, sposa, dal Libano’, seguito da tutti gli altri. Come i beati risorgeranno solleciti all’ultima chiamata (il Giorno del Giudizio), ognuno dalla sua tomba, cantando alleluia con la voce proveniente dal corpo di cui si saranno rivestiti, così sul carro divino si alzarono cento ministri e messaggeri di vita eterna (angeli), in risposta alla voce di un vecchio tanto autorevole. Tutti dicevano: ‘Benedetto tu che vieni!’, e, gettando fiori in alto e tutt’intorno, aggiungevano: ‘Oh, spargete gigli a piene mani!’ Io ho già visto all’inizio del giorno la parte orientale tutta di colore roseo, e il resto del cielo adornato da un bel colore sereno; e ho visto il sole nascere dietro un velo, così che l’occhio poteva fissarlo a lungo grazie a spessi vapori che lo temperavano: allo stesso modo, dentro la nuvola di fiori che saliva dalle mani degli angeli e ricadeva in basso dentro il carro e di fuori, mi apparve una donna che indossava un velo bianco ed era incoronata di ulivo, sotto un verde mantello e vestita di colore rosso fiammante. E il mio spirito, che era stato già tanto tempo senza tremare, colpito dallo stupore per la sua presenza, anche senza vederla con gli occhi, grazie a una virtù nascosta che mosse da lei, sentì la grande potenza di un antico amore. Non appena la mia vista fu colpita dall’alta virtù amorosa che già mi aveva trafitto prima che io uscissi dalla fanciullezza (quando avevo nove anni), mi voltai a sinistra con l’ansia con cui il bambino corre dalla mamma, quando ha paura o è turbato da qualcosa, per dire a Virgilio: ‘Non mi è rimasta neppure una goccia di sangue che non tremi: conosco i segni dell’antica fiamma amorosa’. Ma Virgilio ci aveva lasciati privi di sé, Virgilio, dolcissimo padre, Virgilio, al quale mi affidai per la mia salvezza; e tutto ciò (l’Eden) che perse l’antica madre (Eva) non impedì alle mie guance pulite dalla rugiada di tornare sporche per il mio pianto. «Dante, per il fatto che Virgilio se ne sia andato non piangere così presto, non piangere ancora, poiché dovrai piangere per altri motivi». E come un ammiraglio che a poppa e a prora va a sorvegliare i marinai che governano le altre navi, e li sprona a far bene; così io vidi sul fianco sinistro del carro, quando mi voltai al suono del mio nome che sono costretto a citare in questi versi, la donna che prima mi era apparsa velata dai fiori gettati dagli angeli, che fissava lo sguardo verso di me al di qua del fiume (Lete). Anche se il velo che le scendeva sulla testa, coronato dalle fronde di Minerva (ulivo), non permetteva di vederla in viso, ancora regalmente altera nel suo atteggiamento continuò, come colui che parla e riserva gli argomenti più efficaci per la fine del discorso: «Guarda bene qui! Sì, sono proprio io, sono proprio Beatrice! Come hai osato accedere al Paradiso Terrestre? Non sapevi che questa è la sede dell’uomo felice?» Gli occhi mi caddero giù nelle acque chiare del fiume; ma vedendo la mia immagine riflessa, li volsi all’erba perché una grande vergogna mi fece chinare la fronte. Come la madre sembra superba al figlio, così lei sembrava a me; infatti l’affetto che si manifesta col rimprovero ha un sapore amaro. La donna tacque; e gli angeli cantarono subito ‘In te, o Signore, ho riposto la mia speranza’, ma non andarono oltre il versetto che dice ‘I miei piedi’. Come la neve si ghiaccia tra gli alberi dell’Appennino, colpita dai venti freddi della Schiavonia, poi, liquefatta, si scioglie poco a poco, non appena l’Africa manda i suoi venti caldi, così che sembra una candela sciolta dal fuoco; allo stesso modo io fui senza lacrime e sospiri, prima del canto di quelli (gli angeli) che cantano sempre dietro l’armonia delle ruote celesti; ma dopo che sentii nelle loro dolci melodie che mi compativano, come se avessero detto: ‘Donna, perché lo avvilisci in tal modo?’, il gelo che mi si era stretto intorno al cuore si trasformò in acqua e fiato, e uscì fuori dalla bocca e dagli occhi con angoscia. Beatrice, sempre stando ferma sul fianco sinistro del carro, rivolse poi le sue parole a quelle creature devote (gli angeli): «Voi vegliate nell’eterna luce di Dio, così che né la notte né il sonno vi sottraggono alcun passo che il mondo compie nelle sue vie (sapete tutto ciò che accade sulla Terra); perciò la mia risposta ha lo scopo di farsi sentire da colui che piange al di là del fiume, perché il dolore sia commisurato alla colpa. Non solo grazie all’influenza dei Cieli, che indirizzano ciascun essere al suo fine secondo la virtù della stella che presiede alla sua nascita, ma anche per la generosità della grazia divina, che piove da nubi così alte che la nostra vista non può neppure avvicinarsi, questi (Dante) nella sua gioventù ebbe tali virtù in potenza che in lui ogni buona attitudine avrebbe portato a straordinari risultati. Ma un terreno si fa tanto più cattivo e selvatico, con cattive sementi e quando non è coltivato, quanto più esso è dotato di fertilità naturale. Per qualche tempo sostenni Dante col mio volto: mostrandogli i miei occhi giovani, lo conducevo con me sulla retta strada. Ma non appena io fui sulla soglia della mia giovinezza e cambiai vita (morii), questi tradì la mia memoria e si diede ad altre donne. Quando mi ero trasformata da carne a spirito e la mia bellezza e virtù erano accresciute, io gli fui meno cara e meno gradita; e rivolse i suoi passi per una via fallace, seguendo false immagini di bene, che non mantengono nessuna promessa fatta. Non mi servì ottenere dal Cielo buona ispirazione, con cui lo richiamai in sogno e in altro modo; a lui importò così poco! Cadde tanto in basso, che ormai ogni mezzo per salvarlo era inefficace, salvo che mostrargli le genti perdute (i dannati). Per questo visitai la soglia dell’Inferno (il Limbo) e rivolsi, piangendo, le mie preghiere a colui (Virgilio) che l’ha portato fin quassù. L’alta volontà di Dio sarebbe infranta se Dante superasse il Lete e gustasse una tale vivanda (bevesse l’acqua del fiume) senza provare un pentimento tale da fargli versare lacrime».

Il  canto si apre con due sublimi sequenze: la prima ad indicare le sette stelle  dell’Empireo, che non conobbero mai né alba né tramonto, le quali hanno mostrato agli espianti sempre il cammino da seguire (e semmai furono velate è per le colpe degli uomini), l’altro è il richiamo al giorno del Giudizio Universale, visto che questo è l’Eden primigenio, dove l’uomo viveva prima di commettere il peccato originale. Tale incipit solenne è anticipatore dell’arrivo di Beatrice la cui vista, per il poeta, lo fa riprovare l’antico amore che ha provato per lei.

Tale tempesta sentimentale Dante la vorrebbe condividere con l’antica guida (usando anche le stesse parole che Virgilio fa pronunciare a Didone riguardo Enea), ma voltatosi, si rende conto che è sparita. Il dolore per la sua perdita è grande, ma Beatrice, severamente, lo ammonisce di versare lacrime per i suoi peccati e non per l’abbandono del poeta latino.

La Beatrice che qui rimprovera Dante è una donna altezzosa, severa, non incline a nessuna comprensione verso il vecchio amato, che chiama per nome Dante, nome che viene menzionato per la prima ed ultima volta nel poema sacro, ad indicare tuttavia una certa intimità. Quindi passa in rassegna come lo scrittore fiorentino fosse ancora “virtuoso” quando s’innamorò di lei, ma, a seguito delle sua morte, percorse altre vie (quelle filosofiche) che lo condussero nel peccato, tanto da dover intercedere per lui.

Dante piange sentendosi aspramente rimproverato, ma saranno gli angeli ad intercedere per lui: ma se Beatrice fa ciò è per condurre Dante ad un pieno pentimento. Solo dopo potrà immergersi nel Lete.

Canto XXXI
Paradiso Terrestre 

Senza soluzione di continuità il canto prosegue con la requisitoria di Beatrice contro Dante, rimproverandogli di non aver seguito il vero bene, e una volta che lei perse il bel corpo, egli abbia rivolto “le penne in giuso / ad aspettar più colpo, o pargoletta / o altra novità con sì breve uso“, portando così le accuse su un fatti più personali; a queste accuse  Dante risponde a monosillabi, piegato dalla “verità”, necessaria a quella contritio cordis, e alla confessio oris, cui seguirà la satisfactio operis, cioè al rituale della purificazione. Infatti a seguito delle crude parole di Beatrice il nostro, dopo aver espresso il pentimento con il pianto, sviene e si risveglierà tra le braccia di Matelda: 

Poi, quando il cor virtù di fuor rendemmi,
la donna ch’io avea trovata sola
sopra me vidi, e dicea: «Tiemmi, tiemmi!».
Tratto m’avea nel fiume infin la gola, 
e tirandosi me dietro sen giva 
sovresso l’acqua lieve come scola.
Quando fui presso a la beata riva,
‘Asperges me’ sì dolcemente udissi,
che nol so rimembrar, non ch’io lo scriva.
La bella donna ne le braccia aprissi;
abbracciommi la testa e mi sommerse 
ove convenne ch’io l’acqua inghiottissi.
Indi mi tolse, e bagnato m’offerse
dentro a la danza de le quattro belle;
e ciascuna del braccio mi coperse.

Poi quando il cuore mi permise di riprendere i sensi, Matilde, che avevo dapprima trovata sola, vidi sopra di me e diceva: «Tieniti a me, tieniti a me». Mi aveva immerso nel fiume sino al collo  e trascinandomi dietro sé se ne andava nell’acqua come una piccola nave. Quando fui vicino alla riva opposta, udii cantare così dolcemente, il cui ricordo è ora vago e difficile da scrivere. La bella donna aprì le braccia e mi abbracciò la testa e mi sommerse per cui fu naturale che i ne inghiottissi. quindi mi sollevò e, completamente bagnato mi offrì alla danza di quattro belle donne, e ciascuna di esse mi coprì con il braccio. 

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E’ questo il rito del bagno del fiume Leté, da cui Dante ne esce purificato e accompagnato dalle quattro donne, che rappresentano le virtù teologali e in seguito da altre tre (virtù teologali) potrà finalmente quasi entrare nel mistero della divinità: esso apparirà nello sguardo di Beatrice, dove apparirà la trasmutazione del grifone, ma riflettendosi nei suoi occhi rimarrà se stesso. E la poesia dantesca entrerà, in modo più diretto, a cantare l’ineffabile:

O isplendor di viva luce etterna,
chi palido si fece sotto l’ombra
sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna,
che non paresse aver la mente ingombra,
tentando a render te qual tu paresti
là dove armonizzando il ciel t’adombra,
quando ne l’aere aperto ti solvesti?

O splendore della viva luce di Dio, quale poeta consumato all’ombra sotto l’ombra della poesia ed ha il possesso delle qualità poetiche che non apparirebbe avere la mente impedita tentando di rappresentarti come tu apparisti là dove il cielo nella sua unitaria armonia ti raffigura quando ti mostrasti nell’aria pura?

Canto XXXII
Paradiso Terrestre

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Si ritorna alla processione sacra: si giunge ad un albero spoglio, l’albero della scienza del bene e del male che Dio stesso mise nell’Eden; qui verrà legato il carro guidato dal grifone e ciò lo porterà a rinverdire (qui l’allegoria vuole l’albero dapprima inaridito dal peccato dell’uomo e quindi fatto riprendere dalla funzione salvifica della Chiesa). Rapito dal canto, Dante si addormenta e non vede più il grifone che è volato in alto (il grifone, simbolo di Cristo, è ora in cielo), mentre Beatrice rimane a guardia del carro  (simbolo della Chiesa). Ma questa viene insidiata dal male, dapprima un’aquila che la squassa (simbolo dell’Impero in lotta con la Chiesa), quindi una volpe che verrà cacciata da Beatrice, poi ancora l’aquila che lascia penne sul carro (la donazione di Costantino). Subentra in seguito un drago che infilza la coda avvelenata all’interno del carro (gli scismi che spaccano la Chiesa). Quindi il carro viene riempito completamente dalle penne dell’aquila e da loro sbucano quattro teste (rappresentanti i sette peccati capitali). Alla fine nel carro compare una puttana che amoreggia con un gigante e che la trascina nel mezzo del bosco (la Chiesa che si è prostituita ormai ai poteri mondani). 

William Blake - The Harlot and the Giant illustration to Canto 32 of Purgato - (MeisterDrucke-576894).jpgWilliam Blake: Il gigante e la prostituta

Canto XXXIII
Paradiso Terrestre 

Il canto inizia con le Virtù che commiserano la triste fine della Chiesa, che verranno confortate da Beatrice, che preannuncerà loro una rigenerazione non lontana. Quindi inizia l’ultimo percorso:

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Così sen giva; e non credo che fosse
lo decimo suo passo in terra posto,
quando con li occhi li occhi mi percosse;
e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,
mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,
ad ascoltarmi tu sie ben disposto».
Sì com’io fui, com’io dovëa, seco,
dissemi: «Frate, perché non t’attenti
a domandarmi omai venendo meco?».
Come a color che troppo reverenti
dinanzi a suo maggior parlando sono,
che non traggon la voce viva ai denti,
avvenne a me, che sanza intero suono
incominciai: «Madonna, mia bisogna
voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».
Ed ella a me: «Da tema e da vergogna
voglio che tu omai ti disviluppe,
sì che non parli più com’om che sogna.
Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,
fu e non è; ma chi n’ ha colpa, creda
che vendetta di Dio non teme suppe.
Non sarà tutto tempo sanza reda
l’aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch’io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.
E forse che la mia narrazion buia,
qual Temi e Sfinge, men ti persuade,
perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;
ma tosto fier li fatti le Naiade,
che solveranno questo enigma forte
sanza danno di pecore o di biade.
Tu nota; e sì come da me son porte,
così queste parole segna a’ vivi
del viver ch’è un correre a la morte.
E aggi a mente, quando tu le scrivi,
di non celar qual hai vista la pianta
ch’è or due volte dirubata quivi.
Qualunque ruba quella o quella schianta,
con bestemmia di fatto offende a Dio,
che solo a l’uso suo la creò santa.
Per morder quella, in pena e in disio
cinquemilia anni e più l’anima prima
bramò colui che ’l morso in sé punio.
Dorme lo ’ngegno tuo, se non estima
per singular cagione essere eccelsa
lei tanto e sì travolta ne la cima.
E se stati non fossero acqua d’Elsa
li pensier vani intorno a la tua mente,
e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,
per tante circostanze solamente
la giustizia di Dio, ne l’interdetto,
conosceresti a l’arbor moralmente.
Ma perch’io veggio te ne lo ’ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto,
sì che t’abbaglia il lume del mio detto,
voglio anco, e se non scritto, almen dipinto,
che ’l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto».
E io: «Sì come cera da suggello,
che la figura impressa non trasmuta,
segnato è or da voi lo mio cervello.
Ma perché tanto sovra mia veduta
vostra parola disïata vola,
che più la perde quanto più s’aiuta?».
«Perché conoschi», disse, «quella scuola
c’ hai seguitata, e veggi sua dottrina
come può seguitar la mia parola;
e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina».
Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricorda
ch’i’ stranïasse me già mai da voi,
né honne coscïenza che rimorda».
«E se tu ricordar non te ne puoi»,
sorridendo rispuose, «or ti rammenta
come bevesti di Letè ancoi;
e se dal fummo foco s’argomenta,
cotesta oblivïon chiaro conchiude
colpa ne la tua voglia altrove attenta.
Veramente oramai saranno nude
le mie parole, quanto converrassi
quelle scovrire a la tua vista rude».
E più corusco e con più lenti passi
teneva il sole il cerchio di merigge,
che qua e là, come li aspetti, fassi,
quando s’affisser, sì come s’affigge
chi va dinanzi a gente per iscorta
se trova novitate o sue vestigge,
le sette donne al fin d’un’ombra smorta,
qual sotto foglie verdi e rami nigri
sovra suoi freddi rivi l’alpe porta.
Dinanzi ad esse Ëufratès e Tigri
veder mi parve uscir d’una fontana,
e, quasi amici, dipartirsi pigri.
«O luce, o gloria de la gente umana,
che acqua è questa che qui si dispiega
da un principio e sé da sé lontana?».
Per cotal priego detto mi fu: «Priega
Matelda che ’l ti dica». E qui rispuose,
come fa chi da colpa si dislega,
la bella donna: «Questo e altre cose
dette li son per me; e son sicura
che l’acqua di Letè non gliel nascose».
E Bëatrice: «Forse maggior cura,
che spesse volte la memoria priva,
fatt’ ha la mente sua ne li occhi oscura.
Ma vedi Eünoè che là diriva:
menalo ad esso, e come tu se’ usa,
la tramortita sua virtù ravviva».
Come anima gentil, che non fa scusa,
ma fa sua voglia de la voglia altrui
tosto che è per segno fuor dischiusa;
così, poi che da essa preso fui,
la bella donna mossesi, e a Stazio
donnescamente disse: «Vien con lui».
S’io avessi, lettor, più lungo spazio
da scrivere, i’ pur cantere’ in parte
lo dolce ber che mai non m’avria sazio;
ma perché piene son tutte le carte
ordite a questa cantica seconda,
non mi lascia più ir lo fren de l’arte.
Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle.

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Con questa compagnia si incamminò; e non credo che avesse ancora poggiato a terra il decimo passo, quando con il suo sguardo colpì il mio sguardo; e, con espressione serena del volto, «Vieni più vicino» mi disse, «così che, se io mi rivolgo a te, tu sia nella condizione ideale per ascoltarmi.» Non appena mi fui avvicinato a lei, com’era mio dovere, mi disse: «Fratello, perché non provi a porgermi qualche domanda, ora che cammini insieme a me?» Come accade a coloro che, troppo reverenti, quando si trovano dinnanzi ad un loro superiore e devono parlargli, non riescono a farlo con voce chiara, lo stesso modo accadde a me, e con voce strozzata incominciai a dire: «Mia signora, le mie esigenze voi le conoscete, e conoscete anche ciò che serve per soddisfarle.» Mi rispose Beatrice: «Dal timore e dalla vergogna voglio tu ti liberi adesso, così da smettere di parlare in modo confuso, come un uomo che dorme. Sappi che il carro (la Chiesa) che è stato squarciato dal drago (corrotto), è stato, ma non è più; ma chi ne ha la colpa, sappia che la vendetta, la giustizia di Dio, non può essere evitata. Non rimarrà ancora per tanto tempo senza erede l’aquila (impero) che lasciò le sue penne al carro (poteri alla Chiesa), divenendo così un mostro e quindi preda del gigante (la Francia); perché io vedo con certezza, è quindi lo dico, che si avvicina ormai una costellazione favorevole, protetta da ogni impedimento e da ogni ritardo, inevitabile, con i favori della quale, qualcuno (DXV) mandato da Dio ucciderà la ladra (la Chiesa) insieme a quel gigante che con lei commette peccati. Ma forse le mie dichiarazioni, poco comprensibili, simili alle profezie dei Temi e della Sfinge, ti convincono poco, perché a loro modo confondono la mente; ma presto saranno i fatti a rendere chiari questi complessi enigmi, senza provocare alcun danno. Prendi nota delle mie parole; e così come io le ho dette a te, allo stesso modo tu dovrai farle conoscere ai vivi, che vivono una esistenza mortale, destinata alla morte. E ricordati bene, quando le trascriverai, di non tralasciare di raccontare della pianta (la conoscenza) che hai visto essere stata per due volte spogliata, depredata. Chiunque la saccheggi o la danneggi, offende di fatto Dio commettendo un atto sacrilego, perché fu creata da Dio per suo uso, per non essere toccata. Per aver voluto mordere un suo frutto, soffrendo il rimorso e la lontananza di Dio, per più di cinquemila anni la prima anima, Adamo, desiderò la venuta di Gesù Cristo, colui che con il proprio sacrificio punì il peccato originale. La tua intelligenza è assopita se non riesce a comprendere che c’è un motivo straordinario per cui questa pianta è tanto alta e ha la cima capovolta, è più larga in punta che alla sua base. E se i tuoi inutili pensieri, le tue speculazioni razionali, non avessero incrostato la tua mente, come fa l’acqua del fiume Elsa, ed il loro fascino non avesse avuto su di te l’effetto del sangue di Priamo sul frutto del gelso, solo attraverso tutti questi indizi sapresti riconoscere nell’albero, nel divieto di toccarlo, il simbolo del senso morale della giustizia di Dio. Ma poiché vedo che la tua mente è divenuta dura come pietra e quindi, così pietrificata, anche offuscata, tanto che la luce, la chiarezza delle mie parole ti abbaglia, voglio che tu porti, se non proprio inciso con le parole, almeno dipinto in te, il ricordo delle mie parole, per lo stesso motivo per cui al ritorno dalla Terrasanta si porta un bastone ornato di foglie di palma.» Dissi allora io: «Proprio come una cera da sigillo a cui non si può cambiare la figura che le è stata impressa, le vostre parole sono state adesso incise nella mia memoria. Ma poiché è molto al di sopra dalla mia capacità di comprensione il senso delle vostre parole, tanto da me desiderate, vi chiedo: perché tanto più mi sforzo di afferrare il senso, tanto più lo perdo?» Disse: «Perché tu possa renderti conto di quanto poco la scuola che hai seguito, e la sua scienza, possano comprendere le mie parole; e perché tu possa vedere che è tanto lontana da Dio la via da voi seguita, quanto dista dalla terra il cielo più alto e che ruota più velocemente.» Le risposi allora: «Non ricordo di essermi mai allontanato dalla vostra via, né provo alcun rimorso per un simile errore.» «Se non riesci a ricordarti di questo errore», rispose sorridendo Beatrice, «ricordati almeno che oggi hai bevuto l’acqua del fiume Lete, che cancella la memoria dei propri peccati; e se è vero che il fumo è indizio della presenza del fuoco, questa tua dimenticanza dimostra chiaramente che peccavi, rivolgendo i tuoi desideri verso altri beni. Ma d’ora in avanti saranno per te più chiare le mie parole, poiché sarà necessario renderle tali alla tua mente rozza.» Il sole, più incandescente e più lento nei suoi movimenti, occupava ormai la posizione corrispondente a mezzogiorno, che si sposta da una parte o all’altre a seconda di come la guardi, quando, così come si ferma all’improvviso chi procede davanti a qualcuno facendogli da guida, se trova qualche novità e qualche traccia di essa, si fermarono di colpo le sette donne al margine di una ombra pallida, simile a quella che, sotto a verdi foglie e rami neri, è possibile trovare in montagna al di sopra dei freddi ruscelli. Davanti a loro mi sembrò di vedere i fiumi Tigri ed Eufrate sgorgare da una sola sorgente, e, come fanno due amici, allontanarsi lentamente l’uno dall’altro. «Oh luce e gloria dell’umanità, che fiume è questo che viene qui alla luce da una unica sorgente, per poi allontanarsi da sé stesso, dividendosi in due?» A questa mia preghiera mi fu data la risposta: «Chiedi a Matelda ti dirtelo.» E mi rispose, con il tono di che cerca di discolparsi, la bella donna Matelda: «Gli ho già spiegato questa ed altre cose; e sono anche sicura che l’acqua del fiume Lete non gliele ha fatte dimenticare.» Disse allora Beatrice: «Forse una preoccupazione maggiore, che può capitare spesso possa ridurre la capacità di memoria, gli ha oscurato il ricordo di ciò che ora vede con gli occhi. Ma vedi il fiume Eunoé che scorre di là: conducilo ad esso, e come sei abituata a fare, ravviva la sua memoria indebolita.» Come una anima nobile, che non cerca scuse, ma al contrario fa propria la volontà altrui, non appena questa viene espressa; così, dopo avermi preso per mano, la bella donna subito si mise in viaggio, e a Stazio disse con signorilità: «Vieni anche tu con lui.» Caro lettore, anche se avessi un spazio maggiore su cui scrivere, riuscirei solo in parte ad esprimere il dolce sapore di quell’acqua, di cui non mi sarei mai saziato; ma poiché sono ormai tutti pieni i fogli che avevo preparato per scrivere questa seconda cantica, il limite di spazio, freno dell’arte, non mi lascia proseguire oltre. Riemersi da quell’acqua sacra ringiovanito, come fossi una giovane pianta rinnovata da giovani fronde, purificato e finalmente pronto per salire fino alle stelle.

Katerina Machytkovà.jpgKaterina Machytkovà: Lettura del XXXIII del Purgatorio

Beatrice da donna rimproverante ora si fa guida, compagna del pellegrino, rivolgendosi a lui con il termine “frate” fratello ed e in questo “nuovo” ruolo che ammonisce Dante sul destino della Chiesa, e come essa ora abbia bisogno di un nuovo restauratore, di contro a coloro che l’hanno distrutta e mercificata. Si è che questo nuovo restauratore profetizzato appartiene ad una simbologia incomprensibile, in quando indicato con dei numeri che, sebbene disposti in modo diverso, dovrebbero dare come soluzione DUX. Che sia esso l’imperatore Arrigo VII su cui Dante nutriva speranze, oppure Cangrande della Scala? Dante chiude il Purgatorio così come aveva iniziato l’Inferno, in quest’ultimo il veltro, ora il DXV.

Quindi si riprende il cammino, le sette donne (virtù), Beatrice, Matelda, Dante e Stazio; giungono ad una fonte e Beatrice invita Matelda a compiere l’ultimo rito, quello del bagno dell’Eunoé, che permettono al nostro di purificarsi a tal punto da poter affrontare l’ultimo percorso, quello paradisiaco.

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Salvator Dalì: Dante purificato

Ma troviamo qui già qualcosa che ce lo richiama, l’ineffabilità del poter dire: le parole di Beatrice volano troppo alte per la comprensione di Dante. Le risposte potrebbero esser due:

  1. la conoscenza fino adesso seguita si basava sul “falso imaginar” senza l’aiuto della virtù divina che la possa illuminare;
  2.  si è appena bagnato nel Leté e non si è ancora bagnato nell’Eunoé: la condizione attuale e come di intorpedimento interiore, a cui soltanto l’ultimo rito potrà liberarlo.

DIVINA COMMEDIA: INFERNO

COMEDÌA

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Struttura della Comedìa

La Divina Commedia, con il titolo con cui noi oggi la conosciamo è un poema, scritto all’inizio del 1300 da un uomo fiorentino in esilio.

E’ un’opera che l’autore ha definito “comedìa” perché gli stili codificati nella cultura classica e quindi ripresi dalla cultura medievale, indicavano con questo termine ciò che aveva un duro e difficoltoso inizio ed un felice e piacevole fine ed inoltre utilizzavano uno stile “medio”. Nella prima cantica Dante infatti utilizza uno stile basso, medio nella seconda ed alto nella terza, riprendendo da un grande autore latino la concezione secondo cui nella commedia talvolta poteva presentarsi lo stile tragico ed alto. Inoltre lo stesso Dante ci dice in che modo è corretto leggere l’opera: nel Convivio, opera dottrinale del nostro, egli afferma che ci sono quattro sensi per intendere un’opera. Essi sono:

  1. letterale: percepire ciò che il testo dice nell’evidenza del suo dettato;
  2. allegorico: cercare un altro significato che va al di là del testo “letterale”;
  3. morale: indica il fine che nasconde l’opera e dev’essere colto dal lettore;
  4. anagogico: indica la spiritualità verso cui tendere il lettore.

Dante stesso invita il lettore a cogliere, nella sua opera. il senso allegorico.

Inferno

Noi non possediamo alcun manoscritto dantesco; la data entro cui inseriamo la stesura delle tre cantiche la ricaviamo da dati interni l’opera e dalla biografia del poeta. L’interruzione de Il Convivio e il De vulgari eloquentia c’invitano a collocare l’Inferno tra il 1306 e il 1309, il primo come data in cui tramontano definitivamente le speranze di una ripresa imperiale da parte di Arrigo VII, il secondo perché i fatti di cronaca presenti nel testo si fermano, appunto, a quella data.

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Struttura Inferno

Dante disegna l’Inferno come un gigantesco imbuto, creatosi dopo la rovinosa caduta di Lucifero che dal cielo venne precipitato giù, conficcandosi con la testa al centro della terra (cioè nel luogo più lontano della terra). Tale voragine si apre nell’emisfero boreale, presso Gerusalemme, e quella terra che fuggì via al suo arrivo, si raccolse a formare la montagna purgatoriale che domina alta e solitaria, completamente inaccessibile all’uomo, nell’emisfero australe.

Canto I
Proemio dell’opera

Sin dal primo verso, Dante c’immerge subito nella materia: egli, a 35 anni, nei giorni centrali dell’anno giubilare del 1300 proclamato, per la prima volta, da Bonifacio VIII, si ritrova in una selva, dal momento che ha perduto la “diritta via”. Ma se la “diritta via” è la via della salvezza, ne consegue che la selva è il “peccato”. Dante in tre versi ci fa passare dal senso letterale al senso allegorico. Ma c’è anche quello morale: bisogna liberarsi dal peccato, e quello anagogico, al fine di percorrere la via che giunge a Dio. Impaurito Dante si sente risollevato dalla vista del Sole, spera di raggiungerlo, ma tre animali gli sbarrano la strada: nulla è più evidente della capacità di Dante nel dare valore in tutti i sensi possibili al suo discorso: il Sole è Dio, le tre fiere, rispettivamente la lonza, il leone e la lupa, attraverso un crescendo morale ci rimandano alla lussuria, la forza e la violenza, ma soprattutto l’avarizia e alla frode. E mentre è sempre più trascinato dallo sconforto, ecco che gli si presenta una figura, Virgilio, ricco di sapienza e di virtù, che annuncia al poeta la fine del peccato nel mondo con una oscura profezia e quindi prospetta il viaggio ultraterreno, che lo condurrà a visitare, oltre all’inferno e a gran parte del purgatorio con la sua guida, il paradiso terrestre ed il regno dei cieli, con guide più degne di lui. Dante commosso accetta.

inferno-i-1.jpgGustave Doré: Inizio canto I

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!
Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte.
Io non so ben ridir com’i’ v’intrai,
tant’era pien di sonno a quel punto
che la verace via abbandonai.
Ma poi ch’i’ fui al piè d’un colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m’avea di paura il cor compunto,
guardai in alto e vidi le sue spalle
vestite già de’ raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne calle.
Allor fu la paura un poco queta,
che nel lago del cor m’era durata
la notte ch’i’ passai con tanta pieta.
E come quei che con lena affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l’acqua perigliosa e guata,
così l’animo mio, ch’ancor fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai persona viva.
Poi ch’èi posato un poco il corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che ’l piè fermo sempre era ’l più basso.

inferno-i-2.jpgGustave Doré: La lonza

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta;
e non mi si partia dinanzi al volto,

anzi ’mpediva tanto il mio cammino,
ch’i’ fui per ritornar più volte vòlto.
Temp’era dal principio del mattino,
e ’l sol montava ’n sù con quelle stelle
ch’eran con lui quando l’amor divino
mosse di prima quelle cose belle;
sì ch’a bene sperar m’era cagione
di quella fiera a la gaetta pelle
l’ora del tempo e la dolce stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m’apparve d’un leone.
Questi parea che contra me venisse
con la test’alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l’aere ne tremesse.
Ed una lupa, che di tutte brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver grame,
questa mi porse tanto di gravezza
con la paura ch’uscia di sua vista,
ch’io perdei la speranza de l’altezza.

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William Blake: Dante e le tre fiere

E qual è quei che volontieri acquista,
e giugne ’l tempo che perder lo face,
che ’n tutti suoi pensier piange e s’attrista;
tal mi fece la bestia sanza pace,
che, venendomi ’ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove ’l sol tace.
Mentre ch’i’ rovinava in basso loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea fioco.
Quando vidi costui nel gran diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto
nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel giusto
figliuol d’Anchise che venne di Troia,
poi che ’l superbo Ilïón fu combusto.

Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?».
«Or se’ tu quel Virgilio e quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos’io lui con vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e lume,
vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ ha fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore,
tu se’ solo colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ ha fatto onore.
Vedi la bestia per cu’ io mi volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi».
«A te convien tenere altro vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo’ campar d’esto loco selvaggio;
ché questa bestia, per la qual tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo ’mpedisce che l’uccide;
e ha natura sì malvagia e ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo ’l pasto ha più fame che pria.
Molti son li animali a cui s’ammoglia,
e più saranno ancora, infin che ’l veltro
verrà, che la farà morir con doglia.
Questi non ciberà terra né peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

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Il veltro messianico di Dante

Di quella umile Italia fia salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di ferute.
Questi la caccerà per ogne villa,
fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,
là onde ’nvidia prima dipartilla.
Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco etterno;
ove udirai le disperate strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch’a la seconda morte ciascun grida;
e vederai color che son contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate genti.
A le quai poi se tu vorrai salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio partire;
ché quello imperador che là sù regna,
perch’i’ fu’ ribellante a la sua legge,
non vuol che ’n sua città per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi regge;
quivi è la sua città e l’alto seggio:
oh felice colui cu’ ivi elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
acciò ch’io fugga questo male e peggio,
che tu mi meni là dov’or dicesti,
sì ch’io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro. 

Alla metà del percorso della mia esistenza (verso i 35 anni), mi sono ritrovato in un bosco oscuro (simbolo del peccato) in quanto avevo smarrito la diritta via (simbolo di via virtuosa). Ah quanto difficile cosa è dire qual era questa selva orrida, intricata di vegetazione e difficile da attraversare, che solo a pensarvi rinnova la paura! Tanto essa è amara che la morte sia naturale che spirituale lo è poco di più, ma per parlare del bene che io trovai in essa, dirò delle altre cose che io ho visto. Io non so ben riferire come io ci sia entrato, tanto ero ottenebrato nel momento in cui io abbandonai la via della verità. Ma poi quando giunsi ai piedi di un colle (il Purgatorio), là dove terminava lo spazio tra esso e la selva, che mi aveva riempito il cuore di paura, guardai in alto e vidi la sua sommità illuminata dal sole, che guida direttamente ciascuno qualunque via faccia. Allora la paura si acquietò un po’, che si era protratta a lungo nel profondo del cuore durante il tempo trascorso nella selva con tanta angoscia. E come il naufrago che, con respiro affannato, uscito dal mare e raggiunta la spiaggia, si rivolge al mare portatore di pericolo e lo osserva con attenzione, così l’animo mio, che ancora fuggiva (dalla selva), si volse indietro a contemplare il passaggio (che separa la selva dal colle) che non lasciò mai passare un uomo vivo. Dopo che ebbi riposato il corpo stanco, ripresi il cammino per il pendio solitario, in modo che il piede fermo era sempre il più basso (l’atto della salita). Ed ecco, quasi all’inizio della salita del colle una lonza (simbolo della incontinenza) agile e molto veloce, ricoperta di pelle screziata; essa non si allontanava dal mio cospetto, anzi impediva talmente il mio cammino che io fui tentato di ritornare indietro. L’ora era al principio del mattino ed il sole sorgeva con la costellazione dell’Ariete che era con lui quando Dio impresse agli astri il primo moto della creazione; cosicché sia l’ora che la stagione mi facevano ben sperare per quella bestia dalla pelle maculata; ma non abbastanza per la paura che mi diede l’aspetto di un leone (simbolo della superbia – per altri violenza) quando mi apparve. Questo sembrava venire contro di me, con la testa alta e minacciando distruzione, tanto che la stessa aria ne provava terrore. Ed una lupa (simbolo della fraudolenza, per altri avarizia), che sembrava carica di ogni bramosia e ha fatto vivere popolazioni afflitte, questa mi porse tanto affanno per la paura che emanava dal suo aspetto che io perdetti la speranza di raggiungere la sommità del colle. E come colui che facilmente raduna ricchezze, e giunge il momento in cui perde ogni cosa, che si rattrista in tutti i suoi pensieri, allo stesso modo mi rese la bestia senza pace, che venendomi incontro lentamente, mi sospingeva all’interno del bosco dove il sole non fa filtrare i suoi raggi. Mentre io precipitavo verso il fondo, mi apparve all’improvviso colui che, per l’oscurità del luogo, sembrava evanescente. «Abbi pietà di me», gli gridai, «chiunque tu sia, o spirito o uomo vivo». Mi rispose: «Non sono vivo, ma lo sono stato; i miei genitori furono dell’Italia settentrionale, nativi ambedue a Mantova. Nacqui sotto Giulio Cesare, sebbene troppo tardi per essere apprezzato da lui, e vissi a Roma, sotto il buon Augusto, nel tempo degli dei pagani (falsi e bugiardi). Fui poeta, e nel mio libro (l’Eneide) narrai di quel giusto figlio d’Anchise, Enea, che venne da Troia, dopo che la sua superba rocca fu bruciata. Ma tu perché ritorni all’afflizione della selva? Perché non sali il monte dilettoso che è il principio e la ragione di ogni possibile gioia?». «Allora sei tu quel Virgilio e quella sorgente che hai offerto un così largo fiume di eloquenza?», gli risposi con il volto vergognoso. «O onore e faro di tutti gli altri poeti, mi valga il lungo studio e la grande venerazione che mi ha fatto percorrere tutta la tua opera. Tu sei il mio maestro ed il mio autore, tu sei solo colui da cui io tratto lo stile che mi ha fatto onore. Vedi la bestia per cui io sono tornato indietro, aiutami a liberarmi di lei, famoso uomo sapiente, che essa mi fa tremare le vene e le arterie». «A te si addice affrontare un altro viaggio», rispose dopo che mi vide piangere, «se vuoi sottrarti da questa selva intricata; perché questa bestia, per la quale tu ti lamenti, non lascia passare nessuno per la sua via, ma tanto lo incalza finché non lo annienta; e la sua natura è così malvagio e cattiva, che mai non sazia la sua voglia bramosa, e dopo il pasto ha più fame di prima. Molti sono gli esseri viventi con cui si unisce, e ce ne saranno ancora molti, finché verrà il Veltro (segugio da caccia), che la farà morire con dolore. Questo non si ciberà né di terre né di ricchezze, ma solo di sapienza, amore e virtù, e la sua nascita sarà fra panni modesti (umili origini). Sarà la salvezza di quella Italia ormai decaduta per la quale morirono Eurialo e Niso (troiani) e Camilla (figlia del re dei Volsci) e Turno (re dei Rotuli) di ferite. Costui le darà la caccia in ogni città, fino a che la ricaccerà nell’Inferno, là dove Lucifero (invidia prima) la fece uscire contro gli uomini. Per cui per il tuo meglio penso e decido che tu mi debba seguire, ed io sarò la tua guida, e ti condurrò da qui per l’Inferno, dove ascolterai disperate grida, vedrai gli antichi spiriti dolenti che anelano alla morte definitiva; quindi vedrai coloro che sono felici di espiare le loro pene, perché sperano un tempo di unirsi alle persone beate. Alle quali, se tu vorrai raggiungerle ci sarà un’anima più degna di me: ti lascerò a lei quanto ti abbandonerò, perché Dio (imperatore che regna nell’Empireo), in quanto io fui incredulo in Cristo venturo, non vuole che io raggiunga la sua città. Egli impera in tutto il creato e nell’Empireo governa, qui è la sua città e l’alto trono, oh felice colui che Dio lassù destina!». Ed io a lui: «Poeta io ti richiedo per quel Dio che non conoscesti, affinché io fugga questo male e la dannazione, che tu mi conduca là dove mi hai detto, in modo che io possa vedere la porta del Purgatorio e quelli che tu descrivi essere tanto dolenti». Allora si mosse ed io lo seguii.

Canto II
Proemio dell’Inferno

Chiuso il prologo di tutta l’opera, Dante riprende la narrazione, con un nuovo prologo, ma ora soltanto dell’Inferno. Questo prologo, com’è consuetudine, inizia con l’argomento, attraverso un bellissimo “richiamo” virgiliano e con l’invocazione alle Muse. Esse devono dare forza a Dante, come dice lui stesso, aiutarlo. Dante, ripreso dal dubbio, e forse anche dalla paura, infatti, chiede per quale diritto lui deve compiere un viaggio così difficile, non essendo Enea, il cui andare nell’oltretomba, ha significato l’esaltazione di Roma e quindi, del papato che lì risiederà; non è San Paolo, il cui trasumanare da vivo aveva come scopo il rafforzamento della fede cristiana; ma lui perché deve andarci, chiede angosciosamente a Virgilio. E’ importante appunto istituire, in questi versi danteschi, il contatto continuo che nella sua mente di cristiano si situa tra fondazione di Roma e costituzione dell’Impero. A questo segue quello che la critica definisce un vero e proprio “prologo in cielo”: Maria Vergine, cogliendo lo smarrimento di Dante, ha pregato Lucia, simbolo della grazia illuminante, di intervenire per aiutare Dante. Quindi costei si reca da Beatrice per trasmetterle l’ordine della Vergine. Quest’ultima quindi non ha alcun timore a raggiungere il Limbo e a pregare con parole cortesi di aiutarlo. Apparirà ora chiaro come, se nell’inferno tre fiere non hanno potuto far raggiungere al poeta la vera via della fede, saranno tre donne benedette ad aiutarlo, cielo contro terra. Dante rinfrancato può riprendere il cammino. 

inferno-ii-1.jpgGustave Doré: Incipit del II canto 

Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non erra
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
qui si parrà la tua nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
ne l’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tu vanto,

intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
che fu nel cominciar cotanto tosta.

 Di fronte alla paura e ai dubbi di Dante così il poeta risponde:

inferno-ii-2.jpgGustave Doré: Beatrice si rivolge a Virgilio

Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua favella:
«O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata
e con ciò c’ ha mestieri al suo campare,
l’aiuta sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son Beatrice che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui».
Tacette allora, e poi comincia’ io:
«O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l’ampio loco ove tornar tu ardi».
«Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente», mi rispuose,
«perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’ hanno potenza di fare altrui male;
de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: – Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo raccomando
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: “Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?”.
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch’onora te e quei ch’udito l’ hanno».
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più presto.

89353fc4d4530e88c9ee296466700670.jpgGiovanni Stradano o Jan Van der Straet: Le tre donne benedette

La luce del giorno andava via e l’oscurità allontanava tutti gli esseri viventi dalle loro fatiche; solo io mi preparavo a sopportare il travaglio interiore, sia del viaggio nell’oltretomba sino a Dio sia della compassione della miseria dei dannati che narrerà la memoria che riferisce il vero. O alto ingegno delle Muse, adesso aiutami; o memoria che hai scritto ciò che hai visto, qui si manifesterà il tuo valore. Io iniziai a parlare: «Virgilio, poeta che mi guidi in questo cammino, osserva se la mia capacità è abbastanza forte, prima che tu mi esponga allo straordinario viaggio. Tu affermi (nel VI libro dell’Eneide) che il padre di Silvio (Enea), ancora vivo, andò nel mondo eterno e fu con il corpo. Ma se Dio gli fu benevolo, pensando alle enormi conseguenze che derivarono da lui, e chi fosse e quali fossero le sue qualità, non sembra inopportuno ad un uomo dotato d’intelligenza; in quanto egli fu scelto nel decimo cielo dell’Empireo come padre della grande Roma e del suo Impero, la quale Roma e il quale Impero, a dir la verità, fu stabilita come luogo santo dove ora siede il successore del grande Pietro. Per questa discesa, di cui tu gli dai gloria, apprese cose che costituirono il motivo della sua vittoria e della scelta della sede papale. Ci è andato (nel mondo eterno) poi San Paolo, ricettacolo della volontà operante di Dio, per portare da lì conforto alla fede che è il principio per tutti della salvezza. Ma io perché dovrei andarci? O chi lo permette? Io non sono né Enea né Paolo; che io sia degno a compiere questo viaggio né io né altri credono: per cui se io mi abbandono alla volontà di compierlo, ho timore che questa scelta sia folle; sii saggio, cerca di capirmi che io non ragiono». E come colui che non vuole più ciò che ha desiderato e per nuovi sopraggiunti motivi cambia proposito, tanto da rinunciare del tutto a imprendere ciò che aveva intenzione di fare, così feci io in quella buia pendice del colle, perché ripensandoci annullai l’impresa che fu accettata all’inizio così prontamente.
 (…)
«Io ero nel Limbo (tra gli spiriti magni che vivono nel desiderio inappagabile di Dio) e una donna beata e bella mi chiamò tanto che io le richiesi di dirmi ciò che desiderava. I suoi occhi brillavano più di una stella; e cominciò a dirmi soavemente e dolcemente, con la voce di un angelo, nel suo modo di parlare: “O anima nobile mantovana, la cui gloria ancora dura nel mondo, e durerà a lungo, quanto il mondo, il mio amico, ma non amico della sorte, si è rivolto indietro nella deserta spiaggia, che è ricacciato indietro per la paura; e temo che si sia già smarrito, che io tardi sia soccorsa a lui, per quelle cose che ho udito su di lui nel cielo. Muoviti ora e con la tua parola ornata e con ciò che è opportuno per la sua salvezza, aiutalo affinché io ne sia consolata. Io che ti faccio andare sono Beatrice; vengo dal cielo in cui desidero tornare, mi mosse Amore che mi fa parlare. Quando sarò davanti a Dio, spesso ti loderò per quel che farai per me”. Tacque allora, ed iniziai io: “O donna di virtù, per le quali l’umana specie supera ogni essere contenuto nel cerchio della Luna, che compie giri più piccoli, tanto mi è gradito il tuo comando che l’ubbidirlo, se fosse già avvenuto, mi sembrerebbe avvenuto tardi, non ti abbisogna altro che esprimermi il tuo desiderio. Ma dimmi la causa per cui non temi di scendere quaggiù nel centro della terra, nell’Inferno, dall’Empireo dove desideri tornare ardentemente”. “Dal momento che tu vuoi conoscere il mistero della mia venuta, ti dirò brevemente”, mi rispose, “perché non temo di venir qua nel Limbo. Si devono temere solo quelle cose che hanno il potere di fare male agli altri; delle altre cose non bisogna temere, perché non possono nuocere. Io sono fatta da Dio, per sua grazia, tale che la vostra disgrazia non mi tocca, né le fiamme di questo Inferno mi assalgono. Nel cielo c’è una nobile donna (Maria, simbolo della carità) che ha compassione di questo impedimento (che le fiere procurano a Dante) tanto che attenua il duro giudizio di Dio. Questa donna fece chiamare per il suo servizio santa Lucia (simbolo della grazia) e disse: – Ora ha bisogno di te il tuo fedele, ed io te lo raccomando -. Lucia, nemica di ogni crudeltà, si mosse e giunse nel luogo dove io ero, seduta a fianco della vecchia Rachele (moglie di Giacobbe, simbolo della vita contemplativa). Ella disse: – Beatrice (simbolo della fede), tu che sei la più vera lode di Dio, in quanto creata da lui perfettamente, perché non soccorri quell’uomo che ti ha tanto amato, che per lodarti si è staccato dalla schiera degli altri poeti volgari? Non senti angoscia per il suo pianto, non vedi tu la morte dell’anima che lo ha messo in pericolo come colui che si trova su un fiume, in cui questo incontra il mare e il mare non riesce a vincerlo? -. Al mondo non ci furono mai persone così sollecite a perseguire un loro bene o a sfuggire un loro danno come fui io, dopo aver ascoltato tali parole, e venni qua giù dal mio beato seggio, fidando del tuo parlare saggio, che ti rende onore e rende onore a coloro che lo hanno ascoltato”. Dopo aver detto queste cose, mi rivolse gli occhi lucenti per le lacrime, per cui mi rese più sollecito ad accorrere.»

Di fronte alle parole di Virgilio, che gli ha illustrato come tre donne benedette si siano adoperate per la sua salvezza, Dante si sente completamente rinato, come un fiore dopo il gelo notturno. Ora egli, insieme al suo maestro. è pronto a compiere il grande passo.

Canto III
Antinferno 

Comincia il vero viaggio infernale di Dante che inizia con le tremende parole di colore oscuro (nere/tremende) al sommo della porta. La sensazione che il poeta vuole trasmetterci è quella di un grande confusione, un clamore tanto più sconvolgente quanto meno è visibile. Il buio ed il chiasso infernale sono le prime sensazioni. Quindi il primo incontro con una figura diabolica, ripresa, fedelmente, da Virgilio e che riprende il suo stesso compito. A ciò segue la prima schiera di anime la cui condizione è di essere al di qua da ogni colpa e al di qua di ogni lode, quindi per Dante doppiamente stigmatizzabili in quanto se mai scelsero mai poterono raccogliere né biasimo né apprezzamento. Per questo essi ci offrono il primo esempio di contrappasso per contrasto. In questo canto, inoltre, pur non facendone mai il nome, si adombra il primo personaggio, Celestino V, papa per cinque mesi, che abdicò, lasciando il posto all’odiato, per Dante, Bonifacio VIII.

inferno-iii-1.jpgGustave Doré: Dante e Virgilio davanti alla porta dell’Inferno

PER ME SI VA NELLA CITTA’ DOLENTE,
PER ME SI VA NELL’ETTERNO DOLORE,
PER ME SI VA TRA LA PERDUTA GENTE.
GIUSTIZIA MOSSE IL MIO ALTO FATTORE;
FECEMI LA DIVINA POTESTATE,
LA SOMMA SAPIENZA E ’L PRIMO AMORE
DINANZI A ME NON FUOR COSE CREATE
SE NON ETTERNO, E IO ETTERNO DURO.
LASCIATE OGNI SPERANZA, VOI CH’INTRATE.

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William Blake: La porta dell’Inferno

Queste parole di colore oscuro
vid’ïo scritte al sommo d’una porta;
per ch’io: «Maestro, il senso lor m’è duro».
Ed elli a me, come persona accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov’i’ t’ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c’hanno perduto il ben de l’intelletto».
E poi che la sua mano a la mia puose
con lieto volto, ond’io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete cose.
Quivi sospiri, pianti e alti guai
risonavan per l’aere sanza stelle,
per ch’io al cominciar ne lagrimai.
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un tumulto, il qual s’aggira
sempre in quell’aura sanza tempo tinta,
come la rena quando turbo spira.
E io ch’avea d’error la testa cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo?
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».

inferno-iii-3.jpgGustave Doré: Gli ignavi

Ed elli a me: «Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.
Mischiate sono a quel cattivo coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.
Caccianli i ciel per non esser men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».
E io: «Maestro, che è tanto greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto breve.
Questi non hanno speranza di morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che ’nvidïosi son d’ogne altra sorte.
Fama di loro il mondo esser non lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda e passa».
E io, che riguardai, vidi una ’nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d’ogne posa mi parea indegna;
e dietro le venìa sì lunga tratta
di gente, ch’i’ non averei creduto
che morte tanta n’avesse disfatta.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Incontanente intesi e certo fui
che questa era la setta d’i cattivi,
a Dio spiacenti e a’ nemici sui.
Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch’eran ivi.
Elle rigavan lor di sangue il volto,
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi
da fastidiosi vermi era ricolto.
E poi ch’a riguardar oltre mi diedi,
vidi genti a la riva d’un gran fiume;
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi
ch’i’ sappia quali sono, e qual costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com’i’ discerno per lo fioco lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera d’Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e bassi,
temendo no ’l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi trassi.

caronte.jpgJose Benlliure y Gil: La Barca de Caronte (1919) 

Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.
E tu che se’ costì, anima viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,
disse: «Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno convien che ti porti».
E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».

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Gustave Doré: Caronte

Quinci fuor quete le lanose gote
al nocchier de la livida palude,
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.
Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che ’nteser le parole crude.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque s’adagia.
Come d’autunno si levan le foglie
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo
vede a la terra tutte le sue spoglie,
similemente il mal seme d’Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo richiamo.
Così sen vanno su per l’onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s’auna.
«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in disio.
Quinci non passa mai anima buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».
Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi bagna.
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia.

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Giovanni Stradano: Terremoto e svenimento di Dante (1587)

ATTRAVERSO ME SI ENTRA NELLA CITTA’ DEL DOLORE, ATTRAVERSO ME SI ENTRA NEL DOLORE CHE NON HA FINE, ATTRAVERSO ME SI ENTRA TRA LE ANIME PERDUTE. LA GIUSTIZIA SPINSE A DIO A CREARMI: MI FECE LA POTENZA DEL PADRE, LA SOMMA SAPIENZA DEL FIGLIO, L’INFINITA CARITA’ DELLO SPIRITO SANTO. PRIMA DI ME FURONO CREATE SOLO COSE INCORRUTTIBILI, ED IO IN ETERNO DURO. ABBANDONATE QUALSIASI SPERANZA VOI CH’ENTRATE. Queste parole minacciose vidi scritte sopra una porta; per cui dissi: «Maestro, il loro significato è per me terribile». Ed egli a me come una persona saggia: «Qui è necessario abbandonare ogni esitazione; è necessario che qui ogni timore sia soffocato. Noi siamo arrivati al luogo dove ti ho detto che avresti visto gli spiriti dannati, che hanno perso il bene supremo dell’intelletto». E dopo che mi prese per mano con volto sereno, in modo da confortarmi, mi introdusse in quel mondo sconosciuto. Qui sospiri, pianti e grida di dolore risuonavano nell’oscurità, per cui all’inizio cominciai a piangere. Linguaggi diversi, modi di parlare orribili, parole di sofferenza, espressioni d’ira, voci alte e basse, insieme a rumori di mani, creavano un gran tumulto, il quale si agita sempre in quell’atmosfera buia senza giorno né notte, come la sabbia quando spira il vento. Ed io, che avevo la mente presa dall’orrore, dissi: «Maestro, che cos’è ciò che odo? E chi è quella gente che sembra così travolta dal dolore?» Ed egli a me: «Questo misero stato sopportano le anime dolenti degli ignavi, che vissero senza meritare né biasimo, né lode. Sono messe insieme a quella cattiva schiera di angeli che non furono né ribelli né fedeli a Dio, ma furono neutrali. I cieli, per non diminuire la loro bellezza li cacciano, e la parte più profonda dell’inferno non li accoglie, poiché i ribelli potrebbero trarre dalla loro presenza motivo di onore». Ed io: «Maestro, che cos’è tanto opprimente per gli ignavi, che li fa lamentare così forte?» Rispose: «Te lo dirò molto brevemente. Costoro non possono sperare di annientarsi e la loro oscura esistenza è tanto ignobile che sono invidiosi di qualsiasi altra sorte. Il mondo non tollera che resti fama di loro; la misericordia del Paradiso e la giustizia di Dio nell’Inferno li sdegnano: non parliamo di loro, ma guardali e passa oltre». Ed io, che guardai nuovamente, vidi una bandiera che girava intorno tanto veloce che mi sembrava sdegnosa di ogni riposo; e la seguiva una fila di gente così lunga, che non avrei mai creduto che la morte ne avesse colta tanta. Dopo che ebbi identificato qualcuno vidi e riconobbi l’ombra di colui (Celestino V) che per viltà rifiutò il suo grande compito. Subito compresi e fui certo che questa era la schiera dei vili, disdegnati da Dio e dai suoi nemici. Questi esseri abbietti, che non furono mai davvero vivi, erano nudi, punti continuamente da mosconi e da vespe che si trovavano lì. Tali insetti rigavano il loro volto di sangue, che, misto a lacrime, era succhiato ai loro piedi, da ripugnanti vermi. E dopo che mi misi a guardare altrove, vidi gente presso la riva di un grande fiume; per cui io dissi: «Maestro, concedimi di sapere chi sono e quale legge le rende così ansiose di passare il fiume, come io posso vedere attraverso la debole luce». Ed egli a me: «Queste cose ti saranno note quando ci fermeremo presso la desolata riva dell’Acheronte». Allora io con gli occhi abbassati per la vergogna, temendo che le mie parole gli fossero state un po’ importune, stetti in silenzio fino al fiume. Ed ecco venire verso di noi su una barca un vecchio, canuto per la sua età antichissima, che gridava: «Guai a voi anime malvagie! Non sperate mai di vedere il Cielo: io vengo per condurvi all’altra riva, nelle tenebre eterne, nel caldo e nel freddo. E tu che ancora vivo sei in questo luogo, allontanati da costoro che sono morti». Ma poiché vide che io non me ne andavo, disse: «Attraverso un’altra via, toccando altri porti, arriverai nella spiaggia per passare non di qui: un’imbarcazione più leggera conviene che ti trasporti». E la mia guida a lui: «Caronte, non arrabbiarti: è stabilito così nel Cielo dove è possibile fare tutto ciò che la volontà di Dio desidera e non chiedere più nulla». Allora non si mossero più le guance barbute del nocchiero della torbida palude, che aveva intorno agli occhi, a causa dell’ira, cerchi di fiamma. Ma quelle anime che erano spossate e nude impallidirono e si misero a battere i denti, non appena sentirono le parole crudeli: bestemmiavano Dio e i loro genitori, il genere umano, il luogo e il tempo della loro nascita, la loro discendenza e i loro antenati. Poi, piangendo amaramente, si riunirono tutte quante insieme presso la riva maledetta, che attende tutti coloro che non temono Dio. Il demonio Caronte, con gli occhi infuocati, facendo loro un cenno, li raduna tutti; colpisce col remo chiunque s’attarda. Come in autunno le foglie cadono una dopo l’altra, finché il ramo non le vede tutte a terra, allo stesso modo i malvagi discendenti di Adamo si calano da quella riva ad uno ad uno secondo i cenni di Caronte come fa l’uccello rispondendo al richiamo. Così se ne vanno sopra le acque torbide, e prima che siano scese dall’altra parte, anche da questa parte si raduna una nuova schiera. «Figlio mio» disse cortesemente il mio maestro «coloro che muoiono senza essere in grazia di Dio vengono tutti qui da ogni parte del mondo: e sono ansiosi di passare il fiume, perché la giustizia divina li sollecita, a tal punto che il timore della pena si muta in desiderio. Di qui non passa mai nessuna anima che non sia dannata; e perciò, se Caronte si lamenta di te, puoi ben capire ora che cosa intende il suo parlare». Terminato questo discorso, la buia regione infernale tremò così forte che il ricordo di quello spavento mi bagna ancora di sudore. La terra intrisa di lacrime mandò fuori un vento che suscitò un lampo, che mi fece perdere i sensi: e caddi, come chi è preso dal sonno.

Come si è potuto notare questo canto, pur non immettendoci ancora nell’inferno (siamo nell’antinferno) ce ne fa presagire tutte le tonalità:

  1. la presenza di un custode infernale, Cerbero, che pur somigliando molto a quello virgiliano, prende qui un autonomia propria di chi, pur dall’aspetto fiero ma ributtante, si fa esecutore di Dio; sarà lui inoltre a predire la non dannazione per il poeta;
  2. l’oscurità del luogo e le urla dei dannati;
  3. la legge del contrappasso, qui applicata per contrasto: così come queste anime malvagie non vollero mai “seguire” con passione una fede o ideologia, dovranno ora, nell’eternità, seguire una bandiera senza alcun simbolo e versare il sangue, punti da mosconi e vespe. Ma vi si affaccia anche un cenno di contrappasso per analogia: a raccogliere il sangue saranno i vermi, metafora del loro essere abietto.

Canto IV
Primo cerchio
(Limbo: anime giuste non battezzate)

Dopo lo svenimento, voluto da Dio affinché Dante non sapesse in quale modo venisse traghettato al di là dell’Acherone, il poeta si trova all’interno dell’Inferno. Tuttavia non è ancora un luogo dove i peccatori scontano pene tormentose: predomina anzi un clima d’incertezza, di continui sospiri. Questi derivano dal desiderio di conoscere Dio a loro negato perché o nati prima di Cristo o bambini non ancora battezzati. Per questo Dante percepisce nel volto della guida un strano pallore: è il luogo stesso dove l’anima di Virgilio condivide la sorte con i grandi intellettuali dell’antichità. Alla domanda se mai qualcuno fosse uscito dal Limbo Virgilio ricorda al poeta la discesa di Cristo che liberò gli antichi patriarchi e gli Ebrei presenti nell’antico testamento. I due pellegrini giungono pertanto in un luogo rischiarato dove sono accolti coloro che si sono distinti nella letteratura e nell’arte:

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Bartolomeo Pinelli: Dante incontra gli Spiriti Magni

«O tu ch’onori scïenzïa e arte,
questi chi son c’ hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li diparte?».
E quelli a me: «L’onrata nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che sì li avanza».
Intanto voce fu per me udita:
«Onorate l’altissimo poeta;
l’ombra sua torna, ch’era dipartita».
Poi che la voce fu restata e queta,
vidi quattro grand’ombre a noi venire:
sembianz’avevan né trista né lieta.
Lo buon maestro cominciò a dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì come sire:
quelli è Omero poeta sovrano;
l’altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è ’l terzo, e l’ultimo Lucano.
Però che ciascun meco si convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno bene».
Così vid’i’ adunar la bella scola
di quel segnor de l’altissimo canto
che sovra li altri com’aquila vola.
Da ch’ebber ragionato insieme alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e ’l mio maestro sorrise di tanto;
e più d’onore ancora assai mi fenno,
ch’e’ sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.   

Dissi: «Virgilio, tu che onori la scienza e l’arte, chi sono costoro che godono di tanto onore che li fa distinguere per condizione dagli altri?» Mi rispose la guida: «La loro onorata fama, che risuona ancora là su nel mondo dove tu vivi, gli fa ottenere favori da Dio e perciò sono trattati meglio degli altri.» Fu nel frattempo udita da me una voce: «Rendete onore all’eccelso poeta; è ritornato il suo spirito, che si era prima allontanato.» Dopo che la voce si fu interrotta e rimase quieta, vidi quattro grandi spiriti venire verso di noi: non sembravano in volto né tristi né felici. Il mio buon maestro incominciò a dire:«Guarda quello spirito con la spada in mano, che precede gli altri come se fosse un re: quello è il sommo poeta Omero; l’altro e Orazio, autore delle satire; il terzo è Ovidio e l’ultimo dei quattro è Lucano. Dal momento che ognuno dei quattro spiriti condivide con me il titolo di poeta, che la voce solitaria ha pronunciato poco fa, essi mi rendono onore ed in ciò fanno bene». Vidi così adunarsi la bella scuola di Omero, principe del più sublime tra tutti i generi poetici, che sovrasta gli altri poeti come fa l’aquila in cielo. Dopo che ebbero parlato un poco tra loro, si rivolsero a me con un cenno di saluto, e Virgilio sorrise compiaciuto per quel gesto; ed anzi mi fecero un onore ancora più grande, accogliendomi nel gruppo come uno di loro, così che fui la sesta persona in mezzo ai quei grandi saggi.

Il passo ci mostra, non solo i riferimenti culturali danteschi, ma quelli dell’intera cultura medievale: Omero, di cui Dante non conosce l’opera, ma condivide il pensiero sia degli autori latini sia degli intellettuali contemporanei secondo cui da lui derivano tutte le “belle lettere”, se per lui usa la metafora dell’aquila sopra tutti gli altri volatili nel cielo; seguono per l’epica storico-tragica Virgilio stesso (la cui presenza come guida ne testimonia la venerazione) e Lucano, di cui Dante sembra conoscere perfettamente la Farsaglia; insieme a loro, con una divisione stilistica, l’Orazio comico delle Satire, e l’Ovidio elegiaco degli Amores. Vi è ancora la consapevolezza da parte dell’autore di essere annoverato tra gli spiriti magni; Dante voleva sottolineare l’importanza e la grandezza della sua attività come poeta o voleva dirci che, saputolo da Virgilio, gli illustri poeti gli si rivolgano con un cenno di benevolenza per il compito scelto da Dio per lui?

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Victoria Olsen: Dante e Virgilio nel Limbo

Il canto prosegue citando i grandi relegati in quel mondo: ma saranno proprio loro a dar vita ad un dibattito critico che verte su teologia e sapienza: Dante infatti inserisce qui non solo gli esempi più alti della letteratura latina, ma anche suicidi (Lucrezia), musulmani (il Sultano, Avicenna e Avorroé), materialisti (Democrito). La teologia afferma che senza la preveggenza o la conoscenza di Dio non vi è salvezza, ma Dante, che non li salva, crea per loro uno spazio apposito, in cui vi è comunque una piccola luce di quella virtù che discende da Dio per illuminare gli uomini per il bene dell’umanità.   

Canto V
Secondo cerchio
(Peccatori d’incontinenza: lussuriosi)

Con questo canto si entra nel vero e proprio inferno: infatti se sinora Dante ha percorso il tratto che precede il fiume e, misteriosamente, si è trovato al di là di esso, in un luogo in cui la grazia di Dio non è del tutto assente se riluce nel castello dove abitano i grandi spiriti dell’antichità, qui, invece, emerge proprio l’assenza totale di luce e, come appena varcata la porta dell’Inferno, un vero e proprio predominio di rumore, come fa il mare in tempesta. Quindi ecco l’apparizione del mostro infernale Minòs che si fa esecutore della volontà divina nell’assegnare ai dannati il luogo che spetta loro ed infine l’incontro, carico di significati, con Paolo e Francesca:

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Gustave Doré: Minosse

Così discesi del cerchio primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia,
e tanto più dolor, che punge a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia:
essamina le colpe ne l’intrata;
giudica e manda secondo ch’avvinghia.
Dico che quando l’anima mal nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le peccata
vede qual loco d’inferno è da essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno molte;
vanno a vicenda ciascuna al giudizio;
dicono e odono, e poi son giù volte.
«O tu che vieni al doloroso ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l’atto di cotanto offizio,
«guarda com’entri e di cui tu ti fide;
non t’inganni l’ampiezza de l’intrare!».
E ’l duca mio a lui: «Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare».
Or incomincian le dolenti note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi percuote.
Io venni in loco d’ogne luce muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
Intesi ch’a così fatto tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al talento.
E come li stornei ne portan l’ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.
E come i gru van cantando lor lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid’io venir, traendo guai,
ombre portate da la detta briga;

Così discesi dal primo cerchio (limbo) giù nel secondo, che racchiuso in meno spazio e maggior dolore, induce ai lamenti. Vi stava a ringhiare l’orribile Minosse, che esaminava le colpe all’ingresso del girone, giudicava i peccatori e con la coda li condannava. Dico infatti che quando l’anima dannata gli andava innanzi, confessava tutto, e lui, conoscitore dei peccati, decideva il giusto cerchio infernale, cingendosi la coda tante volte quanti erano i gironi in cui farla precipitare. Davanti a lui ve n’erano sempre molte (di anime): l’una aspettava il turno dell’altra, che confessava, ascoltava e piombava giù. Quando Minosse mi vide interruppe le sue funzioni e disse: «Ehi tu che entri in questo luogo di dolore, sta’ attento a come ti muovi e a chi ti guida, che non ti sia d’inganno il facile ingresso!». Ma la mia guida gli rispose: «Che hai da gridare? Non puoi impedire la sua visita, perché si vuole così là dove si vuole ciò che si può, e non domandare oltre». A quel punto cominciai a udire voci lamentose; là dov’ero ero colpito da molto pianto. In quel luogo privo di luce si urlava come fa il mare tempestoso, agitato da venti contrari. Una bufera mai doma travolgeva nel suo turbinio gli spiriti, tormentandoli e sbattendoli con violenza. Quando giungevano sul ciglio del dirupo, urlavano piangevano singhiozzavano, bestemmiando la virtù divina. Dal tipo di pena capii che dannati erano i lussuriosi, che sottomettono la ragione all’istinto. E come le ali portano gli stornelli d’inverno in una schiera ampia e compatta, così quel vento agita gli spiriti perversi su e giù, di là e di qua e nessuna speranza li conforta mai, né di una pausa né di uno sconto della pena. E come le gru emettono i loro lamenti, disposte nell’aria in lunghe file, così vidi venir, gemendo, le ombre sconvolte dalla tormenta.

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William Blake: I lussuriosi

Dante quindi dapprima vede delle anime “sballottate dalla tempesta, e sono appunto i lussuriosi, il cui contrappasso è evidente: così come essi si lasciarono “trascinare” dalla passione ora sono trascinati dalla “bufera infernal”. Ma c’è un’altra schiera di dannati e sono coloro che vanno in lunga fila, attraversando il vento come fanno le gru: essi sono le anime di coloro che morirono per amore. Chiesto chi fossero, Virgilio gli nomina i nomi di grandi personaggi dell’antichità e dei cavalieri dei romanzi cortesi.

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Mosé Bianchi: Paolo e Francesca (1877)

Poscia ch’io ebbi il mio dottore udito
nomar le donne antiche e’ cavalieri,
pietà mi giunse, e fui quasi smarrito.
I’ cominciai: «Poeta, volentieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno,
e paion sì al vento esser leggeri».
Ed elli a me: «Vedrai quando saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena, ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s’altri nol niega!».
Quali colombe dal disio chiamate
con l’ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l’aere dal voler portate;
cotali uscir de la schiera ov’è Dido,
a noi venendo per l’aere maligno,
sì forte fu l’affettuoso grido.
«O animal grazioso e benigno
che visitando vai per l’aere perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno,
se fosse amico il re de l’universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c’hai pietà del nostro mal perverso.
Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ’l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte:
Caina attende chi a vita ci spense».

PaoloefrancescaCrop.jpgAnselm Feuerbach: Paolo e Francesca (1864)

Queste parole da lor ci fuor porte.
quand’io intesi quell’anime offense,
china’ il viso e tanto il tenni basso,
fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette Amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fiate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disiato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.

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Amos Cassioli: Paolo e Francesca (1870)

Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

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 Gaetano Previati: La morte di Paolo e Francesca (1887)

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangea; sì che di pietade
io venni men così com’io morisse.
E caddi come corpo morto cade.

Poi gli chiesi: «Poeta, vorrei parlare a quei due che vanno insieme e che paiono così leggeri nella bufera». Mi rispose: «Aspetta che siano venuti più vicini a noi, poi pregali per quell’amore che li lega e loro verranno». Appena il vento li piegò verso di noi, esclamai: «Oh anime tormentate, venite a parlarci, se nessuno lo vieta!». Come colombe, chiamate dai piccoli, con le ali levate e ferme al dolce nido vengono per l’aria, spinte dall’istinto, così quelle anime si staccarono dalla schiera di Didone attraverso l’aria maligna, sentendo il mio affettuoso grido. «Oh uomo cortese e benigno, che vieni a visitare, in quest’aria tenebrosa, chi ha macchiato la terra del proprio sangue, se ci fosse amico il re dell’universo, lo pregheremmo per la tua pace, avendo tu pietà del nostro perverso peccato. Quel che a voi piacerà dire e ascoltare piacerà anche a noi, almeno finché il vento lo permetterà. La mia città natale lambisce il mare ove sfocia il Po, che coi suoi affluenti trova pace. L’amore, che subito accende i cuori gentili, fece innamorare costui del mio bellissimo corpo, che mi fu tolto in modo ch’ancor m’offende. L’amore, che induce chi viene amato a ricambiare, mi prese del corpo di costui un piacere così forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. L’amore ci portò a una stessa morte: Caina in sorte attende l’assassino». Ecco le parole che ci dissero. E io, dopo aver ascoltato quelle anime travagliate, chinai il viso e rimasi così mesto che il poeta a un certo punto mi chiese: «A che pensi?» Io gli risposi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio condusse costoro al tragico destino!» Poi mi rivolsi direttamente a loro e chiesi: «Francesca, le tue pene mi strappano dolore e pietà. Ma dimmi, al tempo dei dolci sospiri, come faceste ad accorgervi che il desiderio era reciproco?». E quella a me: «Non c’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella disgrazia; cosa che sa bene il tuo maestro. Ma se tanto ti preme conoscere l’ inizio della nostra storia te lo dirò unendo le parole alle lacrime. Stavamo leggendo un giorno per diletto come l’amore vinse Lancillotto; soli eravamo e in perfetta buona fede. In più punti di quella lettura gli sguardi s’incrociarono con turbamento, ma solo uno ci vinse completamente. Quando leggemmo che la bocca di lei venne baciato da un amante così coraggioso, costui, che mai sarà da me diviso, la bocca mi baciò tutto tremante. Traditore fu il libro e chi lo scrisse: quel giorno finimmo lì la lettura». Mentre uno spirito questo diceva, l’altro piangeva, sicché ne rimasi sconvolto, al punto che svenni per l’emozione e caddi come corpo morto cade.

L’intero canto si può definire come uno dei più alti e celebrati dell’intera Commedia, e mostra, per la prima volta,  un turbamento reale di Dante, determinato dall’esperienza umana e presumibilmente dalla conoscenza personale con Paolo Malatesta (sono testimoniati i rapporti tra Firenze e l’ambiente romagnolo). Il canto si può dividere in tre parti: la prima dominata da Minosse, la parte centrale dalla rassegna dei grandi amanti della storia e della letteratura, l’ultima da Francesca e Paolo (uno dei più noti personaggi muti della letteratura italiana). Tra questi momenti c’è continuità: se Minosse infatti può rappresentare il destino in cui incorrono i peccatori che sottomettono la ragione all’impulso naturale, lo stesso accade a coloro che peccano di lussuria, tra cui uno dei più celebrati della letteratura d’amore, Tristano, la cui lettura sarà a sua volta strumento della dannazione di Paolo e Francesca. Quest’ultima parte, dedicata ai due amanti, pur essendo tra le più alte, per il pathos che essa rappresenta con il tema d’amore e di morte, ci offre la possibilità di cogliere un momento fortemente significativo per Dante. Uscendo infatti dai personaggi, il passo mostra un vero e proprio “iter” culturale che il poeta stesso ha attentamente attraversato. Francesca, infatti, è un attenta lettrice del romanzo cortese, ma utilizza un linguaggio stilnovista con una forte anafora che in tre terzine ne sottolinea i temi. Per questo Dante si sente scosso: la cultura di Francesca è la sua cultura. Ed è per questo che il poeta, per la seconda volta, sviene: ma se il primo trasferimento nel terzo canto è voluto da Dio per non far comprendere al poeta il suo passaggio al di là del fiume infernale, qui è per il suo “turbamento”.

Canto VI 
Terzo cerchio
(Peccatori d’incontinenza: golosi)

Tra il quinto ed il sesto canto Dante non pone alcuna frattura. Infatti, appena risvegliatosi, il poeta si trova di fronte ad una nuova situazione, maggiormente “punitiva” per i dannati, sin dal custode Cerbero, che con i suoi latrati rompe loro le orecchie (avendo ecceduto nei sensi, è in essi che vengono tormentati). Quindi inizia quello che si suole definire come il primo canto “politico” dell’intera Commedia: nucleo ideologico appare la sua città, con un suo famoso, al tempo, rappresentante che, nei confronti del poeta avrà anche la capacità profetica di disegnargli il destino futuro (che sarà compreso, poi, solo nel Paradiso dal suo avo Cacciaguida).

Dopo un paio di versi, Dante si trova immerso nel terzo cerchio:

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l’è nova.
Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l’aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve.

Ero nel terzo cerchio della pioggia eterna, maledetta, fredda e difficile da sopportare, sempre uguale nella quantità e qualità. Acqua sporca, grandine grossa e neve, nell’aria tenebrosa si riversa; puzza la terra che né è bagnata.

Cerberus-Blake.jpegWilliam Blake: Cerbero

A cui segue la descrizione del nuovo custode infernale:

Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e ’l ventre largo, e unghiate le mani
graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
e l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E ’l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.

Cerbero, fiera crudele e straordinaria, simile ad un cane affamato latra con tre gole sopra la gente che qui è sommersa. Ha gli occhi rossi, la barba unta e scura, il ventre largo e le mani unghiate, graffia gli spiriti, li scuoia e li squarta. La pioggia sferzante del dolore li fa urlare come cani. Or con l’uno e or con l’altro lato cercano di fare schermo al lato opposto, ma inutilmente si volgono spesso i miseri profani. Quando Cerbero, il grande e ripugnante animale, ci vide, aprì le bocche e mostrò i lunghi denti e non aveva parte del corpo che stesse ferma. Allora Virgilio distese le palme, prese la terra e a pieni pugni, la gettò nelle gole di Cerbero.

Dopo che Virgilio, con il suo gesto, mette a tacere la bestia i due pellegrini entrano in contatto con i dannati, fra i quali Ciacco:

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
«O tu che se’ per questo ’nferno tratto»
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».
E io a lui: «L’angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,

sì che non par ch’i ’ti vedessi mai.
Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente
loco se’ messo e hai sì fatta pena,
che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena
d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l’altra con molta offensione.
Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l’altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’hanno i cuori accesi».

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Gustave Doré: Ciacco

Noi passavamo ponendo i piedi sulle anime che sono fiaccate dalla maledetta e pesante pioggia, la cui inconsistenza ha forma di corpo. Esse stavano tutte sdraiate in terra all’infuori di una che, vedendoci passare, si alzò immediatamente a sedere. Mi disse: «Tu che sei venuto in questo inferno riconoscimi se sai: tu nascesti prima che io morissi». Gli risposi: «Forse la sofferenza fisica dei tuoi lineamenti, mi impedisce di riconoscerti. Ma dimmi chi sei tu che in un luogo così dolente sei condannato a tale pena. Se altre pene possono essere maggiori di questa, nessuna è così spiacevole». Egli rispose: «Firenze, la tua città, ch’è piena d’odio, malevolenza mi fece crescere durante la vita umana. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco ed ora, come vedi, alla pioggia mi accascio. ed io, anima dannata, non son sola, poiché tutte queste anime espiano uguale colpa». E non parlò più. Io gli risposi: «Ciacco, il tuo dolore mi spinge a piangere, ma dimmi, se lo sai, dove perverranno gli uomini città (Firenze) divisa (politicamente); se nessuno degli uomini è giusto; e dimmi la ragione per cui essa è assalita da tanta discordia». E Ciacco disse (profetizzando): «Dopo lunghe lotte, perverranno a sanguinose guerre e la parte selvaggia (i Cerchi, del partito dei Bianchi) caccerà l’altra (i Donati, del partito dei Neri) con grande offese (multe e perquisizioni). Dopo tre anni avverrà un cambiamento, e l’altra parte (i Neri) prenderà il potere con l’aiuto di colui che adesso sembra barcamenarsi (Bonifacio VIII). Costoro terranno alte per lungo tempo le fronti, tenendo la parte avversa sotto gravi pesi, sebbene pianga e si sdegni per ciò. Ci saranno solo pochissimi uomini giusti (onesti), ma non saranno ascoltati: la superbia, l’invidia e l’avarizia sono le tre faville che accendono d’odio il cuore degli uomini».

Nel passo Dante sottolinea, attraverso la tecnica della profezia, la realtà della Firenze a lui contemporanea, mettendo in evidenza quel cambiamento economico e sociale che lui percepisce come negativo: gli ultimi tre sostantivi alludono a quella forza borghese che secondo il poeta fiorentino ha cancellato le virtù di un mondo sulla via del tramonto, e che sta prendendo il potere con forza e violenza; d’altra parte non dobbiamo dimenticare che sarà Dante stesso a pagare le conseguenze di questa lotta tra partiti politici e famiglie che si contendevano il potere con l’esilio.

Dopo tali parole il poeta chiede ancora a Ciacco se egli possa incontrate, nel suo cammino, altri fiorentini che ben operarono per la città, che egli ha grande desiderio di sapere se sono dannati a più gravi pene o sono nella grazia del Signore. Ciacco gli rivela che nel fondo dell’inferno vi sono altre anime che egli potrà riconoscere e se può essere ricordato nella mente dei suoi amati cittadini. Quindi si ritorse e ricadde in terra e Virgilio rivela al suo discepolo che così rimarrà fino al giudizio universale. Al dubbio di Dante che gli chiede se in tale giorno la loro pena sarà minore o maggiore, il maestro risponde che ogni cosa, giunta al fine, otterrà la perfezione: pertanto maggiori saranno le pene e la gloria. Quindi continuano il cammino fino al punto in cui essi scenderanno, custodito da Pluto.

Canto VII
Quarto e quinto cerchio
(Peccatori d’incontinenza: Avari e prodighi – Iracondi ed accidiosi)
La palude Stigia

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Gustave Doré: Pluto

All’inizio del canto troviamo Pluto che, con voce rauca inizia a gridare:

Papé Satàn, papé Satàn aleppe!

e Virgilio, uomo saggio, tranquillizza Dante sulla discesa tra il terzo e il quarto cerchio e con acconce parole costringe il mostro infernale al silenzio. I due scendono così nella quarta fossa, dove Dante vede una moltitudine assai numerosa, la quale provenendo dall’uno e dall’altro lato del cerchio rotolava pesi, spingendoli col petto ed emettendo alti lamenti. (Incontrandosi) cozzavano gli uni contro gli altri; e poi, in quello stesso punto, ognuno si volgeva indietro, rivoltando (anche il suo peso), e urlava: «Perché conservi?» e «Perché sperperi?» Allora rifacevano il giro in senso opposto in entrambe le direzioni fino al punto in cui, allo scontro successivo, si gridavano di nuovo il loro ritornello ingiurioso; Dante allora chiede alla sua guida chi costoro fossero e Virgilio gli risponde che furono coloro che non fecero alcuna spesa secondo misura (avari e prodighi) come denunciano in modo aperto le loro espressioni.

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Bartolomeo Pinelli: Avari e prodighi (1824)

La loro condizione spinge Dante a voler sapere quale sia il ruolo della fortuna nel distribuire ricchezze e povertà:

«Maestro mio», diss’io, «or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?»
E quelli a me: «Oh creature sciocche,
quanta ignoranza è quella che v’offende!
Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba l’angue.
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri dèi.
Le sue permutazion non hanno triegue;
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda consegue.
Quest’è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si gode».

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Cornelis Anthonisz Thenissen (attr.), Allegoria della Sfortuna/Accidia, (1530 ca.) 

«Maestro», dissi a Virgilio, «spiegami ancora: questa Fortuna, di cui tu mi fai cenno, cos’è mai, per poter tenere così tra i suoi artigli i beni della terra?» E Virgilio: «O esseri stolti, quanto grande è l’ignoranza che vi arreca danno! Voglio dunque che tu accolga la mia spiegazione (come il bambino riceve in bocca il cibo ). Dio, la cui sapienza oltrepassa ogni realtà, creò i cieli e assegnò a ciascuno di loro una guida in modo che ogni gerarchia angelica trasmette la luce al suo cielo, distribuendola equamente: allo stesso modo prepose a tutte le glorie del mondo una guida che le amministrasse tutte e che trasferisse a tempo debito i beni perituri da un popolo all’altro e da una stirpe all’altra, senza che la previdenza degli uomini potesse a lei opporsi; per questo una nazione domina, mentre un’altra si indebolisce, secondo la decisione da lei presa, decisione che resta nascosta come il serpente nell’erba. L’accortezza degli uomini non può contrastare con lei: essa predispone, valuta (le opportunità), e svolge da regina il suo incarico come le intelligenze angeliche svolgono il loro. I cambiamenti da essa causati si succedono senza sosta: il suo dovere verso Dio l’obbliga ad operare rapidamente; perciò avviene spesso che qualcuno muti il proprio stato. Questa è colei che tanto è avversata anche da coloro che dovrebbero elogiarla, laddove invece la biasimano ingiustamente e la denigrano; ma essa se ne sta beata e non li ascolta: serena, insieme alle intelligenze angeliche, governa il moto della sua sfera e gode della sua beatitudine.

Come si vede per Dante la Fortuna muta dal concetto classico (ricordiamo che per la cultura romana il termine è una vox media che può indicare sia fortuna che sfortuna, e, come simbolo, viene rappresentata cieca). Dante ci offre invece una spiegazione teologica: è un’ intelligenza angelica, il cui volere obbedisce a Dio. Per questo, in quanto presiede alla facoltà divina, non può essere capita da una facoltà umana e quindi ci appare incomprensibile e spesso ci lamentiamo di lei. Ma essa sta al di sopra dell’individuo e guida i destini sia dell’uomo che dei popoli, per cui si sale e si scende perché così Dio vuole.

Quindi continuano a scendere attraversando il cerchio fino al margine opposto, all’altezza di una sorgente che ribolle e che si riversa in un fossato d’acqua scura; è la palude Stige, in cui sono immerse anime che si colpivano l’un l’altro con le mani, la testa il petto e i piedi, e si dilaniano pezzo a pezzo coi denti. Sono gli iracondi, accompagnati con gli accidiosi che denunciano la loro condizione sott’acqua, creando un gorgoglio sulla superficie della palude. Costeggiano così per lungo tratto la sozza palude, tenendosi tra il pendio asciutto e la melma, con lo sguardo rivolto a coloro che ingurgitano fango: giungono alla fine alla base d’una torre».

Canto VIII
Quinto cerchio
La palude Stigia
(Iracondi ed accidiosi)

Prima d’arrivare alla torre, Dante e Virgilio vedono due fiammelle e un’altra lontana che rispondeva ai segnali. Chiede quindi a Virgilio cosa stia succedendo, e lui gli fa sapere che sta per giungere il nocchiero infernale Flegiàs con una piccola nave per traghettarli sull’altra riva. Virgilio scende nella barca, e Dante dopo di lui; soltanto quando quest’ultimo entra, essa sembra carica.

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Miniatura

Mentre noi corravam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se’ tu che vieni anzi ora?». 
E io a lui: «S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son un che piango». 
E io a lui: «Con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto». 
Allor distese al legno ambo le mani;
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li altri cani!».

La vecchia barca comincia a fendere l’acqua, e mentre solca l’immobile palude, mi si parò davanti uno spirito coperto di fango, e disse: «Chi sei tu che arrivi prima del termine stabilito?», ed io: «Se arrivo, non è certo per rimanere; ma chi sei tu, reso così sporco dal fango?» Rispose: «Vedi bene che sono uno di quelli che piangono (un dannato)». Ed io: «Restatene, anima maledetta, col pianto e col dolore; perché ti riconosco, anche se sei tutto imbrattato di fango». Allora allungò verso la barca entrambe le mani (per rovesciarla o per colpire Dante ); ma Virgilio pronto lo respinse, dicendogli: «Via di qui, vattene a stare con gli altri maledetti !»

E’ la prima volta che vediamo Dante “arrabbiato” rivolgere parole ingiuriose verso un dannato. Tale atteggiamento forse gli è stato suggerito dalla scortesia del dannato, che gli si rivolge con arroganza, come a dire “che ci fai tu qui?”, quasi la sua presenza segnalasse il peccato in cui Dio lo aveva confinato. E’ un gesto di giusta rabbia, accompagnato, infatti, da quello del maestro che respinge il dannato con parole ingiuriose.

Virgilio quindi si congratula del gesto del suo allievo, che ha risposto con veemenza all’arroganza del dannato. E’ tanta la rabbia dantesca che prega affinché Filippo Argenti (tale è il nome del peccatore) venga sommerso: infatti poco dopo Dante vede gli iracondi fare di lui un tale scempio, gridando contro Filippo Argenti tanto che il dannato rivolge contro sé stesso la propria ira, dilaniandosi coi denti. Quindi dopo aver sentito un urlo e in seguito aver visto torri rossastre (per l’eterno fuoco che le brucia eternamente), raggiungono la città di Dite:

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Daniele Albatici: Filippo Argenti

Io vidi più di mille in su le porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?».
E ’l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per questo regno. 
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha’ iscorta sì buia contrada».
Pensa, lettor, se io mi sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci mai.
«O caro duca mio, che più di sette
volte m’ hai sicurtà renduta e tratto
d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar», diss’io, «così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l’orme nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: «Non temer; ché ’l nostro passo
non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso».
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
«Chi m’ ha negate le dolenti case!”.
E a me disse: «Tu, perch’io m’adiri,
non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
qual ch’a la difension dentro s’aggiri.
Questa lor tracotanza non è nova;
ché già l’usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si trova.
Sovr’essa vedestù la scritta morta:
e già di qua da lei discende l’erta,
passando per li cerchi sanza scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».

15385736856_b690477371_b.jpgDante e Virgilio e  i diavoli (Miniatura, Biblioteca di Firenze)

Vidi più di mille diavoli a guardia delle porte, i quali con stizza dicevano: «Chi è costui che ancora in vita visita il regno dei morti?». E il mio saggio maestro accennò di voler parlare con loro in disparte. Allora frenarono un poco la loro grande ira, e dissero: «Vieni soltanto tu, e vada via quello, che con tanto ardire è penetrato in questo regno. Ripercorra da solo il cammino temerario (fatto fin qui): provi, se ne è capace; perché tu, che gli hai fatto da guida in un paese così buio, resterai qui». Immagina, lettore, quanto mi perdetti d’animo nell’udire queste parole maledette, perché credetti di non poter mai più tornare fra i vivi. «Mia amata guida, che innumerevoli volte mi hai ridato coraggio e salvato dai grandi pericoli che mi si pararono contro, non mi abbandonare» dissi «in questo stato di angoscia; e se non ci è consentito di andare avanti, ripercorriamo subito insieme il cammino che abbiamo fatto (per venire fin qui).» E Virgilio, che mi aveva condotto lì, mi disse: «Non aver paura; perché nessuno può precluderci il passaggio: tanto potente è colui dal quale è voluto. Tu attendimi qui, e conforta il tuo animo prostrato alimentandolo con la speranza che non inganna, poiché io non ti abbandonerò in questa parte bassa dell’inferno». Così dicendo il mio padre affettuoso se ne va, e qui mi lascia solo, e io resto nel dubbio, poiché nella mia testa il timore combatte con la speranza. Non potei udire quello che disse loro, ma egli non si trattenne a lungo là con essi, che già ciascuno dei diavoli gareggiava in velocità con gli altri nel tornare correndo dentro le mura. Quei nostri nemici chiusero le porte davanti a Virgilio, che restò fuori, e tornò verso di me con passi lenti. Teneva gli occhi abbassati ed aveva un’espressione sfiduciata, e diceva sospirando: «Da chi mai mi viene impedito l’ingresso nelle sedi del dolore!». E rivolto a me: «Anche se io mi cruccio, non perderti d’animo, perché vincerò questa prova di forza, chiunque dentro le mura si adoperi per vietarci l’ingresso. Questa loro presunzione non è nuova: perché già l’adoperarono davanti a una porta meno interna, la quale si trova ancor oggi spalancata. Sopra di essa hai veduto l’iscrizione che parla della morte eterna: e varcatala già scende per la china, passando di cerchio in cerchio senza guida o protezione, colui ad opera del quale la città ci sarà aperta».

E’ un passo, che, legato al seguente, descrive uno degli atteggiamenti più umani da parte del protagonista: la paura. Sono tremende le parole dei diavoli, è indecisa, non tempestiva la risposta di Virgilio. La paura è giustificata proprio dall’inizio del canto IX.

Canto IX
Quinto e Sesto cerchio
Davanti e dentro la città di Dite
(Eretici)

Virgilio infatti non ha la forza per combattere i diavoli da solo: «Eppure dovremo vincere questa battaglia» dice, «a meno che… Tanto potente è colei (Beatrice) che ci promise il suo aiuto: oh quanto mi preoccupa il ritardo di qualcuno!». L’angoscia di Dante è giustificata dall’attesa di questo qualcuno. Quindi vuol sapere se qualcuno dal Limbo (Virgilio stesso) sia mai già stato in questo luogo, riferendosi in modo indiretto a Virgilio stesso, che gli afferma che il viaggio lo ha già compiuto grazie alla maga Eritone (episodio raccontato nel Bellum civile di Lucano).

E altro disse, ma non l’ ho a mente;
però che l’occhio m’avea tutto tratto
ver’ l’alta torre a la cima rovente,
dove in un punto furon dritte ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e atto,
e con idre verdissime eran cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano avvinte. 
E quei, che ben conobbe le meschine
de la regina de l’etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci Erine. 
Quest’è Megera dal sinistro canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e tacque a tanto. 
Con l’unghie si fendea ciascuna il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch’i’ mi strinsi al poeta per sospetto.

5050161212860013.jpgBartolomeo Pinelli: Dante e Virgilio di fronte alle Erinni

«Vegna Medusa: sì ’l farem di smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo l’assalto». 
«Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso;
ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi,
nulla sarebbe di tornar mai suso».
Così disse ’l maestro; ed elli stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi chiudessi. 
O voi ch’avete li ‘ntelletti sani,
mirate la dottrina che s’asconde
sotto ‘l velame de li versi strani.

E disse altre cose, ma non le ricordo; poiché lo sguardo mi aveva tutto portato verso l’alta torre dalla cima arroventata, dove all’improvviso si erano levate tutte nel medesimo istante tre furie infernali imbrattate di sangue, che avevano corpo e atteggiamento di donna, e portavano annodati intorno al corpo serpenti d’acqua d’intenso color verde; per capelli avevano serpentelli e serpenti muniti di corna, che ne cingevano le spaventose teste. E Virgilio, che non aveva tardato a riconoscere le ancelle della regina (Proserpina) dell’inferno, mi disse: «Ecco le implacabili Erinni. Dalla parte sinistra è Megera; quella piangente, a destra, è Aletto: nel mezzo c’è Tesifone»; ciò detto, tacque. Ciascuna si lacerava il petto con le unghie; si percuotevano con le mani aperte e urlavano così forte, che per la paura mi strinsi a Virgilio. «Venga Medusa: cosi lo faremo diventare di pietra» dicevano tutte quante guardando verso il basso: «fu male non punire nella persona di Teseo l’assalto (portato al regno dell’oltretomba).» «Voltati e tieni gli occhi chiusi; poiché se Medusa appare e tu la vedessi, non ti sarebbe più possibile tornare sulla terra.» Così parlò Virgilio; ed egli stesso mi fece voltare, e non si accontentò che io mi coprissi gli occhi con le mie mani, ma volle coprirmeli anche con le sue. O voi che avete le menti non ottenebrate, contemplate l’insegnamento che si nasconde sotto il velo dei versi misteriosi.

caravaggiomedusa.jpgCaravaggio: Medusa (1597)

Che l’allegoria sia complessa ce lo afferma lo stesso Dante. E’ un allegoria dei poeti, piuttosto che dei filosofi, perché si nutre di riferimenti classici già dall’inizio del canto, facendo riferimento alla negromanzia di Lucano. Bisogna pertanto districarsi per capire cosa il poeta volesse insegnarci attraverso questi riferimenti classici: in primo luogo le Erinni, che Dante non poteva conoscerle in modo diretto (non sapeva il greco ed esse appaiono nell’Orestea di Eschilo), ma certamente conosceva il loro significato, disegnate come portatrici di rimorso (in questo caso il rimorso del peccato), e quindi Medusa, dal duro cuore. Tutte loro stanno ad indicare che se non ci si libera dal peso del peccato e si persevera con forza in esso, non si può andare oltre la via che lo condurrà verso la salvezza. Se infatti i peccati precedenti erano sotto il segno del senso (peccati d’incontinenza), ora bisogna individuare i dannati per intelletto e malizia. Quindi non basta più la forza razionale dell’intelletto, ma qualcosa che la superi, come è mostrato dall’intervento del messo celeste:

Come le rane innanzi a la nimica
biscia per l’acqua si dileguan tutte,
fin ch’a la terra ciascuna s’abbica, 
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch’al passo
passava Stige con le piante asciutte. 
Dal volto rimovea quell’aere grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso. 
Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch’i’ stessi queto ed inchinassi ad esso. 
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno. 
«O cacciati del ciel, gente dispetta»,
cominciò elli in su l’orribil soglia,
«ond’esta oltracotanza in voi s’alletta? 
Perché recalcitrate a quella voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v’ ha cresciuta doglia? 
Che giova ne le fata dar di cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e ’l gozzo». 
Poi si rivolse per la strada lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d’omo cui altra cura stringa e morda 
che quella di colui che li è davante;
e noi movemmo i piedi inver’ la terra,
sicuri appresso le parole sante.

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Gustave Doré: L’angelo apre le porte della città di Dite

Come le rane all’apparire della biscia, loro nemica, si disperdono tutte nel l’acqua, fino ad appiattirsi ognuna contro terra, così vidi innumerevoli dannati darsi alla fuga all’avvicinarsi di qualcuno che attraversava camminando lo Stige senza bagnarsi neppure le piante dei piedi. Allontanava dal suo viso la fitta nebbia, muovendo spesso davanti a sé la mano sinistra; e sembrava infastidito soltanto da questa preoccupazione. Compresi facilmente che era inviato dal cielo, e mi volsi a Virgilio; ed egli mi fece intendere con un cenno che dovevo restare tranquillo ed inchinarmi davanti a lui. Ahi come mi sembrava pieno di sdegno! Giunse alla porta (di Dite) e, toccandola con una piccola verga, la aprì senza incontrare alcun ostacolo. «O espulsi dal cielo, stirpe disprezzata», prese a dire sullo spaventoso limitare, «da dove viene questa tracotanza che si raccoglie in voi? Perché vi opponete a quella volontà (la volontà di Dio) il cui compimento non può mai essere ostacolato, e che più di una volta ha accresciuto il vostro dolore? A che serve opporsi ai decreti divini ? Se ben ricordate, il vostro Cerbero, per questa ragione, ha tuttora privi di pelo la parte inferiore del muso e il collo.» Poi tornò indietro ripercorrendo il sozzo cammino, e non ci rivolse neppure una parola, ma assunse l’aspetto di uno che è assillato e stimolato da una preoccupazione diversa da quella di colui che gli sta davanti; e noi ci incamminammo verso la città, rassicurati dopo le sante parole da lui dette.

E’ appunto l’intervento divino, qui trasmesso attraverso un suo messo, che può cancellare quelle forze oppositive (rimorso e persistenza del peccato) che impediscono al pellegrino di liberarsi dalle scorie della vita ed ottenere, così, la grazia dell’ascensione al cielo. Quindi Virgilio e Dante entrano nella città di Dite e vedono un terreno tutto pieno di sepolcri circondati dalle fiamme. I peccatori posti nel IV cerchio, informa il maestro sono gli eretici.

Canto X
Sesto cerchio
(Eretici)

Ora sen va per un secreto calle,
tra ’l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le spalle. 
«O virtù somma, che per li empi giri
mi volvi», cominciai, «com’a te piace,
parlami, e sodisfammi a’ miei disiri. 
La gente che per li sepolcri giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt’i coperchi, e nessun guardia face»

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Dante nel cerchio degli epicurei (miniatura lombarda)

E quelli a me: «Tutti saran serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno lasciati.
Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l’anima col corpo morta fanno. 
Però a la dimanda che mi faci
quinc’entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi taci». 
E io: «Buon duca, non tegno riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m’ hai non pur mo a ciò disposto». 

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Andrea del Castagno: Farinata degli Uberti (1449/1450)

«O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco. 
La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo molesto». 
Subitamente questo suono uscìo
d’una de l’arche; però m’accostai,
temendo, un poco più al duca mio. 

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Gustave Doré: Farinata nell’arca infernale

Ed el mi disse: «Volgiti! Che fai?
Vedi là Farinata che s’è dritto:
da la cintola in sù tutto ’l vedrai». 
Io avea già il mio viso nel suo fitto;
ed el s’ergea col petto e con la fronte
com’avesse l’inferno a gran dispitto. 
E l’animose man del duca e pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien conte».
Com’io al piè de la sua tomba fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?». 
Io ch’era d’ubidir disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
ond’ei levò le ciglia un poco in suso; 
poi disse: «Fieramente furo avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li dispersi». 
«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,
rispuos’io lui, «l’una e l’altra fïata;
ma i vostri non appreser ben quell’arte». 
Allor surse a la vista scoperchiata
un’ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s’era in ginocchie levata. 
Dintorno mi guardò, come talento
avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento, 
piangendo disse: «Se per questo cieco
carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?». 
E io a lui: «Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno». 

1200px-Blake_Dante_Hell_X_Farinata.jpg

William Blake: Dante Farinata e Cavalcante de’ Cavalcanti

Le sue parole e ’l modo de la pena
m’avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così piena. 
Di sùbito drizzato gridò: «Come?
dicesti “elli ebbe?” non viv’elli ancora?
non fiere li occhi suoi lo dolce lume?». 

Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve fora. 
Ma quell’altro magnanimo, a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa; 
e sé continüando al primo detto,
«S’elli han quell’arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più che questo letto. 
Ma non cinquanta volte fia raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa. 
E se tu mai nel dolce mondo regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr’a’ miei in ciascuna sua legge?».
Ond’io a lui: «Lo strazio e ’l grande scempio
che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio».
Poi ch’ebbe sospirando il capo mosso,
«A ciò non fu’ io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri sarei mosso. 
Ma fu’ io solo, là dove sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso aperto». 
«Deh, se riposi mai vostra semenza»,
prega’ io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha ’nviluppata mia sentenza. 
El par che voi veggiate, se ben odo,
dinanzi quel che ’l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro modo». 
«Noi veggiam, come quei c’ ha mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce. 
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto; e s’altri non ci apporta,
nulla sapem di vostro stato umano. 
Però comprender puoi che tutta morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la porta». 
Allor, come di mia colpa compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che ’l suo nato è co’ vivi ancor congiunto; 
e s’i’ fui, dianzi, a la risposta muto,
fate i saper che ’l fei perché pensava
già ne l’error che m’avete soluto». 
e già ’l maestro mio mi richiamava;
per ch’i’ pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con lu’ istava. 
Dissemi: «Qui con più di mille giaccio:
qua dentro è ’l secondo Federico
e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio». 
Indi s’ascose; e io inver’ l’antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea nemico. 
Elli si mosse; e poi, così andando,
mi disse: «Perché se’ tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo dimando. 
«La mente tua conservi quel ch’udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e drizzò ’l dito: 
«quando sarai dinanzi al dolce raggio
di quella il cui bell’occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita il vïaggio». 
Appresso mosse a man sinistra il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver’ lo mezzo
per un sentier ch’a una valle fiede,
che ’nfin là sù facea spiacer suo lezzo.

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Duilio Cambellotti: Inferno canto X

Il mio maestro proseguiva ora lungo uno stretto sentiero, tra le mura di Dite e le tombe roventi dei dannati (eresiarchi), ed io procedevo dietro di lui. «Oh uomo di virtù superiore, che mi conduci attraverso i crudeli cerchi dell’inferno», cominciai a dire,«come a te piace, parlami e soddisfa i miei desideri. Potrei vedere la gente che giace in questi sepolcri roventi? Tutti i coperchi sono già alzati, i sepolcri sono aperti, e non c’è nessun demonio a fare la guardia.» Mi rispose Virgilio: «Tutti i sepolcri verranno chiusi quando dalla valle di Giosafat, dopo il giudizio universale, i dannati torneranno qua con i loro corpi, lasciati lassù in terra. In questa parte del cerchio hanno il loro cimitero Epicuro e tutti i suoi seguaci, che credono che l’anima muoia insieme al corpo. In ogni caso, alla richiesta che hai mi avanzato, qui dentro ti verrà data subito soddisfazione, ed anche al desideri che hai lasciato inespresso, di poter parlare con loro.» Ed io a lui: «Mia buona guida, ti tengo nascosto il mio desiderio solo per non darti noia, parlando troppo, come tu stesso mi hai chiesto di fare in più occasioni.» «Oh toscano, che attraverso la città del fuoco te ne vai ancora in vita e parlando in modo rispettoso e gentile, ti sia cosa grata il fermarti un poco in questo luogo. Il tuo modo di parlare rende evidente che tu nascesti in quella nobile patria, verso la quale io fui in vita forse troppo molesto.» Uscì improvvisamente questo suono, questa voce, da uno dei sepolcri; mi accostai perciò, intimorito, un poco di più alla mia guida. Virgilio mi disse: «Che fai? Voltati! Guarda là Farinata degli Uberti che si è alzato dalla tomba: potrai vederlo tutto dalla cintola in su.» Io avevo già fissato il mio sguardo nel suo; lo spirito di Farinata emergeva fiero dal sepolcro con il petto e la fronte, come se avesse a sdegno le pene dell’inferno. Le mani coraggiose e pronte di Virgilio mi spinsero tra le tombe fino a lui, dicendo: «Le tue parole siano misurate, moderate». Non appena giunsi ai piedi del sepolcro di Farinata, lo spirito mi guardò un poco, e poi, con tono quasi irato, mi chiese: «Chi furono i tuoi antenati?» Io ero desideroso di ubbidire e non gli nascosi quindi le mie origini, anzi gliele esposi chiaramente; alle mie parole, lo spirito alzò un poco gli occhi in alto, in tono ostile; poi mi disse: «Essi, guelfi, furono fieramente avversari miei, dei miei antenati e della mia fazione ghibellina, tanto che per due volte li sconfissi e li caccia in esilio.» «Se è vero che furono cacciati, lo è anche che tornarono poi da ogni parte», risposi io a lui, «entrambe le volte; i vostri non appresero invece mai quell’arte, del ritorno in patria.» A quelle parole, dall’apertura scoperchiata del sepolcro, uscì, visibile fino al mento, un altro spirito accanto a quello di Farinata: credo che quest’anima fosse in ginocchio. Guardò intorno a me come per voler vedere se ero in compagnia di qualcun’altro; e dopo che il suo sospetto si fu dileguato, mi disse piangendo: «Se attraverso questo carcere tenebroso tu puoi andare grazie al tuo alto ingegno, allora mio figlio dove è? Perché non è insieme a te?» Dissi a lui: «Non vado in giro da solo: mi conduce attraverso questi luoghi quello spirito che mi aspetta là, Virgilio, e che forse il vostro Guido ebbe a sdegno, trascurandolo.» Le sue parole ed il modo in cui soffriva mi avevano già fatto capire chi fosse costui, Cavalcante dei Cavalcanti; per tale motivo la mia risposta fu così esaustiva. Scattato in piedi, lo spirito subito grido: «Come? Hai detto “ebbe”? Non è più in vita? La dolce luce del sole non ferisce più i suoi occhi?» Quando si accorse della mia esitazione nel fornirgli una risposta, subito ricadde disteso nella tomba e non ricomparve più alla mia vista. Invece quell’altro coraggioso spirito, rispondendo al cui invito mi ero fermato presso quella tomba, non cambiò espressione, non volse nemmeno la testa e non si piegò neanche a guardare il compagno; continuando il primo discorso interrotto, «Il fatto che loro non hanno ben appreso quell’arte», mi disse, «mi tormenta di più di questo letto di fuoco in cui giaccio. Ma non si illuminerà per cinquanta volte la faccia di quella donna, Proserpina (la Luna), che governa quaggiù, prima che tu stesso possa imparare quanto pesa quell’arte del ritorno in patria. Augurandoti che tu possa fare ritorno nel dolce mondo dei vivi, dimmi in cambio: perché il popolo fiorentino è così crudele nei confronti dei Ghibellini in ogni legge che approva?» Gli risposi: «Lo strazio e la grande strage che fecero tingere di sangue il fiume Arbia, nella battaglia a Montaperti, ci spinge ad emettere tali leggi nei vostri confronti.» Dopo che lo spirito, sospirando, ebbe scosso il suo capo, «Non c’ero là soltanto io contro i fiorentini», disse, «né certo mi sarei mosso insieme agli altri senza avere buone ragioni. Ma fui soltanto io, là, ad Empoli, dove fu all’unanimità approvata la decisione di distruggere Firenze, l’unico che la difese a viso aperto.» «Possa avere un giorno un po’ di pace la vostra discendenza», lo pregai io, «scioglietemi cortesemente un dubbio che ha appena avvolto i mie pensieri. Se ho ben capito, sembra che voi spiriti possiate prevedere il futuro, quello che il passare del tempo farà accadere, mentre sembrate al contrario ignorare gli avvenimenti del presente.» «Noi vediamo, come chi è presbite, con una vista imperfetta», mi rispose, «solo le cose che sono lontane; tanto ci illumina ancora Dio. Quando si avvicinano o stanno già accadendo, questa nostra capacità non ci giova più; e se altri non ci informano dei fatti, nulla possiamo sapere della vostra vicende umane. Puoi perciò ora comprendere bene che la nostra conoscenza verrà completamente annullata a partire dal giorno del giudizio, quando i nostri sepolcri saranno chiusi per l’eternità.» Allora, dispiaciuto per non aver risposto all’altro spirito, dissi: «Dite allora al vostro compagno, caduto nella tomba, che suo figlio Guido non è ancora morto, è ancora insieme ai vivi; e se di fronte alla sua domanda rimasi muto, fategli sapere che lo feci soltanto perché fui colto da quel dubbio che ora mi avete voi sciolto.» Ma già Virgilio mi richiamava a sé; pregai perciò con più premura lo spirito di Farinata affinché mi dicesse i nomi dei suoi compagni nel sepolcro. Mi disse: “Giaccio in questa tomba insieme ad altri mille: qua dentro c’è Federico II di Svevia ed il cardinale Ottaviano degli Ubaldini; degli altri non parlo.» Tornò infine nel sepolcro; io rivolsi i miei passi verso Virgilio, poeta dei tempi antichi, ripensando a quella sentenza di Farinata (sull’esilio) che sembrava minacciosa. Anche Virgilio si mosse; poi, mentre camminavamo, mi chiese: «Perché sei turbato?» Ed io diedi soddisfazione alla sua curiosità raccontandogli delle parole di Farinata. «Conserva nella memoria ciò che hai ascoltato profetizzare contro di te», mi raccomandò la mia saggia guida; «e prestami attenzione», e così dicendo alzo il dito al cielo: «quando sarai di fronte al dolce raggio di Beatrice, il cui bell’occhio è in grado di vedere il futuro in Dio, saprai da lei le vicende che ti attendono in vita.» Indirizzò quindi il passo verso sinistra: lasciammo il muro e piegammo verso il centro del girone attraverso un sentiero che termina in una valle, la quale faceva sentire la sua nauseabonda puzza fin lassù.

018r-1024x521.jpgPriamo Della Quercia (XV secolo)

E’ uno dei canti centrali nell’economia del racconto dantesco, sia per l’evidenza dei fatti politici qui velocemente ricordati (la battaglia di Montaperti) sia per la parentesi lirica riguardante il padre di Cavalcanti e l’amore che nutre per il figlio.

Ma il vero nucleo è nel personaggio protagonista dell’intero canto: Farinata. Egli, di due generazioni più grande di Dante, fu un uomo di grande importanza politica. Capo dei Ghibellini, riuscì dapprima a scacciarne i Guelfi (1248), ma dopo la morte di Federico II, toccò a lui andare in esilio. Tentò con dei fuoriusciti di riprendersi la città, cosa che avvenne nel 1260. Morì a Firenze, opponendosi alla distruzione della città, ma cacciandone gli avversari politici. Sarà proprio dopo la sua scomparsa che i Guelfi riuscirono a tornare, radendo al suolo tutte le proprietà degli Uberti e bandendoli in aeternum dalle mura cittadine.

Si spiega così il dialogo, il confronto tra due titani. Non importa che qui Farinata sia un dannato: importa la sua coerenza, la sua forza e la sua dignità, sottolineate dall’atteggiamento fiero di chi non ha sbagliato. Tale modo di porsi viene quasi sottolineato dall’allitterazione in m (Fieramente furo avversi a me e a miei primi e a mia parte, dove ad emergere è il pronome personale e gli aggettivi possessivi, tutti in prima persona) che oltre al suono rievoca qui la fierezza del proprio io e nel contempo il rispetto col pellegrino ancor vivo che, seppur nemico, di fronte a lui ha la stessa fierezza, se non superiore, proprio di colui che è stato scelto da Dio, di contro all’indifferenza di Farinata.

A questo punto si pone la parentesi lirica, a staccare l’ultima parte, la più importante, che vede la figura di Cavalcante de’ Cavalcanti: se Farinata è dritto, tanto che da la cintola in sù tutto ’l vedrai (dice Virgilio a Dante), Cavalcante surse a la vista scoperchiata come un’ombra, lungo questa, infino al mento: credo che s’era in ginocchie levata denota l’apprensione e l’orgoglio del padre verso il figlio. Ma è evidente che qui Dante abbia sottolineato la distanza culturale che ormai tra Cavalcanti e lui si era istituita: Guido si era fermato all’aspetto filosofico, oserei dire, raziocinante; Dante aveva raggiunto la verità della fede attraverso la teologia, per questo, pur grandissimo poeta, Dio non ha potuto servirsi di Guido per illuminare la realtà, ma Dante che si era inchinato a Lui, attraverso Beatrice.

Solo ora può riprendere il canto, mostrando un Farinata che non si era distratto, ma continua, come se non vi fosse stata interruzione, meditando sulla violenza della contrapposizione tra guelfi e ghibellini che hanno determinato la damnatio memoriae della sua famiglia. Ma ciò non toglie che a salvare Firenze fu proprio lui, che si oppose alla sua demolizione. Quindi con cortesia augura al Dante di poter tornare sulla terra, così, come Dante gli augura che possano finalmente cessare le misure contro la sua casata.

Ma per concludere è bene ricordare la profezia che Farinata rivolge a Dante sull’esilio che dovrà subire: in questo cerchio i dannati possono vedere il futuro (da qui le parole del condottiero che “vede” il futuro di Dante), ma non il presente (Cavalcanti che non riesce a sapere la sorte del figlio).

Le parole di Farinata non riescono ad essere cancellate dalla mente di Dante: ma Virgilio gli rammenta che solo la grazia illuminante di Beatrice potrà rivelargli ciò che il futuro gli prepara.

Canto XI
Sesto cerchio
(Eretici)

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 Gustave Doré: Dante e Virgilio sostano dietro la tomba di papa Atanasio

E’ un canto, come si suol dire “dottrinale”. Viene qui presentato, infatti, l’ordinamento dell’Inferno, spiegato da Virgilio a Dante, cogliendo l’occasione della necessità di abituarsi all’insopportabile puzza che proviene dal basso inferno.

Il maestro dapprima definisce il peccato, come atto ingiurioso, (in ius, iuris) cioè che va contro la legge, lo ius divino. La malizia è l’atto consapevole del peccato stesso è può avere origine o per violenza o per frode.

I violenti sono posti nel VII cerchio che è diviso, a sua volta, in tre gironi.

Si può essere violenti sotto tre forme (corrispondenti ai tre gironi) contro il prossimo, sia nelle cose che nelle persone, se stessi e Dio. Quelli contro il prossimo, infatti possono uccidere (violenti contro le persone) o depredare, estorcere beni altrui o compiere rapine dannose (violenti contro le cose): questi sono puniti nel primo girone. Quelli violenti contro se stessi sono i suicidi e gli scialacquatori (giocatori d’azzardo e chi spreca, dannosamente, il suo patrimonio). Costoro sono puniti nel secondo girone. Nel terzo vengono i violenti contro Dio e la natura. Troviamo infatti qui i sodomiti, violenti contro la natura e quindi Dio, gli usurai e i bestemmiatori che con parole o con la mente offendono il Signore.

I fraudolenti sono posti nell’VIII cerchio e vengono distinti in dieci bolge.

La frode è ancora più grave, perché figlia dell’intelligenza dell’uomo che la esercita scientemente o contro chi non si fida o contro chi si fida.

Dopo questa spiegazione Dante chiede a Virgilio che peccato avessero commesso quelli incontrati sinora. La risposta è che essi appartengono tutti al peccato d’incontinenza, meno grave di quelli fin qui visti, perché si tratta di un uso non “buono” di disposizioni “buone” date da Dio all’uomo: quindi tali peccati sono visti con minor severità. Tale divisione d’altra parte, è figlia dell’Etica aristotelica che divide le azioni peccaminose degli uomini in tre grandi categorie, poste in modo ascendente: incontinenza, malizia e matta bestialità.

Dopo tale spiegazione Dante domanda ancora perché è ritenuto così grave il peccato d’usura: afferma Virgilio che il lavoro dell’uomo nasce ad imitazione di quello divino che si riflette, appunto nella natura. Come si dice nella Genesi, il lavoro deve produrre il sudore della fronte, cioè adoperarsi affinché la natura crei. L’usura nega il tempo, che è di Dio, e porta un guadagno che non è frutto di lavoro.

Inf._11_Priamo_della_Quercia_.jpgPriamo Della Quercia (XV secolo)

Canto XII
Settimo cerchio
I Girone

Violenti contro il prossimo
(Tiranni, omicidi-guastatori, predoni)

Il canto inizia la descrizione con il baratro da cui esalava l’odore nauseabondo per cui i due si erano fermati e Virgilio aveva mostrato l’ordinamento morale dell’Inferno.

Al fondo di questo baratro vi è il Minotauro (personaggio mitologico) a guardia, non tanto del luogo, quanto dell’intero cerchio:

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Gustave Doré: Il Minotauro

e ’n su la punta de la rotta lacca
l’infamïa di Creti era distesa 
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
sì come quei cui l’ira dentro fiacca. 
Lo savio mio inver’ lui gridò: «Forse
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
che sù nel mondo la morte ti porse? 
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
ma vassi per veder le vostre pene». 
Qual è quel toro che si slaccia in quella
c’ ha ricevuto già ’l colpo mortale,
che gir non sa, ma qua e là saltella, 
vid’io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: «Corri al varco;
mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale». 

e proprio sulla cima di quella spaccatura era distesa l’infamia, il disonore dell’isola di Creta (il Minotauro) che fu concepito nella falsa vacca di Pasifae; e quando ci vide, si prese a morsi da solo, come chi, impotente, è sopraffatto da un’ira interiore. La mia saggia guida gridò contro di lui con ironia: «Credi forse che sia venuto qui da te il principe ateniese, Teseo, che ti diede la morte lassù, nel mondo terreno? Fatti da parte bestiaccia: perché costui, Dante, non è venuto fin qui con gli insegnamenti di tua sorella Arianna (su come ucciderti), ma viene solamente per vedere le vostre punizioni.» Così come un toro che si è liberato dopo aver però già ricevuto il colpo mortale non sa fuggire ma si limita a saltellare da una parte all’altra, allo stesso modo vidi comportarsi in modo scomposto il Minotauro; e allora Virgilio, prudente, mi gridò: «Corri subito al varco: è meglio che ti cali già dalla sponda ora che quel mostro è infuriato.»

Quindi i due pellegrini cominciano a scendere e Virgilio spiega a Dante che poco prima che giungesse Cristo per liberare i padri che si trovavano nel limbo, la profonda valle infernale tremò così forte per un terremoto che diede origine alla frana appena passata. quindi lo invita a porre attenzione al fiume di sangue in cui sono immersi i violenti contro il prossimo.

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Gustave Doré: Centauri

A guardia del fiume sono i centauri che saettano chiunque tenti di emergere dal ribollente sangue. Accortisi dei due pellegrini, Chirone, che sembra essere il loro capo, fa notare ai compagni la corporeità di Dante:

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Gabriele Dell’Otto: Chirone

Noi ci appressammo a quelle fiere insnelle:
Chirón prese uno strale, e con la cocca
  fece la barba in dietro a le mascelle. 
  Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
  disse a’ compagni: «Siete voi accorti
  che quel di retro move ciò ch’el tocca? 
  Così non soglion far li piè d’i morti».
  E ’l mio buon duca, che già li er’al petto,
  dove le due nature son consorti, 
  rispuose: «Ben è vivo, e sì soletto
  mostrar li mi convien la valle buia;
  necessità ’l ci ’nduce, e non diletto. 
  Tal si partì da cantare alleluia
  che mi commise quest’officio novo:
  non è ladron, né io anima fuia. 
  Ma per quella virtù per cu’ io movo
  li passi miei per sì selvaggia strada,
  danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, 
  e che ne mostri là dove si guada,
  e che porti costui in su la groppa,
  ché non è spirto che per l’aere vada». 
Ci avvicinammo intanto a quelle belve agili: Chirone prese una freccia e con la cocca, la parte terminale, sistemò i lunghi baffi ai lati della mascella, separandoli. Quando ebbe infine scoperto la bocca, disse ai suoi compagni: «Vi siete accorti che quello che sta più indietro muove le cose, i sassi che tocca? I piedi dei morti non sono soliti farlo.» E la mia brava guida, Virgilio, che era già arrivato vicino al suo petto, dove si uniscono le due nature dei centauri, quella umana e quella animale, rispose loro: «Lui è proprio vivo, ed io, così tutto solo, sono stato incaricato di mostrargli la valle tenebrosa dell’Inferno: ci ha portati fino a qua la necessità, non il puro piacere. Un tale personaggio ha lasciato il paradiso, dove si canta di gioia, e mi ha affidato questo nuovo incarico: non è un ladrone, e neppure io sono l’anima di un ladro. Per quella potenza divina che fa muovere i miei passi attraverso una strada tanto selvaggia, dacci uno dei tuoi, così che possiamo seguirlo da vicino, uno che ci mostri il punto in cui è possibile guadare il fosso e che porti costui sulla sua groppa, dal momento che non è uno spirito e non può volare.»

5050161212860056.jpgBartolomeo Pinelli: Dante e Virgilio in groppa a Nesso

Chirone affida i due pellegrini a Nesso il quale dapprima gli mostra dapprima i tiranni, immersi fino agli occhi, quindi coloro che si macchiarono di omicidio, immersi fino alla gola. A seguire, con l’intero dorso emerso, erano i guastatori (predoni) e gli incendiari. intanto il fiume di sangue s’abbassa, tanto da scottare solamente i piedi dei peccatori. Nesso indica loro che lì sarà il loro guado, spiegando inoltre che la profondità del fiume di sangue dove sono posti i violenti è proporzionale al peccato loro commesso.

Di questo canto i protagonisti sono i Centauri: non vi è nessun peccatore che emerge, ma solo i loro guardiani: ciò può essere determinato da un duplice motivo: da un lato le reminiscenze della cultura classica (ricordiamo che Chirone fu il maestro di Achille), dall’altra essi fanno da contrasto ai violenti. Infatti il loro corpo mostruoso nasconde  gentilezza e cortesia, il corpo umano dei violenti era carico di “mostruosità”, per questo non ha bisogno di mostrarli. Inoltre il contrappasso per analogia è molto evidente: colpevoli di aver sparso sangue nel mondo, ora sono immersi in esso a seconda della gravità delle loro azioni.

Canto XIII
Settimo cerchio
II Girone
Violenti contro se stessi
(Suicidi e scialacquatori)

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Gustave Dorè: le Arpie

Non era ancor di là Nesso arrivato,
quando noi ci mettemmo per un bosco
che da neun sentiero era segnato. 
Non fronda verde, ma di color fosco;
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco. 
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti. 
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno. 
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
fanno lamenti in su li alberi strani. 

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William Blake: I suicidi e le Arpie

(…)

Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
per ch’io tutto smarrito m’arrestai. 
Cred’ïo ch’ei credette ch’io credesse
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
da gente che per noi si nascondesse. 
Però disse ’l maestro: «Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
li pensier c’ hai si faran tutti monchi». 
Allor porsi la mano un poco avante
e colsi un ramicel da un gran pruno;
e ’l tronco suo gridò: «Perché mi schiante?». 
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: «Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno? 
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi». 
Come d’un stizzo verde ch’arso sia
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
e cigola per vento che va via, 
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’io lasciai la cima
cadere, e stetti come l’uom che teme. 
«S’elli avesse potuto creder prima»,
rispuose ’l savio mio, «anima lesa,
ciò c’ ha veduto pur con la mia rima, 
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa. 
Ma dilli chi tu fosti, sì che ’n vece
d’alcun’ammenda tua fama rinfreschi
nel mondo sù, dove tornar li lece». 

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Gustave Dorè: Pier delle Vigne

E ’l tronco: «Sì col dolce dir m’adeschi,
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
perch’ïo un poco a ragionar m’inveschi

Io son colui che tenni ambo le chiavi
del cor di Federigo, e che le volsi,
serrando e diserrando, sì soavi, 
che dal secreto suo quasi ogn’uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi. 
La meretrice che mai da l’ospizio
di Cesare non torse li occhi putti,
morte comune e de le corti vizio, 
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto,
che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti. 
L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto. 
Per le nove radici d’esto legno
vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio segnor, che fu d’onor sì degno. 
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede». 
Un poco attese, e poi «Da ch’el si tace»,
disse ’l poeta a me, «non perder l’ora;
ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace». 
Ond’ïo a lui: «Domandal tu ancora
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora». 
Perciò ricominciò: «Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
spirito incarcerato, ancor ti piaccia 
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
s’alcuna mai di tai membra si spiega». 
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
«Brievemente sarà risposto a voi. 
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ella stessa s’è disvelta,
Minòs la manda a la settima foce. 
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
quivi germoglia come gran di spelta. 
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
fanno dolore, e al dolor fenestra. 
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie. 
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l’ombra sua molesta». 

Il centauro Nesso non era ancora arrivato sull’altra sponda del fiume di sangue, quando io e Virgilio ci inoltrammo in un bosco privo di qualunque sentiero. Le fronde degli alberi non erano verdi, ma di colore nero; i rami non erano lisci e dritti ma nodosi e contorti, intricati; non c’erano frutti appesi ma solo spine velenose. Non abitano sterpaglie né più aggrovigliate né più folte di queste infernali, quegli animali selvaggi che fuggono, che evitano i luoghi coltivati tra Cecina e Corneto. Qua queste sterpi fanno i loro nidi le luride Arpie, che un tempo cacciarono i troiani dalle isole Strofadi con una lugubre predizione delle loro disgrazie future. Le Arpie hanno ampie ali e colli e volti dalle sembianze umane, artigli ai piedi ed una ampio ventre ricoperto di penne; da dagli alberi i mostri emettono strani lamenti.

Il maestro informa Dante che si trova nel secondo girone e che in esso scoprirà cose straordinarie:

Sentivo lamenti provenire da ogni parte ma non riuscivo a vedere chi li potesse emettere; mi arrestai pertanto tutto smarrito, sbalordito. Credo che Virgilio pensasse che io credessi che quelle innumerevoli voci provenissero, tra quegli alberi, da persone nascoste alla nostra vista. Mi disse pertanto il mio maestro: «Se tu recidi qualche ramoscello da una di queste piante, vedrai che i tuoi attuali pensieri cesseranno.» Allungai allora la mano in avanti e strappai un ramoscello da un grande arbusto; ed il suo tronco gridò: «Perché mi tratti così?» Dopo che fu tinto di sangue nerastro, uscito dal moncone, ricominciò a dire: «Perché mi laceri, mi ferisci? Non provi nessuna pietà per la nostra condizione? In vita siamo stati uomini, ed ora siamo trasformati in sterpi: la tua mano dovrebbe essere ben più rispettosa, anche se in vita fossimo state anime di serpenti.» Come una pezzo di legno ancora verde, bruciato da una delle sue estremità, geme dall’altra estremità e stride per l’aria che libera dal suo interno, allo stesso modo dalla scheggiatura nel tronco uscivano insieme parole e sangue; lasciai pertanto cadere la cima strappata e rimase impietrito, immobilizzato dalla paura. «Se costui avesse potuto credere subito», rispose la mia saggia guida, «oh anima lacerata, con le sole mie parole, in ciò che ora ha potuto vedere, non avrebbe disteso la sua mano tra i tuoi rami; Ma la vostra condizione è tanto incredibile che mi ha fatto decidere di spingerlo a compiere un gesto che a me stesso dispiace. Ma digli ora chi sei stato in vita, così che, in sostituzione di qualche altra ammenda, lui possa rinfrescare la tua fama nel mondo dei vivi, dove gli sarà consentito ritornare.» Il tronco disse: «Mi inciti a parlare con parole tanto cortesi, che io non posso tacere; e non vi pesi quindi se mi trattengo un poco a parlare con voi. Io (Pier della Vigna) sono colui che in vita tenne entrambi le chiavi del cuore di Federico II, e che le impiegò, per chiuderlo o aprirlo, volgendolo all’odio o all’amore, tanto dolcemente da escludere infine quasi ogni altro uomo dalle sue confidenze; operai con fedeltà e zelo nel mio glorioso lavoro di consigliere, tanto da perdere il sonno e le forze. La prostituta che dalla corte imperiale non allontanò mai i suoi occhi avidi, l’invidia, male del mondo e vizio comune a tutte le corti, accese contro di me tutti gli animi; e gli animi infiammati riuscirono ad infiammare contro di me anche l’imperatore, così che i lieti onori da me conquistati come consigliere si trasformarono in tristi disgrazie. Il mio animo, che per sua natura sdegna le giustificazioni, credendo di poter fuggire con la morte al disprezzo, mi rese crudele contro me stesso, e così mi uccisi. Ma sulle nuove radici di questo arbusto, vi giuro di non essere mai venuto meno alla fedeltà verso il mio signore, che fu tanto degno di onore. E se qualcuno di voi ritorna nel mondo dei vivi, dia nuovo vigore alla mia memoria, che giace ancora tutta malconcia per il colpo inflitto dall’invidia.» Virgilio stette un poco in silenzio, poi disse rivolto a me: «Dal momento che egli tace, non perdere tempo, parla e chiedigli pure qualcosa se hai il piacere di sentirlo ancora parlare.» Dissi allora alla mia guida: «Domandagli tu ciò che credi opportuno che io sappia; perché io non ne sarei capace, tanta è la pietà che provo per lui .» Virgilio ricominciò pertanto a dire: «Faccia quest’uomo generosamente ciò che tu lo hai pregato di fare, oh spirito imprigionato in questa pianta, ma a te piaccia in cambio spiegare perché la vostra anima venga incarcerata in questi tronchi nodosi; e dicci anche, se lo puoi fare, se mai alcuna ne sarà liberata.” Il tronco soffiò allora forte e quel vento si tramutò poi in queste parole: “Risponderò brevemente a voi. Quanto l’anima che è stata feroce contro sé stessa, lascia il corpo dal quale essa stessa si è voluta strappare, il giudice Minosse la manda in questo settimo cerchio. Essa cade in questa selva, in un punto non premeditato; là dove il caso l’ha lanciata, lei germoglia e mette rami come fosse stata un chicco di biada. Cresce poi come un virgulto e quindi come un albero silvestre: le Arpie vengono infine a nutrirsi delle sue foglie, strappandole dolorosamente e creando un ferita, finestra per il dolore. Come le altre anime, il giorno del giudizio anche noi verremo sulla terra per riprenderci i nostri corpi, ma non per indossarli; non sarebbe giusto riavere ciò che abbiamo gettato via. Trascineremo qui i nostri corpi ed in questo triste bosco verranno appesi, impiccati, ciascuno all’arbusto dell’anima che gli fu molesta in vita.”

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Marco Papagni: Pier delle Vigne (scultura)

Mentre Dante è ancora presso l’albero tronco di Pier delle Vigne, sente un rumore improvviso, determinato dalla fuga di due anime lacerate e graffiate inseguite da cagne nere. Uno si rivela essere Lano, che perse la vita nella battaglia del Toppo (presso Arezzo), mentre l’altro cercherà riparo nascondendosi dietro un tronco. Raggiunto dalle cagne viene morso e lacerato, così come vengono percossi i rami del cespuglio su cui aveva cercato rifugio. Quest’ultimo si lamenta col dannato, rivelandoci l’identità, Iacopo di Sant’Andrea e colpiti dal suo incolpevole lamento e dalla preghiera loro rivolta di raccogliere i rametti per metterli vicino alle sue radici.  Virgilio invita Dante ad interrogarlo, ma egli non rivelerà il suo nome: indicherà il luogo dov’era vissuto (Firenze) e svelerà il suo suicidio all’interno delle mure domestiche.

Il XIII canto presenta un altro grande personaggio della Comedìa dantesca: Pier delle Vigne, intellettuale e poeta della Scuola Siciliana. Tale grandezza Dante la risolve in modo retorico. Pier delle Vigne, infatti, era funzionario federiciano il cui stile cancelleresco latino risulta fortemente artificioso, ricco di figure retoriche, ampolloso e ridondante. Dante fa del poeta siciliano un dannato verbale, cioè capace del suono della parola (ha perso la connotazione di uomo con lo strumento atto a tale compito) l’unico che può caratterizzarlo e la sua parola è ricca di metafore, riprese dalla cacciagione (“adescare”, attirare e “inveschire” rimanere impigliato nel vischio) e dalla vita di corte (le chiavi per aprire il cuore per definire se stesso come consigliere privato) e ancora il poliptoto (la ripetizione di una stessa parola in proposizioni separate) riferite alla parola infiammati (“infiammò, infammati, infammiar”), l’allegoria della corte come meretrice, così come il parallelismo d’inizio e fine frase (ingiusto…. giusto). Non è tuttavia solo il linguaggio a caratterizzare il canto, quanto l’emulazione e la differenziazione con l’episodio di Polidoro nell’Eneide di Virgilio. E’ che lì non vi era una metamorfosi tra uomo e pianta: quest’ultima prendeva forma dalle frecce conficcate nel corpo di Polidoro, Dante va oltre inserendo anche reminiscenze ovidiane. Un ultima osservazione: dalla lettura del verso in cui Pier delle Vigne potremo arguire che il gesto compiuto non ebbe l’effetto sperato e che il suicidio sia stato in seguito interpretato come conferma di colpevolezza ed è questo, probabilmente, che ci voleva dire il cattolico Dante. L’ultima parte del canto ci presenta gli scialacquatori in una scena che sarà ripresa, in altro contesto, da Boccaccio nel suo Decameron.

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Bartolomeo Pinelli: Gli scialacquatori

Canto XIV
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

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Gustave Doré: Il sabbione infuocato

Il canto si apre senza soluzione di continuità con il precedente: infatti i due pellegrini, mossi da pietà per l’anonimo suicida fiorentino, raccolgono i rami ai piedi del suo albero. Quindi scendono nel terzo girone, costituito da un sabbione sabbioso su cui scende una lenta pioggia di fuoco che tormenta i dannati e incendia la sabbia. Vi sono dannati stesi in terra (bestemmiatori), che corrono (sodomiti) e altri seduti rannicchiati (usurai). I primi peccatori che Dante incontra sono i bestemmiatori. Fra di essi nota un dannato, che si mostra indifferente al fuoco, quasi a testimoniare il suo disprezzo verso Dio e l’espiazione che ha scelto per lui. E’ costui Capaneo, uno dei sette re di Tebe, che combatterono Eteocle per ridare il trono a Polinice. Dante riprende il mito dalla Tebaide di Stazio che lo vede dissacrare e sfidare Giove e la sua pena sta nella sua superbia e nella rabbia che mai si mitiga.

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William Blake: Capaneo

Dopo l’incontro con il possente re, giungono presso un fiumicciatolo (Flegetonte), rosso come il sangue, che attraversa l’intero sabbione, riparato da argini di pietra. E’ lui che smorza le falde di fuoco. Interrogato da Dante sui fiumi infernali, Virgilio le racconta il mito del Veglio di Creta:

«In mezzo mar siede un paese guasto»,
diss’elli allora, «che s’appella Creta,
sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto. 
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
or è diserta come cosa vieta. 
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
quando piangea, vi facea far le grida. 
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio,
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
e Roma guarda come süo speglio. 
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
poi è di rame infino a la forcata; 
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto. 
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta
d’una fessura che lagrime goccia,
le quali, accolte, fóran quella grotta. 
Lor corso in questa valle si diroccia;
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
poi sen van giù per questa stretta doccia, 
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
tu lo vedrai, però qui non si conta». 
E io a lui: «Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
perché ci appar pur a questo vivagno?». 
Ed elli a me: «Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
pur a sinistra, giù calando al fondo, 
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
non de’ addur maraviglia al tuo volto». 
E io ancor: «Maestro, ove si trova
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
e l’altro di’ che si fa d’esta piova». 
«In tutte tue question certo mi piaci»,
rispuose, «ma ’l bollor de l’acqua rossa
dovea ben solver l’una che tu faci. 
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
quando la colpa pentuta è rimossa». 
Poi disse: «Omai è tempo da scostarsi
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi, 
e sopra loro ogne vapor si spegne». 

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John Flaxman: Veglio di Creta (1793)

«In mezzo al mare si trova un paese decaduto dall’antico splendore» disse allora lui, «che si chiama Creta, che, nel tempo in cui il mondo era ancora casto, fu già dominata da un re (Saturno). C’é là una montagna che fu ricca di acqua e di vegetazione e che si chiama Ida: ed ora è invece deserta, abbandonata come una cosa vecchia. Rea scelse quella montagna come asilo sicuro per il suo figlioletto Giove, per meglio nasconderlo al padre Saturno, e quando il piccolo piangeva faceva fare frastuono per coprire il suo pianto. Nella cavità del monte sta ritto un vecchio gigante (il Veglio di Creta), che tiene le spalle rivolte verso Damietta d’Egitto e guarda invece Roma come se fosse il suo specchio. La sua testa è fatta d’oro puro, e di argento puro sono fatte le sue braccia ed il suo petto, è poi di rame fino al punto in cui si divaricano le gambe (il ventre); dalle gambe in giù è tutto fatto di ferro selezionato, ad eccezione del piede destro che è di terracotta; ma si tiene in piedi più su questo che sull’altro, il destro. Ogni parte del suo corpo, tranne la testa d’oro, è rotta da una fessura dalla quale gocciolano delle lacrime, che, raccolte ai piedi, attraversano il fondo della grotta. Il percorso di quelle lacrime arriva fin qua di roccia in roccia: e formano il fiume infernale Acheronte, la palude Stige ed il Flagetonte; ed infine scendono ancora più giù attraverso questo stretto canale fino ad arrivare al punto più profondo, dove non è possibile scendere oltre: e là formano lo stagno Cocito; ma come sia fatto questo, tu lo vedrai; perciò qui, ora, non ti dico nulla a riguardo.» Ed io gli chiesi allora: «Se questo rigagnolo nasce, come hai appena detto, nel nostro mondo, perché lo vediamo solo ora, vicino a questo lato della selva?» E lui mi rispose: «Tu sai bene che questo abisso è tondo; ma sebbene tu ne abbia già girato un bel pezzo camminando quasi sempre verso sinistra, scendendo verso il fondo, non sei ancora arrivato a compiere un intero giro: perciò, se improvvisamente ti appare alla vista una novità, non devi mostrare in volto nessuna meraviglia.» Ed io chiesi ancora: «Maestro, dove si trovano i fiumi Flegetonte e Léte? Quest’ultimo non lo hai neanche citato, dell’altro mi hai invece detto che si forma dalle lacrime che piovono quaggiù.» «Tutte le tue domande mi piacciono molto» mi rispose; «però quelle acque bollenti e color rosso sangue dovevano aver già risolto uno dei tuoi due dubbi (sul Flegetonte). Vedrai anche il fiume Léte, ma fuori da questo abisso infernale, lo vedrai là dove vanno a lavarsi le anime del Purgatorio quando hanno finalmente pagato le colpe di cui si sono pentiti.»

Ci troviamo di fronte ad un allegoria: se la testa è d’oro e non piange è perchè vi è stata un’età dell’oro, esente dal peccato. Ma le lacrime che dal corpo escono, il piede di ferro (potere temporale diminuito) e il piede d’argilla (potere spirituale corrotto), stanno a dimostrare che le lacrime versate sono frutto della malvagità del mondo che pertanto è giusto che si raccolga nell’inferno.

Canto XV
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Il canto inizia con il continuo avanzare dei due pellegrini in mezzo al vapore che il Flegetonte crea inghiottendo all’interno delle sue acque, tanto da non vedere più la selva dei suicidi.  

Già eravam da la selva rimossi
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’era,
perch’io in dietro rivolto mi fossi, 
quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
ci riguardava come suol da sera 
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
come ’l vecchio sartor fa ne la cruna. 

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Francesco Scaramuzza: Brunetto Latini (1859)

Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese
per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». 
E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
sì che ’l viso abbrusciato non difese 
la conoscenza süa al mio ’ntelletto;
e chinando la mano a la sua faccia,
rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». 

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Anonimo: Incontro tra Dante e Ser Brunetto

E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia.»
I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
faròl, se piace a costui che vo seco». 
«O figliuol», disse, «qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’anni
sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugnerò la mia masnada,
che va piangendo i suoi etterni danni». 
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
tenea com’uom che reverente vada. 
El cominciò: «Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
e chi è questi che mostra ’l cammino?». 
«Là sù di sopra, in la vita serena»,
rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle,
avanti che l’età mia fosse piena. 

Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
e reducemi a ca per questo calle». 
Ed elli a me: «Se tu segui tua stella,
non puoi fallire a glorïoso porto,
se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto,
veggendo il cielo a te così benigno,
dato t’avrei a l’opera conforto. 
Ma quello ingrato popolo maligno
che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno, 

ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico. 
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’è avara, invidiosa e superba:
dai lor costumi fa che tu ti forbi. 

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Gustave Doré: Brunetto Latini e Dante

La tua fortuna tanto onor ti serba,
che l’una parte e l’altra avranno fame
di te; ma lungi fia dal becco l’erba. 
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,

s’alcuna surge ancora in lor letame, 
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta». 
«Se fosse tutto pieno il mio dimando»,
rispuos’io lui, «voi non sareste ancora
de l’umana natura posto in bando; 
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,

la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora 
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo
convien che ne la mia lingua si scerna. 
Ciò che narrate di mio corso scrivo,
e serbolo a chiosar con altro testo
a donna che saprà, s’a lei arrivo. 

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscïenza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto. 
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ’l villan la sua marra». 
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;

poi disse: «Bene ascolta chi la nota».

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Renato Guttuso: Brunetto Latini (1970)

Già ci eravamo talmente allontanati dalla selva dei suicidi che io non avrei potuto più scorgerla, per quanto mi fossi rivolto indietro, quando incontrammo una schiera di anime che venivano lungo l’argine e ci guardavano, come sono soliti guardare qualcuno di sera sotto la luna nuova e aguzzavano lo sguardo verso di noi, come fa il vecchio sarto quando deve infilare il filo nella cruna. Così guardato fissamente da questa schiera, fui riconosciuto da un dannato, che mi prese per il lembo della veste e gridò: «Che meraviglia!». Ed io, quando lui distese verso di me il braccio, guardai fisso nel suo volto devastato dal fuoco, tanto che il viso bruciato non nascose la sua conoscenza nella mia mente; e avvicinando la mano verso il suo volto, risposi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». E lui: «O figliolo mio, non ti dispiaccia se Brunetto Latini torna con te un po’ indietro e lascia andare la fila». Gli dissi: «Per quanto posso, ve ne prego; se volete che io mi fermi, lo farò, se mi è permesso da colui che m’accompagna». Disse: «O figliolo, chi di questa schiera si ferma anche solo un momento, deve stare disteso poi cento anni senza potersi difendere quando le falde di fuoco lo feriscono. Perciò cammina: io ti seguirò da presso, e poi raggiungerò la mia schiera, che procede piangendo i suoi eterni peccati». Io non osavo scendere dagli argini per camminare insieme a lui; ma tenevo il capo chino come uomo riverente. Egli cominciò a dire: «Quale caso o destino prima dell’ultimo tuo giorno di vita ti conduce quaggiù? E chi è costui che ti mostra il cammino?». «Lassù sulla terra, durante la vita illuminata dal sole» gli risposi «mi smarrii in una selva, prima che la mia vita avesse raggiunto il suo culmine. Solamente ieri mattina volsi le spalle alla selva: costui mi apparve, mentre io rovinavo verso di essa, e mi riconduce a casa attraverso questo cammino». Ed egli a me: «Se tu segui l’influenza della tua costellazione (i Gemelli), non puoi fallire nel raggiungere un porto glorioso, se io riuscii ben a capire durante la mia esistenza; e se io non fossi morto presto, rispetto a te, considerando come il cielo è nei tuoi confronti benevolo, ti avrei dato conforto alla tua opera (di uomo civilmente impegnato). Ma quell’ingrato popolo malvagio che anticamente discese da Fiesole e per questo ha ancora i caratteri aspri e selvatici, ti si farà, per il tuo bene operare, nemico, ed è naturale, perché tra i frutti aspri non è conveniente che frutti un dolce fico. Un vecchio detto definisce i fiorentini ciechi; è un popolo avaro, invidioso e superbo: cerca di restare immune dai loro costumi. La tua sorte ti riserva un così grande onore, che sia i Bianchi che i Neri vorranno divorarti; ma avranno il becco lontano dall’erba. Le bestie fiesolane si divorino tra loro, e non si permettano di toccare la pianta, se ve n’è ancora qualcuna che possa nascere nel loro letame, in cui riviva il seme santo di quei pochi romani che là rimasero quando fu fondato il nido di tanta malizia».«Se fosse del tutto esaurito il mio desiderio» gli risposi «voi non sarete ancora fuori della schiera umana, perché ho ancora ben vivo il ricordo, ed ora mi addolora, la cara e buona immagine paterna di voi quando, durante la vita, di tanto in tanto m’insegnavate come l’uomo possa eternarsi tra i vivi (per i suoi atti meritevoli): e quanto io l’abbia in gratitudine, finché vivo, si deve riconoscere nelle mie parole. Scrivo nella mia mente ciò che voi narrate circa il mio futuro, lo serbo perché mi sia spiegato, con altre parole, da Beatrice, se giungerò a lei. Voglio soltanto che vi sia ben chiaro, purché la mia coscienza non abbia da rimproverarmi nulla, che sono pronto a sostenere i colpi della Fortuna, qualunque cosa mi riserva. Non è nuovo ai miei orecchi questo impegno, perciò giri la Fortuna la sua ruota come vuole, ed il contadino volti la sua zappa». Il mio maestro, allora, si volse verso destra e mi guardò, quindi disse: «Ascolta bene, chi annota ciò che sente».

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Alberto Martini: Virgilio, Dante e Brunetto Latini (1901)

Il XV canto è importante non soltanto perché vi si conferma la profezia dell’esilio dantesco, ma perché ci proietta in un problema che, già intravisto con Francesca e Farinata, vede Dante rapportarsi con persone di cui ha avuto (una letteraria, l’altra politica) profonda stima. Tuttavia la stima si basava su qualcosa di extra biografico: l’aver sentito la storia di Francesca da Rimini e il conoscere in modo indiretto le gesta di Federigo, attraverso il racconto di Pier delle Vigne (quest’ultimo muore nel 1265, Dante nascerà dopo trent’anni esatti) lo portano lontano dallo stesso rapporto con Brunetto Latini, di cui Dante fu discepolo. Il problema pertanto è continuare il sentimento di stima, nonostante il peccato, considerato abominevole nel Medioevo, dell’omosessualità. Certo Dante non poteva averlo ignorato, neppure quand’era giovane, ma quando si trova di fronte alla moralità cattolica, non può allo stesso modo, non stigmatizzarlo. Dante, genialmente, lo fa in modo plastico, non contenutistico: egli prevale (essendo sopra l’argine) in quanto guidato dalla legge di Dio, ma al contempo china il capo, riconoscendogli il merito di avergli insegnato come l’uom s’eterni. Per meglio dire: Dante riconosce la validità tutta umana di Brunetto, ma rivela la sua peccaminosità dal punto di vista della morale cattolica. Il riconoscimento di Dante verso il suo maestro tuttavia ha disturbato a lungo una certa critica (soprattutto nel periodo del fascismo) che non poteva ammettere alcun segno di riverenza verso un omosessuale, per questo si era favoleggiato che l’andare contro natura di Ser Brunetto riguardava il suo uso della lingua francese (non naturale) di contro al volgare, ma è evidente che tale teoria si sia sviluppata contro ogni evidenza nella distribuzione dei peccati dantesca, sebbene sia da sottolineare come del peccato stesso di Ser Brunetto Dante non faccia mai menzione.

Dopo aver risposto alla domanda di Dante di chi fossero i suoi compagni (soprattutto intellettuali e chierici) Brunetto si congeda da Dante:

«Sieti raccomandato il mio Tesoro
nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.»

«Ti raccomando il mio Tresor (opera il lingua d’oc), nel quale io vivo ancora, e più non chiedo.»

chiusa nella quale all’immortalità di Dio, Brunetto risponde con l’immortalità della cultura.

Canto XVI
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Lasciato definitivamente ser Brunetto, mentre in sottofondo si ode il rumore del Flegetonte che si versa nel girone sottostante, Dante vede avvicinarsi a sé tre sodomiti, disposti a cerchio, che si rivelano essere personalità eminenti della politica e dell’arte militare: Guido Guerra, famoso guerriero, Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci (ambedue cavalieri di parte guelfa).

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Bartolomeo Pinelli: I tre sodomiti (1824)

Essi riferiscono a Dante che un nuovo compagno, unitosi nel girone dei sodomiti, Guglielmo Borsiere, ha riportato notizie sconfortanti sulla città di Firenze e loro vogliono sapere da Dante se quanto detto loro risponde a verità.

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Tom Phillips: I tre sodomiti (1982)

Così risponde loro il poeta:

«La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata,

Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni».

«I nuovi ricchi e gli improvvisi guadagni hanno dato vita alla superbia e alla sregoletezza in te, Firenze, di cui sin da ora ti lamenti.»

Con questa risposta Dante mostra ancora una volta che ciò che rovina la città è il suo imborghesimento. L’importanza data al denaro e non più ai valori corrompono, secondo il poeta, i fiorentini che tuttavia non riesce a vedere in essi una nuova forza storica, capace non solo di rovinare, ma anzi di preparare la grande stagione del ‘400 italiano.

Canto XVI.JPGDante si sofferma ad osservare la cascata del Flegetonte

Intanto il rumore del fiume di sangue che si getta nel girone successivo diventa assordante. Virgilio domanda a Dante la corda che egli ha intorno ai fianchi, con la quale voleva aver ragione della lonza nella selva oscura. Il poeta latino la getta in fondo al burrone, come segnale per chi dovrà sopraggiungere dal basso per mostrarsi infine a Dante. Egli infatti, affacciatosi vede un essere che si eleva lentamente verso loro.

Canto XVII
Settimo cerchio
III Girone
Violenti contro Dio, la natura, l’arte
(Bestemmiatori, sodomiti, usurai)

Ecco svelato il mostro che vince gli ostacoli della natura, penetra i muri e le armature e che appesta col suo fetore l’intero mondo:

La faccia sua era faccia d’uom giusto,
tanto benigna avea di fuor la pelle,
e d’un serpente tutto l’altro fusto; 
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle. 

(…)

così la fiera pessima si stava
su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra. 
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
ch’a guisa di scorpion la punta armava.

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Bernhard Gillessen: Gerione

Aveva la faccia dell’uomo giusto, tanto benevoli apparivano le sue sembianze esteriori, e tutto il resto del corpo di un serpente; aveva due branche pelose fino alle ascelle; la schiena ed il petto ed entrambi i fianchi erano tutti dipinti con nodi e scudetti: (…) allo stesso modo stava allora quella malefica belva sull’orlo estremo in pietra che circonda il sabbione. Tutta la sua coda guizzava libera nel vuoto, tendendo verso l’alto la forcella velenosa che armava la punta come quella di uno scorpione.

Il mostro è Gerione, diversamente interpretato, rispetto all’immagine classica, da Dante. Egli rappresenta l’allegoria della frode con la sua triplice natura: il volto umano, il corpo di serpente e la coda di scorpione. Virgilio invita Dante ad avvicinarsi ad esso, ma proprio lì vicino vede seduti gli usurai ed è la stessa guida a dire a Dante di farsi loro incontro per aver piena conoscenza dell’intero girone.

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Gli usurai (miniatura ferrarese del XV secolo) 

Dante li riconosce attraverso le loro borse che hanno tutte disegnato lo stemma di famiglia. Sembra non far piacere loro essere riconosciute, se si apprestano a nominare anche altri che giungeranno con lo stesso peccato. Ma sarà proprio il gesto dell’unico padovano dei tre (gli altri due sono fiorentini) che lo licenzia con una volgare linguaccia, a mostrare il fastidio che Dante nutre per questo peccato.

Quindi, Dante si avvicina al maestro e lo stesso lo invita a sedersi sulla groppa maculata di Gerione, nella parte anteriore, in quando Virgilio, ponendosi alle sue spalle, lo avrebbe sorretto e difeso dalla coda biforcuta; e così inizia la discesa, raccontata dall’io narrante in soggettiva:

Ella sen va notando lenta lenta;
rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. 
Io sentia già da la man destra il gorgo
far sotto noi un orribile scroscio,
per che con li occhi ’n giù la testa sporgo. 
Allor fu’ io più timido a lo stoscio,
però ch’i’ vidi fuochi e senti’ pianti;
ond’io tremando tutto mi raccoscio. 
E vidi poi, ché nol vedea davanti,
lo scendere e ’l girar per li gran mali
che s’appressavan da diversi canti. 
Come ’l falcon ch’è stato assai su l’ali,
che sanza veder logoro o uccello
fa dire al falconiere “Omè, tu cali!”, 
discende lasso onde si move isnello,
per cento rote, e da lunge si pone
dal suo maestro, disdegnoso e fello; 
così ne puose al fondo Gerïone
al piè al piè de la stagliata rocca,
e, discarcate le nostre persone, 
si dileguò come da corda cocca.

Gerione procede nuotando lentamente: gira in cerchio e scende continuamente, ma non me ne accorgo se non per l’aria che sento arrivare sul volto e dal basso. Io iniziavo già a sentire alla mia destra il vortice d’acqua del fiume Flegetonte rumoreggiare orribilmente sotto di noi, e sporgo quindi la testa per guardare verso il basso. Divenni allora ben più timoroso nell’allentare la presa delle gambe, vedendo giù in fondo dei fuochi e sentendo dei pianti; e tutto tremante strinsi di nuovo le cosce intorno al mostro. Mi accorsi poi, cosa che non avevo notato prima, del nostro scendere e girare in cerchio vedendo le grandi punizioni (dell’ottavo cerchio) che si facevano vicine da tutte le parti. Come il falcone da caccia che è stato per tanto tempo in volo, e senza aver sentito il richiamo o visto una preda fa dire al falconiere: “Ahimè, tu stai scendendo!”, planando stanco fino al punto da cui era partito agile, facendo centinaia di cerchi nell’aria, atterra infine lontano dal suo padrone, sdegnoso ed afflitto; allo stesso modo Gerione si depose sul fondo del burrone ai piedi della parete di roccia a strapiombo e, dopo aver lasciato scendere me e Virgilio, si dileguò infine veloce come una freccia scoccata da un arco.

La “Favolosa discesa” viene descritta a livello sensoriale: dapprima l’udito, col fragore delle acque del Flegetonte, quindi visivo/auditivo con i fuochi ed i pianti ed in ultimo visivo, perché il ruotare di Gerione gli permette un prospettiva completa, anticipando in questo modo la struttura delle Malebolge.

Canto XVIII
Ottavo cerchio
I Bolgia (Ruffiani e seduttori)
II Bolgia (Adulatori)

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Mappa dell’ottavo cerchio in Dante con l’esposizione di Bernardino Daniello da Lucca (1568)


Il canto inizia con il nuovo luogo (l’ottavo cerchio) in cui i due pellegrini si trovano dopo essere scesi dalla groppa di Gerione:

Luogo è in inferno detto Malebolge,
tutto di pietra di color ferrigno,
come la cerchia che dintorno il volge
Nel dritto mezzo del campo maligno
vaneggia un pozzo assai largo e profondo,
di cui suo loco dicerò l’ordigno.
Quel cinghio che rimane adunque è tondo
tra ’l pozzo e ’l piè de l’alta ripa dura,
e ha distinto in dieci valli il fondo.
Quale, dove per guardia de le mura
più e più fossi cingon li castelli,
la parte dove son rende figura,
tale imagine quivi facean quelli;
e come a tai fortezze da’ lor sogli
a la ripa di fuor son ponticelli,
così da imo de la roccia scogli
movien che ricidien li argini e ’ fossi
infino al pozzo che i tronca e raccogli.Botticelli, Malebolge: First and Second Bolge | The Core Curriculum

Botticelli: prima e seconda bolgia

C’è una regione dell’Inferno che è chiamata Malebolge, fatta tutta di pietra del colore del ferro, e cinta tutt’intorno da una parete della stessa natura. Nel centro esatto di quel campo maledetto si apre un pozzo molto largo e profondo, della cui funzione parlerò più avanti, quando sarà il momento. Rimane pertanto uno spazio circolare tra il pozzo ed i piedi dell’alta parete di roccia, ed ha il fondo diviso in dieci fossati distinti. Come, dove a difesa delle mura ci sono molti fossati a cingere i castelli appare l’area dove quei fossati si trovano, allo stesso modo apparivano laggiù quelle valli distinte; e come alle porte di tali fortezze ci sono dei ponticelli che portano da una riva all’altra, allo stesso modo là nell’Inferno dai piedi della roccia partivano degli scogli che attraversavano argini e fossati fino a raggiungere quel pozzo che li termina e raccoglie.

La topografia con cui il canto si apre è precisamente descritta : un cerchio in cui sono iscritti dieci centri concentrici, attraversati, come fossero i raggi di una ruota, da ponti di roccia: tale descrizione così dettagliata presenta già  una particolarità: la parola Malebolge è d’invenzione dantesca e “bolgia” nel medioevo significava “borsa, sacca”. Quindi il luogo è come se fosse composto da dieci sacche di “mala gente”, non più guardati da “mostri animali” (Gerione è come se soprassedesse alla complessità), ma da veri e propri diavoli: I ruffiani e seduttori, stipati nella prima bolgia, vendono frustati nel deretano da diavoli, riprendendo una forma di punizione piuttosto in voga nelle città medioevali per i peccati a sfondo sessuale.the-inferno-canto-18-1.jpgGustave Doré: Ruffiani e seduttori

Fra di essi Dante individia Venedico Caccianemico, suo contemporaneo, che ha costretto sua sorella Ghisola a prostituirsi con Obizzo d’este e Giasone (maestoso, tra gli altri dannati) che ha ingannato e poi lasciate sole Ifisile e Medea.lecchino-5.jpg

Giovanni Stradano: Gli adulatori (1857)

Nella seconda bolgia i peccatori sono immersi nella merda: qui riconosce Alessio Interminei da Lucca e la Taide della commedia l’Eunuco di Terenzio.

Ci sono alcune particolarità da rivelare in questo canto e che verranno riprese nell’ottavo cerchio: la disumanizzazione dei peccati e dei peccatori che tendono sempre più a non volersi fare riconoscere e l’accoppiamento classico / contemporaneo delle anime.malebolge_by_nivalis70-d7s72ot.jpgNivalis ’70: Gli adulatori

Per quanto riguarda Taide, i pochi versi a lei riferiti, ci dicono di una cattiva interpretazione del testo da parte di Dante, conosciuto attraverso il De amicitia di Cicerone: nella commedia, infatti, nell’atto III, scena I, Trasone chiede al servo Gnatone, che a nome di lui aveva presentato il dono: “Magnas vero agere gratias Thais mihi?” (Dunque Taide mi ringrazia?) e Gnatone risponde: “Ingentes” (ti ringrazia moltissimo); Dante scambia Thais per un vocativo, facendolo diventare: “Ho io, Taide, grandi benemerenze presso te?”, “Non grandi, straordinarie”, come fossero ricompense per i favori che la puttana Taide riceva dal suo drudo.

Canto XIX
Ottavo cerchio
III Bolgia (Simoniaci)

O Simon mago, o miseri seguaci
che le cose di Dio, che di bontate
deon essere spose, e voi rapaci
per oro e per argento avolterate,
or convien che per voi suoni la tromba,
però che ne la terza bolgia state.
Già eravamo, a la seguente tomba,
montati de lo scoglio in quella parte
ch’a punto sovra mezzo ’l fosso piomba.
O somma sapïenza, quanta è l’arte
che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,
e quanto giusto tua virtù comparte!
Io vidi per le coste e per lo fondo
piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;
l’un de li quali, ancor non è molt’anni,
rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d’un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l’altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.
«Chi è colui, maestro, che si cruccia
guizzando più che li altri suoi consorti»,
diss’io, «e cui più roggia fiamma succia?».
Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti
là giù per quella ripa che più giace,
da lui saprai di sé e de’ suoi torti».
E io: «Tanto m’è bel, quanto a te piace:
tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto
dal tuo volere, e sai quel che si tace».
Allor venimmo in su l’argine quarto;
volgemmo e discendemmo a mano stanca
là giù nel fondo foracchiato e arto.
Lo buon maestro ancor de la sua anca
non mi dipuose, sì mi giunse al rotto
di quel che si piangeva con la zanca.
«O qual che se’ che ’l di sù tien di sotto,
anima trista come pal commessa»,
comincia’ io a dir, «se puoi, fa motto».
Io stava come ’l frate che confessa
lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,
richiama lui per che la morte cessa.
Ed el gridò: «Se’ tu già costì ritto,
se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.
Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio
per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?».
Tal mi fec’io, quai son color che stanno,
per non intender ciò ch’è lor risposto,
quasi scornati, e risponder non sanno.
Allor Virgilio disse: «Dilli tosto:
“Non son colui, non son colui che credi”»;
e io rispuosi come a me fu imposto.
Per che lo spirto tutti storse i piedi;
poi, sospirando e con voce di pianto,
mi disse: «Dunque che a me richiedi?
Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,
che tu abbi però la ripa corsa,
sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;
e veramente fui figliuol de l’orsa,
cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.
Di sotto al capo mio son li altri tratti
che precedetter me simoneggiando,
per le fessure de la pietra piatti.
Là giù cascherò io altresì quando
verrà colui ch’i’ credea che tu fossi,
allor ch’i’ feci ’l sùbito dimando.
Ma più è ’l tempo già che i piè mi cossi
e ch’i’ son stato così sottosopra,
ch’el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver’ ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne’ Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge».
Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,
ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:
«Deh, or mi dì: quanto tesoro volle
Nostro Segnore in prima da san Pietro
ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?
Certo non chiese se non “Viemmi retro”.
Né Pier né li altri tolsero a Matia
oro od argento, quando fu sortito
al loco che perdé l’anima ria.
Però ti sta, ché tu se’ ben punito;
e guarda ben la mal tolta moneta
ch’esser ti fece contra Carlo ardito.
E se non fosse ch’ancor lo mi vieta
la reverenza de le somme chiavi
che tu tenesti ne la vita lieta,
io userei parole ancor più gravi;
ché la vostra avarizia il mondo attrista,
calcando i buoni e sollevando i pravi.
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
E mentr’io li cantava cotai note,
o ira o coscïenza che ’l mordesse,
forte spingava con ambo le piote.
I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,
con sì contenta labbia sempre attese
lo suon de le parole vere espresse.
Però con ambo le braccia mi prese;
e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,
rimontò per la via onde discese.
Né si stancò d’avermi a sé distretto,
sì men portò sovra ’l colmo de l’arco
che dal quarto al quinto argine è tragetto.
Quivi soavemente spuose il carco,
soave per lo scoglio sconcio ed erto
che sarebbe a le capre duro varco.
Indi un altro vallon mi fu scoperto.

O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
 ciascun da l’altra costa li occhi volse,
 quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
 fermò le piante a terra, e in un punto
 saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto,
 ma quei più che cagion fu del difetto;
 però si mosse e gridò: «Tu se’ giunto!».
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
 non potero avanzar; quelli andò sotto,
 e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
 quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
 ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
 volando dietro li tenne, invaghito
 che quei campasse per aver la zuffa;
e come ’l barattier fu disparito,
 così volse li artigli al suo compagno,
 e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
 ad artigliar ben lui, e amendue
 cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
 ma però di levarsi era neente,
 sì avieno inviscate l’ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente,
 quattro ne fé volar da l’altra costa
 con tutt’i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
 porser li uncini verso li ’mpaniati,
 ch’eran già cotti dentro da la crosta.
E noi lasciammo lor così 'mpacciati.
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Gustave Doré: Alichino alle prese con Ciampolo

Già mi capitò di vedere i cavalieri muoversi verso il campo, e lanciarsi in combattimento e mettersi in assetto, e qualche volta anche scappare, abbandonando il campo per mettersi in salvo; di vedere drappelli fare ispezioni nella vostra terra, o Aretini, e di vedere fare scorrerie, razzie, e di vedere combattere nei tornei e correre nelle giostre; e, a seconda dei casi, si davano segnali ora con trombe, ora con campane, oppure con i tamburi e con bandiere o fuochi accesi dai castelli, con modalità tradizionali nostrane oppure imparate dagli stranieri; ma mai mi capitò di vedere con una così diversa cornamusa (come quella di Barbariccia) mettere in moto cavalieri o pedoni, e neppure navi che si muovessero per cenni di terra o per apparire di stelle. Noi proseguivamo quindi il cammino con i dieci demoni: ahi che terribile compagnia! ma è normale che in chiesa ci siano i santi, e nelle taverne i golosi. Stavo sempre attento anche alla pece, per vedere tutte le condizioni della bolgia e delle persone che dentro di essa ardevano. Come fanno i delfini, quando lanciano segnali ai marinai facendo emergere l’arco della loro schiena, così che abbiano cura di mettere al sicuro la loro nave da una imminente tempesta, allo stesso modo, a volte, per ridurre la sofferenza della loro punizione, alcuni peccatori venivano a galla mostrando la schiena, per reimmergerla di nuovo subito dopo, all’istante. E così come sull’orlo dell’acqua di un fosso se ne stanno le rane con solo la loro testa fuori all’aria, celando in questo modo nell’acqua le zampe ed il grosso corpo, allo stesso modo se ne stavano da tutte le parti i peccatori; ma non appena si avvicinava loro Barbariccia, (per evitare la punizione) subito si ributtavano dentro la pece bollente. Vidi quindi, ed ancora il mio cuore rabbrividisce quando ci penso, un dannato rimanere invece a galla, come fa ogni tanto una rana intontita, quando ci si avvicina, mentre la sua vicina è già saltata via; allora Graffiacane, che era il più vicino a quel miserabile, con il suo uncino gli afferrò i capelli tutti ricoperti di pece e lo tirò fuori dalla fossa, tanto che mi parve una lontra. Io avevo già imparato il nome di tutti quei demoni, avendoli notati quando furono chiamati uno ad uno da Malacoda, ed, anche, quando si chiamavano, stavo attento a chi di loro rispondeva.
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William Blake: Ciampolo tormentato dai diavoli

«Oh Rubicante, fa’ in modo di mettergli addosso i tuoi unghioni, per scuoiarlo!» gridarono tutti insieme quei maledetti demoni. Ed io dissi allora a Virgilio: «Maestro mio, se puoi, fai in modo di conoscere il nome di quell’anima disgraziata caduta nelle mani dei suoi nemici.» La mia guida allora si avvicinò a lui; chiedendogli di dove fosse, da dove venisse, e l’altro rispose: «Io sono nato nella Navarra (in Spagna). Fui messo al servizio di un signore locale da mia madre, che mi aveva dato alla luce dalla relazione con furfante, sperperatore dei propri beni ed anche della sua vita (suicida). In seguito entrai nella corte del valoroso re Tebaldo: e là mi misi a fare il barattiere; di quelle mie azioni pago ore le conseguenze in questa pece calda.» A quel punto Ciriatto, dalla cui bocca sporgevano, una per parte, due zanne come ad un cinghiale, gli fece sentire come (con la zanna) fosse capace di stracciare la carne. La povera anima era finito come un topo tra gatte malvagie; ma Barbariccia lo strinse tra le sue braccia, e disse agli altri: «State lontani voi, mentre io lo tengo così, come inforcato.» E al mio maestro Virgilio rivolse quindi la sua faccia: «Fai le tue domande» disse, «adesso, se desideri sapere altro da lui, prima che intervenga qualcun’altro e lo faccia a pezzi.» La mia guida allora domandò: «Dimmi adesso: tra tutti i peccatori, ne conosci tu qualcuno che sia stato italiano ed ora si trova immerso nella pece?». E quello rispose: «Io mi allontanai, proprio poco fa, da uno che abitò vicino all’Italia: potessi stare ancora immerso là nella pece insieme a lui! non sarei ora qui a temere né le unghie né gli uncini.» Allora Libicocco disse «Abbiamo già aspettato troppo»; e gli afferrò quindi il braccio con il suo bastone uncinato, in modo da, stracciando, strappargli un pezzo di carne viva. Anche Draghignazzo volle afferrarne il corpo in basso alle gambe; ma Barbariccia allora, loro comandante, si volse tutti intorno verso di loro con modi molto più aggressivi. Quando tutti i demoni si furono un poco calmati, al peccatore, che stava ancora guardando la ferita subita, Virgilio domandò senza esitare oltre: «Chi è colui dal quale ti sei malauguratamente separato, come hai detto tu di aver fatto, per finire poi su questa riva?» Ed egli rispose: “E’ frate Gomita, quello che abitava in Gallura, maestro di ogni tipo di truffa, che, avuti in mano i nemici del suo padrone, lì tratto in un modo che può ancora essere motivo di vanto per ciascuno di loro. Ricevette del denaro e li lasciò liberi con un processo sommario, come dice lui nel suo gergo (sardo); ma anche negli altri suoi incarichi agì non solo come barattiere, ma come il re dei barattieri. Insieme a lui si trova anche il signor Michele Zanche di Logudoro; e di parlare della loro Sardegna non si stancano mai le loro due lingue. Ohimé, vedete anche voi l’altro demone che digrigna i suoi denti: Io continuerei anche a parlare, ma temo che egli si stia preparando a grattarmi la rogna di dosso.» A queste parole Barbariccia, il grande capo, si rivolse a Farfarello che stava stralunando gli occhi per vibrare il colpo e ferire Ciampòlo e disse: «Fatti più in là, allontanati, uccellaccio maligno». «Se voi volete vedere e sentire» riprese a parlare allora Ciampòlo, ripreso un poco il coraggio, «anime Toscane o Lombarde, io ne farò venire a galla qualcuna; ma è necessario che i diavoli Malebranche stiano un pò distanti, cosicchè i miei compagni non abbiamo a temere la loro vendetta; allora io, stando seduto in questo stesso posto in cui mi trovo, pur trovandomi da solo, ne farò venire a riva sette, mettendomi solo a fischiettare, come siamo soliti fare quando qualcuno si tira a galla, fuori dalla pece, e vede che non ci sono pericoli.» Cagnazzo, sentendo una simile proposta, alzò il muso scrollando il capo in segno di disapprovazione, e disse: «Senti che inganno si è inventato per riuscire a scapparci, ributtandosi nella pece.» Ma Ciampòlo, che in fatto di inganni era un grande esperto, rispose: «Se al limite inganno qualcuno, inganno i miei compagni, che richiamo esponendoli a pericoli maggiori.» Alichino non seppe allora trattenersi, e, in contrapposizione agli altri demoni, disse all’anima: «Sappi che se tu ti getterai giù nella fossa, io non ti correrò certo dietro, ma verrò ad afferrarti volando veloce con le ali sopra la pece: lasciamolo pure libero sull’argine e noi andiamo a nasconderci dietro il pendio, e vediamo se da solo vale più di tutti noi.» Oh lettore, sentirai adesso di una gara mai vista: ogni demonio si girò, rivolgendo il proprio sguardo verso l’altro pendio della bolgia, primo tra tutti Cagnazzo, che sembrava essere quello più difficile da convincere. Ciampòlo, il navarrese, colse al volo il momento giusto: puntò bene entrambi i piedi a terra e nello stesso istante spiccò un salto, liberandosi da Barbariccia, il loro gran comandante. Ogni diavolo si sentì punto dal rimorso, ma più di tutti si sentì punto Alichino, che era stato la causa; perciò spiccò subito il volo gridando: «Ora ci sei! Sei mio». Ma gli servì a poco: perché le sue ali non riuscirono a battere in velocità la paura di Ciampòlo: questo si immerse subito nella pece, l’altro dovette tirarsi dritto e tornare indietro a mani vuote: non diversamente l’anatra, improvvisamente, si tuffa sott’acqua quando sente avvicinarsi il falcone, che torna su in alto nel cielo sconfitto e per questo adirato. Calcabrina, arrabbiato per la beffa subita, volò subito dietro ad Alichino sperando che Ciampòlo riuscisse a scappare, così da poter attaccare lite con il compagno; perciò, non appena il barattiere si fu messo al riparo sotto la pece, rivolse subito i propri artigli verso Alichino, lo afferrò e lo trascinò così preso sopra il fosso. Ma a sua volta Alichino si comportò da bravo rapace, riuscendo ad afferrare a sua volta l’altro con i propri artigli, ed entrambi caddero così nel bel mezzo della pece bollente. Il calore spinse subito tutti e due a lasciare la presa; ma non riuscirono comunque a sollevarsi dalla pece, tanto avevano le ali impiastrate ed appesantite. Barbariccia allora, tanto addolorato per quanto era accaduto, così come lo erano gli altri, fece volare quattro suoi demoni dalla riva opposta, tutti dotati di bastoni uncinati, e velocemente, da una parte e dall’altra, scesero lungo la riva fino alla pece: allungarono i loro uncini verso i due demoni tutti invischiati; che oramai erano già cotti dall’esterno fino al dentro; e noi li lasciammo così, imbarazzati per l’accaduto.
L’incipit del canto è legato, in modo fortemente ironico, al canto precedente, facendo sì che fra i due non ci fosse alcuna frattura, ma che costituissero un solo episodio, una solo cerchio, una sola bolgia e gli stessi protagonisti. Eppure qualcosa di diverso c’è ed è la presenza dei dannati: se nel precedente a farla da padrone erano stati i diavoli, cui spalla era la paura di Dante, qui, una volta che si è già venuto a sapere chi sono e come si comportano lo sguardo è posato sui dannati.
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William Blake: La lotta tra i diavoli
Questi ultimi sin dall’inizio sembrano usciti dai bestiari medievali in un crescendo di ributtante similitudine: dapprima delfini che mostrano la schiena, quindi rane appiattite a gracidare osservando il mondo ed il modo per scampare il pericolo ed infine la lontra, tirata su con un pendaglio. Tra questi dannati vi è il protagonista, Ciampolo: nessuna umanità in lui (d’altra parte è difficile averne in questa lotta serrata con i diavoli), ma “figuralmente” la capacità di continuare a barattare con essi per trarne vantaggio.
In ultimo la stupidità dei diavoli, che probabilmente si odiano e fanno a gara loro stessi contendendosi i dannati. E’ stato proprio il barattiere spagnolo a giocare con loro mettendo in luce l’inconsistente boria e l’imbecillità che li contraddistingue: lancia una sfida che il diavolo Alichino raccoglie e perde e per la rabbia di essersi fatto fuggire un dannato Calcabrina lo va a colpire dando vita alla famosa zuffa tra diavoli. Insomma pur rotti dai vizi della vita si fanno fregare da un piccolo furfante, ma a far vincere quest’ultimo è l’intelligenza di Ciampolo di cui sembra che a loro difetti del tutto. 

Canto XXIII
Ottavo cerchio
V Bolgia (I barattieri)
VI Bolgia (Gli ipocriti)

Il canto si lega con i precedenti due: i diavoli “sconfitti” in astuzia da Ciampolo, sono stati visti perdere la battaglia e l'”onore” da Virgilio e Dante e sanno che essi non sono affatto lieti che, scampando, possano in seguito raccontarlo in giro. Pertanto s’affrettano a raggiungere il declivio che li porterà alla sesta gioia essendo stato detto loro (falsamente) che il ponte atto a traghettarli è crollato. Infatti mentre corrono sentono alle loro spalle i diavoli; Virgilio prende in braccio Dante e, lasciandosi scivolare tra le pietre, non lo pone in terra finché non giunge alla sesta bolgia, osservando i diavoli che, grazie alla provvidenza divina, s’arrestano di colpo perché non è concesso loro di superare il luogo da loro presieduto. 

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Denis Forkas: Gli ipocriti

Scampato il pericolo il nostro trova un manipolo di persone che camminano, in lacrime, lentamente, con il volto prostrato dalla fatica. Infatti indossano un mantello, come i monaci cluniacensi, fuori color d’oro e dentro piombati; noi li seguiamo nel loro giro, ma procedono talmente lentamente che noi, più veloci, ci imbattiamo sempre in volti nuovi. Ad un certo punto uno, guardando biecamente da sotto in su, invita loro ad andare più lentamente, informandoli di essere nella bolgia degli ipocriti e d’essere Catalano, un frate gaudente di Bologna. Quindi incontrano un uomo conficcato nudo in terra sopra ilm quale essi devono passare: è Caifa e con lui è qui tutto il sinedrio che ha condannato Gesù. Virgilio, rivolgendosi al frate, gli chiede se ci fosse, sulla destra, un modo d’uscire dalla sesta bolgia: quando viene a sapere che non è il ponte della quinta bolgia crollato, come gli aveva detto Malacoda (che chissà dove voleva portarli) ma quello della sesta, Virgilio si rabbuia, prendendosi anche lo sberleffo del frate che gli ricorda che lo sanno anche nell’Università di Bologna che il diavolo è falso, facendosi beffe dell’ingenuità del grande poeta latino.

Canto XXIV
Ottavo cerchio
VII Bolgia (I ladri)

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Bartolomeo Pagani: I ladri (1825)

Come sappiamo dal canto precedente per raggiungere il ponte che copre la settima bolgia, Dante e Virgilio si devono inerpicare sull’argine che li divide: cammino assolutamente non facile che metaforicamente sta ad indicare la fatica che il peccatore deve affrontare per raggiungere la salvezza; questo ci dice l’estrema attenzione che il poeta dedica alla descrizione del luogo (la solita esigenza realistica in un luogo fantastico) finalizzata a farci percepire la stanchezza che il Dante protagonista prova, la sua esigenza di riprender fiato ed il rimprovero di Virgilio che lo sprona a vincere l’affaticamento che qui risulta quasi nullo rispetto a quello che l’aspetterà nella montagna del Purgatorio.

Quindi spostando lo sguardo in soggettiva, con una focalizzazione interna, il poeta mentre sale, con difficoltà nel ponte, dapprima sente delle voci, quindi invita Virgilio ad andare nell’atro argine e qui vede un incredibile groviglio di serpenti:

Più non si vanti Libia con sua rena;
ché se chelidri, iaculi e faree
produce, e cencri con anfisibena,
né tante pestilenzie né sì ree
mostrò già mai con tutta l’Etïopia
né con ciò che di sopra al Mar Rosso èe.
Tra questa cruda e tristissima copia
corrëan genti nude e spaventate,
sanza sperar pertugio o elitropia:
con serpi le man dietro avean legate;
quelle ficcavan per le ren la coda
e ’l capo, ed eran dinanzi aggroppate.
Ed ecco a un ch’era da nostra proda,
s’avventò un serpente che ’l trafisse
là dove ’l collo a le spalle s’annoda.
Né O sì tosto mai né I si scrisse,
com’el s’accese e arse, e cener tutto
convenne che cascando divenisse;
e poi che fu a terra sì distrutto,
la polver si raccolse per sé stessa
e ’n quel medesmo ritornò di butto.
Così per li gran savi si confessa
che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;
erba né biado in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.
E qual è quel che cade, e non sa como,
per forza di demon ch’a terra il tira,
o d’altra oppilazion che lega l’omo,
quando si leva, che ’ntorno si mira
tutto smarrito de la grande angoscia
ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:
tal era ’l peccator levato poscia.
Oh potenza di Dio, quant’è severa,
che cotai colpi per vendetta croscia!
Lo duca il domandò poi chi ello era;
per ch’ei rispuose: «Io piovvi di Toscana,
poco tempo è, in questa gola fiera.
Vita bestial mi piacque e non umana,
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana».
E ïo al duca: «Dilli che non mucci,
e domanda che colpa qua giù ’l pinse;
ch’io ’l vidi omo di sangue e di crucci».
E ’l peccator, che ’ntese, non s’infinse,
ma drizzò verso me l’animo e ’l volto,
e di trista vergogna si dipinse;
poi disse: «Più mi duol che tu m’ hai colto
ne la miseria dove tu mi vedi,
che quando fui de l’altra vita tolto.
Io non posso negar quel che tu chiedi;
in giù son messo tanto perch’io fui
ladro a la sagrestia d’i belli arredi,
e falsamente già fu apposto altrui.
Ma perché di tal vista tu non godi,
se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,
apri li orecchi al mio annunzio, e odi.
Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.
Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra
sovra Campo Picen fia combattuto;
ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.
E detto l’ ho perché doler ti debbia!».

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Claudio Buz: Vanni Fucci

La Libia non si può più vantare delle sue spiagge; perché anche se produce chelidri, iaculi e faree e cencri e anfisibene, svariate specie di serpi, non può dire di avere mai avuto serpenti così pestiferi e velenosi nemmeno mettendosi insieme a tutta l’Etiopia ed a tutte le terre che si trovano sopra al Mar Rosso, a tutto il deserto arabico. In mezzo a questa gran quantità di serpenti feroci correva della gente nuda tutta spaventata, senza la speranza di poter trovare un rifugio o la pietra elitropia, che dà invisibilità: avevano le mani legate dietro la schiena con dei serpenti; le serpi ficcavano la coda e la testa tra le mani ed i reni dei dannati, di qua e di là, ed si annodavano poi sul dorso. Improvvisamente un dannato che si trovava dalla nostra parte, fu assalito da un serpente e trafitto là dove il collo si unisce alle spalle. Mai fu scritta né una “o” né una “i” tanto velocemente, quanto ci impiegò quel disgraziato a prendere fuoco e bruciare, tanto che divenne tutto cenere mentre cascava al suolo; e dopo che fu così ridotto a cenere in terra, la sua polvere si raccolse da sola e nello stesso istante ritornò di colpo ad essere la medesima figura di prima, così come i grandi saggi del passato dichiarano che la Fenice muore per poi subito rinascere, quando si avvicina ai cinquecento anni di vita: lei che quando è in vita non si nutre né di biada né di erba, ma solo di lacrime d’incenso e d’amomo, ed il suo drappo funerario sono il nardo e la mirra. Ed al modo di chi cade, e non sa come sia accaduto, se a causa di un demone che lo ha strattonato in terra, o per un altro tipo ostacolo che lega e non lo lascia stare in piedi, che quando si rialza, si guarda intorno tutto smarrito a causa della grande angoscia che ha provato, e guardandosi intorno sospira; allo stesso modo fece il peccatore quando si rialzò. Oh quant’è severa la potenza di Dio, che per punire i peccatori sferra tali colpi! La mia guida Virgilio gli domandò chi dunque egli fosse; ed egli rispose: «Io sono piovuto dalla Toscana, non molto tempo fa, per finire in questa bolgia feroce. Mi piacque la vita bestiale e non quella umana, essendo io un bastardo; io sono Vanni Fucci detto Bestia, e Pistoia fu la tana degna della mia esistenza». E io dissi a Virgilio: «Digli di non scappare, e chiedigli quale colpa lo ha spinto quaggiù; perché io l’ho conosciuto come uomo sanguinario e litigioso, non come ladro». E il peccatore che aveva capito le mie parole, non finse di non aver udito, ma si rivolse a me tutta la sua attenzione ed anche il volto, che si colorò di rosso per la triste vergogna; poi mi disse: «Mi dispiace di più che tu mi abbia incontrato qui nella miseria in cui mi vedi, piuttosto che non la stessa morte con cui fui tolto alla vita. Io non posso negarti quanto tu mi chiedi: io sono stato sistemato in questa bolgia dell’inferno perché fui io che derubai dei bei arredi la Sagrestia di San Giacomo a Pistoia, delitto la cui colpa fu però assegnata falsamente ad altri. Ma affinché tu non possa godere per avermi visto quaggiù, se mai uscirai da questi luoghi bui, apri bene le orecchie alla mia predizione, e ascolta: prima Pistoia vedrà cacciati da sé i Neri: ma poi Firenze sostituirà nuovamente i Banchi con i Neri, cambiando governo e leggi. Per opera di Marte, dalla Valle di Magra soffierà un vento con nuvole scure; e si abbatterà una tempesta impetuosa e terribile sopra il territorio di Pistoia, dove si combatterà duramente; il vento violento spazzerà poi via la foschia che lo avvolge con una forza tale che ogni Bianco ne resterà ferito. E questo te l’ho predetto così che tu te ne possa dolere!”.

Il brano qui presentato si può dividere in due parti:

  • la sfida letteraria con i classici, in questo caso l’Ovidio delle Metamorfosi, nella rappresentazione della Fenice che costituisce la prima metamorfosi che avvengono nella bolgia;
  • la presentazione di Vanni Fucci che occupa l’ultima parte dell’intero canto. 
In questa VII bolgia risulta addirittura scoperto il contrappasso: la presenza dei serpenti, popolarmente giudicati infigardi, astuti, mimetici e il loro passarsi i corpi con i dannati, indica appunto il furto presentati qui in forma parossistica (soprattutto nel canto seguente con questo costituisce un dittico); ma più importante è la figura di Vanni Fucci: il rapporto tra la “bestia” (vita bestial dice della sua esistenza il peccatore) e Dante è nullo, se invita Virgilio a parlare con lui evitando appunto alcuna forma di dialogo; lo ha riconosciuto come assassino, ma non come ladro e sarà lo stesso Fucci a rivelargli il furto sacrilego di cui è incolpato. La vergogna per esser stato scoperto lo rende ancora più cattivo nei confronti di Dante, tanto da profetizzare il suo esilio, ma questa volta al contrario delle precedenti (quella di Farinata, con la consapevolezza dolorosa di un destino comune chi li accomunerà, quella di Brunetto Latini doloroso, ma pieno di orgoglio per il discepolo preferito) la predizione di Vanni è piena di rabbia e di vendetta, oserei dire contenta di poter far provare dolore, lo stesso che egli ha sentito, mescolato alla vergogna, per il riconoscimento. 

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Priamo della Quercia: canto XXIV

Canto XXV
Ottavo cerchio
VII Bolgia
(I ladri)

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Giovanni Stradano: I ladri (1857)

L’inizio del canto XXV inizia allo stesso modo con cui si era interrotto il XXIV, all’ira espressa verbalmente da Vanni Fucci ne segue il gesto osceno rivolto contro Dio, reo di averlo fatto riconoscere da un vivo:

Al fine de le sue parole il ladro
le mani alzò con amendue le fiche,
gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro!». 
Da indi in qua mi fuor le serpi amiche,
perch’una li s’avvolse allora al collo,
come dicesse “Non vo’ che più diche”; 
e un’altra a le braccia, e rilegollo,
ribadendo sé stessa sì dinanzi,
che non potea con esse dare un crollo.

Dopo aver finito di parlato il ladro alzò entrambe le mani facendo il gesto delle fiche (pugno chiuso e pollice tra l’indice e il medio) gridando: «Prendi, Dio, le rivolgo direttamente a te!». Da quel momento in poi i serpenti mi diventarono simpatici, perché uno di essi lo avvolse subito intorno al collo, come a dire: «Non voglio che tu parli ancora»; e un’altra si attorcigliò alle sue braccia, legandolo e rilegandolo, ponendosi più volte sul petto del dannato, cosicché non potesse con le braccia dare uno scossone per liberarsi.

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Francesco Scaramuzza: Vanni Fucci (XIX sec.)

Segue quindi l’invettiva contro Pistoia  (paese originario di Vanni) e la sua fuga, quindi prosegue il racconto, con la descrizione del centauro Caco:

El si fuggì che non parlò più verbo;
e io vidi un centauro pien di rabbia
venir chiamando: «Ov’è, ov’è l’acerbo?». 
Maremma non cred’io che tante n’abbia,
quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia. 
Sovra le spalle, dietro da la coppa,
con l’ali aperte li giacea un draco;
e quello affuoca qualunque s’intoppa.
Lo mio maestro disse: «Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco. 
Non va co’ suoi fratei per un cammino,
per lo furto che frodolente fece
del grande armento ch’elli ebbe a vicino; 
onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece».

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Il centauro Caco

Egli fuggì e non poté più dire una parola; e intanto vidi un centauro avvicinarsi, tutto pieno di rabbia, gridando: «Dov’è, dov’è quel dannato non ancora piegato dalla pena?». In tutta la Marenna toscana non credo ci siano tante bisce, quante ne aveva quel centauro sulla schiena, fino a dove cessa la natura di cavallo e inizia l’aspetto umano. Sopra le spalle, dietro alla nuca, si trovava un dragone con le ali dispiegate; che sputava fuoco contro chiunque incontrasse sulla sua via. Il mio maestro Virgilio mi disse: «Questo centauro è Caco, il quale, nella grotta che si trova sotto il monte Aventino, spesso fece un lago con il sangue delle sue vittime. Non corre sulla riva del Flegetonte insieme ai centauri suoi fratelli a causa dell’astuto furto che compì sottraendo parte della mandria condotta da Ercole, quando l’ebbe vicino; furto a causa del quale egli cessò poi le sue azioni malvagie sotto la mazza di Ercole, che forse gli diede cento colpi, ma furono talmente forti, che forse egli non sentì nemmeno i primi dieci».

Mentre Virgilio parla si sentono le voci di tre ladri di cui assistiamo le metamorfosi, la cui consapevolezza della perizia letteraria dello scrittore, gli fa dire di aver superato le capacità linguistica di Lucano e di Ovidio:

Io non li conoscea; ma ei seguette,
come suol seguitar per alcun caso,
che l’un nomar un altro convenette, 
dicendo: «Cianfa dove fia rimaso?»;
per ch’io, acciò che ’l duca stesse attento,
mi puosi ’l dito su dal mento al naso. 
Se tu se’ or, lettore, a creder lento
ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia,
ché io che ’l vidi, a pena il mi consento. 
Com’io tenea levate in lor le ciglia,
e un serpente con sei piè si lancia
dinanzi a l’uno, e tutto a lui s’appiglia. 
Co’ piè di mezzo li avvinse la pancia
e con li anterïor le braccia prese;
poi li addentò e l’una e l’altra guancia; 
li diretani a le cosce distese,
e miseli la coda tra ’mbedue
e dietro per le ren sù la ritese. 
Ellera abbarbicata mai non fue
ad alber sì, come l’orribil fiera
per l’altrui membra avviticchiò le sue. 
Poi s’appiccar, come di calda cera
fossero stati, e mischiar lor colore,
né l’un né l’altro già parea quel ch’era: 
come procede innanzi da l’ardore,
per lo papiro suso, un color bruno
che non è nero ancora e ’l bianco more. 
Li altri due ’l riguardavano, e ciascuno
gridava: «Omè, Agnel, come ti muti!
Vedi che già non se’ né due né uno». 
Già eran li due capi un divenuti,
quando n’apparver due figure miste
in una faccia, ov’eran due perduti. 
Fersi le braccia due di quattro liste;
le cosce con le gambe e ’l ventre e ’l casso
divenner membra che non fuor mai viste. 
Ogne primaio aspetto ivi era casso:
due e nessun l’imagine perversa
parea; e tal sen gio con lento passo. 
Come ‘l ramarro sotto la gran fersa
dei dì canicular, cangiando sepe,
folgore par se la via attraversa, 

sì pareva, venendo verso l’epe
de li altri due, un serpentello acceso,
livido e nero come gran di pepe; 
e quella parte onde prima è preso
nostro alimento, a l’un di lor trafisse;
poi cadde giuso innanzi lui disteso. 
Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse. 
Elli ’l serpente e quei lui riguardava;
l’un per la piaga e l’altro per la bocca
fummavan forte, e ’l fummo si scontrava. 
Taccia Lucano omai là dov’e’ tocca
del misero Sabello e di Nasidio,
e attenda a udir quel ch’or si scocca. 
Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,
ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio; 
ché due nature mai a fronte a fronte
non trasmutò sì ch’amendue le forme
a cambiar lor matera fosser pronte. 
Insieme si rispuosero a tai norme,
che ’l serpente la coda in forca fesse,
e ’l feruto ristrinse insieme l’orme. 
Le gambe con le cosce seco stesse
s’appiccar sì, che ’n poco la giuntura
non facea segno alcun che si paresse. 
Togliea la coda fessa la figura
che si perdeva là, e la sua pelle
si facea molle, e quella di là dura.
Io vidi intrar le braccia per l’ascelle,
e i due piè de la fiera, ch’eran corti,
tanto allungar quanto accorciavan quelle.
Poscia li piè di rietro, insieme attorti,
diventaron lo membro che l’uom cela,
e ’l misero del suo n’avea due porti. 
Mentre che ’l fummo l’uno e l’altro vela
di color novo, e genera ’l pel suso
per l’una parte e da l’altra il dipela, 
l’un si levò e l’altro cadde giuso,
non torcendo però le lucerne empie,
sotto le quai ciascun cambiava muso. 
Quel ch’era dritto, il trasse ver’ le tempie,
e di troppa matera ch’in là venne
uscir li orecchi de le gote scempie; 
ciò che non corse in dietro e si ritenne
di quel soverchio, fé naso a la faccia
e le labbra ingrossò quanto convenne. 
Quel che giacëa, il muso innanzi caccia,
e li orecchi ritira per la testa
come face le corna la lumaccia; 
e la lingua, ch’avëa unita e presta
prima a parlar, si fende, e la forcuta
ne l’altro si richiude; e ’l fummo resta. 
L’anima ch’era fiera divenuta,
suffolando si fugge per la valle,
e l’altro dietro a lui parlando sputa. 
Poscia li volse le novelle spalle,
e disse a l’altro: «I’ vo’ che Buoso corra,
com’ ho fatt’io, carpon per questo calle».
Così vid’io la settima zavorra
mutare e trasmutare; e qui mi scusi
la novità se fior la penna abborra. 
E avvegna che li occhi miei confusi
fossero alquanto e l’animo smagato,
non poter quei fuggirsi tanto chiusi, 
ch’i’ non scorgessi ben Puccio Sciancato;
ed era quel che sol, di tre compagni
che venner prima, non era mutato; 
l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.

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William Blake: La metamorfosi del ladro fiorentino

Io non li conoscevo; ma accadde allora, come può capitare che accada a volte per caso, che l’uno dovette chiamare l’altro per nome, dicendo: «Cianfa dove sarà rimasto?»: perciò io, affinché il duca prestasse loro attenzione, mi misi l’indice sulla bocca, dal mento al naso, per farlo stare zitto. Se tu ora, lettore, stenti a credere in quello che io ora sto per scrivere, non ci sarà certo da sorprendersi, perché pure io che lo vidi con i miei occhi, faccio fatica a ritenerlo vero. Mentre io tenevo il mio sguardo bene concentrato sui tre dannati, un serpente con sei zampe che si lancia all’improvviso su uno di loro, e gli si avvinghia tutto addosso. Con le zampe di mezzo gli circondò la pancia, con quelle anteriori gli afferrò le braccia; poi gli addentò entrambe le guance; poi distese le zampe posteriori in mezzo alle cosce, e tra esse mise la coda che ritorse poi su lungo i reni del dannato. Non ci fu mai una edera così tanto avvinghiata ad un albero come quell’orribile animale tutto attorcigliato con le sue membra intorno a quelle di quell’infelice. Poi si fusero insieme come fossero fatti di cera calda e mischiarono quindi anche il loro colore, tanto ché né l’uomo né il serpente sembravano essere più quelli di prima, come accade alla carta quando la si mette davanti alla fiamma, che va prendendo un colore bruno che non è comunque ancora nero, mentre il bianco va via via scomparendo. Gli altri due dannati li stavano a guardare e gridavano entrambi: «Ohimè, Agnello, come stai cambiando! Vedi come ormai non sei né uomo né serpente e nemmeno uomo e serpente». Le due teste erano già divenute una sola, quando, nell’unica faccia, apparvero due figure mischiate tra loro, quella d’umana e quella di serpente, ma entrambe irriconoscibili. Si fecero due braccia dalle quattro iniziali; le cosce, le gambe, il ventre e il busto divennero delle membra mostruose, mai viste prima. Ogni aspetto originale era stato cancellato: quella figura deforme non assomigliava più né all’uomo né al serpente; e in questa sua nuova forma se ne andò infine a passo lento, instabile. Come il ramarro sotto la l’opprimente caldo dei giorni di afa, passando da una siepe all’altra, sembra un lampo quando attraversa la strada, tanto è veloce, allo stesso modo sembrava procedere, venendo verso il ventre degli altri due, un serpentello fiammeggiante (Francesco Cavalcanti), di color bluastro e nero come un grano di pepe; e in quella parte, l’ombelico, dalla quale riceviamo il nostro primo nutrimento quando siamo nel ventre materno, trafisse uno di loro; e poi cadde a terra davanti al dannato che aveva trafitto. Il ferito (Buoso Donati) stette a guardarlo ma non disse nulla; anzi, con i piedi immobili, sbadigliava come se avesse sonno o gli stesse venendo la febbre. Lui guardava il serpente, e il serpente fissava lui; l’uno dalla ferita, e l’altro dalla bocca emettevano un fumo intenso, e i due flussi si scontravano. Taccia Lucano là dove scrive delle sorti del povero Sabello e di Nassidio, e stia anzi ora a sentire quello che ora parte dall’arco del mio dire. Taccia anche Ovidio riguardo a Cadmo e Aretusa; perchè se lui muta Cadmo in serpente e Aretusa in fonte nella sua poesia, io non lo invidio affatto la sua arte; poiché mai arrivò a mutare due nature così diverse, come quella umana e quella del serpente, una nell’altra, così che entrambe le forme fossero disposte a scambiarsi la propria materia. Insieme i due si risposero l’un l’altro con tali leggi, che mentre il serpente divideva la coda come una forca, il ferito stringeva i piedi a formare un unico membro. Le gambe e più su le sue stesse cosce si saldarono insieme tra loro tanto che in poco della giuntura non rimase più alcun segno visibile. La coda aperta del serpente prendeva invece la forma delle gambe, che andavano scomparendo nell’uomo, e la sua pelle si faceva più molle, mentre quella dell’uomo diventava al contrario più dura e squamosa. Vidi poi che le braccia dell’uomo rientravano nel corpo dalle ascelle, mentre le zampe anteriori del serpente, che erano corte, si allungavano tanto quanto le braccia dell’uomo si accorciavano. Poi le zampe posteriori, attorcigliandosi e fondendosi diventarono il membro (il pene) che l’uomo pudicamente cela, e l’altro misero dannato spingeva fuori dal suo due nuovi arti. Questo succedeva mentre il fumo avvolgeva l’uno e l’altro in un colore nuovo, e generava peli sulla pelle del serpente facendo nello stesso tempo perdere all’uomo, quello che prima era serpente si alzò e l’altro cadde a terra, senza smettere però mai di guardarsi fissi negli occhi, sotto i quali ciascuno di loro andava cambiando faccia. Quello che era in piedi, accorciò il muso da serpente verso le tempie, e dalla materia in più che rimase si formarono le orecchie, che sporsero dalle gote che prima ne erano prive: dalla materia che non passo indietro e che era presente in abbondanza, si formarono quindi il naso e si ingrossarono le labbra nella giusta misura, tanto quanto conveniva. Quello che giaceva a terra, allungò il muso all’infuori, e ritirò le orecchie dentro la testa come è solita fare la lumaca con le sue corna; e la lingua, che prima aveva unita e capace a parlare, si divise e divenne biforcuta, mentre quella dell’altro, prima divisa,si saldò in unico pezzo; poi il fumo cessò di uscire dai loro corpi. L’anima che si era tramutata in bestia, fuggì via per la valle sibilando, mentre l’altro le sputò dietro e riprese a parlare. Quindi gli voltò le spalle appena riacquistate, e disse all’altro: «Io voglio che Buoso corra, come ho fatto io, a carponi, per questo sentiero». Così io vidi le anime dannate della settima bolgia mutare e trasformarsi; e qui la novità della materia trattata mi valga da scusa se la mia arte ha generato un poco di confusione. E sebbene i miei occhi fossero un po’ confusi per quanto appena visto, e l’animo mio fosse smarrito, i due dannati non mi poterono sfuggire alla vista, così che io riuscii a riconoscere bene Puccio Sciancato; che era l’unico, dei tre compagni giunti prima presso di noi, che non era stato trasformato: l’altro era Francesco Guercio dei Cavalcanti, quello la cui morte tu, Gaville, piangi.

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Manoscritto del XIV secolo con l’illustrazione dell’ultima metamorfosi

E’ un canto che, iniziatosi con l’icastica scena di Vanni Fucci, ancora stagliatosi come “personaggio forte” nella bolgia dei ladri, cessa di parlare dell’uomo, per soffermarsi nello sguardo attonito, ed insieme ammaliato, di un Dante contemplatore le metamorsi come castigo divino. Se la prima, presente nel canto precedente, ci mostrava un Vanni Fucci continuamente morente e risorgente (dove l’immagine icastica – paragonata a quella della Fenice – appare quasi funzionale al personaggio), qui le trasformazioni cancellano quasi del tutto i protagonisti di esse, lasciandoci appena il ricordo di tre ladri fiorentini dai nomi appena accennati e senza passato, per concentrarsi nella mirabilia di ciò che succede: la seconda è la fusione di un uomo ed un serpente che dà vita ad una forma mostruosa, che non conserva nulla né della prima, né della seconda natura, la terza la lo scambio simmetrico tra una serpe e un uomo, risolto stilisticamente in terzine che mostrano, alternativamente, ciò che accade in una natura e nell’altra. Lo stesso Dante si rende conto dell’estrema perizia lessicale che contraddistingue questo passo tanto che lo stesso Francesco De Sanctis lo definì “il più grande sforzo dell’immaginazione umana”.

Canto XXVI
Ottavo cerchio
VIII Bolgia
(I consiglieri fraudolenti)

La prima parte del canto, ricollegandosi alla bolgia dei ladri, inizia con un’apostrofe a Firenze, riconosciuti in mezzo alle metamorfosi dei dannati. Quindi inizia sottolineando il concetto d’ “ingegno” che lui deve limitare, ma che il protagonista del canto non seppe frenare, diventando il simbolo di chi, per conoscere, supera i limiti posti da Dio: 

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Gaspare Landi: Ulisse e Diomede rubano la statua di Atena

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio
quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio,
perché non corra che virtù nol guidi;
sì che, se stella bona o miglior cosa
m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi.
Quante ’l villan ch’al poggio si riposa,
nel tempo che colui che ’l mondo schiara
la faccia sua a noi tien meno ascosa,
come la mosca cede a la zanzara,
vede lucciole giù per la vallea,
forse colà dov’e’ vendemmia e ara:
di tante fiamme tutta risplendea
l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi
tosto che fui là ’ve ’l fondo parea.
E qual colui che si vengiò con li orsi
vide ’l carro d’Elia al dipartire,
quando i cavalli al cielo erti levorsi,
che nol potea sì con li occhi seguire,
ch’el vedesse altro che la fiamma sola,
sì come nuvoletta, in sù salire:
tal si move ciascuna per la gola
del fosso, ché nessuna mostra ’l furto,
e ogne fiamma un peccatore invola.
Io stava sovra ’l ponte a veder surto,
sì che s’io non avessi un ronchion preso,
caduto sarei giù sanz’esser urto.
E ’l duca, che mi vide tanto atteso,
disse: «Dentro dai fuochi son li spirti;
catun si fascia di quel ch’elli è inceso».
«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti
son io più certo; ma già m’era avviso
che così fosse, e già voleva dirti:
chi è ’n quel foco che vien sì diviso
di sopra, che par surger de la pira
dov’Eteòcle col fratel fu miso?».
Rispuose a me: «Là dentro si martira
Ulisse e Dïomede, e così insieme
a la vendetta vanno come a l’ira;
e dentro da la lor fiamma si geme
l’agguato del caval che fé la porta
onde uscì de’ Romani il gentil seme.
Piangevisi entro l’arte per che, morta,
Deïdamìa ancor si duol d’Achille,
e del Palladio pena vi si porta».
«S’ei posson dentro da quelle faville
parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego
e ripriego, che ’l priego vaglia mille,
che non mi facci de l’attender niego
fin che la fiamma cornuta qua vegna;
vedi che del disio ver’ lei mi piego!».
Ed elli a me: «La tua preghiera è degna
di molta loda, e io però l’accetto;
ma fa che la tua lingua si sostegna.
Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto
ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi,
perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».
Poi che la fiamma fu venuta quivi
dove parve al mio duca tempo e loco,
in questa forma lui parlare audivi:
«O voi che siete due dentro ad un foco,
s’io meritai di voi mentre ch’io vissi,
s’io meritai di voi assai o poco
quando nel mondo li alti versi scrissi,
non vi movete; ma l’un di voi dica
dove, per lui, perduto a morir gissi».
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati,” dissi, “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente
non vogliate negar l’esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
“.

Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
che non surgëa fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo
,

quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avëa alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso».

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Miniatura del XIV secolo

Mi rattristai quindi, e mi rende ancora triste oggi riportare alla mente ciò che allora vidi, e limito quindi il mio ingegno più di quanto non sia solito fare perché non corra senza essere guidato dalla virtù; così che, sa la mia buona stella o la divina provvidenza mi hanno fatto dono dell’ingegno, io non possa usarlo contro di me, recandomi danno, come farebbe un nemico invidioso. Quante il contadino che si riposa in collina, d’estate, quando il sole, che illumina il mondo, ci mostra la sua faccia in modo meno nascosto, non appena, al tramonto, le mosche lasciano il posto alle zanzare, vede lucciole giù per la vallata, presenti forse anche là dove prima vendemmiava ed arava: di altrettante fiamme risplendeva tutta quanta l’ottava bolgia, così come me ne resi conto non appena giunsi là dove riuscivo a scorgere il fondo della valle. E come Eliseo, colui che ottenne vendetta per mezzo di orsi, vide la partenza del carro su cui si trovava Elia quando i cavalli che lo trainavano si levarono dritti al cielo, e non era in grado di seguirne il percorso con gli occhi riuscendo a vedere nulla d’altro che una sola fiamma salire in cielo simile ad una nuvoletta: allo stesso modo si muoveva ogni fiammella che vedevo, lungo la gola di quel fossato, senza lasciare intravedere il peccatore rapito in essa, ed ognuna al proprio interno ne nascondeva uno. Io stavo sul ponte, sporto in avanti per vedere meglio, tanto che se non mi fosse aggrappato da un masso sporgente, sarei di certo caduto giù anche senza essere stato spinto. E Virgilio, che mi vide tanto attento, mi disse: «Dentro quei fuochi ci sono gli spiriti dannati; ciascuno è ricoperto di quel fuoco da cui è bruciato.» «Mio maestro», risposi, «sentendotelo anche dire, sono ora più certo di ciò che vedo; ma già prima avevo pensato che le cose stessero come tu dici, e già volevo domandarti: chi c’è in quel fuoco che viene verso noi, diviso in alto in due fiamme, tanto che sembra essere stato generato dalla pira sulla quale furono bruciati i cadaveri di Eteocle e del fratello Polinice?» Mi rispose la mia guida: «Là dentro scontano la loro pena Ulisse e Diomede, che così come insieme suscitarono l’ira di Dio, insieme ne subiscono le conseguenze; e dentro alla loro fiamma piangono l’inganno fatto a Troia con il famoso cavallo, che aprì la via dalle quale uscì Enea, fondatore di Roma. Piangono anche per la triste astuzia a causa della quale Deidamia, anche se ormai morta, piange ancora della perdita del suo Achille, ed anche per rapimento di Palladio.» «Se possono, seppure dentro a quelle fiamma, parlare», dissi allora io, «maestro, ti prego intensamente e ti prego ancora, così che la mia preghiera valga quanto mille, di non impedirmi di rimanere qui ad aspettare fino a ché quella fiamma a doppia punta sia qui giunta; vedi quanto mi sporgo, spinto dal desiderio di parlare con loro, verso quella fiamma!» E Virgilio mi disse quindi: «La tua preghiera e degna di molta lode, e perciò sono disposto ad esaudirla; ma trattieniti però dal parlare con loro. Lascia parlare me, ho ben capito ciò che tu vorresti chiedere loro; perché altrimenti loro, essendo greci, non si degnerebbero di ascoltarti.» Quando la fiamma giunse là dove la mia guida ritenne che fosse tempo e luogo di parlare, sentii lui esprimersi in questo modo: «O voi, che vi trovate ad essere in due dentro ad un solo fuoco, per i meriti acquistati davanti a voi quando fui in vita, per i meriti acquistati davanti a voi, molti o pochi che furono, quando, ancora al mondo, scrissi gli immortali versi, fermatevi qui un poco; e uno di voi, Ulisse, ci racconti dove, per sua colpa, andò a morire smarrito nei suoi viaggi.» Il corno, la metà maggiore della fiamma accesa in tempi antichi incominciò ad agitarsi, mormorando e vibrando come fa la fiamma affaticata dal vento; vibrò la propria punta di qua e di là, quasi come fosse una lingua che parlava, buttò fuori la voce e disse quindi: «Quando mi separai da Circe, che mi sequestrò per più di un anno sul monte Circello vicino a Gaeta, prima ancora che Enea attribuì questo nome alla città, né l’affetto verso mio figlio Telemaco, né la pietà verso il mio vecchio padre Laerte, né il doveroso amore che avrebbe dovuto rendere felice la mia sposa Penelope, poterono vincere l’ardente desiderio, che sentivo in me, di esplorare il mondo, per divenire un esperto conoscitore suo, dei vizi e delle virtù dell’uomo. quindi mi spinsi verso il mare aperto con solo una nave e quel piccolo gruppo di compagni che mai mi abbandonò. Vidi l’una e l’altra costa del mediterraneo, fino alla Spagna e fino al Marocco, vidi la Sardegna e tutte le altre isole bagnate da quel mare. Io ed i miei compagni di viaggio eravamo ormai vecchi e lenti quando giungemmo a quello stretto passaggio dove Ercole costruì le sue due colonne, come limiti invalicabili, affinché l’uomo non si fosse spinto oltre; lasciai alla mia destra Siviglia ed alla mia sinistra Ceuta. “Fratelli”, dissi ai miei compagni, “che affrontando mille pericoli siete infine giunti all’estremo occidente del mondo abitato, in questa tanto breve vigilia della pace dei sensi, che ancora vi resta da vivere, non vogliate negarvi la possibilità di conoscere, il mondo disabitato, seguendo verso Ovest il cammino del sole. Tenete a mente le vostre origini: non siete nati per viver una vita inutile, come bestie, ma siete nati invece per vivere di virtù e di conoscenza.” Stimolai talmente i miei compagni, con queste poche parole, a proseguire oltre, che, l’avessi voluto, a stento sarei stato in grado di trattenerli; voltata la nostra poppa verso oriente, dove sorge il sole, utilizzammo i remi, come fossero ali, per il nostro folle volo, procedendo sempre in direzione sud-ovest. Già incominciavamo a vedere di notte tutte le stelle dell’emisfero australe, e la stella polare tanto bassa all’orizzonte che infine non emerse più dal livello del mare. Già per cinque volte si era riaccesa e per tante volte spenta la luce emanata dalla faccia della luna rivolta verso la terra, da quando avevamo fatto quel passo estremo, quando ci apparve alla vista una montagna (la montagna purgatoriale), scura per la distanza, e mi sembrava tanto alta quanto mai avevo potuto vederne prima d’allora. A quella vista ci rallegrammo, ma subito iniziò invece il pianto; poiché da quella terra inesplorata si scatenò un vortice che percosse la prua della nostra nave. La fece girare su sé stessa per tre volte insieme al mare circostante; alla quarta volta fece alzare in cielo la poppa ed andare in basso la prua, affondandoci, come a Dio piacque, finché il mare si richiuse sopra di noi.»

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Anonimo lombardo XIV secolo

Quando Dante inizia la sequenza che vede protagonista Ulisse, non può continuare ad utilizzare un linguaggio freddo, oggettivo quanto la descrizione metamorfica di uomo/serpente che aveva caratterizzato il canto precedente e nemmeno continuare, come l’inizio del canto, con il tono tra il rammaricato e l’iroso dell’apostrofe verso Firenze, ma deve adeguare il paesaggio e il mito religioso all’altezza del protagonista: per il primo una sera estiva, con le lucciole a illuminare l’oscura notte; per il secondo l’episodio di Elia che salito al cielo su un carro infiammato, non lasciò che a Eliseo, suo compagno, l’immagine luminosa senza poter percepire più l’uomo. L’ardore del sapere (lo stesso dell’uomo greco) spinge Dante a voler investigare con più attenzione il fondo della bolgia tanto che, se non fosse stato tenuto da Virgilio, sarebbe caduto. La curiosità del poeta è attirata da una fiamma biforcuta che fascia i corpi di Ulisse e Diomede. Qual è il peccato di Ulisse che lo costringe tra i consiglieri fraudolenti? L’aver “scovato” con un inganno Achille, che la madre Teti aveva nascosto nell’isola di Sciro con panni femminili dove si era unito alla dolce Deiamira e portato con sé in guerra e di aver sottratto la statua di Atena che i troiani  aveva posto nel tempio per placare la sua ira contro di loro. Forse sono queste le colpe; eppure il canto non ci è noto per questo ma per il discorso stesso di Ulisse. A condurre il colloquio sarà Virgilio, forse per una di queste tre ragioni:

  • l’alterigia di Ulisse che non avrebbe permesso a un “poeta volgare” di rivolgersi a lui;
  • l’ignoranza incolpevole di Dante della lingua greca;
  • la riconoscenza verso Virgilio che con la sua Eneide aveva svolto un ruolo di mediazione culturale tra l’epica greca e quella latina.   

Ma cosa sapeva Dante di Ulisse (di Diomede conosceva la fine, avendola Virgilio raccontata nell’Eneide): quasi nulla. Quello che era giunto di lui nelle parole di Ovidio, Cicerone e Orazio era la somma curiosità, l’avidità di conoscere il mondo, così lontano dall’immagine ulissiaca che lo vuole a casa cum parentibus, cum uxore et cum filio, come dice l’oratore arpinate nel De Officiis. Forse Dante non seppe mai che, nel racconto omerico, Ulisse era tornato a casa; quello che lui ci racconta è un folle volo verso la “morte”: Dante sa che, oltre lo stretto di Gibilterra, c’è il vuoto, il mondo inconoscibile per gli uomini e ciò che lui fa, orgogliosamente, è quello di sfidare l’intelligenza umana con quella divina, non riconoscendo i limiti che Dio stesso ha posto (State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria, dirà nel Purgatorio) all’uomo. Ma rivolgendo la prospettiva si può anche dire che Dante rivendichi in qualche modo la capacità dell’uomo d’investigare in quel meraviglioso verso in cui incita l’uomo: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, ma forse non si può collegare il poeta fiorentino ad un orgoglio preumanista se è proprio ciò, insieme ai peccati succitati, a fare di Ulisse un dannato e del suo racconto una delle più belle pagine dell’intera Comedìa per la sua ambiguità e complessità semantica.

Canto XXVII
Ottavo cerchio
VIII Bolgia
(I consiglieri fraudolenti)

Il canto XXVII continua il precedente sia per luogo che peccatori, ma se ad essere protagonista prima era un personaggio tratto dalla storia antica, per Dante esistente, nel nuovo canto è un suo contemporaneo, il romagnolo Guido di Montefeltro.

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Bartolomeo Pinelli: Guido di Montefeltro (1825)

Il canto si muove tutto su un livello di fraintendimento allo stesso modo del XIX, quando il papa Niccolò III aveva scambiato Dante per Bonifacio VIII. Ed è ancora questo odiato papa ed essere qui evocato come portatore di male. 

Dapprima, nascosto dalla fascia di fuoco che lo circonda, il dannato si avvicina chiedendo quale fosse la situazione della Romagna e riceve la risposta di un luogo perennemente rissoso, pieno di piccoli tiranni che fanno la guerra l’un con l’altro; quindi richiesto chi fosse risponde alla luce del malinteso sapendo che il richiedente, in quanto come lui dannato, non potrà mai riportare nel mondo la sua memoria. Quindi parla di sé come uomo avvezzo all’inganno, fino alla maturità, quando pentendosi, divenne francescano al fine di espiare la peccaminosa vita fino ad allora condotta. Da frate venne avvicinato da Bonifacio VIII, il quale gli chiese aiuto per combattere i suoi avversari politici (i Colonna) ed ottenere, con fraudolenza, la vittoria definitiva. Di fronte ai dubbi di Guido il papa stesso rispose:

E poi mi disse: «Tuo cor non sospetti: 
     finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
     sì come Penestrino in terra getti.
Lo ciel poss’io serrare e disserrare,
     come tu sai: però son due le chiavi,
     che il mio antecessor non ebbe care.»

Bonifacio così mi disse: «Non ti preoccupare, già da ora ti assolvo (dal peccato) e tu insegnami ad abbattere Palestrina (dove si erano rifugiati i Colonna). Io posso aprire e chiudere il Cielo, come sai, dal momento che ho le due chiavi che il mio predecessore (Celestino V) non volle possedere.

1103guido.jpgSuloni Robertson: Guido di Montefeltro

Di fronte al comando papale, Guido tornò a peccare e sul punto di morte venne conteso tra Francesco e un diavolo, che, proprio per l’ultimo gesto colpevole, se lo portò nell’inferno, dove Minosse con la sua coda lo confinò nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti. 

Canto XXVIII
Ottavo cerchio
IX Bolgia
(Seminatori di scandali)

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Giovanni Stradano: I seminatori di discordia (1857)

Questo è forse uno dei canti “meno amati” della Divina Commedia, in cui sembra prevalga il gusto dell’orrido. Ci troviamo infatti nella bolgia in cui si puniscono i seminatori di scisma e di discordia e così come essi hanno voluto portare divisioni all’interno delle comunità, essi sono mutilati dalla spada del diavolo che, passandogli davanti ricevono fendenti recidendo parte del loro corpo, le quali si ricompongono nel loro percorso circolare per poi subirle di nuovo di fronte a lui.

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Dante e Maometto

Dante li osserva non appena ricevuta la pena, quindi agli occhi suoi il primo che appare è Maometto (considerato nel Medioevo non fondatore di una nuova religione, ma scismatico) lacerato con taglio netto dal mento all’ano, a cui pendono le interiora fino allo stomaco; al suo fianco Alì, anch’egli a sua volta scismatico rispetto allo scisma maomettano: e lui è squarciato dal mento fino all’attaccatura dei capelli; Pier da Medicina (seminatore di discordia in Romagna) ha un foro nella gola, in modo che, ad ogni parola pronunciata, questa si riempia di sangue ed inoltre gli è stato tagliato il naso e un orecchio; a fianco ha Curione, colui che consigliò a Cesare il passaggio del Rubicone dando inizio alla guerra civile, a cui è stata rimossa la lingua; segue ancora Mosca de Lamberti uno degli iniziatori della lotta tra guelfi e ghibellini, con entrambi gli arti superiori privi di mani e quando solleva le braccia il suo volte si ricopre di sangue.

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William Blake: I seminatori di discordia

Ma certamente l’immagine che colpisce di più nell’intero canto è quella di Bertrand de Born:

Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,
un busto sanza capo andar sì come
andavan li altri de la trista greggia; 
e ’l capo tronco tenea per le chiome,
pesol con mano a guisa di lanterna:
e quel mirava noi e dicea: “Oh me!”. 
Di sé facea a sé stesso lucerna,
ed eran due in uno e uno in due;
com’esser può, quei sa che sì governa. 
Quando diritto al piè del ponte fue,
levò ’l braccio alto con tutta la testa
per appressarne le parole sue, 
che fuoro: “Or vedi la pena molesta,
tu che, spirando, vai veggendo i morti:
vedi s’alcuna è grande come questa. 
E perché tu di me novella porti,
sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli
che diedi al re giovane i ma’ conforti. 
Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli;
Achitofèl non fé più d’Absalone
e di Davìd coi malvagi punzelli. 
Perch’io parti’ così giunte persone,
partito porto il mio cerebro, lasso!,
dal suo principio ch’è in questo troncone. 
Così s’osserva in me lo contrapasso”.

Io vidi di certo, e mi sembra ancora di vederlo, un busto d’uomo senza testa che procedeva, come procedevano tutti gli altri dannati di quel triste gregge; e teneva il proprio capo per i capelli, portandoselo dietro a penzoloni come fosse una lanterna; e il capo ci guardava, e diceva: “Oh me!”. Egli faceva di sé luce a se stesso, ed erano due in uno e uno in due: come ciò possa succedere, lo sa solo colui che così ha deciso, Dio. Quando fu giunto fino ai piedi del ponte, alzò il braccio in alto tenendo appesa la testa, per avvicinare a noi le sue parole, che furono: “Ora vedi la mia pena durissima tu che, respirando ancora, vai visitando i morti: vedi se c’è un’altra pena dura come questa. E perché tu possa portare mie notizie nel mondo, sappi che io sono Betram de Born, colui che diede al giovane Re d’Inghilterra (Enrico) i cattivi consigli. Io feci diventare nemici tra loro padre e figlio: Achitofel non fece peggio di me con Assolone e Davide, dando i suoi malvagi suggerimenti. Visto che io divisi persone così legate tra loro, porto il mio misero cervello diviso dal midollo spinale di questo mio troncone, che è il suo principio. Così in me è osservata la legge del contrappasso (corrispondenza tra pena e colpa).

Che qui Dante faccia, come già capitato nella “sarabanda dei diavoli”, uso d’un linguaggio “comico, con rime difficili (lulla: pertugia: trulla: minugia) il cui significante rimanda ad un significato altrettanto osceno, risulta palese; d’altra parte è lo stesso Dante ad avvertirci, nei primi versi, della difficoltà che lui stesso ha incontrato nel “dipingere” l’intera bolgia. Di “immagini” in effetti si tratta: non incontriamo personaggi, li vediamo, sebbene parlino, ma nulla ci dicono di loro. Forse, come già detto, ad emergere è l’ultimo, proprio per l’icasticità con cui viene presentato, con la sua testa tenuta per mano, il braccio steso e il corpo monco: sarà lui ad insegnarci cos’è il contrappasso, citato per la prima volta da Dante stesso, che così chiaramente colpisce i dannati della nona bolgia.

Canto XXIX
Ottavo cerchio
IX – X Bolgia
(Seminatori di scandali – Falsatori di metalli)

Il canto inizia con la commozione di Dante, commozione inspiegabile per Virgilio, di fronte alla macelleria che si è trovato di fronte: ma non è questo il vero motivo: è che si accorto troppo tardi di un suo parente, Geri del Bello, cugino del padre che, mentre lui stava a colloquio con Bertrand de Born, gli aveva rivolto minaccioso il dito ma, vedendo uno della sua famiglia “indifferente”, aveva voltato le spalle e se n’era andato. Ma perché tale fatto influenza così tanto la psicologia dantesca? Forse perché egli è morto “invendicato” e non c’è stato nessuno, della famiglia dell’Alighieri, che si è preso la briga di lavare l’onta procuratagli dalla famiglia dei Sacchetti, sua nemica. Ma che Dante voglia dirci altro? Forse che, con il suo atteggiamento, vissuto con difficoltà perché ancora non totalmente condiviso socialmente, voglia por fine a quel susseguirsi senza fine di vendette che continuavano ad insanguinare la città?

6b1ddbe9e4acaf72da93e9bee9d04aee.jpgGustave Doré: Geri il Bello

Dopo questo episodio Dante entra nella X ed ultima bolgia dove sono puniti gli alchimisti o i falsari delle moneta: se nella bolgia precedente si entrava in una macelleria, qui si entra in grande ospedale dove i lamenti della malattia si elevano a tal punto da ferire l’udito del pellegrino. Fra di essi riconosce due senesi, attaccati uno all’altro a grattarsi la rogna ed un emiliano. Il contrappasso: forse l’alterazione di un elemento della natura fa trasformare patologicamente i dannati, costretti a convivere con la loro infermità per l’eternità.    

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William Blake: I falsari

Canto XXX
Ottavo cerchio
X Bolgia
(Falsatori di persona, di moneta, di parola)

Il canto XXX riprende, senza soluzione di continuità, quello precedente: ci troviamo sempre nella decima bolgia, in cui sono puniti i falsari. Stilisticamente il canto è costruito attraverso il contrasto tra il registro alto e quello basso, come si preannuncia al suo inizio. Infatti al mito ovidiano di Atamante che ha scambiato la moglie per una leonessa e per questo ne uccide i figli e quello di Ecuba, che latra a mo’ di cane per la morte di Polissena, quasi contrasta con l’immagine di due maiali che scappano appena liberati dal recinto e corrono come fanno qui i due falsari di persona, Gianni Schicchi (che si scambiò con Buoso Donati, nel letto agonizzante, per carpirne l’eredità) e Mirra (falsando la sua persona, riuscì a portare a compimento il sacrilego gesto), che nel loro correre si mordono come porci che addentano tutto.

Canto-30-Inferno-Dante.jpgPriamo della Quercia: canto XXX

Nella seconda sequenza lo stile si alterna tra l’elegiaco ed il surreale come si evince dai pensieri e dalla descrizione del maestro Adamo, falsario della moneta: 

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,
pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
La grave idropesì, che sì dispaia
le membra con l’omor che mal converte,
che ’l viso non risponde a la ventraia, 
faceva lui tener le labbra aperte
come l’etico fa, che per la sete
l’un verso ’l mento e l’altro in sù rinverte. 
«O voi che sanz’alcuna pena siete,
e non so io perché, nel mondo gramo»,
diss’elli a noi, «guardate e attendete 
a la miseria del maestro Adamo;
io ebbi, vivo, assai di quel ch’i’ volli,
e ora, lasso!, un gocciol d’acqua bramo. 
Li ruscelletti che d’i verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,
sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie più m’asciuga 
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.
La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga. 
Ivi è Romena, là dov’io falsai
la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai. 
Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista. 
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
ma che mi val, c’ ho le membra legate? 
S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
io sarei messo già per lo sentiero, 
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
e men d’un mezzo di traverso non ci ha. 
Io son per lor tra sì fatta famiglia;
e’ m’indussero a batter li fiorini
ch’avevan tre carati di mondiglia».

Ne vidi uno, che avrebbe avuto la forma di liuto se l’inguine gli fosse stato separato dove normalmente nell’uomo si divide in due. La grave idropisia, che rende sproporzionate le membra a causa del liquido vitale o della linfa che vengono male elaborate, così che il viso non rispecchia il ventre (viso magro e ventre gonfio) lo costringeva a tenere le labbra aperte come fa il tubercolotico, che per la sete febbrile ripiega un labbro verso il mento e l’altro verso l’alto. «O voi che vi trovate, senza alcuna pena, ed io non so il perché, in questo mondo triste”, disse egli a noi, “guardate e riflettete sulla miseria di maestro Adamo: in vita io ebbi in abbondanza quello che volli, e ora, ahimé! desidero solo una gocciolina d’acqua. I ruscelletti che dalle verdi colline del Casentino scendono giù fino all’Arno, facendo diventare i lori corsi freddi e molli, mi stanno sempre davanti agli occhi, e non invano, perchè la loro immagine m’inaridisce sempre più, più dell’idropisia, che mi smagrisce sempre più il volto. La severa giustizia divina che mi tormenta trae la sua origine dal luogo dove io peccai per rendere i miei sospiri sempre più frequenti e veloci. Nel Casentino si trova Romena, là dove io falsificai la moneta fiorentina con impressa l’immagine di San Giovanni Battista; e per questo motivo io lasciai il mio corpo arso lassù in terra (morii bruciato vivo). Ma se io potessi vedere qui, dannata insieme a me, la triste anima di Guido II o d’Alessandro I o del loro fratello Aghinolfo, non scambierei di certo la vista di loro con la possibilità dissetarmi a Fonte Branda. Dentro questa bolgia c’è già una di queste anime, se quelle ombre rabbiose che girano intorno dicono il vero; ma a cosa mi serve saperlo, se ho le membra tanto legate da non poter vedere? Se io fossi ancora tanto agile che poter almeno, in cent’anni, muovermi anche solo di qualche centimetro, mi sarei già messo in cammino lungo il sentiero, cercandolo tra questa gente contraffatta, anche se la bolgia ha un circuito di undici miglia, ed è larga non meno di mezzo miglio. Io sono qui in mezzo a tali anime a causa loro: loro m’indussero a coniare fiorini mescolando tre carati di metallo falso».

Jan Van der Straet, Maestro Adamo e Sinone - Inferno - Canto XXX, Illustrazione, 1587.jpg Giovanni Stradano: I falsari (1857)

In questo passo, che fanno di maestro Adamo una figura non di secondo piano dell’intera cantica, si possono sottolineare la precisione lessicale con cui Dante descrive la condizione della malattia, utilizzando in modo analitico i termini della scienza medica del tempo. La deformazione fisica non lede tuttavia la capacità del protagonista di vagheggiare luoghi freschi e ricchi di vegetazione con fonti che stillano acqua, vagheggiamento che la divina giustizia provoca per esacerbare la pena. A tale vagheggiamento non viene  meno quello della vendetta, che tuttavia ripete lo stessa tonalità del precedente: al vagheggiamento si sostituisce il rimpianto di chi è impossibilitato nel movimento, che non permette lui di “vedere” puniti chi lo ha spinto a peccare.

A isolare l’episodio e l’intervento “comico” della rissa tra maestro Adamo e Sinone, falsatore di parole (indusse con un inganno a far entrare il cavallo di legno nella città di Troia decretandone la distruzione). Infatti ad introdurre il personaggio e lo stesso Sinone che risponde ad una domanda di Dante sull’identità di peccatori che esalano vapore per l’altissima febbre da cui sono afflitti. Forse irato per esser stato “scoperto” comincia una vera e propria lite, che Dante osserva con tale curiosità da essere rimproverato da Virgilio, che, visto il pentimento di Dante, poi lo perdona.

Canto XXXI
Pozzo dei giganti

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Gustave Doré: I giganti

Ed è proprio il richiamo alla vergogna che si richiama l’incipit del XXXI canto, immediatamente superato da un improvviso suono che richiama l’attenzione di Dante che rivolge lo sguardo al luogo di provenienza. La visuale non era chiara, come se si fosse al crepuscolo o in mezzo ad una nebbia. Dante crede di vedere le torri di una città, ma Virgilio chiarisce subito che si tratta di giganti, peccatori di quello che i greci definiscono “hybris” orgoglio che fa sfidare loro con la potenza di Dio. Essi sono nel contempo guardiani e dannati, costretti a porsi intorno al pozzo, al fondo del quale vi è il Cocito, il lago ghiacciato. Essi sono poggiati intorno al pozzo con metà corpo all’interno del terreno e l’altro che emerge e colui, fra di loro, che si mostrò maggiore peccatore è inoltre punito avendo il suo tronco circondato di catene.

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Jesse Glass: Nembrot

Il primo che incontra è Nembrot, gigante che si rivolge ai pellegrini con linguaggio incomprensibile: infatti egli è il responsabile della confusione delle lingue con la costruzione della torre di Babele. Il secondo è Fialte, le cui braccia sono legate dietro con una pesante catena: egli tentò, insieme ad altri Titani, la scalata all’Olimpo per cui furono colpiti dalle folgori di Giove. Infruttuoso il tentativo di Dante di vedere Briareo, posto lontano, ed incontrano Anteo (che combatté contro Ercole) al quale Virgilio rivolge parole gentili, pregandolo di “accompagnare” con la mano lui e Dante al fondo del pozzo (ricorda l’episodio di Gerione). Allungata la mano, fattosi salire Virgilio che prende Dante, li deposita con leggerezza sulla nuova zona infernale. 

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William Blake: Nembrot raccoglie Dante

Canto XXXII
Nono cerchio
Prima zona: Caina
(Traditori di congiunti)

Seconda zona: Antenora
(Traditori politici)

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Gustave Doré: Dante con Bocca degli Abati

Dapprima il canto s’apre con una dichiarazione di poetica in cui Dante ammette di non avere un linguaggio talmente “aspro” attraverso il quale descrivere la crudeltà che il nuovo luogo gli offre (ci ricorda l’inizio della canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro, con l’utilizzo della stessa parola): si tratta di un lago ghiacciato dove sono immersi i traditori, all’infuori del capo. I peccatori battono i denti per il freddo e le lacrime che gli scorgono dagli occhi per il forte dolore, si ghiacciano improvvisamente facendo loro chiudere gli occhi. Dante dovrebbe stare attento a non calpestarli, ma passando (non essendo ancora accorto di come funziona), ne colpisce due, i fratelli Alessandro e Napoleone Alberti che, attraverso una lotta fratricida, si uccisero a vicenda); quindi, passando nell’Antenora, s’imbatte in Bocca degli Abati, il quale si rifiuta di confessare il suo nome, nonostante il poeta gli strappi i capelli ghiacciati, ma non vi è bisogno, essendogli rivelato da un dannato vicino. Ma l’acme del canto vi è dal verso 124, dove s’incontrano due anime, di cui una morde con rabbia il capo dell’altro:

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Kateřina Machytková: Canto XXXII

Noi eravam partiti già da ello,
ch’io vidi due ghiacciati in una buca,
sì che l’un capo a l’altro era cappello;
e come ’l pan per fame si manduca,
così ’l sovran li denti a l’altro pose
là ’ve ’l cervel s’aggiugne con la nuca:
non altrimenti Tidëo si rose
le tempie a Menalippo per disdegno,
che quei faceva il teschio e l’altre cose.
«O tu che mostri per sì bestial segno
odio sovra colui che tu ti mangi,
dimmi ’l perché», diss’io, «per tal convegno,
che se tu a ragion di lui ti piangi,
sappiendo chi voi siete e la sua pecca,
nel mondo suso ancora io te ne cangi,
se quella con ch’io parlo non si secca».

Noi ci eravamo già allontanati da lui, quando io vidi due dannati ghiacciati in una sola buca, in modo che il capo dell’uno faceva da cappello all’altro; e come si mangia il pane per fame, così quello che stava sopra aveva i denti conficcati nell’altro là dove il cranio si congiunge alla nuca: non diversamente Tideo rose le tempie a Menalippo per rabbia, come costui rodeva il teschio e il resto della testa all’altro. «O tu che mostri in modo così bestiale l’odio contro costui che stai divorando, dimmi il perché» dissi io, «a questo patto: che se tu hai un buon motivo per lagnarti così di lui, potendo sapere chi siete e quale è la sua colpa, lassù nel mondo io contraccambierò, se non mi si seccherà la lingua con cui io ora parlo».
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Gustave Doré: Il conte Ugolino e il cardinal Ruggieri

Come ci ha preannunciato Dante, lo stile del canto è “aspro”, cioè consono alla freddezza del canto, come se lo stesso lago ghiacciato del Cocito stridesse sotto il peso dei due pellegrini. L’altezza dello stile si nota proprio alla fine grazie al riferimento al poema di Stazio che ci racconta che Tideo, durante l’assedio di Tebe, ferito a morte da Melanippo, dopo averlo ucciso, si fece portare la testa e cominciò a divorarla. In questo modo il poeta fiorentino, attraverso la tecnica della suspence, ci prepara al grande canto del conte Ugolino.

Canto XXXIII
Nono cerchio
Seconda zona: Antenora
(Traditori politici)

Terza zona: Tolomea
(Traditori degli ospiti)

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Conte Ugolino

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a’ capelli
del capo ch’elli avea di retro guasto.
Poi cominciò: «Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme.
Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo.
Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino.
Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri;
però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso.
Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda,
m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame.
Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte.
In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi.
Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane.
Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli?
Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava;
e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto.
Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio disse:
“Tu guardi sì, padre! che hai?”.
Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo.
Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso,
ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi
e disser: “Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia”.
Queta’ mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l’altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t’apristi?
Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a’ piedi,
dicendo: “Padre mio, ché non m’aiuti?”.
Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid’io cascar li tre ad uno ad uno
tra ’l quinto dì e ’l sesto; ond’io mi diedi,
già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno».

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Auguste Rodin: Il conte Ugolino

L’anima dannata sollevò la propria bocca dal suo bestiale pasto, pulendola con i capelli di quel capo che aveva roso da dietro, sulla nuca. Cominciò poi a dire: «Tu vuoi che io rinnovi quel dolore disperato che mi opprime già il cuore solo a pensarci, prima ancora di cominciare a parlarne. Ma se le mie parole devono essere il seme che dà come risultato l’infamia per il traditore di costui che mordo, mi vedrai allora piangere e parlare allo stesso tempo. Io non so chi tu sia né in che modo sei venuto quaggiù nell’inferno; ma mi sembri un vero fiorentino dal modo in cui ti sento parlare. Tu devi sapere che io fui il conte Ugolino, e questo sotto di me, che mordo, è l’arcivescovo Ruggieri: ora ti dirò perché gli sono vicino e lo tratto in questo modo. Come, grazie ai suoi perfidi intrighi, fidandomi di lui, io fui fatto prigioniero e venni poi ucciso, non occorre che te lo racconti; invece, ciò che non puoi certamente aver saputo, cioè di quanto la mia morte sia stata crudele, potrai ascoltarlo da me e ti renderai quindi conto delle offese che ricevetti. Una piccola finestra nella mia oscura prigione, la quale è detta ora “torre della fame” per la mia morte, e dove converrebbe rinchiudere anche altre persone, attraverso la sua stretta apertura mi aveva lasciato vedere parecchie lune nuove, prima che io feci quel sogno funesto che mi squarciò il velo che nasconde il futuro. Questa altra anima dannata mi apparve come guida e signore della schiera che dava la caccia al lupo ed ai suoi piccoli verso il monte San Giuliano, a causa del quale i pisani non possono vedere Lucca. Scortati da cagne (la plebe) affamate, bene addestrate e avide, le famiglie dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi, costui aveva mandato in prima fila. Dopo una breve corsa, cominciarono a sembrare stanchi il lupo ed i suoi piccoli, e le cagne, con le loro zanne aguzze, mi sembrava che dilaniassero i loro fianchi. Quando, prima che iniziasse il nuovo giorno, mi fui svegliato, sentii piangere nel sonno i miei giovani figli, che si trovavano a letto con me, e li sentii anche chiedere del pane. Saresti ben crudele se non provassi dolore solo pensando a quello che il sogno preannunciava al mio cuore di padre; se non piangi per questo, allora per cosa sei solito piangere? I mie figli si erano già svegliati e si avvicinava l’ora in cui in genere il cibo ci veniva portato, ed in ognuno era sorto il dubbio a causa del precedente sogno; sentii qualcuno che inchiodava la porta inferiore di quell’orribile torre; guardai pertanto in viso i miei poveri figli senza riuscire a proferire a parola. Non piansi, tanto il terrore mi lasciò impietrito: loro invece piangevano; e mio figlio Anselmuccio mi disse: “Padre, perché ci guardi in quel modo?” Pertanto non piansi né diedi a mio figlio una risposta per tutto quel giorno e nemmeno per tutta la notte seguente, finché si fece un nuovo giorno. Non appena un piccolo raggio di sole entrò in quel doloroso carcere ed io vidi sui visi dei miei quattro figli la stessa mia consapevolezza per la nostra condanna a morte, l’immenso dolore mi spinse a mordermi entrambe le mani; ed essi, pensando fossi stato spinto a quel gesto dalla fame, subito si alzarono in piedi e dissero: “Padre, sarebbe per noi molto meno doloroso se tu mangiassi noi invece di te stesso: tu ci hai rivestito di queste misere carni, tu hai il diritto ora di togliercele.” Mi quietai allora un poco per non rattristarli ulteriormente; rimanemmo in silenzio per tutto quel giorno e per il seguente; terra crudele, perché non ti sei aperta per inghiottirci? Giunti al quarto giorno di digiuno, mio figlio Gaddo, disperato, mi si getto ai piedi dicendomi: “Padre, perché non mi aiuti?” E detto questo morì; e come vedi ora me, vidi io allora cadere a terra gli altri tre rimasti, uno dopo l’altro, tra il quinto ed il sesto giorno di prigionia; io incominciai perciò, ormai cieco, a brancolare sopra ciascuno di essi e per due giorni gridai il loro nome, dopo che furono morti. Infine il digiuno vinse il dolore, smisi di gridare e poi morii.»

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William Blake: Il conte Ugolino con i figli

Il canto del Conte Ugolino è tra i più celebrati dell’intera Commedia dantesca, insieme a quello dedicato a Paolo e Francesca di cui riprende anche un verso o, per meglio dire, un atteggiamento dei due protagonisti rispetto alla richiesta di sapere cosa e perché sono giunti nel luogo destinato al loro peccato: dirò come colui che piange e dice afferma Francesca (canto V, v. 126) e qui parlare e lagrimar vedrai insieme dice Ugolino (canto XXXII, v. 9). Forse un altro punto di contatto tra i due canti è l’atteggiamento “emotivamente” molto forte di Dante (lo svenimento per il primo, l’ira per il secondo che si traduce in un’invettiva contro Pisa). Ma ci fermiamo qui, forse perché quest’ultimo canto presenta un insieme di punti interrogativi di difficile soluzione, che molto probabilmente derivano dal fatto che non ci viene ben chiarito il peccato: un tradimento politico fatto da Ugolino verso l’arcivescovo Ruggeri (Ugolino ghibellino, ma per rientrare nella città di Pisa messosi d’accordo con i Guelfi – primo tradimento) ma lo stesso di Ruggeri verso Ugolino (chiamato per “accordarsi” sul suo tradimento e invece rinchiuso in una torre – secondo tradimento), e tutto sembra finire qui. Ma il canto non si ricorda per il peccato del traditore della patria, ma forse nella pausa tra le fine del canto precedente e l’inizio di questo, dove prevale un clima “orrorifico”: un uomo morde ferocemente la nuca del suo nemico nel punto in cui il collo si unisce con il cuoio capelluto e utilizza proprio i capelli per pulirsi la bocca sanguinolente. L’incipit, con l’anticipazione dell’aggettivo sul sostantivo (anastrofe), coglie come immagine quasi statica nella sua atrocità, l’atteggiamento di profonda rabbia del conte contro il suo nemico, rabbia di cui sente l’urgenza di rivelare il perché, a riscattare lo “schifo” del presente con una motivazione forte. Come Francesca sembra che anche a lui il rinnovare con le parole il triste ricordo procuri un “disperato dolor”, e quindi inizia con il suo drammatico racconto: una torre (dopo lui definita “Torre della fame”) in cui vengono chiusi lui con i suoi quattro figlioli. Quindi il sogno rivelatore (non bisogna dimenticare l’importanza dei sogni nei racconti classici e biblici) in cui si vedono un lupo e quattro lupacchiotti rincorsi da nere cagne fino ad essere raggiunti. Quando si sveglia, i figli gli chiedono il pane: è l’ora del pasto, ma al posto del pane si sente la porta della torre che viene chiusa ermeticamente. L’inutile attesa del cibo, vedere i propri figli denutrirsi fino a spegnersi, ha condotto quest’uomo all’estremo dolore. E’ pertanto un canto sull’amore filiale e sulla pietas che non dovrebbe mai venir meno rispetto al dettato evangelico di “offrire ai bisognosi”, soprattutto quando a non rispettare tale precetto è un rappresentante della chiesa. Ma quello che ha fatto di questo passo uno dei più celebrati è anche l’ambiguità dell’ultimo verso del suo racconto che ha fatto credere, a livello popolare ed anche a critici attrezzati, che il conte Ugolino si fosse macchiato del peccato di cannibalismo necrofilo verso i figli. E’ evidente che così non è: tale peccato non lo avrebbe confinato nell’Antenora dove sono posti i peccatori politici. Il meraviglioso verso ci dice solamente che anche lui morì di fame.

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Giuseppe Diotti: Il conte Ugolino

Nel prosieguo del canto Dante passa nel terzo cerchio, quello della Tolomea, che “ospita” i traditori degli ospiti: essi subiscono una diversa pena, sono sdraiati supini in terra e le lacrime che sgorgano fanno un tutt’uno con il ghiaccio, quasi non permettessero al dolore di fuoriuscire. Qui incontra frate Alberigo, che fece uccidere Manfredi e Alberghetto che lo avevano offeso, invitandoli, con la scusa della rappacificazione, e trucidandoli alla portata della frutta.

Canto XXXIV
Nono cerchio
Quarta zona: Giudecca
(Traditori dei benefattori)

Lucifero

062v.jpgPriamo della Quercia: canto XXXIV

«Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira»,
disse ’l maestro mio, «se tu ’l discerni».
Come quando una grossa nebbia spira,
o quando l’emisperio nostro annotta,
par di lungi un molin che ’l vento gira,
veder mi parve un tal dificio allotta;
poi per lo vento mi ristrinsi retro
al duca mio, ché non lì era altra grotta.
Già era, e con paura il metto in metro,
là dove l’ombre tutte eran coperte,
e trasparien come festuca in vetro.
Altre sono a giacere; altre stanno erte,
quella col capo e quella con le piante;
altra, com’arco, il volto a’ piè rinverte.
Quando noi fummo fatti tanto avante,
ch’al mio maestro piacque di mostrarmi
la creatura ch’ebbe il bel sembiante,
d’innanzi mi si tolse e fé restarmi,
«Ecco Dite», dicendo, «ed ecco il loco
ove convien che di fortezza t’armi».
Com’io divenni allor gelato e fioco,
nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo,
però ch’ogne parlar sarebbe poco.
Io non morì e non rimasi vivo;
pensa oggimai per te, s’ hai fior d’ingegno,
qual io divenni, d’uno e d’altro privo.
Lo ’mperador del doloroso regno
da mezzo ’l petto uscia fuor de la ghiaccia;
e più con un gigante io mi convegno,
che i giganti non fan con le sue braccia:
vedi oggimai quant’esser dee quel tutto
ch’a così fatta parte si confaccia.
S’el fu sì bel com’elli è ora brutto,
e contra ’l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogne lutto.
Oh quanto parve a me gran maraviglia
quand’io vidi tre facce a la sua testa!
L’una dinanzi, e quella era vermiglia;
l’altr’eran due, che s’aggiugnieno a questa
sovresso ’l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand’ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele di mar non vid’io mai cotali.
Non avean penne, ma di vispistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s’aggelava.
Con sei occhi piangëa, e per tre menti
gocciava ’l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co’ denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso ’l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
«Quell’anima là sù c’ ha maggior pena»,
disse ’l maestro, «è Giuda Scarïotto,
che ’l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c’ hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l’altro è Cassio, che par sì membruto.
Ma la notte risurge, e oramai
è da partir, ché tutto avem veduto».
Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;
ed el prese di tempo e loco poste,
e quando l’ali fuoro aperte assai,
appigliò sé a le vellute coste;
di vello in vello giù discese poscia
tra ’l folto pelo e le gelate croste.
Quando noi fummo là dove la coscia
si volge, a punto in sul grosso de l’anche,
lo duca, con fatica e con angoscia,
volse la testa ov’elli avea le zanche,
e aggrappossi al pel com’om che sale,
sì che ’n inferno i’ credea tornar anche.
«Attienti ben, ché per cotali scale»,
disse ’l maestro, ansando com’uom lasso,
«conviensi dipartir da tanto male».
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
e s’io divenni allora travagliato,
la gente grossa il pensi, che non vede
qual è quel punto ch’io avea passato.
«Lèvati sù», disse ’l maestro, «in piede:
la via è lunga e ’l cammino è malvagio,
e già il sole a mezza terza riede».
Non era camminata di palagio
là ’v’ eravam, ma natural burella
ch’avea mal suolo e di lume disagio.
«Prima ch’io de l’abisso mi divella,
maestro mio», diss’io quando fui dritto,
«a trarmi d’erro un poco mi favella:
ov’è la ghiaccia? e questi com’è fitto
sì sottosopra? e come, in sì poc’ora,
da sera a mane ha fatto il sol tragitto?».
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quant’io scesi;
quand’io mi volsi, tu passasti ’l punto
al qual si traggon d’ogne parte i pesi.
E se’ or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse sanza pecca;
tu hai i piedi in su picciola spera
che l’altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera;
e questi, che ne fé scala col pelo,
fitto è ancora sì come prim’era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui loco vòto
quella ch’appar di qua, e sù ricorse».
Luogo è là giù da Belzebù remoto
tanto quanto la tomba si distende,
che non per vista, ma per suono è noto
d’un ruscelletto che quivi discende
per la buca d’un sasso, ch’elli ha roso,
col corso ch’elli avvolge, e poco pende.
Lo duca e io per quel cammino ascoso
intrammo a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ’l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.

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Gustave Doré: Lucifero

«Le insegne del re dell’Inferno avanzano verso di noi; perciò guarda davanti a te», disse il mio maestro, «e prova a riconoscerlo.» Come quando una nebbia fitta si espande, o quando sul nostro emisfero cala la notte, ciò che vedevo sembrava da lontano un mulino fatto girare dal vento, mi sembrò inizialmente di intravedere quel tipo di congegno; poi a causa del vento fui costretto a ripararmi dietro alla mia guida, non essendoci una grotta, un altro riparo. Mi trovavo già, e lo ricordo con orrore per metterlo in versi, là dove tutte le anime dannate erano coperte di ghiaccio, e potevano essere intraviste così come una pagliuzza imprigionata nel vetro. Alcune stavano distese; altre stavano dritte, alcune con il capo ed altre con i piedi in alto; altre curve come un arco e con il volto rivolto verso terra. Quando fummo avanzati tanto che a Virgilio piacque di mostrarmi Lucifero, creatura che un tempo era stata molto bella, il mio maestro si tolse da davanti e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite ed ecco il luogo nel quale conviene che tu ti armi di coraggio.» Quanto gelai per la paura e rimasi senza forze in quel momento, non chiedermelo, lettore, perché non lo racconterò, ogni frase sarebbe insufficiente a descriverlo. Non morii ma neanche rimasi vivo; immagina dunque tu, se hai un poco d’intelletto, come rimasi allora, privo sia della vita che della morte. L’imperatore di quel regno, tanto doloroso, emergeva dal petto in su fuori da quel blocco di ghiaccio; e mi avvicino di più io alle dimensioni di un gigante, di quanto un gigante possa avvicinarsi alle dimensioni delle sue braccia: immagina quindi quanto fosse immenso il resto del suo corpo, se le sole braccia erano tanto grandi! Se in precedenza fu tanto bello quanto è ora mostruoso, e se contro il suo creatore, contro Dio, osò alzare la testa da ribelle, deve ben da lui avere origine ogni male. E quanto rimasi stupito ed inorridito quando vidi che la sua testa aveva tre facce! Una davanti, ed era di colore rosso acceso per l’odio; le altre due facce si aggiungevano alla prima delineandosi dalla metà di ciascuna spalla, ed alla loro sommità si congiungevano tra loro: la faccia destra era di un colore tra il bianco ed il giallo (debolezza); la faccia di sinistra era del colore nero (ignoranza) di quelli, gli Etiopi, che vengono da dove il Nilo scende a valle. Da sotto a ciascuna faccia uscivano due grandi ali, proporzionate alla grandezza di quel mostruoso uccellaccio: non vidi mai vele di navi tanto grandi. Le due ali non avevano penne, ma erano simili a quelle del pipistrello; e Lucifero le agitava tanto da generare tre venti: a causa dei quali il fiume Cocito era completamente congelato. Lucifero piangeva con i suoi sei occhi, e dai suoi tre mentigocciolavano le sue lacrime e la sua bava insanguinata. In ogni bocca stritolava infatti tra i denti un peccatore, come fosse ognuna una gramola, così da infliggere la giusta pena ai tre disgraziati. Per quei peccatori i morsi inflitti da Lucifero erano nulla in confronto ai graffi ricevuti, che talvolta erano tanto duri da lasciare la loro schiena completamente scuoiata. «Quell’anima là in alto, nella bocca centrale, che subisce la punizione peggiore», disse Virgilio, «è Giuda Iscariota, che sta con la testa all’interno della bocca ed agita le gambe di fuori. Riguardo agli altri due, che invece stanno con testa di fuori, quello che pende dalla faccia di colore nero è Bruto: guarda come si contorce per il dolore senza emettere urla! l’altro invece, che sembra tanto in carne, è Cassio. Ma sulla terra si sta facendo già notte, è quindi già ora di partire, poiché abbiamo ormai visto tutto ciò che c’era da vedere.» Come la mia guida voleva, mi tenni stretto al suo collo; Virgilio scelse quindi il tempo ed il luogo giusto, e quando le ali si furono sufficientemente aperte, con un balzo si aggrappò alle costole pelose di Lucifero; di ciuffo in ciuffo scese quindi lungo il suo folto pelo e le croste di ghiaccio che lo circondavano. Quando fummo giunti là dove la coscia si piega, proprio in corrispondenza della sporgenza dell’anca, il mio maestro, con grande fatica ed affanno, si capovolse, mettendo la testa là dove prima aveva le gambe, e si aggrappò al pelo di Lucifero come per risalire, tanto che credetti di dover tornare ancora nell’inferno. «Tieniti bene aggrappato, perché con scale di questo tipo», disse il mio maestro, ansimando come un uomo sfinito, «dobbiamo allontanarci da tutto questo male.» Poi sbucò fuori attraverso il foro in una roccia e mi mise a sedere sull’orlo di essa; quindi con un piccolo salto mi si avvicinò lasciando il pelo di Lucifero. Io alzai lo sguardo credendo di vedere Lucifero nella stessa posizione in cui l’avevo visto poco prima, ma lo vidi invece capovolto, con le gambe in alto; e se rimasi quindi perplesso per ciò che vidi,lo pensi pure la gente rozza, ignorante, che non può capire la natura di quel punto della terra che avevo appena attraversato. «Alzati in piedi;» mi disse Virgilio «poiché la strada da percorrere è ancora lunga e difficile, ed il sole si trova già a metà strada della terza ora.» Non era la sala di un palazzo il luogo in cui ci trovavamo in quel momento, ma una grotta naturale scarsamente illuminata e con suolo irregolare. «Prima di allontanarmi da questo abisso, mio maestro,» dissi non appena mi fui alzato, «parlami un poco, così da togliermi qualche dubbio: dove si trova la ghiaccia? E costui, Lucifero come ha fatto a finirci così, sottosopra? e come ha fatto, in così poco tempo, il sole a passare dalla sera al mattino?» E Virgilio mi rispose: «Tu credi ancora di trovarti al di là dal centro della terra, dove io mi aggrappai al pelo di Lucifero, verme malefico che perfora il mondo. Tu sei stato di là dal centro della terra finché discesi; quando mi sono capovolto, allora tu hai oltrepassato il punto centrale, verso il quale vengono attirati tutti i pesi, da qualunque direzione provengano. E sei quindi ora arrivato sotto l’emisfero australe, contrapposto a quello nostro, boreale, ricoperto dalle terre emerse, e sotto lo zenit del quale si consumò, morì, Cristo, l’uomo che nacque e visse senza macchiarsi di peccati; tu poggi ora i piedi su quel piccolo piano circolare che costituisce l’altra faccia della Giudea. Qui è mattino quando di là è invece sera; e Lucifero, che con il suo pelo ci ha fatto da scala, è ancora conficcato nel punto in cui è caduto allora. Cadde giù dal cielo da questa parte della terra; e le terre, che prima anche da questo lato erano emerse, per paura di lui si inabissarono, nascondendosi nel mare, e si spinsero, nella fuga, fino al nostro emisfero; forse per scappare da Lucifero, la terra che costituisce il monte del purgatorio, e che è qua visibile, lasciò intorno a Lucifero il vuoto, una caverna, e corse verso l’alto.» Laggiù dove ci trovavamo c’era una galleria, lontana da Belzebù tanto quanto è lunga la sua stessa tomba, che scoprimmo non grazie alla vista ma grazie al suono che da essa proveniva, generato dallo scorrere di un piccolo ruscello, che discendeva attraverso un buco in un sasso, da esso creato per erosione, con il proprio corso tortuoso ed un poco in pendenza. Virgilio ed io entrammo in quel cammino nascosto per poter ritornare nel modo illuminato dal sole; senza badare a concederci un poco di riposo, tanto era il desiderio di uscire all’aperto, iniziammo a risalire, lui per primo ed io al suo seguito, fino a che riuscii ad intravedere un poco di tutte quelle cose meravigliose che il cielo offre alla vista, attraverso un foro tondo nella roccia. E uscimmo quindi all’aperto a rivedere le stelle.

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Codex Altonesis

Nell’ultimo canto dell’Inferno, Dante non incontra nessun peccatore, vi cammina sopra in quanto essi, traditori dei benefattori, sono sotterrati nel ghiaccio in posizione, oserei dire, plastica: chi in piedi chi sdraiato, chi a testa in giù; la loro tomba e il loro silenzio tombale stanno quasi ad indicare che nel profondo inferno viene a mancare qualsiasi elemento che possa rimandare alla “storia”, ai “vissuti” dei dannati, che, nell’estremo dolore dell’espiazione eterna del peccato, faceva pur sperare loro in un ricordo nella vita terrena, di cui Dante stesso era mediatore. La loro fissità sembra rimandarli alla “meccanicità” dell’intera struttura del canto, in cui anche l’Inferni rex sembra, più che l’espressione del male assoluto, quello di un’assoluta solitudine che si traduce in una meccanicità d’atteggiamenti (più macchina infernale che angelo caduto) che maciulla con le tre bocche i tre peccatori senza neanche accorgersi che i pellegrini gli stanno davanti.

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Francesco Scaramuzza: Lucifero

L’apparizione è improvvisa per Dante: spostandosi all’improvviso Virgilio, alle cui spalle si era posizionato Dante, Lucifero gli appare nella sua grandezza fisica, abnorme, con tre facce (rossa, gialla e nera – odio, debolezza e ignoranza), cui sembrano corrispondere le tre fiere del I canto, in cui maciulla i tre, secondo Dante, più grandi peccatori: Giuda, traditore di Gesù, con il corpo dentro la bocca di Lucifero e le gambe fuori e ai lati da una parte Bruto e dall’altra Cassio, traditori di Cesare, ambedue con il capo esterno ed il corpo nella bocca. Ad ognuna delle tre facce rispondono due ali dalla conformazione membranosa ed il loro continuo sbattere crea il ghiaccio del Cocito. Non c’è drammaticità nell’incontro nessun dialogo, Lucifero non è che uno strumento nelle mani di Dio, addirittura, lui Re degli Inferi, meno libero dei suoi sudditi. Basta loro cogliere il momento della massima apertura alare per balzare sul suo corpo e fare dei suoi peli uno scala. Raggiunto il femore – che rappresenta il centro della terra – Virgilio con gran sforzo, si capovolge insieme a Dante, tanto che a quest’ultimo pare aver cambiato prospettiva: davanti a sé ha ora i piedi di Lucifero e non più la testa. Spiega Virgilio che ciò è avvenuto perché quando il re delle tenebre è caduto si è conficcato al centro della terra. Le terre per non aver contatto con lui si sono raccolte formando la montagna purgatoriale mentre le altre sono state spinte nell’emisfero boreale, che è quello abitato: per questo si sono capovolti, ora si trovano nell’emisfero australe e sarà tutto capovolto: al giorno di un emisfero corrisponderà la notte dell’altro e, più importante ancora, se a Dante sembra essere disceso nell’imbuto infernale, invece egli è salito, iniziando la sua ascesa verso il Creatore.

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Codice manoscritto: L’uscita di Virgilio e Dante dall’Inferno

Ma non possiamo terminare senza perlomeno citare il senso di luce che comincia a trasparire in questo canto per diventare “importante” nel Purgatorio, fondamentale nel Paradiso; da puntino in lontananza all’inizio della “natural burella” al cielo stellato che, riavvicinandolo alla naturalità degli astri, lo avvicina allo splendore divino.

GIOVANNI BOCCACCIO

Giovanni Boccaccio scrittore, biografia

Andrea del Castagno: Ritratto di Giovanni Boccaccio (particolare)

Si crede che Giovanni Boccaccio sia nato a Certaldo nel 1313 da una relazione illegittima di Boccaccino di Chellino, agente dell’agenzia bancaria dei Bardi. Tale credenza è messa in dubbio dal fatto che molti ritengono più probabile la nascita in Firenze, mentre lui, da giovane, avrebbe sviluppato la “favola” di una sua origine parigina. Impara i primi rudimenti grammaticali da un ecclesiastico, che instilla in lui, sin da giovane, un incredibile amore per Dante.

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La statua di Boccaccio a Certaldo in Toscana

Nel 1327 circa Boccaccino è sicuramente a Napoli, nel regno di Roberto d’Angiò a guidare una succursale della banca dei Bardi; egli, sin da subito, porta con sé il figlio Giovanni, perché apprenda i rudimenti del suo mestiere. In tale città il giovane sarà bene accolto sia negli ambienti aristocratici della corte, dove il padre svolge i suoi affari sia con il re, sia con i ricchi mercanti fiorentini che in quella città gravitano.

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Simone Martini: Roberto d’Angiò, Museo di Capodimonte (Napoli)

In questo periodo Giovanni, da autodidatta, legge moltissimo: frequenta con passione i classici latini, legge romanzi cortesi, che la biblioteca di corte possiede in quantità, ma non disdegna la letteratura popolare, come quella dei giullari, che allieta le piazze della città partenopea. Durante la sua permanenza nel Regno di Napoli, Boccaccio conduce una vita spensierata e gaudente, intreccia vari amori e scrive, in onore delle belle donne di corte, varie opere, che lo fanno conoscere e aprono a lui le porte per intrecciare avventure galanti. Tali opere sono: La caccia di Diana, il Filoloco, il Filostrato, il Teseida. Ma insieme a tali opere “narrative” scrive anche un certo numero di rime.

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P. Salinas: Boccaccio alla corte di Giovanna di Napoli, 1892

Nel 1340 la banca dei Bardi fallisce e Boccaccio deve tornare, insieme al genitore, a Firenze. E’ un periodo di difficoltà economica per cui cerca protezione presso i signori. Continua nel frattempo a scrivere opere come il Ninfale d’Ameto, l’Amorosa visione, il Ninfale fiesolano e l’Elegia di Madonna Fiammetta. Tra il 1349 ed il 1351 scrive il suo capolavoro, il Decameron; è un periodo fertile culturalmente, ma grave di lutti: gli muore il padre e Violante, la prima di cinque figli, avuti tutti fuori dal matrimonio. Il successo del Decameron lo porta ad essere apprezzato in città, tanto che la stessa gli affida incarichi importanti come ambasciatore. E’ di questo periodo anche l’amicizia, che durerà tutta la vita, con Francesco Petrarca, cui già un decennio prima aveva dedicato un’opera dal titolo De vita et moribus domini Francisci Petrachi. Sotto l’influenza del poeta aretino, approfondirà lo studio degli scrittori di Roma, che lo porteranno a elaborare alcune opere in latino. Ma egli non dimenticherà mai l’amore per Dante, tanto che scriverà, nel 1351, un libello in suo nome: Trattatello in lode di Dante. Di questo periodo è anche un’altra opera, piuttosto tarda, il Corbaccio. Comincia, come il suo amico a cercare nei monasteri testi classici; ma quando si libera un posto a Napoli come segretario, si reca in città per ottenerlo, ma senza riuscirvi. La città partenopea gli rimarrà sempre nel cuore, ma non riuscirà mai a stabilirvisi. Nel 1360 è colpito da una profonda crisi religiosa: si fa sacerdote e promuove lo studio del greco, non solo per lui, ma per l’intera cultura europea, chiamando Leonzio Pilato, monaco calabrese, allo “Studio fiorentino”, che potremmo definire coma la prima cattedra di lingua e cultura greca in territori non bizantini. Si racconta, ma senza fondamento, che tra gli effetti di tale crisi vi sia anche il senso di colpa per l’opera maggiore che ha scritto, tanto da volerla bruciare. Sarà il suo amico Petrarca a distoglierlo da tale atto.

Ormai povero e malato si ritira a Certaldo, fra il calore di vecchi e nuovi amici. Soprattutto questi ultimi (i futuri umanisti) lo saluteranno come un grande maestro.

Nel 1373 Firenze lo richiama per leggere pubblicamente la Divina Commedia di Dante nella chiesa di Santo Stefano. Accetterà tale incarico per amore verso il sommo poeta. Ma farà in tempo a leggere soltanto 17 canti. Morirà, nel 1375, dopo aver appreso la notizia della morte del suo amico Petrarca, sopravvivendogli appena un anno.

L’uomo

Boccaccio è contemporaneo di Petrarca, vive pertanto la stessa situazione storica dell’amico aretino. Tuttavia tra i due vi sono notevoli differenze:

  • L’adolescenza e la giovinezza a Napoli, all’interno di una corte dove ancora molto forte è la presenza della cultura “narrativa” cortese;
  • Il lavoro paterno e l’ambiente, borghesia e nobiltà. Saranno proprio questi due elementi che contraddistingueranno l’ideologia di fondo boccacciana e che troveranno voce in alcune novelle del suo capolavoro;
  • L’amore per Dante e per il modo con cui l’autore della Divina Commedia, osserva il reale. Noteremo, infatti, come anche Boccaccio sia più portato non tanto a scrutare l’io, quanto la vita nella sua molteplicità;
  • L’amore per i classici che metterà a frutto non solo in opere, certamente meno riuscite di quelle di Petrarca, ma nel suo stile volgare, dove ricreerà una eleganza modellandola sull’insegnamento stilistico degli uomini di Roma.

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Le statue di Dante, Petrarca e Boccaccio a Ponte Vecchio (Firenze)

E’ chiaro da quanto detto che si potrebbe istituire una linea che dal medioevo conduce alla nuova età umanistica, quella che caratterizzerà la cultura del 1400, proprio a partire da quella che è stata definita la nostra triade letteraria fiorentina: se infatti Dante è completamente proiettato verso il divino, Petrarca è l’uomo che, con le sue contraddizioni, sembra incapace a scegliere tra Dio e l’uomo, e il nostro Boccaccio, che chiude il discorso, è proiettato, con l’elogio verso l’amore sensuale, alla terra. Ma è estremamente semplicistico ridurre i nostri grandi autori a tale definizione: potremo dire che in modo diverso, dettato dall’età e dalla sensibilità di ognuno di loro, tutti e tre vivano con difficoltà il rapporto col divino: ce lo dimostra Dante stesso, nell’episodio di Francesca o d’Ulisse, quando, pur accusandoli per aver messo l’amore e la conoscenza al di sopra di Dio, non può che provare nei loro confronti profonda comprensione e stima; ce lo dice lo stesso Petrarca, e Agostino con lui, come l’amore verso la vanità e la gloria letteraria (tutta terrena) non le permettano di vivere, senza timori e difficoltà, il desiderio della serenità della fede; ma sarà di ciò testimone anche Boccaccio che se anche racconterà, col sorriso sulle labbra, di frati bugiardi e di monache vogliose di sesso, saprà disegnarci, nell’ultima novella, una storia in cui è evidente l’allegoria verso la figura della Madonna.

Periodo napoletano

Caccia di Diana (1334): poemetto in terza rima in 18 canti. La narrazione è fatta in prima persona. Il richiamo metrico è dantesco (la terza rima), mentre a livello di contenuto si richiama alla letteratura cortese. 

Il protagonista sta pensando come fare per ripararsi dai colpi d’amore, ma viene distolto da una voce che, in modo soave, chiama ad unirsi le donne della corte di Diana. Arrivano le donne più belle della reggia di Roberto d’Angiò. Esse, dopo essersi raccolte intorno alla dea, si dividono in gruppi e iniziano la caccia che viene descritta per quattordici canti. Diana dà l’ordine di sospendere la caccia e invita le donne a rendere sacrifici a Giove. Ma l’ultima donna dichiara di preferire fare sacrifici in onore di Venere. La dea appare e, riconoscente per la fedeltà a lei dimostrata dalle donne, fa apparire dalle fiamme del fuoco approntato per i sacrifici alcuni giovani allegri e piacenti.

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Miniatura da La Caccia di Diana di Boccaccio

L’APPARIZIONE DI VENERE E I MIRACOLI D’AMORE

Caccia de’ petti nostri i pensier vili,
     e per la tua virtù fa’ eccellenti
     gli animi nostri, e’ cor larghi e gentili.
Deh fa sentire a noi quanto piacenti 
     sieno gli effetti tuoi, e facci ancora,
     alcuno amando, gli animi contenti.

(…)

E poi, verso del foco rivoltata,
     non so che disse: se non che di fuori
     ciascuna fiera che v’era infiammata,
mutata in forma d’uom, di quelli ardori 
     usciva giovinetto gaio e bello,
     tutti correndo sopra ’l verde e’ fiori;
e tutti entravan dentro al fiumicello,
     e, quindi uscendo ciascun, d’un vermiglio
     e nobil drappo si facean mantello, 

(…)

E vidimi alla bella Donna offerto, 
     e di cervio mutato in creatura
     umana e razionale esser per certo;
ma non ingiustamente, che natura
     non mise mai valor nè gentilezza,
     quant’è in lei onestissima e pura; 
il viso suo angelica bellezza
     del ciel discesa veramente pare,
     venuta a dare agli occhi uman chiarezza

discreta e saggia nel suo ragionare,
     e signorevol donna nello aspetto, 
     lieta e baldanzosa nello andare;

Manda via dalla nostra mente i pensieri malvagi, e grazie alla tua virtù, o Venere, rendi i nostri animi elevati e i cuori accoglienti e nobili. Dunque fa sentire a noi quanto piacevoli siano i tuoi effetti e rendici gli animi felici con l’amare qualcuno. (…) E poi, rivolta verso il fuoco, disse non so cosa, se non che tutti i corpi avvolti nelle fiamme furono esteriormente mutati in uomini; da quel calore uscivano giovinetti belli e felici, che correvano sopra il prato verde e fiorito. e tutti si gettavano dentro un fiumiciattolo dal quale, uscendo, venivano ricoperti con un rosso mantello. (…)  

E’ evidente in questa giovanile opera come Boccaccio, accanto a elementi classicheggianti, primi fra tutti quelli ovidiani, subisca l’influenza del “dolce stilnovo”. Infatti anche qui viene ripreso il concetto guinizzelliano dell’amore e del cuore gentile. D’altra parte è anche vero che tale tema viene “ingentilito” dall’esistenza stessa, nella corte di Roberto d’Angiò, da giovani e giovinette, ambedue portatori di cuore gentili: infatti Boccaccio canta l’amore come sentimento che ingentilisce l’uomo facendolo passare da essere ferino a possessore d’un gentil core.

Filostrato (1335): il cui titolo, secondo l’autore certaldino significherebbe “vinto d’amore” (in realtà vuol dire “amante degli eserciti”). Dopo un proemio in prosa, l’opera è costituita da nove parti in ottave dove si racconta la seguente storia:

Troiolo, ultimo figlio del re di Troia Priamo s’innamora di Criseida, figlia dell’indovino Calcante. Grazie al fratello di lei e suo amico, Pandaro, l’innamoramento sembra andare a buon fine. Ma Criseida, per uno scambio di prigionieri, deve andare al campo greco, scortata da Diomede che se ne innamora. Troiolo, convinto d’essere stato tradito, cerca di vendicarsi, ma viene ucciso da Achille.

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Manoscritto del Filostrato (Regione Veneto)

Le fonti di questo testo sono da ricercare nel romanzo francese Roman de Troie di Bernoit de Saint-Maure o Historia troiana di Guido delle Colonne della fine del XIII secolo. E’ evidente, pertanto, come il giovane Boccaccio è attratto dalla letteratura cortese anche quando i riferimenti sono classici (qui la guerra di Troia) e pertanto il suo sguardo è attirato  dai modelli delle chanson medievali, ricche d’avventura e d’amore, più dell’epica.

Lo dimostra, d’altra parte, l’invocazione:

INVOCAZIONE

(I, 1-6)

Alcun di Giove sogliono il favore
     ne’ lor principii pietosi invocare;
     altri d’Apollo chiamano il valore;
     io di Parnaso le muse pregare
     solea ne’ miei bisogni, ma amore
     novellamente m’ha fatto mutare
     il mio costume antico e usitato,
     poi fu’ di te, madonna, innamorato.
Tu donna se' la luce chiara e bella,  
per cui nel tenebroso mondo accorto
vivo; tu se’ la tramontana stella
la qual’io seguo per venire al porto;
ancora di salute tu se’ quella
che se’ tutto il mio bene e ’l mio conforto;
tu mi se’ Giove, tu mi sei Apollo,
tu se’ mia musa, io l’ho provato e sollo.

Per che volendo per la tua partita,
     più greve a me che morte e più noiosa,
     scriver qual fosse la dolente vita
     di Troilo, da poi che l’amorosa
     Griseida da Troia sen fu gita,
     e come pria gli fosse grazïosa;
     a te convienmi per grazia venire,
     s’io vo’ poter la mia ’mpresa fornire.

Adunque, o bella donna, alla qual fui
     e sarò sempre fedele e soggetto,
     o vaga luce de’ begli occhi in cui
     Amore ha posto tutto il mio diletto;
     o isperauza sola di colui,
     che t’ama più che sè d’amor perfetto,
     guida la nostra man, reggi l’ingegno,
     nell’opera la quale a scriver vegno.
Tu se’ nel tristo petto effigïata
     con forza tal, che tu vi puoi più ch’io;
     pingine fuor la voce sconsolata
     in guisa tal, che mostri il dolor mio
     nell’altrui doglie, e rendila sì grata,
     che chi l’ascolta ne divenga pio;
     tuo sia l’onore, e mio si sia l’affanno,
     se i detti alcuna laude acquisteranno.

E voi amanti prego che ascoltiate
     ciò che dirà ’l mio verso lagrimoso;
     e se nel cuore avvien che voi sentiate
     destarsi alcuno spirito pietoso,
     per me vi prego ch’amore preghiate,
     per cui siccome Troilo doglioso
     vivo lontan dal più dolce piacere,
     che a creatura mai fosse in calere.

Alcuni usano invocare, in principio della loro opera, la protezione di Giove, altri invocano la virtù di Apollo; io, in soccorso delle mie necessità, usavo pregare le Muse, ma recentemente Amore mi ha fatto mutare la mia antica e consueta abitudine, allorché mi innamorai di te, madonna. // Tu, o donna, sei la luce chiara e bella per la quale io vivo prudente nel mondo tenebroso; tu sei la stella tramontana che io seguo per giungere al porto; àncora di salvezza, tu (sola) rappresenti tutto il mio bene e il mio conforto; tu sei per me Giove, sei Apollo, tu sei la mia musa, ed io l’ho provato e ne sono certo. // Perciò volendo raccontare, in occasione della tua partenza, che è per me più dura e dolorosa da sopportare della morte stessa, quale sia stata la triste storia di Troiolo dopo la morte dell’amata Criseida, e come invece prima (quella vita) gli fosse piacevole, è opportuno che io chieda la tua grazia, se io voglio portare a termine la mia impresa. // Dunque, o bella donna, alla quale fui e sarò sempre assoggettato, o splendida luce dei begli occhi nei quali Amore ha posto tutto il mio piacere; o sola speranza di colui che ti ama più di quanto ami se stesso, di un amore perfetto, guida la mia mano, sorreggi la mia intelligenza, nell’opera che mi accingo a scrivere. // Tu sei ritratta nel mio petto addolorato con una tale forza, che su di me eserciti un potere più forte del mio stesso potere; infine fanne uscire la voce sconsolata, così che mostri il mio dolore attraverso (il racconto di) quello di qualcun altro, e rendila (la voce) così piacevole, che chi la sente diventi virtuoso. Tuo sarà l’onore e mia la fatica, se i versi riceveranno qualche lode. // E voi, amanti, vi prego di ascoltare ciò che diranno i miei versi addolorati, e se accadrà che voi sentiate destarsi nel cuore qualche pietà, vi prego di pregare per me Amore, a causa del quale, come Troiolo, vivo nel dolore, lontano dal più dolce piacere che abbia mai potuto avere qualche importanza per una creatura.

in cui convergono elementi derivati dalla scuola poetica siciliana, guinizzelliani, cavalcantiani ed anche danteschi, per meglio dire l’intera tradizione della poesia erotica italiana. Quello che tuttavia caratterizza il poemetto è l’amore concreto, vissuto rapidamente da due giovani, e non più l’amore idealizzato.

Troilo-e-Cressida-vanno-a-letto-insieme-1024x820.jpgTroilo e Criseide si incontrano e vanno a letto insieme”, miniatura tratta dal ‘Filostrato’ (terzo quarto del XV secolo)

L’importanza del Filostrato è tutta nella scelta metrica, l’ottava rima, otto versi endecasillabi con rima ABABABCC (6 versi rima alternata, gli ultimi due baciata) che sarà alla base della narrazione epico-cavalleresca dal ’400 fino al ’600.

Filocolo (1336): il titolo significa “fatica d’amore”. L’opera rappresenta il primo tentativo di “romanzo” da parte del Boccaccio e lo dedica a Fiammetta (senhal per Maria d’Aquino).

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Giovanni Boccaccio, Filocolo, per Filippo Giunti, 1594 (Biblioteca Marucelliana)

Florio, figlio del Re di Spagna e Biancofiore, un’orfana, si amano dopo essere cresciuti insieme. Per l’opposizione dei sovrani spagnoli che mandano Florio in giro per l’Europa a studiare e vendono Biancofiore ad un ammiraglio d’Oriente, i due giovani sono costretti ad affrontare molte peripezie e disgrazie che li dividono, ma alla fine, dopo numerosi viaggi di Florio alla ricerca dell’amata, con lo pseudonimo di Filocolo, si ritrovano e la storia termina con un lieto fine.

LETTERATURA E AMORE

Sì tosto come Amore dalla sua madre fu partito, così ella nella lucida nuvoletta fendendo l’aere pervenne a’ medesimi tetti, e, tacitamente preso il vecchio re, il portò in una camera sopra un ricco letto, dove d’un soave sonno l’occupò. Nel qual sonno il re vide una mirabile visione: che a lui pareva esser sopra un alto monte e quivi avere presa una cerbia bianchissima e bella, la quale a lui molto parea avere cara; la quale tenendola nelle sue braccia, gli pareva che del suo corpo uscisse un leoncello presto e visto, il quale egli insieme con questa cerbia sanza alcuna rissa nutricava per alcuno spazio. Ma, stando alquanto, vedeva discender giù dal cielo uno spirito di graziosa luce risplendente, il quale apriva con le propie mani il leoncello nel petto; e quindi traeva una cosa ardente, la quale la cerbia disiderosamente mangiava. E poi gli pareva che questo spirito facesse alla cerbia il simigliante; e fatto questo si partiva. Appresso questo, egli temendo non il leoncello volesse mangiar la cerbia, la lontanava da sé: e di ciò pareva che l’uno e l’altro si dolesse. Ma, poco stante, apparve sopra la montagna un lupo, il quale con ardente fame correva sopra la cerbia per distruggerla, e il re gliele parava davanti; ma il leoncello correndo subitamente tornò alla difesa della cerbia, e co’ propii unghioni quivi dilacerò sì fattamente il lupo, che egli il privò di vita, lasciando la paurosa cerbia a lui che dolente gliele pareva ripigliare, tornandosi all’usato luogo. Ma non dopo molto spazio gli parea vedere uscir de’ vicini mari due girfalchi, i quali portavano a’ piè sonagli lucentissimi sanza suono, i quali egli allettava; e venuti ad esso, levava loro da’ piedi i detti sonagli, e dava loro la cerbia cacciandogli da sé. E questi, presa la cerbia, la legavano con una catena d’oro, e tiravansela dietro su per le salate onde infino in Oriente: e quivi ad un grandissimo veltro così legata la lasciavano. Ma poi, sappiendo questo, il leoncello mugghiando la ricercava; e presi alquanti animali, seguitando le pedate della cerbia, n’andavano là ove ella era; e quivi gli parea che il leoncello, occultamente dal cane, si congiungesse con la cerbia amorosamente. Ma poi avedendosi il veltro di questo, l’uno e l’altro parea che divorar volesse co’ propii denti. E subitamente cadutagli la rabbia, loro rimandava là onde partiti s’erano. Ma inanzi che al monte tornassero, gli parea che essi si tuffassero in una chiara fontana, della quale il leoncello uscendone, pareva mutato in figura di nobilissimo e bel giovane, e la cerbia simigliantemente d’una bella giovine: e poi a lui tornando, lietamente li ricevea; e era tanta la letizia la quale egli con loro facea che il cuore, da troppa passione occupato, ruppe il soave sonno. E stupefatto delle vedute cose si levò, molto maravigliandosi, e lungamente pensò sopra esse; ma poi non curandosene, venne alla reale sala del suo palagio in quell’ora che Amore s’era da’ suoi nuovi suggetti partito. Taciti e soli lasciò Amore i due novelli amanti, i quali riguardando l’un l’altro fiso, Florio primieramente chiuse il libro, e disse: «Deh, che nuova bellezza t’è egli cresciuta, o Biancifiore da poco in qua, che tu mi piaci tanto? Tu non mi solevi tanto piacere; ma ora gli occhi miei non possono saziarsi di riguardarti!». Biancifiore rispose: «Io non so, se non che di te poss’io dire che in me sia avvenuto il simigliante. Credo che la virtù de’ santi versi, che noi divotamente leggiamo, abbia accese le nostre menti di nuovo fuoco, e adoperato in noi quello già veggiamo che in altrui adoperarono». «Veramente» disse Florio «io credo che come tu di’ sia, però che tu sola sopra tutte le cose del mondo mi piaci». «Certo tu non piaci meno a me che io a te» rispose Biancifiore. E così stando in questi ragionamenti co’ libri serrati avanti, Racheio, che per dare a’ cari scolari dottrina andava, giunse nella camera e loro gravemente riprendendo, cominciò a dire: «Questa che novità è, che io veggio i vostri libri davanti a voi chiusi? Ov’è fuggita la sollecitudine del vostro studio?». Florio e Biancifiore, tornati i candidi visi come vermiglie rose per vergogna della non usata riprensione, apersero i libri; ma gli occhi loro più disiderosi dell’effetto che della cagione, torti, si volgeano verso le disiate bellezze, e la loro lingua, che apertamente narrare solea i mostrati versi, balbuziendo andava errando. Ma Racheio, pieno di sottile avvedimento, veggendo i loro atti, incontanente conobbe il nuovo fuoco acceso ne’ loro cuori, la qual cosa assai gli dispiacque; ma più ferma esperienza della verità volle vedere, prima che alcuna parola ne movesse ad alcuno altro, sovente sé celando in quelle parti nelle quali egli potesse lor vedere sanza essere da essi veduto. E manifestamente conoscea, come da loro partitosi, incontanente chiusi i libri, abbracciandosi si porgeano semplici baci, ma più avanti non procedeano, però che la novella età, in che erano, non conoscea i nascosi diletti. E già il venereo fuoco gli avea sì accesi, che tardi la freddezza di Diana li avrebbe potuti rattiepidare.

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Ulisse Sartini: Florio e Biancifiore (2012)

Così come Cupido immediatamente s’allontanò dalla madre, allo stesso modo Venere avvolta in una nube, giunse agli stessi tetti e silenziosamente, preso il vecchio re, lo portò in camera su un letto riccamente ricamato e occupò la sua mente con un dolce sogno. Una straordinaria immagine apparve al sovrano durante il sonno: gli sembrava di essere in un monte elevato e d’aver catturato una cerva bianchissima e bella, e gli sembrava avere verso di lei un sentimento di protezione; tenendola fra le braccia le pareva che da lei uscisse un piccolo leone, veloce e vispo, che insieme alla cerva egli stesso nutriva per qualche tempo. Ma, dopo qualche anno, vedeva scender giù dal cielo uno spirito risplendente, che apriva il petto del leoncino, ne traeva il cuore che la cerva mangiava con desiderio. Gli sembrava inoltre che lo stesso spirito avesse fatto lo stesso con il petto della cerva e con il leoncino che gustava il suo cuore, quindi si allontanava. Dopo ciò vedendo che il piccolo leone s’avvicinava alla cerva e pensando che la volesse mangiare, lo allontanava e le pareva che ambedue si dolessero per questo. Ma dopo poco apparve sopra la montagna un lupo, che con fame rabbiosa andava verso la cerva e il re gliela offriva; ma il leoncino, correndo prontamente, tornò per difendere la cerva e con le unghie lacerò il corpo del lupo, uccidendolo, e restituì la paurosa cerva al re che sembrava dolersi del suo ritorno. In seguito gli sembrava che due girfalchi provenissero dai mari con nelle zampette dei sonagli che non emettevano suono. Egli li attirava e consegnava loro la cerva e quindi li allontanava. e loro la prendevano, la legavano con una catena d’oro e la portavano, attraverso il mare, in Oriente: e qui ad un grandissimo cane da caccia, così come l’avevano legata, la lasciarono. Il leoncino, avendolo saputo, lamentandosi cominciò a cercarla, e facendosi accompagnare da altri animali , seguitando le orme della cerva, arrivò a trovarla e qui, nascostamente dal cane, sembra che con lei si congiungesse. Ma avendolo il cane scoperto, sembra che li volesse divorare entrambi, ma improvvisamente, essendogli cessata la rabbia, li respedì da dove erano giunti. Ma prima che raggiungessero il monte, in sogno gli apparve che il leoncino e la cerva si tuffassero in una fontana, dalla quale uscirono come bel giovane e piacente donna. Quindi, tornati dal re, venivano benignamente accolti, ed era tanta l’allegria di rivederli, tanto da fargli scoppiare il cuore che all’improvviso si risvegliò. Stupefatto del sogno, si rialzò meravigliandosi assai e vi pensò a lungo; ma poi non curandosene, venne nella sala reale del suo palazzo nello stesso in cui Venere se n’era andata. La dea dell’amore lasciò soli i due giovani, i quali si guardavano fissamente. Florio dapprima chiuse il libro e disse: «Quale straordinaria bellezza ti è cresciuta, o Bianciofiore, in così poco tempo, per cui ora tu mi piaci tanto? Tu prima non mi provocavi un così grande piacere, mentre ora i miei occhi non sono sazi di guardarti fissamente». Biancifiore rispose: «Non so, se non che lo stesso è successo a me nei tuoi confronti. Credo che la virtù dei versi che noi attentamente leggiamo, abbia acceso le nostre menti con un nuovo fuoco e a causato a noi quello che, come abbiamo visto, ha già causato in altri menti (l’innamoramento). Disse Florio: «Credo tu abbia ragione, dal momento che solo tu, tra tutte le cose del mondo, mi piaci». Rispose Biancifiore: «Sicuramente tu non piaci a me meno di quanto io piaccia a te». E parlando, così, con i libri chiusi, vennero scoperti da Racheio, che andava da loro per insegnare, giunse nella camera e rimproverandoli aspramente disse: «Che novità è questa, vedere i libri chiusi? dove è andata l’attenzione verso il vostro studio?». Florio e Biancifiore arrossiti per la vergogna a causa del rimprovero cui non erano abituati, riaprirono i libri ma i loro sguardi, spinti dall’attenzione reciproca che il libro provocava, distolti si  rivolgevano alle loro bellezze e la loro lingua, che era solita narrare in modo chiaro i versi studiati, balbettando esitava. Ma Racheio, uomo d’esperienza, vedendo i loro atti, capì che si erano innamorati e se ne dispiacque; ma volle accertarsi della verità, prima di riferire a qualcuno, nascondendosi in luoghi dai quali poteva vederli senza essere visto. E apertamente conobbe appena si allontanò da loro che chiusero di nuovo i libri si abbracciavano, porgendosi casti baci, non facendo altro, dal momento che la loro giovinezza non conosceva ancora i piaceri. E già la passione d’amore li aveva così presi che a stento la freddezza di Diana li avrebbe potuti raffreddare.  

E’ evidente come la letteratura conosciuta da Boccaccio operi, soprattutto quando si tratti di Virgilio (Cupido che fa innamorare Enea e Didone come qui fa innamorare Florio e Biancifiore) e dell’amato Dante: vi è in questo passo il riferimento alla Vita Nuova, quando racconta il sogno, definito, come nel poeta fiorentino, “mirabile visione”, ma vi è di più il ricordo del V canto dell’Inferno, quello di Paolo e Francesca in cui “galeotto fu il libro”, come in Florio e Biancofiore ai quali i “santi versi” fecero scoprire l’amore. “Posto che è sempre difficile stabilire il livello di consapevolezza di una citazione non esplicita, specie in presenza di elementi non entrati in un immaginario diffuso come quelli provenienti dall’Eneide e dalla Vita Nuova, è certo che questi passaggi del Filoloco dimostrano quanto intimamente agiscano nel Boccaccio alcune delle sue letture. E, com’è naturale, il suo libro di nutre dei libri ch’egli legge e ha letto” (Corrado Bologna)

Il tenue filo narrativo del romanzo, tuttavia, è appesantito da numerose digressioni, monologhi e disputazioni. Vi è dunque una sovrapposizione di elementi eterogenei in cui convivono elementi pagani e cristiani, magici e miracolosi, fantastici e reali.

Teseida (1341): iniziato a Napoli, ma terminato a Firenze. E’ un poema epico in 12 canti in ottava rima.

Teseo muove guerra contro le Amazzoni, le sconfigge e sposa la loro regina Ippolita, che porta insieme con sé ad Atene la sorella Emilia. In seguito ad un’altra guerra contro i Tebani, Teseo conduce con sé, sempre ad Atene, due amici: Arcita e Polemone. Ambedue s’innamorano di Emilia e nasce fra loro una forte rivalità, tanto da giungere ad un duello. Teseo, per risolvere la questione, indice un torneo, dove i due, ciascuno con cento cavalieri, si fronteggeranno. Al vincitore andrà in sposa Emilia. Arcita vince, ma per le gravi ferite riportate è sul punto di morire. Allora chiama l’amico e gli offre la donna ancora vergine.

E’ il primo poema epico-cavalleresco della letteratura italiana. Boccaccio è consapevole di essere il primo e cerca di colmare la lacuna rifacendosi ai grandi poemi epici classici:,

INVOCAZIONE E ARGOMENTO

(I, 1-5)

O Sorelle Castalie, che nel monte
     Elicona contente dimorate
     d’intorno al sacro gorgoneo fonte,
     sottesso l’ombra delle frondi amate
     da Febo, delle quali ancor la fronte
     spero d’ornarmi sol che ’l concediate,
     le sante orecchie a’ miei preghi porgete,
     e quegli udite come voi dovete.

E’ m’è venuta voglia con pietosa

     rima di scriver una storia antica,
     tanto negli anni riposta e nascosa,
     che latino autor non par ne dica,
     per quel ch’i’ senta, in libro alcuna cosa.
     Dunque sì fate che la mia fatica
     sia grazïosa a chi ne fia lettore,
     o in altra maniera ascoltatore.
Siate presenti, o Marte rubicondo,

     nelle tue armi rigido e feroce,
     e tu, Madre d’Amor, col tuo giocondo
     e lieto aspetto, e ’l tuo Figliuol veloce
     co’ dardi suoi possenti in ogni mondo;
     e sostenete la mano e la voce
     di me, che intendo i vostri effetti dire
     con poco bene e pien d’assai martíre.

E voi, nel cui cospetto il dir presente
     forse verrà, com’io spero ancora,
     quant’io più posso prego umilemente,
     per quel signor ch’e’ gentili innamora,
     che attendiate con intera mente:
     voi udirete com’egli scolora
     ne’ casi avversi ciascun suo seguace,
     e come dopo affanno e’ doni pace.

E questo con assai chiara ragione

     comprenderete, udendo raccontare
     d’Arcita i fatti e del buon Palemone,
     di real sangue nati, come appare,
     e amenduni Tebani, e a quistione,
     parenti essendo, per superchio amare
     Emilia bella, vennero, Amazzona,
     d’onde l’un d’essi perdè la persona.

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Emilia nel roseto, manoscritto francese del 1460 ca.

O Muse, che vivete felici presso il monte Elicona, intorno alla fonte gorgonea, all’ombra delle frondi (d’alloro) amate da Apollo, delle quali spero ancora di ornarmi la fronte, se solo lo permetterete: prestate orecchio alle mie preghiere e ascoltatele, come e giusto. // Mi è venuta voglia di scrivere in forma umile una storia antica, a tal punto messa da parte e dimenticata negli anni, che, per quanto ne so, sembra che alcun autore latino ne parli in un qualche libro; fate dunque in modo che il mio racconto sia gradito a chi ne sarà lettore o in altro modo ascoltatore. // Siate presenti, o Marte dalle guance rosse, rigido e feroce nel condurre le tue armi, e tu, Venere, con il tuo aspetto gioioso e lieto, e Cupido, il tuo figlio veloce, che con i suoi dardi è presente in tutto il mondo; e sostenete la mano e il canto di me, che intendo raccontare gli effetti che voi producete, dai quali viene poco bene e molto dolore. // E voi, che forse come io spero ancora, udirete questo racconto, vi prego umilmente per quanto è possibile, in nome di quel dio che fa innamorare le genti, che porgiate tutta la vostra attenzione; voi ascolterete come egli fa sbiancare il volto nelle sorti avverse ogni suo seguace, e come dopo il travaglio egli doni pace. // E questo vedrete dimostrato assai chiaramente, sentendo raccontare le vicende di Arcita e del buon Palemone, nati, come pare, da famiglia reale, ed entrambi tebani, e (sentirete raccontato) di come, pur essendo parenti, si trovarono in conflitto, a causa dell’eccessivo amore di entrambi per la bella amazzone Emilia; a causa di questo conflitto, uno dei due morì.

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Giovanni dal Ponte: Episodi finali del Teseida: Arcita morente, il matrimonio tra Emilia e Polemone, la festa di nozze (1420-1425)

Infatti intitola il suo poema Teseida,  come Virgilio e Stazio  intitolarono i loro poemi epici Eneide e Tebaide; allo stesso modo li divide in XII canti e sanziona in modo definitivo l’ottava come misura metrica per il poema. In lui operano non solo la cultura classica, ma anche il romanzo d’amore (nei primi due viene spiegato l’antefatto, dal III al X la storia d’amore, l’XI e il XII il compianto di Archita, i riti funebri, e le perplessità di Emilia che vorrebbe conservare la castità, ma viene convinta a sposare Polemone). 

Periodo fiorentino

Comedìa delle ninfe fiorentine (o Ninfale d’Ameto) (1342) è un prosimetro, cioè una narrazione in prosa, inframmezzata da componimenti in terzina cantati da vari personaggi. 

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Edizione della Comedia delle ninfe fiorentine del 1558

Ameto, un rozzo pastore, un giorno incontra delle ninfe devote a Venere e si innamora di una di esse, Lia. Nel giorno della festa della dea le ninfe si raccolgono intorno al pastore e gli raccontano le loro storie d’amore. Alla fine Ameto è immerso in un bagno purificatore e comprende così il significato allegorico della sua esperienza: infatti le ninfe rappresentano la virtù e l’incontro con esse lo ha trasformato da essere rozzo e animalesco in uomo.

AMETO INCONTRA LE NINFE

Sopra le nate erbette disteso il grave corpo, alle soavi aure aperse il ruvido seno; e, cacciatisi dal viso i sucidi sudori con la rozza mano, l’arida bocca rinfrescò con l’umide frondi delle verdi piante; e ricreato alquanto, colli suoi cani, ora l’uno ora l’altro chiamando, cominciò a ruzzare; e quindi levato in piedi, trascorrendo tra loro or qua or là, all’uno la gola, all’altro la coda e qual per li piedi tirando scherzando, dalla lasciviente turba da diverse parti era assalito; e talvolta i non ricchi drappi stracciati da quella il moveano ad ira: in questo trastullo, ora stendendoli in terra, ora sé fra loro stendendo, si stava. Ma, mentre che così prendeva in nuova maniera sollazzo, essendo il sole caldissimo, subito dalla vicina riva pervenne a’ suoi orecchi graziosa voce, in mai più non udita canzone; per che egli, avendo di ciò maraviglia, fra sé disse: “Iddii sono in terra discesi; e io più volte oggi l’ho conosciuto, ma nol credea; i boschi più pieni d’animali si sono dati che non soleano e Febo più chiari n’ha pòrti i raggi suoi, e l’aure più soavemente m’hanno le fatiche levate, e l’erbe e i fiori, in quantità grandissima cresciuti più che l’usato, testimoniano la loro venuta. Essi, per lo caldo affannati come io, qui vicini si posano e usano i celestiali diletti colle loro voci, forse avvilendo i mondani. Io non ne vidi mai alcuno; e, disideroso di vederli, se così sono bella cosa come si dice, ora li andrò a vedere, il sole guidante i passi miei; e, acciò che mi sieno benivoli, se di preda li vedrò vòti, della mia abbondevoli li farò, se vorranno”. E con fatica a’ cani, a quali con lusinghe, a quali con occhi torvi e con voce sonora mazze mostrando, puose silenzio e verso quella parte, ove il canto estimava, porse, piegando la testa sopra la manca spalla, l’orecchio ritto; e, ascoltando alquanto, rivolto a’ cani, quelli con gli usati legami attaccati, alla presente quercia raccomandò, e, preso uno noderoso bastone, col quale, portando la pesante preda, a’ suoi omeri alcuno alleggiamento porgeva, verso quella parte, dove udiva la dolce nota, volse i passi suoi; e, colla testa alzata, non prima le chiare onde scoperse del fiumicello che egli all’ombra di piacevoli arbuscelli, fra’ fiori e l’erba altissima, sopra la chiara riva vide più giovinette delle quali, alcuna mostrando nelle basse acque i bianchi piedi, per quelle con lento passo vagando s’andavano. Altre, posti giuso i boscherecci archi e gli strali, sopra quelle sospesi i caldi visi, sbracciate, colle candide mani rifaceano belli con le fresche onde. E, alcune, data da’ loro vestimenti da ogni parte all’aure via, sedeano attente a ciò che una di loro più gioconda sedendo cantava; dalla quale conobbe la canzone prima alle sue orecchie esser venuta. Né più tosto le vide che, loro dee stimando, indietro timido ritratto, s’inginocchiò e, stupefatto, che dir si dovesse non conoscea. Ma i giacenti cani delle riposanti ninfe, levati di colui alla vista, esso forse pensando fiera, veloci, con alto latrato gli corsero sopra; ed egli, poiché fuggire non gli valse, sopraggiunto da quelli, col bastone, con le mani, con la fuga e con le rozze parole, da sé, quanto poteva, cessava i morsi loro; le quali non conosciute dagli orecchi usati ricevere i donneschi suoni, più fieri, lui, già più morto per paura che vivo, seguieno; ed egli, rimembrandosi d’Atteone, con le mani si cercava per le corna la fronte, in sé dannando il preso ardire di volere riguardare le sante dee. Ma le ninfe, turbato il loro sollazzo per la canina rabbia, levate con alte voci, appena in pace puosero i presti cani e lui con piacevole riso, conosciuto suo essere, racconsolando, feciono sicuro.

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Desco da parto con scene dalla Comedia delle ninfe fiorentine

(Ameto), disteso sopra l’erbetta appena nata, tirò un ampio respiro nell’aria rinfrescante e, passandosi la rozza mano sul volto, cacciò il sudicio sudore e si rinfrescò la bocca con le foglie umide delle piante; dopo essersi riposato, cominciò a giocare con i suoi cani, chiamandone ora uno ora l’altro, e alzatosi in piedi, correndo in mezzo a loro, ad uno afferrava la gola, ad un altro tirava la coda, ad un altro ancora tirava le gambe scherzando e allo stesso tempo era assalito dalla scherzosa turba dei cani, e talvolta i suoi non ricchi indumenti stracciati da essi lo spingevano ad irarsi: in questo sollazzo, ora gettandoli in terra, ora gettandosi in mezzo a loro, trascorreva il tempo. Ma mentre si divertiva con nuovi giochi, essendo il sole già alto, gli giunse all’orecchio una voce piena di grazia dal fiume vicino, per cui, meravigliandosi, disse fra sé: “Sono scesi gli dei, e oggi l’ho sentito e l’ho pensato, ma non ci prestavo attenzione: i boschi si sono riempiti d’animali più del solito e Febo, dio del sole, ci ha regalato raggi più splendenti, e le brezze, soffiando più dolcemente, mi hanno alleviato le fatiche. Gli dei, accaldati come me, si riposano qui vicino e usano piacevoli celestiali con le loro voci , forse per umiliare i mondani. Io non ne ho visto mai nessuno e desidero vederli, se sono così belli ora lo sperimentò con la guida della luce del sole e affinché mi siano benevoli, se li vedrò senza preda, li renderò ricchi con la mia, se vorranno.” E con fatica impose il silenzio ai cani, alcuni gratificandoli, altri mostrando loro gli occhi torti, altri ancora a colpi di mazza e urla e si avviò dove pensava provenisse il canto, volgendosi verso sinistra, l’orecchio attento per capire la direzione. Dopo aver ascoltato i canti, assicurò i cani ad una quercia con i soliti guinzagli e si aiutò con un bastone nodoso che gli alleggeriva il peso della preda, avviandosi da dove giungevano le celestiali voci. Con la testa dritta, non prima di aver scoperto all’ombra di ombrosi alberi un ruscello tra fiori ed alta erba, e sopra il rivo vide giovinette di cui alcune mostravano i bianchi piedi immersi nell’acqua, altre camminavano con passo lento. Altre, posti in terra gli archi e le frecce, con le braccia nude e le bianche mani si pulivano il viso con l’acqua fresca. Alcune avevano allentato le loro vesti, affinché la frescura dell’aria vi penetrasse, facendo attenzione al canto che una di loro modulava, canto che precedentemente Ameto aveva udito. Non appena le vide, timidamente indietreggiò e s’inginocchiò non sapendo cosa dir loro, reputandole delle dee. Ma i cani delle ninfe, accortisi della sua presenza e credendo lui una preda selvaggia, velocemente lo assalirono e a nulla gli valse la corsa che, sopraggiunto  cercava con il bastone, con le urla con le mani, con la forza di evitare i morsi loro, ma i cani, non riconoscendo la sua voce, abituati a quelle femminili delle ninfe, non cedevano e nonostante cercasse di scappare già si vedeva morto, rimpiangendo di non essere Atteone, cercandosi le corna di cervo nella fronte e maledicendosi per aver voluto vedere le dee. Ma le ninfe, turbato il loro piacere per l’abbaiare dei loro cani, richiamatoli, li calmarono e, saputo chi fosse, mitigarono la paura di Ameto, con piacevoli sorrisi.

Il passo va letto come esemplificazione del concetto rozzezza/ virtù: se infatti nella prima parte anche linguisticamente (grave corpo, ruvido seno, sudici sudori) Ameto rappresenta la ferinità (il suo mescolarsi con i cani) il tutto inserito in un paesaggio idillico, nella seconda il canto funge da richiamo civilizzatore e se anche i cani delle ninfe lo rifiutano e perché non si è ancora tuffato nelle acque che lo trasformeranno in un giovane degno dell’amore di Lia.

Ma l’opera è importante perché anticipa a struttura tipica che poi sarà del Decameron: una volta che Ameto avrà dichiarato l’amore per Lia, quest’ultima inviterà le altre ninfe, nelle ore calde della giornata a raccontare le loro vicende d’amore. Vi è cioè l’idea di raccontare delle storie all’interno di una cornice. Anche qui è evidente l’influenza di Dante: ne è spia l’allegoria delle virtù nelle ninfe.

Amorosa visione: (1343) poema in terzine in 50 canti.

Il protagonista (Boccaccio stesso) è colpito da una freccia da Cupido. S’addormenta e sogna di trovarsi in un bosco dove incontra una donna, Fiammetta. Ella lo porta di fronte ad un castello che ha due porte, una stretta, che conduce alle virtù, l’altra larga promette fama e ricchezza. Convinto da due giovani, il protagonista imbocca la seconda e attraversa sale dove sono dipinte i vizi e le virtù. Quindi raggiunge una fontana, le cui figure rimandano le virtù cardinali, i tre tipi d’amore (carnale, venale, puro) e tre animali (superbia, avarizia, lussuria). Quindi si trova in un giardino, dove vede tre donne e tra di esse Fiammetta. S’allontanano in luogo solitario e cerca di possederla. A questo punto finisce il sogno e la guida lo rimprovera affermando che potrà avere Fiammetta dopo aver imboccato la via delle virtù.

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Edizione del 1911 dell’Amorosa visione

L’opera ebbe un enorme successo nel periodo in cui fu scritta proprio perché rappresentava allora un processo allegorico assai diffuso e che aveva avuto in Dante un notevolissimo predecessore. Il suo successo è inoltre testimoniato dal fatto che  gli stessi Trionfi del Petrarca siano posteriori e quindi abbiano influenzato il grande poeta.  Oggi, invece, risultano di difficile lettura: l’allegoria prevale sulla narrazione, la descrizione delle virtù è troppo dettagliata, l’imitazione dantesca è forse troppo spinta. Ma non bisogna dimenticare che l’opera s’inserisce a pieno titolo nella cultura medievale.

Elegia di Madonna Fiammetta (1344): romanzo.

La protagonista è una nobildonna napoletana che racconta, in prima persona, la sua vicenda sentimentale: innamoratasi al primo sguardo di Panfilo, mercante fiorentino identificabile con l’autore, vive una stagione di felicità interrotta però dalla partenza dell’amante per Firenze. La promessa infranta di Panfilo di un successivo ritorno a Napoli è il primo evento di una serie di peripezie: la donna apprende prima che Panfilo si è sposato, ma quando è in procinto di riconquistare una rassegnata serenità, viene a sapere che quella notizia era falsa e che l’amato ha invece una relazione con una donna fiorentina. Folle di gelosia, Fiammetta vuol darsi la morte ma ciò le viene impedito dalla vecchia nutrice. Arriva infine la notizia di un prossimo ritorno a Napoli dell’amato e Fiammetta torna nuovamente a sperare.

L’opera potrebbe considerarsi un romanzo psicologico, composto da nove capitoli più un prologo. Nel prologo l’autore dichiara che il suo scritto è dedicato alle donne, donne cortesi, appartenenti alla cerchia di Roberto d’Angiò e con esperienze d’amore. Solo così potranno comprendere il romanzo a loro destinato. La novità sta nell’attenta analisi psicologica della protagonista, che si muove tra speranze e delusioni.

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Dante Gabriel Rossetti: Fiammetta (1878)

FIAMMETTA S’INNAMORA DI PANFILO 

Mentre che io in cotal guisa, poco altrui rimirando, e molto da molti rimirata, dimoro, credendo che la mia bellezza altrui pigliasse, avvenne che l’altrui me miseramente prese. E già essendo vicina al doloroso punto, il quale o di certissima morte o di vita più che altra angosciosa dovea essere cagione, non so da che spirito mossa, gli occhi con debita gravità elevati, intra la multitudine de’ circustanti giovini con acuto riguardamento distesi; e oltre a tutti, solo e appoggiato ad una colonna marmorea, a me dirittissimamente uno giovine opposto vidi; e, quello che ancora fatto non avea d’alcuno altro, da incessabile fato mossa, meco lui e li suoi modi cominciai ad estimare. Dico che, secondo il mio giudicio, il quale ancora non era da amore occupato, egli era di forma bellissimo, negli atti piacevolissimo e onestissimo nell’abito suo, e della sua giovinezza dava manifesto segnale crespa lanugine, che pur mo’ occupava le guance sue; e me non meno pietoso che cauto rimirava tra uomo e uomo. Certo io ebbi forza di ritrarre gli occhi da riguardarlo alquanto, ma il pensiero, dell’altre cose già dette estimante, niuno altro accidente, né io medesima sforzandomi, mi poté tòrre. E già nella mia mente essendo l’effigie della sua figura rimasa, non so con che tacito diletto meco la riguardava, e quasi con più argomenti affermate vere le cose che di lui mi pareano, contenta d’essere da lui riguardata, talvolta cautamente se esso mi riguardasse mirava.
Ma intra l’altre volte che io, non guardandomi dagli amorosi lacciuoli, il mirai, tenendo alquanto più fermi che l’usato ne’ suoi gli occhi miei, a me parve in essi parole conoscere dicenti: “O donna, tu sola se’ la beatitudine nostra”. Certo, se io dicessi che esse non mi fossero piaciute, io mentirei; anzi sì mi piacquero, che esse del petto mio trassero un soave sospiro, il quale veniva con queste parole: “E voi la mia”. Se non che io, di me ricordandomi, gli le tolsi. Ma che valse? Quello che non si esprimea, il cuore lo ’ntendeva con seco, in sé ritenendo ciò che, se di fuori fosse andato, forse libera ancora sarei. Adunque, da questa ora innanzi concedendo maggiore arbitrio agli occhi miei folli, di quello che essi erano già vaghi divenuti li contentava; e certo, se gl’iddii, li quali tirano a conosciuto fine tutte le cose, non m’avessero il conoscimento levato, io poteva ancora essere mia, ma ogni considerazione all’ultimo posposta, seguitai l’appetito, e subitamente atta divenni a potere essere presa; per che, non altramente il fuoco se stesso d’una parte in un’altra balestra, che una luce, per un raggio sottilissimo trascorrendo, da’ suoi partendosi, percosse negli occhi miei, né in quelli contenta rimase, anzi, non so per quali occulte vie, subitamente al cuore penetrando, se ne gìo. Il quale, nel sùbito avvenimento di quella temendo, rivocate a sé le forze esteriori, me palida e quasi freddissima tutta lasciò. Ma non fu lunga la dimoranza, che il contrario sopravvenne, e lui non solamente fatto fervente sentii, anzi le forze tornate ne’ luoghi loro, seco uno calore arrecarono, il quale, cacciata la palidezza, me rossissima e calda rendé come fuoco, e quello mirando onde ciò procedeva, sospirai. Né da quell’ora innanzi niuno pensiero in me poteo, se non di piacergli.

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Manoscritto miniato su carta dell’Italia centrale del 1458

(Fiammetta si trova in chiesa dove si sta celebrando la Pasqua).  Mentre io sto in quell’atteggiamento di chi è abituato ad essere ammirato più che ad ammirare, pensando che la bellezza potesse catturare, avvenne che la bellezza altrui catturasse me. E già essendo vicina al momento che doveva esser  motivo o di morte certa o di una vita piena d’angoscia, non so che da sentimento spinta, alzati gli occhi con composta devozione, alzai gli occhi guardando attentamente tra i molti giovani presenti, e, al di là di tutti un giovane solo che stava di fronte a me appoggiato ad una colonna di marmo e, cosa che non avevo fatto mai con alcun altro, spinta da un inevitabile destino, cominciai ad apprezzare tra me la sua persona ed i suoi atteggiamenti. Dico che, secondo il mio giudizio, non ancora occupato dall’amore, egli era d’aspetto bellissimo, piacevolissimo negli atti ed onestissimo nel comportamento, e della sua giovinezza rendeva evidente una barbetta che solo da poco tempo ricopriva le guance e mi guardava, fra una persona e l’altra, timidamente e in modo da destare tenerezza. Io trovai la forza di distogliere gli occhi dal fissarlo troppo, ma nessun altro evento, nonostante io compissi gli sforzi, potè deviare il pensiero dall’apprezzamento delle sue qualità sopra descritte. Ed essendosi impressa definitivamente la sua immagina nella mia mente, non so con quale segreto piacere tra me continuavo a figurarmela, e quasi confermando come vere, con maggiori argomenti, le qualità che di lui mi apparivano, talvolta con cautela osservavo se lui continuava a fissarmi, contenta di essere da lui guardata.
Ma ogni volta che io, non prendendo difesa dai lacci d’amore, lo guardavo lasciando i miei occhi fissi nei suoi più del dovuto, mi sembrava di scorgere in essi parole che dicevano: “Donna, tu sola sei la nostra beatitudine”. Certo se dicessi che tale parle non mi fossero piaciute, mentirei; anzi mi piacquero a tal punto che emisi un dolce sospiro che diceva “E voi la mia”. Se non che io, tornando me stessa, sottrassi le parole al sospiro. ma a cosa valse? Quello che non diceva, lo capiva il cuore, trattenendolo dentro di sé, che se fosse andato fuori, forse sarei libera. Dunque da questo momento in poi, concedendo maggiore libertà ai miei occhi folli, li appagavo di ciò di cui essi erano desiderosi; e certamente se gli dei, che muovono ogni cosa ad un determinato fine, non mi avessero privata della capacità di discernere, io sarei ancora in me; ma nonostante ogni proponimento fatto, assecondai il desiderio e subito mi misi nella condizione di essere catturata, per la qual cosa, come il fuoco scaglia se stesso da una parte all’altra, (così) una luce partì dai suoi occhi e traversando un raggio sottilissimo colpì i miei, ma non si accontentò di fermarsi in essi e anzi, non so per quali nascoste vie, se ne andò (da loro) penetrando subito nel cuore. Il cuore, spaventato dall’improvviso sopraggiungere di quella luce, richiamate a sé le forze esterne, mi lasciò pallida e quasi morta. Ma non fu lunga l’attesa, che sopraggiunse un evento contrario e non sentii il cuore solamente reso fervente, anzi le forze tornate nelle loro membra portarono con sé un calore, il quale cacciato il pallore mi rese rossissima e calda come il fuoco e chiedendomi meravigliata da dove quel fenomeno provenisse, sospirai. Nè da quel momento in poi potei avere nessun pensiero se non di piacere a lui.

Tuttavia, pur grazie ad un vero e proprio lavoro di scavo sull’animo femminile, l’opera, a livello di richiami, le Heroides di Ovidio, la Vita nuova di Dante, è ancorata ad una visione del mondo tipicamente medievale.

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Anonimo: Ritratto di Boccaccio (1568)

Ninfale fiesolano (1346): poemetto eziologico di 473 ottave.

Il pastore Africo corteggia, ma inutilmente la ninfa Mensola che appartiene al corteo di Diana, dea della caccia, e perciò votata alla castità. Con l’aiuto di Venere, dopo essersi travestito da donna, Africo riesce ad avvicinarla e a possederla. Temendo la punizione della dea, Mensola sfugge Africo, nonostante sia innamorata di lui, e il giovane, disperato, si uccide precipitandosi nelle acque del fiume che prende il suo nome. La ninfa partorisce un bambino, Pruneo; ma, nel tentativo di sfuggire all’ira di Diana che ha scoperto la sua trasgressione, anche Mensola cade in un ruscello e viene trasformata in acqua dalla dea. Si ripete così la vicenda di Mugnone, il nonno di Africo innamorato di una ninfa e trasformato anch’egli da Diana in un fiume. Pruneo sarà allevato dai genitori di Africo e diventerà ministro di Atlante, mitico fondatore di Fiesole.

E’ forse l’opera che mescolando la tradizione popolare con quella classica permette a Boccaccio un più accentuato realismo rispetto alle opere precedenti. Sono descritti con maggiore proprietà non solo gli ambienti campestri che si richiamano alla poesia elegiaca, ma anche reazioni e sentimenti degli stessi protagonisti.

AFRICO E MENSOLA

Mentre che tal consiglio si teneva,
     Un giovinetto, ch’Affrico avea nome,
     Il qual forse vent’anni o meno aveva,
     Senz’aver barba ancora, e le sue chiome
     Bionde e crespe, e ’l suo viso pareva
     Un giglio o rosa, ovver un fresco pome;
     Costui ind’oltre abitava col padre,
Senz’altra vicinanza, e con la madre.

Il giovine era quivi in un boschetto
     Presso a Dïana, quando il ragionare
     Delle ninfe sentì, che a suo diletto
     Ind’oltre s’era andato a diportare:
     Perchè fattosi innanzi il giovinetto
     Dopo una grotta si mise ascoltare,
     Per modo che veduto da costoro
     Non era, ed e’ vedeva tutte loro.

Vedea Dïana sopra all’altre stante
     Rigida nel parlare e nella mente,
     Con le saette e l’arco minacciante,
     E vedeva le ninfe parimente
     Timide e paurose tutte quante,
     Sempre mirando il suo viso piacente.
     Ognuna stava cheta, umíle e piana
Pe ’l minacciare che facea lor Dïana.

Poi vide che Dïana fece in piede
     Levar dritta una ninfa, che Alfinea
     Aveva nome, però ch’ella vede
     Che più che alcun’altra tempo avea,
     Dicendo: «Ora m’intenda qual qui siede:
     Io vo’ che questa qui in mio loco stea,
     Però ch’intendo partirmi da voi,
Sì che com’io obbedita sia poi.»

Affrico stante costoro ascoltando,
     Una ninfa a’ suoi occhi gli trascorse,
     La quale alquanto nel viso mirando,
     Sentì ch’amor per lei al cor gli corse,
     Che gli fer sentir gioia sospirando
     Le fiaccole amorose che gli porse;
     E un sì dolce disio, che già saziare
     Non si potea della ninfa mirare.

E fra sè stesso dicea: “Chi saria
     Di me più grazioso e più felice,
     Se tal fanciulla io avessi per mia
     Isposa? chè per certo il cor mi dice
     Che al mondo sì conlento uom non saria;
     E se non che paura mel disdice
     Di Dïana, io l’avrei per forza presa,
Che l’altre non potrebbon far difesa.”

Lo innamorato amante in tal maniera
     Nascoso stava in fra le fresche fronde,
     Quando Dïana veggendo che sera
     Già si faceva, e che ’l sol si nasconde,
     Che già perduta avea tutta la spera,
     Con le sue ninfe assai liete e gioconde
     Si levar ritte, e al poggio salendo
Di dolce melodia canzon dicendo.

Affrico quando vide che levata
     S’era ciascuna, e simil la sua amante,
     Udì che da un’altra fu chiamata:
     Mensola adianne, e quella su levante,
     Con l’altre tosto sì si fu inviata:
     E così via n’andaron tutte quante,
     Ognuna a sua capanna si tornoe,
     Poi Diana si partì e lor lascioe.

Avea la ninfa forse quindici anni,
     Biondi com’oro e grandi i suoi capelli,
     E di candido lin portava i panni;
     Due occhi ha in testa rilucenti e belli,
     Che chi gli vede non sente mai affanni,
     Con angelico viso e atti snelli,
     E in man portava un bel dardo affilato:
Or vi ritorno al giovane lasciato;

Il qual soletto rimase pensoso
     Oltramodo dolente del partire
     Che fe’ la ninfa col viso vezzoso,
     E ripetendo il passato disire,
     Dicendo: “Lasso a me, che ’l bel riposo
     C’ho ricevuto mi torna in martire,
     Pensando ch’io non so dove in qual parte
Cercarmene giammai, o con qual arte.

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Libero Andreotti: Africo e Mensola (1933)

Mentre aveva luogo il concilio delle ninfe, un giovane di nome Africo, dell’età di vent’anni o forse meno, ancora imberbe, dai capelli biondi e ricciuti ed un viso che sembrava un giglio o una rosa o un fresco frutto, (ebbene) costui abitava poco più in là col padre e con la madre, e non aveva altri vicini. // Il giovane si trovava in un boschetto vicino a Diana, quando udì il parlare delle ninfe, mentre era andato a passeggiare per svago; essendosi avvicinato a causa di ciò, il giovane si mise ad ascotare dietro una roccia, in modo tale da vedere tutte le ninfe e non essere visto. // Vedeva Diana che stava in posizione di preminenza sulle altre, severa nelle parole e nell’animo, mentre le minacciava con le saette e l’arco; e vedeva le ninfe tutte quante ugualmente timide e timorose, che contemplavano il bel viso di Diana e che stavano tutte in silenzio, umili e sottomesse, a causa dell’atteggiamento minaccioso di Diana nei loro confronti. //  Poi vide che Diana ordinò ad una ninfa di nome Alfinea di alzarsi dritta in piedi, in quanto si accorse che quella aveva più anni delle altre, e disse: «Ora mi ascolti chiunque sieda qui: io voglio che questa ninfa prenda il mio posto, poiché io ho intenzione di allontanarmi da voi, cosicché voi ubbidiate in seguito a lei, così come (ora) a me.» // Mentre Africo le stava ascoltando, tra le altre ninfe gliene appare una e, contemplando a lungo il suo viso, si accorse che Amore lo stava facendo innamorare di lei, tanto che produsse in lui, cher già sospirava, il fuoco della passione: ciò gli procurò un desiderio così dolce, che non era mai appagato dal guardare quella ninfa. // E fra sé diceva: “Chi sarebbe più privilegiato e più felice di me se potessi sposare quella fanciulla? Perché il cuore mi dice che certamente al mondo un uomo così fortunato; e se non fosse che la paura che provo nei confronti di Diana me lo sconsiglia, io la costringerei con la forza, perché le altre non potrebbero difenderla.” // L’amante innamorato stava nascosto fra i freschi rami, quando Diana, accorgendosi che ormai si stava facendo sera e che il sole stava calando e l’intero globo era già nascosto sotto la linea dell’orizzonte, insieme alle sue ninfe si alzarono in piedi e salirono sull’altura, cantando canzoni di belle melodie. // Africo, quando vide che ognuna delle ninfe si era alzata, ed anche la sua amata, la sentì chiamare da un’altra: «Mensola, andiamocene»; e quella, alzandosi, raggiunse immediatamente le altre. E così se ne andarono via tutte quante: ognuna tornò alla sua capanna e poi Diana si allontanò e le lasciò. // La ninfa aveva forse quindici anni; i suoi capelli erano biondi e lunghi, e portava vestiti di candido lino; (aveva) gli occhi luminosi e belli, (tanto) che chi li guarda non è oppresso da preoccupazioni; aveva un viso angelico e i suoi gesti (erano) pieni di grazia, e in mano portava una bella freccia affilata. Ora torno a raccontarvi del giovane Africo che abbiamo lasciato. // Costui rimase da solo a pensare, alquanto addolorato per l’allontanamento della ninfa dal bel viso e, rimpiangendo il desiderio passato diceva: “Povero me, che il momento di gioia che ho appena vissuto si trasforma ora per me in sofferenza, perchè penso che non saprei dove o in qual luogo cercare quella gioia ormai, o con quale espediente.”
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Libero Andreotti: Africo e Mensola (1933)

Al di là della convenzionalità del testo in cui si affronta il tema della castità (Diana) e dell’amore (Venere), quello che qui colpisce e la facilità versificatoria la quale sembra rifarsi ai cantari popolari. D’altra parte anche questa volta ricorre al mito delle ninfe come votate alla castità, in quanto ancelle di Diana (si veda la Caccia di Diana), mentre vuole esaltare l’amore “naturale” comandato da Venere, ma al di là della realizzazione di esso, quello che qui conta è la maggiore capacità, grazie al distacco, della narrazione in sé.  E’ evidente, d’altra parte, che il tema sia mescolato con quello eziologico ad imitazione ovidiana, laddove appunto si parla di metamorfosi con cui si dà spiegazione ai fiumi fiorentini.

DECAMERON

Il capolavoro di Boccaccio s’inserisce ed interpreta in modo mirabile il concetto secondo il quale la narrazione non è solo una rappresentazione del mondo così com’è, ma una sua interpretazione, secondo le esigenze narrative dell’autore.

Per far questo Boccaccio raccoglie, non si sa quanto consapevolmente, nel suo lavoro una serie di fonti che potremo qui sintetizzare:

  • Tradizione classica, soprattutto Ovidio ed il romanzo di Apuleio L’asino doro o le Metamorfosi;
  • Il romanzo cortese-cavalleresco sia in senso alto con i romanzi francesi/cortesi, sia in senso popolare, con la loro riproposizione da giullari di corte e saltimbanchi di piazza);
  • I libri di cronaca contemporanea;
  • Il Novellino, raccolta anonima del XIII sec.
  • Una conoscenza (probabilmente indiretta) della novellistica araba (Le Mille e una notte);
  • La Comedìa dantesca, da lui follemente amata.

Il titolo dell’opera, termine coniato dalla lingua greca, sta a significare “di dieci giorni”: dieci sono infatti i giorni in cui i giovani dell’“onesta brigata” raccontano cento novelle, lontano dalla terribile peste (seppur la loro permanenza sarà di due settimane).

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Edizione del Decameron del 1813

La struttura con cui si struttura l’opera presenta:

Un proemio, con un narratore di primo grado che dedica l’opera alle donne e ne spiega il motivo;

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Franz Xaver Winterhalter: Il Decameron (1837)

PROEMIO

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra’ quali, se alcuno mai n’ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovanezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d’altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare, più di noia che bisogno non m’era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d’alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avenuto che io non sia morto. Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn’altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.
Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de’ benifici già ricevuti, datimi da coloro a’ quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche; né passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall’altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono, alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abisogna, a quegli almeno a’ quali fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostentamento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia a’ bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e sì ancora perché più vi fia caro avuto.
E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro a’ dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l’amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l’hanno provate: e oltre a ciò, ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopraviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l’andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de’ quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte,l’animo a sé e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.
Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri.

E’ umano aver compassione delle persone afflitte, e benché si addica a tutti, è soprattutto richiesto a coloro i quali hanno già ricevuto conforto e lo hanno trovato in alcune persone; fra le quali, se alcuno n’ebbe bisogno, e gli fu gradito e ne ha già ricevuto piacere, io sono uno di quelli. Per il fatto che, sin dalla gioventù fino ad oggi, essendo stato estremamente acceso da un altissimo e nobile amore, sembrerebbe, se lo narrassi, forse più alto di quanto convenisse alla mia bassa condizione, per quanto presso coloro che erano discreti e che ne avevano avuto notizia io ne fossi lodato e da molti considerato, nonostante ciò (quest’amore) fu per me di grandissima fatica a sopportare, certo non per crudeltà della donna amata, ma per un eccessivo fuoco della mente concepito da un desidero non regolato; il quale, dal momento che nessun limite mi lasciava soddisfatto, più dolore di quanto avessi bisogno, mi faceva spesso provare. Nel quale dolore tanto conforto mi diedero i ragionamenti di qualche amico e le sue lodevoli consolazioni, che sono fermamente convinto che grazie a ciò non sia avvenuto che io sia morto. Ma come piacque a Dio, che, nella sua infinità, diede per legge inesorabile la fine di ogni cosa terrena, il mio amore, più appassionato di ogni altro, che nessun proposito o consiglio o vergogna o anche pericolo che ne poteva derivare, non era valso a spezzare e terminare, da se stesso, in un lasso di tempo, diminuì di modo che, ora, mi ha lasciato solo un ricordo piacevole, che è dato a chi non è solito recarsi in mari pericolosi, il quale (ricordo) prima era doloroso, e ora, andato via l’affanno, si è trasformato in dilettevole. Sebbene la pena sia terminata, non è perduta la memoria dei benefici ottenuti da coloro ai quali per benevolenza erano affannose le mie fatiche; né terminerà mai, se non con la morte. E per il fatto che la gratitudine, tra le altre virtù, è da lodare grandemente e non biasimare, per non sembrare ingrato mi sono proposto di voler, per quanto io possa, in cambio di quella che ho ricevuto, dal momento che mi sono liberato dalle pene d’amore, e non certamente a coloro che mi aiutarono, i quali mostrano di non averne bisogno o per caso, o per capacità o per fortuna, a coloro ai quali è necessario, voler offrire qualche sollievo. E sebbene il mio sollievo o conforto, se preferiamo chiamarlo così, possa essere poca cosa a coloro che ne abbiano bisogno, tuttavia mi sembra doverlo porgere dove il bisogno sia maggiore, sia perché sarà utile, sia perché sarà più gradito l’averlo ricevuto. E chi negherà, sebbene sia piccola cosa, dover offrire il conforto più alle donne che agli uomini? Esse, dentro i petti delicati, con paura e vergogna, tengono le fiamme amorose nascoste, che, come sa chi ne ha esperienza, hanno più forza di quelle rivelate; oltre a ciò, costrette dai voleri, dai piaceri e dai comandi dei padri, delle madri, dei fratelli e dei mariti, la maggior parte del tempo lo passano chiuse nel piccolo ambito delle loro camere e siedono oziose, desiderando e non desiderando nello stesso tempo, rivolgendo diversi pensieri con se stesse, che non è possibile siano sempre allegri. E se per quei pensieri, un po’ di malinconia sopraggiunge, derivata dal fuoco dell’amore, è necessario, in loro è inevitabile che si dimori con turbamento, se tale malinconia non è rimossa da nuovi pensieri: per non dire che le donne sono meno forti degli uomini a sopportarla; ciò non avviene agli uomini innamorati, come è facile dimostrare. Loro, se qualche pena d’amore li affligge, hanno molti modi per trovare sollievo o superarla; infatti, solo volendolo, hanno la possibilità di andare in giro, ascoltare e vedere molte cose, andare a caccia di uccelli e di selvaggina, pescare, andare a cavallo, giocare o fare il mercante, dai quali modi, ognuno di essi ha la forza, in tutto o in parte, di trarre a sé il pensiero o allontanarlo per un certo periodo di tempo, a seguito del quale o si giunge alla consolazione o ad un tormento d’amore minore. Dunque, affinché io possa ricompensare il torto della fortuna (fatto alle donne), la quale laddove esse erano meno forti, come vediamo essere le donne, fu più avara nel sostentarle, in soccorso e rifugio di quelle che sanno cosa sia l’amore, perché alle altre basta l’ago, il fuso e l’arcolaio, intendo raccontare cento novelle, o favolette o parabole o storie, come le vogliamo chiamare, raccontate in dieci giorni da un’“onesta brigata” di sette donne e tre giovani uomini, nel tempo della pestilenza che ha portato molti lutti e alcune canzonette cantate dalle donne secondo il loro piacere. Nelle cui novelle troveranno piacevoli e tristi storie d’amore, ed altri soggetti a caso sia dei tempi moderni come degli antichi; dalle cui novelle le donne, dopo averle lette, potranno prendere diletto e utile consiglio, in quanto potranno conoscer ciò che bisogna “imitare” o “fuggire, le cui cose, senza noia, non credo possano accadere. E se ciò dovesse avvenire, voglia Iddio che sia così, ne rendano grazie ad Amore, il quale liberandomi dai suoi lacci, mi ha permesso di dedicarmi ai loro piaceri.

Il Proemio presenta, efficacemente, alcuni temi fondamentali:

  • Il fatto di inserirlo, all’inizio dell’opera, come elemento in cui si sottolinea sia l’autobiografismo che il destinatario altro (le donne), fa percepire che la stessa è unitaria e non una raccolta casuale di racconti;
  • Il rispetto della tradizione cortese che vede le donne lettrici di romanzi cortesi (si pensi, qui, all’episodio dantesco di Paolo e Francesca); tuttavia qui Boccaccio sottolinea quali donne siano le loro lettrici: nobili, ricche borghesi, colte;
  • Novelle con scopo edonistico e non solo: si ripete “classicamente” il concetto di insegnare e nel contempo offrire piacere. E’ ben inserito e sottolineato il fine dell’opera: far sì che le giovani donne imparino cosa è giusto fare e come comportarsi in una società uscita dallo sconvolgimento della peste.

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Luigi Sabatelli: Incisione sulla peste di Firenze del 1348 dal Boccaccio descritta

Al Proemio segue un’introduzione alla prima giornata, sempre con un narratore di primo grado, in cui si racconta della peste del 1348, dell’incontro dei giovani in chiesa, della decisione di recarsi in campagna e di come strutturare il tempo, cioè con l’organizzarsi nel raccontare, ognuno di loro, una novella al giorno sotto la direzione di una o un giovane che si alterneranno nel ruolo di re / regina che ne detterà l’argomento (soltanto due giorni, il primo e il nono, saranno a tema libero). All’impegno di raccontare secondo il tema deciso, sarà esonerato il solo Dioneo.

La peste del 1348:

INTRODUZIONE: LA PESTE

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn’altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata. E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da officiali sopra ciò ordinati e vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell’anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d’essa a’ maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun’altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s’incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.
A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de’ medicanti (de’ quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra ‘l terzo giorno dalla apparizione de’ sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente morivano. E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare. Maravigliosa cosa è a udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l’avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l’uomo all’uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell’uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell’uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l’altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d’un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co’ denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.
Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e imaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele, ciò era di schifare e di fuggire gl’infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno a se medesimo salute acquistare.

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Ammalati di peste bubbonica (Illustrazione del 1411)

Erano ormai trascorsi 1348 anni dall’Incarnazione di Cristo, quando nella nobile città di Firenze, la più bella tra tutte le altre città, giunse la pestilenza, la quale o a causa dei cieli, o per colpa delle nostre colpe peccaminose mandata da Dio sopra i mortali, già iniziata, alcuni anni prima in Oriente, dove aveva causato innumerevoli morti, senza mai fermarsi, passando di luogo in luogo era giunta in Occidente con incredibili conseguenze. E poiché non valeva alcun senno o proponimento, per il quale la città fu pulita da molte sporcizie grazie ad ufficiali preposti a tale officio, per il divieto di alcun malato di entrare in città, di consigli per la pubblica sanità, e né ancora umili suppliche e processioni devozionali fatte da persone puramente religiose, all’inizio della primavera la peste cominciò a mostrare i suoi terribili effetti. E non si era manifestata come ad Oriente, dove l’uscita del sangue dal naso era indizio sicuro di morte, ma fa certi bubboni nell’inguine o sotto le ascelle sia nei maschi che nelle femmine; alcuni di questi crescevano delle dimensioni o di una mela comune, o di un uovo o tra l’uno o l’altro e queste il popolo chiamava ” “gaviccioli”. Da queste due parti corporali il bubbone cominciava ad espandersi ad altre parti del corpo; in seguito la malattia comincia a manifestarsi in macchie livide o nere, le quali nelle cosce, nelle braccia ed in altre parti del corpo apparivano a molti, ad alcuni spesse e rade, ad altri piccole e numerose. E come il bubbone era stato per coloro a cui era venuto indizio di morte, lo stesso per coloro che erano stati colpiti da macchie scure e livide. Per curare tale infermità non valevano né i consigli dei medici, né nessuna virtù medicinale: anzi o che la pestilenza non li sopportasse o l’ignoranza degli uomini (sia di medici che di maschi e femmine che non avevano alcuna scienza, ma il cui numero era cresciuto enormemente) che non capiva da dove provenisse tale malattia e pertanto non si sapesse come curarla, fece sì che non solamente pochi ne guarivano, anzi dopo tre giorni dall’apparizione dei segni, chi più e chi meno ne morivano. E questa pestilenza fu di particolare virulenza tanto che soltanto il comunicare tra un malato ed un sano determinava l’infezione di quest’ultimo, non diversamente come fa il fuoco con le cose secche o unte, che gli si sono avvicinate troppo. E più avanti ancora casi più gravi avvenivano, perché non solamente il parlare insieme infettava i sani, ma anche toccare i panni o qualunque cosa fosse stata toccata dalle persone malate. E’ straordinario quello che voglio dirvi, che se non fosse stato veduto da molta gente e da me, anch’io avrei avuto difficoltà a crederci, meno che mai a scriverlo, anche se l’avessi udito da persona degna di fede. Dico che la trasmissione della malattia dall’uno all’altro fosse tanto efficace, che non solamente da uomo a uomo, ma, cosa assai maggiore, fece sì che una cosa posseduta da un malato, o morto di pestilenza, toccata da un altro animale, che non sia uomo, non solamente contaminasse all’animale la malattia, ma lo conducesse addirittura alla morte. Ho visto con gli occhi miei, come ho detto precedentemente, che, essendo gli stracci di un uomo morto di pestilenza gettati in strada e avventandosi su di essi due maiali e, secondo il loro costume, avvicinandosi prima col muso, poi presi per i denti e dopo averli scossi con la bocca, dopo poco tempo, dopo alcuna contorsione, come se avessero assunto del veleno, ambedue sopra i panni malamente gettati in strada caddero morti. Da queste cose e e da altri simili nacquero sospetti e paure in quelli che rimanevano vivi, tutti attenti ad un solo fine: evitare ed allontanare i malati, credendo, così, di salvarsi.

A questo passo segue la descrizione di come la peste non abbia solo recato morte e distruzione, ma anche un allentamento della fondamentale legge morale che regola la vita in comune: chi pensando di morire in poco tempo, si lasciava andare a piaceri eccessivi, o, al contrario, si ritirava tanto da non veder più nessuno; chi, all’interno delle stesse famiglie, laddove ci fosse un malato, dimenticava ogni affetto familiare disconoscendo i genitori e questi i figli. Anche le esequie dei morti perdono il loro decoro, visto il numero eccessivo dei decessi e la paura di toccarli.

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William Waterhouse: A tail from Decameron (1916)

In questo disordine prende vita una nuova società. All’interno della Chiesa di Santa Maria Novella, sette donne, tra i diciotto e ventotto anni, tutte “cortesi” e dal nobile portamento, su consiglio di Pampinea, decidono di allontanarsi da quel luogo di desolazione e rifugiarsi in campagna. Ma si ritiene opportuna la presenza maschile, che viene esaudita dall’arrivo di tre giovani uomini (di cui il più piccolo aveva venticinque anni). Si forma così l’onesta “brigata”, che il giorno seguente, preceduta dai fanti di ciascuno, si reca in campagna:

LOCUS AMOENUS

Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii arbuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori quali nella stagione si potevano avere piena e di giunchi giuncata la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere.

Il luogo era su una piccola montagnetta, lontano da tutte le nostre strade, piacevole a guardare per i diversi alberelli e per le piante dalle verdi foglie; sulla cima di tale montagnetta vi era un palazzo, con un cortile bello e grande all’interno, un loggiato, sale e camere, tutte bellissime per sé e rese eleganti e ornate con piacevoli dipinti, con piccoli prati che le circondavano e con giardini meravigliosi e pozzi d’acqua limpidissima e cantine di vini preziosi: cose più adatte ai bevitori esigenti che ad oneste donne. Tutto era pulito, i letti fatti e ogni angolo della casa abbellito di fiori di stagione e di giunchi.

Giunti in tale luogo si dispone che venga eletto un re o una regina per ciascun giorno e che disponga cosa si debba fare. Viene eletta per la prima giornata Pampinea, la quale, dopo aver distribuito i compiti per i vari fanti e aver fatto rilassare i compagni, li riunisce e propone loro di raccontare, ciascuno, una novella, il cui argomento sarà deciso appunto dal re o dalla regina. Lei, essendo la prima, lascerà libera scelta a ciascun novellatore.

L’Introduzione alla prima giornata ha un orrido cominciamento, come ci dice lo stesso autore. Perché? E’ piuttosto naturale che tale scelta sia dovuta per:

  • credibilità narrativa: sarebbe stato impossibile per sette donne e tre uomini allontanarsi da soli in campagna senza la motivazione di non aver la possibilità di incorrere nel contagio della pestilenza;
  • chiaroscuro tonale: l’immagine dei giovani si contrappone a quella dei morti, così come la loro voglia di stare insieme alla solitudine dei malati; si veda ancora il verde e l’aria pura della campagna contro l’aria ammorbata dentro le mura;
  • Il divario tra fortuna e virtù (fondamentale in Boccaccio): sembra quasi che al caso che ha deciso di seminare morte e barbarie si contrapponga la virtù dei dieci giovani il cui vivere in modo onesto allontani il pericolo.

Concludiamo la cosiddetta parte della cornice con una riflessione dello stesso narratore di primo grado, posta come introduzione alla quarta giornata:

INTRODUZIONE ALLA QUARTA GIORNATA

Carissime donne, sì per le parole de’ savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette, estimava io che lo ‘mpetuoso vento e ardente della invidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le più levate cime degli alberi; ma io mi truovo dalla mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani, ma ancora per le profondissime valli tacito e nascoso mi sono ingegnato d’andare. Il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali, non solamente in fiorentin volgare e in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più possono. Né per tutto ciò l’essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato e tutto da’ morsi della invidia esser lacerato, non ho potuto cessare. Per che assai manifestamente posso comprendere quel lo esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti.
Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, e alcuni han detto peggio, di commendarvi, come io fo. Altri, più maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia età non sta bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei più saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi.
E son di quegli ancora che, più dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei più discretamente a pensare dond’io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri in altra guisa essere state le cose da me raccontate che come io le vi porgo, s’ingegnano, in detrimento della mia fatica, di dimostrare.
Adunque da cotanti e da così fatti soffiamenti, da così atroci denti, da così aguti, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato e infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto e intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze; anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggiera risposta tormegli dagli orecchi, e questo far senza indugio. Per ciò che, se già, non essendo io ancora al terzo della lo mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resistere varrebbero le forze vostre. 

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Donne del Medioevo

L’autore racconta la novella di Filippo Balducci e delle papere. Il fiorentino Filippo Balducci, rimasto sconvolto dalla morte della moglie, decide di ritirarsi in un eremo con il figlio di due anni, lontano da ogni tentazione temporale, per dedicarsi solo alla preghiera e all’amore per Dio: recatosi molti anni dopo a Firenze, di fronte alla curiosità del figlio, ormai adulto, che gli chiede che cosa mai siano alcune belle ragazze che in quel momento passano per strada, risponde che si chiamano papere e sono mala cosa. Il figlio, per niente convinto, risponde che sono più belle degli angeli dipinti che il padre gli ha mostrato e di fare in modo di condurne una a casa che le darà da beccare (con significato equivoco)  

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Meli Valdés Sozzani: Novella delle papere (2013)

Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare l’aver conosciuti gli amorosi baciari e i piacevoli abbracciari e i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono; ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria e oltre a ciò la vostra donnesca onestà, quando colui che nutrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini di una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate.
Riprenderannomi, morderannomi, lacerrannomi costoro se io, il corpo del quale il ciel produsse tutto atto ad amarvi, e io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la virtù della luce degli occhi vostri, la soavità delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno, e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovinetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama, e da voi non disidera d’essere amato, sì come persona che i piaceri né la virtù della naturale affezione né sente né conosce, così mi ripiglia, e io poco me ne curo.
E quegli che contro alla mia età parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde. A’quali lasciando stare il motteggiare dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello estremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi, e messer Cino da Pistoia vecchissimo, onor si tennono e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mosterrei d’antichi uomini e valorosi, ne’loro più maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne: il che se essi non sanno, vadino e sì l’apparino.
Che io con le Muse in Parnaso mi debbia stare, affermo che è buon consiglio, ma tuttavia né noi possiam dimorare con le Muse né esse con esso noi; se quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare. Le Muse son donne, e benché le donne quello che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle; sì che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere. Senza che le donne già mi fur cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furon di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’mille; e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse e in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano, quanto molti per avventura s’avvisano.
Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so; se non che, volendo meco pensare qual sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m’avviso che direbbono: – Va cercane tra le favole – . E già più ne trovarono tra le lor favole i poeti, che molti ricchi tra’lor tesori. E assai già, dietro alle lor favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver più pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che più? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro; non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e, quando pur sopravenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessità sofferire; e per ciò a niun caglia più di me che a me.
Quegli che queste cose così non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali, se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la loro riprensione e d’amendar me stesso m’ingegnerei; ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dallo aiuto di Dio e dal vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiare; per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire, che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto, e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degli imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, più giù andar non può che il luogo onde levata fu.
E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora più che mai mi vi disporrò; per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrà alcuna con ragione, se non che gli altri e io, che vi amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi, cioè della natura, voler contastare, troppe gran forze bisognano, e spesse volte non solamente in vano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo; e se io l’avessi, più tosto ad altrui le presterrei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne lori diletti, anzi appetiti corrotti standosi, me nel mio, questa brieve vita che posta n’è, lascino stare. 

Carissime donne, sia per aver ascoltato le parole dei saggi uomini, sia per le cose viste e lette, credevo che l’impetuoso vento dell’invidia non dovesse colpire se non le alti torri o le più elevate cime degli alberi: ma ho scoperto di essermi sbagliato. Per questo che mi ero ingegnato di andare soltanto per pianure e profondissime valli, e ciò appare palese a chi osservi le presenti novelle, che non solamente sono state scritte da me in fiorentino volgare ed in prosa e senza alcun titolo, ma sono anche (state scritte) in uno stile umilissimo  e dimesso più di quanto si potesse fare. Nonostante ciò non ho potuto evitare di essere fortemente scrollato, anzi vicino allo sradicamento dal vento dell’invidia e completamente lacerato dai suoi morsi; per questo è evidente quanto si dice da parte dei saggi uomini, che solamente la miseria è senza invidia nelle cose terrene.
Ci sono stati alcuni, discrete donne,  che leggendo queste novellette, hanno detto che voi mi piacete troppo e non è onesto che io provi tanto piacere nel piacervi e divertirvi e, alcuni hanno detto peggio, di elogiarvi, come faccio io. Altri, mostrando di volermi riprendere in modo più saggio, hanno detto che alla mia età non sta bene andare dietro a queste cose, cioè a ragionare di donne o a compiacerle. E molti, mostrandosi interessati  alla mia fama, dicono che sarebbe meglio io stessi con le Muse sul monte Parnaso, piuttosto che mescolarmi in tale chiacchiere con voi. Altri ancora che, più con dispetto che con ragione, hanno detto che mi comporterei più saggiamente pensando a come guadagnarmi la vita piuttosto che nutrirmi di vento con tali sciocchezze. E certi altri, per togliere valore alla mia fatica, s’ingegnano di dimostrare che le cose da me raccontate sono andate in maniera diversa da come le racconto io.
Dunque da così intensi  e inspirati venti dell’invidia, da zanne così atroci ed appuntite, mentre scrivo in vostro onore, valorose donne, sono sospinto, molestato e colpito nel vivo. Chiacchiere che io, con animo tranquillo, lo sa Dio, ascolto e capisco: e benché la mia difesa contro queste accuse spetti tutta a voi, non intendo affatto venir meno da me stesso, anzi, senza rispondere con la durezza che sarebbe necessaria, con qualche risposta arguta, senza alcun indugio, togliermi (quel chiacchiericcio) dagli orecchi. Perché, già ora che non sono giunto neppure ad un terzo della mia opera (si è appena conclusa la terza giornata), gli invidiosi e sono molti ed hanno abbastanza baldanza e temo che prima che io giunga alla fine dell’opera, essi potrebbero moltiplicarsi  e con un minimo sforzo mi rovinerebbero, se ora non dessi loro una risposta. Né per questo, sebbene le vostre forze siano grandi, potrebbero resistere.
(…)
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Donne del Medioevo

Giovani donne, dicono molti dei miei accusatori che io faccio male nello sforzarmi di piacervi e che voi mi piacete troppo. Cose che confesso senza difficoltà, cioè che voi mi piacete e che io mi sforzo di piacervi: vorrei domandare loro se si meravigliano di questo mio interesse per voi, considerando, non dico quel che tutti hanno conosciuto, i baci d’amore, i piacevoli abbracci, gli incontri intimi gioiosi che con voi, donne dolcissime, spesso si hanno, ma solamente di aver veduto e continuamente visto gli eleganti costumi, la raffinata bellezza e la garbata grazia e, oltre a ciò, la femminile onestà, quando colui che nutrito, allevato, cresciuto in un monte solitario e selvatico, entro angusti limiti, senz’altra compagnia se non paterna, appena vi vide foste da lui desiderate, richieste, affettuosamente domandate. (Si riferisce alla novella di Filippo Balducci).
Mi riprenderanno, mi morderanno, mi lacereranno costoro se io, il corpo del quale è stato fatto da Dio per amarvi, sin dalla fanciullezza volsi l’anima verso di voi, sentendo la virtù dei vostri occhi, la dolcezza delle vostre parole e il divampare d’amore per i vostri pietosi sospiri; se voi mi piacete e io mi sforzo di piacervi, soprattutto pensando che voi prima di ogni altra cosa siete piaciute ad un  piccolo eremita, ad un giovane che non conosceva i sentimenti, anzi a un animale selvatico? Certamente sono ripreso da chi non vi ama e non desidera essere amato da voi, come una persona che non conosce e non sente i naturali affetti; ma di costoro non mi curo. 
E coloro che parlano contro la mia età, mostrano di non conoscere che il porro ha il capo bianco ma la coda verde: a costoro, lasciando da parte gli scherzi, risponderò che mai mi vergognerò fino alla fine della mia vita di compiacere quelle cose che Guido Cavalcanti e Dante Alighieri già vecchi e il vecchissimo Cino da Pistoia onorarono e fu gradito loro il compiacerle. E se non fosse fuori dal ragionamento, metterei in mezzo la storia, e mostrerei come essa è piena di uomini antichi e valorosi che pur avanti negli anni hanno non hanno cessato di compiacere le donne e se chi mi critica non lo fa, studino la storia e la imparino.
Che io debba stare con le Muse ritengo sia un buon coniglio, ma noi non possiamo stare sempre con esse, né esse con noi. Se talvolta capita che l’uomo si allontani da esse, non è da biasimare se si rivolge a cose che somigliano a loro: le Muse sono donne e seppure le donne non le possono eguagliare, a prima vista le somigliano, tanto che, se le donne non dovessero piacermi, dovrei amarle solo per questo; senza aggiungere che esse furono il motivo della composizione di più di mille versi, mentre le Muse per alcuno. Mi aiutarono tuttavia e mi mostrarono come comporre quei mille; e forse a scrivere queste novelle, quantunque siano estremamente umili, sono venute spesso a stare con me, in servizio  e in onore della somoglianza che le donne hanno con loro, per cui, elaborando le novelle, né mi allontano dal monte Parnaso né dalle Muse, quanto molti magari ritengono. 
Ma che diremo noi a coloro che, preoccupandosi della mia sorte, mi consigliano di guadagnare il pane (con altro pèiuttosto che con le novelle)? Non lo so, senonché, pensando a quale sarebbe la loro risposta se dovessi domandarlo loro, credo mi direbbero: «Va e cercalo tra le favole”. E già ne trovarono (di sostentamento) più tra le favole i poeti, che molti ricchi tra i tesori, e molti, andando dietro alle favole, vissero a lungo, al contrario, molti ricchi, cercando d’esserlo di più, morirono in giovane età.  Che più? Mi caccino costoro se chiedo loro del pane, benché, grazie a Dio, ancora non ne abbia bisogno e quando sopravvenisse la necessità io so, come disse San Paolo, vivere bene nell’abbondanza e sopportare con pazienza la povertà, e per ciò a nessuno importa più di me che a me stesso.
Quelli che dicono che i fatti raccontati nelle mie novelle non si sono svolti in questo modo, vorrei me la dicessero loro la verità, che se fosse così diversa da ciò che scrivo, direi che hanno ragione e mi adopererei per correggermi, ma finché essi si limitano a riprendermi con le parole, li lascerò della loro opinione, seguendo io la mia, dicendo di loro ciò che loro dicono di me.
E avendo per questa volta risposto a sufficienza, affermo che con l’aiuto di Dio e con il vostro, gentilissime donne, aiuto nel quale io spero, armato di buona pazienza, procederò, lasciandomi alle spalle questo vento (d’invidia) e lasciandolo soffiare, perché io reputo che non mi  possa accadere che quello che accade alla polvere sottile, la quale, quando soffia un vento impetuoso,  o lo stesso non la muove da terra o, se la muove, la porta in alto sopra la testa degli uomini e talvolta la lascia sopra gli alti palazzi e sopra le torri elevate; da cui, quando cade, non può andare più giù da dove era partita. E se mai avevo deciso di compiacervi con tutta la mia forza, ora più che mai mi ci proverò, dal momento che so che nessuno potrà dirmi altro con ragione se non che gli altri ed io che vi amiamo, operiamo secondo l’ordine delle cose, alle quali, se volessimo opporci ci vorrebbero grandi forze che spesso s’adoperano non solamente in modo inutile, ma anche con danno di chi le ha adoperate. Queste forze confesso di non averle né le desidero per questo lavoro e se le avessi piuttosto le presterei piuttosto d’adoperarle. Per cui tacciano i malevoli e se essi non possono provare il sentimento dell’amore, vivano nel gelo; e stando così nel loro diletto, anzi nelle loro voglie corrotte, lascino stare me nel mio (diletto) per questa breve vita che ci è concessa. 

E’ un passo importante perché a delle accuse circostanziate troviamo delle risposte altrettanto circostanziate che ci dicono anche quale sia la sua visione poetica.

I critici verso di lui affermano che:

  1. Egli loda troppo le donne;
  2. Donne ed amori non sono adatti all’età matura;
  3. La sua opera è di genere letterario troppo basso
  4. Tratta di una materia inutile
  5. Non racconta cose vere       

Le sue risposte sono:

  1. Se tutti desiderano le donne, esse sono “naturalmente” buone (a tale fine scrive la novella di Filippo Balducci dimostrando come l’attrazione verso di esse sia naturale);
  2. Il desiderio sessuale non cessa con l’età matura e ciò viene dimostrato da tutta la letteratura precedente (che ne racconta la bellezza);
  3. Le donne sono Muse e le Muse sono donne. Se le prime lo hanno ispirato, le seconde si sono sedute al suo fianco anche se la sua produzione è umile, cioè rivendicando ad essa la letterarietà;
  4. Forse la cultura non arricchisce “materialmente”, ma rende ricca la civiltà cui è rivolta;
  5. Afferma che egli nelle novelle abbia seguito il vero e quindi rivendica la natura essenzialmente realistica della sua opera; 

Vogliamo qui ricordare che il Proemio, l’Introduzione alla Prima giornata, l’Introduzione alla Quarta giornata e le Conclusioni dell’Autore costituiscono la cosiddetta “cornice” entro la quale inserire la molteplicità del reale boccacciano.

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Raffaello Sorbi: Decamerone (1876)

PRIMA GIORNATA

Quindi dopo aver disposto i compiti tra i fanti e giunta l’ora, l’“onesta brigata” si riunisce e la regina, Pampinea, dispone che “Per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado.”, cioè il tema del narrare sia libero, e lascia la parola al primo novellatore, Panfilo.

Costui, prima di cominciare il raccontare vero e proprio, fa una lunga e articolata premessa nella quale scinde tra il giudizio divino ed il giudizio umano; infatti l’uomo, nella sua umiltà, non sempre si rivolge per esaudire le sue preghiere a Dio, ma ai santi; tuttavia l’uomo non può sapere se la persona cui si rivolge è stata effettivamente accolta dal Signore o, come dice Panfilo stesso, esiliata da Lui. Tuttavia basta la sincerità con la quale gli si rivolge, al di là del mezzo cui ci serviamo, e ciò permette al Signore stesso di esaudirci.

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Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. La vicenda di Ser Ciappelletto

SER CEPPARELLO CON UNA FALSA CONFESSIONE INGANNA UN SANTO FRATE E MUORSI; E, ESSENDO STATO UN PESSIMO UOMO IN VITA, E’ MORTO REPUTATO PER SANTO e CHIAMATO SAN CIAPPELLETTO.
(I,1)

Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio addomandato e al venir promosso, sentendo egli gli fatti suoi, sì come le più volte son quegli de’ mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone; e a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni. E la cagion del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse. E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepperello da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava. Il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.
Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de’ suoi strumenti, come che pochi ne facesse, fosse altro che falso trovato; de’ quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richesto e non richesto; e dandosi a que’ tempi in Francia a’ saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de’ quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d’allegrezza prendea. Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v’andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de’ santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli. Delle femine era così vago come sono i cani de’ bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella conscienzia che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giucatore e mettitor di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.
Venuto adunque questo ser Cepperello nell’animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale la malvagità de’ borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così: «Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare co’ borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia».
Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri. Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n’andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v’era, quasi si riserbasse l’adirarsi al da sezzo.
E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà racquistare. Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che ‘l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui ch’aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.
E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare: «Che farem noi» diceva l’uno all’altro «di costui? Noi abbiamo dei fatti suoi pessimo partito alle mani, per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno, veggendo la gente che noi l’avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D’altra parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a’ fossi a guisa d’un cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante n’avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che ‘l voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a’ fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto ‘l giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore e griderrà: “Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si vogliono più sostenere”; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l’avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore». 

Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l’udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl’infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro: «Io non voglio che voi di niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n’avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e i miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti».
I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n’andarono ad una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d’un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial divozione aveano, e lui menarono. Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s’era, rispose: «Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch’io infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la infermità m’ha data».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica avrò d’udire o di domandare».
Disse ser Ciappelletto: «Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì ch’i’ nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d’ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch’io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al qual ser Ciappelletto sospirando rispose: «Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria».
Al quale il santo frate disse: «Dì sicuramente, ché il ver dicendo né in confessione né in altro atto si pecco’ giammai».
Disse allora ser Ciappelletto: «Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscì del corpo della mamma mia».
«Oh benedetto sia tu da Dio!» disse il frate «come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto, volendo, avevi più d’arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti».
E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; perciò che con ciò fosse cosa che egli, oltre a’ digiuni delle quaresime che nell’anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l’acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d’avere cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli.
Al quale il frate disse: «Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere».
«Oh!» disse ser Ciappelletto «padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d’animo; e chiunque altri menti le fa, pecca».
Il frate contentissimo disse: «E io son contento che così ti cappia nell’animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in ciò. Ma, dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti?»
Al quale ser Ciappelletto disse: «
Padre mio, io non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla; anzi ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m’avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co’ poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l’una metà convertendo né miei bisogni, l’altra metà dando loro; e di ciò m’ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei».
«Bene hai fatto», disse il frate «ma come ti se’ tu spesso adirato?»
«Oh!» disse ser Ciappelletto  «cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere, veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio».
Disse allora il frate: «Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per alcuno caso, avrebbeti l’ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcun’altra ingiuria?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Ohimè, messere, o voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s’io avessi avuto pure un pensieruzzo di fare qualunque s’è l’una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m’avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de’ quali qualunque ora io n’ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: “Va che Dio ti converta”»
Allora disse il frate: «Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro alcuno o detto mal d’altrui o tolte dell’altrui cose senza piacer di colui di cui sono?»
«Mai, messere
 sì», rispose ser Ciappelletto «che io ho detto male d’altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica».
Disse allora il frate: «
Or bene, tu mi di’ che se’ stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti?»
«Gnaffe», disse ser Ciappelletto «messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno, avendomi recati danari che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto, e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai ch’egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l’amor di Dio».
Disse il frate: «Cotesta fu piccola cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti».
E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo. E volendo egli già procedere all’assoluzione, disse ser Ciappelletto: «Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v’ho detto».
Il frate il domandò quale; ed egli disse: «Io mi ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa domenica quella reverenza che io dovea».
«Oh!» disse il frate «figliuol mio, cotesta è leggier cosa».
«Non», disse ser Ciappelletto «non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore».
Disse allora il frate: «O altro hai tu fatto?»
«Messer sì», rispose ser Ciappelletto «ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio».
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo».
Disse allora ser Ciappelletto: «E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende sacrificio a Dio».
E in brieve de’ così fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a piagner forte, come colui che il sapeva troppo ben fare quando volea.
Disse il santo frate: «Figliuol mio, che hai tu?»
Rispose ser Ciappelletto: «Ohimè, messere, ché un peccato m’è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo dire; e ogni volta ch’io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo peccato».
Allora il santo frate disse: «Va via, figliuol, che è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente».
Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: «Ohimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato».
A cui il frate disse: «Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Iddio per te».
Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse: «Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, e io il vi dirò. Sappiate che, quando io era piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia»; e così detto ricominciò a piagnere forte.
Disse il frate: «O figliuol mio, or parti questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto ‘l giorno Iddio, e sì perdona egli volentieri a chi si pente d’averlo bestemmiato; e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch’io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli».
Disse allora ser Ciappelletto: «Ohimè, padre mio, che dite voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà perdonato».
Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l’assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto. E chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse: «Ser Ciappelletto, coll’aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a se’, piacev’egli che ‘l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?»
Al quale ser Ciappelletto rispose: «Messer sì; anzi non vorre’ io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per me; senza che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l’altare consecrate; per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano».
Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e così fu. Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl’ingannasse, s’eran posti appresso ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da un’altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d’aver fatte, che quasi scoppiavano, e fra se’ talora dicevano: «Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s’aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l’hanno potuto rimuovere, né far ch’egli così non voglia morire come egli è vivuto?»
Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono. Ser Ciappelletto poco appresso si comunicò, e peggiorando senza modo, ebbe l’ultima unzione; e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a dire al luogo de’ frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l’usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero.
Il santo frate che confessato l’avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s’accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr’esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co’ camici e co’ pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l’avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de’ suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l’altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra’ piedi bestemmiate Iddio e la Madre, e tutta la corte di paradiso».
E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve colle sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v’erano che, poi che fornito fu l’uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta. E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.
Così adunque visse e morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli potè in su l’estremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n’è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l’abbiamo, lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi d’essere uditi.

Decameron-Citti.png

Franco Citti nella parte di Ser Cepperello nel Decameron di Pasolini (1971)

Si racconta che Musciatto Franzesi, essendo diventato cavaliere in Francia da ricchissimo e potente mercante e dovendo venire a Firenze con Carlo di Valois, fratello del re Filippo il Bello, chiamato e sollecitato da papa Bonifacio VIII, sapendo che i suoi affari, come capita spesso ai mercanti, erano molto intricati di qua e di là e non potendoli risolvere facilmente, decise di affidarli a diverse persone e trovò quelle adatte ad ogni affare: solamente in dubbio gli rimase a chi sufficientemente affidare la riscossione dei suoi crediti fatti a diversi borgognoni. Il motivo della difficoltà della scelta era dovuto al fatto che gli abitanti di Borgogna erano litigiosi, malvagi e falsi; e a lui non veniva in mente chi fosse tanto malvagio, in cui porre grande fiducia da opporre alla loro malvagità. E avendo pensato a lungo, gli venne infine in mente un ser Cepparello di Siena, che a Parigi si era spesso ricoverato a casa sua, poiché era piccolino, ma ben sistemato, non sapendo i francesi cosa significasse Cepparello, credendo che volesse dire “cappello” o “copricapo”, nella loro lingua, non “Ciappello”, perché era piccolino, ma “Ciappelletto” lo chiamavano, e così per Ciappelletto tutti lo conoscevano, mentre per pochi ancora il suo nome era “Cepparello”. La vita di questo Ciappelletto era questa: essendo notaio, si vergognava moltissimo quando qualcuno dei suoi atti notarili fosse onesto, e tanti falsi ne avrebbe fatti quanti gliene avessero richiesti e questi li faceva gratuitamente più volentieri e che altri ben ricompensati. Diceva il falso con grande gioia, richiesto e non richiesto, e, prestando in quel tempo in Francia grandissima importanza ai giuramenti, non importandogli di giurare il falso, vinceva malvagiamente molte questioni sulle quali era chiamato a prestar fede. Provava gusto e molte volte anche provocava nello suscitare mali, inimicizie e scandali tra parenti e amici o qualsiasi altra persona, tra i quali quando più grandi mali vedeva seguire, quanto più trovava gioia. Invitato ad assistere ad un omicidio o a qualche altra azione delittuosa, senza mai negarsi, vi andava felicemente e molte volte si ritrovò volentieri a ferire o a uccidere con le proprie mani. Grande bestemmiatore di Dio e dei Santi, per ogni piccola cosa, così come colui che era estremamente iracondo. Non frequentava mai la Chiesa, e scherniva tutti i sacramenti come riti vigliacchi, mentre le taverne e i luoghi disonesti visitava volentieri e frequentava. Era così schifato dalle donne come sono i cani con i bastoni; con il sesso opposto si dilettava più di ogni altro uomo vizioso. Avrebbe commesso furti e rapimenti con la stessa coscienza con cui un sant’uomo offrirebbe l’elemosina. Golosissimo e grande bevitore, tanto che alcune volte vomitava sconciamente. Era un grandissimo giocatore con dadi falsi (baro): Ma perché mi dilungo in tante parole? Egli era il peggior uomo che fosse nato. La sua malizia sostenne per lungo tempo la condizione di Musciatto, per cui dalle persone private, a cui aveva fatto ingiuria, o alla pubblica corte, a cui continuamente le faceva, gli fu usato riguardo.
Venuto dunque in mente a messer Musciatto, che conosceva ottimamente la sua vita, pensò che la sua malignità dover esser adeguata a quella dei Borgognoni, perciò, fattolo chiamare, gli disse: «Ser Ciappelleto, come sai, io sto per allontanarmi da qui e, avendo tra le altre cose a fare con i borgognoni, uomini pieni d’inganni, non so a chi lasciare riscuotere i miei affari più adatta di te. E perciò, non facendo ora nulla e se mai lo desiderassi, laddove volessi, intendo farti avere la protezione della corte e di donarti una parte di ciò che riscuoterai che riterrai più opportuno.»
Ser Ciappelleto, che era senza lavoro e in cattive condizioni economiche e vedendo andar via chi per lui era stato per lungo tempo suo sostegno e protezione, accettò senza alcun indugio e quasi costretto dalla necessità, e disse che lo avrebbe fatto volentieri. Per cui, messosi d’accordo, ricevuta la procura e le lettere favorevoli del re, partito messer Musciatto, andò in Borgogna, dove non lo conosceva quasi nessuno e qui, fuori dalla sua indole, con fare benevole e cortese cominciò a voler riscuotere e a compiere il compito per cui era stato mandato, quasi si riversasse a fare esplodere la sua naturale ira alla fine. 
E così facendo, mentre era ricoverato in casa di due fratelli fiorentini, usurai, e onorato molto da loro per amor di messer Musciatto, si ammalò. Allora i due fratelli fecero venir subito medici e servitori che lo servissero e ogni cosa opportuna affinché guarisse. Ma ogni aiuto era nullo, come dicevano i medici, per il fatto che il buon vecchio era vecchio e aveva vissuto in modo disordinato, e peggiorava di giorno in giorno, come se avesse una malattia inguaribile; di questa cosa i due fiorentini si lamentavano molto.
Un giorno, stando vicini alla camera in cui Ciappelletto giaceva malato, cominciarono così a parlare tra loro: «Che facciamo di lui? Noi a causa sua ci troviamo in una pessima situazione: perché sarebbe una grande vergogna ed una pazzia mandarlo via di casa così malato, dopo che la gente ci ha visto riceverlo e cercato di guarirlo ed ora, senza che egli ci abbia fatto alcun male, che dobbiamo mandarlo via così malato e verso una morte certa. D’altra parte egli è stato così malvagio che non vorrà confessarsi né prendere alcun sacramento; e morendo senza confessione, nessuna Chiesa vorrà ricevere il suo corpo, anzi sarà gettato nei fossi come un cane. E, se anche si dovesse confessare, i suoi peccati sono così orrendi, che accadrà la stessa cosa dal momento che nessun prete vorrà o potrà assolverlo per cui, non assolto, sarà ugualmente gettato ai fossi. E se ciò avvenisse, il popolo di questa terra, per il nostro mestiere, che a loro pare estremamente ingiusto e ci insultano ogni giorno a tal punto da volerci rubare, vedendo questo fatto si solleverà un tumulto e grideranno: “Questi cani lombardi, che la Chiesa si rifiuta di riceverli, non li vogliamo più tollerare” e correranno alle case e non solo ci porteranno via e cose, ma forse ci toglieranno anche la vita: per questo noi siamo nei guai, qualsiasi sia la nostra scelta, se costui muore».
Ser Ciappelletto, il quale, come già detto, giaceva vicino là dove i fratelli così ragionavano, avendo l’udito sottile, come spesso accade agli ammalati, udì ciò che loro di lui avevano detto; così li fece chiamare e disse loro: «Voglio che voi non dobbiate subire nulla per colpa mia né abbiate paura che io vi possa danneggiare. Ho sentito ciò che avete detto di me e sono sicurissimo che mi accadrebbe ciò che voi avete pronosticato, se le cose andassero così come pensate: ma andrà diversamente. Io, vivendo, ho fatto così tanti peccati verso Dio che, facendone una ora, sul punto di morte, non ne farà conto; e per questo fatemi venire un santo e valente frate, il più che potete, se qui ve n’è uno; e lasciatemi fare, che sicuramente sistemerò i fatti vostri e i miei in modo che risolverò la questione e ne sarete contenti»
I due fratelli, sebbene non riponessero molta speranza in questo, nondimeno andarono in un convento richiedendo un santo e saggio uomo che udisse la confessione di un lombardo malato in casa loro; e fu loro dato un vecchio frate, di vita santa e buona, gran maestro delle Sacre Scritture e molto venerabile, verso il quale tutti i cittadini avevano una speciale devozione, e glielo condussero. Questo, giunto nella camera dove ser Ciappelletto era infermo e postosi a sedere a fianco a lui, primo cominciò a confortarlo benignamente e in seguito gli domandò da quanto tempo non si confessasse. A lui ser Ciappelletto, che non si era mai confessato, rispose: «Padre mio, ho l’abitudine di confessarmi almeno una volta la settimana, anche se ci sono quelle in cui io mi confesso più volte; è pur vero che da quando mi sono ammalato, sono passati otto giorni, tanta è stata la sofferenza che la malattia mi ha procurato».
Gli disse il frate: «Figliolo, hai fatto bene; così bisogna fare d’ora in poi; e vedo che, dal momento che ti confessi così spesso, avrò poca fatica nell’ascoltarti e nel domandarti dei tuoi peccati».
Ser Ciappelleto disse: «Signor frate, non dite così: io non mi sono confessato tante volte, né così spesso, da non volermi confessare di tutti i peccati della mia vita da quando sono nato fino a questo giorno; e perciò vi prego padre mio buono, che in modo puntuale, mi poniate delle domande come se non mi fossi mai confessato, e non abbiate riguardo per la mia malattia, che preferisco di molto dispiacere al mio corpo perché, facendo cosa che fosse gradita loro, temo di entrare nella perdizione della mia anima, che il Signore riscattò col suo prezioso sangue».
Queste parole piacquero molto al venerando padre e gli sembrarono opportune per un uomo ben disposto verso la confessione; e dopo aver assai lodato questa sua abitudine, cominciò a chiedergli se mai avesse peccato in lussuria con le donne.
A lui sospirando Ciappelletto rispose: «Padre mio, di questo argomento mi vergogno di dirvi la verità, pensando d’essere vanaglorioso.
A cui il santo frate disse: «Parla sicuramente, che dicendo la verità non si pecca mai».
Allora disse ser Ciappelletto: «Poiché voi mi date sicurezza, ve lo dirò: io sono vergine come uscii dal corpo di mia madre».
«Oh, benedetto sia tu dal Dio», disse il frate «come hai fatto bene, e facendolo hai tanto meritato quanto, volendolo, avevi la facoltà che noi non abbiamo e che altri (non hanno) vincolati da una regola (religiosa)»
In seguito gli chiese se avesse commesso peccato di gola. Alla cui domanda, Ciappelletto, sospirando molto, rispose di sì e molte volte; per il fatto che, molte volte, dal momento che egli, oltre alle quaresime che si fanno durante l’anno dai devoti, ogni settimana fosse solito digiunare almeno tre giorni solo con pane e acqua e aveva bevuto l’acqua con gran gusto, specialmente dopo aver faticato o pregato o andato in pellegrinaggio, come coloro che bevono il vino; e molte volte aveva desiderato d’avere delle insalate di erbe, quelle che le donne raccolgono in campagna, e molte volte gli era sembrato migliore il mangiare di quanto avrebbe dovuto apparirgli a chi digiuna per devozione, come lui faceva».
A lui il frate rispose: «Figliolo mio, questi peccati sono naturali e molto veniali, e per questo voglio che la tua coscienza non sia da essi gravata più del necessario. Ad ogni uomo capita che dopo aver a lungo digiunato, per santissimo che sia, sembri il cibo e il bere un bene».
Disse Ciappelletto: «Oh, non deve dirmi questo per confortarmi, ben sapete che io so che le cose che si fanno al servizio di Dio, devono esser fatte in modo puro e senza macchia nell’anima e chiunque fa in modo diverso, pecca».
Il frate, contentissimo, disse: «Ed io sono felice che tu pensi questo e mi piace la tua coscienza pura e buona in questo. Ma, dimmi, in avarizia hai peccato, desiderando più del necessario e tenendo tu quello che non ti era dovuto?»
Al quale ser Ciappelletto disse: «Padre mio, io non vorrei che voi dubitaste perché io sono in casa di questi usurai: io non ho nulla a che fare con loro, anzi ero venuto per ammonirli e castigarli e toglierli da questo abominevole guadagno; e credo che ci sarei riuscito se Dio non mi avesse visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò molto ricco, del cui avere, dopo la sua morte, gran parte diedi alla chiesa, poi per sostenere la mia vita e quella dei poveri di Cristo, ho fatto piccole mercanzie ed in quelle ho desiderato di guadagnare. E sempre con i poveri quello che ho guadagnato ho diviso; prendendo la metà per sostenermi e la metà per il loro sostegno e di questo mi ha favorito il Creatore che ho sempre garantito e difeso la mia vita».
«Ti sei comportato bene ed ora dimmi ti sei mai adirato?» disse il prete.
Rispose Ciappelletto: «Oh, vi dico chiaramente che mi sono arrabbiato spesso: e chi potrebbe trattenere l’ira, vedendo tutto il giorno gli uomini comportarsi in modo sconcio, non osservare i comandamenti di Dio e non temere il suo giudizio? Ci sono state volte che vorrei essere stato morto più che vivo, vedendo i giovani andare dietro le vanità e ascoltandoli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non rispettare le feste e seguendo piuttosto le vie del mondo che quelle di Dio».
Disse allora il frate: «Figliolo mio, questa è buona ira, né io, per me, saprei importi una penitenza; ma qualche volta ha potuto l’ira spingerti ad un omicidio, a dire cattive parole verso qualcuno o fare qualsiasi atto ingiurioso?»
Al quale ser Ciappelleto rispose: «Oimè, signore, eppure mi sembrate uomo di Dio: come dite voi queste parole? Se io avessi avuto anche una piccolissima idea di fare qualcosa che voi dite, credete che Dio mi avrebbe sorretto? Queste sono cose che fanno gli assassini e i malvagi, dei quali, ogni volta che ne ho incontrato qualcuno, gli ho sempre detto “Va, che Dio ti converta”».
Allora disse il frate: «Ora dimmi, figlio mio, sia tu benedetto da Dio, hai tu mai detto una falsa testimonianza contro qualcuno, o sparlato di qualcuno o preso cose altrui senza che l’altro ne ricevesse piacere?»
Rispose Ciappelletto: «Certamente sì, che io ho parlato male di qualcuno: perché io ebbi tempo fa un vicino che, del tutto ingiustamente, non faceva altro che picchiare la moglie, tanto che io parlai male di lui ai genitori della donna, tanta fu la pietà che provai per quella poverella, che, ogni volta che lui tornava ubriaco, la conciava come solo Dio lo sa».
Disse il frate: «Orbene, tu mi hai detto che sei stato mercante: hai ingannato mai le persone così come fanno i mercanti?»
«In fede mia» disse Ciappelleto «sì, ma non so a chi. Senonché, dovendomi egli dare dei denari per dei panni che gli avevo venduto e messili in una mia cassa senza contarli, dopo un mese scoprii che vi erano quattro monete più di quelle dovute. Per cui, passato un anno e non vedendolo più per restituirglieli, li diedi in carità».
Disse il frate: «Questa è una piccola cosa e hai fatto bene a fare quello che hai fatto»
E, oltre a questo, il frate gli domandò molte altre cose, alle quali rispose al modo in cui abbiamo visto, e, volendo quindi procedere all’assoluzione, ser Ciappelletto disse: «Signore, io ancora qualche peccato che non v’ho detto».
Il frate domandò quale ed egli disse: «Io ricordo che feci spazzare un mio servo sabato sera, e non ebbi la reverenza, per la domenica, che dovevo».
«Oh,» disse il frate «figlio mio, questa è poca cosa»
Disse ser Ciappelleto: «Non dite poca cosa, che la domenica si deve adorare, per il fatto che in questo giorno resuscitò nostro Signore».
Disse allora il frate: «Hai fatto altro?»
«Signor sì» rispose «che io, non accorgendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio»
Il frate cominciò a sorridere e disse: «Figliol mio, questo è da non prendere in considerazione; noi, che siamo religiosi, vi sputiamo tutto il giorno».
Disse allora ser Ciappelletto: «E fate un grande vigliaccheria, perché niente è da tebersi così pulito come il luogo in cui si svolge il sacrificio di Cristo».
E in poche parole aggiunse molti altri fatti e alla fine cominciò a sospirare e dopo a piangere forte, che lòui lo sapeva fare bene, quando voleva.
Disse il santo frate: «Figlio mio, che hai?»
Rispose ser Ciappelletto: «Oimè, signore, mi è rimasto un peccato, che non ho mai confessato, che ho grande vergogna nel ricordarlo oggi; ed ogni volta che ci ripenso mi vien da piangere, come vedete, e so per certyo che Dio non mi perdonerà per questo peccato».
Allora il Santo padre disse: «Ma va là!, figliolo, che dici? Se tutti i peccati che sono stati fatti dagli uomini o che saranno fatti finché durerà il mondo, fossero in un solo uomo ed egli ne fosse pentito e contrito come ti vedo, tanta è la bontà e la misericordia del Cielo che, confessandolo, glielo perdonerebbe con piacere ; per questo dillo con sicurezza.
Disse ser Ciappelletto, sempre piangendo: «Oimè, io mio peccato è troppo grave, e posso appena credere, se non ci fossero le vostre preghiere, di esser perdonato».
Disse il frate: «Dillo sicuramente, che io pregherò Dio per te».
Ser Ciappelletto piangeva ancora e non lo diceva, i il frate lo esortava a confessarlo; ma poi, dopo che Ciappelletto piangendo tenne a lungo il frate in attesa, dopo aver emesso un gran sospirato disse: «Padre mio, dal momento che avete promesso di pregare Dio per me, ve lo dirò: sappiate che una volta quando ero piccolino io maledissi mia madre»». E detto questo ricominciò a pianger forte.Disse il frate: «O figlio mio, ti sembra questo un così grande peccato? Gli uomini bestemmiano tutto il giorno Dio, eppure Egli perdona coloro a chi si pente d’averlo fatto: e tu credi che Egli non ti perdoni? Non piangere, confortati, che sicuramente, se tu fossi stato uno di quelli che lo posero in croce, mostrando il forte pentimento che io vedo in te, certamente Egli ti perdonerebbe.»
Disse allora ser Ciappelletto: «Oimè, frate mio, che dite mai? La mia dolce mamma che mi portò nel ventre per nove mesi e mi raccolse in petto durante la notte più di cento volte! Io ho fatto un gravissimo peccato a maledirla e se voi non pregate per me, Dio non perdonerà».
Il padre vedendo che non vi era nulla d’aggiungere alla confessione, gli diede l’assoluzione e la benedizione, credendolo un uomo santissimo, credendo certamente fosse vero ciò che Ciappelletto gli aveva detto: e chi non lo crederebbe vedendo un uomo in punto di morte dir così?
E poi, dopo, gli chiese: «Ser Ciappelletto, con l’aiuto di Dio voi sarete presto guarito, ma se pure avvenisse che Dio chiami la vostra benedetta e santa anima, vi farebbe piacere esser seppellito nel cimitero del Convento?»
A cui ser Ciappelletto rispose: «Si signore, anzi non vorrei essere altrove, dopo che voi avete promesso di pregare Dio per me, considerando inoltre la mia speciale devozione al vostro ordine. E vi prego di, appena sarete nel vostro luogo, fate in modo che a me venga quel corpo di Dio vero (attraverso l’ostia) che voi al mattino consacrate, dal momento che io, pur non essendone degno, con vostro permesso lo prenda, affinché se son vissuto nel peccato, almeno muoia da cristiano».
Il santo uomo affermò che molto gradiva la richiesta ben posta e avrebbe fatto in modo, che il giorno stesso, ricevesse l’eucarestia.
I due fratelli, che dubitavano fortemente che Ciappelletto li ingannasse, s’erano messi dietro un pannello che divideva la camera di Ciappelleto con l’altra, e ascoltando con facilità udirono tutto ciò che Ciappelletto diceva al frate, e veniva loro, alcune volte, tanto da ridere, ascoltando ciò che veniva confessato, che quasi scoppiavano; e talore si dicevano tra loro: «Che uomo è questo, che né vecchiaia, né malattia, né la paura della morte, che era a lui prossima, né addirittura di Dio, davanti al giudizio di cui in poco tempo avrebbe dovuto essere, l’hanno rimosso dalla sua malvagità, né fare in modo che egli morisse diversamente da come era vissuto. Ma come sentirono che sarebbe stato seppellito in Chiesa, non si preoccuparono di altro.
Ciappelleto ricevette la comunione e poco dopo si aggravò, e peggiorando in modo grave, ricevette l’estrema unzione e, passata la sera, il giorno stesso in cui aveva fatto la confessione, morì. Per cui i due fratelli, avendo disposto che egli, con il suo denaro, fosse onorevolmente seppellito e mandato a riferire della sua morte ai frati, e che essi stessi venissero quella stessa sera a prenderlo per far la veglia funebre secondo l’usanza e la mattina seguente per la sepoltura, disposero affinché fosse fatto tutto in modo opportuno. 
Il frate che lo aveva confessato, saputo che Ciappelletto era morto, ebbe un colloquio con il priore luogo; e fatta suonare la campana, ai frati raccolti mostrò che ser Ciappelletto  era stato un sant’uomo, così come aveva dedotto dalla sua confessione e sperando che il Signore, attraverso lui, dovesse dar vita a molti miracoli, convinse loro che si dovesse ricevere il suo corpo con somma reverenza e devozione. Sia il priore che i frati, credendo alle parole del confessore, accettarono e la sera stessa, andati nel luogo in cui Ciappelletto era spirato, fecero per lui una grande e solenne veglia di preghiera. Il mattino seguente, tutti vestiti con camici e piviali (abiti e mantelli indossati dagli ecclesiastici per le grandi solennità), con i libri sacri in mano e preceduti dalla croce, cantando in coro, andarono a prendere il corpo e a trasportarlo alla loro chiesa in modo festoso e solenne, seguiti da quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. Messo il corpo di ser Ciappelletto in chiesa, il santo frate, che l’aveva confessato, salito sul pulpito cominciò a predicare, riferendo cose meravigliose di lui, della sua vita, dei suoi digiuni, della sua verginità, della sua semplicità, innocenza e santità; ed inoltre raccontando di cosa ser Ciappelletto, piangendo, gli aveva confessato come maggior peccato, e come avesse dovuto convincerlo, lui stesso, che Dio glielo avrebbe perdonato, e da ciò, prendendo lo spunto per rimproverare il popolo che lo ascoltava: «E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi s’impiglia tra i piedi, bestemmiate Dio, la Madonna e tutti i santi del Paradiso».
Oltre a queste, riferì molte altre cose sulla sua lealtà e purezza: in breve, con le sue parole, alle quali la gente della contrada aveva dato pienamente fede, che così mise in capo e nella devozione di tutti presenti che, finita la funzione, tutti con la maggior calca del mondo, volevano baciargli i piedi e le mani, e gli avevano strappato i panni che aveva indosso, ritenendosi beato chi avesse potuto averne anche soltanto un poco, e si ritenne di mantenerlo così all’interno della chiesa per tutto il giorno, affinché fosse visto e ricevesse la visita da tutti. Poi, la notte seguente, messo in un’arca marmorea fu seppellito onorevolmente in una cappella: dal giorno seguente cominciarono piano piano le visite della gente, chi ad accender lumi e adorarlo, e conseguentemente a far voti e a affiggere le immagini di cera (ex-voto) secondo la promessa richiesta. E a tal punto crebbe la fama della sua santità e della devozione a lui, che quasi nessuno che avesse qualche avversità, facesse voti ad altro santo che non fosse lui,  e lo chiamarono e tuttora lo chiamano San Ciappelletto; e affermano che molti miracoli Dio fece attraverso lui, e tuttora fa a chi con devozione si raccomanda a lui.
Così dunque visse e morì ser Cepparello da Prato e come avete ascoltato, divenne santo. Non voglio negare che lui sia beato alla presenza di Dio e sebbene la sua vita fosse stata scellerata e malvagia, che abbia potuto all’ultimo aver fatto un così grande pentimento, che forse Dio abbia avuto misericordia di lui da riceverlo nel suo regno; ma siccome questo non è possibile da sapere, secondo quello che sappiamo, giudico e affermo che costui dovrebbe essere piuttosto nelle mani del diavolo in perdizione che in Paradiso. E se così fosse, si può riconoscere la grande benevolenza di Dio nei nostri confronti, la quale guardando la nostra fede e non l’errore, facendo noi da intercessore un suo nemico, credendolo un suo amico, allo stesso modo ci esaudisce, come se ad un vero santo, come intermediario, ci rivolgessimo. E per questo, dal momento che per sua grazia siamo stati conservati sani e salvi in questa avversità (della peste) e in  così lieta compagnia, lodando il suo nome, con il quale l’abbiamo cominciata, avendo Lui in reverenza, ci raccomanderemo a Lui neli nostri bisogni, sicurissimi d’essere ascoltati.  

01.01.jpgIl peccatore Ser Ciappelletto s’ammala in viaggio. Prima di morire si finge santo, il prete confessore ne beatifica la memoria”. Miniatura tratta dal ‘Decameron’ (codice del XV secolo)

La novella di Ciappelletto, proprio perché è  la prima ad essere raccontata, ha un protagonista malvagio, “il piggiore uomo forse che mai nascesse”. Tale figura viene inserita all’interno di un’etica mercantile, etica di cui lo stesso Boccaccio, come vedremo meglio, si farà estimatore. Infatti secondo la logica mercantile di Musciatto Franzesi per raggiungere l’obiettivo occorre un mezzo idoneo, ed essendo i borgognoni ladri ed infigardi, bisogna mandare chi è più ladro e più infingardo di loro. Moralmente criticabile, “commercialmente” emendabile.

Altra caratteristica della novella è certamente una doppia duplicazione:

  1. Ciappelletto è piccolo, minuto (lo stesso nome è un diminutivo), così come enormi, grandissimi sono i suoi peccati;
  2. La confessione è la duplicazione rovesciata dei suoi vizi. 

Il fatto che venga sottolineata la piccolezza del protagonista, rende lo stesso più caricaturale proprio alla luce dell’enormità della sua vita viziosa, così come la descrizione a tutto tondo della sua vita rende più semplice ed efficace l’enormità della sua confessione. D’altra parte l’efficacia narrativa è nel tenere all’interno della stessa malvagità del protagonista l’atto della confessione (il narratore, così come il lettore sanno che essa è un’ulteriore falsità – per lo più compiuta in punto di morte -) e l’esaltazione virtuosa della stessa da parte del coprotagonista (il prete confessore, che non sa che è una falsità).

Vorremo in ultimo ricordare che la novella è strutturata secondo il modello degli exempla medioevali: teoria (Dio può operare il bene anche attraverso personaggi malvagi), novella esplicativa (narrazione della vita e della morte di Ciappelletto), conclusione in cui si afferma che a Dio non importa chi venga preso per intermediario, ma soltanto la fede di chi crede.

Sarà Filomena a raccontare la terza novella della prima giornata:

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Melchisedech e il Saladino in un codice del XV sec.

MELCHISEDECH GIUDEO, CON UNA NOVELLA DI TRE ANELLA, CESSA UN GRAN PERICOLO DAL SALADINO APPARECCHIATOGLI. 
(I, 3)

Il Saladino, il valore del qual fu tanto che non solamente di piccolo uomo il fe’ di Babillonia soldano, ma ancora molte vittorie sopra li re saracini e cristiani gli fece avere, avendo in diverse guerre e in grandissime sue magnificenze speso tutto il suo tesoro, e, per alcuno accidente sopravvenutogli bisognandogli una buona quantità di danari, né veggendo donde così prestamente come gli bisognavano aver gli potesse, gli venne a memoria un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale prestava ad usura in Alessandria, e pensossi costui avere da poterlo servire quando volesse; ma sì era avaro che di sua volontà non l’avrebbe mai fatto, e forza non gli voleva fare; per che, strignendolo il bisogno, rivoltosi tutto a dover trovar modo come il giudeo il servisse, s’avvisò di fargli una forza da alcuna ragion colorata.
E fattolsi chiamare e familiarmente ricevutolo, seco il fece sedere e appresso gli disse: – Valente uomo, io ho da più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana.
Il giudeo, il quale veramente era savio uomo, s’avvisò troppo bene che il Saladino guardava di pigliarlo nelle parole per dovergli muovere alcuna quistione, e pensò non potere alcuna di queste tre più l’una che l’altra lodare, che il Saladino non avesse la sua intenzione. Per che, come colui al qual pareva d’aver bisogno di risposta per la quale preso non potesse essere, aguzzato lo ‘ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse, e disse: – Signor mio, la quistione la qual voi mi fate è bella, e a volervene dire ciò che io ne sento, mi vi convien dire una novelletta, qual voi udirete. Se io non erro, io mi ricordo aver molte volte udito dire che un grande uomo e ricco fu già, il quale, intra l’altre gioie più care che nel suo tesoro avesse, era uno anello bellissimo e prezioso; al quale per lo suo valore e per la sua bellezza volendo fare onore e in perpetuo lasciarlo né suoi discendenti, ordinò che colui de’ suoi figliuoli appo il quale, sì come lasciatogli da lui, fosse questo anello trovato, che colui s’intendesse essere il suo erede e dovesse da tutti gli altri essere come maggiore onorato e reverito. E colui al quale da costui fu lasciato il simigliante ordinò né suoi discendenti e così fece come fatto avea il suo predecessore; e in brieve andò questo anello di mano in mano a molti successori; e ultimamente pervenne alle mani ad uno, il quale avea tre figliuoli belli e virtuosi e molto al padre loro obedienti, per la qual cosa tutti e tre parimente gli amava. E i giovani, li quali la consuetudine dello anello sapevano, sì come vaghi d’essere ciascuno il più onorato tra’ suoi ciascuno per se’, come meglio sapeva, pregava il padre, il quale era già vecchio, che, quando a morte venisse, a lui quello anello lasciasse. Il valente uomo, che parimente tutti gli amava, né sapeva esso medesimo eleggere a qual più tosto lasciar lo dovesse, pensò, avendolo a ciascun promesso, di volergli tutti e tre sodisfare; e segretamente ad uno buono maestro ne fece fare due altri, li quali sì furono simiglianti al primiero, che esso medesimo che fatti gli avea fare appena conosceva qual si fosse il vero. E venendo a morte, segretamente diede il suo a ciascun de’ figliuoli. Li quali, dopo la morte del padre, volendo ciascuno la eredità e l’onore occupare, e l’uno negandolo all’altro, in testimonianza di dover ciò ragionevolmente fare ciascuno produsse fuori il suo anello. E trovatisi gli anelli sì simili l’uno all’altro che qual di costoro fosse il vero non si sapeva conoscere, si rimase la quistione, qual fosse il vero erede del padre, in pendente, e ancor pende. E così vi dico, signor mio, delle tre leggi alli tre popoli date da Dio padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti dirittamente si crede avere e fare; ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione.
Il Saladino conobbe costui ottimamente essere saputo uscire del laccio il quale davanti a’ piedi teso gli aveva; e per ciò dispose d’aprirgli il suo bisogno e vedere se servire il volesse; e così fece, aprendogli ciò che in animo avesse avuto di fare, se così discretamente, come fatto avea, non gli avesse risposto. Il giudeo liberamente d’ogni quantità che il Saladino richiese il servì; e il Saladino poi interamente il soddisfece; e oltre a ciò gli donò grandissimi doni e sempre per suo amico l’ebbe e in grande e onorevole stato appresso di sé il mantenne.

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Un taglio di legno del XV secolo, che illustra la Storia dei tre anelli di Boccaccio 

Il Saladino, il cui valore fu tanto grande che grazie ad esso, non soltanto egli passò dall’essere un uomo qualunque ad essere il sultano di Babilonia, ma per giunta ottenne innumerevoli vittorie contro i re cristiani e saraceni, aveva dato fondo all’intero suo patrimonio, a seguito di diverse guerre e di una serie di iniziative molto dispendiose; contemporaneamente, per un qualche avvenimento che gli era capitato, il Saladino si trovava ad aver bisogno di una grossa somma di denaro, e non aveva idea del modo in cui avrebbe potuto trovare quel denaro nel breve tempo che aveva a disposizione; così gli tornò alla memoria la figura di un ricco giudeo, il cui nome era Melchisedech, il quale esercitava l’attività di usuraio ad Alessandria d’Egitto; il Saladino ritenne che Melchisedech possedesse abbastanza denaro da soddisfare la sua necessità, qualora avesse voluto; ma il Saladino sapeva anche che Melchisedech era così avaro, che non avrebbe mai concesso i suoi soldi, a meno che non fosse stato costretto a farlo, ed egli non voleva ricorrere ai soprusi; alla fine il Saladino, tormentato dalla necessità di denaro, concentrò tutte le sue energie nella ricerca di un modo per farsi finanziare dal giudeo Melchisedech, ed escogitò di commettere un sopruso che apparisse giustificato da qualche parvenza di legalità.
Quindi mandò a chiamare Melchisedech e lo accolse con benevolenza, si sedette con lui e gli disse: «Saggio uomo, ho sentito dire da più persone che tu sei un uomo estremamente assennato e che hai molto approfondito le questioni religiose; per questa ragione io sarei molto interessato a sentire da te quale, tra le religioni monoteiste, tu ritieni quella autentica, se la religione giudaica, quella cristiana o quella islamica».
Il giudeo Melchisedech, che era per davvero un uomo molto assennato, si rese conto fin troppo bene che il Saladino stava cercando di farlo cadere in un tranello per potergli poi muovere qualche accusa, e pensò che l’unico modo per impedire al Saladino di riuscire nel suo intento, fosse non esprimersi a favore di nessuna delle tre religioni. così, dal momento che egli aveva l’assoluta necessità di trovare una risposta che non lo facesse cadere nella trappola, aguzzò il suo ingegno e subito ebbe davanti a sé ciò che avrebbe dovuto rispondere; allora disse: «Mio sultano, la domanda che voi mi ponete è molto interessante e per farvi capire quale sia il mio punto di vista, vi racconterò una breve novella, che adesso ascolterete. Se la memoria non m’inganna, io ricordo di aver sentito raccontare più volte che, molto tempo fa, visse un uomo illustre e ricco, il quale, tra i gioielli più preziosi che facevano parte del suo tesoro, aveva anche un anello bellissimo e raro; e poiché l’uomo voleva rendere onore al valore e alla bellezza di quell’anello e voleva che esso si tramandasse per sempre, di padre in figlio, lungo i rami della sua discendenza, stabilì questa regola: quello tra i suoi figli, che avesse ricevuto da lui l’anello, avrebbe dovuto essere considerato il suo legittimo erede, e avrebbe dovuto essere onorato e riverito dai suoi fratelli come il più importante. E il figlio che ricevette l’anello, adottò la medesima regola per i propri discendenti; e, per farla breve, questo anello passò di mano in mano, da una generazione all’altra, di successore in successore. E alla fine arrivò nelle mani di un padre, che aveva tre figli belli, valorosi e molto rispettosi del loro genitore; per queste regioni egli li amava alla stessa maniera tutti e tre. ora, dal momento che i tre giovani conoscevano l’usanza dell’anello e ciascuno ambiva ad essere il più apprezzato tra i suoi fratelli, ciascuno di loro supplicava quanto più poteva il padre, che era ormai anziano, affinché al momento della morte, lasciasse a lui l’anello. Il brav’uomo che amava tutti i suoi figli alla stesso modo e non era in grado di compiere la scelta di lasciare l’anello ad uno di loro in particolare, dopo aver promesso l’anello a ciascuno dei suoi figli pensò ad un sistema per non doversi rimangiare la parla.. In segreto l’uomo commissionò ad un valido fabbro la realizzazione di due copie dell’anello, le quali furono realizzate tanto somiglianti all’originale, che il fabbro stesso che le aveva confezionate faceva fatica a capire quale fosse il modello e quali le copie. E quando fu sul punto di morire, l’uomo consegnò in segreto a ciascuno dei suoi tre figli un esemplare dell’anello. Così, quando all’indomani della morte del padre, ciascuno dei tre figli tentò di succedergli e di impadronirsi dell’eredità e del titolo e ciascuno dei tre cercò di impedire agli altri due di realizzare il loro intento, ogni figlio tirò fuori, a garanzia della legittimità di ciò che stava facendo, la propria copia dell’anello. E poiché gli anelli furono riscontrati essere così simili uno all’altro, che non era possibile stabilire quale tei tre fosse l’originale, rimase aperta anche la questione di quale fosse l’autentico erede del padre. E quella questione è tuttora aperta. Mio sultano, la medesima cosa vi dico io in merito alle tre religioni che Dio padre ha dato ai popoli, riguardo alle quali mi avete interrogato: ogni popolo si crede nel giusto mentre mantiene e rispetta la sua eredità, la sua vera legge e i suoi comandamenti; tuttavia, come per gli anelli, la questione di chi sia il vero erede é ancora irrisolta.
Il Saladino si rese conto che Melchisedech aveva saputo magistralmente evitare la trappola che egli gli aveva teso davanti ai piedi; così decise di rivelargli con sincerità di aver bisogno di denaro, per poi stare a vedere se Melchisedech avrebbe accettato di finanziarlo; e così fece, svelandogli che cosa aveva pianificato di fare se lui non gli avesse risposto con quella capacità e saggezza. L’ebreo Melchisedech generosamente concesse al Saladino tutto il denaro di cui aveva bisogno e il Saladino successivamente gli restituì tutto il denaro che gli aveva prestato e, oltre a ciò, lo omaggiò di grandissimi doni, lo trattò sempre come un amico e lo fece restare nella propria corte tenendolo sempre in grande considerazione e grande stima. 

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Alberto Criscione: Melchisedech e il Saladino (2014) 

L’analisi della terza novella della prima giornata presenta alcune caratteristiche che meritano di essere sottolineate:

  1. il narratore: se, nella parte omessa sarà Boccaccio (narratore di primo grado) a dirci che la parola viene data a Filomena per raccontarci una novella, la stessa la inizia (narratore di secondo grado) presentandoci il Saladino ed il motivo che lo spinge a rivolgersi all’usuraio ebreo Melchisedech. Per cercare di non ricevere un rifiuto, lo stesso Saladino escogita uno stratagemma che costringe Melchisedech a trovare un’immediata risposta che consiste nel raccontargli un’altra storia (narratore di terzo grado) che lo liberi dall’impasse tesagli.
  2. la cortesia: ambedue i protagonisti, sia il sultano che l’ebreo mostrano cortesia l’un l’altro: elemento fondamentale nell’etica boccacciana, il sapere riconoscere nell’altro una persona degna di rispetto.
  3. la religione: potremmo parlare di “democrazia” religiosa in questa novella, ma sarebbe forse più giusto notare come laddove vi sia vera fede, non vi sia da parte dell’autore nessun ostracismo
  4. intelligenza: qui forse più marcatamente l’intelligenza della parola. Sia il sultano mostra di saper usare l’intelligenza nel porre un quesito per non offendere l’usuraio, sia quella di quest’ultimo che con essa riesce a sviare il pericolo. E’ proprio l’intelligenza (saggezza) di entrambi a far sì che essi si stringano in un rapporto di amicizia.

SECONDA GIORNATA

La seconda giornata è posta sotto la reggenza di Filomena la quale propone alle giovani e ai giovani dell’allegra brigata di ragionare di chi, da diverse cose infestato, sia, oltre la speranza, riuscito a lieto fine.

La quarta novella è raccontata da Lauretta:

LANDOLFO RUFOLO, IMPOVERITO, DIVIEN CORSALE E DA’ GENOVESI PRESO, ROMPE IN MARE, E SOPRA UNA CASSETTA, DI GIOIE CARISSIME PIENA, SCAMPA, E IN GURFO RICEVUTO DA UNA FEMINA, RICCO SI TORNA A CASA SUA.
(II, 4)

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Miniatura del XV secolo

Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’ltalia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra ‘l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri. Tra le quali città dette n’è una chiamata Ravello, nella quale, come che oggi v’abbia di ricchi uomini, ve n’ebbe già uno il quale fu ricchissimo, chiamato Landolfo Rufolo; al quale non bastando la sua ricchezza, disiderando di radoppiarla, venne presso che fatto di perder con tutta quella sé stesso. Costui adunque, sì come usanza suole essere de’ mercatanti, fatti suoi avvisi, comperò un grandissimo legno, e quello tutto di suoi denari caricò di varie mercatantie e andonne con esse in Cipri. Quivi, con quelle qualità medesime di mercatantie che egli aveva portate, trovò essere più altri legni venuti; per la qual cagione, non solamente gli convenne far gran mercato di ciò che portato avea, ma quasi, se spacciar volle le cose sue, gliele convenne gittar via; laonde egli fu vicino al disertarsi. E portando egli di questa cosa seco grandissima noia, non sappiendo che farsi e veggendosi di ricchissimo uomo in brieve tempo quasi povero divenuto, pensò o morire o rubando ristorare i danni suoi, acciò che la onde ricco partito s’era povero non tornasse. E, trovato comperatore del suo gran legno, con quegli denari e con gli altri che della sua mercatantia avuti avea, comperò un legnetto sottile da corseggiare, e quello d’ogni cosa opportuna a tal servigio armò e guernì ottimamente, e diessi a far sua della roba d’ogni uomo, e massimamente sopra i turchi.
Al qual servigio gli fu molto più la fortuna benivola che alla mercatantia stata non era. Egli, forse infra uno anno, rubò e prese tanti legni di turchi, che egli si trovò non solamente avere racquistato il suo che in mercatantia avea perduto, ma di gran lunga quello avere raddoppiato. Per la qual cosa, gastigato dal primo dolore della perdita, conoscendo che egli aveva assai per non incappar nel secondo, a sé medesimo dimostrò quello che aveva, senza voler più , dovergli bastare; e per ciò si dispose di tornarsi con esso a casa sua. E pauroso della mercatantia, non s’mpacciò d’investire altramenti i suoi denari, ma con quello legnetto col quale guadagnati gli avea, dato de’remi in acqua, si mise al ritornare. E già nello Arcipelago venuto, levandosi la sera uno scilocco, il quale non solamente era contrario al suo cammino, ma ancora faceva grossissimo il mare, il quale il suo picciol legno non avrebbe bene potuto comportare, in uno seno di mare, il quale una piccola isoletta faceva, da quello vento coperto, si raccolse, quivi proponendo d’aspettarlo migliore. Nel qual seno poco stante due gran cocche di genovesi, le quali venivano di Costantinopoli, per fuggire quello che Landolfo fuggito avea, con fatica pervennero. Le genti delle quali, veduto il legnetto e chiusagli la via da potersi partire, udendo di cui egli era e già per fama conoscendol ricchissimo, sì come uomini naturalmente vaghi di pecunia e rapaci, a doverlo avere si disposero. E messa in terra parte della lor gente con balestra e bene armata, in parte la fecero andare che del legnetto niuna persona, sé saettato esser non voleva, poteva discendere; ed essi, fattisi tirare a’paliscalmi e aiutati dal mare, s’accostarono al picciol legno di Landolfo, e quello con picciola fatica in picciolo spazio, con tutta la ciurma, senza perderne uomo, ebbero a man salva; e fatto venire sopra l’una delle lor cocche Landolfo e ogni cosa del legnetto tolta, quello sfondolarono, lui in un povero farsettino ritenendo.
Il dì seguente, mutatosi il vento, le cocche ver ponente venendo fer vela: e tutto quel dì prosperamente vennero al loro viaggio; ma nel far della sera si mise un vento tempestoso, il qual faccendo i mari altissimi, divise le due cocche l’una dall’altra. E per forza di questo vento addivenne che quella sopra la quale era il misero e povero Landolfo, con grandissimo impeto di sopra all’isola di Cifalonia percosse in una secca e, non altramenti che un vetro percosso ad un muro tutta s’aperse e si stritolò; di che i miseri dolenti che sopra quella erano, essendo già il mare tutto pieno di mercatantie che notavano e di casse e di tavole, come in così fatti casi suole avvenire, quantunque oscurissima notte fosse e il mare grossissimo e gonfiato, notando quelli che notar sapevano, s’incominciarono ad appiccare a quelle cose che per ventura loro si paravan davanti. Intra li quali il misero Landolfo, ancora che molte volte il dì davanti la morte chiamata avesse, seco eleggendo di volerla più tosto che di tornare a casa sua povero come si vedea, vedendola presta n’ebbe paura; e, come gli altri, venutagli alle mani una tavola, a quella s’appicco’, se forse Iddio, indugiando egli l’affogare, gli mandasse qualche aiuto allo scampo suo; e a cavallo a quella, come meglio poteva, veggendosi sospinto dal mare e dal vento ora in qua e ora in là, si sostenne infino al chiaro giorno. Il quale venuto, guardandosi egli d’attorno, niuna cosa altro che nuvoli e mare vedea, e una cassa la quale sopra l’onde del mare notando talvolta con grandissima paura di lui gli s’appressava, temendo non quella cassa forse il percotesse per modo che gli noiasse; e sempre che presso gli venia, quanto potea con mano, come che poca forza n’avesse, la lontanava.
Ma, come che il fatto s’andasse, avvenne che, solutosi subitamente nell’aere un groppo di vento e percosso nel mare, sì grande in questa cassa diede e la cassa nella tavola sopra la quale Landolfo era, che, riversata, per forza Landolfo lasciatola andò sotto l’onde e ritornò suso notando, più da paura che da forza aiutato, e vide da se molto dilungata la tavola; per che, temendo non potere ad essa pervenire, s’appressò alla cassa la quale gli era assai vicina, e sopra il coperchio di quella posto il petto, come meglio poteva, colle braccia la reggeva diritta. E in questa maniera, gittato dal mare ora in qua e ora in là, senza mangiare, sì come colui che non aveva che, e bevendo più che non avrebbe voluto, senza sapere ove si fosse o vedere altro che mare, dimorò tutto quel giorno e la notte vegnente.
Il dì seguente appresso, o piacer di Dio o forza di vento che ‘l facesse, costui divenuto quasi una spugna, tenendo forte con amendue le mani gli orli della cassa a quella guisa che far veggiamo a coloro che per affogar sono, quando prendono alcuna cosa, pervenne al lito dell’isola di Gurfo, dove una povera feminetta per ventura suoi stovigli con la rena e con l’acqua salsa lavava e facea belli. La quale, come vide costui avvicinarsi, non conoscendo in lui alcuna forma, dubitando e gridando si trasse indietro. Questi non potea favellare e poco vedea, e perciò niente le disse; ma pure, mandandolo verso la terra il mare, costei conobbe la forma della cassa, e più sottilmente guardando e vedendo, conobbe primieramente le braccia stese sopra la cassa, quindi appresso ravvisò la faccia e quello essere che era s’imaginò. Per che, da compassion mossa, fattasi alquanto per lo mare, che già era tranquillo, e per li capelli presolo, con tutta la cassa il tiro in terra, e quivi con fatica le mani dalla cassa sviluppatogli, e quella posta in capo ad una sua figlioletta che con lei era, lui come un picciol fanciullo ne portò nella terra, e in una stufa messolo, tanto lo stropicciò e con acqua calda lavo che in lui ritornò lo smarrito calore e alquante delle perdute forze; e quando tempo le parve trattonelo, con alquanto di buon vino e di confetto il riconforto, e alcun giorno, come potè il meglio, il tenne, tanto che esso, le forze recuperate, conobbe la dove era. Per che alla buona femina parve di dovergli la sua cassa rendere, la quale salvata gli avea, e di dirgli che omai procacciasse sua ventura, e così fece.
Costui, che di cassa non si ricordava, pur la prese, presentandogliele la buona femina, avvisando quella non potere sì poco valere che alcun dì non gli facesse le spese; e trovandola molto leggiera, assai manco della sua speranza. Nondimeno, non essendo la buona femina in casa, la sconficcò per vedere che dentro vi fosse, e trovò in quella molte preziose pietre, e legate e sciolte, delle quali egli alquanto s’intendea; le quali veggendo e di gran valore conoscendole, lodando Iddio che ancora abbandonare non l’avea voluto, tutto si riconfortò. Ma, si come colui che in picciol tempo fieramente era stato balestrato dalla fortuna due volte, dubitando della terza, pensò convenirgli molta cautela avere a voler quelle cose poter conducere a casa sua; per che in alcuni stracci, come meglio potè, ravvoltole, disse alla buona femina che più di cassa non avea bisogno, ma che, se le piacesse, un sacco gli donasse e avessesi quella.
La buona femina il fece volentieri; e costui, rendutele quelle grazie le quali poteva maggiori del beneficio da lei ricevuto, recatosi suo sacco in collo, da lei si partì , e montato sopra una barca, passò a Brandizio, e di quindi, marina marina, si condusse infino a Trani, dove trovati de’suoi cittadini li quali eran drappieri, quasi per l’amor di Dio fu da loro rivestito, avendo esso già loro tutti li suoi accidenti narrati, fuori che della cassa; e oltre a questo, prestatogli cavallo e datogli compagnia, infino a Ravello, dove del tutto diceva di voler tornare, il rimandarono. Quivi parendogli essere sicuro, ringraziando Iddio che condotto ve l’avea, sciolse il suo sacchetto, e con più diligenzia cercata ogni cosa che prima fatto non avea, trovò sé avere tante e sì fatte pietre che, a convenevole pregio vendendole e ancor meno, egli era il doppio più ricco che quando partito s’era. E trovato modo di spacciare le sue pietre, infino a Gurfo mandò una buona quantità di denari, per merito del servigio ricevuto, alla buona femina che di mare l’avea tratto, e il simigliante fece a Trani a coloro che rivestito l’aveano; e il rimanente, senza più volere mercatare, si ritenne e onorevolmente visse infino alla fine.

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Alberto Criscione: Landolfo Rufolo (2014) 

Si crede che il litorale che va da Reggio Calabria a Gaeta sia la parte più bella d’Italia; lungo di esso, nei pressi di Salerno, vi era una costiera che s’affaccia sul mare, chiamata dai suoi abitanti “costiera amalfitana”, piena di piccole città, di giardini, di fontane e di uomini industriosi nel commerciare come pochi altri. Tra queste cittadine, ve ne era una, chiamata Ravello, dove abitava un uomo di nome Landolfo Rufolo, ricchissimo, il quale, desiderando raddoppiare la sua ricchezza, corse il rischio di perdere la vita, insieme con le ricchezze.
Costui dunque, secondo l’usanza dei mercanti, fatti i suoi conti, comprò una grandissima nave che riempì completamente a sue spese con molte mercanzie e partì per Cipro. Lì giunto, trovò molte altre navi con le stesse mercanzie portate da lui e dovette dunque, per questa ragione vendere con un gran ribasso quanto aveva trasportato, ma quasi gettar via la sua merce, pur di liberarsene: per cui fu quasi arrivato al punto di rovinarsi. E avendogli arrecato, quanto era successo portato, un grandissimo dispiacere, non sapendo che fare, essendosi egli ritrovato da uomo ricchissimo ad indigente, pensò o di morire o di andare a rubare, affinché da dove era partito non tornasse povero essendo partito ricco. Trovato un compratore della sua grande nave e con i pochi ricavati dal commercio con i soldi avuti, comprò una navicella agile e snella da predone, la armò in maniera adeguata e si diede alla vita di corsaro, derubando soprattutto i turchi. 
Questa attività fu favorita dalla fortuna, molto più che quella, precedente, di mercante. Dopo circa un anno rubò e catturò tante navi dei turchi, che non solo recuperò tutte le ricchezze che aveva perduto facendo il mercante, ma le raddoppiò completamente. per cui, reso prudente dalla prima perdita, misurando che con la nuova attività aveva ottenuto molto, per evitare un secondo dissesto finanziario, decise che quello che aveva gli doveva bastare e perciò deliberò di dover tornare a casa sua. Reso diffidente del commercio, non si dette pensiero d’investire i suoi denari, ma con la stessa piccola barca con la quale era ridiventato ricco, a forza di remi si pose sulla via del ritorno. Era già giunto nell’Arcipelago Egeo, quando, una sera, si alzò lo scirocco, che, non solo era contrario alla sua rotta, ma anche rendeva agitatissimo il mare; poiché la sua navicella non avrebbe potuto durare in un mare così grosso, si ritirò in un golfo protetto da un’isoletta e riparato dal vento; e qui si propose di attendere un vento migliore. In questa insenatura, poco distante, due cocche (navi da trasporto) genovesi, che venivano da Costantinopoli, giunsero a fatica, per ripararsi, come aveva fatto Landolfo. I naviganti, vista la piccola nave nel porticciolo e chiusale la via per uscire, udendo a chi apparteneva e sapendo, per fama, che il proprietario era ricchissimo, essendo ladri e desiderosi di danaro, decisero di appropriarsene. Fatta scendere una parte degli uomini armati di balestre ed altre armi, fecero circondare la navicella, in modo che nessuno potesse scendere da essa, se non voleva essere colpito dalle frecce; gli altri, trasportati dalle scialuppe e aiutati dal mare, si accostarono alla barchetta e se ne appropriarono, in breve tempo, con tutta la ciurma, senza colpo ferire, quindi fatto salire Landolfo su una delle loro cocche (navi con un solo albero), sfondarono la navicella e la affondarono, lasciandolo vestito solo con un miserevole farsetto. 
Il giorno dopo, cambiato il vento, le cocche fecero vela verso ponente, viaggiando per tutta la giornata favorevolmente, ma sul far della sera, si levò un vento tempestoso che, creando altissimi marosi, divise le due navi. E a causa di ciò, la nave su cui si trovava il misero Landolfo, con grande violenza, fu sbattuta in una secca  sull’isola di Cefalonia e, come un vetro che sbatteva contro un muro, si aprì tutta e si sgretolò. Gli sventurati che si trovavano sulla cocca, come suole avvenire in questi casi, essendo già il mare pieno di mercanzie, di casse e di tavole, in una notte nerissima, con un mare agitatissimo, nuotando al meglio che potevano, si cominciarono ad aggrappare alle cose che, per fortuna, si paravano davanti.
Tra questi il povero Landolfo, benché molte volte il giorno precedente avesse invocato la morte, scegliendo tra sé di voler morire piuttosto che tornare a casa povero come si trovava, vedendola sul serio davanti ne ebbe paura; e, come gli altri, aggrappatosi ad una tavola, a quella si attaccò, nella speranza che Dio, ritardando egli ad affogare, gli mandasse un qualche aiuto che gli permettesse di salvarsi e a cavallo di quella, come meglio poteva, spinto di qua e di là, si mantenne fino all’alba. Giunto il levar del sole, guardandosi intorno, non vedeva altro che nuvole e mare ed una cassa che sospesa nelle acque, mentre tentava di restare a galla, con sua grande paura,  gli si avvicinava, sospinta dalle onde, e avendo paura che potesse colpirlo, recandogli danno, ogni volta che s’avvicinava nonostante avesse poca forza, quanto poteva con la mano la allontanava. Comunque il fatto avvenisse, successe che scoppiata nell’aria una raffica di vento che investì il mare, esso con tale forza spinse la cassa e la cassa con tale impeto percosse la tavola che si rovesciò e Landolfo, costretto a lasciare la presa, andò sott’acqua e riemerse nuotando, spinto più dalla paura che dalla forza e vide che la tavola s’era molto allontanata da lui e non potendola più raggiungere si avvicinò alla cassa e messosi sopra di essa come meglio poteva, la teneva dritta con le braccia. E così, sbattuto dal mare da una parte all’altra, senza mangiare, non avendo a disposizione nessun cibo e bevendo più di quanto avesse voluto, senza sapere dove fosse e vedere altro che mare, Landolfo passò tutto quel giorno e la notte seguente.   
Il giorno dopo, come piacque a Dio o alla forza del vento che lo spingese, diventato quasi una spugna, attaccato con forza ai bordi della cassa, come ci si attacca per non affogare, giunse alla spiaggia dell’isola di Corfù, dove per caso una povera donnetta lavava i piatti con l’acqua salata e la sabbia. Come costei vide qualcosa che si avvicinava, non riconoscendo alcuna forma, temendo cominciò a gridare.  Landolfo non poteva parlare e aveva la vista debolissima e non disse niente; nonostante ciò, avendolo il mare spinto in terra, costei riconobbe dapprima la forma di una cassa e, guardando più attentamente, vide due braccia sopra di essa, quindi scorse la faccia e capì che quello era un povero naufrago. Quindi, mossa a compassione, entrata un po’ nel mare, che, frattanto, si era calmato, afferratolo per i capelli, lo tirò a terra con tutta la cassa, che pose sulla testa della figlioletta che era con lei, e, presolo in braccio come un bambino, lo portò al villaggio; in seguito messolo in un bagno caldo, tanto lo strofinò e lavò con acqua calda che Landolfo riprese colore e recuperò in parte le perdute forze. Lo lasciò lì il tempo necessario, lo riconfortò con vino e dolci sostanziosi e lo trattenne con sé alcuni giorni, tanto che lui, rimessosi, seppe infine dove si trovava. Allora alla donna sembrò opportuno restituirgli la cassa, che aveva conservato e lo licenziò. Il giovane, che non se ne ricordava per niente, prese la cassa, pensando che potesse valere qualcosa, ma visto che pesava poco, non aveva molte speranze. Nonostante ciò, essendo solo in casa, la schiodò per vedere cosa ci fosse dentro e vi trovò molte pietre preziose sia unite in monili sia sciolte il cui valore egli sapeva riconoscere e  ciò o confortò e gli fece ringraziare Dio che ancora non l’aveva abbandonato. Ma così come colui che in poco tempo e per ben due volte aveva subìto i colpi della fortuna, temendo che potesse essercene anche una terza, pensò di adoperare estrema prudenza nel voler condurre queste pietre a casa sua, per cui avvoltele in una tela, chiese alla donna un sacco, lasciandole in cambio la cassa. 
La donna l’accontentò volentieri, egli la ringraziò caldamente e messosi il sacco in spalla, partì. Salito su una nave, arrivò a Brindisi e, di porto in porto, giunse fino a Trani, dove incontrò alcuni suoi concittadini, che commerciavano in stoffe, ai quali raccontò le sue vicissitudini, ma, prudentemente, non accennò alla cassa. Costoro lo rivestirono, gli prestarono un cavallo e con una compagnia lo rimandarono a Ravello, dove diceva di voler tornare.
Giunto finalmente nel suo paese, sentendosi al sicuro, ringraziando Iddio, sciolse il sacchetto e guardò, come non aveva avuto modo prima, le pietre con più attenzione e considerò che erano molte e di gran pregio e calcolò che vendendole anche a un prezzo inferiore al loro valore, sarebbe diventato ricco il doppio di quando era partito. Trovato il modo di farne commercio, mandò a Corfù una buona quantità di denari alla buona donna che l’aveva raccolto dal mare e lo stesso fece a Trani verso coloro che l’avevano rivestito e il rimanente, senza voler più fare il mercante, si tenne per sé e così visse onorevolmente fino alla fine.

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Manoscritto con l’immagine di Landolfo Rufolo che scampa dal naufragio

Il motivo che spinge Landolfo è certamente economico ed egli perciò s’iscrive a quella categoria di mercanti verso cui Boccaccio mostra un’innata simpatia. Il personaggio, d’altra parte è caratterizzato da due elementi, posti all’inizio e alla fine del racconto, che lo caratterizzano: la ricerca di raddoppiare il denaro (non bastando la sua ricchezza, desiderando di radoppiarla) e l’ottenimento del fine (egli era il doppio più ricco che quando partito s’era). 

Ma l’importanza è che in questo caso più che l’intelligenza poté la fortuna e quest’ultima viene metaforizzata attraverso il mare: Landolfo, infatti, non è un buon mercante, in quanto la situazione iniziale di una concorrenza spietata poteva essere prevista. Ma a determinare le sue azioni non è la sua preveggenza quanto la fortuna; essa infatti può modificare una situazione (in questo caso una tempesta, i pirati genovesi) e ciò che Landolfo impara è rinunciare all’azione, cioè mettersi al riparo dell’imprevedibilità del caso.  

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Ninetto Davoli nella parte di Andreuccio nel Decameron di Pasolini (1971)

ANDREUCCIO DA PERUGIA, VENUTO A NAPOLI A COMPERAR CAVALLI, IN UNA NOTTE DA TRE GRAVI ACCIDENTI SOPRAPRESO, DA TUTTI SCAMPATO CON UN RUBINO SI TORNA A CASA SUA.
(II, 5)

Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d’oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n’andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro, dall’oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato, e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne, né di niuno potendosi accordare, per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de’ fiorini che aveva. E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: «Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?» e passò oltre.
Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all’albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì: e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina. La giovane, che prima la borsa d’Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente de’ fatti d’Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.
La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de’ nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all’albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse: «Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri».
Il quale vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s’avvisò questa donna dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella rispose: «Messere, quando di venir vi piaccia, ella v’attende in casa sua».
Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell’albergo, disse: «Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso».
Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n’entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua donna chiamata e detto «Ecco Andreuccio», la vide in capo della scala farsi a aspettarlo.
Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse: «O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!»
Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: «Madonna, voi siate la ben trovata!»
Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare, con lui nella sua camera se n’entrò, la quale di rose, di fiori d’aranci e d’altri odori tutta oliva, là dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là , e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran donna.
E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m’udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m’ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de’ miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo’ dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l’amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l’amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de’ fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimesticò, che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi. Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d’una fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani. Ma che è?  Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare: la cosa andò pur così. Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo. Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), lasciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua , fratel mio dolce, ti veggio».
E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte.
Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla quale in niuno atto moriva la parola tra’ denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de’ giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose: «Madonna, egli non vi dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l’avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d’una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?»
Al quale ella rispose: «Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell’altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei».
Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava.
Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse: «Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all’albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d’onore».
Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: «Io v’ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania. Ed ella allora disse: «Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a’tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata».
Andreuccio rispose che de’ suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l’era, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fè vista di mandare a dire all’albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe , per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante. Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d’esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un’altra camera se n’andò.
Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una.

maxresdefault.jpgProgetto di un libro con le più importanti novelle di Boccaccio illustrato per ragazzi, in via di realizzazione.

Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l’ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v’erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d’un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l’uscio del quale egli era uscito quando cadde.
Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all’uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n’andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse. Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire: «Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!»
E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l’uscio e a gridare; e tanto fece così che molti de’circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente disse: «Chi picchia là giù?»
«Oh!» disse Andreuccio «o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso».
Al quale ella rispose: «Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so che Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace».
«Come» disse Andreuccio «non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia, che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v’ho, e io m’andrò volentier con Dio».
Al quale ella quasi ridendo disse: «Buono uomo, e’ mi par che tu sogni», e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che Andreuccio, già certissimo de’ suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a percuotere la porta. La qual cosa molti de’ vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire: «Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte».
Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse: «Chi è laggiù?»
Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose: «Io sono un fratello della donna di là entro».
Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse: «Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giù, e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona»; e tornatosi dentro serrò la finestra.
Alcuni de’ vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio dissono: «Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore».
Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da’ conforti di coloro li quali gli pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de’ suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza sa per dove s’andasse, prese la via per tornarsi all’albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l’alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n’entrarono; e quivi l’un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l’altro insieme gl’incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l’uno: «Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire»; e questo detto alzata alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d’Andreuccio, e stupefatti domandar: «Chi è là?»
Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: «Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo».
E a lui rivolti, disse l’uno: «Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co’ denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola». E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: «Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai».
Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch’era presto.
Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d’oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l’uno: «Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente?» Disse l’altro: «Sì , noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e laverenlo spacciatamente». Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v’era ma il secchione n’era stato levato: per che insieme diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.
Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti. Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d’acqua essere appicato. Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così, lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s’incominciò a maravigliare. 
Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove. Così andando si venne scontrato in que’ due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l’avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s’eran fuggiti e chi stati eran coloro che su l’avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n’andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e furono all’arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch’era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo.
E fatto questo, cominciò l’uno a dire: «Chi entrerà dentro?»
A cui l’altro rispose: «Non io».
«Nè io» disse colui «ma entrivi Andreuccio».
«Questo non farò io» disse Andreuccio.
Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: «Come non v’enterrai? In fè di Dio, se tu non v’entri, noi ti darem tante d’uno di questi pali di ferro sopra la testa, che noi ti farem cader morto».
Andreuccio temendo v’entrò, e entrandovi pensò seco: «Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall’arca, essi se ne andranno pe’ fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna». E per ciò s’avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all’arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v’avea. Costoro, affermando che esser vi doveva l’anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne ad aspettare. Costoro che d’altra parte eran sì come lui maliziosi, dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio dell’arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall’arca lasciaron racchiuso. La qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare.
Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell’arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l’arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all’un de’ due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra’ vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato. E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co’suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l’arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse: «Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v’entrerò dentro io». E così detto, posto il petto sopra l’orlo dell’arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi giuso calare.
Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l’una delle gambe e fè sembiante di volerlo giù tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell’arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l’arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.
La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all’avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi compagni e l’albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de’fatti suoi. A’ quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell’oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.

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Miniatura recante immagini riguardanti la novella di Andreuccio

Mi è stato raccontato che a Perugia visse un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, sensale di cavalli che, avendo sentito che a Napoli si teneva un grande mercato di cavalli, si mise in borsa ben cinquecento fiorini d’oro e, pur non essendo mai uscito fuori di casa, vi andò insieme ad altri mercanti. Giunto là la domenica sera, informato dall’oste (dell’albergo), il giorno seguente si trovò al mercato; vide molti cavalli e molti gli piacquero e fece trattative su molti di essi, ma non si accordò con nessuno e, volendo mostrare che lui era lì per comperare, essendo inesperto ed incauto, spesse volte in presenza di chi andava e di chi veniva, faceva vedere questa borsa piena di fiorini.
E mentre faceva trattative, avendo più volte mostrato la borsa con dentro il denaro, accadde che una bellissima donna siciliana, ma disposta per poco prezzo a compiacere qualsiasi uomo, senza che Andreuccio la vedesse, passò vicino a lui vedendo la borsa con il denaro dentro e immediatamente disse fra sé: «Chi starebbe meglio di me se quei denari fossero i miei?» e andò oltre. Era con questa ragazza una vecchia, anche lei siciliana che appena vide Andreuccio lasciò che la ragazza andasse avanti  e corse affettuosamente ad abbracciarlo: la giovane si accorse della situazione ma non disse niente e si mise ad aspettare. Andreuccio rivoltosi dapprima alla vecchia, ricambiò l’abbraccio e si mostrò molto contento (di averla rincontrata); lei gli promise che sarebbe andata all’albergo a salutarlo e se ne andò; Andreuccio continuò a trattare, ma quel giorno non comperò nulla. La giovane, che dapprima aveva visto la borsa e poi la familiarità della sua vecchia nei confronti di lui, per capire come fare ad entrar in possesso dei denari o tutti o solo una parte di essi, con accortezza cominciò a domandare chi fosse, da dove venisse e cosa fosse venuto a fare qui e come mai lo conoscesse. La donna anziana riferì particolarmente i fatti d’Andreuccio, come glieli avrebbe riferiti lui stesso, essendo lei stata per un lungo periodo in Sicilia col padre di lui e poi nella stessa Perugia.  Inoltre gli disse in quale albergo dimorava ed il motivo per cui fosse a Napoli.
La giovane, pienamente informata sul parentado e sui nomi di Andreuccio, per soddisfare il suo desiderio (di denaro) con un inganno sottile, fondò il suo piano sulle informazioni ricevute: tornata a casa mandò la vecchia a sbrigare faccende che la tenessero lontana affinché non potesse tornare da lui e presa una servetta, abituata a prestare di questi servizi alla padrona, verso sera la mandò all’albergo dove Andreuccio aveva preso alloggio.
Costei, giunta all’albergo, per caso trovò lui solo sulla porta e gli chiese di Andreuccio. Rispondendo che era lui stesso, tiratolo da parte, le disse: «Signore, una gentil donna di questa terra, quando riterrete più opportuno, vi parlerebbe volentieri». Il quale, pur di vederla, considerando se stesso e ritenendo di essere un bel giovane, pensò che la donna si fosse innamorata di lui, come se non ci fosse altro bel giovane allora a Napoli al di fuori di lui, e subito rispose che era pronto e domandò dove e quando questa donna avesse intenzione di parlargli.
Al che la fanciulla rispose: «Signore, quando siete in grado di venire, ella v’aspetta casa sua».
Andreuccio subito, senza dir nulla all’oste dell’albergo, disse: «Dai, vai avanti che ti seguo».
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  Alberto Criscione: Andreuccio di Perugia (2014)

Quindi la fanticella la condusse a casa della donna, che dimorava in un luogo chiamato Malpertugio (luogo realmente esistente nella Napoli di allora, piuttosto malfamato, il cui nome deriva da buco – pertugio – nel muro della città che lo metteva in comunicazione direttamente con il porto) il cui nome stesso rivela quanto sia un poco onesto quartiere. Ma Andreuccio stesso, non sapendolo né sospettandolo, credendo d’andare in un luogo distinto e da una gentile e cara donna, ingenuamente, preceduto dalla fanciulla, entrò a casa della donna e salendo le scale, avendo la servetta chiamata già la padrona, annunciandole: «Ecco Andreuccio», egli la vide sulla cima della scala ad aspettarlo.
Lei era ancora molto giovane, alta e con un viso bellissimo, vestita e ornata onorevolmente e come Andreuccio le fu vicino, scese tre gradini con le braccia aperte e si avvinghiò al suo collo senza dire parola, come se fosse bloccata da eccessiva tenerezza, poi, lacrimando gli baciò la fronte e con voce alquanto tremante disse: «Oh Andreuccio, tu sei il benvenuto».
Egli, meravigliandosi di così tanta tenerezza, completamente stupefatto, rispose: «Signora, voi siete la ben trovata!»
Dopo lei lo prese per mano e lo condisse nella sala e continuando a non parlare, attraverso essa lo fece entrare nella sua camera che profumava di rose, fiori d’arancio e altro e là vide un bellissimo letto chiuso da cortine e molti abiti appesi alle pertiche, secondo l’abitudine di quei luoghi, e altre belle e ricche suppellettili per cui, inesperto com’era, sicuramente credette che lei fosse perlomeno una gran donna.
Si misero a sedere insieme su una cassapanca che era posta ai piedi del letto, e lei così cominciò a parlare: «Andreuccio, io sono sicura che tu ti sia meravigliato sia delle carezze che delle lacrime, dal momento che tu non mi conosci e forse non hai mai sentito parlare di me. Ma sentirai ben presto qualcosa che ti farà sicuramente meravigliare e cioè che io sono tua sorella; e ti dico che, dal momento che Dio mi ha fatto una così grande grazia che io, prima di morire, abbia conosciuto un mio fratello, sebbene io voglia vedervi tutti, quando arriverà la mia ora non potrò che morire consolata. E se tu di questo fatto non ne sai niente, te lo dirò io. Pietro, mio padre e tuo, come credo che tu abbia potuto sapere, stette per molti anni a Palermo e, per la sua benevolenza ed amabilità, ci fu, ed ancora vi è fra loro, chi lo apprezzò. Ma tra gli altri che molto lo apprezzarono mia madre, che era nobildonna e allora era vedova, fu quella che l’amò, tanto che, abbandonata la paura del padre, dei fratelli ed il suo onore, familiarizzò tanto con lui, così che nacqui io e sono diventata come tu vedi. Poi, sopraggiunto un motivo per cui Pietro dovette abbandonare la Sicilia, mi lasciò bambina con mia madre, né mai, per quanto io ne abbia saputo, si ricordò né di me né di lei: per cui io, se non fosse stato mio padre, lo rimprovererei duramente riguardo la sua ingratitudine verso mia madre (lasciamo stare l’amore che avrebbe dovuto mostrarmi, non essendo nata né da una fante né da una qualunque villana) la quale, spinta da un amore fortissimo, aveva messo se stessa e le proprie cose nelle sue mani, senza sapere altrimenti chi egli fosse. Ma che serve lamentarsi? Le cose mal fatte nel passato è tanto più semplice biasimarle che correggerle, quindi le cose avvennero in questo modo. Egli mi lasciò piccola a Palermo dove, cresciuta come mi vedi adesso, mia madre mi diede in moglie ad uno di Agrigento, nobile uomo e pieno di virtù che, per amor di mia madre si trasferì a Palermo; e qui, essendo egli un guelfo convinto, cominciò a tenere trattative segrete con Carlo (Angioino). La cosa, giunta all’orecchio di Federigo II d’Aragona (re di di Sicilia dal 1302 al 1337) prima che potesse essere messa in atto, fu il motivo che ci spinse ad abbandonare la Sicilia, proprio nel momento in cui io avrei potuto diventare la più gran dama, moglie di un cavaliere del regno, dell’isola; quindi, prese poche cose fra quelle che poterono esser prese, rispetto alle molte che laggiù possedevamo, lasciate le terre ed i palazzi, ci rifugiammo in questa terra, dove trovammo il re Carlo così riconoscente nei nostri confronti che, una volta che ci ebbe risarcito in parte delle perdite subite a causa sua, ha dato e continua a dare a mio marito, tuo cognato, case e terre ed un buon stipendio, come puoi vedere. E per questo sono qui, fratello mio dolce, dove io, grazie a Dio e non a causa tua, ti vedo (per la prima volta)».
E dopo aver detto questo, di nuovo l’abbracciò e ancora lacrimando gli baciò la fronte teneramente.
Andreuccio, sentendo questa favola raccontata in modo così acconcio e composto da lei che in nessuna parola aveva mostrato qualche incertezza o balbettato qualcosa e ricordando che il padre in gioventù era stato a Palermo, sapendo per esperienza personale che i giovani volentieri si lasciano andare all’amore, vedendo inoltre le lacrime, gli abbracci e i casti baci di lei, considerò che le cose che la donna diceva fossero più che vere e dopo che lei tacque disse: «Signora, non vi dovete sorprendere se io mi meraviglio, perché in verità, o perché mio padre, per qualunque motivo lo facesse, non parlava mai di vostra madre o di voi, o perché, se egli ne parlò, io non sia venuto a saperlo, io non avevo nessuna conoscenza di voi, come se non esisteste e mi è molto più caro l’aver trovata mia sorella qui, in quanto sono solo e tanto meno avrei sperato questo. In verità io non conosco uomo di così alto stato sociale al quale voi non dovreste esser così gradita e meno che a me che sono un piccolo mercante. Ma vi prego ditemi: come avete saputo che io ero qui?»
A lui lei rispose: «Questa mattina me lo fece sapere una povera donna che s’intrattiene con me, che stette con nostro padre, così mi ha detto, per molto tempo a Palermo e a Perugia, e se non fosse stata cosa più che onesta che tu venissi nella tua casa (in quanto mio fratello questa ti appartiene) che io venissi in un albergo, da molto tempo sarei venuta da te».
Dopo queste parole la donna cominciò dettagliatamente a domandare dei parenti, chiamandoli per nome, a cui Andreuccio rispose, sempre più confermandosi di ciò che di meno avrebbe dovuto confermarsi.
Avendo parlato a lungo e facendo molto caldo, la donna fece portare vino bianco e dolcetti e diede da bere ad Andreuccio; costui, dopo questo voleva andar via, perché era giunta l’ora di cena, ma lei in nessun modo accettò, anzi facendo finta di turbarsi, abbracciandolo disse: « Povera me, che ora capisco come poco ti sia cara! Come si può pensare che tu sia qui, con tua sorella che non hai mai visto, e in casa sua, dove, venendo qui, avresti dovuto fermarti, e tu voglia uscire per andare a cena all’albergo?» Tu cenerai con me e, sebbene mio marito non ci sia e di ciò mi dispiace molto, io saprò farti un poco d’onore, secondo quanto può fare una donna».
Alla quale Andreuccio, non sapendo cosa rispondere, disse: «Io vi ho cara, come dev’essere cara una sorella, me se non vado sarò aspettato tutta la sera per cena e farei un atto da villano».
E lei: «Lodato sia Dio se io non ho qualcuno da mandare a dire di non aspettarti! Sebbene tu facessi maggiore cortesia, nonché rispetto degli impegni, a dire ai tuoi compagni che venissero a cena qui e poi, se volessi andar via, ve ne potreste andare tutti insieme in compagnia».
Andreuccio rispose che non voleva compagni quella sera, ma poiché le era gradito, poteva disporre di lui come voleva. Lei fece finta di mandare qualcuno ad avvertire l’oste dell’albergo di non aspettare Andreuccio e poi, dopo aver parlato molto, si misero a cena e furono serviti splendidamente con più vivande; lei in modo astuto condusse il pasto fino a notte inoltrata ed essendosi alzati da tavola e volendo Andreuccio andar via, ella disse che non l’avrebbe sopportato, visto che Napoli non era una città da andare in giro di notte, soprattutto per un forestiere; e così come aveva fatto per la cena, l’oste era stato avvertito anche per il dormire. Lui credendo a ciò e facendogli piacere rimanere con lei, ingannato da una falsa verità, rimase. Ci furono molti e lunghi discorsi, condotti da lei non senza una ragione, ed essendo già passata parte della notte, lei, lasciato Andreuccio a dormire in compagnia di un bambino che lo servisse in caso di necessità, andò in un’altra camera in compagnia delle sue ancelle. 
Faceva molto caldo, per cui Andreuccio si tolse subito il giubbetto e le brache, le mutande e le calze e posò tutto al capo del letto; poiché la naturale esigenza gli chiedeva di svuotare il peso del ventre, domandò al fanciullo dove fosse il luogo adibito a ciò, che gli fece vedere una porticina in un angolo della camera, dicendogli: «Andate là». Andreuccio, entrato senza sospetto, per caso posò il piede sopra un asse, la cui parte opposta era stata schiodata, per cui capovolgendosi, la tavola stessa con lui caddero in basso; e Dio lo amò talmente tanto che nel cadere non si fece male, ma s’imbrattò di escrementi, di cui il luogo era pieno. Questo luogo, affinché capiate ciò che ho detto e che dirò, vi mostrerò in che modo era. Quel luogo si trovava in uno stretto vicoletto, come spesso vediamo tra due case: c’erano alcune tavole confitte sopra due travicelli posti tra l’una e l’altra casa, sopra le quali tavole era posta la seduta; una di queste tavole era quella che cadde insieme a lui.
Andreuccio, ritrovandosi nel vicolo (che raccoglieva gli escrementi), sofferente per l’accaduto, cominciò a chiamare il bambino; ma il bambino, appena l’ebbe sentito cadere, corse a dirlo alla donna. Quest’ultima corse nella sua camera e velocemente cercò dove fossero i suoi vestiti e trovati e con essi i soldi, che lui pazzamente portava sempre addosso, ciò per cui gli aveva teso la trappola, fingendosi sorella palermitana di un perugino, non interessandosi più a lui, chiuse prontamente la porta da cui era entrato per cader giù.
Andreuccio, visto che il fanciullo non rispondeva, cominciò a chiamarlo più forte, ma non servì a niente. per cui lui, che già cominciava a sospettare e cominciando a capire l’inganno, salito su un muricciolo che divideva il vicoletto dalla strada, si mise in via e andò verso l’uscio della casa della donna che sapeva già riconoscere, e qui inutilmente lungamente chiamò, scosse e colpì la porta. Piangendo per la situazione, che ormai aveva già capito, cominciò a dire: «Povero me, come in breve tempo ho perduto cinquecento fiorini e una sorella!»
E dopo molti altri lamenti, di nuovo ricominciò a battere l’uscio e a chiamare, tanto che molti vicini svegliati, non sopportando più il chiasso, si alzarono e una delle serve della donna, in apparenza insonnolita, affacciatasi alla finestra con tono di rimprovero disse: «Chi picchia laggiù?»
«Oh», disse Andreuccio «non mi riconosci? Sono Andreuccio, fratello della signora Fiordaliso».
A lui rispose: «Buon uomo, se hai bevuto troppo, va a dormire e torna domani mattina; io non so chi sia Andreuccio né le frottole che tu dici; va alla buonora e, per favore, lasciaci dormire»
«Come», rispose Andreuccio «non sai che dico? Certo che lo sai; ma se sono così fatti i parenti siciliani, che in così poco tempo si dimenticano, restituiscimi perlomeno i vestiti, che ho lasciato dentro, e, con la volontà di Dio, me ne andrò.»
Al quale la donna, quasi ridendo, rispose: «Buon uomo, mi sembra che tu stia sognando» e dire questo, tornare dentro e chiudere la finestra, fu un tutt’uno.
Allora Andreuccio, già convinto dell’inganno, per il dolore si vide quasi a tramutare la sua ira in rabbia e con violenza propose di rivolere quello che non era riuscito ad ottenere con parole; per cui di nuovo, presa una grande pietra, con colpi più forti di prima ferocemente ricominciò a picchiare la porta. Per questo, molti dei vicini svegliatisi ed alzatisi, pensando essere lui un “delinquente” che dicesse bugie per disturbare la “buona donna”, infastiditi dal chiasso che egli stava facendo, affacciandosi alle finestre, non diversamente che un cane non della zona fosse circondato da un branco inferocito, cominciarono a dire: «E’ da gran maleducati venire a quest’ora a casa delle buone donne e dire queste fandonie. Dunque, va con Dio, lasciaci dormire, per favore; e se tu hai qualcosa da risolvere con lei, non ci dare questa seccatura stanotte».
Da queste parole, rassicurato forse uno che era dentro casa, protettore della buona donna, che Andreuccio non aveva visto né sentito, s’affacciò alla finestra e disse con voce grossa, terribile e minacciosa: «Chi è laggiù?»
Andreuccio, sollevata la testa nell’udire quella voce, vide uno il quale, per quel poco che poté capire, aveva l’aspetto di una persona importante, con una barba nera e folta che gl’incorniciava il volto, e come se si fosse appena svegliato da un grande sonno e alzato dal letto, sbadigliava e e si stropicciava gli occhi, a cui egli, anche con un po’ di paura, rispose: «Io sono un fratello della donna là dentro».
Ma l’uomo non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi, più burbero di prima, disse: «Io non so chi mi trattiene dallo scendere giù e darti tante bastonate finché continui a muoverti, asino fastidioso e ubriaco che non sei altro, che questa notte non permetterai a nessuno di dormire», e tornato dentro chiuse la finestra.
Alcuni dei vicini, che sapevano chi fosse e cosa abitualmente facesse, sottovoce si rivolsero ad Andreuccio e dissero: «Per Dio, buon uomo, va con Dio, non voler essere ammazzato qui, vattene per il tuo bene».
Per questo Andreuccio, spaventato dalla voce e dall’aspetto di quell’uomo e sospinto da coloro che sembravano aver avuto compassione di lui, pieno di dolori come nessuno e disperato per (aver perduto) tutti i soldi, verso quella parte dove il mattino aveva seguito la fanciulla, senza sapere dove andare, cercò la via dell’albergo. Ma vergognandosi per il puzzo che emanava, desideroso di andare verso il mare per lavarsi, girò verso sinistra e si ritrovò per una via chiamata Ruga Catalana. E camminando verso la parte alta della città, per caso si vide davanti due persone con una lanterna in mano che procedevano verso la sua direzione e temendo che fossero guardiani di corte o delinquenti disposti a far del male, per evitarli, si rifugiò senza far rumore in un casolare disabitato, che vide essere vicino. Ma quelli, come se avessero come meta lo stesso casolare vi entrarono e qui, uno di loro, scaricati certi strumenti di ferro che aveva appesi sul collo, con l’altro cominciarono a studiarli, parlando fra loro sul loro utilizzo.
Mentre parlavano, uno disse: «Ma che è? Io sento la peggior puzza che abbia mai sentito in vita mia» e detto questo, alzata la lanterna, videro il malcapitato Andreuccio e, meravigliati domandarono «Chi è là?»
Andreuccio non rispondeva, ma loro domandarono che cosa facesse lì così pieno di merda e allora Andreuccio raccontò tutto ciò che gli era capitato. Costoro, immaginando dove ciò potesse essere avvenuto, dissero tra loro: «Senz’altro questo dev’essere accaduto a casa del delinquente Buttafuoco».
Rivolgendosi a lui, uno di loro disse: «Buon uomo, benché tu abbia perduto i denari, devi lodare Dio che sei caduto dalla latrina e non sei rientrato in casa, perché se non fossi caduto, stai sicuro che appena ti fossi addormentato saresti stato ammazzato e avresti perso sia i denari che la vita. Ma che serve ora piangere? Tu così potresti avere un denaio (dodicesima parte di un fiorino) come tutte le stelle del cielo: sicuramente verrai ucciso, se parlerai con qualcuno di ciò che ti è accaduto».
Detto questo, parlando tra loro, gli dissero: «Vedi, ci è venuta la compassione per la tua situazione: e per ciò, quando tu voglia venire con noi per fare una cosa che stiamo andando a fare, siamo sicuri che in parte ti spetterà un valore (guadagno) maggiore di quanto hai perduto».
Andreuccio, vedendosi disperato, accettò.
Quel giorno si era celebrato il funerale dell’arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, ed era stato seppellito con ricchissimi ornamenti e con un rubino nel dito, il quale valeva oltre cinquecento fiorini d’oro, che costoro volevano andare a rubare; e questo comunicarono ad Andreuccio.
Per questo Andreuccio, più avido che prudente, si mise in cammino con loro; andando verso la Chiesa Maggiore e poiché Andreuccio puzzava intensamente, disse uno dei due ladri: «Non potremmo noi fare in modo che costui si lavasse un po’ in un posto qualsiasi, affinché non puzzi così fortemente?»
Disse l’altro: «Sì, noi siamo qui vicino ad un pozzo che da sempre ha la carrucola ed un secchio; andiamo là e lo laveremo velocemente»
Giunti a questo pozzo videro che la fune c’era, ma il secchio era stato tolto, per cui pensarono di legarlo alla fune e di calarlo nel pozzo; una volta sceso, lui laggiù si lavasse, dopo scrollasse la fune e lo avrebbero riportato su; e così fecero. 
Ma successe che, avendo calato Andreuccio, alcune guardie della Signoria che per il caldo o perché avevano inseguito qualcuno, avendo sete, s’avvicinarono a quel pozzo e come quei due li videro subito cominciarono a correre, poiché i gendarmi che qui venivano a bere non li avevano visti. Quest’ultimi, assetati, posero in terra gli scudi di legno, le armi e la sopravveste e cominciarono a tirare la fune credendo che alla fine di essa vi fosse il secchio pieno d’acqua. Non appena Andreuccio si vide vicino all’orlo del pozzo, si avvinghiò con le mani ad esso: i guardiani, vedendo ciò, presi da immediata paura, senza dire altro lasciarono la fune e cominciarono a fuggire: cosa di cui Andreuccio si meravigliò tantissimo.
Ma avendo paura e non sapendo cosa fare, lamentandosi della sua sorte, senza toccar nulla scelse di allontanarsi e andava senza sapere dove; così camminando gli capitò d’imbattersi in quei due compagni di prima, che lo stavano raggiungendo per liberarlo dal pozzo e come lo videro, con grande stupore, gli chiesero chi l’avesse tratto su dal pozzo. Andreuccio rispose che non lo sapeva e raccontò loro ordinatamente cosa era successo e cosa aveva visto fuori del pozzo. Della qual cosa costoro, avendo capito cos’era accaduto, glielo dissero e ridendo aggiunsero perché erano fuggiti e chi erano stati a tirarlo fuori. Senza dire più niente, perché era sopraggiunta la mezzanotte, andarono nella chiesa maggiore, entrarono facilmente e si avvicinarono al sepolcro, che era di marmo e molto grande; sollevarono con il ferro il coperchio, che era pesantissimo, quel tanto che un uomo ci potesse passare e misero un puntello.
Fatto questo uno dei due disse: «Chi entrerà là dentro?»
A cui l’altro rispose: «Non io».
«Nemmeno io», disse il primo, «ma vi entra Andreuccio»
«Questo non lo faccio» disse Andreuccio.
Verso di lui si rivolsero entrambi e dissero: «Come non vi entrerai? In verità se tu non entri, noi ti daremo tanti colpi in testa con questi pali di ferro che ti uccideremo».
Andreuccio per paura vi entrò e, mentre entrava, tra sé pensò: «Questi mi fanno entrare per ingannarmi, perciò, come io avrò dato loro ogni cosa, mentre faticherò per uscir dall’arca, se ne andranno per fatti loro ed io rimarrò senza niente» E perciò pensò per prima cosa di tenersi la parte propria e, ricordandosi del prezioso anello di cui avevano parlato, come fu nel sepolcro, lo tolse dal dito dell’arcivescovo e se lo mise addosso; e poi, dato il pastorale, la mitra e i guanti e spogliatolo fino a lasciarlo in camicia, diede tutto a loro, dicendo che non vi era più niente. Questi affermando che doveva esserci l’anello, gli intimarono di cercarlo dappertutto: ma lui, dicendo di non trovarlo e fingendo di cercare, li lasciò a lungo ad aspettare. Quei due, che erano maliziosi così come era diventato Andreuccio, dicendogli di continuare a cercare, al momento opportuno tolsero il puntello, che sosteneva l’apertura del sepolcro, e fuggendo lasciarono Andreuccio lì dentro. Ciascuno può immaginare come stesse. 
Egli tentò più volte sia con la testa che con le spalle di sollevare il coperchio, ma i suoi tentativi erano vani; allora vinto da un gran dolore, cadde svenuto sopra il corpo dell’arcivescovo e chi allora li avesse visti, difficilmente avrebbe riconosciuto chi dei due era più morto, o lui o l’arcivescovo. Ma quando tornò in sé cominciò, cominciò a piangere in modo dirotto, vedendo se stesso giungere a due esiti finali: o morire di fame e ricoperto di vermi del corpo dell’arcivescovo in putrefazione in quell’arca, non venendo più nessuno ad aprirla, oppure, venendo qualcuno e trovando lui dentro, essere impiccato come ladro.
E mentre era molto addolorato, pensando tali cose, sentì gente camminare per la chiesa e parlare molte persone che, da come gli era sembrato di capire, andavano a fare ciò che lui, con i due compagni aveva fatto: per questo la sua paura aumentò. Ma dopo che costoro ebbero aperta l’arca e puntellata, incominciarono a discutere su chi dovesse entrare e nessuno lo voleva fare. Finalmente dopo una lunga discussione un prete disse: «Che paura avete? Credete che vi mangi? I morti non mangiano gli uomini. Entrerò io» E così detto, messo il petto sopra l’arca, volse la testa verso l’esterno e mandò all’interno le gambe per doversi calare giù. Andreuccio, vedendo questo, sollevatosi in piedi prese il prete per una delle gambe e cominciò a tirarlo. Il prete, sentendo ciò, emise un grandissimo urlo, e si gettò fuori; vedendo questo tutti gli altri  spaventati cominciarono a fuggire come se fossero inseguiti dai diavoli, lasciando l’arca aperta.
La qual cosa vedendo Andreuccio, felice oltre ciò che sperava, subito si gettò verso l’esterno  e, ripassando su quella strada attraverso cui era giunto in chiesa, ed essendo vicini all’alba, andato a caso con quell’anello al dito, giunse alla Marina e da lì giunse al suo albergo dove ritrovò i suoi compagni e l’albergatore tutti in ansia per lui. A loro raccontò ciò che gli era capitato e sembrò opportuno all’oste farlo partire immediatamente da Napoli; osa che lui fece subito e tornò a Perugia, avendo il suo denaro investito in un anello, quando era andato a comprare un cavallo.   

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Illustrazione della novella di Boccaccio

La novella di Andreuccio, come quella di Landolfo, tratta di fortuna, per meglio dire delle disavventure che possono capitare e di come, da esse, si possa uscire. Se in Landolfo il motore della fortuna è il mare, in Andreuccio è la città.

Se queste possono essere le similarità, di più sono le differenze che contraddistinguono le due narrazioni. In primo luogo il racconto di Andreuccio si struttura come un bildungsroman (romanzo di formazione) in quanto la vicenda del protagonista disegna un percorso in cui il giovane mercante “rozzo e poco cauto” arriva , non senza atteggiamenti di ribalderia e furbizia a possedere un anello di più alto valore del denaro perso. Tale acquisizione di consapevolezza viene da Boccaccio strutturato attraverso un percorso oppositivo che vede contrapposti l’alto ed il basso, il dentro e il fuori. Andreuccio dapprima viene accolto in casa (dentro: sicurezza) quindi cade nel pozzetto (basso/fuori). Le due opposizioni vogliono indicare lo stato di pericolo da cui riemerge con un grado di conoscenza superiore. Allo stesso modo la seconda opposizione: strada (alto: sicurezza) pozzo, (caduta, situazione di pericolo) ed anche la terza (arca: dentro) esterno e fuga (fuori: scioglimento).

Il tutto viene raccontato con una capacità realistica che ha dello straordinario, mostrando una Napoli labirintica che offre possibilità di “fortuna” come il mare. Il Boccaccio ottiene questo effetto grazie alla conoscenza di luoghi (Malpertugio, Ruga Catalana, Marina) e persone (Buttafuoco e Fiordaliso) che sono effettivamente reali e, come ci dicono i documenti dell’epoca, esistenti. In mezzo a tale realtà l’autore inserisce la casualità (“per ventura” ricorre piuttosto spesso nel racconto) che solo una città caotica come quella della città campana poteva offrire. Per questo possiamo concludere con la definizione di Mario Baratto che afferma come Boccaccio riesca a cogliere “il meraviglioso della realtà, il miracolo quotidiano” proponendosi come “il primo grande scrittore nel Medioevo, che abbia colto la natura avventurosa della città, il potenziale narrativo che essa contiene”.   

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Celedonio Perellon: Illustrazione per l’edizione spagnola del Decameron (2009)

TERZA GIORNATA

La terza giornata è posta sotto la reggenza di Neifile in cui si racconta di chi alcuna cosa molto da lui disiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.

La prima novella della giornata è narrata da Filostrato, il quale vuol dimostrare come le religiose sono donne e quindi, come tali, naturalmente portate al piacere e allo stesso tempo come un uomo, pur di condizione umile e bassa, può raggiungere il piacere (sessuale) usando un po’ di furbizia ed intelligenza:

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Manoscritto risalente al XIV che riproduce la novella di Masetto

MASETTO DA LAMPORECCHIO SI FA MUTOLO E DIVIENE ORTOLANO DI UNO MONISTERO DI DONNE, LE QUALI TUTTE CONCORRONO A GIACERSI CON LUI.
(III,1)

In queste nostre contrade fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua), nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d’un loro bellissimo giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond’egli era, se ne tornò. Quivi, tra gli altri che lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero servisse.
A cui Nuto rispose: «Io lavorava un loro giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. E, oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch’elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand’io lavorava alcuna volta l’orto, l’una diceva: “Pon qui questo”; e l’altra: “Pon qui quello”; e l’altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: “Questo non sta bene”; e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami dell’orto; sì che, tra per l’una cosa e per l’altra, io non vi volli star più e sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se io n’avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno.
A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell’animo un disidero sì grande d’esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava. E avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse: «Deh come ben facesti a venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse».
Ma poi, partito il lor ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose divisate seco, imaginò: «Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista d’esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto».
E in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad alcuno dove s’andasse, in guisa d’un povero uomo se n’andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l’amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne. Il castaldo gli diè da mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d’ora ebbe tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d’andare al bosco, il menò seco, e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l’asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse. Costui il fece molto bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il castaldo chi egli fosse.
Il quale le disse: «Madonna, questi è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c’erano. Se egli sapesse lavorar l’orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n’avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l’uom fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d’aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani.»
A cui la badessa disse: «In fè di Dio tu di’il vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio di scarpette qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare».
Il castaldo disse di farlo. Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e seco lieto diceva: «Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l’orto che mai non vi fu così lavorato».
Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl’impose che egli l’orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui lasciò. Il quale lavorando l’un dì appresso l’altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de’mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.
Or pure avvenne che costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che per lo giardino andavano, s’appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l’una, che alquanto era più baldanzosa, disse all’altra: «Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare».
L’altra rispose: «Di’ sicuramente, ché per certo io nol dirò mai a persona».
Allora la baldanzosa incominciò: «Io non so se tu t’hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare, se non il castaldo ch’è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l’altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l’uomo. Per che io m’ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è. Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui; ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi ch’egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri udirei quello che a te ne pare».
«Ohimè!» disse l’altra, «che è quello che tu di’? Non sai tu che noi abbiam promesso la virginità nostra a Dio?»
«Oh», disse colei, «quante cose gli si promettono tutto ‘l dì, che non se ne gli attiene niuna! Se noi gliele abbiam promessa, truovisi un’altra o dell’altre che gliele attengano».
A cui la compagna disse: «O se noi ingravidassimo, come andrebbe il fatto?»
Quella allora disse: «Tu cominci ad aver pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrà pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo».
Costei, udendo ciò, avendo già maggior voglia che l’altra di provare che bestia fosse l’uomo, disse: «Or bene, come faremo?»
A cui colei rispose: «Tu vedi ch’egli è in su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam per l’orto se persona ci è, e s’egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge l’acqua; e quivi l’una si stea dentro con lui e l’altra faccia la guardia? Egli è sì sciocco, che egli s’acconcerà comunque noi vorremo».

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Vincenzo Amato nella parte di Masetto nel Decameron di Pier Paolo Pasolini (1971)

Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l’esser preso dall’una di loro. Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fece che ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto quel che volea, diede all’altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s’andavano a trastullare.
Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici divennero del podere di Masetto. Alle quali l’altre tre per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi. Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s’accorgea, andando un dì tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì, per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l’ombra d’un mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto. La qual cosa riguardando la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l’ortolano non venia a lavorar l’orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual essa prima all’altre solea biasimare.
Ultimamente della sua camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante, s’avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare. E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire: «Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo».
La donna udendo costui parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse: «Che è questo? Io credeva che tu fossi mutolo».
«Madonna», disse Masetto «io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la favella mi tolse, e solamente da prima questa notte la mi sento essere restituita, di che io lodo Iddio quant’io posso».

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Un’altro fotogramma tratto dal Decameron di Pasolini (1971)

La donna sel credette, e domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le disse il fatto. Il che la badessa udendo, s’accorse che monaca non avea che molto più savia non fosse di lei; per che, come discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato. Ed essendo di que’ dì morto il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo, la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali, come che esso assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier gli fece venir fatto.
Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s’era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra ‘l cappello.

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Rockwell Kent: illustrazione per il Decameron (1934)

In queste nostre terre ci fu e c’è ancora un monastero femminile molto famoso per santità (che non nominerò per non intaccare la sua fama di santità), nel quale, non molto tempo fa, essendoci solo otto monache ed una badessa, tutte di età giovanile, vi lavorava un bravo ometto, ortolano in un loro bellissimo giardino che, non contentandosi più dello stipendio, fatti i conti con il fattore delle monache, tornò a Lamporecchio, da dove era partito. Qui tra i molti che l’accolsero, era presente un giovane, sebbene contadino, forte, robusto e bello, che si chiamava Masetto. Lui gli domandò dove fosse stato tutti quegli anni e il buon uomo, che si chiamava Nuto, glielo disse; Masetto gli chiese anche quali fossero i servizi che nel monastero prestava. Nuto gli rispose: «Coltivavo un loro giardino, bello e grande; talvolta andavo a far legna nel bosco; prendevo l’acqua e mi dedicavo anche ad altri lavoretti; ma le monache mi pagavano così poco da non potermi neanche comprare i calzari. Per di più le monache sono tutte giovani e sembra abbiano il diavolo in corpo, perché non si può fare nulla ce a loro vada bene. Quando io lavoravo l’orto, una diceva: “Metti questi qui”, l’altra “posa quello là”, un’altra mi toglieva la vanga dalle mani e diceva: “non si fa così” e mi davano tante seccature che io preferivo andare via dall’orto col lavoro a metà; così tra una cosa e l’altra, avevo deciso d’andarmene e sono rivenuto. Inoltre mi pregò il loro fattore, quando stavo andando via, se conoscessi qualcuno per sostituirmi e glielo promisi; ma possa Dio preservarmi i reni, se io gli procurerò o gli manderò qualcuno».
A Masetto, che aveva sentito le parole di Nuto, gli venne una voglia matta di stare con le monache che se ne moriva, capendo dalle parole dell’ortolano che gli sarebbe stato possibile ricevere qualcosa di quello che desiderava e, sapendo che non sarebbe riuscito se avesse rivelato il desiderio a Nuto, gli disse: «Dio come hai fatto bene ad andartene! A cosa si riduce un uomo a stare con le donne? Meglio stare con i diavoli: loro non sanno sette volte su sei cosa loro stesse vogliono». 
Finita la loro conversazione, Masetto cominciò a pensare in che modo potesse rimanere con le monache e rendendosi conto che sapeva fare tutto ciò che serviva loro, temeva di non essere accettato perché era troppo giovane e avvenente. Pensate ed esaminate, riguardo a questo, molte cose, disse tra sé: “Il luogo e abbastanza lontano da qui e nessuno mi conosce. Se io faccio finta di essere muto, sono sicuro che mi riceveranno».
Convinto del suo pensiero, con una scure sulla spalle, senza dire niente a nessuno, come un povero uomo andò verso il monastero. Una volta entrato e trovò per caso nel cortile il castaldo verso il quale, facendo i segni come i muti, mostrò per amor di Dio di dargli da mangiare e che lui, se avesse avuto bisogno, gli avrebbe tagliato la legna. Il castaldo diede a lui volentieri da mangiare e gli mise di fronte alcuni ceppi che Nuto non aveva potuto tagliare, che lui, da uomo forte com’era, in breve tempo, spezzò. Quindi lo portò al bosco ed anche lì gli fece far legna: quindi gli mise l’asino davanti e con cenni gli disse di portarla al monastero. Egli fece il suo compito molto bene, per cui il fattore per più giorni gli fece fare dei lavori di cui aveva bisogno: in quei giorni capitò che la badessa lo vide e domandò al fattore chi fosse.
Il fattore rispose: «Signora, costui è un povero uomo muto e sordo, che, qualche giorno fa è venuto per elemosinare (qualcosa da mangiare), che io gli ho dato e gli ho fatto fare molte cose che erano necessarie. Se lui sapesse lavorare l’orto e volesse rimanere, io credo faremo un bell’affare, perché un uomo come lui ci serve, è forte, e si potrebbe fargli fare ciò che lei desidera; inoltre non dovreste preoccuparvi perché non infastidirebbe con parole le giovani monache».
A lui la badessa rispose: «In nome di Dio, tu dici il vero! Fa in modo di sapere se egli sappia lavorare la terra e cerca di trattenerlo: dagli un paio di scarpe, un vecchio cappuccio e soddisfalo, sii affettuoso e nutrilo bene».
Il fattore lo fece. Masetto che non era lontano, ma facendo finta di spazzare il cortile, sentiva tutto e fra sé diceva: «Se voi mi mettete dentro il monastero, lavorerò l’orto così come nessuno prima di me l’ha mai lavorato!»
Il castaldo avendo visto che sapeva lavorare molto bene, gli fece capire a cenni se lui volesse rimanere a cui lui con gesti disse di sì e quindi, avendolo assunto, gli comandò di lavorare l’orto e gli fece vedere ciò che doveva fare. Quindi andò per altri suoi impegni e lo lasciò solo. Masetto lavorava da più giorni e le monache cominciarono ad infastidirlo e a prenderlo in giro, come spesso si fa con i sordomuti, dicendogli le peggiori parole, pensando che lui non le sentisse; e la badessa che pensava che così senza “coda”, come senza parola fosse, di ciò non si dava pensiero.
Un giorno avvenne, avendo Masetto lavorato molto ed essendosi messo a riposare, che due giovani monache che passeggiavano per il giardino, s’avvicinarono dove lui fingeva di dormire e cominciarono a guardarlo; e allora una, che era più spigliata,  disse all’altra: «Se io sapessi che tu sai mantenere un segreto, io ti confesserei un’idea che mi è venuta spesso in testa, che potrebbe essere gradita anche a te».
«Parla con tranquillità, che io non lo dirò a nessuno»
Allora la più sfacciata cominciò a dire: «Io non se ti sei mai accorta su come siamo chiuse in regole rigide, che mai in questo monastero alcun uomo osa entrare se non il fattore, che è vecchio e questo muto. Io sentito dire spesso e a più di una donna che è venuta qui che tutte le altre dolcezze sono uno scherzo rispetto a quella di far l’amore con uomo; per questo mi sono messa in testa, dal momento che non ho altre occasioni, di voler provare con questo muto se questo è vero; e lui è io migliore del mondo per far ciò dal momento che, pur volendolo, non potrebbe ridirlo. Tu vedi che è un tale giovinaccio scemo, che è cresciuto prima lui del suo cervello. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi».
«Ohimé!» disse l’altra «Cosa dici! Non sai che abbiamo promesso la verginità a Dio?»
«Oh», le rispose «quante cose gli si promettono tutto il giorno e non se mantiene nessuna! Se gliela abbiamo promessa, ne troveremo un’altra o delle altre che gli attengono»
E ancora l’altra: «E se rimanessimo incinta, come faremo?»
Le disse: «Tu cominci a preoccuparti del danno prima che avvenga: se dovesse accadere, ci penseremo; ci sarà pure io modo di non farlo sapere, se noi non lo diciamo (a nessuno)».
Quella, sentito ciò e che aveva maggior voglia dell’altra di provare che animale fosse il maschio, disse: «Come faremo?»
Allora rispose: «Tu vedi che è circa la nona (tra le due e le tre del pomeriggio): credo che le suore siano tutte a dormire, eccetto noi; guardiamo se c’è qualcuno nell’orto e se non c’è nessuno che dobbiamo fare se non prenderlo per mano e portarlo a questo capanno, dove si rifugia quando piove, e qui, mentre una sta dentro con lui, l’altra fa da guardia? Egli è talmente scemo, che farà tutto quello che noi vorremo».
Masetto ascoltava tutto quello che dicevano ed era pronto ad obbedirle aspettando che una di loro lo prendesse. Queste, guardando intorno  e considerando che non erano vedibili da alcuno, avvicinandosi quella che aveva parlato per prima a Masetto, lo svegliò e lui, immediatamente, si alzò; e quindi con atti lusinghieri preso per mano, mentre lui rideva in modo scemo, lo condusse nel capanno, dove Masetto senza farsi invitare, fece quello che lei desiderava. Uscita dopo aver fatto ciò che voleva, come compagna leale lasciò il posto all’altra; Masetto, sebbene si mostrasse sempliciotto, esaudiva il loro piacere; per cui, prima di andarsene da lì, più di una volta, vollero riprovare come il muto sapeva cavalcare; in seguito, parlando tra loro, dicevano che era una cosa più bella di come l’avevano sentita e sfruttando il tempo favorevole, col muto andavano a divertirsi.
Capitò un giorno che una loro compagna dalla finestra della sua cella si accorse di questo fatto e lo mostrò ad altre due; e prima ragionarono se dovessero dirlo alla badessa, poi, cambiato parere e messosi d’accordo con le prima, cominciarono a frequentare l’orto di Masetto; ad esse per diverse vicissitudini le altre tre divennero compagne in tempi diversi.
Da ultimo la badessa, che ancora non si era accorta di nulla, andando un giorno tutta sola per il giardino, poiché era molto caldo trovò Masetto, che durante il giorno si stancava anche per un piccolo sforzo, per l’eccessiva attività notturna, steso e addormentato sotto un albero di mandorlo; e avendo il vento spinto all’indietro i panni con cui era coperto, stava completamente scoperto. La donna, vedendolo così, cadde nello stesso appetito nel quale erano cadute le sue monachelle e, svegliato Masetto se lo portò in camera, dove per molti giorni e con grande lamentela delle monache che non vedevano più l’ortolano, lo tenne con sé provando e riprovando il piacere che lei stessa prima condannava alle altre.Rimandandolo ultimamente dalla sua camera a quella di Masetto, rivolendolo spesso e soprattutto non volendolo spartire con le altre, non potendo Masetto soddisfarle tutte, risolse che il suo essere muto, se avesse continuato, si sarebbe potuto tramutare in danno; perciò una notte, essendo con la badessa, cominciando a parlare disse: «Signora, so che un gallo può servire dieci galline, ma che dieci maschi possono soddisfare malamente o con fatica una donna, quando a me tocca soddisfarne nove; perciò non ce la posso fare, anzi sono io, per tutto quello che fino ad adesso ho fatto, arrivato al punto di non poter fare né molto né poco e perciò o mi lasciate andar con Dio o per questa cosa trovate il modo».
La donna, sentendo costui parlare, credendolo muto, si turbò e disse: «Che cosa è questa novità? Pensavo tu fossi muto».
«Signora», rispose Masetto «io ero così non per natura, ma per una malattia che mi tolse la voce, e solamente da questa notte, per la prima volta, sento che sia tornata, della qual cosa lodo il Signore per quanto posso».
La donna gli credette e gli chiese che cosa intendesse dire che lui dovesse servire a nove. Masetto glielo spiegò, il che, la badessa udendo, si rese conto che tutte le sue monache erano più avvedute di lei; per questo, discretamente, senza lasciare che Masetto partisse, decise di trovare un accordo con le monache, affinché il monastero non fosse infamato dallo stesso ortolano. Essendo quei giorni molto il fattore, di comune accordo, girata la voce cosa tutte avevano fatto, con il consenso di Masetto ordinarono che la gente del luogo doveva credere che, per le preghiere da lor fatte al santo cui era intitolato il monastero, a Masetto, per lungo tempo muto, fosse tornata la parola e fecero lui fattore; quindi si divisero le sue fatiche in modo tale che egli le potesse sopportare.  E in queste cose, sebbene grazie a lui venissero al mondo molti monachini, tutto procedette con discrezione che non se ne seppe nulla, se non dopo la morte della badessa, quando ormai Masetto vicino alla vecchiaia, mostrò il desiderio di tornare a casa, che gli fu concesso.
Così infine Masetto vecchio, ricco e padre, senza darsi il pensiero di mantenere figli, avendo saputo passare bene la giovinezza, che lo aveva visto partire con una vanga in spalla, se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli metteva le corna sul cappello. 

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Carlo Romiti: Masetto e le monache (2013) 

La novella presenta come protagonisti un lavoratore della terra e nove monache: ciò che li caratterizza è l’identità del numero tra i protagonisti della novella e i novellatori che la raccontano. Ma vi è una sostanziale differenza che emerge sia nella concezione spaziale che culturale: 

  1. i dieci novellatori appartengono alla classe alta, vivono in un locus amoenus e, in quanto “cortesi” vivono nell’idealità di una purezza non scalfibile;
  2. i dieci protagonisti (nove donne e un uomo) pur vivendo anch’essi in un locus amoenus vengono esclusi da ogni altro sguardo oltre le mure conventuali e vivono una realtà “naturale” in contrasto con l’ideale religioso. 

A questo punto bisogna sottolineare meglio tale concetto: infatti quello che qui si vuol dire è che se i dieci novellatori si aprono al mondo attraverso la parola, qui il mondo è chiuso, introiettato su stesso, attraverso un processo di regressione animale (sesso senza comunicazione) che vede l’istinto prevalere sulla ragione.

Ma non è tutto così: non per niente l’azione parte con la parola e si chiude con la parola: Masetto dapprima ascolta la parola, mette quindi in atto un processo intellettivo di tipo mercantilistico (ricerca di un mezzo per un ottenimento di un bene) e scioglie l’avvenuto ottenimento con la parola stessa. 

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Bottega degli Zavattari: Agilulfo e Teodolinda si incontrano a Lomello (1441-1446)

UN PALLAFRENIER GIACE CON LA MOGLIE D’AGIFUL RE, DI CHE AGIFUL TACITAMENTE S’ACCORGE; TRUOVALO E TONDALO; IL TONDUTO TUTTI GLI ALTRI TONDE, E COSI’ CAMPA DELLA MALA VENTURA.
(III,2)

Agilulf re de’ longobardi, sì come i suoi predecessori avevan fatto, in Pavia città di Lombardia fermò il solio del suo regno, avendo presa per moglie Teudelinga, rimasa vedova d’Autari re stato similmente de’ longobardi, la quale fu bellissima donna, savia e onesta molto, ma male avventurata in amadore. Ed essendo alquanto per la virtù e per lo senno di questo re Agilulf le cose de’ longobardi prospere e in quiete, avvenne che un pallafreniere della detta reina, uomo quanto a nazione di vilissima condizione, ma per altro da troppo più che da così vil mestiere, e della persona bello e grande così come il re fosse, senza misura della reina s’innamorò. E per ciò che il suo basso stato non gli avea tolto che egli non conoscesse questo suo amore esser fuor d’ogni convenienza, sì come savio, a niuna persona il palesava, né eziandio a lei con gli occhi ardiva di scoprirlo. E quantunque senza alcuna speranza vivesse di dover mai a lei piacere, pur seco si gloriava che in alta parte avesse allogati i suoi pensieri; e, come colui che tutto ardeva in amoroso fuoco, studiosamente faceva, oltre ad ogn’altro de’ suoi compagni, ogni cosa la qual credeva che alla reina dovesse piacere. Per che interveniva che la reina, dovendo cavalcare, più volentieri il palla freno da costui guardato cavalcava che alcuno altro; il che quando avveniva, costui in grandissima grazia sel reputava; e mai dalla staffa non le si partiva, beato tenendosi qualora pure i panni toccar le poteva.
Ma, come noi veggiamo assai sovente avvenire, quanto la speranza diventa minore tanto l’amor maggior farsi, così in questo povero pallafreniere avvenia, in tanto che gravissimo gli era il poter comportare il gran disio così nascoso come facea, non essendo da alcuna speranza atato; e più volte seco, da questo amor non potendo disciogliersi, diliberò di morire. E pensando seco del modo, prese per partito di voler questa morte per cosa per la quale apparisse lui morire per lo amore che alla reina aveva portato e portava; e questa cosa propose di voler che tal fosse, che egli in essa tentasse la sua fortuna in potere o tutto o parte aver del suo disidero. Né si fece a voler dir parole alla reina o a voler per lettere far sentire il suo amore, ché sapeva che in vano o direbbe o scriverrebbe; ma a voler provare se per ingegno colla reina giacer potesse. Né altro ingegno né via c’era se non trovar modo come egli in persona del re, il quale sapea che del continuo con lei non giacea, potesse a lei pervenire e nella sua camera entrare.
Per che, acciò che vedesse in che maniera e in che abito il re, quando a lei andava, andasse, più volte di notte in una gran sala del palagio del re, la quale in mezzo era tra la camera del re e quella della reina, si nascose; e in tra l’altre una notte vide il re uscire della sua camera inviluppato in un gran mantello e aver dall’una mano un torchietto acceso e dall’altra una bacchetta, e andare alla camera della reina e senza dire alcuna cosa percuotere una volta o due l’uscio della camera con quella bacchetta, e incontanente essergli aperto e toltogli di mano il torchietto.
La qual cosa venuta, e similmente vedutolo ritornare, pensò di così dover fare egli altressì; e trovato modo d’avere un mantello simile a quello che al re veduto avea e un torchietto e una mazzuola, e prima in una stufa lavatosi bene, acciò che non forse l’odore del letame la reina noiasse o la facesse accorgere dello inganno, con queste cose, come usato era, nella gran sala si nascose. E sentendo che già per tutto si dormia, e tempo parendogli o di dovere al suo disiderio dare effetto o di far via con alta cagione alla bramata morte, fatto colla pietra e collo acciaio che seco portato avea un poco di fuoco, il suo torchietto accese, e chiuso e avviluppato nel mantello se n’andò all’uscio della camera e due volte il percosse colla bacchetta. La camera da una cameriera tutta sonnochiosa fu aperta, e il lume preso e occultato; laonde egli, senza alcuna cosa dire, dentro alla cortina trapassato e posato il mantello, se n’entrò nel letto nel quale la reina dormiva. Egli disiderosamente in braccio recatalasi, mostrandosi turbato (per ciò che costume del re esser sapea che quando turbato era niuna cosa voleva udire), senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. E come che grave gli paresse il partire, pur temendo non la troppa stanza gli fosse cagione di volgere l’avuto diletto in tristizia, si levò, e ripreso il suo mantello e il lume, senza alcuna cosa dire se n’andò, e come più tosto potè si tornò al letto suo.
Nel quale appena ancora esser poteva, quando il re, levatosi, alla camera andò della reina, di che ella si maravigliò forte; ed essendo egli nel letto entrato e lietamente salutatala, ella, dalla sua letizia preso ardire, disse: «O signor mio, questa che novità è stanotte? Voi vi partite pur testé da me; e oltre l’usato modo di me avete preso piacere, e così tosto da capo ritornate? Guardate ciò che voi fate». 
Il re, udendo queste parole, subitamente presunse la reina da similitudine di costumi e di persona essere stata ingannata; ma, come savio, subitamente pensò, poi vide la reina accorta non se n’era né alcuno altro, di non volernela fare accorgere. Il che molti sciocchi non avrebbon fatto, ma avrebbon detto: «Io non ci fu’ io, chi fu colui che ci fu? come andò? chi ci venne?» Di che molte cose nate sarebbono, per le quali egli avrebbe a torto contristata la donna e datole materia di disiderare altra volta quello che già sentito avea; e quello che tacendo niuna vergogna gli poteva tornare, parlando s’arebbe vitupero recato.
Risposele adunque il re, più nella mente che nel viso o che nelle parole turbato: «Donna, non vi sembro io uomo da poterci altra volta essere stato e ancora appresso questa tornarci?»
A cui la donna rispose: «Signor mio, sì; ma tuttavia io vi priego che voi guardiate alla vostra salute».
Allora il re disse: «Ed egli mi piace di seguire il vostro consiglio; e questa volta senza darvi più impaccio me ne vo’ tornare».
E avendo l’animo già pieno d’ira e di mal talento, per quello che vedeva gli era stato fatto, ripreso il suo mantello, s’uscì della camera e pensò di voler chetamente trovare chi questo avesse fatto, imaginando lui della casa dovere essere, e qualunque si fosse, non esser potuto di quella uscire. Preso adunque un picciolissimo lume in una lanternetta, se n’andò in una lunghissima casa che nel suo palagio era sopra le stalle de’ cavalli, nella quale quasi tutta la sua famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la donna diceva, non gli fosse ancora il polso e ‘1 battimento del cuore per lo durato affanno potuto riposare, tacitamente, cominciato dall’uno de’ capi della casa, a tutti cominciò ad andare toccando il petto per sapere se gli battesse.
Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual cosa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cercando andava, forte cominciò a temere tanto che sopra il battimento della fatica avuta la paura n’aggiunse un maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò s’avvedesse, senza indugio il facesse morire. E come che varie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur vedendo il re senza alcuna arme, diliberò di far vista di dormire e d’attender quello che il re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno trovandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse: «Questi è desso». Ma, sì come colui che di ciò che fare intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le quali portate avea, gli tondè alquanto dal l’una delle parti i capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi, acciò che a quel segnale la mattina seguente il riconoscesse; e questo fatto, si dipartì, e tornossi alla camera sua. Costui, che tutto ciò sentito avea, sì come colui che malizioso era, chiaramente s’avvisò per che così segnato era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e trovato un paio di forficette, delle quali per avventura v’erano alcun paio per la stalla per lo servigio de’ cavalli, pianamente andando a quanti in quella casa ne giacevano, a tutti in simil maniera sopra l’orecchie tagliò i capelli; e ciò fatto, senza essere stato sentito, se ne tornò a dormire.
Il re levato la mattina, comandò che avanti che le porti del palagio s’aprissono tutta la sua famiglia gli venisse davanti; e così fu fatto. Li quali tutti, senza alcuna cosa in capo davanti standogli, esso cominciò a guardare per riconoscere il tonduto da lui; e veggendo la maggior parte di loro co’ capelli ad un medesimo modo tagliati, si maravigliò, e disse seco stesso: «Costui, il quale io vo cercando, quantunque di bassa condizion sia, assai ben mostra d’essere d’alto senno». Poi, veggendo che senza romore non poteva avere quel ch’egli cercava, disposto a non volere per piccola vendetta acquistar gran vergogna, con una sola parola d’ammonirlo e dimostrargli che avveduto se ne fosse gli piacque; e a tutti rivolto disse: «Chi ‘l fece nol faccia mai più, e andatevi con Dio».
Un altro gli averebbe voluti far collare, martoriare, esaminare, e domandare; e ciò facendo, avrebbe scoperto quello che ciascun dee andar cercando di ricoprire; ed essendosi scoperto, ancora che intera vendetta n’avesse presa, non scemata ma molto cresciuta n’avrebbe la sua vergogna, e contaminata l’onestà della donna sua. Coloro che quella parola udirono si maravigliarono e lungamente fra sé esaminarono che avesse il re voluto per quella dire; ma niuno ve ne fu che la ‘ntendesse se non colui solo a cui toccava. Il quale, sì come savio, mai, vivente il re, non la scoperse, né più la sua vita in sì fatto atto commise alla fortuna.

                           
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Miniature delle Cronache di Norimberga: Agilulfo e Teodolinda

Agilulfo, re dei longobardi, pose il trono reale, come i suoi predecessori, a Pavia, città della Lombardia, dopo aver sposato Teodolinda, vedova di Autari, donna bellissima, saggia, onesta, ma sfortunata in amore. Mentre il regno longobardo prosperava, grazie alla virtù e al senno del re Agifulfo, un palafreniere (scudiero), di umilissima condizione, ma per tutto il resto assai superiore al suo modesto mestiere, e nell’aspetto bello e possente come un re, si innamorò perdutamente della regina. E sebbene che la sua vile condizione non gli impediva di comprendere che il suo amore era del tutto sconveniente, impossibile a realizzarsi, saggiamente non svelava il suo amore, neppure osava farlo comprendere con un semplice sguardo neppure all’amata. E sebbene vivesse senza alcuna speranza di poterle piacere, tuttavia si gloriava fra sé e sé di aver posto i pensieri così in alto e ardendo di fuoco d’amore faceva con passione più di tutti i suoi compagni ogni cosa che sembrava dovesse arrecare piacere alla regina. Quando accadeva che la regina doveva cavalcare, si serviva del cavallo da costui guardato piuttosto che quello di qualcun altro e quando questo capitava costui si reputava in grandissima grazia e non si allontanava dalle staffe , ritenendosi beato se poteva toccarle la stoffa.
Ma, come sempre avviene, l’amore si fa sempre più forte ogni qual volta la speranza diminuisce e così capitava per questo povero stalliere, tanto che gli era difficilissimo sopportare in silenzio il proprio desiderio, non essendo aiutato da alcuna speranza  e più volte dunque pensò di morire, non avendo alcuna possibilità di soddisfarlo. E pensando in quale modo decise di procurasi la morte  per la qual cosa fosse chiaro che moriva per l’amore che aveva provato e provava per la regina: e decise che ciò accadesse tentando la sorte, cercando di realizzare in tutto o in parte il proprio desiderio.  Non accennò con parole alla regina né le comunicò nulla per lettera il suo amore, poiché sapeva che lo avrebbe detto o scritto inutilmente, ma volle provare se, con l’inganno, gli riuscisse di dormire con la regina. Altro modo non c’era se non prender il posto del re, che sapeva non dormire con lei, giungere da lei ed entrare nella sua camera. Affinché vedesse il che modo e con quale abito il re andasse a trovarla, si nascose più volte di notte in una sala che stava tra la camera del re e quella della regina; in una di queste notti vide il re uscire dalla sua camera avvolto in un lungo mantello che aveva in una mano una piccola torcia e nell’altra una bacchetta; andava nella camera della regina e senza dire niente colpiva con la bacchetta l’uscio con uno o due colpetti, allora gli veniva aperto e gli veniva tolta la piccola torcia dalla mano.
Veduto questo e accorgendosi che lo stesso avveniva quando il re tornava, pensò di fare lo stesso e trovato il modo di possedere un mantello simile a quello del re una piccola torcia e una piccola mazza, essendosi lavato bene perché l’odore di letame non infastidisse e non svelasse l’inganno alla regina, e si nascose nella sala. La notte, sentendo che tutti dormivano, desiderando possedere la regina o morire, accese con la pietra focaia e l’acciarino la torcia, indossò il mantello e si avviò. Giunto davanti alla camera della sovrana, colpì due volte la porta con la bacchetta. La camera fu aperta da una cameriera assonnata, che prese la torcia e la spense.  Egli in silenzio, posato il mantello, entrò nel letto della regina che dormiva. Con immenso desiderio la presala in braccio e poiché sapeva che il re faceva l’amore in silenzio, senza dire alcuna cosa e senza che alcuna cosa gli fosse detta, più volte conobbe carnalmente la regina. Poi, sebbene gli risultasse gravoso il dover andare via, temendo che l’indugiare convertisse il diletto in danno, si alzò, riprese il mantello e la torcia e tornò nel suo letto.
In questo letto lui avrebbe potuto appena essersi levato quando il re, alzatosi, andò nella camera della regina, cosa di cui lei si stupì alquanto; ed essendo lui entrato nel suo letto e salutatala lietamente, lei, preso coraggio dalla sua disponibilità, disse: «Signor mio, che novità è questa di stanotte? Mi avete appena lasciato e avete fatto l’amore con più intensità e già siete di nuovo qua? State attento a quel che fate».
Il re, ascoltando tali parole, comprese che la regina era stata ingannata da una persona che aveva preso il suo posto, ma, saggiamente pensò che né la regina né alcun altro se ne fossero accorti e non volle che se ne accorgesse. Molti altri sciocchi avrebbero detto: «Non ero io, chi c’era al posto mio, come è arrivato qui, quando se ne andato?» da cui sarebbero partite infinite inquisizioni  per le quali avrebbe rattristato ingiustamente la regina o avrebbe spinto la stessa a desiderare un’altra volta un amore diverso dal suo; si sarebbe procurato infamia e disonore rivelando quello che invece, tacendo, non gli avrebbe procurato alcuna vergogna.
Rispose dunque il re, turbato più nella mente che nel viso o nelle parole: «Donna, non vi sembro io un uomo che, dopo aver avuto dei rapporti amorosi con voi, non possa averne subito dopo altri?»
A cui la donna rispose: « Signor mio sì, ma tuttavia vi prego di stare più attento alla vostra salute»
Il re allora: «Oggi voglio seguire il vostro consiglio e senza darvi più impaccio, me ne torno in camera». 
Essendo adirato e già pieno di sdegno per ciò che gli era successo, riprese il suo mantello e uscì dalla camera ma decise di scoprire, di nascosto, chi era stato, sicuro che doveva trattarsi di uno che era nella casa e chiunque fosse stato da quella non poteva scappare. Preso dunque un piccola lanterna e se ne andò in un lungo casamento che nel suo palazzo era posto sopra le stalle, nel quale in diversi letti dormiva tutta la sua servitù e credendo che chiunque avesse fatto ciò che la moglie gli aveva detto non avesse ancora il polso e il battito del cuore acquietato per l’affanno sopportato, in silenzio, cominciando dall’inizio del casamento a tutti toccava il petto per sapere se il cuore battesse con più forza.
Mentre ogni altro dormiva profondamente, colui che era stato con la regina non riusciva a prender sonno e accorgendosi che il re s’avvicinava e sapendo cosa cercava, cominciò ad avere tanta paura che il cuore che già per la fatica, ora anche per la timore aumentò di molto il battito; si rese conto fermamente che se il re se ne fosse accorto, senza aspettare un momento, lo avrebbe ucciso. E sebbene pensasse come scampare, vedendo il re senz’armi, fece finta di dormire, rimandando quello che dovesse fare. Avendone il re toccati molti e non trovandone nessuno che giudicasse colpevole, giunse a lui e trovando che il cuore gli batteva forte tra sé disse: “E’ lui”; ma non volendo fare nessun atto che fosse manifesto a tutti, non fece altro se non tagliargli con una forbicetta che aveva portato con sé, da una delle due parti i capelli, che a quel tempo portavano lunghi, affinché potesse essere riconosciuto il mattino seguente e fatto questo se ne tornò in camera.
Alzatosi la mattina il re comandò che prima che s’aprissero le porte del palazzo, venissero al suo cospetto tutti i suoi familiari e così avvenne. Tutti, senza alcun copricapo gli stavano davanti e il re cominciò a guardare per riconoscere quello a cui aveva tagliato i capelli e vedendo che davanti a lui molti avevano i capelli tagliati allo stesso modo in cui li aveva tagliati lui dapprima si stupì e poi disse tra sé: “Quello che sto cercando, sebbene di bassa condizione, mostra di essere di grande intelligenza». Poi vedendo che senza destare scalpore e scandalo non poteva trovare colui che cercava e deciso a non volersi procurare una grande vergogna per compiere una piccola vendetta, decise d’ammonirlo con la sola parola, mostrandogli che lui si era accorto di quanto successo e, rivolgendosi a tutti, disse: Chi lo ha fatto non lo faccia più e ora andate con la grazia di Dio».
Un altro li avrebbe potuti torturare, procurar loro tremendi dolori, sottoporli ad interrogatorio e così facendolo avrebbe reso palese quello che ciascuno deve cercare di tenere nascosto e rendendola palese, sebbene avesse ottenuto l’intera vendetta, non diminuita ma molto aumentata sarebbe stata la sua vergogna e rovinata l’onestà della sua donna. Quelli che sentirono la sua risposta si meravigliarono e a lungo si chiesero cosa il re avesse voluto dire, ma nessuno riuscì a capirlo ad eccezione di colui a cui era indirizzato. Lui, saggiamente, mai finché il re visse, rivelò l’accaduto, ne mise più  con un simile atto la propria vita in balia della sorte.

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Miniatura recante immagini riguardanti la novella di Agilulf e il palafreniere

Una delle protagoniste di questa novella è la saggezza. Qui infatti si vuole rappresentare in un tempo lontano, quello longobardo, un classico triangolo amoroso i cui vertici, tradizionalmente parlando sono costituiti da lui (il re), lei (la regina) l’altro (lo stalliere). Già così la novella avrebbe difficilmente potuto raggiungere l’idea del beffato e gabbato che è solito di un lui (un marito, in questo caso il re) in un personaggio così altocolato, così non avrebbe potuto fare della di lui moglie una donna facile alle attenzioni altrui. Per Boccaccio il triangolo amoroso deve essere riportato, in quanto coinvolgente le figure regali – oltreché reali – sul piano della non sfacciata corporeità. La differenza è nel lessico: se Masetto “cavalcava”, lo stalliere “disiderosamente in braccio recatalasi (la regina), mostrandosi turbato, senza dire alcuna cosa o senza essere a lui detta, più volte carnalmente la reina cognobbe. L’atto sessuale è in un rigo e mezzo, senza alcun riferimento animale.

Si potrà obiettare che il fine del Boccaccio non era quello di rappresentare l’amore dello stalliere, ma di vedere in che modo l’ottenesse sfruttando l’intelligenza. Ma non è forse lo stesso per Masetto, il quale intelligentemente si finge muto per divertirsi carnalmente con nove suore? 

Forse si potrebbe giustamente dire che qui Boccaccio ha voluto “democratizzare” l’intelligenza: “sì come savio” dice dello stalliere perché non rileva a nessuno l’amore per la regina; “ma come savio” dice del re quando lo stesso decide di non dire alla moglie che non è stato lui nell’amarla. Alla “democrazia” dell’intelligenza corrisponde a sua volta la “democrazia” dell’amore; d’altra parte la regina non si è accorta di nulla; forse se un pericolo vi era (suggerisce la novellatrice) è che lo stalliere fosse più focoso del re, ma ci piace pensare che lei, ignara dell’amante, ritenesse il marito capace di esserlo.   

QUARTA GIORNATA

La quarta giornata vede come re Filostrato che come tema propone che si ragioni di coloro i cui amori ebbero infelice fine, in linea direi col suo nome che, come già visto, secondo l’etimologia di Boccaccio significa “vinto, sconfitto dall’amore”. Non bisogna tuttavia dimenticare che tale giornata è preceduta da un’introduzione nella quale Boccaccio parla della “naturalità dell’amore”, in risposta alle critiche che aveva ricevuto rispetto a questo argomento. La novelletta, ricordo, utilizza un registro comico, cui fa da contrasto il tema scelto dal re, soprattuto la prima novella, raccontata da Fiammetta, ce ci porta in un ambiente abitato da principi e da gran dame:  

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Miniatura francese per la novella di Tancredi e Ghismonda

TANCREDI PRENZE DI SALERNO UCCIDE L’AMANTE DELLA FIGLIUOLA E MANDALE IL CUORE IN UNA COPPA D’ORO; LA QUALE, MESSA SOPR’ESSO ACQUA AVVELENATA, QUELLA SI BEE, E COSI’ MUORE.
(IV,1)

Tancredi principe di Salerno fu signore assai umano e di benigno ingegno; se egli nello amoroso sangue nella sua vecchiezza non s’avesse le mani bruttate; il quale in tutto lo spazio della sua vita non ebbe che una figliuola, e più felice sarebbe stato se quella avuta non avesse.
Costei fu dal padre tanto teneramente amata, quanto alcuna altra figliuola da padre fosse giammai; e per questo tenero amore, avendo ella di molti anni avanzata l’età del dovere avere avuto marito, non sappiendola da sé partire, non la maritava; poi alla fine ad un figliuolo del duca di Capova datala, poco tempo dimorata con lui, rimase vedova e al padre tornossi. Era costei bellissima del corpo e del viso quanto alcun’altra femina fosse mai, e giovane e gagliarda e savia più che a donna per avventura non si richiedea. E dimorando col tenero padre, sì come gran donna, in molte dilicatezze, e veggendo che il padre, per l’amor che egli le portava, poca cura si dava di più maritarla, né a lei onesta cosa pareva il richiedernelo, si pensò di volere avere, se esser potesse, occultamente un valoroso amante.
E veggendo molti uomini nella corte del padre usare, gentili e altri, sì come noi veggiamo nelle corti, e considerate le maniere e i costumi di molti, tra gli altri un giovane valletto del padre, il cui nome era Guiscardo, uom di nazione assai umile ma per virtù e per costumi nobile, più che altro le piacque, e di lui tacitamente, spesso vedendolo, fieramente s’accese, ogn’ora più lodando i modi suoi. E il giovane, il quale ancora non era poco avveduto, essendosi di lei accorto, l’aveva per sì fatta maniera nel cuore ricevuta, che da ogni altra cosa quasi che da amar lei aveva la mente rimossa. In cotal guisa adunque amando l’un l’altro segretamente, niuna altra cosa tanto disiderando la giovane quanto di ritrovarsi con lui, né volendosi di questo amore in alcuna persona fidare, a dovergli significare il modo seco pensò una nuova malizia. Essa scrisse una lettera, e in quella ciò che a fare il dì seguente avesse per esser con lei gli mostrò; e poi quella messa in un bucciuol di canna, sollazzando la diede a Guiscardo, dicendo: – Fara’ ne questa sera un soffione alla tua servente, col quale ella raccenda il fuoco.
Guiscardo il prese, e avvisando costei non senza cagione dovergliele aver donato e così detto, partitosi, con esso se ne tornò alla sua casa, e guardando la canna e quella veggendo fessa, l’aperse, e dentro trovata la lettera di lei e lettala, e ben compreso ciò che a fare avea, il più contento uom fu che fosse giammai, e diedesi a dare opera di dovere a lei andare, secondo il modo da lei dimostratogli.
Era allato al palagio del prenze una grotta cavata nel monte, di lunghissimi tempi davanti fatta, nella qual grotta dava alquanto lume uno spiraglio fatto per forza nel monte, il quale, per ciò che abbandonata era la grotta, quasi da pruni e da erbe di sopra natevi era riturato; e in questa grotta per una segreta scala, la quale era in una delle camere terrene del palagio, la quale la donna teneva, si poteva andare, come che da un fortissimo uscio serrata fosse. Ed era sì fuori delle menti di tutti questa scala, per ciò che di grandissimi tempi davanti usata non s’era, che quasi niuno che ella vi fosse si ricordava; ma Amore, agli occhi del quale niuna cosa è sì segreta che non pervenga, l’aveva nella memoria tornata alla innamorata donna. La quale, acciò che niuno di ciò accorger si potesse, molti dì con suoi ingegni penato avea, anzi che venir fatto le potesse d’aprir quell’uscio; il quale aperto, e sola nella grotta discesa e lo spiraglio veduto, per quello aveva a Guiscardo mandato a dire che di venire s’ingegnasse, avendogli disegnata l’altezza che da quello infino in terra esser poteva. Alla qual cosa fornire Guiscardo, prestamente ordinata una fune con certi nodi e cappi da potere scendere e salire per essa, e sè vestito d’un cuoio che da’ pruni il difendesse, senza farne alcuna cosa sentire ad alcuno, la seguente notte allo spiraglio n’andò, e accomandato ben l’uno de’ capi della fune ad un forte bronco che nella bocca dello spiraglio era nato, per quello si collò nella grotta ed attese la donna.

Michele-Riondino-Boccaccio.jpgKasia Smutniak e Michele Riondino (Guiscardo e Ghismunda) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

La quale il seguente dì, faccendo sembianti di voler dormire, mandate via le sue damigelle e sola serratasi nella camera, aperto l’uscio, nella grotta discese, dove trovato Guiscardo, insieme maravigliosa festa si fecero; e nella sua camera insieme venutine, con grandissimo piacere gran parte di quel giorno si dimorarono; e, dato discreto ordine alli loro amori acciò che segreti fossero, tornatosi nella grotta Guiscardo ed ella serrato l’uscio, alle sue damigelle se ne venne fuori. Guiscardo poi, la notte vegnente su per la sua fune salendo, per lo spiraglio donde era entrato se n’uscì fuori e tornossi a casa. E avendo questo cammino appreso, più volte poi in processo di tempo vi ritornò.
Ma la fortuna, invidiosa di così lungo e di così gran diletto, con doloroso avvenimento la letizia dei due amanti rivolse in tristo pianto. Era usato Tancredi di venirsene alcuna volta tutto solo nella camera della figliuola, e quivi con lei dimorarsi e ragionare alquanto, e poi partirsi. Il quale un giorno dietro mangiare laggiù venutone essendo la donna, la quale Ghismonda aveva nome, in un suo giardino con tutte le sue damigelle, in quella, senza essere stato da alcuno veduto o sentito, entratosene, non volendo lei torre dal suo diletto, trovando le finestre della camera chiuse e le cortine del letto abbattute, a piè di quello in un canto sopra un carello si pose a sedere; e appoggiato il capo al letto e tirata sopra sè la cortina quasi come se studiosamente si fosse nascoso quivi, s’addormentò.
E così dormendo egli, Ghismonda, che per isventura quel dì fatto aveva venir Guiscardo, lasciate le sue damigelle nel giardino, pianamente se n’entrò nella camera, e quella serrata, senza accorgersi che alcuna persona vi fosse, aperto l’uscio a Guiscardo che l’attendeva e andatisene in su ‘l letto, sì come usati erano, e insieme scherzando e sollazzandosi, avvenne che Tancredi si svegliò e sentì e vide ciò che Guiscardo e la figliuola facevano; e dolente di ciò oltre modo, prima gli volle sgridare, poi prese partito di tacersi e di starsi nascoso, se egli potesse, per potere più cautamente fare e con minore sua vergogna quello che già gli era caduto nell’animo di dover fare. I due amanti stettero per lungo spazio insieme, sì come usati erano, senza accorgersi di Tancredi; e quando tempo lor parve, discesi del letto, Guiscardo se ne tornò nella grotta ed ella s’uscì della camera. Della quale Tancredi, ancora che vecchio fosse, da una finestra di quella si calò nel giardino, e senza essere da alcuno veduto, dolente a morte, alla sua camera si tornò.
E per ordine da lui dato, all’uscir dello spiraglio la seguente notte in su ‘l primo sonno, Guiscardo, così come era nel vestimento del cuoio impacciato, fu preso da due, e segretamente a Tancredi menato. Il quale, come il vide, quasi piagnendo disse: «Guiscardo, la mia benignità verso te non avea meritato l’oltraggio e la vergogna la quale nelle mie cose fatta m’hai, sì come io oggi vidi con gli occhi miei».
Al quale Guiscardo niuna altra cosa disse se non questo: «Amor può troppo più che né voi né io possiamo».
Comandò adunque Tancredi che egli chetamente in alcuna camera di là entro guardato fosse, e così fu fatto. Venuto il dì seguente, non sappiendo Ghismonda nulla di queste cose, avendo seco Tancredi varie e diverse novità pensate, appresso mangiare, secondo la sua usanza, nella camera n’andò della figliuola, dove fattalasi chiamare e serratosi dentro con lei, piagnendo le cominciò a dire: «Ghismonda, parendomi conoscere la tua virtù e la tua onestà, mai non mi sarebbe potuto cader nell’animo, quantunque mi fosse stato detto, se io co’ miei occhi non lo avessi veduto, che tu di sottoporti ad alcuno uomo, se tuo marito stato non fosse, avessi, non che fatto, ma pur pensato; di che io in questo poco di rimanente di vita che la mia vecchiezza mi serba sempre sarò dolente, di ciò ricordandomi. E or volesse Iddio che, poi che a tanta disonestà conducere ti dovevi avessi preso uomo che alla tua nobiltà decevole fosse stato; ma tra tanti che nella mia corte n’usano, eleggesti Guiscardo, giovane di vilissima condizione, nella nostra corte quasi come per Dio da picciol fanciullo infino a questo dì allevato; di che tu in grandissimo affanno d’animo messo m’hai, non sappiendo io che partito di te mi pigliare. Di Guiscardo, il quale io feci stanotte prendere quando dello spiraglio usciva, e hollo in prigione, ho io già meco preso partito che farne; ma di te, sallo Iddio che io non so che farmi. Dall’una parte mi trae l’amore, il quale io t’ho sempre più portato che alcun padre portasse a figliuola, e d’altra mi trae giustissimo sdegno, preso per la tua gran follia; quegli vuole che io ti perdoni, e questi vuole che contro a mia natura in te incrudelisca; ma prima che io partito prenda, disidero d’udire quello che tu a questo dei dire». E questo detto bassò il viso, piagnendo sì forte come farebbe un fanciul ben battuto.

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Kasia Smutniak e Lello Arena (Tancredi e Ghismunda) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Ghismonda, udendo il padre e conoscendo non solamente il suo segreto amore esser discoperto, ma ancora esser preso Guiscardo, dolore inestimabile sentì, e a mostrarlo con romore e con lagrime, come il più le femine fanno, fu assai volte vicina; ma pur, questa viltà vincendo il suo animo altiero, il viso suo con maravigliosa forza fermò, e seco, avanti che a dovere alcun priego per sè porgere, di più non stare in vita dispose, avvisando già esser morto il suo Guiscardo. Per che, non come dolente femina o ripresa del suo fallo, ma come non curante e valorosa, con asciutto viso e aperto e da niuna parte turbato, così al padre disse: «Tancredi, né a negare né a pregare son disposta, per ciò che né l’un mi varrebbe né l’altro voglio che mi vaglia; e oltre a ciò in niuno atto intendo di rendermi benivola la tua mansuetudine e ‘l tuo amore; ma, il ver confessando, prima con vere ragioni difender la fama mia e poi con fatti fortissimamente seguire la grandezza dello animo mio. Egli è il vero che io ho amato e amo Guiscardo, e quanto io viverò, che sarà poco, l’amerò; e se appresso la morte s’ama, non mi rimarrò d’amarlo; ma a questo non mi indusse tanto la mia feminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine del maritarmi e la virtù di lui. Esser ti dovea, Tancredi, manifesto, essendo tu di carne, aver generata figliuola di carne e non di pietra o di ferro; e ricordarti dovevi e dei, quantunque tu ora sia vecchio, chenti e quali e con che forza vengano le leggi della giovanezza; e, come che tu uomo in parte ne’ tuoi migliori anni nell’armi esercitato ti sii, non dovevi di meno conoscere quello che gli ozi e le dilicatezze possano ne’ vecchi non che ne’ giovani. Sono adunque, sì come da te generata, di carne, e sì poco vivuta, che ancor son giovane; e per l’una cosa e per l’altra piena di concupiscibile disidero, al quale maravigliosissime forze hanno date l’aver già, per essere stata maritata, conosciuto qual piacer sia a così fatto disidero dar compimento. Alle quali forze non potendo io resistere, a seguir quello a che elle mi tiravano, sì come giovane e femina, mi disposi e innamora’mi. E certo in questo opposi ogni mia virtù di non volere né a te né a me di quello a che natural peccato mi tirava, in quanto per me si potesse operare, vergogna fare. Alla qual cosa e pietoso Amore e benigna Fortuna assai occulta via m’avean trovata e mostrata, per la quale, senza sentirlo alcuno, io a’ miei disideri perveniva; e questo, chi che ti se l’abbi mostrato o come che tu il sappi, io nol nego. Guiscardo non per accidente tolsi, come molte fanno, ma con diliberato consiglio elessi innanzi ad ogn’altro, e con avveduto pensiero a me lo ‘ntrodussi, e con savia perseveranza di me e di lui lungamente goduta sono del mio disio. Di che egli pare, oltre allo amorosamente aver peccato, che tu, più la volgare oppinione che la verità seguitando, con più amaritudine mi riprenda, dicendo (quasi turbato esser non ti dovessi, se io nobile uomo avessi a questo eletto) che io con uom di bassa condizione mi son posta. In che non ti accorgi che non il mio peccato ma quello della Fortuna riprendi, la quale assai sovente li non degni ad alto leva, a basso lasciando i dignissimi. Ma lasciamo or questo, e riguarda alquanto a’ principii delle cose: tu vedrai noi d’una massa di carne tutti la carne avere, e da uno medesimo creatore tutte l’anime con iguali forze, con iguali potenzie, con iguali virtù create. La virtù primieramente noi, che tutti nascemmo e nasciamo iguali, ne distinse; e quegli che di lei maggior parte avevano e adoperavano nobili furon detti, e il rimanente rimase non nobile. E benché contraria usanza poi abbia questa legge nascosa, ella non è ancor tolta via né guasta dalla natura né da’ buon costumi; e per ciò colui che virtuosamente adopera apertamente si mostra gentile, e chi altramenti il chiama, non colui che è chiamato ma colui che chiama, commette difetto. Raguarda tra tutti i tuoi nobili uomini ed esamina la lor virtù, i lor costumi e le loro maniere, e d’altra parte quelle di Guiscardo raguarda: se tu vorrai senza animosità giudicare, tu dirai lui nobilissimo e questi tuoi nobili tutti esser villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo io non credetti al giudicio d’alcuna altra persona che a quello delle tue parole e de’ miei occhi. Chi il commendò mai tanto, quanto tu ‘l commendavi in tutte quelle cose laudevoli che valoroso uomo dee essere commendato? E certo non a torto; ché se i miei occhi non m’ingannarono, niuna laude da te data gli fu, che io lui operarla, e più mirabilmente che le tue parole non potevano esprimere, non vedessi; e se pure in ciò alcuno inganno ricevuto avessi, da te sarei stata ingannata. Dirai dunque che io con uomo di bassa condizione mi sia posta? Tu non dirai il vero; ma per avventura, se tu dicessi con povero, con tua vergogna si potrebbe concedere, che così hai saputo un valente uomo tuo servidore mettere in buono stato; ma la povertà non toglie gentilezza ad alcuno, ma sì avere. Molti re, molti gran principi furon già poveri; e molti di quegli che la terra zappano e guardan le pecore già ricchissimi furono e sonne. L’ultimo dubbio che tu movevi, cioè che di me far ti dovessi, caccial del tutto via. Se tu nella tua estrema vecchiezza a far quello che giovane non usasti, cioè ad incrudelir, se’ disposto, usa in me la tua crudeltà, la quale ad alcun priego porgerti disposta non sono, sì come in prima cagion di questo peccato, se peccato è; per ciò che io t’accerto che quello che di Guiscardo fatto avrai o farai, se di me non fai il simigliante, le mie mani medesime il faranno. Or via, va con le femine a spander le tue lagrime, e incrudelendo con un medesimo colpo altrui e me, se così ti par che meritato abbiamo, uccidi».
Conobbe il prenze la grandezza dell’animo della sua figliuola; ma non credette per ciò in tutto lei sì fortemente disposta a quello che le parole sue sonavano, come diceva. Per che, da lei partitosi e da sè rimosso di volere in alcuna cosa nella persona di lei incrudelire, pensò con gli altrui danni raffreddare il suo fervente amore, e comandò a’ due che Guiscardo guardavano che senza alcun romore lui la seguente notte strangolassono, e, trattogli il cuore, a lui il recassero; li quali, così come loro era stato comandato, così operarono. Laonde, venuto il dì seguente, fattasi il prenze venire una grande e bella coppa d’oro e messo in quella il cuor di Guiscardo, per un suo segretissimo famigliare il mandò alla figliuola e imposegli che, quando gliele desse, dicesse: «Il tuo padre ti manda questo, per consolarti di quella cosa che tu più ami, come tu hai lui consolato di ciò che egli più amava».
Ghismonda, non smossa dal suo fiero proponimento, fattesi venire erbe e radici velenose, poi che partito fu il padre, quelle stillò e in acqua ridusse, per presta averla se quello di che elle temeva avvenisse. Alla quale venuto il famigliare e col presente e con le parole del prenze, con forte viso la coppa prese, e quella scoperchiata, come il cuor vide e le parole intese, così ebbe per certissimo quello essere il cuor di Guiscardo.
Per che, levato il viso verso il famigliare, disse: «Non si conveniva sepoltura men degna che d’oro a così fatto cuore chente questo è; discretamente in ciò ha il mio padre adoperato».
E così detto, appressatoselo alla bocca, il baciò, e poi disse: «In ogni cosa sempre e infino a questo estremo della vita mia ho verso me trovato tenerissimo del mio padre l’amore, ma ora più che giammai; e per ciò l’ultime grazie, le quali render gli debbo giammai, di così gran presente da mia parte gli renderai».
Questo detto, rivolta sopra la coppa la quale stretta teneva, il cuor riguardando disse: «Ahi! dolcissimo albergo di tutti i miei piaceri, mala detta sia la crudeltà di colui che con gli occhi della fronte or mi ti fa vedere! Assai m’era con quegli della mente riguardarti a ciascuna ora. Tu hai il tuo corso fornito, e di tale chente la fortuna tel concedette ti se’ spacciato; venuto se’ alla fine alla qual ciascun corre; lasciate hai le miserie del mondo e le fatiche, e dal tuo nemico medesimo quella sepoltura hai che il tuo valore ha meritata. Niuna cosa ti mancava ad aver compiute esequie, se non le lagrime di colei la qual tu vivendo cotanto amasti; le quali acciò che tu l’avessi, pose Iddio nel l’animo al mio dispietato padre che a me ti mandasse, e io le ti darò, come che di morire con gli occhi asciutti e con viso da niuna cosa spaventato proposto avessi; e dateleti, senza alcuno indugio farò che la mia anima si congiugnerà con quella, adoperandol tu, che tu già cotanto cara guardasti. E con qual compagnia ne potre’ io andar più contenta o meglio si cura ai luoghi non conosciuti che con lei? Io son certa che ella è ancora quincentro e riguarda i luoghi de’ suoi diletti e de’ miei; e come colei che ancor son certa che m’ama, aspetta la mia, dalla quale sommamente è amata».
E così detto, non altramenti che se una fonte d’acqua nella testa avuta avesse, senza fare alcun feminil romore, sopra la coppa chinatasi, piagnendo cominciò a versare tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, baciando infinite volte il morto cuore. Le sue damigelle, che dattorno le stavano, che cuore questo si fosse o che volesson dire le parole di lei non intendevano; ma da compassion vinte tutte piagnevano e lei pietosamente della cagion del suo pianto domandavano invano, e molto più, come meglio sapevano e potevano, s’ingegnavano di confortarla.

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Lavennia Illustratrice canadese: Ghismunda mette la pozione avvelenata nella coppa (2017)

La qual, poi che quanto le parve ebbe pianto, alzato il capo e rasciuttosi gli occhi, disse: «O molto amato cuore, ogni mio uficio verso te è fornito; né più altro mi resta a fare se non di venire con la mia anima a fare alla tua compagnia». E questo detto, si fe’ dare l’orcioletto nel quale era l’acqua che il dì avanti aveva fatta, la qual mise nella coppa ove il cuore era da molte delle sue lagrime lavato, e senza alcuna paura postavi la bocca, tutta la bevve, e bevutala, con la coppa in mano se ne salì sopra il suo letto, e quanto più onestamente seppe compose il corpo suo sopra quello, e al suo cuore accostò quello del morto amante, e senza dire alcuna cosa aspettava la morte.

decameron_4_1__ghismunda_and_tancredi_by_misellapuella-db2tsn1.jpgLavennia Illustratrice canadese: Ghismunda sdraiata col cuore di Guiscardo (2017)

Le damigelle sue, avendo queste cose e vedute e udite, come che esse non sapessero che acqua quella fosse la quale ella bevuta aveva, a Tancredi ogni cosa avean mandata a dire; il quale, temendo di quello che sopravvenne, presto nella camera scese della figliuola, nella qual giunse in quella ora che essa sopra il suo letto si pose; e tardi con dolci parole levatosi a suo conforto, veggendo i termini ne’quali era, cominciò dolorosamente a piagnere.
Al quale la donna disse: «Tancredi, serbati coteste lagrime a meno disiderata fortuna che questa, né a me le dare, che non le disidero. Chi vide mai alcuno, altro che te, piagnere di quello che egli ha voluto? Ma pure, se niente di quello amore che già mi portasti ancora in te vive, per ultimo dono mi concedi che, poi che a grado non ti fu che io tacitamente e di nascoso con Guiscardo vivessi, che ‘l mio corpo col suo, dove che tu te l’abbi fatto gittar morto, palese stea».
L’angoscia del pianto non lasciò rispondere al prenze. Laonde la giovane, al suo fine esser venuta sentendosi strignendosi al petto il morto cuore, disse: «Rimanete con Dio, ché io mi parto».
E velati gli occhi, e ogni senso perduto, di questa dolente vita si dipartì.
Così doloroso fine ebbe l’amor di Guiscardo e di Ghismonda, come udito avete; li quali Tancredi dopo molto pianto, e tardi pentuto della sua crudeltà, con general dolore di tutti i salernetani, onorevolmente amenduni in un medesimo sepolcro gli fe’ sepellire.

Tancredi, principe di Salerno, fu un signore pieno di umanità e di indole buona, se lui, in vecchiaia, non si fosse sporcate le mani col sangue di due amanti; egli nella sua vita non ebbe che una figliola e sarebbe stato più felice se non l’avesse avuta. Quest’ultima fu teneramente amata dal padre, quanto nessun altro padre mai e per questo tenero amore, avendo lei già da tempo passata l’età del matrimonio, ma non sapendone separarsi, non la sposava; infine la fece unire con il figlio del duca di Capua, ma fu per poco tempo moglie, perché rimase presto vedova e tornò dal padre. 
Era d’aspetto e di viso bellissima più di ogni altra femmina, giovane, d’animo forte e saggia più di quanto normalmente non si richiedesse ad una donna. Vivendo con il padre in molte raffinatezze come una gran dama e vedendo che per l’amore ce le portava non aveva nessuna intenzione di rimaritarla, nè credendo cosa opportuna il chiederlo, pensò vi voler avere, laddove se ne fosse presentata l’opportunità, un amante di valore. Essendo circondata dalla presenza di molti uomini nella corte del padre, nobili e non nobili, così come è d’abitudine, e presi in considerazione i modi e le abitudini di ciascuno, tra tutti le piacque un giovane valletto del padre, di nome Guiscardo, uomo per nascita assai umile ma nobile per virtù e costumi nobile e, osservandolo spesso, silenziosamente s’innamorò intensamente di lui, apprezzando sempre di più il suo modo di fare. Il giovane, a cui non mancava l’intuito, essendosi accorto delle attenzioni di lei, si era a tal punto innamorato di lei che aveva allontanato dalla mente ogni pensiero, se non quello dell’amore per lei.
Così amandosi segretamente, non desiderando altro la giovane che di ritrovarsi insieme e non fidandosi di nessuno a cui svelare il suo sentimento e dovendogli comunicare il modo in cui incontrarsi, tra sé pensò un nuovo ed inusitato stratagemma. Scrisse na lettera e in essa gli descrisse cosa fare il giorno dopo per essere con lei; poi la mise in un pezzo di canna vuoto e scherzando lo diede a Guiscardo dicendogli: «Lo darai alla tua servitrice stasera con il quale alimenterà il fuoco».
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Adrien Van der Werff: Tancredi offre la coppa a Ghismonda (1675)

Guiscardo lo prese e pensando che non senza ragione costei dovesse averglielo donato e aver parlato in quel modo, allontanatosi, con questo pezzo di canna tornò a casa sua. Guardandolo con attenzione vide che era forato, l’aprì e vi trovò dentro la lettera e avendo capito ciò che dovesse fare, si riempì di felicità e cominciò a pensare affinché potesse raggiungere lei secondo il modo che la stessa gli aveva indicato.
Il palazzo del principe di fianco aveva una grotta, scavata nel monte, prodottasi molto tempo prima, che riceveva un po’ di luce da uno spiraglio fatto artificialmente che, poiché era stata abbandonata da anni, era ricoperto da cespugli spinosi ed erba nata spontaneamente; questa grotta era raggiungibile da una scalinata segreta che partiva da una delle camere terrene abitate dalla donna, sebbene fosse separata da una porta pesantissima. E tutti si erano dimenticati di questa scala, non essendo stata più utilizzata al punto che quasi nessuno si ricordava che essa esistesse, ma l’Amore al quale nessun segreto può rimanere nascosto che lui non scopra, aveva permesso che fosse tornata in mente alla donna innamorata. Lei, per fare in modo che nessuno la scoprisse aveva penato molti giorni prima con i suoi arnesi per poter aprire quella porta. Una volta aperta e scesa sola nella grotta, riscoprendo lo spiraglio, attraverso quello aveva detto per lettera a Guiscardo che trovasse il modo di raggiungerla, avendogli indicata l’altezza da quello sino a terra. Quindi per portare a termine l’impresa Guiscardo si procurò una fune con nodi e appigli con cui salire e scendere ed un vestito di cuoio per difendersi dai rovi. Senza farsene accorgere la sera seguente raggiunse la grotta e dopo aver legato la fune ad un forte sterpo, nato alla bocca dello spiraglio, per quello scese nella grotta e aspettò la donna.Lo stesso giorno seguente, lei facendo finta di volere dormire, licenziò le sue ancelle e chiusasi in camera, aprì la porta  e scese nella grotta dove trovò Guiscardo mostrando entrambi grande felicità, poi raggiunsero la camera vi rimasero gran parte del giorno tra i piaceri e, data una precisa regola ai loro incontri d’amore, affinché rimanessero segreti, dopo averlo licenziato, Guiscardo tornò nella grotta e lei, chiusa la porta, raggiunse le sue ancelle. Al calar della notte Guiscardo salendo attraverso la fune passò nello spiraglio da cui era entrato e così tornò a casa. Avendo imparato il percorso più volte in seguito vi tornò. 
Ma il destino, invidioso di un così lungo e grande piacere, con un doloroso incidente trasformò la felicità dei due amanti in pianto.
Tancredi aveva l’abitudine di andare solo nella camera della figlia e qui rimanere con lei, parlare per un po’ di tempo e poi andarsene. Un giorno, dopo pranzo, andò dalla figlia ma lei, il cui nome era Ghismonda, stava insieme con le sua damigelle in un giardino. Per non disturbare non si fece vedere né sentire; entrò nella camera e trovò le finestre chiuse e le cortine del letto abbassate; quindi si mise su una cassapanca ai piedi del letto, poggiò la testa sul letto e copertosi con la cortina, quasi si fosse nascosto apposta, s’addormentò. Per sfortuna quel giorno Ghismonda, dopo aver lasciato le sue damigelle in giardino, fece venire Guiscardo che tranquillamente entrò nella stanza e quella chiusa, senza accorgersi che dentro vi fosse qualcuno, lo fece entrare e, come succedeva da tempo, andarono a letto e insieme si divertirono e presero piacere l’un l’altra; accadde però che Tancredi si svegli, sentì e vide ciò che Guiscardo faceva con la figlia. Addolorato, prima volle loro sgridare, poi decise di star zitto e rimanere nascosto per poter con più calma e con meno vergogna quello che già aveva deciso di fare. I due amanti stettero insieme per un bel po’, com’erano abituati, senza accorgersi di Tancredi e quando decisero di alzarsi dal letto, Guiscardo tornò nella grotta e lei uscì dalla camera. Tancredi. sebbene fosse vecchio, uscì calandosi nel giardino dalla finestra e estremamente turbato, tornò in camera sua.
Guiscardo, essendo impacciato dall’abito di cuoio, nelle prime ore della notte all’uscir dallo spiraglio, per ordine di Tancredi fu catturato da due guardie e, nascostamente, fu portato di fronte al principe che, appena lo vide, quasi piangendo disse: «Guiscardo, la generosità che ti ho mostrata non merita l’offesa e la vergogna che hai arrecato nelle faccende della mia famiglia, così come oggi ho potuto constatare»
Guiscardo, non disse niente se non: «L’amore può molto di più di quanto lei ed io possiamo»
Comandò quindi il principe che lui segretamente fosse condotto in una camera tenuto in prigionia e così accadde.
Il giorno dopo, non sapendo Ghismonda nulla di quanto fosse successo, Tancredi pensò diverse e inusitate mostruosità  e si avviò, come era ormai solito, nella camera della figlia: fattala chiamare e chiusosi con lei, tra le lacrime cominciò a dirle: «Ghismonda, mi era sembrato di conoscere la tua virtù e onestà e mai mi sarebbe venuto in mente, anche se mi fosse stato detto, se non l’avessi visto con i miei occhi, che tu di concederti ad altro uomo che non fosse tuo marito, non solo non lo avresti fatto, ma neppure pensato, fatto del quale, per quanto poco mi rimanga da vivere, sempre ricordandolo mi dorrò. Abbia perlomeno voluto il cielo che poi, dovendoti condurre a tanta disonestà, avessi scelto un uomo conveniente al tuo essere nobile, ma fra tanti che frequentano la mia casa hai scelto Guiscardo, di umilissima condizione, cresciuto per carità nella nostra corte sin da bambino; per questo mi hai messo in grande difficoltà non sapendo che decisione prendere nei tuoi confronti. Ho già deciso di cosa fare di Guiscardo, che ho ordinato di prelevare quando è uscito dallo spiraglio e che adesso tengo in prigione, ma di te lo sa Dio che cosa ho deciso di fare. Da una parte mi tira l’amore che ti ho sempre portato, più di ogni altro padre verso la figlia, dall’altra mi tira un giustificabilissimo sdegno derivato da questa tua follia: la prima vorrebbe che io ti perdoni , l’altra che io contro la mia natura infierisca contro di te: ma prima di decidere, vorrei sentire quello che tu a questo proposito vuoi dirmi». Detto questo abbassò il viso e cominciò a piangere come un bambino picchiato ben bene.
Ghismonda dopo aver sentito il padre e aver saputo che il suo segreto amore era stato scoperto, ma ancor più che Guiscardo era stato tratto in prigione, sentì un fortissimo dolore e fu molto vicina a mostrarlo con grida e pianti, così come capita spesso alle donne, ma il suo forte animo questa volta vinse questa debolezza e con forza straordinaria compose con fermezza il viso e prima di dover rivolgere qualche supplica per sé, decise fra sé di togliersi la vita, ritenendo che il suo Guiscardo fosse già morto.
Per cui, non come femmina addolorata o rimproverata per un suo errore, ma come incurante e coraggiosa, con viso asciutto e franco e per niente turbato, così disse al padre: «Tancredi, non sono disposta né a negare né a pregare, perché né la proma varrebbe qualcosa, né la seconda voglio che mi valga; e oltre a ciò non intendo rendere la tua mansuetudine e il tuo amore favoreli per me; ma, dicendoti la verità, per prima cosa intendo difendere il mio onore e con i comportamenti mantendermi del tutto coerente con la mia grandezza d’animo. E’ vero che ho amato e amo ancora Guiscardo e per quanto vivrò l’amerò, e se dopo la morte si continua ad amare, non smetterò d’amarlo; ma a questo amore non mi ha spinto la mia femminile fragilità, quanto la tua poca sollecitudine di darmi in moglie e la virtù dell’uomo. Tancredi, avresti dovuto sapere, essendo fatto di carne, di aver messo al mondo una figlia di carne, non di pietra o di ferro; avresti dovuto e devi inoltre ricordare, sebbene abbia raggiunto la vecchiaia, quante e di che tipo e con che forza vengono gli istinti derivanti dalla giovinezza e sebbene tu abbia passato i migliori anni della tua vita nell’esercizio delle armi, nondimeno non dovevi disconoscere ciò che l’ozio e il vivere nella raffinatezza possono sia nei vecchi che nei giovani. Sono dunque da te nata così di carne che ancora di giovane età, e per ambedue queste condizioni pienamente vogliosa di appagamento carnale a cui ha dato una forza straordinaria il fatto che io ho conosciuto quale piacere si provi nel consumarlo, siccome già sono stata sposata. Non potendo resistere a ciò, dal momento che le forze della natura mi spingevano, come giovane e femmina, decisi di innamorarmi. Sicuramente misi in atto ogni mia virtù, per quanto potessi fare, nel non voler a te né a me procurare vergogna a cui quel naturale peccato mi conduceva. A ciò l’Amore e la buona fortuna mi avevano mostrato una via segreta, attraverso cui, senza che nessuno lo venisse a sapere, riuscivo a realizzare i miei piaceri: e questo, chiunque te l’abbia mostrato o come tu sia venuto a saperlo, non lo nego. Guiscardo non lo scelsi per caso, come fanno molte altre, ma lo elessi con deliberata volontà e con saggia costanza mia e sua ho goduto a lungo del mio desiderio. E sembra che, riguardo a questo fatto, tu, seguendo le dicerie altrui piuttosto che la verità, mi rimproveri più aspramente, non solo il peccato d’amore; ma dici che mi sono andata a mettere con un uomo di bassa condizione, quasi che fosse stato per te possibile non sdegnarti se io avessi scelto per dar sfogo al mio desiderio un uomo nobile e in questo non ti rendi conto di riprendere non il mio peccato ma la stessa fortuna che spesso mette in alto gli indegni lasciando in basso i degnissimi. Ma lasciamo perdere ora questo e andiamo alla essenza delle cose: vedrai che tutti siamo nati da un corpo e un corpo abbiamo tutti e da un unico Creatore creati con uguali forze, capacità e virtù. Dapprima distinse noi, uguali per nascita, la virtù e quelli che la possedevano e la mettevano in atto furono definiti nobili, tutti gli altri non nobili. E benché abitudini di vita contrarie a questa legge l’abbiano spesso offuscata, non è stata ancora cancellata, né rovinata dalla natura né dal buon costume; per questo colui che opera in modo virtuoso, mostra apertamente di essere nobile e chi lo chiama in modo diverso è lui che sbaglia non colui che è chiamato. Considera tutti i tuoi nobili ed esamina la loro vita, i loro costumi, il modo in cui agiscono e, viceversa, considera quelli di Guiscardo. Se osserverai senza animosità diresti lui nobilissimo e i tuoi nobili tutti villani. Delle virtù e del valore di Guiscardo non mi sono riferita al giudizio di un’altra persona, ma alle tue parole e ai miei occhi. Chi mai lo elogiò tanto quanto tu lo lodavi in tutte quelle cose per cui un uomo valoroso dev’essere ricoperto di lodi? E certo non a torto, perché, se i miei occhi non m’ingannarono, nessuna lode gli fu da te attribuita che io non vedessi metterla in atto in modo migliore di quanto le tue parole potessero esprimere, e se mai mi fossi ingannata, l’inganno sarebbe partito da te. Dirai ora che io mi dia messa con un uomo di bassa condizione? Diresti una bugia: ma se per caso dicessi povero ti si potrebbe concedere con vergogna, perché così hai saputo ripagare un tuo valevole servitore; ma la povertà non toglie gentilezza d’animo, ma solo la ricchezza. Molti re e molti principi furono poverissimi e molti di coloro che zappano la terra e pascolano pecore furono e sono ricchissimi. L’ultimo dubbio che avevi, cioè cosa fare di me, scaccialo: se tu nell’avanzata vecchiaia sei disposto a fare ciò che in gioventù non hai osato fare, cioè a incrudelire, rivolgi contro me la tua crudeltà, che non sono disposta a pregarti in nessun modo, poichè sei la prima causa di questo peccato, se peccato è; perciò t’assicuro che quello che hai fatto o farai a Guiscardo, se non dovessi farlo anche me, saranno le mie mani a compierlo. Ora via, vattene con le femmine a piagnucolare e se credi che abbiamo meritato di morire, uccidici con uno stesso colpo».
Il principe riconobbe la grandezza d’animo della figlia ma non per questo credette che lei fosse così fermamente disposta a fare tutto ciò che affermava a parole; per cui allontanatosi da lei  e scacciando da sé il proposito d’infierire in qualche modo contro di lei, pensò con il colpire Guiscardo di riuscire a farle passare il forte amore e ordinò ai due guardiani di Guiscardo che durante la notte in modo silenzioso lo strangolassero e strappatogli il cuore glielo portassero. Essi fecero ciò che venne loro comandato. 
Il giorno seguente, il principre, fattosi recapitare una grande e bella coppa d’oro e messo al suo interno il cuore di Guiscardo, tramite un fidatissimo servo lo mandò alla figlia e gli ordinò quando lo consegnava di dirle: «Tuo padre ti manda questo per consolarti di ciò che tu più ami, come tu lo hai consolato di ciò che lui amava di più».
Ghismonda, non allontanatasi del suo proponimento, si fece venire erbe e radici velenose, poi, andato via il padre, le distillò e le sciolse in acqua, per averla pronta se avvenisse quello che lei temeva. Giunto a lei il familiare con la coppa e le parole del padre, con coraggio la prese e dopo averla scoperchiata e aver sentito le parole del padre, fu assolutamente certa che quello era il cuore di Guiscardo; per cui rivolta verso il familiare, disse: «Non sarebbe stato conveniente una sepoltura  meno degna di questa d’oro per un cuore come questo: almeno in questo mio padre ha operato in modo saggio»
E detto questo, avvicinando il cuore alla bocca lo baciò e poi disse: «Ho sempre trovato fino alla fine della mia vita l’amore di mio padre nei miei confronti tenerissimo, ma ora più che mai e per questo da parte mia gli renderai le ultime grazie che gli devo per un così grande regalo».
Detto questo, rivolta verso la coppa che stringeva a sé, guardando il cuore disse: «Ahi! docissimo rifugio di tutti i miei piaceri; maledetta sia la crudeltà di Tancredi che ora mi fa veder con gli occhi come sei! Quanto valeva di più viverti nel ricordo. Tu hai portato a compimento la vita e ti sei liberato di quel tale corso che la fortuna ti aveva concesso: sei arrivato dove corrono tutti (la morte) e hai abbandonato le miserie e le fatiche del mondo e hai ottenuto dal tuo nemico quella sepoltura che la tua virtù meritava. Non ti mancava niente per avere le esequie complete, se non le lacrime di quella che durante la vita hai amato tanto; e affinché tu le avessi, Dio pose nell’animo del padre crudele di mandarti a me e io te le darò, sebbene avessi deciso di morire con occhi asciutti e viso sereno; e te le darò e farò in modo, con il tuo aiuto, di congiungere la tua anima con la mia, che tu hai custodito tanto caramente. E con quale compagnia potrei andare più felice e sicura nell’aldilà che con lei (la tua anima)? Sono sicura che essa è ancora qui e osserva i luoghi del nostro piacere e, dal momento  che mi ama ancora, ne sono certa, sta aspettando la mia, da cui è amata moltissimo».E detto questo senza emettere alcun gemito, come se avesse una fonte d’acqua negli occhi, chinatasi sopra la coppa cominciò a piangere e a versare un mondo di lacrime, straordinario a vedersi, baciando innumerevoli volte il morto cuore. Le damigelle, che le stavano intorno, non sapevano di chi fosse il cuore e cosa volesse dire, ma vinte da compassione, piangevano tutte e le domandavano inutilmente il motivo del pianto e come meglio potevano e sapevano cercavano di confortarla.
Dopo aver pianto quanto voleva, alzato il viso e asciugati gli occhi, disse: «O cuore molto amato, ho compiuto ogni dovere nei tuoi confronti, non mi resta altro da fare se non di raggiungerti con la mia anima per far compagnia alla tua»
Detto questo si fece dare il piccolo recipiente pieno dell’acqua che aveva preparato, che mise nella coppa con dentro il cuore lavato dalle molte lacrime e senza alcun timore lo bevve e quindi, con la coppa in mano, salì nel letto e quanto più compostamente mise il suo corpo sopra quello e accostò il suo core a quello dell’amante: aspettava la morte senza dire nulla.
Le sue damigelle, avendo visto e ascoltato tutto, sebbene non sapessero che acqua fosse quella che aveva bevuto, avevavo mandato a chiamare Tancredi, che temendo di quello che potesse succedere era corso in camera della figlia, in cui giunse mentre lei si stava sdraiando e solo allora cercò di confortarla con dolci parole, ma vedendo le condizioni in cui si trovava, cominciò a piangere dolorosamente.
A lui la donna disse:«Tancredi, conserva queste lacrime per una sorte che hai desiderato meno di questa, non darle a me, che non le desidero. Chi vide mai qualcuno piangere per quello che ha voluto? Ma pure se qualcosa di quell’amore che mi hai portato ancora vive, per ultimo signore concedimi che, dal momento che non hai voluto che io in silenzio e di nascosto amassi Guiscardo, il mio corpo riposi visibile a tutti accanto al suo, dove tu lo hai fatto gettare».
L’angoscia del principe non gli permise di rispondere; in ultimo la giovane, sentendosi morire, stringendo al petto il morto cuore, disse: «Rimanete con dio, che io muoio». E chiusi gli occhi e perduto ogni sentimento partì da questa dolente vita.
Così ebbe una dolorosa fine la storia d’amore di Guiscardo e Ghismonda, come avete ascoltato, i quali Tancredi dopo aver pianto molto ed essersi pentito della sua crudeltà, con il dolore di tutti i salernitani, fece seppellire tutti e due in uno stesso sepolcro con tutti gli onori.      

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Bernardino Mei: Ghismonda con il cuore di Guiscardo (1659)

La novella sembra essere costruita al fine di farla convergere nello scontro ideologico tra padre e figlia; pare che l’inizio e la sua fine costituiscano una “cornice” nel quale inserire l’elemento tragico tra lo scontro tra i due protagonisti. Ad analizzarlo attentamente, infatti, vediamo che sebbene i protagonisti della storia d’amore siano Ghismonda e Guiscardo, quest’ultimo sia sacrificato a strumento per arrivare al momento chiarificatore dei rapporti tra Tancredi padre e Ghismonda figlia. 

Probabilmente non ci bastano gli strumenti della realtà storica: affinché la tragedia abbia luogo occorrono alcuni elementi che potremmo definire “fiabeschi” ad iniziare da come tutto venga tenuto in segreto e nascosto, dalle prove a cui lui si deve sottoporre per raggiungerla e al suo “strano abbigliamento”, all’inspiegabile non accorgersi della presenza paterna in camera quando la sua testa era sopra il letto, dal uscire di Tancredi dalla finestra, perché? Perché tutto deve convergere allo scontro finale che vede il capovolgimento dei due antagonisti: il vecchio e saggio Tancredi comportarsi come un bambino piangente per i colpi ricevuti; la giovane e bella Ghismonda fiera e coraggiosa che rimprovera la fragilità nonché la mancanza di virtù paterna.

Il discorso di Ghismonda, d’altra parte, non costituisce una novità da un punto di vista contenutistico, a partire proprio dal concetto di amore/nobiltà (di ascendenza guinizzelliana); semmai risulta nuovo, ma non nelle novelle precedenti del Boccaccio stesso, la rivendicazione, in questo caso femminile, dell’amore sensuale, soprattutto in giovane età.

Ma l’accento può cambiare se proviamo a formulare, in modo se si vuole anche veloce, una lettura psicoanalitica: Tancredi è rimasto vedovo in giovane età e riversa tutto il suo amore verso la figlia. Tale amore, che da parte sua non può essere esplicitato, dev’essere tuttavia negato alla figlia, affinché lei possa rimanere sua e di nessun altro; in altre parole l’elaborazione del lutto da parte di Tancredi avviene maturando un rapporto d’amore incestuoso verso la figlia. Come può superare tale difficoltà psicologica? con l’annullamento degli amanti e quindi la rimozione della sua contraddittorietà.  

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Miniatura per la novella di Lisabetta da Messina

I FRATELLI DELL’ELISABETTA UCCIDON L’AMANTE DI LEI; EGLI L’APPARISCE IN SOGNO E MOSTRALE DOVE SIA SOTTERRATO. ELLA OCCULTAMENTE DISOTERRA LA TESTA E METTELA IN UN TESTO DI BASSILICO; E QUIVI SU PIAGNENDO OGNI DI’ PER UNA GRANDE ORA, I FRATELLI GLIELE TOLGONO, ED ELLA SE NE MUORE DI DOLOR POCO APPRESSO.
(IV,5)

Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano. E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte l’Isabetta guatato, avvenne che egli le ‘ncominciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l’animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l’uno all’altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.
E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare che una notte, andando l’Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de’ fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò. Poi, venuto il giorno, a’ suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell’Elisabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d’infignersi del tutto d’averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.
E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti faccendo d’andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse. E in Messina tornati dieder voce d’averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo attorno usati. Non tornando Lorenzo, e Lisabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l’uno de’ fratelli le disse: «Che vuol dir questo? Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene».

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Lisabetta nel Decameron di Pasolini (1971)

Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre aspettando si stava.
Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l’apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse: «O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t’attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l’ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m’uccisono». E disegnatole il luogo dove sotterrato l’aveano, le disse che più nol chiamasse né l’aspettasse, e disparve.
La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata, non avendo ardire di dire al cuna cosa a’ fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l’era paruto. E avuta la licenza d’andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d’una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto potè là se n’andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n’avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo ‘mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra l’altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.
Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d’aranci o delle sue lagrime non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l’avea, sopr’esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea.
Il bassilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v’era, divenne bellissimo e odorifero molto. E servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da’suoi vicini fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro: «Noi ci siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera». 
Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei fecer portar via questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava. I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n’andarono a Napoli. La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quella canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:

Quale esso fu lo malo cristiano;
che mi furò la grasta, ecc.

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Alberto Criscione: Lisabetta da Messina (2014)

A Messina vivevano tre giovani fratelli, tutti mercanti, che dopo la morte del padre, originario di San Gimignano, erano diventati ricchissimi; avevano anche una sorella, chiamata Elisabetta, assai bella ed educata, che, non si sa per quale motivo, non avevano ancora sposata. Avevano anche in una loro bottega un ragazzetto di Pisa di nome Lorenzo, che si occupava di tutti i loro affari, che essendo bello nella persona ed raffinato nei modi, avendolo più volte Lisabetta guardato infine accadde che cominciò a piacerle. Lorenzo, accortosi più di una volta di questo, lasciate da parte le altre donne, cominciò a pensare a lei; così andò la faccenda che piacendosi vicendevolmente, non passò molto tempo, che fecero insieme l’amore, dopo aver preso le dovute precauzioni.
Continuando e prendendo spesso piacere l’un l’altra, non seppero agire con discrezione tale che una notte, essendo andata nella camera di Lorenzo, il maggiore dei suoi fratelli non si accorgesse del fatto, senza che lei si rendesse conto d’essere stata scoperta. Quest’ultimo, essendo un uomo saggio, sebbene fosse per lui molto doloroso venire a sapere ciò, mosso da un cauto pensiero, senza dar modo che con atti o parole mostrasse di esserne accorto, pensando a lungo all’accaduto, attese fino alla mattina seguente. In seguito, quando ritenne opportuno, raccontò ciò che aveva visto fare tra Lisabetta e Lorenzo ai suoi fratelli, e insieme a loro, dopo lungo parlare, stabilì in merito a questa vicenda, affinché non ne derivasse alcuna infamia  né a loro né alla sorella, di passarla sotto silenzio e di fingere di non aver visto o saputo nulla fono a che non si presentasse l’occasione in cui senza danno né fastidio per loro, potessero lavare questa vergogna, prima che progredisse troppo.    Mantenendo questo patto, e parlando e ridendo con Lorenzo come erano soliti fare, successe che facendo finta di andare a divertirsi tutti e tre fuori città, con loro portarono Lorenzo e arrivati in un luogo solitario e lontano dalla città, vedendo che si offriva loro l’occasione favorevole, uccisero Lorenzo che in nessun modo si proteggeva da una simile evenienza e lo sotterrarono di modo che nessuno se ne potesse accorgere. Quando tornarono a Messina, sparsero la voce di averlo mandato in qualche luogo per fare loro un servizio, il che fu creduto facilmente perché spesso lo mandavano fuori città.
Non vedendo tornare Lorenzo, Elisabetta continuava a chiedere spiegazioni ai fratelli, pesandole molto la sua lunga assenza; un giorno chiedendo ad uno di essi con insistenza egli le disse: «Questo che vuol dire? ciò? Che te ne importa di Lorenzo? E come mai chiedi di lui cosi spesso? Se tu continuerai a chiedere di lui, noi ti daremo la risposta che cerchi». La giovane dolente e triste non sapendo più cosa fare o dire, non chiese più nulla ai fratelli ma la notte lo chiamava e pregava perché tornasse, e qualche volta piangendo intensamente per il sua lunga assenza si lamentava, senza mai rallegrarsi e lo aspettava.
Una notte accadde che,  continuando lei a piangerlo molto perché non tornava ed essendosi, mentre lacrimava addormentata Lorenzo le apparve nel sonno, pallido e scarmigliato, con i vestiti fradici e stracciati e le parve che le dicesse: “O Lisabetta tu non fai altro che chiamarmi e allolorati per il mio ritardo e di questo mi accusi;  ma sappi che non potrò più tornare perché lo stesso giorno che mi hai visto per l’ultima volta i tuoi fratelli mi uccisero», e indicatole il posto in cui era sotterrato le disse di non chiamarlo e di non aspettarlo più, poi sparì.  
La giovane, svegliatasi e credendo nella visione, pianse amaramente; poi la mattina seguente, non avendo il coraggio di dire niente ai suoi fratelli, si ripropose di  andare nel luogo mostratole (da Lorenzo) per vedere se ciò che gli era apparso nel sonno fosse vero. Avuto il permesso di uscire da Messina per svago, in compagnia di una donna che era stataa servizio di loro servizio in un momento passato, e che conosceva le tribolazioni di Lisabetta, quanto più velocemente vi andò. Tolse le foglie secche che c’erano sul luogo e dove la terra le sembrava più morbida scavò, e non scavando molto, trovò il corpo del suo misero amante non ancora corrotto e putrefatto, capì allora che la visione era giusta. Per questo era molto addolorata quanto ogni donna mai, ma sapeva che quello non era il tempo di piangere. Se avesse potuto volentieri avrebbe portato con sé tutto il corpo per dargli una sepoltura migliore, ma vedendo che ciò era impossibile, con un coltello gli tagliò la testa, la mise in un asciugatoio e la mise in braccio alla signora, poi ricoprì il corpo con la terra e quindi senza essere vista partì da quel luogo e tornò a casa.
Giunta a casa si rinchiuse in camera sua con la testa di Lorenzo e sopra essa pianse amaramente e a lungo, tanto da lavarla completamente con le lacrime, e la riempì di mille baci da ogni parte. Prese poi un grande e bel vaso di quelli che  si usava per piantarci la maggiorana o il basilico e vi ripose la testa fasciata in un lenzuolo, la ricoprì poi di terra e vi piantò molti semi del bellissimo basilico salernitano che innaffiava solo con acqua di rose o di fiori d’arancio e con le sue lacrime. Aveva preso l’abitudine di sedersi vicino al vaso e di vegheggiare il suo desiderio accanto ad esso, dal momento che esso conteneva la testa del suo Lorenzo; quanto aveva finito piangeva a lungo e in questo modo bagnava il basilico.
Il basilico sia per le continue attenzioni che per la terra molto grassa, grazie al fatto di contenere la testa putrefatta, divenne bellissimo e molto profumato e dal momento che Lisabetta si comportava continuamente così, fu notata dai vicini che, meravigliandosi, parlarono ai fratelli del viso sfatto e degli occhi gonfi e dissero loro: «Noi ci siamo accorti che lei ogni giorno fa la stessa cosa». Sentito questo i fratelli e essendosene accorti, dopo averla rimproverata qualche volta, senza risultato, senza che lei se ne accorgesse le sottrassero il vaso; lei lo richiese con molta insistenza, ma non essendole reso, non smettendo di piangere, alla fine si ammalò e, durante la malattia, non faceva che domandare del suo vaso. I tre giovani si meravigliarono di queste continue domande e perciò vollero controllare cosa ci fosse nel vaso; lo svuotarono e trovato il lenzuolo lo aprirono e videro la testa non ancora consumata, ma la riconobbero come quella di Lorenzo a causa della capigliatura crespa.
Di ciò essi si meravigliarono tantissimo e temettero che questa cosa si risapesse in giro e sotterrata la testa, senza dire nulla, senza farsene accorgere andarono via da Messina, dopo aver trovato il modo di trasferire i loro affari lontani da lì e se andarono a Napoli.
La giovane non smettendo di piangere e continuamente domandando il suo vaso, morì tra le lacrime e così finì il suo sventurato amore: ma in seguito la faccenda fu conosciuta da molti e ci fu qualcuno che compose quella canzone che ancora oggi si canta:chi fu l’uomo malvagio /  che mi rubò il vaso di fiori, ecc…

La novella a prima vista potrebbe avere un impianto simile a quella di Guiscardo e Ghismunda: un triangolo i cui vertici sono rappresentati nel primo caso dal padre e la figlia, nel secondo da tre fratelli (supplenti del padre e la sorella) e la sorella; per entrambi l’oggetto del desiderio è l’eros “naturale” che infrange le regole. nella novella precedente quella della nobiltà, in questa quella della mercatura.

Holman Hunt, William - Isabella and il vaso di basilico1876.jpgWilliam Holman Hunt: Isabella e il vaso di basilico (1876)

Vi sono altre due specularità: 

  1. in ambedue vince la donna (pur morendo, vanifica i progetti delle figure maschili);
  2. ambedue hanno un andamento si potrebbe dire quasi favolistico (in questo caso il sogno, la pianta di basilico). 

E’ importante notare come nel primo i riferimenti culturali erano altissimi, a partire dalla tragedia classica nonché dal romanzo cortese e dalla storia, in specifico del “Tristano e Isotta” che giustifica in qualche modo quella perorazione, oserei quasi dall’impianto logico di Ghismonda verso il padre; qui invece è come se la narratrice partisse da una canzone popolare, messa in coda al racconto e ne spiegasse il motivo. Ciò permette al racconto di Lisabetta di vertere più sul piano dell’elegia, in cui a prevalere non è la parola ma il pianto (piange perché il fratello non le dice dov’è Lorenzo; piange perché l’uccidono; piange sulla sua testa “vegheggiando il desiderio”). Il pianto sembra il filo conduttore delle tre sequenze:

  1. l’amore clandestino di Lisabetta e Lorenzo;
  2. L’uccisione di lui; il sogno e il prelevamento della testa;
  3. Il ritorno il pianto, lo svelamento della verità e la fuga. 

Se tuttavia ci sembra “giustificabile” da un punto di vista feudale, il comportamento di Tancredi, meno comprensibile è quello dei fratelli: cos’hanno da perdere, per il loro commercio, da un matrimonio tra Lisabetta e Lorenzo?

Le risposte potrebbero essere due:

  1. L’autorità che, pure nel mondo borghese, un padre o chi per lui aveva su una donna, tanto da decidere il suo destino sentimentale (nonché sessuale);
  2. l’impossibilità, essendo Lorenzo un sottoposto, di contrarre un matrimonio di “convenienza” 

Pensiamo invece che quello che agisce possa essere sia una identica lettura psicoanalitica, che ripeterebbe lo schema di Tancredi e Ghisunda, quanto, invece socialmente, tale fatto avrebbe creato “vergogna” tra i commercianti che non avrebbero saputo contrarre un matrimonio vergognoso e si sarebbero piegati alla libertà femminile. 

QUINTA GIORNATA

La quinta giornata è presieduta dalla regina Fiammetta la quale vuole che si parli di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri e sventurati accidenti, felicemente avvenisse. Dopo le tragedie delle novelle narrate la giornata precedente, si torna a parlare di “amori a lieto fine”.

Su questo argomento scegliamo la novella di Nastagio degli Onesti presentataci da Filomena:

NASTAGIO DEGLI ONESTI, AMANDO UNA DE’ TRAVERSARI, SPENDE LE SUE RICCHEZZE SENZA ESSERE AMATO. VASSENE, PREFATO DA’ SUOI, A CHIASSI; QUIVI DEVE CACCIARE AD UN CAVALIERE UNA GIOVANE E UCCIDERLA E DIVORARLA DA DUE CANI. INVITA I PARENTI SUOI E QUELLA DONNA AMATA DA LUI SD UN DESINARE, LA QUALE VEDE QUESTA MEDESIMA GIOVANE SBRANARE; E TEMENDO DI SIMILE AVVENIMENTO PRENDE PER MARITO NASTAGIO.
(V, 8)

In Ravenna, antichissima città di Romagna, furon già assai nobili e ricchi uomini, tra’ quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, per la morte del padre di lui e d’un suo zio, senza stima rimaso ricchissimo. Il quale, sì come de’ giovani avviene, essendo senza moglie, s’innamorò d’una figliuola di messer Paolo Traversaro, giovane troppo più nobile che esso non era, prendendo speranza con le sue opere di doverla trarre ad amar lui; le quali, quantunque grandissime, belle e laudevoli fossero, non solamente non gli giovavano, anzi pareva che gli nocessero, tanto cruda e dura e salvatica gli si mostrava la giovinetta amata, forse per la sua singular bellezza o per la sua nobiltà sì altiera e disdegnosa divenuta, che né egli né cosa che gli piacesse le piaceva.
La qual cosa era tanto a Nastagio gravosa a comportare, che per dolore più volte, dopo molto essersi doluto, gli venne in disidero d’uccidersi. Poi, pur tenendosene, molte volte si mise in cuore di doverla del tutto lasciare stare, o, se potesse, d’averla in odio come ella aveva lui. Ma invano tal proponimento prendeva, per ciò che pareva che quanto più la speranza mancava, tanto più moltiplicasse il suo amore. Perseverando adunque il giovane e nello amare e nello spendere smisuratamente, parve a certi suoi amici e parenti che egli sé e ‘l suo avere parimente fosse per consumare; per la qual cosa più volte il pregarono e consigliarono che si dovesse di Ravenna partire e in alcuno altro luogo per alquanto tempo andare a dimorare; per ciò che, così faccendo, scemerebbe l’amore e le spese. Di questo consiglio più volte fece beffe Nastagio; ma pure, essendo da loro sollicitato, non potendo tanto dir di no, disse di farlo; e fatto fare un grande apparecchiamento, come se in Francia o in Ispagna o in alcuno altro luogo lontano andar volesse, montato a cavallo e da suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossene ad un luogo forse tre miglia fuor di Ravenna, che si chiama Chiassi; e quivi, fatti venir padiglioni e trabacche disse a coloro che accompagnato l’aveano che star si volea e che essi a Ravenna se ne tornassono. Attendatosi adunque quivi Nastagio, cominciò a fare la più bella vita e la più magnifica che mai si facesse, or questi e or quegli altri invitando a cena e a desinare, come usato s’era.
Ora avvenne che uno venerdì quasi all’entrata di maggio essendo un bellissimo tempo, ed egli entrato in pensier della sua crudel donna, comandato a tutta la sua famiglia che solo il lasciassero, per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta. Ed essendo già passata presso che la quinta ora del giorno, ed esso bene un mezzo miglio per la pigneta entrato, non ricordandosi di mangiare né d’altra cosa, subitamente gli parve udire un grandissimo pianto e guai altissimi messi da una donna; per che, rotto il suo dolce pensiero, alzò il capo per veder che fosse, e maravigliossi nella pigneta veggendosi; e oltre a ciò, davanti guardandosi vide venire per un boschetto assai folto d’albuscelli e di pruni, correndo verso il luogo dove egli era, una bellissima giovane ignuda, scapigliata e tutta graffiata dalle frasche e dà pruni, piagnendo e gridando forte mercé; e oltre a questo le vide a’ fianchi due grandi e fieri mastini, li quali duramente appresso correndole, spesse volte crudelmente dove la giugnevano la mordevano, e dietro a lei vide venire sopra un corsiere nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando. Questa cosa ad una ora maraviglia e spavento gli mise nell’animo, e ultimamente compassione della sventurata donna, dalla qual nacque disidero di liberarla da sì fatta angoscia e morte, se el potesse. Ma, senza arme trovandosi, ricorse a prendere un ramo d’albero in luogo di bastone, e cominciò a farsi incontro a’cani e contro al cavaliere.

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Sandro Botticelli: 1° pannello

Ma il cavalier che questo vide, gli gridò di lontano: «Nastagio, non t’impacciare, lascia fare a’ cani e a me quello che questa malvagia femina ha meritato.»
E così dicendo, i cani, presa forte la giovane né fianchi, la fermarono, e il cavaliere sopraggiunto smontò da cavallo.
Al quale Nastagio avvicinatosi disse: «Io non so chi tu ti sé, che me così cognosci; ma tanto ti dico che gran viltà è d’un cavaliere armato volere uccidere una femina ignuda, e averle i cani alle coste messi come se ella fosse una fiera salvatica; io per certo la difenderò quant’io potrò».
Il cavaliere allora disse: «Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, ed eri tu ancora piccol fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei, che tu ora non sé di quella de’ Traversari, e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene etternali dannato. Né stette poi guari tempo che costei, la qual della mia morte fu lieta oltre misura, morì, e per lo peccato della sua crudeltà e della letizia avuta de’ miei tormenti, non pentendosene, come colei che non credeva in ciò aver peccato ma meritato, similmente fu ed è dannata alle pene del ninferno. Nel quale come ella discese, così ne fu e a lei e a me per pena dato, a lei di fuggirmi davanti e a me, che già cotanto l’amai, di seguitarla come mortal nimica, non come amata donna; e quante volte io la giungo, tante con questo stocco, col quale io uccisi me, uccido lei e aprola per ischiena, e quel cuor duro e freddo, nel qual mai né amor né pietà poterono entrare, con l’altre interiora insieme, sì come tu vedrai incontanente, le caccia di corpo, e dolle mangiare a questi cani. Né sta poi grande spazio che ella, sì come la giustizia e la potenzia d’Iddio vuole, come se morta non fosse stata, risurge e da capo incomincia la dolorosa fugga, e i cani e io a seguitarla; e avviene che ogni venerdì in su questa ora io la giungo qui, e qui ne fo lo strazio che vedrai; e gli altri dì non creder che noi riposiamo, ma giungola in altri luoghi né quali ella crudelmente contro a me pensò o operò; ed essendole d’amante divenuto nimico, come tu vedi, me la conviene in questa guisa tanti anni seguitare quanti mesi ella fu contro a me crudele. Adunque lasciami la divina giustizia mandare ad esecuzione, né ti volere opporre a quello che tu non potresti contrastare». 
Nastagio, udendo queste parole, tutto timido divenuto e quasi non avendo pelo addosso che arricciato non fosse, tirandosi addietro e riguardando alla misera giovane, cominciò pauroso ad aspettare quello che facesse il cavaliere. Il quale, finito il suo ragionare, a guisa d’un cane rabbioso, con lo stocco in mano corse addosso alla giovane, la quale inginocchiata e da’ due mastini tenuta forte gli gridava mercè; e a quella con tutta sua forza diede per mezzo il petto e passolla dall’altra parte. Il qual colpo come la giovane ebbe ricevuto, così cadde boccone, sempre piagnendo e gridando; e il cavaliere, messo mano ad un coltello, quella aprì nelle reni, e fuori trattone il cuore e ogni altra cosa d’attorno, a’ due mastini il gittò, li quali affamatissimi incontanente il mangiarono. Né stette guari che la giovane, quasi niuna di queste cose stata fosse, subitamente si levò in piè e cominciò a fuggire verso il mare, e i cani appresso di lei sempre lacerandola; e il cavaliere, rimontato a cavallo e ripreso il suo stocco, la cominciò a seguitare, e in picciola ora si dileguarono in maniera che più Nastagio non gli potè vedere.
Il quale, avendo queste cose vedute, gran pezza stette tra pietoso e pauroso, e dopo alquanto gli venne nella mente questa cosa dovergli molto poter valere, poi che ogni venerdì avvenia; per che, segnato il luogo, a’ suoi famigli se ne tornò, e appresso, quando gli parve, mandato per più suoi parenti e amici, disse loro: «Voi m’avete lungo tempo stimolato che io d’amare questa mia nemica mi rimanga e ponga fine al mio spendere, e io son presto di farlo dove voi una grazia m’impetriate, la quale è questa: che venerdì che viene voi facciate sì che messer Paolo Traversaro e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre chi vi piacerà, qui sieno a desinar meco. Quello per che io questo voglia, voi il vedrete allora».
A costor parve questa assai piccola cosa a dover fare e promissongliele; e a Ravenna tornati, quando tempo fu, coloro invitarono li quali Nastagio voleva, e come che dura cosa fosse il potervi menare la giovane da Nastagio amata, pur v’andò con gli altri insieme. Nastagio fece magnificamente apprestare da mangiare, e fece le tavole mettere sotto i pini d’intorno a quel luogo dove veduto aveva lo strazio della crudel donna; e fatti mettere gli uomini e le donne a tavola, sì ordinò, che appunto la giovane amata da lui fu posta a sedere dirimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire.
Essendo adunque già venuta l’ultima vivanda, e il romore disperato della cacciata giovane da tutti fu cominciato ad udire. Di che maravigliandosi forte ciascuno e domandando che ciò fosse, e niun sappiendol dire, levatisi tutti diritti e riguardando che ciò potesse essere, videro la dolente giovane e ‘l cavaliere e’ cani; ne guari stette che essi tutti furon quivi tra loro.

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Sandro Botticelli: 2° pannello

Il romore fu fatto grande e a’ cani e al cavaliere, e molti per aiutare la giovane si fecero innanzi; ma il cavaliere, parlando loro come a Nastagio aveva parlato, non solamente gli fece indietro tirare, ma tutti gli spaventò e riempiè di maraviglia; e faccendo quello che altra volta aveva fatto, quante donne v’avea (ché ve ne avea assai che parenti erano state e della dolente giovane e del cavaliere e che si ricordavano e dell’amore e della morte di lui) tutte così miseramente piagnevano come se a sé medesime quello avesser veduto fare.
La qual cosa al suo termine fornita, e andata via la donna e ‘l cavaliere, mise costoro che ciò veduto aveano in molti e vari ragionamenti; ma tra gli altri che più di spavento ebbero, fu la crudel giovane da Nastagio amata, la quale ogni cosa distintamente veduta avea e udita, e conosciuto che a sé più che ad altra persona che vi fosse queste cose toccavano, ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggir dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi. E tanta fu la paura che di questo le nacque, che, acciò che questo a lei non avvenisse, prima tempo non si vide (il quale quella medesima sera prestato le fu) che ella, avendo l’odio in amore tramutato, una sua fida cameriera segretamente a Nastagio mandò, la quale da parte di lei il pregò che gli dovesse piacer d’andare a lei, per ciò ch’ella era presta di far tutto ciò che fosse piacer di lui. Alla qual Nastagio fece rispondere che questo gli era a grado molto, ma che, dove piacesse, con onor di lei voleva il suo piacere, e questo era sposandola per moglie.
La giovane, la qual sapeva che da altrui che da lei rimaso non era che moglie di Nastagio stata non fosse, gli fece risponder che le piacea. Per che, essendo ella medesima la messaggera, al padre e alla madre disse che era contenta d’esser sposa di Nastagio, di che essi furon contenti molto; e la domenica seguente Nastagio sposatala e fatte le sue nozze, con lei più tempo lietamente visse. E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono, che prima state non erano.

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Sandro Botticelli: 3° pannello

A Ravenna, antichissima città della Romagna, vissero uomini nobili e ricchi, tra i quali un giovane chiamato Nastagio degli Onesti, che aveva ereditato un’immensa eredità, in seguito alla morte del padre e dello zio. Egli, come di solito capita ai giovani, essendi scapolo, s’innamorò di una delle figlie di messer Paolo Traversaro, una giovane molto più nobile di lui, sperando di farla innamorare con grandi cortesie. Sebbene esse furono grandi, belle e degne di lode, non solo non gli giovarono, ma sembravano produrre l’effetto contrario; tanto la giovane amata gli si mostrava crudele, scontrosa e scortese, forse a causa della sua bellezza e nobiltà ed era diventata così altezzosa e superba, che non le piaceva né lui né le cose che lui apprezzava. Tutto questo era per Nastagio difficile a sopportare, che, dopo essersi doluto, spesso pensò di uccidersi; poi, pur trattenendosi dal farlo, tante volte cercò di convincersi di lasciarla stare o, se avesse potuto, odiarla allo stesso modo in cui lei odiava lui. ma inutilmente, però, perché quanto più sembrava svanisse ogni speranza tanto lui moltiplicava l’amore.
Continuando il giovane ad amarla e allo spendere in modo smisurato, ai suoi amici e ai suoi parenti sembrò che lui fosse in procinto di perdere se stessi e i suoi beni; per cui più volte lo pregarono e lo consigliarono di partire da Ravenna  per andare a stare per qualche tempo in un altro posto, in modo che, facendo così, facesse diminuire l’amore e le spese. Nastagio più spesso si prese gioco di questo consiglio, ma essendo da loro sollecitato (a farlo) non potendo più rifiutarsi, lo promise e fatti imponenti preparativi, come se dovesse andare in Francia o in Spagna o in un altro lontano paese, montato a cavallo e con molti compagni uscì da Ravenna per andare in un posto che distava circa tre miglia da Ravenna, Classe. Qui Nastagio si fece portare padiglioni e tende e disse ai suoi amici che voleva rimanere lì e li invitò a rientrare in città. Accampatosi lì Nastagio cominciò a condurre la più bella e magnifica vita che mai avesse fatto, invitando a cena or questi o quelli, come era solito fare.
All’inizio di maggio, in una giornata bellissima, pensando alla donna crudele, chiedendo a tutti i suoi familiari di lasciarlo solo per immergersi più semplicemente nei suoi pensieri e camminando lentamente giunse all’interno di una pineta. Era quasi mezzogiorno quando, entrato per mezzo miglio all’interno della pineta, dimentico di mangiare, sentì improvvisamente una donna emettere un grandissimo pianto ed altissimi lamenti;  per cui, interrotto il pensiero della donna, alzò la testa per vedere e si meravigliò del posto in cui si trovava, tanto era stato immerso nella sua immaginazione. Guardò quindi davanti a sé e vide venire attraverso il bosco ricco di arbusti e rovi, una bella giovane nuda, scapigliata e graffiata da rami e cespugli che piangeva ed urlava pietà. A fianco a lei vide due grandi e feroci mastini che rabbiosamente la inseguivano e, quando la raggiungevano la mordevano; e dietro di lei vide un cavallo nero con sopra un cavaliere vestito di nero, molto crudele nel volto, con uno spadino in mano, minacciandola di morte con parole spaventose e insolenti. Dapprima Nastagio fu colto da stupore  e paura nello stesso tempo, poi da compassione per la donna sfortunata, e quindi nacque la voglia di liberarla da una così crudele angoscia e certa morte, se fosse possibile riuscirci. Ma trovandosi senza armi, si adattò a raccogliere un ramo d’albero da utilizzare come bastone e andò verso i cani e il cavalieri.
Ma il cavaliere, vedendolo, da lontano gli disse: «Nastagio, non ti intromettere, lascia fare a me e ai cani ciò che questa malvagia donna ha meritato».
Mentre diceva ciò i cani raggiunsero la donna e la bloccarono e il cavaliere smontò da cavallo per raggiungerla, ma Nastagio, avvicinandolo, disse: «Non chi tu sia e come mai conosci il mio nome, ma intanto ti dico che è un gesto di gran villania per un cavaliere voler uccidere una donna nuda e di averle messo dei cani alle costole come fosse un animale selvatico: certamente, per quanto potrò, la difenderò. 
Gli rispose il cavaliere: «Nastagio, io fui della tua stessa terra, e tu eri ancora un piccolo bambino quando io, messer Guido degli Anastagi, ero molto più innamorato di questa donna di quanto tu oggi lo sia di quella della famiglia dei Traversari e a causa della sua superbia e crudeltà, il mio stato infelice crebbe tanto, che un giorno con questo spadino, che tu mi vedi in mano, poiché ero giunto alla disperazione, mi uccisi. Non passò molto che costei, che mostrò di essere estremamente felice per la mia morte, morì e per il peccato della sua crudeltà e della sua contentezza per le mie disgrazie, poiché non si pentì, ma credeva con il suo atteggiamento di non aver peccato, anzi di aver fatto un atto meritorio, come me è dannsta alle pene dell’Inferno. Lì ci fu dato come pena a lei di fuggirmi e a me, che l’amai tanto, di inseguirla come un mortale nemico e non come donna desiderata, e ogni volta che la raggiungo tante volte la colpisco con la spada con la quale mi uccisi. Quindi le apro uno squarcio sulla schiena e le strappo le interiora ed il cuore, che non permise entrassero amore e pietà per me, e li do ai cani. Non trascorre poi tanto tempo  che lei, secondo la giustizia e la potenza di Dio, come se non fosse stata uccisa, risorge e di nuovo ricomincia la dolorosa fuga, l’inseguimento dei cani e il mio. E accade che ogni venerdì, più o meno a quest’ora, io arrivo qui e faccio strazio del suo corpo come vedrai, e non credere che gli altri giorni ci riposiamo, ma la raggiungo in altri luoghi  dove lei pensò e mise in atto atteggiamenti rivolti contro di me. Ora essendole diventato da amante a nemico sono condannato ad inseguirla tanti anni quanti furono i mesi che ella fu crudele nei miei confronti. Dunque lasciami eseguire la giustizia divina e non opporti a ciò che Dio non ti permetterebbe di contrastare».
Nastagio, dopo aver udito ciò, pieno di paura e con i peli rizzati sulla pelle, indietreggiò e, guardando alla povera giovane, aspettò timoroso di vedere che cosa le facesse il cavaliere che, finito di parlare, come un cane rabbioso con la spada in mano corse contro la ragazza che in ginocchio, ma trattenuta dai mastini, gli chiedeva pietà ma con tutta la forza la colpì in mezzo al petto e la trapassò. Appena ricevuto il colpo, la giovane cadde bocconi, continuando a piangere e a gridare: il cavaliere, preso un coltello la squarciò all’altezza delle reni e tirato fuori il cuore e le altre interiora le gettò ai cani che, affamati, le divorarono. Ma non passò molto tempo che la giovane, come se non gli fosse accaduto nulla, improvvisamente si sollevò in piedi e ricominciò a correre verso il mare con i cani ad inseguirla per morderla e il cavaliere, ripreso lo spadino, rimontò in sella a rincorrerla e in brevissimo tempo di dileguarono tanto che Nastagio non poté più vederli. 
Lui, dopo aver visto questa cose rimase per molto tempo in una condizione commista tra pietà e paura; in seguito pensò di poter trarre vantaggio da questo avvenimento, dal momento che si ripeteva in modo uguale ogni venerdì. Quindi, segnato il luogo, tornò dai suoi servitori e in seguito, quando gli sembrò opportuno, convocata la maggior parte di parenti e amici, disse loro: «Voi mi avete spinto a smettere di amare questa mia nemica e ponga fine al gettare il mio denaro per lei, ed io lo farò certamente nel caso voi otteniate una grazia per me, che è la seguente: venerdì prossimo fate in modo che messer Traversari con moglie, figlia e tutto il parentado femminile e chiunque altro vi piacerà, siano qui a mangiare con me. Quello che io voglio ottenere con questo, lo vedrete in quel momento». 
A coloro cui tale richiesta fu rivolta parve piccola cosa da eseguire e, tornati a Ravenna e quando fu il momento invitarono coloro che Nastagio aveva chiesto e sebbene non fu facile convincere la ragazza che lui amava, alla fine vi andò insieme ad altre donne. Nastagio fece preparare un pasto sontuoso, mettendo i tavoli sotto i pini, intorno a quel luogo in cui aveva visto lo strazio della donne crudele, e ordinò ai servi di mettere gli uomini e le donne a tavola e che la donna fosse messa a sedere di fronte al luogo dove sarebbe accaduta la scena.
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Sandro Botticelli: 4° pannello

Giunti all’ultima portata si cominciò a percepire il rumore della giovane inseguita. Tutti si meravigliarono molto e si domandarono cosa fosse, ma non sapendolo nessuno si sollevarono in piedi per guardare e videro la donna dolorosa, i cani e il cavaliere. Si levarono molte grida contro di loro e moti avanzarono per aiutare la giovane, ma il cavaliere, parlando loro come aveva parlato a Nastagio non solo li fece indietreggiare ma li spaventò e li riempì di meraviglia e facendo quello che il venerdì precedente aveva fatto, quante donne erano presenti (ce n’erano molte che erano state congiunte della giovane donna o del cavaliere e che ricordavano l’amore e la morte di lui) tutte piangevano come se avessero subito loro stesse la punizione inflitta alla donna. La visione dell’inseguimento e del supplizio, non appena fu giunta al termine e la donna e il cavaliere se nje furono andati via, indusse coloro che vi avevano assistito a molti e diversi discorsi: Ma tra coloro che si spaventarono di più, ci fu la donna crudele amata da Nastagio, che, vista ogni cosa, aveva capito che riguardavano se stessa più degli altri presenti, ripensando alla crudeltà avita sin da allora verso Nastagio, tanto che già si vedeva scappare di fronte a lui adirato e inseguita da cani. 
Tanta fu la paura che quello che vide le procurò che, affinché non avvenisse, non appena ebbe l’occasione – ciò fu la sera di quel medesimo giorno – ella, avendo mutato l’odio in amore, mandò in gran segreto una sua cameriera da Nastagio e lo pregò, da parte della sua padrona, di voler andare da lei, perché ella era pronta a fare tutto ciò che egli desiderasse: Nastaglio gli risposte che ciò che gli aveva riferito le era molto gradito, ma che nel caso lei fosse stata d’accordo, desiderava portare a compimento il suo desiderio, e questo era possibile prendendola in moglie. La giovane sapeva che non era dipeso da altri se non da lei il fatto di non essere diventava la moglie di Nastaglio, gli fece rispondere che acconsentiva. Per cui, presentando lei stessa la richiesta di matrimonio, disse di voler diventare la sposa di Nastagio ai suoi genitori, che furono, per questo, molto soddisfatti.
La domenica seguente, celebrate le nozze, Nastastagio visse molto tempo felicemente con lei; e la paura non fu solamente il motivo di questo avvenimento lieto, anzi tutte le ravennate divennero donne timorose che in seguito furono molto più arrendevoli ai corteggiamenti degli uomini di quanto lo fossero state prima.   

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Alberto Criscione: Nastagio degli Onesti (2014)

La novella qui presentata mette a fuoco tre nuclei tematici estremamente interessanti:

  1. ambiente feudale, con elementi tratti dalla cultura cortese (la dedizione totale dell’uomo verso la donna, sino al depauperamento del suo patrimonio). E’ evidente che tale ambiente si presenti come “lontano nel tempo” e “raffinato”;
  2. La caccia infernale di dantesca memoria (canto XIII, pena degli scialacquatori, inseguiti e lacerati da morsi di cani rabbiosi); elemento religioso, infatti, con il castigo di Dio che ritiene una “villania” l’amor che a nullo amato amar perdona;
  3. L’elogio dell’intelligenza: Nastagio, dopo un primo momento di smarrimento, sfrutta a suo vantaggio la visione infernale, piegando alla sua volontà la ritrosia della donna.

La novella si chiude con un sorriso, invitando le donne ad essere meno scontrose e riservate alle richieste d’amore; d’altra parte non sempre tali richieste nascono solo per soddisfacimenti carnali, ed è lo stesso Nastagio a mostrarlo: quando la giovane avrebbe acconsentito a qualsiasi richiesta dell’uomo, quest’ultimo le chiede di sposarlo, rientrando così in una richiesta che, forse non più feudale, strizza l’occhio all’etica borghese.

La novella è anche famosa perché nel 1483 Lorenzo il Magnifico ne commissionò la resa pittorica a Sandro Botticelli, per donarla al matrimonio di Giannozzo Pucci. Essa è divisa in quattro pannelli, tre conservati attualmente al Prado (Madrid), il quarto a Palazzo Pucci, a Firenze.

La penultima famosissima novella della quinta giornata è raccontata da Fiammetta, che pur essendo regina, racconterà la storia di Federigo degli Alberighi, lasciando così al decimo narratore, Dioneo, la possibilità data lui di raccontare in piena libertà. 

FEDERIGO DEGLI ALBERIGHI AMA E NON E’ AMATO E IN CORTESIA SPENDENDO SI CONSUMA E RIMANGLI UN SOL FALCONE, IL QUALE, NON AVENDO ALTRO DA’ A MANGIARE ALLA SUA DONNA VENUTAGLI A CASA; LA QUALE, CIO’ SAPPIENDO, MUTATA D’ANIMO, IL PRENDE PER MARITO E FALLO RICCO.
(V,9)

maraviglioso_boccaccio_jasminetrinca_josafatvagni_foto_umbertomontiroli_0856.JPGJosafat Vagni (Federigo degli Alberighi) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Dovete adunque sapere che Coppo di Borghese Domenichi, il quale fu nella nostra città, e forse ancora è, uomo di grande e di reverenda autorità né dì nostri, e per costumi e per vertù molto più che per nobiltà di sangue chiarissimo e degno d’eterna fama, essendo già d’anni peno, spesso volte delle cose passate co’ suoi vicini e con altri si dilettava di ragionare: la qual cosa egli meglio e con più ordine e con maggior memoria e ornato parlare che altro uomo seppe fare. Era usato di dire, tra l’altre sue belle cose, che in Firenze fu già un giovane chiamato Federigo di messer Filippo Alberighi, in opera d’arme e in cortesia pregiato sopra ogni altro donzel di Toscana. Il quale, sì come il più de’ gentili uomini avviene, d’una gentil donna chiamata monna Giovanna s’innamorò, né suoi tempi tenuta delle più belle donne e delle più leggiadre che in Firenze fossero; e acciò che egli l’amor di lei acquistar potesse, giostrava, armeggiava, faceva feste e donava, e il suo senza alcun ritegno spendeva; ma ella, non meno onesta che bella, niente di queste cose per lei fatte né di colui si curava che le faceva.
Spendendo adunque Federigo oltre a ogni suo potere molto e niente acquistando, sì come di leggiere adiviene, le ricchezze mancarono e esso rimase povero, senza altra cosa che un suo poderetto piccolo essergli rimasa, delle rendite del quale strettissimamente vivea, e oltre a questo un suo falcone de’ miglior del mondo. Per che, amando più che mai né parendo gli più potere essere cittadino come disiderava, a Campi, là dove il suo poderetto era, se n’andò a stare. Quivi, quando poteva uccellando e senza alcuna persona richiedere, pazientemente la sua povertà comportava.
Ora avvenne un dì che, essendo così Federigo divenuto allo stremo, che il marito di monna Giovanna infermò, e veggendosi alla morte venire fece testamento, e essendo ricchissimo, in quello lasciò suo erede un suo figliuolo già grandicello e appresso questo, avendo molto amata monna Giovanna, lei, se avvenisse che il figliuolo senza erede legittimo morisse, suo erede substituì, e morissi. Rimasa adunque vedova monna Giovanna, come usanza è delle nostre donne, l’anno di state con questo suo figliuolo se n’andava in contado a una sua possessione assai vicina a quella di Federigo. Per che avvenne che questo garzoncello s’incominciò a dimesticare con Federigo e a dilettarsi d’uccelli e di cani; e avendo veduto molte volte il falcon di Federigo volare e stranamente piacendogli, forte disiderava d’averlo ma pure non s’attentava di domandarlo, veggendolo a lui esser cotanto caro. E così stando la cosa, avvenne che il garzoncello infermò: di che la madre dolorosa molto, come colei che più non n’avea e lui amava quanto più si poteva, tutto il dì standogli dintorno non restava di confortarlo e spesse volte il domandava se alcuna cosa era la quale egli disiderasse, pregandolo gliele dicesse, che per certo, se possibile fosse a avere, procaccerebbe come l’avesse.

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Josafat Vagni (Federigo degli Alberighi) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Il giovanetto, udite molte volte queste proferte, disse: «Madre mia, se voi fa che io abbia il falcone di Federigo, io mi credo prestamente guerire.»
La donna, udendo questo, alquanto sopra sé stette e cominciò a pensar quello che far dovesse. Ella sapeva che Federigo lungamente l’aveva amata, né mai da lei una sola guatatura aveva avuta, per che ella diceva: «Come manderò io o andrò a domandargli questo falcone che è, per quel che io oda, il migliore che mai volasse e oltre a ciò il mantien nel mondo? E come sarò io sì sconoscente, che a un gentile uomo al quale niuno altro diletto è più rimaso, io questo gli voglia torre?»
E in così fatto pensiero impacciata, come che ella fosse certissima d’averlo se ‘l domandasse, senza sapere che dover dire, non rispondeva al figliuolo ma si stava. Ultimamente tanto la vinse l’amor del figliuolo, che ella seco dispose, per contentarlo che che esser ne dovesse, di non mandare ma d’andare ella medesima per esso e di recargliele e risposegli: «Figliuol mio, confortati e pensa di guerire di forza, ché io ti prometto che la prima cosa che io farò domattina, io andrò per esso e sì il ti recherò.»
Di che il fanciullo lieto il dì medesimo mostrò alcun miglioramento. La donna la mattina seguente, presa un’altra donna in compagnia, per modo di diporto se n’andò alla piccola casetta di Federigo e fecelo adimandare. Egli, per ciò che non era tempo, né era stato a quei dì, d’uccellare, era in un suo orto e faceva certi suoi lavorietti acconciare; il quale, udendo che monna Giovanna il domandava alla porta, maravigliandosi forte, lieto là corse.
La quale vedendol venire, con una donnesca piacevolezza levataglisi incontrò, avendola già Federigo reverentemente salutata, disse: «Bene stea Federigo!» e seguitò: «Io sono venuta a ristorarti de’ danni li quali tu hai già avuti per me amandomi più che stato non ti sarebbe bisogno: e il ristoro è cotale che io intendo con questa mia compagna insieme destinar teco dimesticamente stamane».
Alla qual Federigo umilmente rispose: «Madonna, niun danno mi ricorda mai avere ricevuto per voi ma tanto di bene che, se io mai alcuna cosa valsi, per lo vostro valore e per l’amore che portato v’ho adivenne. E per certo questa vostra liberale venuta m’è troppo più cara che non sarebbe se da capo mi fosse dato da spendere quanto per adietro ho già speso, come che a povero oste siate venuta». 
E così detto, vergognosamente dentro alla sua casa la ricevette e di quella nel suo giardino la condusse, e quivi non avendo a cui farle tenere compagnia a altrui, disse: «Madonna, poi che altri non c’è, questa buona donna moglie di questo lavoratore vi terrà compagnia tanto che io vada a far metter la tavola».
Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue ricchezze, ma questa mattina niuna cosa trovandosi di che potere onorar la donna, per amor della quale egli già infiniti uomini onorati avea, il fé ravedere. E oltre modo angoscioso, seco stesso maledicendo la sua fortuna, come uomo che fuor di sé fosse or qua e or là trascorrendo, né denari né pegno trovandosi, essendo l’ora tarda e il disiderio grande di pure onorar d’alcuna cosa la gentil donna e non volendo, non che altrui, ma il lavorator suo stesso richiedere gli corse agli occhi il suo buon falcone, il quale nella sua saletta vide sopra la stanga per che, non avendo a che altro ricorrere, presolo e trovatolo grasso, pensò lui esser degna vivanda di cotal donna. E però, senza più pensare, tiratogli il collo, a una sua fanticella il fé prestamente, pelato e acconcio, mettere in uno schedone e arrostir diligentemente; e messa la tavola con tovaglie bianchissime, delle quali alcuna ancora avea, con lieto viso ritornò alla donna nel suo giardino e il desinare, che per lui far si potea, disse essere apparecchiato.
Laonde la donna con la sua compagna levatasi andarono a tavola e, senza saper che si mangiassero, insieme con Federigo, il quale con somma fede le serviva, mangiarono il buon falcone. E levate da tavola e alquanto con piacevoli ragionamenti con lui dimorate, parendo alla donna tempo di dire quello per che andata era, così benignamente verso Federigo cominciò a parlare: «Federigo, ricordandoti tu della tua preterita vita e della mia onestà, la quale per avventura tu hai reputata durezza e crudeltà, io non dubito punto che tu non ti debbi maravigliare della mia presunzione sentendo quello per che principalmente qui venuta sono; ma se figliuoli avessi o avessi avuti, per li quali potessi conoscere di quanta forza sia l’amor che lor si porta, mi parrebbe esser certa che in parte m’avresti per iscusata. Ma come che tu non n’abbia, io che n’ho uno, non posso però le leggi comuni d’altre madri fuggire; le cui forze seguir convenendomi, mi conviene, oltre al piacer mio e oltre a ogni convenevolezza e dovere, chiederti un dono il quale io so che sommamente t’è caro: e è ragione, per ciò che niuno altro diletto, niuno altro diporto, niuna consolazione lasciata t’ha la sua strema fortuna, e questo dono è il falcon tuo, del quale il fanciul mio è sì forte invaghito, che, se io non gliene porto, io temo che egli non aggravi tanto nella infermità la quale ha, che poi ne segua cosa per la quale io il perda. E per ciò ti priego, non per l’amore che tu mi porti, al quale tu di niente sé tenuto, ma per la tua nobiltà, la quale in usar cortesia s’è maggiore che in alcuno altro mostrata, che ti debba piacere di donarlomi, acciò che io per questo dono possa dire d’avere ritenuto in vita il mio figliuolo e per quello averloti sempre obligato».
Federigo, udendo ciò che la donna adomandava e sentendo che servir non ne la potea per ciò che mangiar gliele avea dato, cominciò in presenza di lei a piagnere anzi che alcuna parola risponder potesse. Il quale pianto la donna prima credette che da dolore di dover da sé di partire il buon falcone divenisse più che d’altro, e quasi fu per dire che nol volesse; ma pur sostenutasi, aspettò dopo il pianto la risposta di Federigo, il qual così disse: «Madonna poscia che a Dio piacque che io in voi ponessi il mio amore, in assai cose m’ho reputata la fortuna contraria e sonmi di lei doluto; ma tutte sono state leggieri a rispetto di quello che ella mi fa al presente, di che io mai pace con lei aver non debbo, pensando che voi qui alla mia povera casa venuta siete, dove, mentre che ricca fu, venir non degnaste, e da me un picciol don vogliate, e ella abbia sì fatto, che io donar nol vi possa: e perché questo esser non possa vi dirò brievemente. Come io udii che voi, la vostra mercé, meco desinar volavate, avendo riguardo alla vostra eccellenzia e al vostro valore, reputai degna e convenevole cosa che con più cara vivanda secondo la mia possibilità io vi dovessi onorare, che con quelle che generalmente per l’altre persone s’usano: per che, ricordandomi del falcon che mi domandate e della sua bontà, degno cibo da voi il reputai, e questa mattina arrostito l’avete avuto in sul tagliere, il quale io per ottimamente allogato avea; ma vedendo ora che in altra maniera il disideravate, m’è sì gran duolo che servire non ve ne posso, che mai pace non me ne credo dare».
E questo detto, le penne e i piedi e ‘l becco le fe’ in testimonianza di ciò gittare davanti. La qual cosa la donna vedendo e udendo, prima il biasimò d’aver per dar mangiare a una femina ucciso un tal falcone, e poi la grandezza dell’animo suo, la quale la povertà non avea potuto né potea rintuzzare, molto seco medesima commendò. Poi, rimasa fuori dalla speranza d’avere il falcone e per quello della salute del figliuolo entrata in forse, tutta malinconosa si dipartì e tornossi al figliuolo. Il quale, o per malinconia che il falcone aver non potea o per la ‘nfermità che pure a ciò il dovesse aver condotto, non trapassar molti giorni che egli con grandissimo dolor della madre di questa vita passò.
La quale, poi che piena di lagrime e d’amaritudine fu stata alquanto, essendo rimasa ricchissima e ancora giovane, più volte fu da’ fratelli costretta a rimaritarsi. La quale, come che voluto non avesse, pur veggendosi infestare, ricordatasi del valore di Federigo e della sua magnificenzia ultima, cioè d’avere ucciso un così fatto falcone per onorarla, disse a’ fratelli: «Io volentieri, quando vi piacesse, mi starei; ma se a voi pur piace che io marito prenda, per certo io non ne prenderò mai alcuno altro, se io non ho Federigo degli Alberighi».
Alla quale i fratelli, faccendosi beffe di lei, dissero: «Sciocca, che è ciò che tu dì? come vuoi tu lui che non ha cosa al mondo?»
A’ quali ella rispose: «Fratelli miei, io so bene che così è come voi dite, ma io voglio avanti uomo che abbia bisogno di ricchezza che ricchezza che abbia bisogno d’uomo.»
Li fratelli, udendo l’animo di lei e conoscendo Federigo da molto, quantunque povero fosse, sì come ella volle, lei con tutte le sue ricchezze gli donarono. Il quale così fatta donna e cui egli cotanto amata avea per moglie vedendosi, e oltre a ciò ricchissima, in letizia con lei, miglior massaio fatto, terminò gli anni suoi.

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Josafat Vagni e Jasmine Trinca (Federigo degli Alberighi e Monna Giovanna) da Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2011)

Dovete sapere che Coppo Borghese Dominichi, che è vissuto nella nostra città e forse ancora vi vive (se non è morto per la pestilenza), uomo di grande e rispettabile autorità ai giorni nostri, illustre per i costumi e la virtù più che per la nobiltà di sangue, degno di essere ricordato lungamente, essendo già in là con gli anni, spesse volte si divertiva a parlare del passato con i suoi vicini ed altri cittadini, cosa che lui sapeva fare meglio e con maggior chiarezza, memoria ed eleganza di chiunque altro. Egli, tra le cose piacevoli, era solito raccontare che a Firenze visse un giovane di nome Federigo degli Alberighi, notevole più di ogni altro giovane della Toscana per l’esercizio delle armi e per la cortesia. Costui, così come avviene agli uomini nobili, s’innamorò di una giovane nobildonna di nome Giovanna, ritenuta ai suoi tempi una delle più belle e costumate donne di Firenze, e affinché lui potesse conquistarne l’amore, faceva giostre, si esibiva nell’uso delle armi, organizzava feste e mostrava grande generosità; ma lei non meno onesta che bella, non si curava di queste cose fatte per lei né chi le faceva.
Federigo, avendo speso più della sua possibilità e non ottenendo nulla, così come naturalmente avviene, le ricchezze sfumarono e cadde in povertà, poiché non gli era rimasto che un piccolo poderetto, delle rendite del quale viveva in grandi ristrettezze ed un falcone, uno dei migliori del mondo. Per questo, amando (madonna Giovanna) sempre più intensamente, ma non potendo vivere in città nel modo in cui desiderava farlo, andò a stabilirsi a Campi dove aveva il piccolo podere. Qui, quando poteva, andando a caccia di uccelli e non chiedendo aiuto a nessuno, sopportava con mirabile pazienza la sua povertà.
Un giorno avvenne che, mentre Federigo era arrivato allo stremo dell’indigenza, il marito di Giovanna si ammalò ed essendo molto ricco, all’apprestarsi della morte, fece il testamento di cui erede fece l’unico figlio e dove questo morisse, ne usufruisse la stessa Giovanna. Stabilito questo, morì. 
Rimasta vedova monna Giovanna, com’è di abitudine per le nostre donne, ogni anno d’estate andava con questo figlio in campagna, in un suo possedimento non lontano dal piccolo podere di Federigo. Ora avvenne che questo ragazzo prese a familiarizzare con Federigo e a divertirsi con gli uccelli e con i cani; avendo inoltre visto il falcone di Federigo e piacendogli straordinariamente, lo desiderava fortemente , ma pur non osava richiederglielo, vedendo l’attaccamento che Federigo aveva per lui. Stando le così le cose, capitò che il figlio di Giovanna si ammalò; per questo la madre essendo molto addolorata, non avendo che lui solo e amandolo quanto più poteva, stando intorno a lui cercava di recargli conforto e spesso lo interrogava chiedendogli che se desiderava qualcosa, pregandolo di dirglielo, perché certamente avrebbe trovato il modo di fargliela avere, se fosse possibile ottenerla. Il giovane, dopo aver udito più volte le richieste materne disse: «Madre mia, se fate in modo che io possa avere il falcone di Federigo, guarirò certamente».
La donna, dopo averlo ascoltato, rimase incerta, pensando a come fare. Sapeva che Federigo l’aveva amata per molto tempo, ma non aveva ricevuto da lei nemmeno uno sguardo, per cui si diceva: «Come manderò qualcuno o come andrò io stessa a richiedergli questo falcone che, per quanto ne sappia, è il migliore tra tutti e oltre a ciò lo tiene in vita? E come sarò io così ingrata da volerlo togliere ad un uomo così gentile cui nessuna altra gioia gli è rimasta?» E trattenuta da questo pensiero, sebbene sapesse che se glielo avesse domandato gliel’avrebbe dato, senza sapere cosa fare, indugiava.
Alla fine tanto vinse l’amore che portava al figlio che fra sé decise di non inviare un servitore, ma di andare lei stessa a chiedere il falcone e di portarglielo, e gli disse: «Figlio mio, rasserenati e pensa di guarire con tutte le forze che ti prometto che la prima cosa che farò domani mattina sarà di andare a prendere il falcone e te lo porterò». Il fanciullo, felice, il giorno stesso mostrò un certo miglioramento.
Il mattino seguente, Giovanna con una compagna, come se vi andasse per piacere, raggiunse la piccola casa di Federigo e domandò di lui. Il giovane, che a causa del tempo non favorevole in quei giorni non era andato a caccia, stava in un piccolo orto e vi faceva eseguire alcuni lavoretti. Egli, avendo sentito che la signora Giovanna, era alla sua porta, con grande meraviglia ma felice, la raggiunse.
Lei, vedendolo arrivare, con il suo fascino femminile gli andò incontro e  avendola già Federigo salutata con riguardo, gli disse: «Stia bene, Federigo» e continuò «sono venuta a risarcirti dei danni che hai subito a causa mia, amandomi più di quanto avresti dovuto fare; e il conforto è tale che io ho piacere oggi di mangiare in modo famigliare con te insieme alla mia compagna».
A cui Federigo rispose: «Non ricordo di aver mai ricevuto alcun danno a causa vostra, ma tanto di quel bene che, se ho mai avuto dei meriti, è stato solo grazie alla vostra virtù e all’amore che ho nutrito per voi; e certamente questa vostra generosa visita mi è molto più gradita di quanto lo sarebbe riavere e il poter spendere tutto ciò che ho già speso in passato, sebbene siate venuta da un ospite povero». Detto ciò le accolse con timidezza nella sua casa e quindi le condusse in giardino e qui non avendo nessuno per far loro compagnia, disse: «Madonna, dal momento che non c’è nessuno (pari alla vostra altezza), questa donna, moglie di questo mio contadino vi terrà compagnia quel tanto che io vada a preparare la tavola».
Egli, con tutto che la sua povertà fosse estrema, non si era ancora accorto quanto avrebbe dovuto, di aver dissipato tutte le sue ricchezze; ma questa mattina non avendo alcuna cosa con cui poter onorare la donna, per amor della quale egli aveva mostrato generosità ad infiniti uomini, glielo fece comprendere. Pieno d’angoscia, maledicendo la sua sorte, andando da una parte all’altra, non avendo denaro né alcuna cosa da impegnare, essendo già tardi e dovendo pur trovare qualcosa che gli permettesse di onorare la donna e non volendo chiedere nulla non solo a uno estraneo, ma neppure al suo stesso contadino, gli venne sotto gli occhi il falcone, che stava appollaiato sopra la stanga, per cui, non avendo altro cui ricorrere, preso e vedendolo grasso, pensò potesse essere degna vivanda per la donna. Perciò, senza più pensarci, gli tirò il collo e lo fece mettere da una fanciulla, dopo averlo spennato e preparato, sullo spiedo affinché arrostisse a dovere; preparata quindi la tavola con tovaglie bianchissime di cui ne conservava ancora qualcuna, con volto felice tornò dalla donna in giardino e il pranzo, per quello che poteva fare lui, era pronto. Quindi la donna con la sua compagna si alzarono e andarono a tavola e, senza sapere che tipo di carne stessero mangiando, insieme con Federigo, che le serviva con estrema devozione, finirono il falcone.
Alzatesi da tavola e dopo aver trascorso piacevolmente il tempo con vari discorsi, sembrando giunto il tempo per la donna di dire il perché era andata da lui, così benevolmente cominciò a parlare a Federigo: «Federigo, ricordandoti la vita passata  e la mia onestà, che tu, per caso, avrai reputato durezza e crudeltà, sono certa che ti meraviglierai della mia audacia, sentendo il motivo per cui io sia venuta qui da te; ma se avessi avuti o avessi figli, se potessi conoscere di quanta forza sia l’amore che noi portiamo verso loro, mi parrebbe certamente che in parte mi avresti perdonata. E sebbene tu non ne abbia, mentre io ne ho uno, non posso venir meno alle leggi di tutte le madri, e dovendola seguire, mi è necessario, contro il mio desiderio e contro ogni regola di convenienza e di dovere, chiederti un dono che ti so immensamente caro; ed è giusto, per il fatto che nessun altra gioia, nessun altro svago, nessuna altra consolazione ti ha lasciato la tua misera condizione; e questo dono è il tuo falcone, di cui il mio bambino si è talmente invaghito, che, se non dovessi portarglielo, ho paura che possa aggravarsi così tanto nella sua malattia, da cui ne deriverebbe la morte. Perciò ti prego, non per l’amore che mi porti, per il quale non sei obbligato in nulla, ma per la tua nobiltà, la quale si è mostrata nell’usare generosità più di qualunque altro, perciò ti prego di donarmelo, affinché io possa dire d’aver tenuto in vita mio figlio grazie a questo dono e mio figlio, per questo, ti sia sempre riconoscente».
Federigo, ascoltando ciò che la donna domandava e sentendo di non poterla accontentare, per quello che gli aveva preparato da mangiare, cominciò in sua presenza a piangere senza riuscire a pronunciare alcuna parola. La donna pensò che il pianto fosse dovuto dal doversi separare dal falcone e fu quasi sul punto di dirgli di non volerlo più; ma, trattenutasi, aspetto che, smesso il pianto, Federigo le rispondesse, che così le disse: «Madonna, dopo che Dio ha voluto che io ponessi il mio amore su di voi, in molte cose ho reputata la sorte contraria a me e mi sono lamentato di lei, ma tutte le cose contrarie capitatemi sono nulla rispetto a oggi, per cui io non avrò mai pace con lei, pensando che voi siete venuta qui alla mia povera casa e quando essa era ricca non veniste mai e che vogliate da me un piccolo dono  e che io non possa donarvelo e perché non possa, ve lo dirò. Come ho sentito che voi, per vostra bontà, volevate mangiare con me, avendo rispetto per la vostra eleganza e virtù, reputai cosa degna e convenevole onorarvi con la vivanda più preziosa secondo la mia possibilità, rispetto a quelle che sono solito offrire ad altre persone;  per cui, ricordandomi del falcone che mi state chiedendo e della sua bontà, lo reputai cibo degno per voi e questa mattina lo avete avuto arrostito sul piatto, e ritenevo di averlo impiegato nel modo migliore; ma vedendo ora che voi lo desideravate in altro modo, mi provoca gran dolore perché non posso servirvi, e credo di non poter mai trovare pace per questo».
Detto questo le pose davanti, in segno di fede, le penne, i piedi ed il becco: La donna, vedendo ed udendo ciò, dapprima lo rimproverò per aver dato in pasto ad una donna un falcone di grande valore ma poi la grandezza d’animo dell’uomo, che la povertà non aveva potuto far diminuire, molto tra sé e sé apprezzò. Poi, non avendo più la speranza di avere il falcone e cominciando a dubitare sulla salute del figlio, estremamente malinconica tornò a casa dal suo ragazzo. Costui o per il dolore di non poter avere il falcone o per la malattia che l’avrebbe comunque ridotto in quello stato, non passarono molti giorni che, con l’immenso strazio della madre, morì.
La donna, dopo esser stata lungo tempo a piangere e a lamentarsi, essendo tuttavia ricchissima e ancora giovane, fu più volte dai fratelli sollecitata a risposarsi. Lei, sebbene non lo volesse, vedendosi continuamente infastidire, ricordando delle virtù di Federigo, soprattutto l’ultima, cioè quella d’aver ucciso un falcone per onorarla, disse ai fratelli: «Volentieri, se vi piacesse, farei a meno di sposarmi; ma se volete che io prenda marito, siate sicuri che non ne prenderò alcuno che non sia Federigo degli Alberighi».
A cui i fratelli, prendendola in giro, dissero: «Stupida, che dici? Come mai vuoi lui che non ha più nulla?»
Ai quali rispose: «Fratelli, ciò che dite è vero; ma preferisco un uomo senza ricchezze che un uomo ricco privo di valore».
I fratelli, sentendo la sua volontà e conoscendo da tempo il valore di Federigo, sebbene lui fosse povero, come lei volle, gli donarono lei con tutte le ricchezze; e vedendo una cotal donna, da lui da sempre amata, diventargli moglie e, oltre a questo, diventando ricchissimo, fattosi miglior amministratore, terminò con lei i suoi anni. 

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Nerina Sam: Federigo degli Alberighi (2015)

La novella nell’impianto e tematica può somigliare a quella di Nastagio. Anche qui un uomo innamorato spende tutti i suoi averi per conquistare la donna del desiderio. La differenza, laddove vi può essere, e nell’ambientazione: se la precedente si può dire della Romagna contemporanea e quindi “maggiormente borghese” vi è naturale il bisogno di atemporalizzarla attraverso l’elemento fantastico; la seconda invece è a Firenze e il tempo è già di per sé favoloso. La storia infatti è raccontata da Coppo di Borghese Domenichi, personaggio realmente esistente (ce lo fa capire la stessa Fiammetta, quando ne mette in forse l’essere ancora in vita per via della peste) quando era già anziano e parlava di un periodo da lui già lontano: ne è spia un linguaggio “arcaico” che definisce Federigo “donzel” giovane nobile. Da tale assunto tutto dipende, a lui è dovuto l’onore, la cortesia e la generosità. Secondo l’insegnamento della letteratura precedente l’omaggio verso la donna è totale. La cancellazione del sé avviene sia in Nastagio che in Federigo: ma potremo dire che nella prima è momentanea per più potere pensare a suo piacere, piede innanzi piè sé medesimo trasportò, pensando, infino nella pigneta,  con la mente occupata dal pensiero della figlia dei Traversari,  in Federigo è essenziale: Egli, con tutto che la sua povertà fosse strema, non s’era ancor tanto avveduto quanto bisogno gli facea che egli avesse fuor d’ordine spese le sue ricchezze, in quanto l’arrivo di Giovanna gli fa rendere conto d’essere in miseria. 

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Il falcone di Federigo

In questo mondo arcaico, pieno di virtù e cortesia Boccaccio punta il suo sguardo di uomo borghese. Quel mondo così straordinario non è più possibile: l’economia entra in esso e ne stravolge le regole. Il ricco Federigo cade in miseria, solo il soccorso di un amore “borghese” lo può salvare (Giovanna lo sceglie, con l’approvazione dei fratelli) e renderlo da uomo feudale a uomo contemporaneo, trasformandolo da “donzel” a “massaio”. Sembra che Boccaccio ci voglia dire che il mondo da lui sognato sia il figlio delle visioni di entrambi, cioè Federigo marito di Giovanni.

SESTA GIORNATA

La sesta giornata è dedicata a chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno ed è sotto il reggimento d’Elissa. E’ evidente che tale argomento, basato sulla parola, metta in luce l’intelligenza.

La prima novella che leggiamo è quella di Cisti fornaio ed è raccontata da Pampinea.

CISTI FORNAIO CON UNA SOLA PAROLA FA RAVEDER MESSER GERI SPINA D’UNA SUA TRASCURATA DOMANDA.
(VI, 2)

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La novella di Cisti illustrata

Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna, che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l’altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all’uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s’avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d’invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l’ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all’uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d’acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d’ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s’era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n’avrebbe fatta venir voglia a’ morti.
La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: «Chente è, Cisti? è buono?» 
Cisti, levato prestamente in piè, rispose: «Messer sì, ma quanto non vi potre’ io dare a intendere, se voi non assaggiaste».
Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l’usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse: «Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo»; e con loro insieme se n’andò verso Cisti.
Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: «Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d’assaggiarne gocciola!»
E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a’ compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n’andò a ber messer Geri. A’ quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de’ più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de’ suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense.
Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: «Figliuolo, messer Geri non ti manda a me». 
Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: «Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così ti risponde, domandalo a cui io ti mando». 
Il famigliare tornato disse: «Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te». 
Al quale Cisti rispose: «Per certo, figliuol, non fa».
«Adunque», disse il famigliare «a cui mi manda?» 
Rispose Cisti: «Ad Arno». 
Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ‘ntelletto e disse al famigliare: «Lasciami vedere che fiasco tu vi porti»; e vedutol disse: «Cisti dice vero»; e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole.
Il quale Cisti vedendo disse: «Ora so io bene che egli ti manda a me», e lietamente glielo impiè.
E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d’un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: «Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co’ miei piccoli orcioletti v’ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d’esservene più guardiano tutto ve l’ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace».
Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbero e per amico.

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Manoscritto con l’episodio di Cisti illustrato

Racconto dunque che, avendo papa Bonifacio VIII, presso il quale messer Geri Spina fu tenuto in grandissima considerazione, inviati a Firenze alcuni suoi ambasciatori per trattative di notevole importanza, ed essendo gli ambasciatori alloggiati in casa di Geri Spina, dal momento che a lui toccava discutere con loro gli interessi del pontefice, accadde che, qualunque fosse il motivo, Geri e gli ambasciatori papali passassero quasi ogni mattina, a piedi, davanti alla chiesa di Santa Maria degli Ughi, dove il fornaio Cisti aveva il suo forno ed esercitava il suo mestiere. E benché la sorte avesse riservato a Cisti un mestiere assai modesto, tuttavia gli era stata tanto propizia nella sua professione, che egli era diventato ricchissimo, e viveva in modo elegante e agiato, senza che mai gli venisse la tentazione di rinunziare al suo mestiere per qualche altro lavoro, avendo nella sua bottega, tra varie altre bontà, sempre i migliori vini bianchi e rossi che si potessero trovare a Firenze o nelle campagne circostanti. Cisti, vedendo ogni mattina passare davanti alla porta della sua bottega messer Geri e gli ambasciatori papali, facendo molto caldo, considerò che sarebbe stato un bel gesto cortese l’offrire loro un buon vino bianco, ma pensando che alla sua condizione sociale e a quella di messer Geri, non gli sembrava cortese avere la presunzione di invitarlo, e dunque pensò tra sé e sé, di fare in modo da indurre lo stesso Geri a invitarsi.
Indossando sempre un corpetto bianchissimo e, sul davanti, un grembiule fresco di bucato che lo facevano sembrare un proprietario di un mulino piuttosto che un fornaio, ogni mattina nell’ora in cui sapeva che messer Geri e gli ambasciatori sarebbero passati, si faceva portare davanti all’uscio della sua bottega un secchio nuovo di stagno d’acqua fresca e una brocca di terracotta, di fabbricazione bolognese, con il suo squisito vino bianco e due bicchieri, che erano tanto lucidi da sembrare d’argento; quindi si sedeva fuori e non appena essi passavano, dopo aver espettorato più volte per richiamare l’attenzione, cominciava a bere con tale gusto questo vino, che ne avrebbe fatto venir voglia ai morti.
Questa cosa fu vista una o due volte da messer Geri, il terzo giorno gli disse: «Com’è Cisti? E’ buono?»
Cisti, alzatosi prontamente in piedi, gli rispose: «Signor sì, ma quanto non ve lo potrei far capire, a meno che voi non lo assaggiaste». 
Messer Geri, a cui il caldo della stagione o la preoccupazione (del compito da svolgere) o forse la gustosa bevuta che aveva visto fare a Cisti, avevano fatto venire sete, sorridendo, rivolto agli ambasciatori disse: «Signori, è cosa opportuna che noi assaggiamo il vino di questo uomo gentile, forse e così buono come dice che non ce ne pentiremo», e insieme a loro s’avvicinò alla bottega di Cisti. Questo, fatta arrivare subito una panca dall’interno, pregò loro di sedersi e ai suoi operai, che già si preparavano a lavare i bicchieri, disse. «Compagni, lasciate fare a me, fatevi da parte perché io so versare il vino non meno bene di quanto sappia infornare il pane; e non crediate di assaggiarne una goccia».
Ciò detto, lui stesso, lavati quattro bicchieri belli e nuovi, e fatto venire una piccola fiaschetta di buon vino, con accortezza diede da bere a messer Geri e ai suoi compagni. A loro il vino parve il migliore che da molto tempo essi ebbero bevuto, per cui, lodatolo molto, per tutto il tempo che gli ambasciatori rimasero a Firenze insieme a messer Geri, quasi ogni mattina andarono a berlo.
Avendo gli ambasciatori terminato il loro lavoro e dovendo ripartire, messer Geri ritenne opportuno offrire un magnifico banchetto, al quale invitò i cittadini più importanti ed anche Cisti, che tuttavia a nessuna condizione ci volle andare. Messer Geri allora comandò ad un suo servitore di andare a chiedere a Cisti un fiasco del suo vino e che di quello si servisse mezzo bicchiere a ciascuno con la prima portata. Il servitore, forse arrabbiato perché mai aveva potuto assaggiare quel vino, prese un fiasco grande, che, appena Cisti, vide, gli disse: «Figliolo, messer Geri non ti manda da me».
Più volte il servitore gli disse che così era, ma non potendo avere altra risposta da Cisti, tornò da Geri e gliela riferì.
A cui messer Geri: «Torna da lui e digli che ti mando io e se egli ti dovesse rispondere come prima, domandagli da chi altri ti debba mandare».
Tornando il servitore da Cisti: «Cisti, è sicuro che messer Geri mi manda da te»
A cui Cisti rispose: «Figliolo, e certo che non è così»
Ed il servitore: «Da chi mi deve mandare?»
Rispose Cisti: «All’Arno»
Riportando il servitore questo, Cisti capì immediatamente il senso della risposta e gli disse: «Fammi vedere il fiasco che gli hai portato» e dopo averlo visto, aggiunse: «Cisti dice la verità» e rimproveratolo, gli fece portare un fiasco della misura giusta.
Cisti vedendo il nuovo fiasco disse: «Ora sono sicuro che ti manda da me» e, con gioia, lo riempì.
E poi, quello stesso giorno, fatta riempire una piccola botte con un vino della stessa qualità, e fattala portare con attenzione a casa di Geri, dopo se ne andò lì, e, trovando messer Geri gli disse: «Signore, io non vorrei che lei credesse che il gran fiasco di stamane mi abbia spaventato, ma, sembrandomi che vi foste dimenticato che io in questi giorni con dei piccoli contenitori via abbia mostrato che questo non è vino di poco valore, volli stamattina ricordarvelo. Ora non ho più intenzione di esserne geloso e ve l’ho mandato tutto, fatene, per il futuro, ciò che volete.
Messer Geri considerò il vino di Cisti un dono graditissimo e lo ringraziò nel modo che gli sembrò adatto a simile dono; e da quel momento in avanti lo considerò uomo di grande valore e degno della sua amicizia.  

La novella di Cisti è sintomatica dell’intera giornata: risulta infatti evidente come essa sia stata costruita intorno alla battuta dello stesso fornaio e come, molto probabilmente, tale battuta fosse patrimonio comune di modi di dire del popolo fiorentino.

Essa tuttavia costituisce un valido esempio per riaffrontare quel dibattito forse allora ancora molto acceso che appare come argomentazione su cui  Pampinea costruisce in seguito la sua narrazione: si tratta appunto d’individuare cosa sia la cortesia (con tutti i suoi attributi) e dove essa risieda; la risposta è appunto Cisti fornaio, uomo della Arti minori a cui la sorte ha attribuito un animo nobile.

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Manoscritto francese con l’episodio di Cisti illustrato

Tuttavia tanta “luminosità” nell’illustrare il carattere del protagonista lascia qualche ombra di dubbio: certamente egli è cortese, ma la sua cortesia e quindi generosità, mira ad uno scopo, quello di essere considerato e quindi apprezzato dalla classe nobiliare; non è un caso che tale “generosità” non venga elargita ai sottoposti, a cui nega recisamente fosse anche solo una goccia del suo prezioso vino.

Nella piccola novella sembra quindi riaffiorare il disegno politico/sociale al quale Boccaccio fa riferimento: così Cisti può raffigurare il borghese che, con la sua industriosità si fa ricchissimo, nel contempo mostra la volontà di non superare i limiti, cioè di non volersi confondere con la classe sociale superiore; ma ciò viene anche ribadito nel momento in cui nega questa possibilità ai suoi sottoposti, lasciando il “proletariato” al suo posto, affinché anch’esso non si confonda con la borghesia arricchita.   

La novella che vede protagonista Guido Cavalcanti viene narrata dalla regina stessa, Elissa:

GUIDO CAVALCANTI DICE CON UN MOTO ONESTAMENTE VILLANIA A CERTI CAVALIER FIORENTINI LI QUALI SOPRAPPRESO L’AVEANO.
(VI, 9)

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Manoscritto francese che illustra la novella di Cavalcanti

Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n’è rimasa, mercé dell’avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l’ha discacciate. Tra le quali n’era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l’uno, doman l’altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de’cittadini; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d’altro fosse venuta nella città.
Tra le quali brigate n’era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni s’eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de’Cavalcanti, e non senza cagione; per ciò che, oltre a quello che egli fu un de’migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell’animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d’averlo, e credeva egli co’suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva. E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse.
Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d’Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: «Andiamo a dargli briga»; e spronati i cavalli a guisa d’uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: «Guido tu rifiuti d’esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?»
A’ quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: «Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace»; e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall’altra parte, e sviluppatosi da loro se n’andò.
Costoro rimaser tutti guatando l’un l’altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro.
Alli quali messer Betto rivolto disse: «Gli smemorati siete voi, se voi non l’avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de’ morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra».
Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere.

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La piazza cimitero interposta tra Battistero e Basilica alla fine del XIII secolo, descritta nella novella su Guido Cavalcanti

Dovete sapere che in passato nella nostra città ci furono delle usanze bellissime e molto lodevoli, di cui oggi non ne è rimasta neppure una, grazie al fatto che l’avarizia, naturalmente insieme all’aumentata ricchezza, le ha bandite. Tra queste ve n’era una per cui in diversi luoghi si radunavano un certo numero di uomini nobili delle varie contrade cittadine e si univano in gruppi di un certo numero di persone, preoccupandosi di accogliervi solo quanti potessero sostenere agevolmente le spese, e una volta per uno offrivano il pranzo, ognuno nel suo giorno stabilito, a tutta la brigata. E in essa spesso invitavano nobili forestieri, quando per caso si trovavano a Firenze, ed anche altri rispettabili concittadini: gli appartenenti a questi gruppi si vestivano in modo simile almeno una volta l’anno, e insieme durante le feste cavalcavano per la città, duellavano e si esercitavano con le armi, soprattutto nelle festività più importanti o quando giungeva in città una lieta notizia di una vittoria militare o altro di notevole riguardante la città.
Tra queste brigate vi era quella di Betto Brunelleschi, nella quale lo stesso Betto ed i suoi compagni s’erano ingegnati di farvi partecipare Guido, figlio di messer Cavalcante de’ Cavalcanti, e non senza motivo: infatti egli era uno dei maggiori pensatori del mondo e un ottimo filosofo naturalista (di queste virtù la brigata poco si interessava), inoltre fu persona molto eloquente nel parlare e ogni cosa che volesse fare adatta ad un nobile egli la seppe fare in modo migliore di ogni altro; oltre a ciò era ricchissimo e quanto più si può richiedere sapeva onorare chi riteneva ne fosse degno. Ma messer Betto non era mai riuscito ad averlo nella propria compagnia, e pensava, insieme ai suoi compagni, che ciò fosse dovuto per il fatto che Guido, spesso dedicandosi a profonde riflessioni, si allontanasse molto dagli altri uomini, e siccome protendeva molto per le teorie degli epicurei, si chiacchierava tra il popolino che tutti i suoi pensieri tendessero a cercare di provare l’inesistenza di Dio.
Un giorno Guido, partito da Orto San Michele e camminando per il corso degli Adimari, era giunto al Battistero di San Giovanni, percorso abituale per lui; intorno a San Giovanni c’erano grandi sarcofagi di marmo, che oggi sono a Santa Reparata, e molti altri; mentre Guido si trovava tra le colonne di porfido, i sarcofagi e la porta del Battistero chiusa, passarono per piazza Santa Reparata messer Betto e i suoi compagni che vedendo Guido tra quei sarcofagi dissero: «Andiamo a dargli fastidio» e, dato lo sprone ai cavalli, come in un assalto scherzoso, gli furono addosso prima che lo stesso se ne accorgesse e gli cominciarono a dire: «Guido, tu ti rifiuti di esser parte della nostra compagnia; ma una volta che hai dimostrato l’inesistenza di Dio cosa ci guadagni?»
A loro Guido, vedendo da loro chiuso, subito rispose: «Signori, voi a casa vostra mi potete dire tutto quello che volete» e messa la mano sopra un’arca, poiché era leggerissimo, con un balzo si gettò dall’altra parte e, liberatosi di loro, se ne andò.
Questi rimasero attoniti, guardandosi l’un con l’altro e cominciarono a considerarlo pazzo e che la sua risposta non significava nulla, poiché là dov’erano non era di più di loro di quanto non fosse dello stesso Guido:
A loro rispose messer Betto: «I pazzi siete voi, che non l’avete capito: egli in modo garbato e in poche parole ci ha recato un’offesa più grande del mondo perché, se poneste bene attenzione, questi sarcofagi sono le case dei morti, in quanto in essi riposano i morti, e ci dice che sono la nostra casa, dimostrandoci che noi e gli altri uomini siamo ignoranti e non colti a differenza di lui e degli altri intellettuali, e quindi peggio dei morti e perciò, in mezzo ai sarcofagi, siamo a casa nostra».
Allora tutti capirono cosa Guido intendesse dire e si vergognarono e non gli diedero più fastidio e considerarono da quel momento in poi messer Betto un cavaliere intelligente ed acuto.

La novella ha certamente come antecedente il canto X dell’Inferno dantesco: ne sono spia la presenza delle arche e quella dell’epicureo Cavalcanti; ma nondimeno il Boccaccio tiene presente anche il Villani, autore di una cronaca della città di Firenze in cui il poeta fiorentino appare sdegnoso e solitario, ma innamorato profondamente degli studi filosofici.

Con questi elementi Boccaccio costruisce la sua novella che possiamo analizzare a partire dal rimpianto del bel tempo antico, impossibile al presente a causa della ricchezza e dell’avarizia (topos della cultura trecentesca fiorentina), dove vi regnava una allegra socialità fatta di nobili giovani che dominavano con la cortesia la vita raffinata di Firenze. Quindi la presentazione di Betto (Benedetto) Brunelleschi, uno dei più eminenti rappresentanti del partito guelfo, il quale, da giovane nobile, dedito a divertimenti cavallereschi, ma anche da fine intellettuale, vorrebbe inserire nella sua compagnia il maggiore intellettuale allora esistente, appunto Cavalcanti ma, sottolinea Boccaccio, come forma di prestigio, più che per le sue qualità.

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Manoscritto del Decameron dove viene rappresentato l’incontro di Betto Brunelleschi e Guido Cavalcanti

Qui entra in gioco Dante a dar forma all’idea boccacciana di Cavalcanti: riprende il paesaggio infernale delle tombe infuocate e le pone realisticamente sul suolo, tra l’Orto di San Giovanni ed il Battistero, dove effettivamente erano; gli dà l’appellativo di epicureo ed è proprio nel girone degli epicurei che Dante inserisce il papà di Guido, ma per parlare del figlio. Ma a Boccaccio serve anche Villani, che lo disegna come un asociale che sdegna i divertimenti dei suoi coetanei.

La battuta criptica che guido fa alla brigata di Betto diventa una vera e propria sfida all’intelligenza e se l’autore del Decameron si astiene dal giudicare l’uomo, non può fare a meno di ammirare (per meglio dire farci ammirare attraverso il suo scritto) la profonda capacità di “giocare con le parole” attraverso la metafora della mancanza di cultura come morte.      

SETTIMA GIORNATA

La settima giornata viene affidata a Dioneo, il più irriverente tra i dieci novellatori: infatti spetta a lui la libertà di poter uscire dal tema proposto, e, quasi sempre, ogni suo racconto presenta il tema dell’eros, come fattore di libertà e di piacevolezza. Non vi è nella sua figura alcuna cosa che lo allontani dall’idealizzazione della brigata, viceversa, il suo novellare, spesso, porta equilibrio tra i ragazzi (si pensi alla quarta giornata, dove il senso del pathos domina, e Dioneo che narra una storia divertente di un amante nascosto in una tomba, rubata da due ladri). D’altra parte è lo stesso suo nome a portare questa ventata di naturalità sessuale, infatti Dioneo sembra derivi da Dioniso, dio dell’ebbrezza e dell’eccesso. Il tema da lui scelto è in linea con quanto detto: delle beffe, le quali, o per amore o per salvamento di loro, le donne hanno già fatte à lor mariti, senza esserne avveduti o sì.

La novella che segue ci è raccontata da Filostrato, che la premette da una considerazione generale: se si sa che gli uomini si fanno gioco delle mogli, può anche accadere che qualche donna si faccia beffe del marito: di questo le donne dovrebbero essere contente non solo nel saperlo, ma anche nel ridirlo, tanto che infine si sappia, da entrambi le parti, che tutti conoscono tutti, tanto da far sì che ci sia più attenzione (e forse rispetto) da parte di tutti.

PERONELLA METTE UN SUO AMANTE IN UN DOGLIO, TORNANDO IL MARITO A CASA; IL QUALE AVENDO IL MARITO VENDUTO, ELLA DICE CHE VENDUTO L’HA AD UNO CHE DENTRO V’E’ A VEDERE SE SALDO GLI PARE. IL QUALE SALTATONE FUORI, IL FA RADERE AL MARITO, E POI PORTARSENELO A CASA SUA.
(VII, 2)

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Illustrazione in un codice del Decameron

Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l’arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con esso lei si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse; e così molte volte fecero.

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Angela Luce nelle vesti di Peronella nel Decameron di Pasolini (1971)

Ma pur tra l’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire: «O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie. Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse».
Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse: «Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c’entrasti. Ma, per l’amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa».
Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all’uscio aprì al marito, e con un malviso disse: «Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co’ ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio che n’arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare».
E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo: «Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal’ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s’ha recata a casa. L’altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non n’abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a’ mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre. Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare».
Disse il marito: «Deh donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero ch’io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d’un mese, ché io ho venduto a costui, che tu vedi qui con meco, il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati».
Disse allora Peronella: «E tutto questo è del dolor mio: tu che se’ uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’ mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ‘mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo era».
Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso: «Buon uomo, vatti con Dio; ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque».
Il buono uomo disse: «In buona ora sia»; e andossene.
E Peronella disse al marito: «Vien su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri».
Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire: «Dove se’, buona donna?» Al quale il marito, che già veniva, disse: «Eccomi, che domandi tu?» 
Disse Giannello: «Qual se’ tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio».
Disse il buono uomo: «Fate sicuramente meco, ché io son suo marito».
Disse allora Giannello: «Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto».
Disse allora Peronella: «No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto».
E il marito disse: «Sì bene»; e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l’un de’ bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: – «Radi quivi, e quivi, e anche colà»; e: «Vedine qui rimaso un micolino».
E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.
Per che Peronella disse a Giannello: «Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo».
Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece portare.

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Celedonio Perellón: Peronella (2005)

Non è passato molto tempo da quando a Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e amabile giovinetta il cui nome era Peronella. Essi, ognuno con il proprio lavoro, lui il muratore, lei la filatrice, guadagnando assai poco, cercavano di tirare al meglio la loro vita. Un giorno avvenne che un giovane tra i più galanti, vedendo Peronella e piacendogli molto, se ne innamorò e ora in un modo ora in un altro tanto la corteggiò che infine prese dimestichezza con lei. Per poter stare insieme i due decisero che, dal momento che il marito per andare a lavorare si alzava ogni mattina piuttosto presto, il giovane si mettesse in una parte per vederlo senza essere a sua volta visto ed essendo la strada, chiamata via Arborio, piuttosto isolata, una volta uscito lui entrasse in casa di Peronella e così più volte fecero.
Tuttavia un giorno accadde che, essendo il buon uomo uscito e Giannello Scrignario, questo era il nome del giovane amante, stando in casa insieme a Peronella, dopo un po’ tornò a casa, cosa che di solito non succedeva mai. Trovata la porta chiusa e dopo aver bussato tra sé disse: «O Signore, sii sempre tu lodato! Sebbene mi abbia fatto povero, almeno mi hai consolato con una bella e onesta moglie! Guarda come si è chiusa dentro non appena sono uscito, affinché non potesse entrare nessuno che le desse noia».
Peronella, sentendo il marito, riconosciuto dal suo modo di bussare, disse: «Povera me! Giannello mio, sono morta che è tornato mio marito, gli venga un accidente e non so che cosa dire, visto che non è mai arrivato a quest’ora, forse ti ha visto quando sei entrato! Ma, per amor di Dio, comunque stiano le cose, entra in questa botte qui, che vado ad aprirgli,  e vediamo cosa a dire per essere tornato così presto questa stamattina.»
Giannello entrò subito nella botte e Peronella, raggiunta la porta aprì e con voce adirata disse al marito: «Che novità è questa di tornare così presto a casa? Da quello che mi sembra di capire, tu oggi non vuoi lavorare, che ti vedo con i ferri in mano; se fai così, di cosa vivremo? come avremo noi il pane? credi che io non soffra a vederti impegnare la gonna e altri miei vestiti, che non faccio che filare notte e giorno, tanto che mi è staccata la carne dall’unghia, per poter avere almeno dell’olio per la nostra lanterna? Marito, marito, non c’è nessuna che non si meravigli e si faccia beffe di me, per tutta la fatica che mi tocca sopportare, che tu mi torni con le braccia penzoloni quando dovresti essere a lavorare». Detto questo cominciò a piangere e aggiunse: «Povera me! Disgraziata! Che tempi mi tocca vivere, sotto quale cattiva stella sono nata! Che avrei potuto avere un giovane a posto e non l’ho voluto, per prendere costui che non pensa a chi si è portato in casa! Le altre si divertono con gli amanti e non ce n’è nessuna che non ne abbia almeno due o tre, e godono e fanno scambiano ai loro mariti la luna per il sole; ed io, poiché sono onesta, e non faccio tali storie, mi capitano disgrazie e sfortuna, non so perché non mi prenda anch’io degli amanti come tutte l’altre! Capisci bene, marito mio, che se volessi far del male, lo troverei e so anche con chi, perché ci sono dei galanti che mi amano e mi hanno promesso molti soldi o vestiti e gioielli; ma non ho mai ceduto, che non sono nata da una donna volgare; e tu che, torni a casa quando dovresti lavorare!»
Disse il marito: «Su, donna mia, non rattristarti, per Dio! E’ pur vero che io ero andato a lavorare, ma è evidente che tu non lo sapevi, come io non sapevo. Oggi è la festa di San Galeone e non si lavora e per questo sono tornato a casa; ma io ci ho pensato  e trovato il modo di avere il pane per più di un mese, perché io venduto a quest’uomo, che tu vedi qui con me, la botte, che sai che è d’impiccio nella nostra casa, e me ne dà cinque gigliati».
Disse allora Peronella: «Anche tutto ciò è causa del dolore mio: tu che sei un uomo e che dovresti sapere quali siano i prezzi del mercato, hai venduto una botte per cinque gigliati, che io povera donna che non sono mai stata fuori di casa mia, l’ho venduto a sette gigliati a un buon uomo che, quando stavi per tornare, vi entrò dentro per vedere se fosse resistente.
Quando il marito sentì questo, fu più contento che mai e disse a colui che era venuto a comprarlo: «Buon uomo, va con Dio, che hai sentito che mia moglie l’ha venduto per sette, mentre tu non me ne volevi dare che cinque».
Rispose il buon uomo: «Sta bene» e andò via.
E Peronella disse al marito: «Dai vieni dentro, visto che ci sei, e vedi con lui i soldi che ti deve dare».
Giannetto, che stava con le orecchie rizzate per capire se dovesse temere qualcosa o prendere dei provvedimenti adatti alla situazione, sentite le parole di Peronella, subito si gettò fuori dalla botte e come se non avesse sentito affatto il ritorno del marito, cominciò a dire: «Dove sei, buona donna?»
A lui il marito, che si avvicinava, disse: «Eccomi, che mi dici?»
Giannello: «Chi sei tu? vorrei la donna con la quale stavo contrattando questa botte»
Disse il buon uomo: «Trattate sicuramente con me, che sono suo marito».
Disse allora Giannello: «La botte mi sembra abbastanza resistente, ma mi sembra che dentro voi ci abbiate tenuto della melma, che è tutto impiastricciato di non so che di secco, che non riesco a scalfire con le unghie, e perciò non lo voglio se prima non risulterà pulito».
Disse allora Peronella: «No, per questo non rimarrà invenduto, mio marito lo pulirà tutto».
E il marito: «Bene», e poggiati gli attrezzi di lavoro in terra e messosi in maniche di camicia, si fece accendere una lanterna e dare un raschiatoio e, entrato dentro, cominciò a raschiare. E Peronella, quasi volesse vedere ciò che il marito facesse, messa la testa e un braccio con tutta la spalla sulla bocca della botte che molto grande non era, cominciò a dire: «Raschia qui e qui e là» e «Guarda qui, ce n’è un pochino anche qui».
E mentre che da quella posizione Peronella indicava e sottolineava al marito (dove operare) Giannello, che in quella mattina non aveva portato a termine il suo piacere, essendo arrivato il marito e considerando che non poteva esaudirlo nel modo desiderato, si adoperò di raggiungerlo come avrebbe potuto e, avvicinatosi a lei, che copriva con il corpo la testa della botte, in quel modo con cui cavalli in calore e pronti all’atto sessuale assalgono le cavalle di Partia, portò a compimento il giovanile piacere, che quasi nello stesso momento terminò mentre la botte fu pulita e il marito venne fuori.
Allora Peronella disse a Giannello: «Buon uomo, prendi questa lucerna e guarda se è pulita come la desideravi».
Giannello, guardato dentro, disse che andava bene e che rimaneva soddisfatto; e datigli sette gligliati si fece portare la botte a casa.  

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Alexander Daniloff: la novella di Peronella

La novella presenta il lato che nella fantasia popolare viene detto boccaccesco, o meglio quello dove l’eros viene esplicitato apertamente; ma anche qui il riferimento è classico, lo stesso episodio, infatti, lo ritroviamo nell’Asino d’oro o Metamorfosi di Apuleio. Esiste infatti nella letteratura greca e conosciuti da noi da quella latina (Petronio e appunto Apuleio) la fabula milesia la cui caratteristica è quella di essere un po’ lasciva, o meglio d’avere degli argomenti il cui riferimento sessuale è abbastanza diretto.

La capacità e l’originalità dell’autore toscano è quella di averla ambientata a Napoli, in un ambiente popolare i cui protagonisti emergono con forza con quelle caratteristiche care a Boccaccio: la stupidità del marito, infatti viene vinta dalla prontezza di Peronella che, con meno aulicità e capacità argomentativa, fa un’arringa al marito alla stregua di quella di Ghismunda al padre cui segue la capacità di Giannello di raggiungere il piacere interrotto. Arte delle parola ed eros, ambedue ottenuti grazie all’intelligenza, basta questo a Boccaccio per farne personaggi vincenti.        

 

DUE SANESI AMANO UNA DONNA COMARE DELL’ALTRO; MUORE IL COMPARE E TORNA AL COMPAGNO SECONDO LA PROMESSA FATTAGLI, E RACCONTAGLI COME DI LA’ SI DIMORI.
(VII, 10)

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Miniatura che ci illustra la novella di Tingoccio e Meuccio

Furono adunque in Siena due giovani popolari, de’ quali l’uno ebbe nome Tingoccio Mini e l’altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non usavano se non l’un con l’altro, e per quello che paresse s’amavan molto; e andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della gloria e della miseria che all’anime di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell’altro mondo. Delle quali cose disiderando di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.
Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d’uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d’una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo. Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s’innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l’un si guardava dall’altro, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività che a lui medesimo pareva fare d’amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l’avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo, ma perché già avveduto s’era che ella piaceva a Tingoccio. Laonde egli diceva: «Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò».
Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s’accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d’impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.
Così amando i due compagni, l’uno più felicemente che l’altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti dì sì l’aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita. E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva, chiamò.
Meuccio destatosi disse: «Qual se’ tu?»
A cui egli rispose: «Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell’altro mondo».
Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse: «Tu sia il ben venuto, fratel mio»; e poi il domandò se egli era perduto.
Al qual Tingoccio rispose: «Perdute son le cose che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto?»
«Deh,» disse Meuccio «io non dico così ; ma io ti domando se tu se’ tra l’anime dannate nel fuoco pennace di ninferno».
A cui Tingoccio rispose: «Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto».
Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de’ peccati che di qua si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi gli domandò Meuccio s’egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là, a cui Meuccio disse di farlo volentieri.
E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse: «Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t’è di là data?»
A cui Tingoccio rispose: «Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m’era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m’era dal lato, mi disse: “Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco?” “Oh,” diss’io “amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d’un gran peccato che io feci già”. Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: “Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai”. Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: “Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari; il che io udendo tutto mi rassicurai”.
E detto questo, appressandosi il giorno, disse: «Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco»; e subitamente andò via.
Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua sciocchezza, per ciò che già parecchie n’avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. 

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Tingoccio nel Decameron di Pasolini (1971)

A Siena vissero due giovani popolani, uno dei quali si chiamò Tingoccio Mini, l’altro Meuccio di Tura, e abitavano entrambi a Porta Salaia, e non si frequentavano che fra di loro e sembra si volessero molto bene. E poiché andavano, come fanno tutti gli uomini, in chiesa a sentire le prediche, più volte avevano sentito della gloria e delle pene che era concessa alle anime di coloro che morivano, sulla base dei loro peccati. Di questo fatto, volendo esser sicuri né potendo trovare altro modo, promisero fra di loro che chi dei due prima morisse, se gli fosse stato possibile, sarebbe tornato e gli avrebbe riferito quello che l’altro desiderava sapere; e stabilirono questo con un giuramento.
Dopo aver fatto questa promessa, continuando a frequentarsi, successe che Tingoggio divenne compare di Ambrogio Anselmini, che abitava nella contrada di Camporeggi, che aveva avuto un figlio da sua moglie, chiamata monna Mita. Tingoccio, visitando insieme a Meuccio questa comare, che era bellissima e molto desiderabile, nonostante il rapporto di parentela, s’innamorò; lo stesso capitò a Meuccio, piacendogli molto e sentendo tutte le lodi che Tangoccio le rivolgeva. E questo amore lo tenevano segreto anche fra loro, ma non per lo stesso motivo: Tingoccio si guardava di dirlo a Meuccio per il grave peccato che lui stesso reputava per sé amando la comare e si sarebbe vergognato se qualcuno l’avesse scoperto; Meuccio non per questo, ma perché si era già accorto che lei piaceva a Tingoccio, per cui fra sé diceva: «Se io gli rivelo che so (che lui la desidera), s’ingelosirà di me e potendole parlare a suo piacimento, essendole compare, farà in modo che lei mi odii, tanto da non avere più alcuna cosa che mi piaccia di lei».
Così come detto, essendo i due amici innamorati, successe che Tingoccio, al quale era più semplice svelare il proprio desiderio alla donna, tanto seppe fare che sia con gesti che con parole riuscì a conquistarla. Di questo s’accorse Meuccio e sebbene provasse molto dispiacere, pure, sperando che un giorno potesse anche lui raggiungere il suo desiderio, affinché Tingoccio non avesse né ragione né motivo di guastargli o impedirgli qualcosa, fece finta di non sapere nulla.
Così essendo innamorati entrambi, sebbene uno con più soddisfazioni, successe che Tingoccio, trovando nella comare un terreno estremamente fertile, tanto infilò la zappa e tanto la dissodò che ne cadde malato, e tale infermità si aggravò molto che non potendola più combattere, nel giro di tre giorni morì. Dopo altri tre giorni, poiché forse non aveva potuto prima, come aveva promesso una notte giunse nella camera di Meuccio, che dormiva profondamente, e lo chiamò.
Meuccio svegliatosi disse: «Chi sei?»
A cui rispose: «Sono Tingocco e secondo la promessa che ti ho fatto, sono tornato a darti notizie dell’aldilà»
Meuccio, vedendolo, dapprima si spaventò molto, ma dopo essersi rassicurato disse: «Tu sei il benvenuto, fratello mio!» e poi gli chiese se fosse perduto (nel senso di dannato).
A cui Tingoccio rispose: «Perdute sono le cose che non si trovano più, e come sarei in me stesso se fossi perduto?»
«Ah», disse Meuccio, «ma io non intendevo in quel senso, ma ti chiedo se tu sei tra le anime dannate nel fuoco eterno dell’inferno».
A cui Tingoccio rispose: «Questo no, ma io, per i molti peccati da me commessi, mi trovo giustamente in pene grandissime e piene d’angoscia».
Meuccio gli domandò più precisamente quali fossero queste pene per i peccati commessi in terra e Tingoccio glieli disse tutti. Poi gli chiese se poteva fare qualcosa per lui e Tingoccio gli disse di sì, e cioè di far fare delle messe in suo suffragio, e pregare e fare l’elemosina, perché questi gesti erano molto considerati da quelli di lassù, e Meuccio gli rispose che avrebbe fatto tutto ciò volentieri.
Quando Tingoccio stava per andarsene, Meuccio si ricordò della comare e, sollevata la testa gli disse: «Bene, ora che mi ricordo, Tingoccio: per la comare con la quali facevi l’amore, che pena ti hanno assegnata?»
A cui Tingoccio: «Fratello mio, come arrivai di là, c’era uno che sembrava conoscesse tutti i miei peccati, che mi comandò d’andare in un luogo in cui, con grandissima pena, piansi tutti i miei peccati e dove trovai molti compagni con la medesima pena che mi era stata attribuita; mentre stavo con loro, ricordandomi della comare e aspettandomi per questo una pena maggiore di quella che stavo scontando, sebbene fossi in un gran fuoco e molto bruciato, tremavo completamente per paura. Vedendo questo, uno che mi era a fianco, mi disse: “Che hai tu di più di questi qua, che stai tremando in mezzo al fuoco?”, “Oh”, gli risposi “amico mio, io ho una gran paura del giudizio che mi attende per un peccato che io ho fatto”. Mi domandò allora che peccato fosse, a cui risposi: «Il peccato fu questo: che io facevo l’amore con mia comare e lo feci in modo talmente spesso da rimanerci” E lui, prendendomi in giro per questo, mi disse: «Va, stupido, non preoccuparti che qui non gliene frega niente delle comari!” e io, sentendolo, mi tranquillizzai». E detto questo, facendosi già quasi mattino, disse: «Meuccio, va’ con Dio, che io non posso più rimanere con te» e immediatamente sparì.
Meuccio, dopo aver sentito che non si dava alcuna importanza alle comari. cominciò a pensare alla sua dabbenaggine, dal momento in cui ne aveva risparmiate tante (di comari). Perciò, messa da parte l’ignoranza, si comportò saggiamente.

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Meuccio nel Decameron di Pasolini (1971)

La novella, ambientata a Siena, ci mostra un ambiente popolare, con protagonisti due amici ed uno stesso oggetto del desiderio. Il triangolo costruito qui da Boccaccio ha una forma un po’ particolare: non si tratta di un marito beffato, o di un padre (o fratelli) traditi dall’intemperanza della figura femminile, ma di un rapporto, all’inizio quasi paritario, verso lo stesso oggetto del desiderio, lasciato sullo sfondo.

L’etica vincente non è quella erotica, ma quella amicale, con aspetti interessanti di gelosia: Tingoccio riesce a farsi monna Mita, ma non dice niente all’amico, perché? Forse non vuole offenderlo nell’apparire “più bravo di lui”; Meuccio sa quello che Tingoccio fa con la comare, ma non lo svela: perché? Forse ne è geloso, e aspetta l’occasione buona per fregarlo. C’è insomma qualcosa di torbido in questa amicizia virile, che si dissolve nella scena del sogno. Forse per leggere la sequenza dovremo ricorrere alla psicologia e vedere in essa la proiezione di Meuccio verso l’esuberanza erotica dell’amico e quindi la stessa possibilità, ora che non c’è più, di emularlo.  

 

OTTAVA GIORNATA

L’ottava giornata è governata da Lauretta, la quale ha dettato come tema il seguente: si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna ad uomo o uomo a donna o l’uno uomo all’altro di fanno. 

La prima novella che si racconta sulla figura di Calandrino è di Elissa:

CALANBRINO, BRUNO E BUFFALMACCO GIU’ PER LO MUGNONE VANNO CERCANDO DI TROVAR L’ELITROPIA, E CALANDRINO SE LA CREDE AVER TROVATA; TORNASI A CASA CARICO DI PIETRE; LA MOGLIE IL PROVERBIA, ED EGLI TURBATO LA BATTE, E A’ SUOI COMPAGNI RACCONTA CIO’ CHE ESSI SANNO MEGLIO DI LUI.
(VIII,3)

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Alberto Cascione: Calandrino e l’elitropia (2016)

Nella nostra città, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi. Il quale il più del tempo con due altri dipintori usava, chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicità sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto e avvenevole, chiamato Maso del Saggio; il quale, udendo alcune cose della simplicità di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa, o fargli credere alcuna nuova cosa.
E per avventura trovandolo un dì nella chiesa di San Giovanni, e vedendolo stare attento a riguardar le dipinture e gl’intagli del tabernacolo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione; e informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono là dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme cominciarono a ragionare delle virtù di diverse pietre, delle quali Maso così efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario. A’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchie, e dopo alquanto levatosi in pié, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro; il che forte piacque a Maso; il quale, seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre così virtuose si trovassero. Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, e avevasi un’oca a denaio e un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol d’acqua.
«Oh», disse Calandrino «cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro?»
Rispose Maso: «Mangiansegli i baschi tutti».
Disse allora Calandrino: «Fostivi tu mai»?
A cui Maso rispose: «Di’ tu se io vi fu’ mai? Sì vi sono stato così una volta come mille».
Disse allora Calandrino: «E quante miglia ci ha?»
Maso rispose: «Haccene più di millanta, che tutta notte canta».
Disse Calandrino: «Dunque dee egli essere più là che Abruzzi».
«Sì bene», rispose Maso «si è cavelle».
Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque verità più manifesta, e così l’aveva per vere, e disse: «Troppo ci è di lungi a’ fatti miei, ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla. Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre cosė virtuose?»
A cui Maso rispose: «Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima virtù: l’una sono i macigni da Settignano e da Montisci, per virtù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina; e per ciò si dice egli in que’ paesi di là, che da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine; ma ècci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Monte Morello, che rilucon di mezza notte vatti con Dio; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero e portassele al soldano, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidarii appelliamo elitropia, pietra di troppo gran vertù, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è».
Allora Calandrin disse: «Gran virtù son queste; ma questa seconda dove si truova?»
A cui Maso rispose, che nel Mugnone se ne solevan trovare.
Disse Calandrino: «Di che grossezza è questa pietra? o che colore è il suo?»
Rispose Maso: «Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è più e alcuna meno, ma tutte son di colore quasi come nero».

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Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso e seco propose di volere cercare di questa pietra; ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli.
Ultimamente, essendo già l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro, e chiamatigli, così disse loro: «Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i più ricchi uomini di Firenze: per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niun’altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercare. Noi la troveremo per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella e andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e torcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrà; e così potremo arricchire subitamente, senza avere tutto dì a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca».
Bruno e Buffalmacco, udendo costui, fra se medesimi cominciarono a ridere, e guatando l’un verso l’altro fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio di Calandrino; ma domandò Buffalmacco, come questa pietra avesse nome.
A Calandrino, che era di grossa pasta, era già il nome uscito di mente, per che egli rispose: «Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiam la virtù? A me parrebbe che noi andassomo a cercare senza star più».
«Or ben», disse Bruno «come è ella fatta?»
Calandrin disse: «Egli ne son d’ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo».
A cui Bruno disse: «Or t’aspetta»; e volto a Buffalmacco disse: «A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere; e oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci vegga».
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s’accordò, e ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pietra; ma sopra ogn’altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che così era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò. E chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi cominciarono ad andare in giù, della pietra cercando. Calandrino andava, come più volenteroso, avanti, e prestamente or qua e or là saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano; ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all’analda non era, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla correggia attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empié, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empié. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: «Calandrino dove è?»
Buffalmacco, che ivi presso sel vedeva, volgendosi intorno e or qua e or là riguardando, rispose: «Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi».
Disse Bruno: «Ben che fa poco! a me par egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d’andar cercando le pietre nere giù per lo Mugnone».
«Deh come egli ha ben fatto», disse allora Buffalmacco «d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo sì sciocchi che noi gli credemmo. Sappi! chi sarebbe stato sì stolto che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una così virtuosa pietra, altri che noi?»
Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la virtù d’essa coloro, ancor che lor fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa; e volti i passi indietro, se ne cominciò a venire.

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Kim Rossi Stuart nella parte di Calandrino in Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2001) 

Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: «Noi che faremo? Ché non ce ne andiam noi?»
A cui Bruno rispose: «Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne farā più niuna; e se io gli fossi presso, come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa»; e il dir le parole e l’aprirsi e ‘l dar del ciotto nel calcagna a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque e andò oltre.
Buffalmacco, recatosi in mano uno de’ ciottoli che raccolti avea, disse a Bruno: «Deh! vedi bel codolo, così giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino!» e lasciato andare, gli diè con esso nelle reni una gran percossa. E in brieve in cotal guisa or con una parola, e or con una altra su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando. Quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri si ristettero; le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo.
Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla Macina; e in tanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la cittā, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciō che quasi a desinare era ciascuno.
Entrossene adunque Calandrino così carico in casa sua.
Era per avventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala; e alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: «Mai, frate, il diavol ti ci reca! ogni gente ha già desinato quando tu torni a desinare».
Il che udendo Calandrino, e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: «Ohimè, malvagia femina, o eri tu costì? Tu m’hai diserto; ma in fé di Dio io te ne pagherò»; e salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le treccie la si gittò a’piedi, e quivi, quanto egli poté menar le braccia e’ piedi, tanto le diè per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce.
Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino, e giunti a piè dell’uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso e affannato si fece alla finestra, e pregogli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un de’ canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso dolorosamente piagnere, e d’altra parte Calandrino scinto e ansando a guisa d’uom lasso sedersi.
Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: «Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, che noi veggiamo qui tante pietre?» E oltre a questo soggiunsero: «E monna Tessa che ha? E’ par che tu l’abbi battuta; che novelle son queste?»
Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta, e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccogliere lo spirito a formare intera la parola alla risposta. Per che soprastando, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino, se tu aveva altra ira, tu non ci dovevi perciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti, e venistitene, il che noi abbiamo forte per male; ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai».
A queste parole Calandrino sforzandosi rispose: «Compagni, non vi turbate, l’opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato! avea quella pietra trovata; e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia; e veggendo che voi ve ne venavate e non mi vedavate, v’entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto».
E, cominciandosi dall’un de’ capi, infino la fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: «E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; e oltre a questo ho trovati per la via più miei compari e amici, li quali sempre mi soglion far motto e invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sė come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la virtù ad ogni cosa: di che io, che mi poteva dire il più avventurato uom di Firenze, sono rimaso il più sventurato; e per questo l’ho tanto battuta quant’io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni; che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quand’ella mi venne in questa casa!»
E raccesosi nell’ira, si voleva levar. per tornare a batterla da capo.
Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, e avevano sė gran voglia di ridere che quasi scoppiavano; ma, vedendolo furioso levare per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi allo ‘ncontro il ritennero, dicendo di queste cose niuna colpa aver la donna, ma egli che sapeva che le femine facevano perdere la virtù alle cose e non le aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno: il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua, o perch’egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il doveva palesare.
E dopo molte parole, non senza gran fatica, la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso colla casa piena di pietre, si partirono.

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Kim Rossi Stuart nella parte di Calandrino in Meraviglioso Boccaccio dei fratelli Taviani (2001) 

La nostra città che è sempre stata ricca di varie usanze e gente strana, è vissuto un tempo, non da molto, un pittore di nome Calandrino, semplice e d’insolite maniere. Egli passava molto tempo con altri due pittori, chiamati uno Bruno, l’altro Buffalmacco, uomini cui piaceva il divertimento, ma molto avveduti ed intelligenti, che frequentavano spesso Calandrino perché si burlavano dei sui modi e della sua ingenuità. Nello stesso tempo viveva a Firenze un uomo di straordinaria capacità in qualunque cosa decidesse di fare, intelligente e fortunato, chiamato Maso del Saggio, che, avendo sentito parlare della ingenuità di Calandrino, decise di burlarsi di lui e di fargli credere qualcosa d’impossibile.
Per caso un giorno, trovandolo seduto nella chiesa di San Giovanni, davanti al tabernacolo sopra l’altare attento ad osservare i disegni e i bassorilievi , pensò che quello era il momento di mettere in pratica la sua intenzione. Dopo aver informato un suo compagno di ciò che aveva in mente di fare, si avvicinarono entrambi dov’era seduto Calandrino e facendo finta di non averlo visto cominciarono a parlare della virtù di diverse pietre, argomento sul quale Maso parlava così efficacemente da apparire un importante e saggio studioso di lapidari. Ad un certo punto Calandrino, dopo aver aguzzato le orecchie, avendo capito che ciò di cui argomentavano i due non era segreto, si unì a loro, mettendo così ad effetto l’idea di Maso. Calandrino gli domandò dove queste pietre fossero e Maso rispose che la maggior parte si trovavano a Berlinzone, terra dei baschi, in un paese che si chiamava Bengodi, in cui si legano le vigne con le salsicce, si comprava un’oca con l’aggiunta di un papero per una moneta e c’era una intera montagna di parmigiano grattugiato, sopra la quale stavano alcune persone che non facevano altro che fare gnocchi e ravioli per poi cuocerli in un brodo di capponi; poi li buttavano giù e chi ne prendeva di più, più ne aveva; e lì vicino vi era un fiumiciattolo di vernaccia, della migliore che si bevve mai, senza l’aggiunta di alcun goccio d’acqua.
«Oh», disse Calandrino, «dev’essere un bel paese; ma dimmi, che ci fanno dei capponi che si mettono a cuocere?»
Rispose Maso: «Se li mangiano i baschi».
Disse ancora Calandrino: «Ci sei mai stato?»
A cui Maso: «Mi chiedi se ci sono stato? Sì sono stato qui una volta come mille»
Disse ancora Calandrino: «E quante miglia dista?»
Maso rispose: «Ce ne sono più di millanta che tutta la notte canta».
Calandrino: «Quindi dev’essere più lontana degli Abruzzi»
«Si è così», rispose Maso, «è niente». 
L’ingenuo Calandrino, vedendo che Maso diceva queste parole con viso serio e senza ridere, diede ad esse fede come si fa per una verità ben più evidente e così le riteneva vere; e aggiunse: «E’ troppo lontana, ma se fosse più vicina ti dico che verrei una volta con te per vedere rotolare gli gnocchi e farmene una scorpacciata. Ma dimmi, che tu sia felice, in questi posti si trova qualcuna di quelle pietre piene di virtù?»
A cui Maso rispose: «Sì, si trovano due tipi di pietre di grandissima virtù. La prima sono i macigni che si stanno a Settignano e Montisci, per virtù dei quali, quando diventano macine, ne nasci la farina, perciò si dice in quei paesi che Da uno vengono le grazie dall’altro le macine; ma ce ne sono talmente tante che da noi sono poco pregiate, come presso loro gli smeraldi, di cui vi sono montagne più alte di Monte Morello, che brillano a mezzanotte e non ti dico di più. E aggiungo che formasse una collana le macine prima di forarle e le portasse dal sultano potrebbe chiedergli qualsiasi cosa che l’otterrebbe. L’altra è una pietra, che noi nei lapidari chiamiamo elitropia, di grande virtù, perché chiunque l’indossi , per tutto il tempo che la tiene, non è veduto là dove non è».
Disse Calandrino: «Gran virtù son queste; ma questa dove si trova?»
Maso rispose che ve n’erano alcune nel Mugnone.
Chiese ancora Calandrino: «Di che grandezza sono? Qual è il loro colore?»
Rispose Maso: «Ve ne sono di varie grandezze, più o meno grandi e il loro colore è grigio scuro, quasi nero».
Calandrino, avendo annotato tra sé e sé, facendo finta di avere altro da fare, si allontanò da Maso e decise di andare a cercare questa pietra, ma non voleva farlo senza dirlo prima a Bruno e Buffalmacco, con cui era molto legato. Cominciò dunque a cercarli, prima che qualcuno li trovasse, e passò tutta la mattina a vedere dove fossero. Alla fine, essendo già tra le due e le tre del pomeriggio, ricordandosi che loro lavoravano in un monastero di Faenza, sebbene facesse un gran caldo, cominciò a correre e chiamatili, così disse: «Compagni, se volete credermi, noi possiamo diventare gli uomini più ricchi di Firenze: infatti ho saputo da un uomo degno di fede che a Mugnone c’è una pietra che chi la indossa diventa invisibile da chiunque, per cui mi sembrerebbe giusto che noi, senza aspettare oltre, prima che vi andasse qualcun’altro, andassimo a cercarla. Sicuramente la troveremo, dal momento che io so com’è fatta e, una volta trovata, che dovremo fare se non metterla nel borsello e andare dai banchieri, che, com’è sapete, sono sempre pieni di piccole monete d’argento e di fiorini e prenderne quanti ne vorremmo? Nessuno ci vedrà, così arricchiremo in un sol attimo, senza stare tutto il giorno a imbrattare le mura come fa la lumaca».
Bruno e Buffalmacco, mentre lo ascoltavano, cominciarono a ridere tra se stessi e guardandosi reciprocamente gli mostrarono di meravigliarsi molto e di approvare totalmente il consiglio di Calandrino e Buffalmacco gli chiese quale fosse il nome di questa pietra.
A Calandrino, che era piuttosto stupido, già non ricordava il nome della pietra, per cui gli rispose: «A che ci serve dal momento che ne conosciamo le virtù? Mi sembra più opportuno a andare a cercarla senza indugiare oltre». 
«Bene», aggiunse Bruno, «com’è fatta?»
Calandrino: «Ce ne sono d’ogni forma, ma sono quasi tutte nere; per cui a me pare che noi dobbiamo raccogliere tutte quelle di questo colore, finché non ci imbattiamo in essa, e perciò, non perdiamo tempo, andiamo».
A cui Bruno disse: «Aspetta»; e rivolto a Buffalmacco aggiunse. «A me sembra che Calandrino dica il giusto, ma non mi pare che adesso sia il momento, perché il sole è alto e illumina la vallata del Mugnone all’interno, che ha tutte le pietre asciutte  che sembrano ora più bianche delle pietre che ci sono e che invece la mattina, prima che il sole le abbia inaridite, sembrano diventare nere; e oltre a questo ci sono oggi, per diversi motivi, molte persone per la vallata, in quanto è giorno di lavoro, i quali, vedendoci, potrebbero indovinare che cosa noi fossimo andati a fare e lo farebbero anche loro; finiremo quindi per litigare, cosicché per voler troppo si perde l’essenziale. A me sembra, se siete d’accordo, che questa cosa si faccia domani mattina, perché così si distingueranno le pietre nere da quelle bianche, ed essendo un giorno di festa non ci sarà nessuno».
Buffalmacco approvò il consiglio di Bruno e Calandrino vi si associò e stabilirono che la domenica mattina successiva si ritrovassero tutti e tre per cercare questa pietra; ma Calandrino soprattutto pregò loro di non dover parlare con persona alcuna di questa cosa perché a lui era stata riferita in gran segreto. E dopo aver detto questo, riferì loro  con giuramenti ciò che aveva ascoltato sul paese di Bengodi,  affermando che era la verità. Essi si misero d’accordo su quello che dovessero fare intorno a questo fatto, dopo che Calandrino si era allontanato.
Calandrino aspettò la domenica mattina con ansia e arrivato il tempo si alzò all’alba. Chiamati i compagni, usciti a San Gallo attraverso la porta e scesi dal declivio del Mugnone iniziarono a cercare la pietra. Calandrino andava come quello che aveva più voglia degli altri di trovarla, camminando avanti e saltando con velocità ora qui e ora là, e dovunque vedeva una pietra nera l’afferrava e, raccogliendola, se la metteva in grembo. I compagni lo seguivano e ne raccoglievano quando una quando un’altra; ma Calandrino non era andato molto avanti che ne aveva il grembo pieno, per cui alzandosi i lembi della veste che era capace ed ampia e facendo con la veste un ampio contenitore, attaccata bene alla cintura, non dopo molto lo riempì, e allo stesso modo dopo un bel po’ di tempo, fatto un altro contenitore con il mantello, lo riempì di pietre. Vedendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e si avvicinava l’ora di mangiare, secondo il piano che avevano ordito tra loro, Bruno disse a Buffalmacco: «Calandrino dov’è?». Buffalmacco, che lo aveva vicino, girando il volto da una parte e dall’altra e guardando con attenzione, rispose: «Non lo so, ma prima egli era poco davanti a noi».
Disse Bruno: « Altro che poco fa! Sono certo che egli ora è a casa a mangiare e ci ha lasciato in questo impiccio di andare a cercare le pietre nere giù per il Mugnone».
«Ahimè, come è riuscito bene», disse allora Buffalmacco «a imbrogliarci e a lasciarci qui dal momento in cui siamo stati così stupidi da credergli. Figurati! Chi sarebbe stato così scemo da credere che nel Mugnone ci fosse una pietra così virtuosa, oltre che noi!»
Calandrino, sentendo queste parole, immaginò di aver preso quella pietra e che per la virtù di essa gli amici, sebbene lui fosse presente, non lo vedessero. Contentissimo per questo fatto, senza dir niente pensò di andare a casa e tornato sui suoi passi cominciò ad andare verso casa. 
Vedendo ciò, Buffalmacco disse a Bruno: « Che facciamo? Perché non ce ne andiamo?».
A cui Bruno rispose: «Andiamocene; ma giuro di fronte a Dio che Calandrino non me ne farà più nessuna; e se io adesso gli fossi vicino come ci sono stato per tutta la mattina, lo colpirei con questa pietra sui calcagni che egli si ricorderebbe per un intero mese di questa beffa»; e nel dire queste parole, allargare il braccio e a lanciarlo sui calcagni di Calandrino, fu un momento e Calandrino, sentendo il dolore, alzò il piede, cominciò a soffiare, ma non disse parola e camminò oltre.
Buffalmacco, presa in mano una pietra che aveva raccolto, disse a Bruno: «Guarda che bella pietra, potesse giungere in questo momento sulle reni di Calandrino!» e lanciatala lo colse nelle reni con un gran colpo; e per dirla in breve, in questo modo ora con una parola ora con un’altra, risalendo sul Mugnone fino alla porta di San Gallo, continuarono a lapidarlo. In seguito, gettate in terra le pietre che avevano raccolto, si fermarono per un po’ di tempo con i gabellieri; questi, informati prima, fecero finta di non vedere Calandrino, divertendosi molto. Costui, senza fermarsi, raggiunse casa, che era vicino al Canto alla macina; e tanto fu la sorte favorevole alla beffa, che, mentre Calandrino attraversando il fiume giungeva  in città, nessuno gli rivolse la parola perché incontrò poche persone, in quanto erano quasi tutti a pranzo.
Dunque Calandrino entrò estremamente carico (di pietre) in casa sua. Per caso vi era la moglie di lui, monna Tessa, bella e amorevole donna, in cima alle scale e, alquanto preoccupata per la lunga assenza (del marito), vedendolo venire cominciò, rimproverandolo, a dire: «Alla buon’ora, fratello, il diavolo ti porta a casa! Tutti hanno già mangiato quando tu torni a pranzo».
Calandrino, ascoltando e vedendo che era visto, pieno di rabbia e di dolore, cominciò a gridare: «Oimè, malvagia donna, tu eri qui? Mi hai rovinato, ma in fede di Dio te la farò pagare!» e salito in una piccola camera e gettate in terra le molte pietre che aveva con sé, infuriato corse verso la moglie e presala per le trecce la gettò in terra e qui con tutte le sue forze la colpi su tutto il corpo con le mani e con le braccia: pugni e calci, senza lasciarle in testa capello o osso che non rimase pesto, non valendo per lei nulla il chiedere pietà con le mani giunte sul petto.
Buffalmacco e Bruno, dopo che ebbero riso molto con i guardiani  della porta, cominciarono a seguire da lontano Calandrino molto lentamente; giunti alla soglia della sua porta, sentirono l’atroce pestaggio che Calandrino dava alla moglie e, facendo finta di arrivare solo ora, lo chiamarono. Calandrino, tutto sudato, rosso e affannato, si affacciò alla finestra e li pregò che andassero immediatamente da lui. Loro, mostrandosi alquanto arrabbiati, andarono su e videro la sala piena di pietre e in un angolo la donna scapigliata, con le vesti stracciate, tutta livida e ferita nel volto piangere dolorosamente; e dall’altra parte, Calandrino con gli abiti slacciati e ansando come un uomo stanco, sedersi.
Qui, quando ebbero guardato tutto, dissero:« Che è questo Calandrino? vuoi tu costruire un muro che qui vediamo tante pietre?» e oltre a questo aggiunsero:« E che è successo a monna Tessa? Sembra che tu l’abbia picchiata: che novità son queste?». Calandrino, stanco dal peso delle pietre e per la rabbia con la quale aveva colpito la moglie e dal dolore della fortuna che gli sembrava aver perso, non riusciva a riprendere fiato per pronunciare una parola in risposta; per cui, poiché indugiava, Buffalmacco ricominciò: «Calandrino, se tu avevi un altro motivo di rabbia, tu non avresti dovuto fare di noi lo strazio che hai fatto; perché ingannati ci hai portato con te a cercare la pietra preziosa, e senza considerarci, a guisa di due bestioni, ci hai lasciato e sei andato via dal mugnone, al che noi ci siamo rimasti molto male; ma per certo questa sarà l’ultima che ci farai».
A queste parole Calandrino rispose sforzandosi: «Compagni, non vi arrabbiate, la faccenda sta in altro modo di come la pensate. Io, sfortunato me!, avevo trovato quella pietra e volete sentire se vi dico la verità? Quando voi all’inizio mi cercaste io ero vicino a voi, meno di dieci metri, e vedendo che voi ve ne stavate andando e non mi vedevate mi incamminai davanti e  sempre avanzato rispetto a voi, arrivai a casa». E cominciando dall’inizio fino alla fine disse loro ciò che gli avevano fatto e mostrò il colpo ai calcagni e come i sassi glieli avessero ridotti; e poi continuò: « E vi dico che, entrando dalla porta con tutte queste pietre in grembo che voi vede qui, nessuno mi ha detto niente, e sapete quanto sono solitamente impiccioni e noiosi quei guardiani che vogliono vedere sempre tutto; e oltre a questo ho incrociato per via diversi compagni e amici, i quali sempre sono soliti rivolgermi la parola e invitarmi a bere, ma non c’è stato nessuno che mi dicesse nè una nè mezza parola, come se non mi vedessero. Infine, arrivato a casa, questo diavolo di femmina maledetta mi si mise davanti e mi vide, perciò che come sapete, le femmine fanno perdere la virtù ad ogni cosa: perciò io, che mi potevo considerare il più fortunato uomo di Firenze, mi sono ritrovato ad essere il più sfortunato; per questo l’ho picchiata tanto per quanto io abbia potuto menar le mani e non so che cosa mi trattenga dall’ammazzarla, che maledetta sia l’ora che io la vidi per la prima volta e che mi venne in questa casa!» e riaccesosi d’ira si voleva rialzare per tornare a picchiarla di nuovo.
Buffalmacco e Bruno, ascoltando queste cose, facevano finta di meravigliarsi molto e spesso confermavano quello che Calandrino affermava, e avevano una così gran voglia di ridere da scoppiare; ma, vedendolo furioso alzarsi per picchiare un’altra volta la moglie, gli andarono incontro e lo trattennero, dicendo che di questo fatto la donna non aveva nessuna colpa, ma lui, che sapeva che le donne fanno perdere la virtù alle cose, e non glielo aveva detto, non l’aveva avvertita di non apparirgli quel giorno: di quella cautela Dio lo aveva privato o perché la fortuna non doveva esser sua o perché egli aveva pensato di ingannare i suoi amici, ai quali, come si era accorto di averla trovata, avrebbe dovuto rivelarlo. E dopo molti discorsi, non senza una grande fatica, facendo riconciliare la donna dolente con lui, e lasciandolo triste con la casa piena di pietre, se ne andarono.

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Calandrino a teatro

La novella è la prima che ha come protagonista Calandrino, personaggio che sembra sia realmente esistito, cui il Boccaccio dedica altre tre novelle. 

Nella sua figura possiamo individuare alcune caratteristiche che fanno di lui un antieroe. Tali caratteristiche le potremmo individuare nelle sequenze attraverso le quali la stessa narrazione è suddivisa:

  1. dapprincipio egli ci è presentato come un sempliciotto, che, molto presumibilmente fa male il suo lavoro di pittore in quanto privo d’intelligenza e quindi facile oggetto dello scherno altrui. Di questo ci dà dimostrazione la credulità con cui assorbe tutto il nonsenso delle parole di Maso il quale, sebbene estremamente intelligente, si fa beffe della sua ignoranza creando un mondo “altro” con la parola, cioè mostrando che la realtà può esistere anche se non è, se vi è la parola che la traduce e se ne fa testimone. E’ chiaro che tale gioco può essere paritario se vi è stessa padronanza verbale, altrimenti diventa potere contro debolezza. Per questo un po’ sorridendo e un po’ impietosendoci, all’inizio del racconto siamo tutti per Calandrino;
  2. lo stesso dicasi quando Calandrino si rivolge a Bruno e Buffalmacco, i quali, se fossero stati veri amici, può darsi che l’avrebbero messo in guardia rispetto a ciò che Maso aveva detto; tuttavia un primo, sebbene appena accennato, segnale che Calandrino non è quell’ingenuo e sempliciotto che all’inizio della novella ci aveva quasi fatto pena, ce lo dà la motivazione per cui vuole diventare “invisibile”: rubare senza essere visto;
  3. in questa sequenza vediamo i tre amici in opera: il protagonista, stupido com’è cerca veramente, Bruno e Buffalmacco fingono e sempre dall’alto della loro intelligenza colpiscono l’ingenuo Calandrino, prendendolo a sassate. Ma in fondo, questa volta, il lettore è d’accordo con loro: credendo di aver preso la pietra miracolosa, Calandrino cerca di svignarsela, per non condividerla con nessuno; bel concetto, anche per lui, d’amicizia!
  4. l’ultima sequenza ce lo svela: violento e misogino; credendo che sia stata la moglie ad interrompere l’incantesimo la picchia con rabbia furiosa, mostrando un sottofondo di cattiveria quale all’inizio non ci saremo aspettati.    

Per riassumere si potrebbe dire che Calandrino sia tutto quello che Boccaccio non vuole ci sia in un uomo, sembra gli manchino tutte le virtù necessarie: infatti egli non è cortese, non è intelligente né tantomeno astuto, non ricerca il guadagno attraverso l’intelligenza, ma con la frode e non rispetta le donne.

L’altra novella di Calandrino, sempre con i coprotagonisti Bruno e Buffalmaccio, ci è raccontata da Filomena:

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Copertina per un’edizione dedicata ai bambini della novella di Calandrino e il porco rubato

BRUNO E BUFFALMACCO IMBOLANO UN PORCO A CALANDRINO; FANNOGLI FARE LA SPERIENZA DA RITROVARLO CON GALLE DI GENGIOVO E CON VERNACCIA, E A LUI NE DANNO DUE, L’UNA DOPO L’ALTRA, DI QUELLE CONFETTATE IN ALOE’, E PARE CHE L’ABBIA AVUTO EGLI STESSO, FANNOLO RICOMPERARE, SE EGLI NON VUOLE CHE ALLA MOGLIE IL DICANO.
(VIII, 6)

Chi Calandrino, Bruno e Buffalmacco fossero non bisogna che io vi mostri, ché assai l’avete di sopra udito; e per ciò, più avanti faccendomi, dico che Calandrino aveva un suo poderetto non guari lontano da Firenze, che in dote aveva avuto della moglie, del quale tra l’altre cose che su vi ricoglieva, n’aveva ogn’anno un porco, ed era sua usanza sempre colà di dicembre d’andarsene la moglie ed egli in villa, e ucciderlo e quivi farlo salare.
Ora avvenne una volta tra l’altre che, non essendo la moglie ben sana, Calandrino andò egli solo ad uccidere il porco; la qual cosa sentendo Bruno e Buffalmacco, e sappiendo che la moglie di lui non v’andava, se n’andarono ad un prete loro grandissimo amico, vicino di Calandrino, a starsi con lui alcun dì. Aveva Calandrino, la mattina che costor giunsero il dì, ucciso il porco, e vedendogli col prete, gli chiamò e disse: «Voi siate i ben venuti. Io voglio che voi veggiate che massaio io sono; e menatigli in casa, mostrò loro questo porco».
Videro costoro il porco esser bellissimo, e da Calandrino intesero che per la famiglia sua il voleva salare. A cui Brun disse: «Deh! come tu se’ grosso! Vendilo, e godianci i denari; e a mogliata dì che ti sia stato imbolato».
Calandrino disse: «No, ella nol crederrebbe, e caccerebbemi fuor di casa; non v’impacciate, ché io nol farei mai».
Le parole furono assai, ma niente montarono. Calandrino gl’invitò a cena cotale alla trista, sì che costoro non vi vollon cenare, e partirsi da lui.
Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliangli noi imbolare stanotte quel porco?»
Disse Buffalmacco: «O come potremmo noi?»
Disse Bruno: «Il come ho io ben veduto, se egli nol muta di là ove egli era testé».
«Adunque», disse Buffalmacco «faccianlo; perché nol faremo noi? E poscia cel goderemo qui insieme col domine».
Il prete disse che gli era molto caro. Disse allora Bruno: «Qui si vuole usare un poco d’arte: tu sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come egli bee volentieri quando altri paga; andiamo e meniallo alla taverna, e quivi il prete faccia vista di pagare tutto per onorarci e non lasci pagare a lui nulla; egli si ciurmerà, e verracci troppo ben fatto poi, per ciò che egli è solo in casa».
Come Brun disse, così fecero. Calandrino, veggendo che il prete nol lasciava pagare, si diede in sul bere, e benché non ne gli bisognasse troppo, pur si caricò bene; ed essendo già buona ora di notte quando dalla taverna si partì, senza volere altramenti cenare, se n’entrò in casa, e credendosi aver serrato l’uscio, il lasciò aperto e andossi al letto. Buffalmacco e Bruno se n’andarono a cenare col prete, e, come cenato ebbero, presi loro argomenti per entrare in casa Calandrino là onde Bruno aveva divisato, là chetamente n’andarono; ma, trovando aperto l’uscio, entrarono dentro, e ispiccato il porco, via a casa del prete nel portarono, e ripostolo, se n’andarono a dormire.
Calandrino, essendogli il vino uscito del capo, si levò la mattina, e, come scese giù, guardò e non vide il porco suo, e vide l’uscio aperto; per che, domandato questo e quell’altro se sapessero chi il porco s’avesse avuto, e non trovandolo, incominciò a fare il romore grande: ohisé, dolente sé, che il porco gli era stato imbolato. Bruno e Buffalmacco levatisi, se n’andarono verso Calandrino, per udir ciò che egli del porco dicesse. Il qual, come gli vide, quasi piagnendo chiamatigli, disse: «Ohimè, compagni miei, che il porco mio m’è stato imbolato».

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Bruno, Buffalmacco e il prete nell’edizione Federighi

Bruno, accostatoglisi, pianamente gli disse: «Maraviglia, che se’stato savio una volta».
«Ohimè», disse Calandrino «ché io dico da dovero».
«Così di’», diceva Bruno «grida forte sì, che paia bene che sia stato così».
Calandrino gridava allora più forte e diceva: «Al corpo di Dio, che io dico da dovero che egli m’è stato imbolato».
E Bruno diceva: «Ben dì, ben dì: e’ si vuol ben dir così, grida forte fatti ben sentire, sì che egli paia vero».
Disse Calandrino: «Tu mi faresti dar l’anima al nimico. Io dico che tu non mi credi, se io non sia impiccato per la gola, che egli m’è stato imbolato».
Disse allora Bruno: «Deh! come dee potere esser questo? Io il vidi pure ieri costì. Credimi tu far credere che egli sia volato?»
Disse Calandrino: «Egli è come io ti dico».
«Deh!» disse Bruno «può egli essere?»
«Per certo», disse Calandrino «egli è così, di che io son diserto e non so come io mi torni a casa: mogliema nol mi crederà, e se ella il mi pur crede, io non avrò uguanno pace con lei».
Disse allora Bruno: «Se Dio mi salvi, questo è mal fatto, se vero è; ma tu sai, Calandrino, che ieri io t’insegnai dir così: io non vorrei che tu ad un’ora ti facessi beffe di moglieta e di noi».
Calandrino incominciò a gridare e a dire: «Deh perché mi farete disperare e bestemmiare Iddio e’santi e ciò che v’è? Io vi dico che il porco m’è stato sta notte imbolato».
Disse allora Buffalmacco: «Se egli è pur così, vuolsi veder via, se noi sappiamo, di riaverlo».
«E che via» disse Calandrino «potrem noi trovare?»
Disse allora Buffalmacco: «Per certo egli non c’è venuto d’India niuno a torti il porco; alcuno di questi tuoi vicini dee essere stato; e per ciò, se tu gli potessi ragunare, io so fare la esperienza del pane e del formaggio e vederemmo di botto chi l’ha avuto».
«Sì», disse Bruno ben farai con pane e con formaggio a certi gentilotti che ci ha dattorno, ché son certo che alcun di loro l’ha avuto, e avvederebbesi del fatto, e non ci vorrebber venire».
«Come è dunque da fare?» disse Buffalmacco.
Rispose Bruno: «Vorrebbesi fare con belle galle di gengiovo e con bella vernaccia, e invitargli a bere. Essi non sel penserebbono e verrebbono; e così si possono benedire le galle del gengiovo, come il pane e ‘l cacio».
Disse Buffalmacco: «Per certo tu di’ il vero; e tu, Calandrino, che di’? Vogliallo fare?»
Disse Calandrino: «Anzi ve ne priego io per l’amor di Dio; ché, se io sapessi pur chi l’ha avuto, sì mi parrebbe esser mezzo consolato».
«Or via», disse Bruno «io sono acconcio d’andare infino a Firenze per quelle cose in tuo servigio, se tu mi dai i denari».
Aveva Calandrino forse quaranta soldi, li quali egli gli diede. Bruno, andatosene a Firenze ad un suo amico speziale, comperò una libbra di belle galle di gengiovo, e fecene far due di quelle del cane, le quali egli fece confettare in uno aloè patico fresco; poscia fece dar loro le coverte del zucchero, come avevan l’altre, e per non ismarrirle o scambiarle, fece lor fare un certo segnaluzzo per lo quale egli molto bene le conoscea, e comperato un fiasco d’una buona vernaccia, se ne tornò in villa a Calandrino e dissegli:  «Farai che tu inviti domattina a ber con teco tutti coloro di cui tu hai sospetto; egli è festa, ciascun verrà volentieri, e io farò stanotte insieme con Buffalmacco la ‘ncantagione sopra le galle, e recherolleti domattina a casa, e per tuo amore io stesso le darò, e farò e dirò ciò che fia da dire e da fare».
Calandrino così fece. Ragunata adunque una buona brigata tra di giovani fiorentini, che per la villa erano, e di lavoratori, la mattina vegnente, dinanzi alla chiesa intorno all’olmo, Bruno e Buffalmacco vennono con una scatola di galle e col fiasco del vino, e fatti stare costoro in cerchio, disse Bruno: «Signori, e’ mi vi convien dir la cagione per che voi siete qui, acciò che, se altro avvenisse che non vi piacesse, voi non v’abbiate a ramaricar di me. A Calandrino, che qui è, fu ier notte tolto un suo bel porco, né sa trovare chi avuto se l’abbia; e per ciò che altri che alcun di noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso, per ritrovar chi avuto l’ha, vi dà a mangiar queste galle una per uno, e bere. E infino da ora sappiate che chi avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò, anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti, è forse il meglio che quel cotale che avuto l’avesse, in penitenzia il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto».
Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier mangiare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra loro, cominciatosi all’un de’ capi, cominciò a dare a ciascun la sua, e, come fu per mei Calandrino, presa una delle canine, gliele pose in mano. Calandrino prestamente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori.
Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro, perveder chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora compiuto di darle, non faccendo sembianti d’intendere a ciò, s’udì dir dietro: «Eja, Calandrino, che vuol dir questo?» per che prestamente rivolto, e veduto che Calandrino la sua aveva sputata, disse: «Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece sputare: tenne un’altra»; e presa la seconda, gliele mise in bocca, e fornì di dare l’altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di sputarla, alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò fuori come la prima aveva fatto. Buffalmacco faceva dar bere alla brigata, e Bruno; li quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti dissero che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso; e furonvene di quegli che aspramente il ripresono.
Ma pur, poi che partiti si furono, rimasi Bruno e Buffalmacco con Calandrino, gl’incominciò Buffalmacco a dire: «Io l’aveva per lo certo tuttavia che tu te l’avevi avuto tu, e a noi volevi mostrare che ti fosse stato imbolato, per non darci una volta bere de’ denari che tu n’avesti».
Calandrino, il quale ancora non aveva sputata l’amaritudine dello aloè, incominciò a giurare che egli avuto non l’avea.
Disse Buffalmacco: «Ma che n’avesti, sozio, alla buona fè? Avestine sei?»
Calandrino, udendo questo, s’incominciò a disperare. A cui Brun disse: «Intendi sanamente, Calandrino, che egli fu tale nella brigata che con noi mangiò e bevve, che mi disse che tu avevi quinci su una giovinetta che tu tenevi a tua posta, e davile ciò che tu potevi rimedire, e che egli aveva per certo che tu l’avevi mandato questo porco. Tu sì hai apparato ad esser beffardo! Tu ci menasti una volta giù per lo Mugnone ricogliendo pietre nere, e quando tu ci avesti messo in galea senza biscotto, e tu te ne venisti; e poscia ci volevi far credere che tu l’avessi trovata; e ora similmente ti credi co’ tuoi giuramenti far credere altressì che il porco, che tu hai donato o ver venduto, ti sia stato imbolato. Noi sì siamo usi delle tue beffe e conoscialle; tu non ce ne potresti far più; e per ciò, a dirti il vero, noi ci abbiamo durata fatica in far l’arte, per che noi intendiamo che tu ci doni due paia di capponi, se non che noi diremo a monna Tessa ogni cosa.
Calandrino, vedendo che creduto non gli era, parendogli avere assai dolore, non volendo anche il riscaldamento della moglie, diede a costoro due paia di capponi. Li quali, avendo essi salato il porco, portatisene a Firenze, lasciaron Calandrino col danno e con le beffe.

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Calandrino, Bruno e Buffalmacco e il porco salato nell’edizione Federighi

Chi fossero Calandrino, Bruno e Buffalmacco non c’è bisogno che ve lo dica, perché lo avete ascoltato prima. Per questo, cominciando da subito la narrazione, vi dico che Calandrino aveva un piccolo podere non molto lontano da Firenze, che aveva avuto in dote dalla moglie, nel quale, tra le altre cose che qui vi raccoglieva, vi allevava annualmente un maiale; ed era sua abitudine di andarci ogni anno a dicembre insieme alla moglie per ucciderlo e farlo salare.
Una volta capitò che Calandrino, essendo la moglie malata, andò solo ad uccidere il porco, e quando lo seppero Bruno e Buffalmacco, accertatosi che la sposa non sarebbe arrivata, decisero di andare qualche giorno da lui insieme ad un loro amico prete. Calandrino, il giorno in cui arrivarono, aveva appena ucciso il maiale e vedendoli col prete, disse loro: «Siate i benvenuti: voglio che vediate che buon massaro sono io» e fatti entrare in casa, mostrò loro il porco.
Questi videro il porco e lo reputarono bellissimo e sentirono da Calandrino che lo voleva salare per la famiglia. Bruno allora gli disse: «Accidenti, quanto sei stupido! Vendilo, divertiamoci con i soldi che ci fai e a tua moglie di’ che te l’hanno rubato».
Calandrino disse: «No, non mi crederebbe e mi caccerebbe di casa, non immischiatevi, perché non lo farei mai»
I tentativi per convincerlo furono molti, ma non produssero alcun effetto. Calandrino li invitò a cena da lui, ma lo fece con tale malagrazia che essi rifiutarono e se ne andarono.
Disse Bruno a Buffalmacco: «Vogliamo rubarglielo noi stanotte quel porco?»
Disse Buffalmacco. «Come potremo fare?»
Disse Bruno: «Il come l’ho già capito, se non si sposta da dov’era poco fa»
«Dunque» disse Buffalmacco  «facciamolo, perché non dovremmo farlo? E dopo ce lo goderemo con il prete».
Il prete disse che era d’accordo; ancora Bruno aggiunse: Qui ci vuole un po’ di astuzia. Sai, Buffalmacco, come Calandrino è avaro e come beve volentieri quando paga qualcun’altro: andiamo e portiamolo alla caverna, qui il prete faccia finta di pagare tutto lui per farci onore e non faccia pagare lui in nessun modo: egli si ubriacherà e ci verrà tutto più facile, allora, essendo solo in casa».
Così come Bruno suggerì, fecero. Calandrino, vedendo che il prete non lo lasciava pagare, si lasciò andare al bere e benché non gli giovasse troppo ne bevve in modo esagerato ed essendo già notte inoltrata andò a casa e credendo di aver chiuso la porta, la lasciò aperta e si buttò a letto. Bruno e Buffalmacco andarono a cena con il prete e dopo aver mangiato, si armarono di alcuni attrezzi per entrare in casa di Calandrino dove Bruno aveva già progettato e vi si diressero, in silenzio; ma trovando la porta aperta entrarono, presero il porco e lo nascosero a casa del prete. Quindi andarono a dormire.
Calandrino, essendo ritornato sobrio, la mattina si alzò, e scese le scale vide che il porco non c’era più e che la porta era rimasta aperta: per questo, domandando in giro chi avesse preso il maiale e non trovandolo, cominciò a fare un gran baccano: accidenti! peggio per lui, che gli avevano rubato il porco. Bruno e Buffalmacco, svegliatisi anche loro, andarono verso casa di Calandrino per vedere cosa costui avrebbe detto del porco ed appena li vide, quasi piangendo li chiamò e disse loro: «Ahimè, amici miei, mi è stato rubato il maiale!»
Bruno, fattosi vicino, gli disse a bassa voce: «Splendido! per questa volta sei stato furbo!»
«Povero me», disse Calandrino «è successo per davvero»
«Di’ così» diceva Bruno «grida forte, in modo che sembri vero che ti sia stato rubato»
Calandrino allora urlava più forte e diceva: «Per il corpo di Cristo ti dico che mi è stato rubato per davvero»
E  Bruno diceva: «Dici bene, dici bene; ma bisogna dirlo meglio, gridalo, fatti sentire, in modo che sembri vero»
Disse Calandrino: «Venderesti la mia anima al diavolo, non mi credi; potessi essere impiccato, se non dico la verità che mi è stato rubato!»
Disse allora Bruno: «Accidenti! come può essere? L’ho visto qui ieri, vorresti farmi credere che sia volato?»
Calandrino: «E’ come ti dico».
Bruno: «Come può essere?»
«Sicuramente», disse Calandrino «è così! sono rovinato e non so come tornare a casa; mia moglie non mi crederà e seppure dovesse crederci non mi darà mai più pace».
Disse allora Bruno: «Dio mi scampi, se questo è vero; ma tu sai Calandrino che io ieri sera ti consigliai di far finta che ti sia stato rubato per dirlo a tua moglie e non vorrei che nello stesso momento ti facessi beffe sia di tua moglie che di noi».
Calandrino cominciò a gridare: «Ma insomma perché mi fate disperare? e bestemmiare Dio e tutti i santi del paradiso? Vi dico che stanotte il porco mi è stato rubato»
Disse allora Buffalmacco: «Se è così, bisogna trovare il modo per sapere chi sia stato».
«E che modo» disse Calandrino «potremo trovare?»
Disse allora Buffalmacco: «Sicuramente nessuno è venuto dall’India a portarti via il porco, dev’essere stato uno dei tuoi vicini e perciò, se tu li potessi riunire, io so fare il rito del pane e formaggio e capiremo subito chi ce l’ha»
«Sì», disse Bruno «farai bene con pane e formaggio con questi “galantuomini” che sono qui attorno! Certamente ce l’ha uno di loro e si accorgerebbe (della prova) e non ci verrebbe»
«E allora cosa fare?» disse Buffalmacco.
Rispose Bruno: «Si potrebbe fare con delle gallette di zenzero accompagnati da una buona vernaccia ed invitarli a bere: non penserebbero (al rito) e verrebbero: si potrebbero benedire le gallette come il pane e il formaggio»
Disse Buffalmacco: «Bella trovata. E tu Calandrino che ne pensi? vogliamo provarci?»
Disse Calandrino: «Ve ne prego, per l’amor di Dio, che se solo sapessi chi se l’è preso, mi parrebbe d’essere perlomeno rinfrancato» 
«Suvvia», – disse Bruno, – io sono pronto ad andare a Firenze a procurarmi le cose necessarie se tu mi dai i soldi».
Calandrino aveva forse quaranta soldi e in tutto e glieli diede. Bruno, sceso a Firenze, andò da un amico droghiere, comprò circa una libbra (due chilogrammi circa) di biscotti allo zenzero; ma due ne fece fare due confezionati zenzero canino mescolato con amarissimo aloe; quindi le fece tutte coprire di zucchero come le altre e per non scambiarle fece fare un piccolo segno con cui egli le poteva riconosceva; comperato un fiasco di buona vernaccia, tornò al paese e disse a Calandrino: «Domattina, invita tutti quelli di cui hai sospetto: è festa e verranno volentieri ed io, stanotte, farò, insieme a Buffalmacco, l’incantesimo sui biscotti e domattina verrò a portarteli e, per amor tuo, sarò io stesso a darle e ti suggerirò cosa sia necessario dire e cosa fare».
Calandrino così fece. Radunato un buon numero di persone tra giovani fiorentini che erano lì in campagna e i contadini del luogo, la mattina seguente, sotto l’olmo davanti alla chiesa, Bruno e Buffalmacco arrivarono, con una scatola di biscotti e il fiasco della vernaccia e fatti mettere tutti in circolo, Bruno disse loro: «Signori, io devo spiegarvi perché siete stati qui riuniti, affinché, se dovesse capitarvi qualcosa di spiacevole, non ve la prendiate con me. A Calandrino, che è qui in mezzo a noi, ieri notte è stato rubato il maiale e non riesce più a trovarlo; e poiché chi l’ ha rubato deve essere stato uno di noi, Calandrino v’invita a mangiare questi biscotti allo zenzero e a bere. Sappiate però, che chi avrà preso il maiale non potrà mangiare il biscotto perché gli sembrerà più amaro del veleno e la sputerà. Io lo invito dunque, prima di patire questa vergogna in presenza di tutti, di dirlo in confessione al prete e mi asterrò dal compiere il rito».
Tutti risposero che erano pronti a mangiare i biscotti e allora Bruno, dopo averli disposti in giro e messo Calandrino in mezzo a loro, cominciò a dare a ciascuno il biscotto, ma arrivato a Calandrino, afferrata una galletta con lo zenzero canino, glielo diede. Calandrino se lo mise subito in bocca e cominciò a masticare, ma appena sentì l’amaro dell’aloe non poté più sopportarlo e lo sputò. Gli altri, nel frattempo, si tenevano tutti d’occhio per vedere chi sputasse, e non avendo ancora Bruno finita la distribuzione, facendo finta di non essersi accorto che Calandrino l’aveva sputato, sentì dire a un tratto: «Ohè, Calandrino, che significa questo?» e subito voltato, vide che Calandrino l’aveva buttato fuori il biscotto, disse: «Forse gli sarà andato di traverso; diamogliene un altro. E gli mise in bocca il secondo biscotto all’aloe, continuando a distribuire agli altri. A Calandrino, se il primo era sembrato amaro, il secondo biscotto parve amarissimo; tuttavia, vergognandosi di sputarlo, lo tenne in bocca cercando di masticarlo, e avendolo in bocca cominciò a sprizzare lacrime che parevano nocciole, ma alla fine non ce la fece più e lo sputò come il primo. Buffalmacco e Bruno che davano frattanto da bere alla brigata, e tutti gli altri, nel vedere questo, dissero che di certo Calandrino si era rubato lui stesso il maiale, e ci furono anche quelli che lo rimproverarono aspramente.
Dopo che tutti se ne furono andati, Buffalmacco cominciò a dire: «Io lo sapevo che lo avevi tu e che volevi ingannarci per non pagarci nemmeno un bicchiere di vino, con i soldi che ne avresti avuto (vendendolo)».
Calandrino, con la bocca amara, incominciò a giurare e spergiurare di non averlo. »Andiamo, andiamo», continuò Buffalmacco, «ma, amico mio, quanto ne hai ricavato? forse sei fiorini?»
E Calandrino, sentendolo dir così cominciò a disperarsi; allora Bruno disse: «Stammi a sentire, Calandrino, c’è uno qui nella brigata che ha mangiato e bevuto con noi, che mi ha detto che tu avevi qui una ragazzetta che mantenevi per i tuoi affari e che le davi ciò che potevi rimediare, e lui era certo che tu le avevi dato il porco. Hai imparato a prenderci in giro! Già una volta ci hai portato per il Mugnone a cercar pietre, e quando poi ci hai messo nei guai, te ne sei andato e volevi farci credere di aver trovato la pietra che rendeva invisibile, e adesso, allo stesso modo, vorresti darci a intendere che il maiale, che hai regalato o venduto, ti sia stato rubato. Siamo abituati ai tuoi scherzi e li conosciamo, e adesso non ti diamo più retta! Per questo, ci hai fatto passare la notte a preparare l’incantesimo. Sai che ti dico? O ci regali due capponi per il disturbo, o noi raccontiamo tutto a monna Tessa, tua moglie».
Calandrino, vedendo che non era creduto, sembrandogli di aver già avuto troppi dispiaceri, non volendo anche l’arrabbiatura ella moglie, diede loro i due capponi. E Bruno e Buffalmacco, avendo salato loro il porco, se ne andarono a Firenze lasciando Calandrino col danno e le beffe.

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Riduzione teatrale della novella

Rispetto alla novella precedente qui Calandrino sembra essere una vittima meno colpevole della beffa ordita dai due amici; certo tra Bruno, Buffalmacco e il prete, non si sa chi sia il peggiore. Ma, al di là di ogni giudizio morale, quello che emerge è che a vincere, pur con la cattiveria tipica di questi buontemponi fiorentini, è sempre l’intelligenza contro la stupidità.

L’intelligenza di Bruno è tutta nel capovolgimento blasfemo di un rito molto in voga nella Firenze del Trecento: “… era un sortilegio, un incantesimo assai diffuso, che aveva assunto quasi forma di rito: (…) fatti certi segni e data la benedizione su bocconi confezionati con formaggio e pane (d’orzo, in genere), si invitavano i presunti ladri a giurare la loro innocenza; e, dette speciali orazioni, si davano loro da mangiare quei bocconi che non potevano essere inghiottiti dal colpevole” (Vittore Branca). Bruno infatti sostituisce al pane e formaggio un biscotto, all’acqua benedetta la vernaccia, al prete benedicente se stesso: tale capovolgimento rituale ha bisogno di un progetto che lo sciocco Calandrino non può capire. 

D’altra parte l’ingenuo Calandrino continua ad essere mal visto dallo stesso Boccaccio: manca di convivialità (invita malvolentieri gli amici) ed è avaro (beve solo se gli pagano da bere).

Ma qui si svela ancora una volta anche la capacità comica dell’autore: il dialogo tra  Calandrino e Bruno, il derubato e chi pensa sia stato lui, è un capolavoro costruito sul fraintendimento, uno degli elementi basilari della comicità narrativa.  

NONA GIORNATA

Alla fine dell’VIII giornata viene nominata Emilia come regina per la nona, la quale, non senza vergogna, così cominciò a parlare ai compagni: E per ciò quello che domane, seguendo il vostro dilettevole ragionare, sia da dire, non intendo di ristrigneni sotto alcuna spezialità, ma voglio che ciascun secondo che gli piace ragioni, cioè, come successo nella prima l’argomento è libero.

La novella seguente è raccontata da Elissa: 

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Werner Klemke . La badessa con le braghe in testa (1972)

LEVASI UNA BADESSA IN FRETTA E AL BUIO PER TROVARE UNA SUA MONACA, A LEI ACCUSATA, COL SUO AMANTE NEL LETTO; ED ESSENDO CON LEI UN PRETE, CREDENDO IL SALTERO DE’ VELI AVER POSTO IN CAPO, LE BRACHE DEL PRETE VI SI POSE; LE QUALI VEDENDO L’ACCUSATA E FATTALENE ACCORGERE, FU DILIBERATA, ED EBBE AGIO DI STARSI COL SUO AMANTE.
(IX, 2)

Sapere adunque dovete in Lombardia essere un famosissimo monistero di santità e di religione, nel quale, tra l’altre donne monache che v’erano, v’era una giovane di sangue nobile e di maravigliosa bellezza dotata, la quale, Isabetta chiamata, essendo un dì ad un suo parente alla grata venuta, d’un bel giovane che con lui era s’innamorò. Ed esso, lei veggendo bellissima, già il suo disidero avendo con gli occhi concetto, similmente di lei s’accese; e non senza gran pena di ciascuno questo amore un gran tempo senza frutto sostennero. Ultimamente, essendone ciascun sollicito, venne al giovane veduta una via da potere alla sua monaca occultissimamente andare; di che ella contentandosi, non una volta ma molte, con gran piacer di ciascuno, la visitò. Ma continuandosi questo, avvenne una notte che egli da una delle donne di là entro fu veduto, senza avvedersene egli o ella, dall’Isabetta partirsi e andarsene. Il che costei con alquante altre comunicò. E prima ebber consiglio d’accusarla alla badessa, la quale madonna Usimbalda ebbe nome, buona e santa donna secondo la oppinione delle donne monache e di chiunque la conoscea; poi pensarono, acciò che la negazione non avesse luogo, di volerla far cogliere col giovane alla badessa. E così taciutesi, tra sé le vigilie e le guardie segretamente partirono per incoglier costei.

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Carolina Crescentini nei panni di Isabetta nel film dei fratelli Taviani Meraviglioso Boccaccio (2001)

Or, non guardandosi l’Isabetta da questo, né alcuna cosa sappiendone, avvenne che ella una notte vel fece venire; il che tantosto sepper quelle che a ciò badavano. Le quali, quando a loro parve tempo, essendo già buona pezza di notte, in due si divisero, e una parte se ne mise a guardia del l’uscio della cella dell’Isabetta, e un’altra n’andò correndo alla camera della badessa; e picchiando l’uscio, a lei che già rispondeva, dissero: «Su, madonna, levatevi tosto, ché noi abbiam trovato che l’Isabetta ha un giovane nella cella».
Era quella notte la badessa accompagnata d’un prete, il quale ella spesse volte in una cassa si faceva venire. La quale, udendo questo, temendo non forse le monache per troppa fretta o troppo volonterose, tanto l’uscio sospignessero che egli s’aprisse, spacciatamente si levò suso, e come il meglio seppe si vestì al buio, e credendosi tor certi veli piegati, li quali in capo portano e chiamanli il saltero, le venner tolte le brache del prete; e tanta fu la fretta, che, senza avvedersene, in luogo del saltero le si gittò in capo e uscì fuori, e prestamente l’uscio si riserrò dietro, dicendo: «Dove è questa maladetta da Dio?» e con l’altre, che sì focose e sì attente erano a dover far trovare in fallo l’Isabetta, che di cosa che la badessa in capo avesse non s’avvedieno, giunse all’uscio della cella, e quello, dall’altre aiutata, pinse in terra; ed entrate dentro, nel letto trovarono i due amanti abbracciati, li quali, da così subito soprapprendimento storditi, non sappiendo che farsi, stettero fermi. La giovane fu incontanente dall’altre monache presa, e per comandamento della badessa menata in capitolo. Il giovane s’era rimaso; e vestitosi, aspettava di veder che fine la cosa avesse, con intenzione di fare un mal giuoco a quante giugner ne potesse, se alla sua giovane novità niuna fosse fatta, e di lei menarne con seco.
La badessa, postasi a sedere in capitolo, in presenzia di tutte le monache, le quali solamente alla colpevole riguardavano, incominciò a dirle la maggior villania che mai a femina fosse detta, sì come a colei la quale la santità, l’onestà e la buona fama del monistero con le sue sconce e vituperevoli opere, se di fuor si sapesse, contaminate avea; e dietro alla villania aggiugneva gravissime minacce.
La giovane, vergognosa e timida, sì come colpevole, non sapeva che si rispondere, ma tacendo, di sé metteva compassion nell’altre; e, multiplicando pur la badessa in novelle, venne alla giovane alzato il viso e veduto ciò che la badessa aveva in capo, e gli usolieri che di qua e di là pendevano.
Di che ella, avvisando ciò che era, tutta rassicurata disse: «Madonna, se Iddio v’aiuti, annodatevi la cuffia, e poscia mi dite ciò che voi volete».
La badessa, che non la intendeva, disse: «Che cuffia, rea femina? Ora hai tu viso di motteggiare? Parti egli aver fatta cosa che i motti ci abbian luogo?»
Allora la giovane un’altra volta disse: «Madonna, io vi priego che voi v’annodiate la cuffia, poi dite a me ciò che vi piace». Laonde molte delle monache levarono il viso al capo della badessa, ed ella similmente ponendovisi le mani, s’accorsero perché l’Isabetta così diceva. Di che la badessa, avvedutasi del suo medesimo fallo e vedendo che da tutte veduto era né aveva ricoperta, mutò sermone, e in tutta altra guisa che fatto non avea cominciò a parlare, e conchiudendo venne impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere; e per ciò chetamente, come infino a quel dì fatto s’era, disse che ciascuna si desse buon tempo quando potesse.
E liberata la giovane, col suo prete si tornò a dormire, e l’Isabetta col suo amante. Il qual poi molte volte, in dispetto di quelle che di lei avevano invidia, vi fe’ venire. L’altre che senza amante erano, come seppero il meglio, segretamente procacciaron lor ventura.

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Paola Cortellesi nei panni di Usimbalda nel film dei fratelli Taviani Meraviglioso Boccaccio (2001)

Dovete dunque sapere che in Lombardia vi era un monastero famosissimo per religiosità e santità delle monache, nel quale tra le diverse monache che vi risiedevano, v’era una giovane di nobile famiglia e di straordinaria bellezza, di nome Isabetta, che, essendo andata al parlatorio per parlare con suo parente, s’innamorò di un bel giovane che lo accompagnava e lui, vedendola bellissima, avendo compreso dallo sguardo il desiderio della monaca, allo stesso modo la desiderò: e non senza grande sforzo di entrambi per lungo tempo dovettero sostenere questo amore senza appagamento.
Infine, essendo ambedue spinti dal desiderio, il giovane trovò un modo per incontrarsi in modo nascosto con la monaca e, mostrandosi lei felice per ciò, non una volta sola, ma per lungo tempo con grande soddisfazione andò a farle visita.
Mentre la storia tra i due proseguiva, capitò una notte che una monaca vide il giovane dentro il monastero e, senza che lui o lei se ne accorgessero, allontanarsi da Isabetta e uscire. Questa avvisò le altre monache e decisero dapprima di dirlo alla badessa, di nome Usimbalda, secondo l’opinione di tutte le monache e di chiunque la conoscesse, buona e santa donna, poi pensarono, affinché ella non potesse negare la colpa, di far sì che la badessa la cogliesse in fragrante; e così, senza dir niente, si spartirono i turni di veglia e di guardia per sorprenderla.
Ora, Isabetta né stando in guardia né sospettando che qualche monaca sapesse (del suo incontro con il giovane), una notte lo fece venire, cosa che seppero subito quelle monache che facevano la guardia; queste, quando a loro parve opportuno, essendo già notte inoltrata, si divisero in due: una parte si mise davanti alla porta d’Isabetta e un’altra corse alla camera della badessa; queste ultime bussarono alla sua porta e a lei che già rispondeva, dissero: «Signora, alzatevi immediatamente, che abbiamo scoperto che Isabetta ha un giovane in camera».
Quella notte la badessa stava con un prete che spesso lei faceva entrare nella sua camera nascosto dentro una cassa. Dopo aver sentito, temendo che le monache per la troppa foga o per la troppa voglia di denunciare la compagna potessero spingere la porta fino ad aprirla, in tutta fretta si alzò e come meglio poté si vestì al buio, e credendo di prendere certi veli, che erano stati piegati, che le monache si mettono in testa e chiamano salterio, afferrò le braghe del prete; e tanta fu la fretta che senza accorgersene, al posto del velo se le mise in testa e uscì e, chiudendo la porta con precipitazione, disse: «Dov’è questa maledetta da Dio?». E con le altre monache, tutte prese e determinate nel voler cogliere Isabetta in fallo, da non accorgersi cosa la badessa avesse in testa, giunse all’uscio della cella e questo, con l’aiuto delle altre, abbatté in terra e una volta entrate, trovarono i due amanti nel letto. Questi, confusi per esser stati colti così di sorpresa, non sapendo che fare, stettero fermi. La giovane fu subito afferrata dalle altre monache e, per ordine della badessa, portata nella sala capitolare. Il giovane, rimasto, si vestiva per vedere che piega prendesse la cosa e con l’intenzione di fare qualche brutto scherzo alle monache che avesse potuto prendere, se alla sua amante fosse stato fatto alcun male, e poi di condurla via con sé.
La badessa, messasi a sedere nella sala insieme a tutte le altre, che solo a Isabetta guardavano, cominciò ad insultare la giovane pesantemente, come mai nessun’altra donna fosse stata insultata, come se, con le azioni vergognose da lei compiute, se si fossero sapute, avesse infangato la santità, l’onestà e l’ottima fama del monastero; e insieme all’aspro rimprovero, aggiungeva non so quali altre orribili minacce.
La giovane, piena di vergogna ed intimidita, in quanto colpevole non sapeva cosa rispondere, ma tacendo suscitava compassione delle altre per sé, e dilungandosi la badessa nei rimproveri, successe che la giovane alzò il viso e visto ciò che la superiora aveva in testa e i legacci (delle braghe) che pendevano dalla sua testa da una parte e dall’altra, capì cosa fosse e, rinfrancata le disse: «Signora, che Dio vi benedica, legatevi la cuffia e poi ditemi tutto ciò che volete».
La badessa, che non capiva, disse: «Che cuffia, femmina svergognata, hai proprio ora la faccia di prendermi in giro? Ti pare di aver fatto qualcosa che abbia a che fare con gli scherzi?»
Allora la giovane le disse un’altra volta: «Signora, vi prego, legatevi la cuffia e poi ditemi tutto ciò che volete»; allora molte monache rivolsero lo sguardo verso la testa della badessa e lei stessa, mettendosi le mani sul capo, capì perché Isabetta le avesse detto quelle cose.
Resosi conto di ciò, la badessa scoperta da tutte le monache nello stesso errore di cui aveva accusato la giovane, e non potendolo più nascondere, trasformò il discorso rispetto a quello fatto sinora e concluse dicendo che era impossibile difendersi dagli stimoli della carne; per cui, in modo discreto, come si era fatto sino allora, disse a ciascuna di svagarsi quando se ne fosse presentata l’occasione e, liberata la giovane, andò a dormire col prete e Isabetta col suo amante.
La giovane, per dispetto di tutte quelle che avevano invidia, fece venire l’amante molto spesso e le altre, che l’amante non ce l’avevano, in segreto si procurarono i loro piaceri come meglio seppero fare. 

La novella qui presentata è forse una delle più divertite di Boccaccio e non per il tema estremamente abituale della sessualità nel mondo ecclesiastico, quanto per lo stile veloce ed incalzante con cui descrive l’intera azione. Tutto, infatti, viene filtrato attraverso lo sguardo: Isabetta, da dietro la grata, guarda il giovane (una sola proposizione per l’innamoramento); le monache vedono il giovane (velocissima la sequenza del vederlo, rimanere a guardia e la denuncia); Isabetta, non guarda ma è guardata, rovesciamento con la stessa situazione, stavolta rivolta alla badessa, che è costretta, a sua volta, guardare, attraverso le mani se stessa.

Per il resto la novella si chiude nel discorso della badessa e nel capovolgimento morale: dalla riprensione alla “naturale” accettazione dell’istinto sessuale (impossibile essere il potersi dagli stimoli della carne difendere). E’ che a tale conclusione si arriva attraverso un sentimento che sentiamo aborrito dallo stesso Boccaccio: quello dell’invidia e, novello Minosse (quel conoscitor de la peccata, direbbe Dante) le punisce in uno sterile autoerotismo.  

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Gabriele Castagnola: Isabetta con l’amante (1858)

La terza novella su Caladrino ce la racconta Filostrato. Ve n’è una quarta nella stessa giornata, raccontata da Fiammetta, in cui il povero Calandrino s’innamora, subendo l’ira dell’irosa Monna Tessa.

MAESTRO SIMONE, AD INSTANZIA DI BRUNO E DI BUFFALMACCO E DI NELLO, FA CREDERE A CALANDRINO CHE EGLI E’ PREGNO; IL QUALE PER MEDICINE DA’ A’ PREDETTI CAPPONI E DENARI, E GUARISCE DELLA PREGNEZZA SENZA PARTORIRE.
(IX, 3)

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Manoscritto del XV secolo con l’illustrazione della novella

Mostrato è di sopra assai chiaro chi Calandrin fosse e gli altri de’ quali in questa novella ragionar debbo; e per ciò, senza più dirne, dico che egli avvenne che una zia di Calandrin si morì e lasciogli dugento lire di piccioli con tanti; per la qual cosa Calandrino cominciò a dire che egli voleva comperare un podere; e con quanti sensali aveva in Firenze, come se da spendere avesse avuti diecimila fiorin d’oro, teneva mercato, il quale sempre si guastava quando al prezzo del poder domandato si perveniva.
Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevan più volte detto che egli farebbe il meglio a goderglisi con loro insieme, che andar comperando terra, come se egli avesse avuto a far pallottole; ma, non che a questo, essi non l’aveano mai potuto conducere che egli loro una volta desse mangiare.
Per che un dì dolendosene, ed essendo a ciò sopravenuto un lor compagno, che aveva nome Nello, dipintore, di liberar tutti e tre di dover trovar modo da ugnersi il grifo alle spese di Calandrino; e senza troppo indugio darvi, avendo tra sé ordinato quello che a fare avessero, la seguente mattina appostato quando Calandrino di casa uscisse, non essendo egli guari andato, gli si fece incontro Nello e disse: «Buon dì, Calandrino».
Calandrino gli rispose che Iddio gli desse il buon dì e ‘l buono anno. Appresso questo, Nello rattenutosi un poco, lo ‘ncominciò a guardar nel viso. A cui Calandrino disse: «Che guati tu?»
E Nello disse a lui: «Haiti tu sentita sta notte cosa niuna? Tu non mi par desso».
Calandrino incontanente incominciò a dubitare e disse: «Ohimè, come! Che ti pare egli che io abbia?»
Disse Nello: «Deh! io nol dico per ciò; ma tu mi pari tutto cambiato; fia forse altro»; e lasciollo andare.
Calandrino tutto sospettoso, non sentendosi per ciò cosa del mondo, andò avanti. Ma Buffalmacco, che guari non era lontano, vedendol partito da Nello, gli si fece incontro, salutatolo il domandò se egli si sentisse niente. Calandrino rispose: «Io non so, pur testé mi diceva Nello che io gli pareva tutto cambiato; potrebbe egli essere che io avessi nulla?»
Disse Buffalmacco: «Sì, potrestu aver cavelle, non che nulla: tu par mezzo morto».
A Calandrino pareva già aver la febbre. Ed ecco Bruno sopravvenne, e prima che altro dicesse, disse: «Calandrino, che viso è quello? E’ par che tu sia morto: che ti senti tu?»
Calandrino, udendo ciascun di costor così dire, per certissimo ebbe seco medesimo d’esser malato; e tutto sgomentato gli domandò: «Che fo?»
Disse Bruno: «A me pare che tu te ne torni a casa a vaditene in su ‘l letto e facciti ben coprire, e che tu mandi il segnal tuo al maestro Simone, che è così nostra cosa come tu sai. Egli ti dirà incontanente ciò che tu avrai a fare, e noi ne verrem teco, e se bisognerà far cosa niuna, noi la faremo».
E con loro aggiuntosi Nello, con Calandrino se ne tornarono a casa sua, ed egli entratosene tutto affaticato nella camera, disse alla moglie: «Vieni e cuoprimi bene, ché io mi sento un gran male».
Essendo adunque a giacer posto, il suo segnale per una fanticella mandò al maestro Simone, il quale allora a bottega stava in Mercato Vecchio alla ‘nsegna del mellone.
E Bruno disse a’ compagni: «Voi vi rimarrete qui con lui, e io voglio andare a sapere che il medico dirà; e, se bisogno sarà, a menarloci».
Calandrino allora disse: «Deh! sì, compagno mio, vavvi e sappimi ridire come il fatto sta, ché io mi sento non so che dentro».
Bruno, andatosene al maestro Simone, vi fu prima che la fanticella che il segno portava, ed ebbe informato maestro Simone del fatto. Per che, venuta la fanticella e il maestro veduto il segno, disse alla fanticella: «Vattene, e di’ a Calandrino che egli si tenga ben caldo, e io verrò a lui incontanente e dirogli ciò che egli ha, e ciò che egli avrà a fare».
La fanticella così rapportò: né stette guari che il maestro e Brun vennero, e postoglisi il medico a sedere allato, gli ‘ncominciò a toccare il polso, e dopo alquanto, essendo ivi presente la moglie, disse: «Vedi, Calandrino, a parlarti come ad amico, tu non hai altro male se non che tu se’ pregno».
Come Calandrino udì questo, dolorosamente cominciò a gridare e a dire: «Ohimè! Tessa, questo m’hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva bene».
La donna, che assai onesta persona era, udendo così dire al marito, tutta di vergogna arrossò, e abbassata la fronte, senza risponder parola s’uscì della camera.
Calandrino, continuando il suo ramarichio, diceva: «Ohimè, tristo me! Come farò io? Come partorirò io questo figliuolo? Onde uscirà egli? Ben veggo che io son morto per la rabbia di questa mia moglie, che tanto la faccia Iddio trista quanto io voglio esser lieto; ma, così foss’io sano come io non sono, ché io mi leverei e dare’le tante busse, che io la romperei tutta, avvegna che egli mi stea molto bene, ché io non la doveva mai lasciar salir di sopra; ma per certo, se io scampo di questa, ella se ne potrà ben prima morir di voglia».
Bruno e Buffalmacco e Nello avevan sì gran voglia di ridere che scoppiavano, udendo le parole di Calandrino, ma pur se ne tenevano; ma il maestro Scimmione rideva sì squaccheratamente, che tutti i denti gli si sarebber potuti trarre. Ma pure al lungo andare, raccomandandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo gli dovesse dar consiglio e aiuto, gli disse il maestro: «Calandrino, io non voglio che tu ti sgomenti, ché, lodato sia Iddio, noi ci siamo sì tosto accorti del fatto, che con poca fatica e in pochi dì ti dilibererò; ma conviensi un poco spendere».
Disse Calandrino: «Ohimè! maestro mio, sì per l’amor di Dio. Io ho qui dugento lire di che io voleva comperare un podere; se tutti bisognano, tutti gli togliete, purché io non abbia a partorire, ché io non so come io mi facessi, ché io odo fare alle femine un sì gran romore quando son per partorire, con tutto che elle abbian buon cotal grande donde farlo, che io credo, se io avessi quel dolore, che io mi morrei prima che io partorissi».
Disse il medico: «Non aver pensiero. Io ti farò fare una certa bevanda stillata molto buona e molto piacevole. a bere, che in tre mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce; ma farai che tu sii poscia savio e più non incappi in queste sciocchezze. Ora ci bisogna per quella acqua tre paia di buon capponi e grossi, e per altre cose che bisognano darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le comperi, e fara’mi ogni cosa recare alla bottega, e io al nome di Dio domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e comincera’ ne a bere un buon bicchiere grande per volta.
Calandrino, udito questo, disse: «Maestro mio, ciò siane in voi»; e date cinque lire a Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò che in suo servigio in queste cose durasse fatica.
Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea e mandogliele. Bruno, comperati i capponi e altre cose necessarie al godere, insieme col medico e co’ compagni suoi se li mangiò.
Calandrino bevve tre mattine della chiarea, e il medico venne a lui, e i suoi compagni, e toccatogli il polso gli disse: «Calandrino, tu se’ guerito senza fallo; e però sicuramente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per questo star più in casa».
Calandrino lieto levatosi s’andò a fare i fatti suoi, lodando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva, la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta, d’averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare. E Bruno e Buffalmacco e Nello rimasero contenti d’aver con ingegni saputo schernire l’avarizia di Calandrino, quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col marito ne brontolasse.

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Illustrazione di un medico che osserva le urine dei malati

Nelle storie che sono già state raccontate è dimostrato con chiarezza che razza di uomini fossero Calandrino e i suoi due amici, dei quali io devo parlare in questa novella; e per questo senza aggiungere altro, dico che accadde che una zia di Calandrino morì e gli lasciò in eredità duecento lire di piccioli in contanti; per cui Calandrino cominciò a dire di voler comprare un pezzo di terra e, come se avesse avuto da spendere diecimila fiorini d’oro, avviava una trattativa con tutti i sensali che operavano a Firenze, trattativa che sempre si interrompeva quando si arrivava al prezzo richiesto del podere. Bruno e Buffalmacco, che queste cose sapevano, gli avevano più volte detto che sarebbe stato meglio godersi quei soldi insieme piuttosto che comprare un pezzo di terra per farne delle pallottole (per una balestra); ma essi non solo non poterono condurre Calandrino a questo, nemmeno a offrire loro una volta un pranzo.
Per cui  un giorno, rammaricandosi di ciò, ed essendo sopraggiunto mentre parlavano un loro compagno, che si chiamava Nello, pittore anche lui, decisero tutti e tre di trovare il modo di fare una bella scorpacciata alle spese di Calandrino; e senza starci troppo a pensare, avendo tra loro ordito quello che dovessero fare, il giorno dopo Nello, rimasto in attesa che Calandrino uscisse di casa, andato non lontano gli si fece incontro  e gli disse : «Buongiorno Calandrino».
Calandrino gli rispose che Dio gli desse il buongiorno ed il buon anno. Dopo questo, Nello, fermatosi un po’, cominciò a guardarlo attentamente nel viso, per cui Calandrino disse : «Che hai da guardare?».
E Nello a lui : «Questa notte hai sentito qualcosa di strano? Hai un aspetto diverso dal solito».
Calandrino subito iniziò a spaventarsi e disse: «Ohimé, come! Cosa ti sembra che io abbia?».
Disse Nello: «Non lo dico per spaventarti; ma mi sembri diverso dal solito; sarà soltanto una mia impressione»; e lo lasciò andar via. Calandrino molto preoccupato, non sentendosi per nulla diverso dal solito continuò a camminare, ma Buffalmacco, che non era lontano, vedendolo andar via da Nello, gli si fece incontro e, salutandolo, gli domandò se sentisse qualcosa di strano. Calandrino rispose: «Non lo so, poco fa Nello mi diceva che gli sembravo cambiato, potrebbe forse essere che io abbia qualcosa?». Disse Buffalmacco: «Tu potresti proprio avere qualcosa, altro che nulla: sembri mezzo morto».
A Calandrino sembrava già di avere la febbre. Ed ecco sopraggiungere Bruno e prima di salutarlo disse: «Calandrino, che faccia è quella? Sembri morto: che ti senti?».
Calandrino, sentendo costoro dire così, stabilì fra sé e sé con assoluta certezza di essere malato e, pieno di sgomento, domandò loro: «Che faccio?»
Disse Bruno: «Mi sembra opportuno che tu torni a casa e che ti metta sul letto e che ti faccia coprire bene e che tu mandi un campione della tua urina al medico Simone, che, come sai, è un nostro intimo amico. Egli ti dirà subito ciò che dovrai fare e noi ti accompagneremo, se bisognerà fare qualcosa noi la faremo».
E con loro si aggiunse Nello e con Calandrino se ne andarono a casa sua ed egli entrò tutto affannato; e arrivato in camera disse alla moglie: «Vieni e coprimi bene che mi sento molto male».
Stando dunque a letto, mandò per mezzo di una servetta le sue urine al maestro Simone, che aveva bottega presso Mercato Vecchio e aveva per insegna un melone.
E Bruno disse ai compagni: «Voi rimanete qui con lui, io voglio andare a sentire cosa dirà il medico e se ci sarà bisogno a portarlo qui».
Calandrino allora disse: «Si amico mio, vacci e riferiscimi come stanno le cose, che io già mi sento un non so che dentro il corpo».
Bruno, andato dal maestro Simone, vi giunse prima della servetta che aveva con sé le urine e informò maestro Simone della beffa organizzata ai danni di Calandrino. Per ciò, venuta la servetta e vista l’urina, il medico le disse: «Va’, e di’ a Calandrino che si tenga al caldo che io andrò da lui subito e gli dirò che cosa ha e che cosa dovrà fare».
La servetta così riferì e non passò molto tempo che il maestro e Bruno giunsero: il medico si mise a sedere a fianco del letto e cominciò a toccargli il polso, e dopo un po’, alla presenza della moglie, gli disse: «Vedi, Calandrino, a parlarti come ad un amico, tu non hai altro male che quello di essere incinto».
Come Calandrino sentì questo, cominciò a gridare disperatamente e a dire: «Ahimé, Tessa, questo guaio me lo hai procurato tu, volendo sempre stare sopra, e io ti avevo avvisato».
La donna, che era una persona molto onesta, sentendo dire queste cose dal marito diventò rossa per la vergogna e, abbassata la fronte, se ne andò dalla camera.
Calandrino, continuando il suo lamento, diceva: «Ahimé, povero me, come farò? Come partorirò questo figliolo? Da dove uscirà? Vedo soltanto che io sono destinato a morire per la lussuria di questa mia moglie, che Dio la faccia soffrire tanto quanto io vorrei essere felice; ma, se stessi bene e non come ora, mi alzerei e le darei tante di quelle botte da farla a pezzi, e mi sta proprio bene, perché io non avrei dovuto farla salire sopra di me; ma state sicuri che se esco da questa malattia lei potrà morire dal desiderio prima di avere un altro rapporto con me».
Bruno, Buffalmacco e Nello avevano un così gran voglia di ridere che stavano per scoppiare, sentendo le parole di Calandrino, ma si trattenevano; invece lo stesso maestro “Scimmione” rideva in modo così sgangherato che gli si sarebbero potuti cavare tutti i denti. Ma, procedendo nella beffa, affidandosi Calandrino al medico e pregandolo che in questo lo dovesse consigliare ed aiutare, gli disse il medico: « Calandrino, io non voglio che tu ti spaventi, perché, sia lodato Dio, noi ci siamo accorti del fatto in tempo, per cui con poca fatica e in pochi giorni ti libererò; ma bisogna che tu spenda un po’ di denaro».
Disse Calandrino:  Ahimè, maestro mio, certamente per l’amor di Dio. Io ho qui duecento lire con cui volevo comprare un podere; se vi servono, prendeteli tutti, purché io non debba partorire, perché non so come potrei fare, perché io so che le femmine quando stanno per partorire fanno un grande strepito, sebbene esse abbiano un organo abbastanza grande per fare uscire i figli, perché credo, se io avessi quel dolore, che io morirei prima di partorire».
Disse il medico: «Non ci pensare. Io ti farò fare una certa bevanda distillata molto buona e molto piacevole da bere, che in tre giorni risolverà ogni cosa e così rimarrai più sano di un pesce; ma dovrai fare in modo che tu dopo, con più saggezza, non incappi più in simili guai. Ora ci occorrono per quella bevanda tre paia di buoni e grassi capponi, e per le altre cose che ci occorreranno darai per ciascuno di loro cinque lire di piccioli affinché le comperi, e mi farai portare ogni cosa in bottega ed io, in nome di Dio, domani mattina ti manderò quella bevanda distillata e comincerai a berla, un grande bicchiere pieno al giorno.»
Calandrino, sentito questo, disse: «Maestro mio, pensateci voi»; e date a Bruno cinque lire e soldi per i capponi, lo pregò che si prendesse la briga di fare queste cose per lui.
Il medico, andatosene via, gli fece fare un po’ di bevanda medicinale e gliela mandò. Bruno, comprati i capponi e altre cose prelibate, insieme con il medico e con i compagni se li mangiarono.
Calandrino bevve per tre mattine la bevanda medicale e il medico giunse da lui, insieme con i compagni, e gli toccò il polso e gli disse: «Calandrino, tu, senza dubbio,  sei guarito; e perciò ora vai a fare tranquillamente le tue cose, e non devi più restare a casa».
Calandrino, alzatosi dal letto felice, andò a fare i suoi affari, apprezzando molto con chiunque parlasse, la bella cura che il maestro Simone gli aveva dato, cioè di averlo fatto abortire in tre giorni senza alcuna sofferenza. Bruno, Buffalmacco e Nello godettero di avere, con astuzia, saputo ingannare l’avarizia di Calandrino, sebbene monna Tessa, accortasi della burla, borbottasse continuamente contro il marito.

La novella non si distanza molto dalle precedenti, anzi rimarca in modo più diretto come anche nella costruzione di uno scherzo vi stia, alla base, un motivo economico. Se per Boccaccio diventare “buon massaio” (vedi Federigo) è saper ben amministrare, Calandrino non riconosce il valore dei soldi, cioè non sa come si amministri un bene economico. Per questo è continuamente beffato.

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Bruno, Buffalmacco e Calandrino

Se dovessimo, volendo, fare con quest’ultima un sunto delle sue caratteristiche, oltre ad essere straordinariamente “stupido” (crede al mondo favoloso di Bengodi presentato da Maso; crede in un rituale fatto con biscotti e vino; crede di essere incinto) è “peccaminosamente” avaro, cioè vien meno al precetto fondamentale di una società in cui l’aspetto borghese non dimentica l’aspetto cortese, cioè la liberalità, quando quest’ultima viene esercitata con discrezione. 

DECIMA GIORNATA

A reggere l’ultima giornata e, naturalmente ad essere l’ultimo re dell’allebra brigata di novellatori è Panfilo (il cui nome – amico di tutti o verso tutti – richiama il tema da lui scelto): Egli infatti propone di ragionare di chi liberalmente ovvero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a’ fatti d’amore o d’altra cosa. 

A raccontarci la storia del famoso “bandito” è Elissa

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Un’immagine, tratta da un fumetto di Ghino di Tacco

GHINO DI TACCO PIGLIA L’ABATE DI CLIGNI’ E MEDICALO DEL MALO ALLO STOMACO E POI IL LASCIA QUALE, TORNATO IN CORTE DI ROMA, LUI RICONCILIA CON BONIFAZIO PAPA E FALLO FRIERE DELLO SPEDALE.
(X, 2)

Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nimico de’ conti di Santa Fiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, e in quel dimorando, chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Clignì, il quale si crede essere un de’ più ricchi prelati del mondo, e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo. Per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con grandissima pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e, senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse. E questo fatto, un de’ suoi, il più saccente, bene accompagnato mandò allo abate; il qual da parte di lui assai amorevolmente gli disse, che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sì come quegli che con Ghino niente aveva a fare; ma che egli andrebbe avanti, e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse.
Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: «Messere, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti; e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo».
Era già, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circundato; per che l’abate, co’ suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui; e smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, e ogn’altro uomo secondo la sua qualità per lo castello fu assai bene adagiato, e i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo, senza alcuna cosa toccarne.
E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: «Messere, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significarli dove voi andavate, e per qual cagione».
L’abate, che, come savio, aveva l’altierezza giù posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno; e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina; e allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito e un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dello abate medesimo, e sì disse all’abate: «Messer, quando Ghino era più giovane, egli studiò in medicina, e dice che apparò niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi farà, della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento; e per ciò prendetele e confortatevi».
L’abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, e in ispezieltà chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sì come vane, e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che come Ghino più tosto potesse il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia; e così il tenne più giorni, tanto che egli s’accorse l’abate aver mangiate fave secche, le quali egli studiosamente e di nascoso portate v’aveva e lasciate.
Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: «A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; e appresso questo, niun altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito».
Ghino adunque avendogli de’ suoi arnesi medesimi e alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dello abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: «Messere, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria»; e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, e in quella co’ suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L’abate co’ suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino. Ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti li suoi arnesi fatti venire, e in una corte, che di sotto a quella era, tutti i suoi cavalli in fino al più misero ronzino allo abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare. A cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino.
Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: «Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, e avere molti e possenti nimici, hanno, per potere la sua vita e la sua nobiltà difendere, e non malvagità d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nimico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito, come io ho, non intendo di trattarvi come un altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse; ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, e i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte e il tutto come vi piace prendete, a da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro».
Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sì libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenzia mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: «Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistà d’uno uomo fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sì dannevole mestier ti costrigne!» E appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime e opportune prendere, e de’ cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò.
Aveva il papa saputa la presura dello abate e, come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser pro. Al quale l’abate sorridendo rispose: «Santo Padre, io trovai più vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha; e contogli il modo; di che il papa rise». Al quale l’abate, seguitando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia.
Il papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate disse: «Santo Padre, quello che io intendo di domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de’ più; e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli, donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare».
Il papa, udendo questo, sì come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri, se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino fidato, come allo abate piacque, a corte; né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatoselo gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere. La quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dello abate di Clignì, tenne mentre visse.

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Il castello di Radicofani dove si svolge la vicenda

Ghino di Tacco uomo molto conosciuto per la sua ferocia ed i suoi ladrocini, essendo nemico dei conti dei Biancofiore ed essendo stato bandito da Siena, fece ribellare Radicofani alla Chiesa di Roma e lì dimorando, chiunque fosse passato per quei luoghi o per quelli circostanti subiva le ruberie dalla sua compagnia. Mentre a Roma vi era il papa Bonifacio VIII, vi giunse l’abate di Clignì, che sembra fosse uno dei più ricchi prelati del mondo e qui, ammalatosi di stomaco, gli fu consigliato di andare alle terme di Siena dove sarebbe certamente guarito. Perciò, ricevuta la concessione papale, senza preoccuparsi della presenza di Ghino in quei luoghi, con gran ricchezza di arnesi, di some, di cavalli e di persone iniziò il viaggio.
Ghino di Tacco, saputo del suo passaggio, organizzò l’agguato e senza che gli sfuggisse un solo servitorello racchiuse in una gola l’abate con tutta la sua compagnia; dopo ciò mandò all’abate, opportunamente accompagnato, il più loquace dei suoi servitori a cui, con estrema cortesia, disse di dover andare e di alloggiare insieme alle sue cose al castello di Ghino. L’abate, dopo aver ascoltato le parole del messaggere, furiosamente gli rispose che non l’avrebbe fatto, ma che sarebbe andato avanti e voleva vedere chi glielo avrebbe impedito.
A lui, l’ambasciatore, con atteggiamento rispettoso, rispose: «Signore, voi siete venuto in quella parte del luogo dove, all’infuori della potenza di Dio, niente temiamo e dove non c’è uomo che non sia scomunicato o interdetto; perciò, per il vostro bene, gradisca di compiacere la volontà di Ghino»
Mentre parlavano, tutto il luogo era stato già circondato dagli uomini di Ghino, per cui l’abate, vedendosi ormai catturato con tutta la sua famiglia, con forte disprezzo, prese la via del castello con l’ambasciatore e con tutta la sua compagnia e, smontato da cavallo, su ordinazione di Ghino, fu messo da solo in una cameretta disagevole e con poca luce, mentre tutti gli altri uomini, secondo la loro condizione, furono comodamente alloggiati; allo stesso modo tutti cavalli e tutte le cose portate dall’abate fu messo in disparte senza toccare nulla.
Dopo ciò Ghino andò dall’abate e gli disse: «Signore, Ghino, di cui siete ospite, mi manda per sapere dove eravate diretto e il motivo per cui vi andavate».
L’abate, saggiamente, messa da parte l’alterigia, gli riferì in quale luogo fosse diretto ed il perché. Ghino, dopo averlo ascoltato, uscì e pensò di volerlo guarire senza che lui andasse alle terme; nella cameretta in cui stava l’abate fece fare e governare un fuoco ardente e il giorno dopo vi tornò e arrotolate in una tovaglietta bianchissima mise due fette di pane abbrustolito un bel bicchiere di vernaccia di Corniglia, dalle terre dello stesso abate e così disse all’abate: «Signore, quando Ghino era più giovane, studiò medicina e afferma che ha appreso una cura che nessun’altra ve n’è di migliore per il mal di stomaco di quella che lui stesso vi preparerà, di cui queste cose che vi porto sono l’inizio, perciò prendete e state di buon animo».
L’abate che aveva più fame che voglia di parlare, sebbene lo facesse con un atteggiamento un po’ sdegnoso, mangio lo stesso il pane e bevve la vernaccia e poi disse parole alterate e domandò molte cose e molte disse di dover fare e per ultimo chiese di poter vedere Ghino. Quest’ultimo, ascoltandolo, lasciò che molte parole dell’abate risuonassero vuote ad altre rispose con gentilezza e infine gli disse che, non appena Ghino avesse potuto,  sarebbe andato a salutarlo. Detto questo si allontanò e non vi tornò che il giorno dopo con lo stesso pane abbrustolito e con la stessa vernaccia e così continuò per un po’ di giorni tanto che si accorse che l’abate, di nascosto, aveva mangiato fave secche che Ghino stesso aveva portato e lasciato.
Per questo egli gli domandò da parte di Ghino come gli sembrasse andasse il suo mal di stomaco, a cui l’abate rispose: «A me sembrerebbe di star bene, se non fossi nelle sue mani e, a parte questo, non ho altra voglia che di mangiare, così bene mi hanno guarito le sue medicine».
Ghino, quindi, fatta raccogliere in una camera tutte le sue cose e l’intero suo seguito e fatta preparare una grande tavolata alla quale fu invitata tutta la famiglia di Ghino e tutti gli accompagnatori dell’abate da lui, il giorno dopo, andò e gli disse: «Signore, dal momento che state bene, è ora che voi usciate dall’infermeria», e presolo per mano lo portò nella sala che aveva allestito e qui, lasciatolo con i suoi, prestò la sua attenzione a preparare un convito sontuoso.
L’abate con i suoi accompagnatori molto si svagò e come avesse passato quei giorni raccontò loro, mentre essi al contrario gli di essere di essere stati meravigliosamente trattati da Ghino; ma giunta l’ora di mangiare, l’abate e tutti gli altri furono serviti in modo convenevole, senza che Ghino si lasciasse ancora riconoscere. Ma dopo che l’abate un po’ di giorni rimase al castello in questo modo, avendo Ghino raccolto tutti i suoi arnesi in una sala e i cavalli, sino al più misero ronzio, radunati nel cortile, andò dall’abate e gli domandò lo stato della sua salute e se si riteneva abbastanza in forma da poter cavalcare; a lui l’abate rispose che stava bene e che era guarito dal mal di stomaco e che starebbe bene qualora fosse fuori dalla prigionia in cui lo teneva Ghino.
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Ghino allora lo condusse dove aveva i suoi arnesi e tutta la sua compagnia e lo fece affacciare alla finestra da dove poteva vedere tutti i suoi cavalli e dopo gli disse: «Signor abate, voi dovete sapere che essere un nobile uomo, cacciato di casa e ridotto in povertà, l’avere molti e potenti nemici, per poter difendere la sua nobiltà e la libertà, e non per malvagità, hanno portato Ghino di Tacco, che sono io, a essere rapinatore e nemico della Chiesa. Ma, dal momento in cui vi reputo un uomo pieno di virtù, avendovi guarito dal mal di stomaco, non intendo trattarvi come qualsiasi altro al quale, quando fosse nelle mie mani, come siete voi ora, prenderei dalle sue cose tutto ciò di cui avessi voglia, ma io desidero che voi a me, considerata la mia condizione, mi diate quella parte che voi stesso volete darmi. Sono tutte qui davanti a voi e dalla finestra potete vedere i vostri cavalli; perciò prendete una parte o tutta e sia nella vostra volontà l’andare via o il voler rimanere qui».
L’abate rimase meravigliato che un rapinatore di strada avesse parle così liberali e ciò gli piacque molto: immediatamente mutando la sua ira in benevolenza, diventato dentro il suo cuore amico di Ghino, corse ad abbracciarlo, dicendo: «Giuro su Dio che per dovermi guadagnare l’amicizia di un uomo con quei valori che ormai giudico tu abbia, sarei disposto a subire un’offesa maggiore di quella che mi è parso tu abbia fatto a me. Sia maledetta la sorte che ti ha condannato ad un così deprecabile stato!» E detto ciò, prese con sé se non pochissime e necessarie cose e lo stesso fece dei cavalli, lasciando tutto il resto a Ghino, e se ne tornò a Roma.
Il papa aveva saputo del rapimento dell’abate e ne era molto preoccupato; vedendolo gli domandò se avesse ricevuto benefici dalle terme, a cui l’abate rispose con un sorriso: «Santo padre, ho trovato un bravissimo medico più vicino delle terme, che mi ha ottimamente guarito» e gli raccontò l’episodio occorsogli. Di ciò il papa rise e a lui l’abate, spinto da generosità d’animo, domandò una grazia.
Il papa, capendo che l’abate voleva domandare di più, liberamente lo pregò che glielo svelasse, allora l’abate disse: «Santo padre, quello che voglio domandarvi e che voi concediate il vostro perdono a Ghino di Tacco, mio medico, perché tra gli uomini valorosi e d’importanza che io ho incontrato nel corso della mia vita, egli è fra i più, e il male che egli fa, ritengo sia più frutto della sorte che della sua indole. Per cui se voi gli donate la vostra grazia, egli potrà vivere secondo il suo stato e non dubito affatto, cambiate le cose, che lui appaia a voi come è sembrato a me».
Il papa, sentendo questo, essendo lui stesso d’animo grande e amando perciò gli uomini valorosi, disse che l’avrebbe fatto volentieri se ciò era detto da una così degna di fede persona, e che lo facesse senza por tempo in mezzo a Roma. Giunse quindi Ghino, assicurato dalla parola del papa, secondo la volontà dell’abate, nella corte papale; né molto tempo dopo, reputandolo lo stesso papa pieno di virtù e fatto in modo che si riconciliasse con lui, lo nominò priore di un grande territorio di quelli degli Spedalieri e lo rese cavaliere; per cui lui si mantenne, finché visse amico della Chiesa e dell’abate di Clignì.

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Immagine tratta da un manoscritto che illustra la novella di Ghino di Tacco e dell’abate di Clignì

“Quiv’era l’Aretin che da le braccia / fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte” in questi due versi tratti dal Purgatorio di Dante, in cui ci ricorda come il giuriconsulto Benincasa da Laterina venne ammazzato appunto da Ghino di Tacco, ci dice forse quanto fosse popolare tale personaggio, tanto da essere sfruttato, in modo anche più ampio, dalla novella di Boccaccio.

Tuttavia nel Decameron la figura del criminale viene trasfigurata in una sorta di bandito gentiluomo, la cui vicenda si disegna sul piano della costrizione più che della scelta. Non sappiamo se sia vero il perdono del papa, ma che su di lui girassero notizie secondo le quali chiunque fosse stato rapito da lui, veniva poi rilasciato lasciandogli qualcosa con cui continuare a vivere, ne alimentò la leggenda.

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Statua rappresentante Ghino di Tacco a Radicofani

Ma a Boccaccio non serve costruire un personaggio che tanto sarebbe piaciuto alla lettura romantica, quanto invece un rappresentante di un mondo in cui la liberalità era segno distintivo di grandezza e nobiltà d’animo. Ghino di Tacco in questo è fratello di Federigo degli Alberighi, la cui generosità sarà premiata in uno con il matrimonio, nell’altro con il cavalierato. Infatti una delle parole che emerge in questa novella è il concetto di fortuna: ma dietro essa vi è sempre l’uomo e ancora al di sopra di lui, Dio. Suiamo non a caso nella decima giornata in cui è premiata la liberalità dei protagonisti; ma a liberalità è un frutto di scelta dell’uomo, che, sembra dirci Boccaccio non viene cancellata dalla storia, ma permane in lui fino ad esserne premiato.  

L’ultima novella, forse tra le più apprezzate, grazie alla traduzione latina che ne fece Petrarca, ci è raccontata dal più intemperante dei novellatori, Dioneo.

IL MARCHESE DI SANLUZZO DA’ PREGHI DE’ SUOI UOMINI COSTRETTO DI PIGLIAR MOGLIE, PER PRENDERLA A SUO MODO, PIGLIA UNA FIGLIUOLA D’UN VILLANO, DELLA QUALE HA DUE FIGLIUOLI, LI QUALI LI FA VEDUTO D’UCCIDERGLI; POI, MOSTTRANDO LEI ESSERGLI RINCRESCIUTA E AVERE ALTRA MOGLIE PRESA A CASA FACCENDOSI RITORNARE LA PROPRIA FIGLIUOLA COME SE SUA MOGLIE FOSSE, LEI AVENDO IN CAMISCIA CACCIATA E A OGNI COSA TROVANDOLA PAZIENTE, PIU’ CARA CHE MAI IN CASA TORNATALASI, I SUOI FIGLIUOLI GRANDI LE MOSTRA E COME MARCHESANA L’ONORA E FA ONORARE.
(X, 10)

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Pesellino: Le storie di Griselda (1445)

Già è gran tempo, fu tra’ marchesi di Sanluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiere avea, di che egli era da reputar molto savio. La qual cosa a’ suoi uomini non piacendo, più volte il pregarono che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliele tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere, ed esso contentarsene molto.
A’ quali Gualtieri rispose: «Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga, e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s’abbatte. E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza; con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere, né come i segreti delle madri di quelle; quantunque, pur conoscendoli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, e io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’ vostri prieghi». I valenti uomini risposon ch’eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie.

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Anonimo: Griselda svestita (1494)

Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera giovinetta che d’una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai, estimò che con costei dovesse aver vita assai consolata; e per ciò, senza più avanti cercare, costei propose di volere sposare; e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne di torla per moglie. Fatto questo, fece Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare, e disse loro: «Amici miei, egli v’è piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son disposto più per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie avessi. Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d’esser contenti e d’onorar come donna qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa, e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio, assai presso di qui, la quale io intendo di tor per moglie e di menarlami fra qui a pochi dì a casa; e per ciò pensate come la festa delle nozze sia bella, e come voi onorevolmente ricever la possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento, come voi della mia vi potrete chiamare».
I buoni uomini lieti tutti risposero ciò piacer loro, e che, fosse chi volesse, essi l’avrebber per donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna. Appresso questo, tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il simigliante fece Gualtieri. Egli fece preparare le nozze grandissime e belle, e invitarvi molti suoi amici e parenti e gran gentili uomini e altri dattorno; e oltre a questo fece tagliare e far più robe belle e ricche al dosso d’una giovane, la quale della persona gli pareva che la giovinetta la quale avea proposto di sposare; e oltre a questo apparecchiò cinture e anella e una ricca e bella corona, e tutto ciò che a novella sposa si richiedea.

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Pesellino: Incontro e matrimonio tra Gualtieri e Griselda (1445)

E venuto il dì che alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che ad onorarlo era venuto; e ogni cosa opportuna avendo disposta, disse: «Signori, tempo è d’andare per la novella sposa»; e messosi in via con tutta la compagnia sua pervennero alla villetta. E giunti a casa del padre della fanciulla, e lei trovata che con acqua tornava dalla fonte in gran fretta, per andar poi con altre femine a veder venire la sposa di Gualtieri, la quale come Gualtieri vide, chiamatala per nome, cioè Griselda, domandò dove il padre fosse; al quale ella vergognosamente rispose: «Signor mio, egli è in casa».
Allora Gualtieri smontato e comandato ad ogn’uomo che l’aspettasse, solo se n’entrò nella povera casa, dove trovò il padre di lei che aveva nome Giannucole, e dissegli: «Io son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia»; e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s’ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sì.
Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori, e in presenzia di tutta la sua compagnia e d’ogni altra persona la fece spogliare ignuda, e fattisi quegli vestimenti venire che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare, e sopra i suoi capegli così scarmigliati com’egli erano le fece mettere una corona, e appresso questo, maravigliandosi ogn’uomo di questa cosa, disse: «Signori, costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito»; e poi a lei rivolto, che di sé medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: «Griselda, vuo’ mi tu per tuo marito?»
A cui ella rispose: «Signor mio, sì».
Ed egli disse: «E io voglio te per mia moglie»; e in presenza di tutti la sposò; e fattala sopra un pallafren montare, onorevolmente accompagnata a casa la si menò. Quivi furon le nozze belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di Francia. La giovane sposa parve che co’ vestimenti insieme l’animo e i costumi mutasse. Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella: e così come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata, ma d’alcun nobile signore; di che ella faceva maravigliare ogn’uom che prima conosciuta l’avea; e oltre a questo era tanto obbediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il più contento e il più appagato uomo del mondo; e similmente verso i sudditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve n’era che più che sé non l’amasse e che non l’onorasse di grado, tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando; dicendo, dove dir solieno Gualtieri aver fatto come poco savio d’averla per moglie presa, che egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse; per ciò che niun altro che egli avrebbe mai potuto conoscere l’alta virtù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l’abito villesco. E in brieve non solamente nel suo marchesato, ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, e in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s’era contra ‘l marito per lei quando sposata l’avea.
Ella non fu guari con Gualtieri dimorata, che ella ingravidò, e al tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa. Ma poco appresso, entratogli un nuovo pensier nell’animo, cioè di volere con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, primieramente la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione, e spezialmente poi che vedevano che ella portava figliuoli; e della figliuola che nata era tristissimi, altro che mormorar non facevano.

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Charles West Cope: La prima prova della pazienza di Griselda (1849)

Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse: «Signor mio, fa di me quello che tu credi che più tuo onore e consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta, sì come colei che conosco che io sono da men di loro, e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti». Questa risposta fu molto cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata, per onor che egli o altri fatto l’avesse.
Poco tempo appresso, avendo con parole generali detto alla moglie che i sudditi non potevan patir quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il quale con assai dolente viso le disse: «Madonna, se io non voglio morire, a me conviene far quello che il mio signor mi comanda. Egli m’ha comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch’io…» e non disse più.
La donna, udendo le parole e vedendo il viso del famigliare, e delle parole dette ricordandosi, comprese che a costui fosse imposto che egli l’uccidesse; per che prestamente presala della culla e baciatala e benedettala, come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli: «Te’: fa compiutamente quello che il tuo e mio signore t’ha imposto; ma non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse». Il famigliare, presa la fanciulla, e fatto a Gualtieri sentire ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi egli della sua costanzia, lui con essa ne mandò a Bologna ad una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si fosse, diligentemente l’allevasse e costumasse.
Sopravenne appresso che la donna da capo ingravidò, e al tempo debito partorì un figliuol maschio, il che carissimo fu a Gualtieri; ma, non bastandogli quello che fatto avea, con maggior puntura trafisse la donna, e con sembiante turbato un dì le disse: «Donna, poscia che tu questo figliuol maschio facesti, per niuna guisa con questi miei viver son potuto, sì duramente si ramaricano che uno nepote di Giannucole dopo me debba rimaner lor signore; di che io mi dotto, se io non ci vorrò esser cacciato, che non mi convenga far di quello che io altra volta feci, e alla fine lasciar te e prendere un’altra moglie». La donna con paziente animo l’ascoltò, né altro rispose se non: «Signor mio, pensa di contentar te e di sodisfare al piacer tuo, e di me non avere pensiere alcuno, per ciò che niuna cosa m’è cara se non quant’io la veggo a te piacere».
Dopo non molti dì Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato avea per la figliuola, mandò per lo figliuolo, e similmente dimostrato d’averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatto avesse; di che Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niun’altra femina questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe. I sudditi suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo crudele uomo, e alla donna avevan grandissima compassione; la quale con le donne, le quali con lei de’ figliuoli così morti si condoleano, mai altro non disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea.
Ma, essendo più anni passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare l’ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de’ suoi disse che per niuna guisa più sofferir poteva d’aver per moglie Griselda e che egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l’aveva presa, e per ciò a suo poter voleva procacciar col papa che con lui dispensasse che un’altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni uomini fu molto ripreso. A che null’altro rispose, se non che convenia che così fosse. La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto e vedere ad un’altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in sé medesima si dolea; ma pur, come l’altre ingiurie della fortuna avea sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere.
Non dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue lettere contraffatte da Roma, e fece veduto a’ suoi sudditi il papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e lasciar Griselda. Per che, fattalasi venir dinanzi, in presenza di molti le disse: «Donna, per concession fattami dal papa, io posso altra donna pigliare e lasciar te; e per ciò che i miei passati sono stati gran gentili uomini e signori di queste contrade, dove i tuoi stati son sempre lavoratori, io intendo che tu più mia moglie non sia, ma che tu a casa Giannucole te ne torni con la dote che tu mi recasti, e io poi un’altra, che trovata n’ho convenevole a me, ce ne menerò».
La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne le lagrime, e rispose: «Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io stata son con voi, da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni, ma sempre l’ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi; ecco il vostro anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dote me ne porti che io ci recai, alla qual cosa fare, né a voi pagator né a me borsa bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m’è che ignuda m’aveste: e se voi giudicate onesto che quel corpo, nel qual io ho portati figliuoli da voi generati, sia da tutti veduto, io me n’andrò ignuda; ma io vi priego, in premio della mia verginità, che io ci recai e non ne la porto, che almeno una sola camiscia sopra la dote mia vi piaccia che io portar ne possa».
Gualtieri, che maggior voglia di piagnere avea che d’altro, stando pur col viso duro, disse: «E tu una camiscia ne porta».
Quanti dintorno v’erano il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei, che sua moglie tredici anni e più era stata, di casa sua così poveramente e così vituperosamente uscire, come era uscirne in camicia; ma in vano andarono i prieghi; di che la donna, in camiscia e scalza e senza alcuna cosa in capo, accomandatili a Dio, gli uscì di casa, e al padre se ne tornò con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro. Giannucole, che creder non avea mai potuto questo esser vero che Gualtieri la figliuola dovesse tener moglie, e ogni dì questo caso aspettando guardati l’aveva i panni che spogliati s’avea quella mattina che Gualtieri la sposò; per che recatigliele ed ella rivestitiglisi, ai piccoli servigi della paterna casa si diede, sì come far soleva, con forte animo sostenendo il fiero assalto della nimica fortuna.
Come Gualtieri questo ebbe fatto, così fece veduto a’ suoi che presa aveva una figliuola d’uno dei conti da Panago; e faccendo fare l’appresto grande per le nozze, mandò per Griselda che a lui venisse, alla quale venuta disse: «Io meno questa donna la quale io ho nuovamente tolta, e intendo in questa sua prima venuta d’onorarla; e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciare le camere né fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono; e per ciò tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello che da far ci è, e quelle donne fa invitare che ti pare, e ricevile come se donna di qui fossi; poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare».
Come che queste parole fossero tutte coltella al cuore di Griselda, come a colei che non aveva così potuto por giù l’amore che ella gli portava, come fatto avea la buona fortuna, rispose: «Signor mio, io son presta e apparecchiata». Ed entratasene co’ suoi pannicelli romagnuoli e grossi in quella casa, della qual poco avanti era uscita in camicia, cominciò a spazzare le camere e ordinarle, e a far porre capoletti e pancali per le sale, a fare apprestare la cucina, e ad ogni cosa, come se una piccola fanticella della casa fosse, porre le mani; né mai ristette che ella ebbe tutto acconcio e ordinato quanto si convenia. E appresso questo, fatto da parte di Gualtieri invitare tutte le donne della contrada, cominciò ad attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse poveri in dosso, con animo e con costume donnesco tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto viso, ricevette.
Gualtieri, il quale diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente, che maritata era in casa de’ conti da Panago, essendo già la fanciulla d’età di dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse, e il fanciullo era di sei, avea mandato a Bologna al parente suo, pregandol che gli piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Saluzzo, e ordinare di menare bella e orrevole compagnia con seco, e di dire a tutti che costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa ad alcuno chi ella si fosse altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino, dopo alquanti dì con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l’ora del desinare giunse a Saluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini dattorno trovò, che attendevan questa novella sposa di Gualtieri. La quale dalle donne ricevuta, e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così come era, le si fece lietamente incontro dicendo: «Ben venga la mia donna». Le donne (che molto avevano, ma invano, pregato Gualtieri che o facesse che la Griselda si stesse in una camera, o che egli alcuna delle robe che sue erano state le prestasse, acciò che così non andasse davanti a’ suoi forestieri) furon messe a tavola, e cominciate a servire. La fanciulla era guardata da ogn’uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio; ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino.
Gualtieri, al qual pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pazienza della sua donna, veggendo che di niente la novità delle cose la cambiava, ed essendo certo ciò per mentecattaggine non avvenire, per ciò che savia molto la conoscea, gli parve tempo di doverla trarre dell’amaritudine, la quale estimava che ella sotto il forte viso nascosa tenesse. Per che, fattalasi venire, in presenzia d’ogn’uomo sorridendo le disse: «Che ti par della nostra sposa?»
«Signor mio», rispose Griselda «a me ne par molto bene; e se così è savia come ella è bella, che ‘l credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato signore del mondo; ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all’altra, che vostra fu, già deste, non diate a questa; ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sì perché più giovane è, e sì ancora perché in dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata».
Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato, e disse: «Griselda, tempo è omai che tu senta frutto della tua lunga pazienza, e che coloro, li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale, conoscano che ciò che io faceva, ad antiveduto fine operava, vogliendo a te insegnar d’esser moglie e a loro di saperla torre e tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi; il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non mi intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal mio piacer partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te ad una ora ciò che io tra molte ti tolsi, e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi; e per ciò con lieto animo prendi questa, che tu mia sposa credi, e il suo fratello: sono i nostri figliuoli, li quali e tu e molti altri lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo marito, il quale sopra ogn’altra cosa t’amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com’io, si possa di sua moglie contentare».
E così detto, l’abbracciò e baciò, e con lei insieme, la qual d’allegrezza piagnea, levatosi, n’andarono là dove la figliuola tutta stupefatta queste cose ascoltando sedea, e abbracciatala teneramente e il fratello altressì, lei e molti altri che quivi erano sgannarono. Le donne lietissime levate dalle tavole, con Griselda n’andarono in camera, e con migliore augurio trattile i suoi pannicelli, d’una nobile roba delle sue la rivestirono, e come donna, la quale ella eziandio negli stracci pareva, nella sala la rimenarono. E quivi fattasi co’ figliuoli maravigliosa festa, essendo ogn’uomo lietissimo di questa cosa, il sollazzo e ‘ festeggiare multiplicarono e in più giorni tirarono; e savissimo reputaron Gualtieri, come che troppo reputassero agre e intollerabili l’esperienze prese della sua donna; e sopra tutti savissima tenner Griselda.
Il conte da Panago si tornò dopo alquanti dì a Bologna, e Gualtieri, tolto Giannucole dal suo lavorio, come suocero il puose in istato, che egli onoratamente e con gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza. Ed egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato visse. Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l’avesse in camicia cacciata, s’avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba.

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Esilio di Griselda (1494)

Molto tempo fa,  un giovane chiamato Gualtieri fu tra i marchesi di Saluzzo il capo della famiglia, il quale non avendo moglie né figlioli, in nessuna altra cosa trascorreva il suo tempo se non andando a caccia di uccelli e di selvaggina, e non aveva nessuna intenzione né di prendere moglie né di avere figli, cosa per cui egli era reputato molto saggio. Questa cosa ai suoi sudditi non piaceva e più volte lo pregarono di prender moglie affinché lui non rimanesse senza eredi ed essi senza signore, dichiarandosi pronti a trovare per lui una donna tanto nobile e gentile e figlia di padre e madre tali che si potesse nutrire buona speranza e ne potesse rimanere molto soddisfatto.
A questi Gualtieri rispose: «Amici miei, non mi costringete a fare quello che io avevo deliberato di non fare mai, considerando come sia difficile trovare chi si accordi alle proprie abitudini, e quanto grande sia la quantità del contrario e come sia dura la vita di colui che si imbatte in una donna non adatta a lui. Ed è una sciocchezza dire che voi crediate di conoscere le figlie dai costumi dei padri e delle madri e da qui argomentare di trovarmene una che mi piacerà, perché io non so come possiate conoscere i loro padri e i segreti delle loro madri e, pur conoscendoli, spesse volte accade che le figliole siano molto diverse dai padri e dalle madri. Ma dal momento in cui a voi piace mettermi le catene, ecco che vi voglio accontentare; e affinché non debba poi lamentarmi con altri se non con me stesso, se la cosa dovesse riuscire male, io stesso voglio individuare la fanciulla da sposare, dichiarandovi in modo esplicito che chiunque sia la donna che sposerò, se non sarà rispettata da voi come signora, voi sperimenterete a vostro danno quali possano essere gravi le conseguenze dell’avere io preso moglie contro i miei desideri, in base alle vostre sollecitazioni». I valenti nobiluomini risposero che erano d’accordo, a patto che lui stesso si inducesse a prender moglie.
Da molto tempo erano piaciuti a Gualtieri i modi di una povera giovinetta di un villaggio vicino a casa sua e sembrandogli molto bella credette che con lei avrebbe potuto avere una vita assai felice. E per questo, senza cercare ulteriormente, propose di volerla sposare e fattosi chiamare il padre, che era poverissimo, si accordò con lui per prenderla come moglie.
Fatto questo, Gualtieri fece riunire tutti i suoi amici dei dintorni e disse loro: «Amici miei, vi è piaciuto e vi piace che io mi decida a prender moglie , e io mi sono deciso più per accontentarvi che per il desiderio di avere moglie. Voi sapete quello che mi avete promesso, cioè di essere contenti e onorare come vostra signora chiunque io sposi; e per questo è venuto il tempo che io vi mantenga la promessa, e voglio che voi la manteniate a me. Io ho trovato qua vicino una giovane secondo il mio desiderio, che io intendo prendere per moglie e condurla  a casa fra pochi giorni, e per questo pensate ad organizzare una bella festa e a riceverla con tutti gli onori, dimostrandomi che io mi possa ritenere soddisfatto della vostra parola come voi possiate ritenervi soddisfatti della mia».
I nobiluomini risposero che gradivano ciò che il marchese aveva deciso e che la donna fosse chi volesse lui e che essi l’avrebbero accettata come padrona e l’avrebbero adorata in ogni occasione come signora; e dopo ciò tutti si prepararono per fare una bella, grande e straordinaria festa, e lo stesso fece Gualtieri. Egli fece preparare nozze assai sfarzose e belle, invitò molti suoi amici, parenti e nobili importanti e altra gente del circondario; e oltre a questo fece tagliare molti vestiti eleganti e preziosi sul modello di una giovane che gli sembrava simile, nella persona, alla ragazza che aveva deciso di sposare, e oltre a ciò preparò cinture e anelli e una ricca e bella acconciatura e tutto ciò che si riteneva opportuno per una nuova sposa.
Giunto il giorno stabilito per le nozze, Gualtieri alle sette e mezza del mattino montò a cavallo e con lui tutti coloro che erano venuti a fargli onore e, avendo preparato ogni cosa, disse: «Signori è ormai tempo di andare a prendere la sposa» e messosi in cammino con tutti i suoi invitanti giunsero fino alla piccola fattoria. Arrivati a casa del padre della fanciulla e trovatala che stava tornando dalla fonte con una brocca d’acqua e s’affrettava, per poi andare a vedere insieme alle altre compagne la sposa di Gualtieri, appena questi la vide la chiamò per nome, cioé Griselda, e le domandò dove fosse suo padre al quale lei rispose timidamente: «Mio signore, è in casa». Gualtieri smontò allora da cavallo, fece segno a tutti d’attendere ed entrò nella casupola, dove trovò Giannucole, il padre di Griselda, e gli disse: «Sono qui per sposare tua figlia, ma prima voglio che lei mi dica una cosa qui in tua presenza» e le domandò se sempre, una volta presa per moglie, si preoccupasse di compiacergli e di non turbarsi per nessuna cosa egli avrebbe detto o fatto, se gli sarebbe stata sempre ubbidiente, e altre cose simili, alle quali richieste lei rispose di sì.
Allora Gualtieri prendendola per mano, la condusse fuori e in presenza di tutta la sua compagnia e di ogni persona che stava li a guardare, la fece spogliare nuda e fattosi portare quegli abiti che aveva fatto preparare, immediatamente la fece vestire e calzare, e sui capelli. così com’erano, scarmigliati, le fece posare il diadema e dopo questo, tra la meraviglia generale, disse: «Signori, lei è quella che io desidero come mia moglie, purché ella mi voglia per marito». Poi a lei rivolto, che se ne stava titubante e vergognosa di se medesima, le chiese: «Griselda, mi vuoi per tuo marito?»
A cui ella rispose: «Signor mio, sì».
E lui le disse: «Ed io voglio te per mia moglie» e, in presenza di tutti, la sposò. E fattala montare su un cavallo e se la portò a casa con tutti gli onori.
Qui le nozze furono splendide e maestose, e lo stesso fu la festa non diversamente se Gualtieri avesse sposato la figlia del re di Francia.
La giovane sposa sembrò che cambiasse insieme con i vestiti anche il suo carattere e i suoi modi. Lei era come già abbiamo detto molto bella sia di corpo che di viso e così come era bella divenne tanto elegante e disinvolta che non sembrava più essere stata  la figlia di Giannucole  e custode di pecore, ma quella di un nobile  signore, e perciò lei suscitò la meraviglia in tutti quelli che l’avevano conosciuta  prima.  E oltre a ciò era  così obbediente e servizievole verso il marito che lui si sentiva l’uomo più felice ed appagato del mondo; e nello stesso modo  era tanto gentile e benevola verso i sudditi che non c’era nessuno che non l’amasse più di se stesso e non la onorasse volentieri; e tutti pregavano per la sua salute, la sua fortuna e la sua prosperità, affermando, quando prima si era soliti dire che Gualtieri , prendendola in moglie, si era comportato in modo poco avveduto, che egli era il più saggio e il più previdente uomo che si fosse al mondo, per ciò che nessun altro, se non lui, avrebbe mai potuto conoscere l’alta virtù di lei nascosta sotto poveri panni ed un abito contadino.
Ed essendo passato poco tempo dal suo matrimonio, non solamente nel suo marchesato ma dappertutto, seppe ella così comportarsi che fece in modo si ragionasse del suo valore e del buon operato e fece ritirare e correggere i giudizi contrari che erano stati formulati contro il marito, a causa sua, quando l’aveva sposata.
Non molto tempo dopo che ella era vissuta con Gualtieri, rimase incinta e dopo nove mesi partorì una bambina, e per questo Gualtieri fece una gran festa.
Ma poco dopo, venutogli nella mente un pensiero bizzarro, cioè di volere con un lungo esperimento e con intollerabili prove saggiare la pazienza di lei. in primo luogo la offese con male parole mostrandosi arrabbiato e dicendo che i suoi sudditi non erano affatto contenti di lei a causa della sua bassa condizione e specialmente ora che lei generava figli ed erano addoloratissimi che era nata una femmina, tanto che non  facevano altro che mormorare.
La donna, ascoltando queste parole, senza cambiare l’espressione del viso o i buoni propositi alla base di ogni suo comportamento, disse: «Signor mio, fa’ di me quello che sia più consono al tuo onore e alla tua consolazione, perché io sarò soddisfatta di tutto essendo una che, come so, sono inferiore a loro e che io non ero degna di questo onore al quale tu, per tua generosità, mi hai offerto».
Questa risposta fu molto gradita a Gualtieri, riconoscendo che lei non si era assolutamente insuperbita a causa degli onori che da lui o da altri aveva ricevuto.
Poco tempo dopo, avendo detto con parole generiche che i sudditi non potevano sopportare quella fanciulla che aveva partorito, addestrato un suo servo lo mandò a lei, il quale con un viso dolorante, le disse: «Signora, se non voglio morire devo fare quello che il mio signore mi comanda. Egli mi ha comandato che io prenda questa vostra figliola e che io … » e non aggiunse altro.
La donna, ascoltando le parole e vedendo il viso del servo, e ricordandosi di ciò (che Gualtieri le aveva detto), comprese che a costui fosse stato imposto di ucciderla; per cui immediatamente, sollevatala dalla culla la baciò e la benedisse, e benché nel cuore provasse un grande dolore, senza mutare espressione, la diede in braccio al servo e gli disse: «Tieni: fa’ fino in fondo quello che il tuo e il mio signore ti ha imposto, ma non lasciarla in modo che le bestie e gli uccelli la divorino, sempre che lui non te lo comandasse».
Il servo, presa la fanciulla, riferito a Gualtieri ciò che la donna aveva detto e meravigliandosi molto della sua fermezza, lo mandò con la piccola a Bologna da una sua parente, pregandola, senza mai dirle di chi fosse figlia, di allevarla in maniera diligente e di educarla.
Accadde in seguito che la donna rimase di nuovo incinta e dopo nove mesi partorì un maschio, di che fu contentissimo Gualtieri; ma non bastandogli quello che aveva fatto prima, colpì la donna con maggiori insulti, e con un atteggiamento offeso un giorno le disse: «Donna, dopo che hai partorito questo figlio maschio, non ho potuto stare in alcun modo con i miei vassalli, così aspramente si lamentano che un nipote di Giannucole debba diventare, dopo la mia morte, loro signore; pertanto io temo che, se non voglio essere cacciato dalla mia terra, mi convenga fare quello che ho già fatto un’altra volta, e alla fine lasciare te e prendere un’altra moglie».
La donna lo ascoltò con pazienza e non rispose altro se non: «Signor mio, preoccupati di rendere felice te e di soddisfare il tuo piacere e non pensare a me, dal momento che nessuna cosa  mi è cara se non quando la vedo gradita a te».
Dopo non molti giorni, nella stessa maniera che aveva mandato a prelevare la figlia, o fece per il figlio e allo stesso modo, mostrando di averlo fatto ammazzare, lo mandò a Bologna per allevarlo, come prima aveva fatto con la fanciulla; e di questo fatto la donna non fece altro viso né disse altre parole che avesse fatto con l’episodio della figlia; di ciò Gualtieri si stupiva molto e affermava tra sé che nessuna donna poteva fare quello che lei faceva e se non fosse che l’aveva vista affezionatissima ai figli, finché a lui piaceva, avrebbe creduto che ciò dipendesse dal fatto che non se ne curava, mentre riconobbe che così faceva per la sua saggezza.
I suoi sudditi, credendo che egli avesse fatto uccidere i figli, lo rimproveravano aspramente e lo ritenevano un uomo crudele e avevano una grandissima compassione verso la donna; la quale, con le altre donne che con lei condividevano il dolore per i figli così uccisi, non disse altro se non che a lei stava bene ciò che piaceva a lui che li aveva generati.
Ma essendo passati abbastanza anni dalla nascita della fanciulla, sembrando a Gualtieri che fosse giunto il momento di fare l’ultima prova della paziente capacità di sopportazione di lei, disse a molti suoi vassalli che non poteva più in alcun modo sopportare di avere Griselda per moglie, e che capiva di aver agito male e per inesperienza giovanile quando l’aveva sposata, e che perciò voleva ottenere dal papa, con il suo prestigio, la dispensa di poter lasciare Griselda e sposare un’altra donna; cosa di cui lui stesso da valentissimi uomini fu molto rimproverato. Al che non rispose niente altro che era necessario che si facesse così.
La donna, avendo sentito queste cose, sembrandole che si dovesse aspettare di ritornare a casa dal padre e forse a governare le pecore come in passato, e vedere che un’altra donna aveva per marito l’uomo al quale voleva tutto il bene di cui era capace, molto si rammaricava dentro di sé, ma pure come aveva sostenuto le altre avversità così, con viso risoluto, si dispose a dover sostenere anche questa.
Non dopo molto tempo Gualtieri fece arrivare le sue lettere contraffatte da Roma e lasciò credere ai suoi sudditi attraverso queste che il papa gli aveva concesso la dispensa e di poter prendere un’altra moglie, lasciando Griselda; per cui, chiamatala al suo cospetto, alla presenza di molti, le disse: «Donna, per una concessione fattami dal papa io posso prendere un’altra donna e lasciare te; e dal momento che i miei antenati sono stati degli aristocratici e nobili di questi luoghi, dal momento che i tuoi sono sempre stati contadini, voglio che tu non sia più mia moglie ma che tu te ne torni a casa di Giannucolo con la dote che mi hai portato, e poi un’altra, che ho trovato della mia classe, la condurrò qui come moglie».
La donna, ascoltando queste parole, non senza una grandissima fatica, al di là della natura femminile, trattenne le lacrime e rispose: «Signor mio, ho sempre saputo che la mia bassa condizione non era assolutamente conveniente alla vostra nobiltà e quello che io sono stata con voi l’ho sempre riconosciuto come dono vostro e di Dio, né mai proprio come dono, lo feci mio o lo trattenni, ma sempre lo considerai come un prestito, e anche a me deve piacere e mi piace rendervelo: ecco l’anello con il quale mi sposaste, prendetevelo. Mi ordinate che io me ne vada con quella dote che vi ho recato: per fare ciò né voi avete bisogno di un servitore adibito a pagare né io di borsa o bestia da soma, perché non mi sono dimenticata che mi avete preso nuda; e se voi giudicate cosa onesta che quel corpo nel quale io ho portato i figlioli da voi generati sia visto da tutti, me ne andrò nuda; ma io vi prego, in premio della mia verginità che vi ho portato e che non posso portar via, che almeno una sola camicia sopra la mia dote vi piaccia che io possa portare».
Gualtieri, che non aveva altra voglia che quella di piangere, pur rimanendo con un atteggiamento altero, disse: «E tu, vattene con una camicia».
Tutti quelli che avevano osservato ciò, lo pregavano di darle almeno un abito, che non si vedesse colei che per sua moglie era stata per tredici anni o più nella sua casa, uscire così poveramente e così ingiuriosamente, come era appunto uscire con una semplice camicia; ma inutili furono le preghiere, per cui la donna, in camicia, scalza e senza nulla in capo, dopo averlo raccomandato a Dio, uscì dalla sua casa e se ne tornò dal padre, con le lacrime e con il pianto di tutti coloro che la videro andar via. Giannucolo, che non aveva mai potuto credere che fosse vero che Gualtieri dovesse trattenere la figliola come moglie, e aspettandosi da un giorno all’altro che questo che gli era capitato avvenisse, gli aveva conservato i vestiti che quella mattina che Gualtieri la sposò le aveva tolto; per cui ripresi i vestiti e rivestita, si dedicò ai piccoli servizi nella casa del padre, così come era stata abituata a fare, sostenendo con grande fortezza d’animo il feroce assalto della fortuna nemica.
Dopo che Gualtieri ebbe fatto questo, fece credere ai suoi sudditi di aver preso una figliola da uno dei conti di Panico e facendo fare grandi  preparativi per le nozze mandò qualcuno a chiamare Griselda e a lei, dopo esser giunta, disse: «Io conduco questa donna alla quale mi sono nuovamente legato con una solenne promessa di nozze e intendo farle onore in questa sua prima visita; tu sai che non ho in casa donne che mi sappiano preparare le camere né fare molte altre cose che sono richieste per un così grande evento: e perciò tu,che sai meglio di qualunque altra persona delle cose di casa, metti in ordine quello che c’e da mettere in ordine e chiama quelle donne che ti servono e ricevile come se fossi la padrona di questa casa; poi, celebrate le nozze, te ne potrai tornare a casa».
Nonostante queste parole fossero tutte colpi al cuore di Griselda, poiché non aveva potuto deporre l’amore che gli portava, come invece le accadde con la sorte, rispose: «Signor mio, sono pronta e disponibile». E entrata in quella casa coi suoi miseri e dozzinali  abiti, dalla quale era uscita poco tempo prima in camicia, cominciò a pulire le camere e a far porre drappi sulle pareti e in capo ai letti e tappeti sulle panche nelle varie sale, e a far attrezzare la cucina e porre mani a tutte le altre incombenze, come se fosse una piccola servetta della casa; né mai si fermò, prima di avere tutto sistemato e ordinato come era necessario.
Dopo questo, fatte invitare da Gualtieri tutte le donne del circondario, si cominciò a preparare la festa; e venuto il giorno delle nozze, sebbene avesse poveri panni addosso, con animo e atteggiamento signorile tutte le donne che giunsero alla cerimonia ricevette con cortesia.
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Griselda nell’interpretazione inglese

Gualtieri, il quale aveva fatto allevare con diligenza dalla sua parente, che era sposata con uno dei conti di Panico, i figli da Bologna, essendo già la fanciulla di dodici anni di una straordinaria bellezza, e il fanciullo avendo raggiunto i sei anni, aveva mandato un servo a Bologna dal suo parente pregandolo di venire con questa figliola e con questo figlio a Saluzzo e di portare con sé una bella e onorevole compagnia, e di dire a tutti che lui gli stava portando questa fanciulla per moglie, senza dire ad alcuno chi ella fosse realmente.
Il gentiluomo, fatto come il marchese desiderava, messosi in cammino, dopo diversi giorni con la fanciulla, col fratello e con una nobile compagnia, verso l’ora di cena giunse a Saluzzo, dove trovò tutti gli abitanti del paese e di altre località vicine che aspettavano questa nuova sposa di Gualtieri.
Questa, ricevuta dalle donne, e giunta nella sala dove erano state apparecchiate le tavole, venne accolta da Griselda, così come era, che le si fece incontro con viso lieto dicendo: «Benvenuta mia signora». Alle donne, che avevano molto ma inutilmente pregato Gualtieri di fare in modo che Griselda rimanesse in una stanza o che le prestasse qualcuno dei vestiti che erano già stati suoi affinché non andasse così davanti agli ospiti, fu ordinato di apprestarsi alla tavola e di iniziare a servire.
La fanciulla era osservata da tutti gli uomini e ciascuno di loro diceva che Gualtieri aveva fatto uno scambio vantaggioso, ma fra gli altri anche Griselda la lodava molto, sia lei che il suo fratellino.
Gualtieri, al quale sembrava di avere ormai visto e sperimentato tutto ciò che desiderava riguardo alla mansuetudine della sua donna, constatando che nessun cambiamento la scalfiva, ed essendo sicuro che questo accadeva non per la stupidità di Griselda, dal momento che la conosceva come donna molto saggia, gli parve fosse giunto il momento di liberarla dalle sofferenze che egli credeva che ella nascondesse dietro il suo atteggiamento impassibile. Per cui, fattala venire vicino a sé, in presenza degli altri uomini, sorridendole disse: «Che ti sembra della nostra sposa?».
«Signor mio,» rispose Griselda «a me sembra molto bella e se è così saggia quanto bella, cosa che credo, io non dubito assolutamente che voi vivrete con lei come il più felice uomo del mondo; ma per quanto posso, che quei dolori, che avete inferto all’altra che fu già vostra moglie, non diate a lei, perché io credo che ella li possa sostenere appena perché è più giovane e perché è stata allevata signorilmente, mentre l’altra era stata abituata alle fatiche sin da piccolina».
Gualtieri, vedendo che lei sicuramente credeva che questa fanciulla dovesse essere sua moglie e nonostante questo non ne parlasse meno bene, la fece sedere accanto a lui e disse: «Griselda, è arrivato il momento in cui tu possa godere il frutto della tua lunga pazienza, e tutti quelli che mi hanno reputato crudele, ingiusto e feroce conoscano che ciò che io ho fatto mirava a un fine prestabilito, volendo insegnare a te ad essere moglie e ai sudditi di saper scegliere e mantenerne una, e a me procurare una perpetua pace per tutto il tempo in cui dovessi vivere con te, il che quando ti scelsi come moglie ebbi una gran paura che non mi capitasse e per questo, per metterti alla prova in tutti i modi che tu sai, ti ho ferito e offeso. Ma io non mi sono mai accorto che in qualche parola o in qualche atto tu ti sia allontanata dal mio amore, sembrandomi aver da te quella consolazione che desideravo, intendendo rendere in un solo attimo  ciò che io in molto tempo ti tolsi, e con estrema dolcezza ristorarti dalle ingiurie che ti feci; e perciò con lieto animo guarda questa, che tu credi essere mia sposa, e il suo fratello: sono i nostri figli, i quali tu e molti altri avete a lungo creduto che io avessi fatto uccidere; e io sono tuo marito, che ti ama sopra ogni altra cosa dal momento che credo di potermi vantare che nessuno al mondo si possa dire contento e soddisfatto di sua moglie quanto me».
E così detto l’abbracciò e la baciò e con lei insieme, che piangeva per la gioia, alzatisi andarono là dove la figlia, completamente stupefatta, sedeva ascoltando queste cose e l’abbracciarono teneramente, facendo lo stesso con il fratello, e disingannarono lei e molti altri che era giunti sin qui.
Le donne, felicissime, uscendo dalla sala andarono in camera con Griselda e con i migliori auguri le tolsero i suoi poveri panni e la rivestirono di un nobile abito fra quelli che aveva e come signora, la quale sembrava ugualmente nei poveri stracci, la riportarono nella sala.
E qui, fatta una meravigliosa festa con i figlioli, essendo tutti felicissimi per questa cosa, il divertimento e i festeggiamenti si moltiplicarono e si prolungarono per più giorni, e si reputò Gualtieri uomo estremamente saggio, le cui ingiustizie verso la sua donna prima avevano considerato crudeli e intollerabili, ma sopra tutti considerarono Griselda saggissima.
Il conte di Panico, dopo qualche giorno, tornò a Bologna e Gualtieri, tolto Giannucolo dal suo lavoro, come suocero lo mise in una condizione agiata tanto che egli, in modo onorevole, e con gran consolazione, visse fino a che morì. Lui stesso, dopo, maritata nobilmente la sua figliola, lungamente e con consolazione visse con Griselda, onorandola quanto più avrebbe potuto.
Che cosa si potrà dire qui, se non che nelle povere case arrivano dal cielo degli spiriti divini, come nelle case reali di quelli che sarebbero più degni di governare maiali che di avere il dominio sugli altri uomini? Chi avrebbe, se non Griselda, potuto con il viso non solamente mai bagnato da una lacrima, ma sereno, sopportare le rigide e mai udite prove inflittele da Gualtieri? E questo Gualtieri, forse, si sarebbe invece meritato di imbattersi in una donna che, cacciata da lui di casa con soltanto una camicia addosso, avrebbe avuto rapporti con un altro in modo da ricavare una bella veste.

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Illustrazione in cui vediamo Gualtieri, Griselda e Giannucolo

La novella di Griselda può assumere più letture, vista la sua complessità interpretativa; ma prima di addentrarci in esse, ci sembra giusto osservarla da un punto di vista strutturale all’interno dell’intera opera: come infatti nella I, 1, quella iniziale su ser Cepperello leggevamo la massima depravazione, quasi fossimo nel punto più basso di degradazione umana portata al rinnegamento/capovolgimento del sacramento della confessione, in quella di Griselda, appunto X, 10, quindi la finale ci troviamo nel massimo della virtù, quella appunto della cancellazione di sé per lei.

Le interpretazioni sulla novella sono tre:

  1. la prima ce la fornisce Petrarca stesso che, come abbiamo detto, ne ha fatto una traduzione; riprendendo le Storie di Giobbe di biblica memoria, Boccaccio ha fatto di Griselda l’esempio della rinuncia per volere di Dio. Dio dà all’uomo prove d’incredibile sopportazione, avendo in mente un disegno di cui solo Lui sa il fine. Se l’uomo le supera otterrà il premio dovuto. Quindi Gualtieri come Dio, Griselda come Giobbe o Maria Vergine.
  2. La seconda ce la offre l’analisi sulla fiaba di Vladimir Propp; la novella ha tutte le caratteristiche della fiaba: ad iniziare dalla svestizione, dalle prove da superare e il lieto fine. (elemento portante, inoltre, è la presenza dell’anello, onnipresente nelle fiabe, nella versione fatata);
  3. La versione sociologica: la novella presenta l’obbedienza cieca che un suddito doveva al feudatario, non per niente è ambientata in un tempo lontano e in luogo dove, al tempo di Boccaccio, ignari dei cambiamenti sociali, ancora persisteva. Ma si chiude anche con la vittoria della borghesia, cioè con un matrimonio sulla cui base vi è l’amore d’entrambi e la costruzione di una famiglia.   

 

Abbiamo già detto, sebbene in modo piuttosto sintetico, quali sono state le fonti di cui Boccaccio si è servito per scrivere il suo capolavoro ma ora è interessante, dopo aver visto alcune novelle, riprendere il discorso sottolineando il motivo per cui lo ha pensato, quali sono stati gli argomenti maggiormente trattati e se ha cercato, nella varietà delle novelle, d’utilizzare uno stile che potesse variare, ma nel contempo non inficiare l’architettura complessiva dell’opera.

L’opera ha un fine edonistico, procurare piacere a chi lo legge (le donne), ma anche didascalico, insegnar loro delle regole di vita attraverso gli exempla che le stesse novelle potevano offrire. Certo il primo fine si può ottenere proprio dall’atto stesso del narrare: il sentire storie è piacevole in sé, mostra cose del mondo che si ignorano nel tempo, nello spazio e nella morale, ma è proprio dal continuo raffronto tra il mondo e i lettori, oltre ad interessare ora e quindi provare diletto, s’impara dallo stesso a trovare o a evitare atteggiamenti, facendoli propri, ma non venendo mai meno al mondo ideale che i dieci novellatori hanno creato.

Se proprio questi dieci ragazzi sono gli espositori di racconti tratti dalla vita, l’autore (narratore di primo grado) oltre che costruire intorno a loro una ferrea struttura, non si prende la responsabilità di prendere la parola, ma li usa come schermo al fine d’allontanare la materia trattata per poterla osservare con più attenzione, cogliendo l’universo mondo, allo stesso modo di come lo aveva colto il suo dichiarato maestro, Dante.

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I dieci novellatori nel film dei Taviani

Ed è proprio a Dante a cui bisogna guardare per capire l’identità e la differenza tra i due capolavori trecenteschi: 10 gironi a cantica, 10 giornate e 10 giovani (tre ragazzi e tre ragazze, ad indicare – in modo inconsapevole? – le tre virtù teologali e le sette cardinali – ma ci piace aggiungere che la sottolineatura dei critici poco ci convince), 100 novelle, 100 canti: ma se il tomistico Dante da tale regola non scantona, il laico Boccaccio ci sta stretto: 10 giornate a cui 2 a tema libero; Dioneo che racconta sempre quello che gli pare, le novelle non sono 100 ma 101 se si ci mette anche quella delle papere (raccontata dal narratore di primo grado). 

Torniamo per un attimo alla cornice: non è semplicemente costituita dal Proemio, dall’Introduzione alla I e alla IV giornata e dalla Conclusione: essa s’insinua anche all’interno di ogni giornata in cui l’autore ci illustra la vita (stereotipata, certo, ma anche ordinata) dei dieci novellatori, nonché la conclusione di ognuna di esse che viene celebrata alla fine dei racconti con una ballata e dopo con la nomina della regina o del re che detterà l’argomento da trattare il giorno seguente. Perché tale bisogno di inserire il tutto in uno schema così perfetto? Per un bisogno d’armonia interna: se fino ad allora, nella tradizione novellistica i racconti si seguivano uno dopo l’altro, qui essi s’inseriscono all’interno di un tempo e di un tema; ma anche questo ha bisogno di una pur minima graffiatura. Ciò non inficia l’armonia, ma la rafforza se gestisco le due libere nella prima, quasi ad introdurre il lettore alla varietà dell’opera e alla nona, ad invitarlo a respirare prima dell’apoteosi della liberalità e cortesia dell’ultima; se il libero Dioneo obbedisce al tema dettato o no e se lo stesso, dopo esser stato per tutta l’opera il più irriverente e scanzonato nelle novelle raccontate, chiude con la più drammatica e perfetta che Petrarca  traduce e Chauser  riprende: Griselda

Passiamo quindi ai temi che si possono individuare in tre nuclei:

  1. Fortuna;
  2. Natura/amore;
  3. Ingegno

Partiamo dal primo: se la fortuna dantesca non è che un cielo ruotante per volontà di Dio a cui l’uomo non si può contrapporre, per Boccaccio, pur ancora casuale, si può in qualche caso piegarla a proprio vantaggio: si prendano ad esempio le novelle di Andreuccio, Landolfo e Masetto; vengono tutti tre “mossi dalla fortuna”, il primo dalla casualità della morte del vescovo, il secondo dalla salvezza grazie ad una cassa piena di gioielli, il terzo dalla morte del fattore. Se Landolfo è in qualche modo agito dalla fortuna, gli altri due la gestiscono in modo “intelligente”. E’ normale aggiungere, poi, che ad essa Boccaccio sposi spesso l’avventura, che trova la sua massima espressione nel “realismo” della Napoli di Andreuccio e nel mare metaforicamente espressione dell’imprevedibilità del caso di Masetto.

L’eros è quasi il tema più rappresentato nell’intera opera e trattato secondo diversi stili e diversi ambienti. Quello che tuttavia emerge è, quasi in maniera trasversale, che Boccaccio intende l’amore in modo naturale, per meglio dire, istintuale e questo si può vedere sia a livello alto (si pensi all’arringa di Ghismuda contro Tancredi) sia a livello popolare (ma non bisogna dimenticare che ciò si verifica quando si tratta di semplice soddisfacimento), sia a livello di censura (la novella di Lisabetta), sia di rapporti cortesi (Federigo degli Alberighi) e ancora, ma non ultima, come raggiungimento di un obiettivo  (Masetto salernitano e Agifulfo). Insomma il Boccaccio non accetta una dicotomia natura / eros, essendo parte ambedue della stessa costituzione umana, e quindi non più il peccato di lussuria di dantesca memoria ma soddisfacimento con soddisfazione o negazione con tragedia; ma l’idea del nostro autore continua ad essere, al di là del pianto o del sorriso, quella di un “matrimonio” borghese, come ci dicono le novelle di Federigo, appunto, o di Nastagio.

L’ingegno come capacità di sbrogliarsi da situazioni difficoltose caratterizza trasversalmente l’intera opera. Nella sesta giornata è il tema fondamentale quando esso s’accompagna con la parola, la battuta sagace che riesce ad annichilire l’avversario (si tratti di Cavalcanti o di Cisti). Ma l’ingegno si può tradurre anche in situazioni in cui è l’intelligenza a trovare l’occasione per ottenere ciò che si è proposto: è il caso del palafreniere di Agifulf o dell’ebreo Melchisedech, chi con un gesto e chi con una risposta non solo scampano ma vengono definiti, da Boccaccio, savi.

 

 

 

   

 

DANTE ALIGHIERI

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Sandro Botticelli: Ritratto di Dante Alighieri, 1495

Dante Alighieri nasce a Firenze, nel maggio o nel giugno del 1265, da una famiglia della piccola nobiltà guelfa, la cui crisi economica era stata accentuata dall’affermarsi, in città, della classe borghese. Egli stesso, nel Paradiso, ci dice d’essere antenato di Cacciaguida, un cavaliere dell’XI secolo (non si sa della verità di tale affermazione, ma ci dà l’impronta di una ideologia ancorata alla feudalità). Molto presumibilmente Dante si trovò orfano di madre, Bella degli Abati forse a cinque o sei anni, ma il padre, Alighiero Alighieri, si risposò e gli diede altri tre fratelli. Pur non ricco, riuscì ad avere un’educazione raffinata. E’ giovanissimo (12 anni) quando, secondo le usanze del tempo, venne concordato il matrimonio tra lui e Gemma della famiglia dei Donati; adolescente studiò dapprima a Firenze, le classiche arti del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia), poi quasi sicuramente a Bologna, le discipline universitarie (filosofia e teologia).

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Dante e Brunetto Latini, affresco attribuito a Giotto

Perse il padre tra il 1282 e il 1283, trovandosi, così, a dover sostenere nuovi impegni familiari e sposò Gemma, nel 1285, da cui avrà tre figli o quattro figli.
Dopo la parentesi bolognese, tornò a Firenze, tra il 1287 e 1288, dove conobbe sia Guido Cavalcanti (il primo amico) sia Brunetto Latini, che gli farà da maestro nella retorica e che forse gli insegnerà il valore morale della letteratura.

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Paolo Uccello: La battaglia di Campaldino

Nel 1289 prese parte alla battaglia di Campaldino contro Arezzo e molto probabilmente anche alla guerra contro Pisa; nel frattempo cominciò a distinguersi in città come abile verseggiatore: non sappiamo con precisione il periodo esatto dell’incontro con Beatrice, se non quello che egli ci dirà nella Vita nuova; ma sappiamo che è una giovane donna già sposata e che morirà a 25 anni; sarà lei a diventare il fulcro di una ricerca intellettuale che culminerà nella composizione della Commedia.

L’attività poetica di questo periodo viene svolta sulla base delle esperienze che autori come Guinizzelli e Cavalcanti avevano già prodotto e con i quali il nostro darà vita a quel Dolce Stil Novo da lui così nominato nel Purgatorio. Ma la morte di Beatrice farà presto prendere le distanze da tale movimento con la composizione della Vita nuova, che costituisce l’apogeo e insieme il superamento dello Stilnovo.

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Miniatura raffigurante Giano Della Bella

Dal 1295 al 1302 Dante partecipò attivamente alla vita politica del Comune. Giano della Bella, politico fiorentino, nel 1293 sancì l’estromissione dei nobili da ogni carica pubblica cittadina. In seguito il provvedimento fu attenuato e fu concesso loro di ricoprire cariche pubbliche in cambio di un’iscrizione alle Corporazioni cittadine. Dante si iscrisse a quella dei medici e degli speziali (più vicine alla speculazione filosofica), e, attraverso un rapido cursus honorum arrivò, sin dal 1300, a far parte dei sei priori, cioè i veri reggitori della sorte della città.

Quest’ultima viveva allora una vera e propria faida tra i Neri (Donati) e Bianchi (Cerchi). Dopo un grave episodio di sangue, Dante, pur essendo un esponente dei Bianchi, manda via i capi più facinorosi, tra cui l’amico Cavalcanti, per cercare una riconciliazione; ma il conflitto non si placa, anzi si aggrava per l’intervento del papa Bonifacio VIII che, presentando come paciere Carlo di Valois, vuole favorire i Neri, più consoni alla sua politica.

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Particolare della statua mortuaria di Carlo di Valois

Dante, insieme ad altri due ambasciatori, viene mandato a Roma per cercare di scongiurare il papa affinché non intervenga all’interno della politica fiorentina. Il papa, con false promesse, licenzia due ambasciatori e trattiene Dante, proprio mentre Carlo sta entrando a Firenze e rimettendo al potere i Neri; questi ultimi danno vita subito a processi sommari in cui vengono colpevolizzati i Bianchi, tra cui Dante che, in contumacia perché fuori città, viene accusato di baratteria e condannato all’esilio perpetuo.

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Domenico Peterlin: Dante in esilio (1911)

Dal 1302, quindi, inizia l’esilio di Dante: vagherà di città in città a cercare signori che lo ospitino e lo accolgano favorevolmente nei loro palazzi: è difficile seguire il suo percorso; sappiamo invece con certezza che tentò, con altri Bianchi fuorusciti, di rientrare in città, ma la loro sconfitta e le aspre critiche che il poeta muoverà loro, farà sì che egli decida di abbandonarli definitivamente. Durante il suo peregrinare Dante va componendo opere come il Convivio e il De vulgari eloquentia nonché altre rime.

Nel frattempo la discesa in Italia di Arrigo VII, nel 1311, sembra riaccendere in Dante le speranze non solo di un suo ritorno in città, ma di una pacificazione sotto l’egida di un imperatore capace di riportare la penisola ad uno stadio di benessere e ad una sana vita civile; il poeta lo invita con calore a occupare Firenze, ma la stessa città gli muove contro una lega; non si fa in tempo nemmeno a cominciare la battaglia che l’imperatore muore nel 1313. E’ in questa occasione che il nostro scrive il trattato il De monarchia, dove espone con chiarezza le sue convinzioni politiche.

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Incoronazione di Arrigo VII in un codice del 1340

Dopo aver sdegnosamente rifiutato il rientro a Firenze, in quanto il poeta riteneva umilianti le condizioni imposte dalla città, si rifugia a Verona presso Cangrande della Scala, dal 1312 al 1318 dove termina sia l’Inferno che il Purgatorio; si trasferisce, quindi, nell’ultimo periodo della sua vita, a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta, dove, oltre a scrivere due Ecloghe e la Questio de aqua et terra porterà a termine il Paradiso.

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Giovanni Mochi: Dante presenta Giotto a Guido da Polenta (XIX sec.)

Mentre torna da una ambasceria a Venezia verso Ravenna, s’ammala. Morirà nel 1321 e le sue ossa saranno tumulate presso la chiesa di San Francesco.
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Tomba di Dante a Ravenna (notturno)

L’uomo

E’ difficile, dalle poche e scarne notizie biografiche, parlare della grandezza del poeta Dante, anche perché questa grandezza, riconosciuta a livello mondiale, non può prescindere dall’uomo che così intensamente ha vissuto e rappresentato la sua epoca.

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Testa di Dante dalla statua a lui dedicata a Firenze

In primo luogo bisogna riconoscere che nella sua opera vi è:

  1. una perfetta conoscenza scientifica e teologica del Medioevo, che verrà rappresentata in una straordinaria forma poetica;
  2. una grande e critica conoscenza della filosofia;
  3. l’aspirazione mistica verso la verità della fede e quindi di Dio, che non può essere disgiunta dalla volontà di affermazione di tale aspirazione sin dalla vita terrena;
  4. una vera e propria aspirazione verso la perfezione e quindi la bellezza del dettato poetico;
  5. un grande amore e rispetto verso la cultura latina (e la greca, se avesse avuto la possibilità di conoscerne la lingua), che non diventa tuttavia la sola, ma s’accompagna con lo stesso rispetto verso tutte le forme linguistiche capaci di elevarsi e di diventare poesia;
  6. una forte consapevolezza di sé ed un incredibile rigorismo, che fa sì che egli diventi la guida per allontanare l’intera umanità dal peccato e condurla verso la via di fede;
  7. una non accettazione dell’età presente, vista sotto il segno dell’arrivismo e dell’avidità economica, incapace quindi d’amare i veri valori dell’umiltà e della semplicità che il Vangelo stesso ci offre.

Ma da dove deriva tutto quello fin qui esposto all’uomo Dante? Non vi è dubbio alcuno che ci troviamo di fronte ad un personaggio intellettualmente eccezionale; ma quando tale capacità intellettuale s’accompagna ad una vita difficile, il grido e la voglia d’esprimersi, forse emerge con più vigore. Innanzi tutto non dobbiamo dimenticare che in lui vi è il senso della perdita: è ancora fanciullo quando perde l’adorata genitrice e già un uomo adulto quando perde l’amata città: ecco allora che il senso dell’assenza fa nascere, quasi per contrasto, un forte vitalismo, che lo conduce all’azione e a porsi come persona che, non piegandosi mai e non accettando “regole facili”, lo fa diventare modello “insuperabile” d’intransigenza. Ma tale intransigenza non può e non deve concludersi a livello morale, ma deve essere applicata anche a livello letterario: più semplicemente la moralità dell’uomo deve trovare applicazione e diventare moralità nello scrivere. Da qui il concetto che lo stesso applicarsi alla letteratura non sia un solo e splendido, sia pur raffinatissimo, gioco intellettuale per pochi eletti, ma un vero e proprio atto rivolto a Dio e alla maggior parte degli uomini.

La vita nuova
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Uno dei 43 manoscritti con cui è tradita l’opera giovanile di Dante 

L’opera, scritta molto presumibilmente nel 1294, è un prosimetro, cioè caratterizzata dalla presenza di parti in prosa e in poesia. Tale genere costituisce una vera e propria novità nella letteratura volgare italiana, il cui maggiore antecedente si può trovare nel De consolatione philosophiae dello scrittore dell’alto medioevo Severino Boezio (che tanta fortuna avrà in tutto questo periodo). L’opera inizia con un Proemio:

PROEMIO

In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: “Incipit vita nova.” Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’assemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

In quella parte del libro della mia vita e della mia memoria, prima della quale pochi eventi possono essere ricordati, si trova un capitolo il cui titolo dice: “Incomincia una vita nuova”. Sotto questo titolo io trovo scritti i ricordi, che è mia intenzione trascrivere e ordinare in questo libretto, e se non tutti, almeno il loro significato essenziale.

In questo brevissimo capitoletto appaiono subito due temi:

  1. tema della memoria, che sembra voler far assumere al libretto un carattere autobiografico, anche se, come vedremo, tale autobiografia è fortemente simbolica;
  2. l’incipit vita nova, che può significare sia l’inizio dell’età giovanile, sia vita rinnovata dall’amore.

Quindi, subito dopo, ci racconta il suo primo incontro con Beatrice:

PRIMA APPARIZIONE DI BEATRICE
(Capitolo II)

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi. In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: Apparuit iam beatitudo vestra. In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo disse queste parole: Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!. D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedeala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: «Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di deo». E avvegna che la sua imagine, la quale continuatamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose le quali si potrebbero trarre de l’essemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.

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Raffaele Giannetti: Prima apparizione di Beatrice (1877)

Per nove volte dopo la mia nascita il cielo del Sole era quasi arrivato al medesimo punto, riguardo alla propria orbita (erano cioè passati quasi nove anni dalla mia nascita) quando per la prima volta apparve ai miei occhi la signora della mia anima che ora è nella gloria del cielo, la quale fu chiamata Beatrice da molti che non sapevano come si chiamasse. Beatrice aveva già vissuto tanto tempo, che durante la sua esistenza il cielo delle stelle fisse si era mosso verso est di un dodicesimo di grado, (Beatrice, nel momento in cui Dante la vide per la prima volta, aveva 8 anni e 4 mesi, in quanto il cielo delle stelle fisse, ruota infatti verso est di un grado ogni secolo. Dalla nascita di Beatrice al momento in cui Dante la vede questo cielo si è mosso di un dodicesimo di grado ed è passato pertanto un dodicesimo di secolo, ossia appunto 8 anni e 4 mesi) sicché Beatrice mi apparve quand’era da poco entrata nel suo nono anno di età e io la vidi quasi alla fine dei mio nono anno di età. Apparve vestita di un colore nobilissimo, segno di modestia e di dignità rosso scuro; con una cintura e con degli ornamenti adeguati alla sua giovanissima età. Dico in modo veritiero che in quel momento lo spirito vitale, il quale si trova nella cavità più profonda del cuore, cominciò a tremare così forte, che si avvertiva anche nelle più piccole arterie, in modo da far paura; e con tremore disse: «Ecco un dio più forte di me, che venendo mi dominerà». A quel punto l’anima sensitiva, che si trova nella cavità del cervello a cui tutti gli spiriti portano le loro percezioni. agli spiriti della vista, cominciò a meravigliarsi molto e parlando specialmente alle nostre espressioni, disse: «È apparsa ormai la vostra beatitudine»: lo spirito naturale, che ha sede in quella parte del corpo in cui si provvede al nostro nutrimento, cominciò a piangere e piangendo disse: «Povero me, poiché d’ora in poi sarò spesso impedito!». Dico che da quel momento Amore si impadronì della mia anima la quale fu così presto sposata a lui e cominciò a prendere tanta baldanza e tanto potere su di me, per la forza che a lui conferiva la mia immaginazione, che mi era necessario fare fino in fondo tutto ciò che volesse. Mi comandava spesso che mi dessi da fare per vedere questa giovanissima creatura angelica, per cui nella mia giovinezza andai a cercarla e vedevo che aveva modi così nobili e degni di lode che certo di lei si sarebbe potuto dire la parola che il poeta Omero (scrisse di Nausica): «Lei non sembrava una figliola di un uomo, ma di un dio». E sebbene la sua immagine, che stava sempre con me, conferisse ad Amore la forza di dominarmi, tuttavia (la sua immagine) era di così nobile virtù che mai tollerò che Amore mi governasse senza il fedele consiglio della ragione, in quelle cose in cui fosse utile ascoltare tale consiglio. E poiché soffermarsi sulle passioni e le azioni di una così giovani età, sembra un raccontare favole, mi allontanerò da esse e tralasciando molte cose che si potrebbero trovare in quel capitolo in cui ho trovato queste, verrò a quelle parti più importanti che sono scritte nella mia memoria in capitoli più grandi.

In questo capitolo, sin dall’incipit, è chiara l’intenzione del poeta di porre il piano esistenziale sotto l’egida del piano simbolico. A ciò corrispondono le due ampie perifrasi astrologiche che insistendo sul numero nove, come moltiplicazione della Trinità, fanno apparire la vicenda come voluta da Dio, e quindi con valore universale. Quindi Beatrice appare (con parola che ha la valenza dell’apparire, mostrarsi, come fosse presenza divina) e appare già vestita in modo da lanciare il messaggio di umiltà e carità, tanto da far sì che gli spiriti si accorgano dello sconvolgimento di Dante (un chiaro richiamo alla poesia di Cavalcanti). Tuttavia in seguito è fondamentale come Dante, per non cadere preda del tormento, chieda aiuto alla ragione: c’è già un aspetto in cui il nostro tenta di allontanarsi dalle prospettive che lo Stilnovo aveva elaborato per superarlo in modo nuovo in una vita, appunto, nuova.

Nel prosieguo del racconto il poeta la rivede esattamente nove anni dopo, quando lui ne ha diciotto, e all’ora nona (le tre del pomeriggio) e lei gli rivolge il saluto. Il poeta è al sommo della felicità, torna a casa e pensa a lei. Quindi gli giunge un “soave sonno” durante il quale sogna un signore dall’aspetto pauroso; parla confusamente, ma si riesce a capire che dice al poeta “Io sono il tuo signore”. Nelle sue braccia c’è una donna nuda, ricoperta da un drappo rosso; Dante la riconosce come Beatrice. Nelle mani del signore appare quindi un qualcosa che arde e lui gli dice “Ecco il tuo cuore”, e si sforza di farlo mangiare a lei. La gioia della donna si tramuta subito in pianto; egli stringe la ragazza a sé e se ne va in cielo. E’ così grande l’angoscia per il pianto della donna che il poeta si sveglia improvvisamente e decide di fare un sonetto che ha per materia il sogno stesso da far leggere ai “fedeli d’Amore” che possano indicargli il significato. Tale sonetto prende il titolo di A ciascun alma presa. Quindi Amore prende il sopravvento su Dante, ma non vuole svelare il nome della donna. In Chiesa, durante una funzione, trova seduta tra lui e Beatrice una bella donna, che pensa che lo sguardo del poeta fosse rivolto a lei, e quindi la sceglie come “donna dello schermo”, che verrà utilizzata per un certo tempo, per non far criticare la donna amata.

LA DONNA DELLO SCHERMO

Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s’accorsero de lo suo mirare; e in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: “Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui”; e nominandola, io intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei.
Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

Dante di fronte alla chiesa di S Maria Novella dipinto, ca 1866 -

Planeta Giuseppe: Dante di fronte a Santa Maria Novella

Un giorno successe che queta donna gentilissima (Beatrice) sedeva in un luogo, cioé in una chiesa, dove i fedeli  erano intenti ad ascoltare parole in onore della Madonna, ed io ero in un luogo da dove vedevo colei che mi dava beatitudine; nel mezzo fra lei e me, attraverso una linea retta sedeva una nobile donna d’aspetto assai piacevole, che mi guardava  ripetutamente, meravigliandosi del mio guardarla che sembrava a lei diretto. Per cui molti s’accorsero del suo guardarmi e a tal punto fu posta attenzione che, allontanantomi dalla chiesa, udii dire da qualcuno vicino a me: «Vedi come questa donna distrugge la persona di costui»; e, pronunciando il suo nome, capii che si riferiva alla donna che era seduta tra me e Beatrice e alla quale il mio sguardo pareva terminasse. Allora mi confortai perché il mio segreto non era stato scoperto da alcuno, ad opera dei miei sguardi. Ed immediatamente pensai di fare di questa donna  lo schermo della verità, e ne feci così aperta dimostrazione che in poco tempo tutti coloro che parlavano di me lo conoscevano. Attraverso questa donna tenni nascosto il mio vero sentimento per alcuni anni, e per renderlo più credibile scrissi piccole cosucce in rima, che non ho intenzione di riportare qui, se non quelle che ho scritto per Beatrice. e perciò le  lascerò tutte ad eccezione di quelle che poterono sembrare scritte per lei ma che in realtà erano dedicate a Beatrice.

Questo passo dimostra come Dante sappia rielaborare modelli offerti dalla tradizione lirico-cortese. D’altra parte era stato proprio Andrea Cappellano a codificare la figura della donna schermo affinché i malparlieri non potessero offuscare l’onore della donna del Signore. Qui Dante lo reinterpreta, alla luce della “biografia esemplare” che in questa operetta sta scrivendo; infatti la donna schermo serve al poeta per giustificare la negazione del saluto di Beatrice e quindi la necessità di parlarne “in lode”, che costituisce la sua novità all’interno dello Stilnovo.

Ma la donna dello schermo s’allontana, mentre nel frattempo muore un’altra donna, di cui Beatrice era amica, a cui Dante dedica alcuni versi. Quindi parte per seguire la “donna dello schermo” e continuare così a sviare l’attenzione verso Beatrice. Durante il viaggio Amore gli suggerisce la presenza di una “seconda donna dello schermo”. Tornato a Firenze si mette alla ricerca di questa seconda donna, la cui finzione d’amore raggiunge l’intera città. Beatrice quindi gli toglie il saluto. Venuto a sapere il motivo per cui la donna non voglia più rivolgersi a lui, il poeta piange amaramente. Allora gli appare in sogno Amore che lo invita a non fingere più. Il nostro incontra Beatrice, in compagnia di altre ragazze, durante lo sposalizio di una di loro. Lo sguardo smarrito del poeta, suscita riso nelle donne, e ciò provoca vergogna e tormento nell’animo del poeta. 

Un giorno incontra un gruppo di donne che gli chiede spiegazione del suo comportamento:

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Enzo Anichini: Dante e Beatrice

LA VOGLIA DI POETARE IN “LODE”
(Capitolo XIII)

Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s’erano, dilettandosi l’una ne la compagnia de l’altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m’avea chiamato, era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand’io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra le quali n’avea certe che si rideano tra loro. Altre v’erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Altre v’erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo». E poi che m’ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l’altre cominciaro ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m’avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sia questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.

Poiché dal mio aspetto molta gente aveva compreso il mio sentimento, alcune donne, che si erano riunite con piacere l’una dell’altra, conoscevano bene il segreto del mio cuore, in quanto alcune di loro avevano assistito alle mie sconfitte (cioè alla mia incapacità di sostenere la presenza di Beatrice). Io, passando loro accanto, come fossi portato lì dalla fortuna, fui chiamato da una di queste nobilissime donne. Era una donna dall’ottima capacità nel dialogare, cosicché, quando giunsi di fronte a loro, e m’accorsi che la mia gentilissima (Beatrice) non era con loro, le salutai e domandai cosa desiderassero. C’erano molte donne e alcune ridevano. Altre mi guardavano, aspettando la mia risposta. Atre ancora parlavano tra loro. Di queste una, guardandomi e pronunciando il mio nome disse: «Quale fine ti proponi dal momento in cui non riesci a sostenere la sua presenza? Diccelo, che sicuramente tale fine dev’essere straordinario». E dopo che mi disse ciò, non solo lei ma tutte le altre mostrarono nel loro la volontà di ascoltare la risposta. Allora dissi loro queste parole: «Donne, il fine del mio amore fu già nel saluto di questa donna, di cui voi sapete il mio nome, e lì stava la mia gioia e la mia beatitudine. Da quando a lei piacque negarmelo, Amore, per la sua benevolenza ha deciso di riporre tale gioia e beatitudine in ciò che non può essere negato». Subito le donne cominciarono a parlare tra loro, e così come a volte la neve cade insieme alla pioggia, così si percepivano parole e sospiri. E dopo aver lungo discusso, la donna che già mi aveva rivolto la parola disse: «Noi ti preghiamo che tu ci sveli dove sta questa tua beatitudine» ed io, rispondendogli, dissi soltanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora sempre lei, mi rispose: «Se tu dicessi la verità, le parole con cui ci hai illustrato la tua condizione, le avresti già usate mettendole in poesia, con altra volontà» Allora mi allontanai un po’ vergognandomi, dicendo tra me: «Poiché vi è tanta beatitudine nelle parole che lodano la mia donna, perché le mie poesia hanno altre parole?». E perciò presi la decisione di poetare sempre in lode di questa nobilissima donna, e pesandoci molto mi sembrava di avere iniziato un compito troppo arduo per me, tanto che non avevo il coraggio di iniziare, e così stetti alcuni giorno con la volontà di poetare e con la paura di iniziare a farlo.

E’ da qui che parte la seconda parte della Vita nuova; infatti nell’incontro con le giovani donne ed il colloquio con una di esse, il brano fa emergere la profonda contraddizione tra il pensiero e l’azione del giovane innamorato. Se infatti la beatitudine, una volta sottratto il saluto, è tutta riposta nella lode che egli può rivolgere alla donna, perché così non opera? Ma se dovessimo andare al sottotesto, se l’amore verso Dio non richiede più che venga contraccambiato, perché non prova ad amarlo per la sua essenza?

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Paola Contini: Donne che avete intelletto d’amore (affresco)

DONNE CHE AVETE INTELLETTO D’AMORE

(Capitolo XIX)

Avvenne poi che passando per uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi, ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne ch’avete.

Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
E io non vo’ parlar sì altamente,
ch’io divenisse per temenza vile;
ma tratterò del suo stato gentile
a respetto di lei leggeramente,
donne e donzelle amorose, con vui,
ché non è cosa da parlarne altrui.

 Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’un’anima che ’nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra spene sia quanto me piace
là ’v’ è alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: “O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati”».

 Madonna è disiata in sommo cielo:
or voi di sua virtù farvi savere.
qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che onne lor pensero agghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morria.
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien, ciò che li dona, in salute,
e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non pò mal finir chi l’ha parlato.

 Dice di lei Amor: «Cosa mortale
come esser pò sì adorna e sì pura?»
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne ’ntenda di far cosa nova.
Color di perle ha quasi, in forma quale
convene a donna aver, non for misura:
ella è quanto de ben pò far natura;
per essemplo di lei bieltà si prova.
De li occhi suoi, come ch’ella li mova,
escono spirti d’amore inflammati,
che feron li occhi a qual che allor la guati,
e passan sì che ’l cor ciascun retrova:
voi le vedete Amor pinto nel viso,
là ’ve non pote alcun mirarla fiso.

 Canzone, io so che tu girai parlando
a donne assai, quand’io t’avrò avanzata.
Or t’ammonisco, perch’io t’ho allevata
per figliuola d’Amor giovane e piana,
che là ’ve giugni tu dichi pregando:
«Insegnatemi gir, ch’io son mandata
a quella di cui laude so’ adornata».
E se non vuoli andar sì come vana,
non restare ove sia gente villana:
ingegnati, se puoi, d’esser palese
solo con donne o con omo cortese,
che ti merranno là per via tostana.
Tu troverai Amor con esso lei;
raccomandami a lui come tu dei.

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Marcel Rieder: Dante e le amiche di Beatrice, 1895.

Avvenne in seguito che, passeggiando per una via, lungo la quale scorreva un chiarissimo ruscello, a me giunse una così forte volontà di poetare, che io cominciai a pensare il modo in cui lo dovessi fare; pensai quindi che non era conveniente rivolgermi direttamente a Beatrice, se non mi fossi rivolto ad altre donne, e non ad una donna qualunque, ma solo a coloro che sono “gentili” (in quanto in grado d’amare” e non femmine volgari). Allora affermo che la mia bocca pronunciò, quasi da sola, Donne che avete intelletto d’amore. Conservai queste parole nella mente, con grande gioia, pensando che esse potessero costituire l’inizio (della mia poesia), quindi, ritornando a Firenze, riflettendo alcuni giorni, cominciai una canzone, scritta in un modo che verrà illustrato (nella parte finale del capitolo, in cui Dante riporta un commento retorico). La canzone inizia Donne che avete.
Donne che comprendete l’essenza dell’amore, io voglio parlare con voi della mia donna, non perché credo così di poter finire la mia lode (nei suoi confronti), ma solo per ragionare, per sfogare la mia mente. Io dico che pensando alla sua virtù, l’Amore si fa sentire così dolcemente, che se allora non perdessi coraggio, farei innamorare (di lei) la gente. Ed io non voglio cantarla in uno stile tanto alto, che per paura di non poterlo sostenere diverrei vile; ma parlerò della sua nobiltà in modo poco profondo rispetto a lei con voi, donne e fanciulle amorose, perché non è argomento da trattare con altri. // Un angelo la invoca direttamente nella mente divina e dice: “Nel mondo si vedono gli effetti miracolosi negli atti di un’anima che risplende fin quassù nel cielo. Il cielo a cui non manca nulla se non avere lei, la chiede al suo Signore e ciascun santo invoca Dio che gli conceda la grazia di averla in cielo. La sola misericordia divina difende la nostra causa, in quanto Dio, che parla alludendo a Beatrice, dice: “Miei cari, ora sopportate con pazienza che l’oggetto della vostra speranza rimanga per tutto il tempo che a me piacerà sulla terra, la dove c’è qualcuno che teme di perderla e che dirà nell’inferno: “Dannati, ho conosciuto Beatrice, speranza dei beati”. // Madonna è desiderata nel sommo cielo (l’Empireo) e ora voglio che voi conosciate la sua virtù. Dico che qualunque donna voglia apparire nobile, vada con lei, che quando cammina nella strada, Amore getta nei cuori villani uno sgomento, per cui ogni loro pensiero diventa di ghiaccio e muore; e chi sopportasse di starla a guardare, diventerebbe un nobile o morirebbe. E quando vede uno degno di guardarla, quello sperimenta il suo potere, perché tutto quello che la donna gli dona, si trasforma in salvezza, e lo rende tanto umile, da dimenticare ogni offesa. Inoltre Dio gli ha concesso come grazia, che non può finir male chi ha parlato con lei. // Amore, parlando di lei, dice: “Una creatura mortale, come può essere così bella e così pura?” Poi la guarda con attenzione e fra se stesso giura che Dio vuole fare di lei una creatura straordinaria. Ha il colorito del viso come di perle, come conviene abbia una donna, non eccessivo: è il massimo della bellezza che la natura può creare: la bellezza si può misurare sulla base del modello da lei rappresentato. Dai suoi occhi, appena li muove, escono spiriti infiammati d’amore, che feriscono gli occhi a chiunque la guardi in quel momento, e penetrano a tal punto che ciascuno di essi raggiunge il cuore: voi vedete nel suo viso dipinto Amore, in quel punto del viso in cui nessuno può guardarla. // Canzone, io lo so che tu andrai a parlare con molte donne, quando t’avrò licenziata. Ora ti ammonisco, perché io ti ho creata figlia d’Amore giovane e leggera, in modo che, là dove giungi, tu dici pregando: “Insegnatemi la via per andare da lei, perché io sono adornata della sua lode”. E se non vuoi andare inutilmente, non rimanere dove c’è gente scortese; fai in modo, se puoi, di mostrarti solo con donne o uomini nobili che subito ti mostreranno la via. Tu troverai Amore con lei, raccomandami a lui, così come devi.

E’ un punto nodale non solo dell’opera in sé, ma dell’intera poesia duecentesca se sarà proprio essa che farà dire a Bonagiunta Orbicciani, nel Purgatorio, che questo modo di poetare lo hanno tenuto lontano dal dolce stil novo. Dante infatti inaugura, con essa, un nuovo modo di rappresentare l’amore per una donna che tende verso l’amore celeste Il bello è che il poeta fa ciò non uscendo dalla tradizione fino allora esistente, si pensi agli effetti benefici quando cammina, al colore della pelle del viso, agli spiriti infiammati; ma ciò che conta è che egli, inserendola nel nuovo contesto della poesia della lode, dà ad essa un valore più alto rispetto alla poesia precedente. A ciò corrisponde anche il superamento dell’idea cavalcantiana dell’amore-dolore: se ciò che qui canta Dante va al di là, rappresentando pertanto un amore che non deriva dal cielo, ma va verso il cielo, il suo spirito non può che essere pacificato. Da qui l’estrema serenità che si evince dal canto, grazie anche alla fluidità e musicalità del dettato.

A questo canto ne seguono altri, in cui il poeta in tre sonetti riprende il tema dell’amore come potenza e atto: ma anche in questo concetto va oltre, mostrando come l’amore può arrivare dove la potenza dorme. Dopo la felicità che Dante prova grazie a questo nuovo modo d’esprimersi poeticamente, avviene un triste episodio: la morte del padre di Beatrice. Nei seguenti giorni il nostro viene aggredito, invece, dal pensiero della morte di lei:

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Dante Gabriel Rossetti: Sogno della morte di Beatrice (1856) 

UN PRESAGIO DELLA MORTE DI BEATRICE
(XXIII)

Appresso ciò per pochi dì avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendome dolere quasi intollerabilemente, a me giunse uno pensero lo quale era de la mia donna. E quando ei pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggiero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo: che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, meravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi tremuoti. E meravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; e altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade, che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m’essere villana, però che tu dei essere gentile, in tal parte se’ stata! Or vieni a me, che molto ti disidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le corpora de li morti s’usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!».

Dopo pochi giorni, mi ammalai dolorosamente, per cui io in modo continuo soffrii per nove giorni un’insopportabile pena, che mi portò ad una debolezza tale, che dovetti stare immobile sul letto. Dico che, essendo passati nove giorni, sentendo dentro di me un dolore inenarrabile, cominciai a pensare a Beatrice. Dopo aver pensato a lei, ritornai a pensare alla mia vita e come fosse precaria la sua durata, anche se fosse sana, e in così triste pensiero mi misi a piangere. Per cui, sospirando forte, dicevo a me stesso: «Inevitabilmente è destino che un giorno o l’altro la gentilissima Beatrice muoia». Perciò provai un forte smarrimento, per cui chiusi gli occhi e cominciai ad agitarmi come una persona che delira e a vaneggiare in questo modo: all’inizio della mia immaginazione mi apparvero i visi di donne scapigliate in segno di lutto che mi dicevano: «Anche tu morirai» e dopo queste donne mi apparvero visi mostruosi e orribili che mi dicevano: «Tu sei morto». Così continuando a vagare nella mia fantasia mi ritrovai al punto di non sapere dove mi trovassi e mi sembrava di vedere donne scapigliate, straordinariamente tristi, che camminavano piangendo e il sole che si oscurava e le stelle di un colore che pareva piangessero, e gli uccelli del cielo che cadevano in terra morti e che ci fossero grandissimi terremoti. E stupendomi di tale fantasia e temendo molto, immaginai qualche amico che venisse a dirmi: «Non lo sai? La tua meravigliosa donna è morta». Allora pietosamente cominciai a piangere e non solo nell’immaginazione, ma i miei occhi erano bagnati realmente. Immaginavo di guardare verso il cielo, e mi sembrava di vedere una moltitudine di angeli che volavano in alto portando con loro una piccola nuvola bianca (l’anima di Beatrice). Mi sembrava che questi angeli cantassero in sua gloria e che le parole del canto fossero Osanna in excelsis e non sentivo nient’altro. Allora mi sembrava che il cuore, dove vi era un così grande amore, mi dicesse: «E’ vero che la nostra donna giace morta». E per questo mi sembrava che io andassi per vedere il corpo dentro il quale era riposta quella nobilissima e beata anima: e fu così forte questa immagine che mi mostrò la donna morta e che le donne le coprivano la testa con un velo bianco e che il suo volto esprimesse una così grande umiltà che pareva dire: «Sto per vedere Dio». Allora mi giunse per il suo aspetto una forte sensazione d’umiltà che chiamai la Morte e le dicevo: «Dolcissima Morte, vieni, non essere scortese, che tu devi essere gentile, così come sei stata in parte col corpo di Beatrice. Ora vieni da me, che ti desidero molto, lo vedi, che nel mio volto c’è già il tuo pallore». E dopo aver veduto compiere tutti gli atti funebri che si devono fare ai corpi dei morti, mi sembrava che io tornassi nella mia camera e qui guardassi verso il cielo e dicessi: «O bellissima anima, beato chi ti vede!».

Il presagio della morte di Beatrice è visto proprio sotto il segno della divinità: allo scadere del nono giorno di malattia, a sottolineare la ricorrenza della trinità di Dio. Ma non è solo questo: il racconto dell’immaginazione dantesca è tutto intessuto su riferimenti biblici ed evangelici (nonché, chiaramente, classici): gli eventi naturali che precedono la sua morte sono gli stessi che precedono quelli di Cristo: l’oscuramento del sole, la caduta di stelle, la morte degli uccelli, il terremoto; ma anche la salita in cielo dell’anima richiama quella evangelica. Qui Dante vuole sottolineare che Beatrice è figura Christi e quindi figura angelica il cui compito è portare l’uomo verso Dio.

Il capitolo prosegue con il pianto di Dante che preoccupa una giovane e gentile donna, sua parente, che fa accorrere al suo capezzale altre donne. Esse gli portano conforto e nel suo delirare Dante pronuncia il nome di Beatrice. Ma è sicuro che la sua voce, intramezzata da pianti e singhiozzi non sia stata capita. Guarito, seduto in solitudine, ha una nuova immaginazione d’Amore in cui vede Giovanna, donna amata da Cavalcanti, che ha il nome del Battista ed è soprannominata Primavera, avanzare verso lui; quindi il poeta pensa che lei verrà prima, quindi seguirà Beatrice, allo stesso modo come Giovanni ha preceduto Cristo. Si riconferma quindi come Beatrice sia per il poeta figura Christi. Perciò egli poi le dedica un sonetto, in cui sembra essere venuta dal cielo a mostrare il miracolo della creazione:

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Henry Holiday: Dante e Beatrice (1883)

L’APPARIZIONE DI BEATRICE
(XXVI)

Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

 Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

 Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ’ntender no la può chi no la prova:

 e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira. 

La signora della mia mente sembra di tale nobiltà di spirito e di tale purezza di costumi quando saluta qualcuno, che ogni lingua, tremando (per l’emozione) diventa muta e gli occhi (dei presenti) non osano fissarla. // Ella procede, sentendosi lodare (da chi la vede passare), (quasi) rivestita di benevolenza e di umiltà, e sembra essere una creatura scesa dal cielo sulla terra per mostrare la sua natura miracolosa. // Si mostra dotata di tale bellezza a chi l’ammira (passare), che infonde, attraverso gli occhi, una dolcezza al cuore, comprensibile solo a chi l’ha provata: // e sembra che dal suo volto si muova uno spirito dolcissimo d’amore, che vada dicendo all’anima: «Sospira».

E’ certamente questa poesia, una delle liriche più alte di tutta la nostra tradizione poetica, perché in essa si sposano perfettamente:

  • la semplicità del dettato e la perizia tecnica con cui è costruito;
  • il motivo tradizionale con la nuova visione di donna come strumento divino per far sì che l’uomo di elevi a Dio.

Infatti essa è tecnicamente costruita attraverso una ripresa di temi tradizionali a cui dà una nuova veste: si vedano i due termini della prima strofe uniti dall’anafora tanto tra i due emistichi: il primo gentile “cortese” indica una qualità esteriore, mentre onesta una qualità dell’anima; si veda la particolarità con cui viene usato il verbo “pare”, il cui significato, come afferma il critico Gianfranco Contini, non è solamente “pare”, “mostra” (usato anche come termine ripetuto nella 2° quartina e nella 1° terzina, figura retorica che si chiama anadiplosi e in provenzale capfinidas) ma “manifestarsi cocretamente”, “rendere visibile il divino nell’umano”; ciò cambia anche il contenuto, che pur ricordando Io voglio del ver la mia donna laudare di Guido Guinizzelli e Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira di Guido Cavalcanti, sottolinea qui la presenza di un simbolo della salvezza. Si richiami la poesia del Cavalcanti che nel suo incipit riprendeva un salmo dedicato a Maria Vergine, per poi “ridimensionarlo” nella sua umanità, qui invece Dante trasfigura la figura della donna che è già di per sé non solo immagine, ma anche sostanza del divino.

Dopo questo passo avviene la morte di Beatrice, che apre la seconda parte dell’opera:

LA MORTE DI BEATRICE
(XXVIII)

Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia, quando lo segnore de la giustizia chiamoe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata.

Come siede desolata la popolosa città! E’ divenuta quasi una vedova la signora delle genti. Io ero ancora nel proposito di scrivere una canzone con questo inizio e avevo già scritto una stanza, quando il signore della giustizia (Dio) chiamò questa nobilissima a fruire dell’eterna gloria sotto il trono della regina benedetta Maria Vergine, il cui nome fu in massima reverenza nelle parole della beata Beatrice.
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Dante Gabriel Rossetti: Dante dipinge un angelo nell’anniversario della morte di Beatrice
Dante nulla aggiunge o vuole aggiungere sull’episodio della morte di Beatrice adducendo come motivi:

  • non era nel suo intendimento come si evince dal proemio dell’opera;
  • laddove fosse stato presente nel proemio avrebbe avuto l’incapacità d’esprimere in modo conveniente un evento tanto importante;
  • se ambedue le condizioni sarebbero state tuttavia possibili, Dante avrebbe finito per parlare di sé, cosa assai sconveniente. Scriva un altro autore della sua morte.

Per sfogare il suo dolore Dante scrive altri versi e viene invitato dal fratello di Beatrice affinché egli gliene faccia dono. Durante l’anniversario della morte, Dante sta disegnando un angelo, ma si sente osservato. Si accorge che a fare ciò è una donna, che sembra condividere il dolore del poeta e che ha sul volto lo stesso pallore di Beatrice. Dante sente che presso costei sta Amore e ciò lo rende estremamente combattuto: se la prende contro la leggerezza del suo cuore, ma sente anche il desiderio di conservare intatto il ricordo della sua donna. Infine questa gli appare, tanto che torna decisamente a lei. Nel frattempo un gruppo di pellegrini si prepara per andare a Roma per venerare il velo della Veronica. Dante scrive un sonetto per loro, affinché ricordino come la città che essi raggiungeranno abbia perso la sua Beatrice. Ottenuta la richiesta da parte di donne pellegrine di un altro sonetto, Dante gli offre una lirica, in cui Beatrice è ormai elevata al cielo:

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Dante Gabriel Rossetti: Beatrice beata

BEATRICE BEATA
(XLI)

Oltre la spera che più larga gira
passa ’l sospiro ch’esce del mio core:
intelligenza nova, che l’Amore
piangendo mette in lui, pur su lo tira.

 Quand’elli è giunto là dove disira,
vede una donna, che riceve onore,
e luce sì, che per lo suo splendore
lo peregrino spirito la mira.

 Vedela tal, che quando ’l mi ridice,
io no lo intendo, sì parla sottile
al cor dolente, che lo fa parlare.

 So io che parla di quella gentile,
però che spesso ricorda Beatrice,
sì ch’io lo ‘ntendo ben, donne mie care.

Oltre il cielo che ruota più esteriormente (Primo Mobile), s’inoltra il sospiro che esce dal mio cuore: una straordinaria intelligenza motrice, che Amore, piangendo, gli infonde, lo fa salire. // Quando poi giunge nell’Empireo (luogo in cui desidera andare), vede una donna onorata da tutti gli angeli e una luce così viva, che per il suo splendore, lo spirito pellegrino l’ammira. // La vede di tale bellezza, che quando me lo descrive, io non lo comprendo, a tal punto parla difficile ed oscuro al cuore dolente che gli dà la parola. // Ma capisco bene che parla di quella nobilissima donna, perché spesso lo sento ricordare Beatrice, tanto da capirlo bene (che sta parlando di lei), donne mie care.

Questo sonetto, l’ultimo della Vita nova, oltre a rappresentare quello che molti definiscono il preannuncio della Divina Commedia e più esattamente del Paradiso, in cui conserverà alcuni punti qui trattati come la luce e l’ineffabilità della parola, rappresenta il culmine di quell’itineriarium mentis in Deum in quanto lo porta attraverso le fasi dell’amore/poesia, fino a Dio. Esse sono:

gli effetti dell’amore                                     inter nos
l’amore della lauda                                       super nos
l’amore mistico                                              extra nos

fasi che costituiscono sia il suo percorso di poesia, da Guinizelli, passando per Cavalcanti, sino al suo superamento avvenuto con la concezione dell’amore mistico, sia morale, che lo ha allontanato dall’averroismo del suo amico per abbracciare il bisogno di una religione pura, come vedremo nel suo capolavoro.

RIME

Si può cominciare col dire che tale opera non esiste nella mente di Dante, ma è frutto di editori successivi che hanno voluto raccogliere, in un unico volume, tutta la produzione poetica che non è stata inclusa né nella Vita nuova, né nel Convivio. Ciò vuol dire che nelle Rime dantesche troviamo testi giovanili e testi scritti posteriormente all’esilio. Se così vario è il tempo e la storia personale del poeta, è evidente che esse presentano diversi stili e diversi momenti: per questo si parla di un vero e proprio sperimentalismo stilistico. Per cogliere tale varietà è bene raggruppare tali liriche in cinque modelli:

  • liriche giovanili e legate all’ambiente stilnovista di cui egli fece parte;
  • liriche coeve e della stessa tematica di quelle presenti nella Vita Nuova;
  • liriche prettamente “comiche”;
  • liriche in cui egli adotta il trobar clus di Arnaut Daniel;
  • liriche filosofiche già posteriori all’esilio.

Della fase giovanile prendiamo come esempio una lirica in cui sono presenti sia temi stilnovistici che quelli immediatamente precedenti dell’amor cortese:

GUIDO I’ VORREI CHE TU LAPO ED IO 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento,
e messi in un vasel ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio.

 sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

 E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

 e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.

Guido, io vorrei che tu, Lapo ed io fossimo presi da un incantesimo e messi su un vascello, che percorresse il mare con qualunque vento, secondo la vostra e la mia volontà; // cosicché né una tempesta né altre avverse condizioni del tempo potessero esserci da ostacolo, anzi, agendo noi sempre con unità d’intenti, crescesse il desiderio di stare insieme. // E poi (vorrei) che l’abile mago (Merlino) ponesse con noi poi madonna Giovanna e madonna Alagia insieme con quella che occupa il trentesimo posto (fra le donne più belle di Firenze): // e qui che parlassimo sempre d’amore, e che ciascuna di loro fosse felice, così come io credo che saremmo noi.

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Dante Gabriel Rossetti: The boat of love (1874)

E’ un sonetto d’estrema importanza perché mostra come il giovane Dante sappia già districarsi tra i modelli e farli suoi; tale poesia, infatti, può essere letta in due modi: quello letterale, d’ispirazione arturiana, ci mostra mago Merlino (l’incantatore) che raduna in una piccola barca tre giovani e tre donne per parlare piacevolmente e cortesemente d’amore; ma a una lettura più attenta ci renderemo conto che può essere interpretata come una poesia prettamente stilnovista: il “vasello” può essere inteso come poesia, l’incantatore come l’innamoramento, le tre donne come l’oggetto del loro gentil amor e i tre ragazzi, i tre poeti (Guido Cavalcanti, Lapo Gianni e Dante stesso) rappresentanti il circolo elitario d’autori di poesie estremamente raffinate (come questa in cui elementi cortesi e stilnovistici sono strettamente intrecciati).

Appartiene allo sperimentalismo giovanile anche questa lirica, facente parte della tenzone con Forese Donati:

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Copertina di un volume canadese che riporta la tenzone di Dante con Forese Donati 

BICCI NOVEL, FIGLIUOL DI NON SO CUI

Bicci novel, figliuol di non so cui
(s’i’ non ne domandassi monna Tessa),
giù per la gola tanta rob’ hai messa,
ch’a forza ti convien tôrre l’altrui.

 E già la gente si guarda da·llui,
chi ha borsa a·llato, là dov’e’ s’appressa,
dicendo: «Questi c’ha la faccia fessa
è piuvico ladron negli atti sui».

 E tal giace per lui nel letto tristo,
per tema non sia preso a lo ’mbolare,
che gli apartien quanto Giosep a Cristo.

 Di Bicci e de’ fratei posso contare
che, per lo sangue lor, del mal acquisto
sann’ a lor donne buon’ cognati stare.

Bicci giovane (soprannome che Dante usa nella tenzone per rifersi a Forese), figlio di non so chi, se non lo domandassi a madonna Tessa, ti sei ingozzato di cibo a tal punto, che sei costretto a rubare. // E già la gente si guarda da lui, in particolare chi ha la borsa a fianco, nei luoghi dove lui si dirige, dicendo: «Costui che ha la faccia sfregiata, è un ladro noto a tutti per i suoi atti criminosi». // E così giace amareggiato nel letto per colpa sua, per il timore che venga colto a rubare, il padre che ha un rapporto di parentela con lui come Giuseppe con Cristo. // Di Bicci e dei suoi fratelli posso dire che in virtù dell’appartenenza alla loro stirpe, con l’inganno sanno essere per le loro donne buoni cognati.

 Si tratta qui di una tenzone, genere letterario presente nella letteratura cortese in cui i poeti rispondono, in questo caso con sonetti, su vari argomenti. In questo caso la tenzone, invece, riguarda temi personali: infatti se Forese, sempre in poesia, accusa Dante d’essere povero e avaro, Dante gli risponde definendolo ingordo, ladro e di scarsa prestanza sessuale. Perché noi a queste accuse e al fatto che i due s’offendessero in poesia non crediamo? Ce ne dà una testimonianza non tanto il fatto che Forese fosse parente di Gemma Donati, sua moglie, ma che lo stesso poeta lo ponga nel Purgatorio e lo ricordi come un grande amico (Se tu riduci a mente / qual fosti meco, e qual io teco fui, ancor fia grave il memorar presente). Infatti quel che Dante qui opera (e Forese insieme a lui) è un vero e proprio gioco letterario, con cui riprendono modelli francesi, anch’essi nati per mostrare la perizia letteraria di uno scrittore. Non è un caso che i termini che si usano sono tutti virati verso il concreto e verso il basso, contrari all’alto concettualismo stilnovistico.

La stessa ricerca lessicale la ritroviamo in un gruppo di poesie definite Rime petrose, perché dedicate a una donna di nome Petra:

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Raffaello Sanzio: Ritratto di Dante posto tra i filosofi (1509-1511)

COSI’ NEL MIO PARLAR VOGLIO ESSER ASPRO

 Così nel mio parlar voglio esser aspro
com’è ne li atti questa bella petra,
la quale ognora impetra
maggior durezza e più natura cruda,
e veste sua persona d’un diaspro
tal che per lui, o perch’ella s’arretra,
non esce di faretra
saetta che già mai la colga ignuda;
ed ella ancide, e non val ch’om si chiuda
né si dilunghi da’ colpi mortali,
che, com’avesser ali,
giungono altrui e spezzan ciascun’arme:
sì ch’io non so da lei né posso atarme.

 Non trovo scudo ch’ella non mi spezzi
é loco che dal suo viso m’asconda;
ché, come fior di fronda,
così de la mia mente tien la cima.
Cotanto del mio mal par che si prezzi,
quanto legno di mar che non lieva onda;
e ’l peso che m’affonda
è tal che non potrebbe adequar rima.
Ahi angosciosa e dispietata lima
che sordamente la mia vita scemi,
perché non ti ritemi
sì di rodermi il core a scorza a scorza
com’io di dire altrui chi ti dà forza?

 Ché più mi triema il cor qualora io penso
di lei in parte ov’altri li occhi induca,
per tema non traluca
lo mio penser di fuor sì che si scopra,
ch’io non fo de la morte, che ogni senso
co li denti d’Amor già mi manduca:
ciò è che ’l pensier bruca
la lor vertù, sì che n’allenta l’opra.
E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra
con quella spada ond’elli ancise Dido,
Amore, a cui io grido
merzé chiamando, e umilmente il priego:
ed el d’ogni merzé par messo al niego.

 Egli alza ad ora ad or la mano, e sfida
la debole mia vita, esto perverso,
che disteso a riverso
mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco:
allor mi surgon ne la mente strida;
e ’l sangue, ch’è per le vene disperso,
fuggendo corre verso
lo cor, che ’l chiama; ond’io rimango bianco.
Elli mi fiede sotto il braccio manco
sì forte che ’l dolor nel cor rimbalza:
allor dico: «S’elli alza
un’altra volta, Morte m’avrà chiuso
prima che ’l colpo sia disceso giuso».

 Così vedess’io lui fender per mezzo
lo core a la crudele che ’l mio squatra;
poi non mi sarebb’atra
la morte, ov’io per sua bellezza corro:
ché tanto dà nel sol quanto nel rezzo
questa scherana micidiale e latra.
Omè, perché non latra
per me, com’io per lei, nel caldo borro?
ché tosto griderei: «Io vi soccorro»;
e fare’l volentier, sì come quelli
che ne’ biondi capelli
ch’Amor per consumarmi increspa e dora
metterei mano, e piacere’le allora.

 S’io avessi le belle trecce prese,
che fatte son per me scudiscio e ferza,
pigliandole anzi terza,
con esse passerei vespero e squille:
e non sarei pietoso né cortese,
anzi farei com’orso quando scherza;
e se Amor me ne sferza,
io mi vendicherei di più di mille.
Ancor ne li occhi, ond’escon le faville
che m’infiammano il cor, ch’io porto anciso,
guarderei presso e fiso,
per vendicar lo fuggir che mi face;
e poi le renderei con amor pace.

 Canzon, vattene dritto a quella donna
che m’ha ferito il core e che m’invola
quello ond’io ho più gola,
e dàlle per lo cor d’una saetta,
ché bell’onor s’acquista in far vendetta.

Voglio essere aspro nel mio modo di scrivere così come questa donna nei suoi atteggiamenti, la quale, come la pietra, racchiude in sé una durezza sempre maggiore e una sempre più cruda natura, e si veste di una pietra preziosa, il diaspro, così che grazie ad esso, o perché lei indietreggia (per proteggersi), mai si scaglia una freccia che la colga indifesa. (Anzi) è lei a uccidere, e non serve a proteggersi o fuggire i colpi mortali, che, quasi avessero le ali, raggiungono l’avversario e fanno a pezzi qualsiasi difesa; così che io non so, né posso, difendermi da lei. // Lei occupa il sommo della mia mente, come il fiore quello della foglia, perciò mi è impossibile trovare uno schermo che mi difenda da lei o un luogo in cui io possa nascondermi. Sembra che non si preoccupi per nulla del mio dolore, come la nave non si cura del male calmo; e il peso che mi tira a fondo è tale che le mie parole non saprebbero esprimerlo. Ahimè, tormentosa e impietosa lima (d’Amore) che consumi la mia vita sorda alle mie preghiere, perché non hai ritegno a logorarmi strato dopo strato il cuore, come io, invece, a dire il nome di colui che ti dà forza? // (Taccio il suo nome) perché temo che la mia idea fissa appaia all’esterno, ogni volta che penso a lei in un luogo dove qualcuno mi possa vedere, più di quanto il mio cuore non tema la morte, la quale già divora tutti i miei pensieri con i denti d’Amore; voglio dire che il pensiero (amoroso) corrode le facoltà dei miei sensi, e così ne limita le capacità. Amore mi ha colpito e messo a terra, e mi sta sopra con quella spada con cui uccise Didone, e io lo supplico e lo prego umilmente, chiedendo grazia; ma egli sembra negare qualsiasi pietà. // Egli alza ancora la mano e minaccia la mia debole vita, questo spietato, che mi tiene riverso a terra, incapace di reagire: allora immagino di gridare e il sangue che ho nelle vene fuggendo va nel cuore, che lo chiama; per cui perdo colore. Amore mi colpisce così forte sotto il fianco sinistro che il dolore mi rimbalza fino al cuore; allora dico: «Se alza un’altra volta (la spada), la morte metterà fine alla mia vita ancor prima che egli colpisca. // Vedessi (invece) Amore spaccare il cuore a quella donna crudele che squarta il mio; allora non mi spaventerebbe la morte, verso cui corro per la bellezza di lei: perché colpisce in ogni circostanza questa masnadiera omicida e ladra. Ah, perché non latra per me nel torrente infuocato, come io per lei? Allora griderei immediatamente: «Io vi soccorro»; e lo farei volentieri e afferrerei con le mani i biondi capelli che Amore increspa e indora per logorarmi; e allora le piacerei. // Se io avessi preso le belle trecce, che mi colpiscono come scudiscio e sferza, le terrei da mattina a sera e non sarei clemente né cortese, ma farei come l’orso quando gioca; e se Amore mi colpisce con quelle trecce fatte sferza io mi vendicherei rendendo più di mille volte le stesse sferzate. Anzi, per vendicarmi di come fugge dinanzi a me, la guarderei da vicino e fisso, in quegli occhi da cui escono le scintille che mi infiammano il cuore ferito a morte; poi le renderei amore e perdono insieme. // Canzone, vai dritta da quella donna che mi ha ferito il cuore e mi sottrae ciò che più desidero; colpiscila al cuore con una freccia, perché si acquista onore nella vendetta.

E’ questa una lirica in cui Dante sembra, stilisticamente, voler far corrispondere una tematica cruda ad un suono aspro. Se infatti la teoria degli stili medievali, così come sarà anche approfondita nelle opere teoriche di Dante stesso, prevede un adeguamento tra argomento e forma, qui il poeta vuole mostrare tale teoria ponendosi in una posizione assolutamente opposta a quella della lirica stilnovista: infatti al dolce si sostituisce l’aspro, al suono armonico lo scontro violento tra le parole: tutto questo viene ottenuto mettendo in rima vocaboli rari e con la duplice consonante in tr (squatra), pr (aspro), rz (ferza). Tale poesia, pertanto, appare come un vero e proprio esercizio stilistico che verrà utilizzato per la stesura della Commedia, soprattutto l’Inferno.

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Edizione del 1952 delle Rime di Dante

TRE DONNE INTORNO AL COR

Tre donne intorno al cor mi son venute,
e seggonsi di fore;
ché dentro siede Amore,
lo quale è in segnoria de la mia vita.
Tanto son belle e di tanta vertute,
che ’l possente segnore,
dico quel ch’è nel core,
a pena del parlar di lor s’aita.
Ciascuna par dolente e sbigottita,
come persona discacciata e stanca,
cui tutta gente manca
a cui vertute né belta non vale.
Tempo fu già nel quale,
secondo il lor parlar, furon dilette;
or sono a tutti in ira ed in non cale.
Queste così solette
venute son come a casa d’amico;
ché sanno ben che dentro è quel ch’io dico.

 Dolesi l’una con parole molto,
e ’n su la man si posa
come succisa rosa:
il nudo braccio, di dolor colonna,
sente l’oraggio che cade dal volto;
l’altra man tiene ascosa
la faccia lagrimosa:
discinta e scalza, e sol di sé par donna.
Come Amor prima per la rotta gonna
la vide in parte che il tacere è bello
egli, pietoso e fello,
di lei e del dolor fece dimanda.
«Oh di pochi vivanda»,
rispose in voce con sospiri mista,
«nostra natura qui a te ci manda:
io, che son la più trista,
son suora a la tua madre, e son Drittura;
povera, vedi, a panni ed a cintura».

 Poi che fatta si fu palese e conta,
doglia e vergogna prese
lo mio segnore, e chiese
chi fosser l’altre due ch’eran con lei.
E questa, ch’era sì di piacer pronta,
tosto che lui intese,
più nel dolor s’accese,
dicendo: «A te non duol de li occhi miei?».
Poi cominciò: «Sì come saper dei,
di fonte nasce il Nilo picciol fiume
quivi dove ’l gran lume
toglie a la terra del vinco la fronda:
sovra la vergin onda
generai io costei che m’è da lato
e che s’asciuga con la treccia bionda.
Questo mio bel portato,
mirando sé ne la chiara fontana,
generò questa che m’è più lontana».

 Fenno i sospiri Amore un poco tardo;
e poi con gli occhi molli,
che prima furon folli,
salutò le germane sconsolate.
E poi che prese l’uno e l’altro dardo,
disse: «Drizzate i colli:
ecco l’armi ch’io volli;
per non usar, vedete, son turbate.
Larghezza e Temperanza e l’altre nate
del nostro sangue mendicando vanno.
Però, se questo è danno,
piangano gli occhi e dolgasi la bocca
de li uomini a cui tocca,
che sono a’ raggi di cotal ciel giunti;
non noi, che semo de l’etterna rocca:
ché, se noi siamo or punti,
noi pur saremo, e pur tornerà gente
che questo dardo farà star lucente».

 E io, che ascolto nel parlar divino
consolarsi e dolersi
così alti dispersi,
l’essilio che m’è dato, onor mi tegno:
ché, se giudizio o forza di destino
vuol pur che il mondo versi
i bianchi fiori in persi,
cader co’ buoni è pur di lode degno.
E se non che de li occhi miei ’l bel segno
per lontananza m’è tolto dal viso,
che m’have in foco miso,
lieve mi conterei ciò che m’è grave.
Ma questo foco m’have
già consumato sì l’ossa e la polpa,
che Morte al petto m’ha posto la chiave.
Onde, s’io ebbi colpa,
più lune ha volto il sol poi che fu spenta,
se colpa muore perché l’uom si penta.

 Canzone, a’ panni tuoi non ponga uom mano,
per veder quel che bella donna chiude:
bastin le parti nude;
lo dolce pome a tutta gente niega,
per cui ciascun man piega.
Ma s’elli avvien che tu alcun mai truovi
amico di virtù, ed e’ ti priega,
fatti di color novi,
poi li ti mostra; e ’l fior, ch’è bel di fori,
fa disiar ne li amorosi cori.

 Canzone, uccella con le bianche penne;
canzone, caccia con li neri veltri,
che fuggir mi convenne,
ma far mi poterian di pace dono.
Però nol fan che non san quel che sono:
camera di perdon savio uom non serra,
ché ’l perdonare è bel vincer di guerra.

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Corrado Faraone: Tre donne intorno al cor

Tre donne si sono raccolte intorno al mio cuore e risiedono fuori, perché dentro il cuore risiede Amore, il quale è il signore della mia vita. Sono così belle e di così grande virtù, che il potente signore, mi riferisco a quello che signoreggia sul mio cuore, con difficoltà riesce a parlare di loro. Ciascuna appare addolorata e sgomenta, come una persona esiliata e stanca, che tutti abbandonano e a cui non sono d’aiuto né la virtù né la bellezza. Ci fu un tempo in cui, come si può desumere dalle loro parole, furono amate; ora sono tutte odiate e trascurate. Così in solitudine sono giunte (presso il cuore), come a casa di un amico, perché sanno bene che colui del quale parlo è dentro il mio cuore. // L’una si lamenta molto con le parole, e si appoggia (con la testa) sulla mano come una rosa recisa: il braccio nudo, sostegno al viso addolorato, sente la pioggia di lacrime che cade dal volto, l’altra mano nasconde il viso in lacrime, con le vesti discinte e scalza, appare signora soltanto di se stessa. Appena Amore la vide, attraverso la gonna lacera, in una parte del corpo che non è corretto nominare, egli impietosito e rattristato, le domandò di lei e del suo dolore: «O (tu che sei) cibo per i pochi eletti», rispose con la voce inframmezzata dai sospiri, «la nostra comune origine ci spinge qui da te; io, che sono la più triste, sono sorella di tua madre e sono la Giustizia, povera, come vedi, nelle vesti e negli ornamenti». // Dopo che ella si manifestò e si fece conoscere, (un sentimento di) dolore e vergogna colse il mio signore, il quale chiese chi erano le altre due che erano con lei. E costei, che era sul punto di piangere, non appena lui se ne accorse, sentì accendersi ancor più il suo dolore, dicendo: «Non provi dolore per i miei occhi (pieni di pianto)?». Poi cominciò: «Come sai, da una sorgente nasce il Nilo ancora povero di acque, là dove il sole toglie alla terra la fronda del salice: presso quella sorgente incontaminata, io generai costei che è al mio fianco e si asciuga (le lacrime) con la treccia bionda. Questa mia bella figlia, contemplando se stessa nella limpida acqua, generò quella che è più distante di me». // I sospiri resero Amore un po’ lento (a rispondere): e poi con gli occhi umidi di lacrime, che prima furono scortesi, salutò le tre parenti sconsolate: E dopo che afferrò entrambe le sue frecce, disse: «Alzate i volti: ecco le armi che io volli, per non essere state usate, come vedete, sono arrugginite. Liberalità, Temperanza e le altre (virtù) nate dalla nostra stirpe, sono ridotte a mendicare. Pertanto se questo è un danno, piangano gli occhi e si lamenti la bocca degli uomini ai quali (il danno) tocca, che (in quanto uomini) sono sotto l’influsso di tali astri negativi, non noi, che siamo immortali: infatti, se noi ora siamo abbattuti, noi continueremo ad essere, e tornerà una generazione che saprà rendere lucente questo dardo». // Ed io che sento esiliati così nobili che, con voce divina si consolano e si lamentano, l’esilio che mi è stato inflitto lo considero un onore: infatti, se il giudizio divino o il volere del destino vogliono che il mondo trasformi i fiori bianchi in neri, è ugualmente degno di lode essere sconfitto con gli onesti. E se non fosse che l’oggetto d’amore cui tendono i miei occhi si sottrae al mio sguardo per la lontananza, il quale oggetto d’amore mi ha acceso d’ardore, considererei facile (da sopportare) ciò che per me è un peso. Ma questo ardore mi ha già consumato a tal punto il corpo, che la Morte mi ha già chiuso il petto con la chiave. Perciò, se io fui colpevole, molti mesi sono trascorsi da quando (quella colpa) si è estinta, se (è vero che) la colpa si cancella per il fatto che ci si pente. // Canzone, nessuno cerchi di scoprire il tuo significato allegorico, per vedere quello che una bella donna nasconde: bastino le parti interpretabili letteralmente: non concedere a nessuno il dolce frutto, al quale ognuno tende la mano. Ma se accadesse mai che tu trovassi qualcuno incline alla virtù e se egli ti pregasse, acconciati debitamente, e poi mostrati a lui; e rendi desiderabile, per i cuori inclini alla virtù, questo fiore così bello all’esterno. // Canzone, vola cacciando con le bianche penne; canzone, vai a caccia con i cani neri, che io fui costretto a fuggire, ma che potrebbero concedermi il perdono. Ma non lo fanno perché non sanno come io sono: l’uomo saggio non chiude la camera del perdono, perché perdonare è un bel modo di vincere la guerra.

Questa lirica, famosissima, viene anche definita “dell’esilio”, perché in essa Dante fa direttamente riferimento alla sua condizione. La canzone, molto probabilmente, doveva far parte del Convivio e quella parte di esso in cui veniva trattato il tema della Giustizia. Infatti vengono qui rappresentate tre donne, diremo tre generazioni femminili, allegoria, ognuna di esse, della Giustizia: divina (la prima donna, seduta, il cui braccio fa da appoggio al suo volto piangente), umana, sua figlia, positiva (la legge), cui sta a fianco Amore, il poeta stesso. Sono colpiti tutti dallo stesso destino, scacciati, messi al bando; e ciò per una ferrea legge: se infatti viene bandita la giustizia divina, anche quella umana e quindi la legge non serviranno più alla verità e per questo Dante potrà essere ingiustamente colpito e condannato all’esilio. Tuttavia egli sa che se dovessero tornare, esse sarebbero ben accompagnate, da altre fondamentali virtù, come la liberalità e la temperanza, e verrebbero accolte da uomini saggi; ma sa anche che se ciò non dovesse accadere, a lui spetterebbe l’onore, perché è capace di perdono. Per questo i due congedi: nel primo il poeta dichiara che il suo canto è rivolto a “uomini di virtù”; nel secondo, attraverso la metafora della caccia, rivolto sia ai Bianchi che ai Neri, il poeta sembra volersi mostrare al di là e di aver superato ambedue le fazioni politiche.

CONVIVIO 

Si definisce con questo titolo un trattato, iniziato tra il 1303 e il 1304 e interrotto nel 1306, in cui Dante, all’indomani della sua condanna, vuole mostrare agli ingrati fiorentini la sua conoscenza e la sua capacità divulgativa di temi filosofici e morali. L’opera doveva presentarsi come un prosimetro (lo stessa tecnica con cui scrive la Vita nuova) e constare di quindici trattati accompagnati da una canzone (ad eccezione del primo trattato che fungeva da introduzione). Ma non venne conclusa e Dante scrisse solo quattro trattati e tre canzoni:

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Edizione veneziana del Convivio (1511)

Nel primo trattato, introduttivo, Dante ci spiega sia la finalità che lo stile dell’opera:

 PROPOSITO DELL’OPERA

Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. La ragione di che puote essere, ed è, che ciascuna cosa, da providenza di propria natura impinta, è inclinabile a la sua propria perfezione; onde, acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti. Veramente da questa nobilissima perfezione molti sono privati per diverse cagioni, che dentro a l’uomo e di fuori da esso lui rimovono da l’abito di scienza. Dentro da l’uomo possono essere due difetti ed impedi(men)ti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima. Da la parte del corpo è quando le parti sono indebitamente disposte, sì che nulla ricevere può, sì come sono sordi e muti e loro simili. Da la parte de l’anima è quando la malizia vince in essa, sì che si fa seguitatrice di viziose delettazioni, ne le quali riceve tanto inganno che per quelle ogni cosa tiene a vile. Di fuori da l’uomo possono essere similemente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, la quale convenevolmente a sè tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni Studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano. Le due di queste cagioni, cioè la prima da la parte [di dentro e la prima da la parte] di fuori, non sono da vituperare, ma da escusare e di perdono degne; le due altre, avvegna che l’una più, sono degne di biasimo e d’abominazione. Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l’abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li ’mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati. Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! e miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico, e ciascuno amico si duole del difetto di colui ch’elli ama, coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando. E acciò che misericordia è madre di beneficio, sempre liberalmente coloro che sanno porgono de la loro buona ricchezza a li veri poveri, e sono quasi fonte vivo, de la cui acqua si refrigera la naturale sete che di sopra è nominata. E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma, fuggito de la pastura del vulgo, a’ piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade, e conosco la misera vita di quelli che dietro m’ho lasciati, per la dolcezza ch’io sento in quello che a poco a poco ricolgo, misericordievolmente mosso, non me dimenticando, per li miseri alcuna cosa ho riservata, la quale a li occhi loro, già è più tempo, ho dimostrata; e in ciò li ho fatti maggiormente vogliosi. Per che ora volendo loro apparecchiare, intendo fare un generale convivio di ciò ch’i’ ho loro mostrato, e di quello pane ch’è mestiere a così fatta vivanda, sanza lo quale da loro non potrebbe esser mangiata. E questo [è quello] convivio, di quello pane degno, con tale vivanda qual io intendo indarno [non] essere ministrata. E però ad esso non s’assetti alcuno male de’ suoi organi disposto, però che né denti né lingua ha né palato; né alcuno settatore di vizii, perchè lo stomaco suo è pieno d’omori venenosi contrarii, sì che mai vivanda non terrebbe. Ma vegna qua qualunque è [per cura] familiare o civile ne la umana fame rimaso, e ad una mensa con li altri simili impediti s’assetti; e a li loro piedi si pongano tutti quelli che per pigrizia si sono stati, che non sono degni di più alto sedere: e quelli e questi prendano la mia vivanda col pane, che la far[à] loro e gustare e patire.

Così come dice Aristotele nel primo libro della Metafisica, tutti gli uomini naturalmente desiderano conoscere. Il motivo di ciò potrebbe essere, ed è, che ogni creatura sospinta dalla sua natura provvidenziale, tende verso la propria perfezione; perciò, essendo la conoscenza il più elevato grado di perfezione della natura umana, e stando lì la nostra massima felicità, tutti siamo per natura soggetti al suo desiderio. Tuttavia da questa nobilissima perfezione molti sono esclusi, e motivi interni ed esterni all’uomo stesso lo rimuovono dalla conoscenza. Dentro l’uomo posso esserci due difetti: uno è essere impedito per motivi corporali, l’altro per motivi morali. Per motivi corporali è quando le parti (del corpo) sono conformate in modo non regolare, cosicché non possono ricevere nulla, come i sordi, muti e altri (difetti) simili. Da parte morale è quando la malizia vince sulla volontà, tanto da seguire piaceri illeciti, nei quali subisce grandi inganni che, a causa di essi, disprezza ogni cosa. All’esterno dell’uomo possono individuarsi altrettante due ragioni, una delle quali induce alle cose materiali, l’altra alla pigrizia. La prima è costituita dagli impegni familiari e pubblici, i quali trattengono necessariamente il maggior numero degli uomini, che così non possono trovare il tempo per la speculazione filosofica. L’altra è costituita da luoghi, in cui una persona è nata e cresciuta, privi di opportunità, tanto da essere non solo privato dei mezzi per lo studio, ma anche lontano da persone studiose. Due di questi motivi, cioè il primo interno (menomazioni fisiche) e il primo esterno (le occupazioni familiari e pubbliche) non devono essere rimproverati, ma scusati e degni di perdono. Le altre due (la prima legata alla malignità, la seconda alla pigrizia), sebbene una più dell’altra, sono passibili di biasimo e di condanna. Chiaramente dunque chi bene riflette, può ben vedere che pochi sono coloro che possono raggiungere quella disposizione abituale (del sapere) da tutti considerata, e quasi innumerabili sono coloro che ne sono impediti, da vivere pertanto sempre affamati di questo cibo (il sapere). Beati i pochi ammessi alla mensa dove si mangia il pane degli angeli (teologia e filosofia); miseri coloro che hanno il cibo comune (l’ignoranza) con le pecore! Ma poiché ogni uomo per natura è amico di ciascun altro uomo, e ogni amico si addolora dei difetti di colui che ama, coloro che hanno avuto il privilegio di essersi cibati alla mensa del sapere, hanno pietà di quelli che vedono vagare nutrendosi di erba e di ghiande da animali. E dal momento che la misericordia è madre di beneficio, coloro che sanno offrono sempre liberamente la loro ricchezza ai poveri di spirito e sono come una viva fonte dalla cui acqua trovano refrigerio per una sete naturale, quella che ho nominato prima, cioè la conoscenza. E io, dunque, che non siedo alla beata mensa ma, essendo riuscito al abbandonare i piaceri e gli allettamenti del volgo, ai piedi di coloro che siedono raccolgo le briciole che essi lasciano cadere e conosco la vita miserevole di coloro da cui mi sono staccato, per la dolcezza che io provo di quel poco (di sapienza) che riesco a raccogliere, spinto da misericordia, senza dimenticare la mia precedente condizione, per i miseri ho tenuto da parte alcune composizioni (canzoni dottrinarie) che avevo reso note già da tempo, e con questo ho fatto loro crescere il desiderio di conoscenza. Per cui ora, volendo loro preparare la mensa, intendo offrire un generale banchetto di ciò che ho loro già mostrato (le canzoni), e del pane (i trattati) che è necessario per tale cibo, in quando senza di esso (le spiegazioni, appunto, che i trattati offrono), non potrebbe essere mangiato. E perciò ad esso non si segga chi non abbia organi d’assimilazione adatti, come coloro che non hanno né denti, né lingua, né palato; né chi sia seguace di vizi, perché il suo stomaco è pieno di umori velenosi, contrari alla digestione, tanto che nessuna vivanda (conoscenza) può essere assimilata. Ma venga qui chiunque, impedito dai doveri civili o familiari, non abbia potuto completamente dedicarsi allo studio e si sieda alla mensa con altri che hanno subito simili impedimenti; e al di sotto di essi (ai loro piedi) si pongano tutti quelli che si sono astenuti (dalla conoscenza) per pigrizia, perché non sono degni di porsi più in alto, insieme ai primi; e ambedue prendano il mio cibo, accompagnandolo col pane, che lo farà loro gustare e tollerare (digerire e assimilare).

Il passo è importante perché ci illumina su tre aspetti: quello formale, contenutistico, sociale:

  • per il primo abbiamo un altissimo esempio di prosa filosofica in volgare, un cui, come nella Scolastica, Dante utilizza in procedimento di tipo sillogistico. Facciamo l’esempio tratto dal primo paragrafo: 
    • l’uomo tende per natura a un fine;
    • il sapere è il fine naturale cui tutti gli uomini tendono;
    • tutti gli uomini tendono verso il sapere.
  • per il secondo vediamo che, ancora sul piano filosofico, Dante non intende la ricerca filosofica come una ricerca, ma come un’accettazione dell’auctoritas (in questo caso Aristotele).
  • per quanto riguarda il pubblico, escludendo i dotti, che possono attingere direttamente al sapere, grazie alla conoscenza del latino, Dante si rivolge a coloro che per affari familiari e pubblici, quindi alla classe dirigente urbana (ma anche a quella della campagne, seppure in posizione minore), non ha potuto dedicarsi completamente allo studio. Da qui, si ripete seppur già chiaro, la scelta del volgare.

Sempre nell’introduzione Dante parla della sua condanna:

LEGNO SENZA VELA E SENZA GOVERNO

Degna di molta riprensione è quella cosa che, ordinata a torre alcuno difetto, per se medesima quello induce; sì come quelli che fosse mandato a partire una rissa e, prima che partisse quella, ne iniziasse un’altra. E però che lo mio pane è purgato da una parte, convienlomi purgare da l’altra, per fuggire questa riprensione, che lo mio scritto, che quasi comento dir si può, è ordinato a levar lo difetto de le canzoni sopra dette, ed esso per sé fia forse in parte alcuna un poco duro. La qual durezza, per fuggir maggiore difetto, non per ignoranza, è qui pensata. Ahi, piaciuto fosse al dispensatore de l’universo che la cagione de la mia scusa mai non fosse stata! ché né altri contra me avria fallato, né io sofferto avria pena ingiustamente, pena, dico, d’essilio e di povertate. Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno – nel quale nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale, con buona pace di quella, desidero con tutto lo cuore di riposare l’animo stancato e terminare lo tempo che m’è dato –, per le parti quasi tutte a le quali questa lingua si stende, peregrino, quasi mendicando, sono andato, mostrando contra mia voglia la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade; e sono apparito a li occhi a molti che forseché per alcuna fama in altra forma m’aveano imaginato, nel conspetto de’ quali non solamente mia persona invilio, ma di minor pregio si fece ogni opera, sì già fatta, come quella che fosse a fare.

E’ degna di molti rimproveri quell’azione che, finalizzata ad eliminare qualche difetto, fa nascere essa stessa quello stesso difetto; così come sarebbe degno di rimprovero colui che fosse inviato a dividere una rissa e, prima di dividerla, ne iniziasse un’altra. E poiché il mio commento è stato difeso dalla prima accusa, mi è necessario difenderlo da un’altra accusa, per evitare il seguente rimprovero, cioè che il mio scritto, che si può in un certo senso definire un commento, è finalizzato a rimuovere il difetto delle canzoni di cui sopra si è parlato, ma esso stesso potrebbe essere in qualche parte un po’ difficile. La quale difficoltà è stata voluta  per evitare un difetto maggiore e non per ignoranza. Ahimé, fosse piaciuto a colui che regola l’universo che la causa di questa mia scusa non fosse mai esistita! Poiché se Dio avesse voluto nessuno avrebbe commesso un errore contro di me, né io avrei sofferto ingiustamente una pena; una pena, intendo, di esilio e di povertà. Da quando piacque ai cittadini della bellissima e famosissima figlia di Roma, Firenze, cacciarmi fuori dal suo dolce seno, nel quale nacqui e fui nutrito fino alla maturità della mia vita e nel quale, con il consenso di quella città, desidero con tutto il cuore riposare l’animo e terminare gli anni della mia vita, sono andato esule, quasi mendicando, per quasi tutte le parti in cui si parla la lingua italiana, lasciando vedere contro la mia volontà la ferita infertami dalla sorte, che molte volte si è soliti imputare ingiustamente a chi è stato ferito.  Certamente io sono stato una nave senza vela e senza timone, spinta a diversi porti, foci e spiagge dal vento secco che la dolorosa povertà fa soffiare e mi sono mostrato in questa misera condizione agli occhi di molti che forse, per una certa fama positiva, mi avevano immaginato diverso alla vista dei quali non solo apparve più vile la mia persona, ma apparve di minor valore ogni opera, sia che fosse già stata scritta, sia che fosse ancora da scrivere.

Questo passo tratto dal terzo capitolo del primo libro, ci mostra un Dante diverso, che, abbandonando lo stile aristotelico/scientifico prodotto precedentemente, spiega la motivazione per cui a volte la prosa che intende spiegare le canzoni sia quasi più “oscura” delle canzoni stesse. Ciò si spiega con il fatto che Dante cerca di “ridare” prestigio alla sua opera, che l’esilio impostogli dalla città gli aveva inflitto, sottolineando, inoltre come la “fortuna” lo avesse colpito ingiustamente. Chiude il passo con la metafora attinta dalla cultura classica della nave: immagine che segna lo stile elegiaco di questo brano.

original.jpgGiuseppe Bezzuoli (1784 – 1855): Dante Alighieri in esilio

Nel secondo trattato invece Dante con la canzone Voi che ’ntendendo il terzo ciel movete affronta il tema della disposizione dei cieli; inoltre egli affronta l’argomento dell’interpretazione di un testo letterario, i cosiddetti quattro sensi della scrittura. Questo ci permette di cogliere con maggior consapevolezza il modo con cui Dante offriva ai lettori contemporanei il modo di leggere la sua opera maggiore:

I QUATTRO SENSI DELLE SCRITTURE

(…) Si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponere massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama litterale, [e questo è quello che non si stende più oltre che la lettera de le parole fittizie, sì come sono le favole de li poeti. L’altro si chiama allegorico], e questo è quello che si nasconde sotto ’l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna: sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire come uno savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre. (…) Lo terzo senso si chiama morale, e questo è quello che li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti: sì come appostare si può ne lo Evangelio, quando Cristo salio lo monte per transfigurarsi, che de li dodici Apostoli menò seco li tre; in che moralmente si può intendere che a le secretissime cose noi dovemo avere poca compagnia. Lo quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora [sia vera] eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria sì, come vedere si può in quello canto del Profeta che dice che, ne l’uscita del popolo d’Israel d’Egitto, Giudea è fatta santa e libera. Chè avvegna essere vera secondo la lettera sia manifesto, non meno è vero quello che spiritualmente s’intende, cioè che ne l’uscita de l’anima dal peccato, essa sia fatta santa e libera in sua potestate. E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e massimamente a lo allegorico.

Si deve sapere che le scritture devono essere interpretate e spiegate soprattutto attraverso quattro sensi. Il primo è quello letterale (e questo è quello che va appena oltre al puro suono delle parole, e ne mostra il significato esteriore, così come accade nelle opere di fantasia dei poeti. L’altro si chiama allegorico) ed è quello che si nasconde sotto il velo delle fantasie poetiche, ed è perciò una verità presentata sotto l’aspetto di una bella menzogna. Così come Ovidio, quando ci mostra che Orfeo rendeva mansueti e richiamava a sé animali, alberi e sassi con il suono della cetra, il che vuol dire come un saggio possa con lo strumento della voce rendere docili e umili i cuori crudeli e attiri alla sua volontà coloro che non possiedo conoscenze; e coloro che non hanno alcuna capacità intellettiva (ragione), sono come pietre. Il terzo senso si chiama morale ed è quello che i lettori devono ricercare con estrema attenzione nelle scritture, per loro utilità e dei loro discenti, così come si può cogliere tale senso nel Vangelo, quando Cristo salì nel monte per trasfigurarsi e, dei dodici apostoli, ne condusse solo tre, da ciò si può capire, sotto il senso morale, che le verità più segrete devono essere condivise con poche persone. Il quarto senso si chiama anagogico, cioè sovrasenso, e a questo bisogna rivolgersi quando si espone un passo biblico, che, sebbene sia vero anche nel senso letterale, ciò che viene esposto è anticipatore della gloria eterna, così come possiamo cogliere nel passo del profeta quando dice che nell’uscita del popolo d’Israele dall’Egitto, la Giudea è resa santa e libera. Perché, se è manifesta-mente vero da un punto di vista letterale, non è meno vero quello che spiritualmente vuole significare, cioè che dall’uscita dell’anima dal peccato essa sia fatta santa e padrona di sé. E a dimostrazione di ciò si ricorda che il senso letterale è il primo di tutti, in quanto in lui sono racchiusi tutti gli altri, senza il quale sarebbe impossibile e irrazionale capire gli altri, soprattutto l’allegorico.

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Ritratto allegorico di Dante (1530)

Il passo nasce dall’esigenza di Dante di spiegare ai suoi lettori che la donna, protagonista della canzone posta all’inizio del trattato si debba intendere attraverso l’allegoria (e quindi non persona reale): infatti lei è l’immagine della Filosofia. Ciò offre al poeta lo spunto per diversificare, a questo punto della sua vicenda intellettuale, l’allegoria riservata alle opere letterarie dal senso anagogico, caratteristico soltanto delle Sacre Scritture.

Il terzo trattato, a commento della canzone Amor che nella mente mi ragiona Dante celebra la filosofia in quanto figlia di Dio e portatrice di felicità. Inoltre affronta il tema dell’essenza dell’uomo che come in tutte le cose create da Dio, riceve la virtù grazie alla sua bontà. Ma essa è ricevuta da tutte le cose, gli angeli l’acquisiranno in modo maggiore, mentre piante e animali in modo minore: l’uomo pertanto è posto a metà strada tra le creature divine e quelle puramente terrene.

Nel quarto trattato, nel quale Dante commenta la canzone Le dolci rime ch’io solia Dante riprende il tema guinizzelliano della vera nobiltà. Possiamo vedere in questo trattato alcuni temi politici che saranno poi sviluppati nel De Monarchia.

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Codice del “De vulgari eloquentia” della fine del XIV

DE VULGARI ELOQUENTIA 

Il De vulgari eloquentia è un trattato latino composto negli stessi anni del Convivio, cioè subito dopo la condanna dell’esilio. E’ scritto in latino, perché rivolto al pubblico dei dotti, e s’interrompe al XIV paragrafo del secondo libro, mentre il proposito originario ne prevedeva quattro. Nel primo libro Dante afferma, in modo assolutamente nuovo, la superiorità del volgare rispetto al latino. Infatti, sbagliando, egli cita il primo come anteriore in quanto “naturale”; il secondo artificiale, in quanto bisogna impararlo con la “grammatica”. Quindi fa derivare il linguaggio dalla torre di Babele, in cui esso era unico, a seguire le confusione delle lingue. Egli, sapendo già che le lingue si evolvono, individua tre ceppi linguistici: anglo, greco e romanzo. Quest’ultimo si divide a sua volta in tre lingue: oil, oc, . A loro volta quest’ultima presenta numerose varianti regionali, bisogna pertanto creare un volgare, che unifichi tali varietà:

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Torre di Babele in due rappresentazioni novecentesche

ILLUSTRE, CARDINALE, AULICO, CURIALE

Quare autem hoc quod repertum est, illustre, cardinale, aulicum et curiale adicientes vocemus, nunc disponendum est: per quod clarius ipsum quod ipsum est faciamus patere.
Primum igitur quid intendimus cum illustre adicimus, et quare illustre dicimus, denudemus. Per hoc quoque quod illustre dicimus, intelligimus quid illuminans et illuminatum prefulgens: et hoc modo viros appellamus illustres, vel quia potestate illuminati alios et iustitia et karitate illuminant, vel quia excellenter magistrati excellenter magistrent, ut Seneca et Numa Pompilius. (…) Quare ipsum illustre merito profiteri debemus.
Neque sine ratione ipsum vulgare illustre decusamus adiectione secunda, videlicet ut id cardinale vocetur. Nam sicut totum hostium cardinem sequitur ut, quo cardo vertitur, versetur et ipsum, seu introrsum seu extrorsum flectatur, sic et universus municipalium grex vulgarium vertitur et revertitur, movetur et pausat secundum quod istud, quod quidem vere paterfamilias esse videtur. (…) Quare prorsus tanto decusari vocabulo promeretur.
Quia vero aulicum nominamus illud causa est quod, si aulam nos Ytali haberemus, palatinum foret. Nam si aula totius regni comunis est domus et omnium regni partium gubernatrix augusta, quicquid tale est ut omnibus sit comune nec proprium ulli, conveniens est ut in ea conversetur et habitet, nec aliquod aliud habitaculum tanto dignum est habitante: hoc nempe videtur esse id de quo loquimur vulgare (…).
Est etiam merito curiale dicendum, quia curialitas nil aliud est quam librata regula eorum que peragenda sunt: et quia statera huiusmodi librationis tantum in excellentissimis curiis esse solet, hinc est quod quicquid in actibus nostris bene libratum est, curiale dicatur. Unde cum istud in excellentissima Ytalorum curia sit libratum, dici curiale meretur.

Ora bisogna esporre il motivo per cui questo linguaggio che si è trovato noi lo indichiamo accostandovi (i termini) illustre, cardinale, aulico e curiale; attraverso quest’operazione facciamo risaltare più chiaramente ciò che questo linguaggio è per se stesso.
Per prima cosa, quindi, mettiamo in evidenza che cosa intendiamo quando gli accostiamo l’aggettivo “illustre” e perché lo chiamiamo illustre. Veramente, per ciò che chiamiamo illustre intendiamo qualche cosa che illumina e che, illuminata, risplende: e in questo modo chiamiamo gli uomini illustri o perché, illuminati dal potere, a loro volta illuminano gli altri sia con la giustizia che con la carità, o perché eccellentemente istruiti, a loro volta eccellentemente istruiscono, come Seneca e Numa Pompilio. (…) Perciò lo dobbiamo meritatamente riconoscere illustre.
E non senza ragione onoro con il secondo aggettivo lo stesso volgare illustre, sì, cioè da chiamarlo cardinale. Infatti, come l’intera porta segue il cardine, cosicché si gira dove si gira il cardine, e questo stesso si piega o verso l’esterno o verso l’interno, così anche l’insieme dei comuni si volge e si rivolge come il gregge dei dialetti, si muove e si ferma per il fatto che questo sembra davvero un pater familias. Perciò merita di essere onorato con un così grande vocabolo.
Il motivo per cui, poi, lo definiamo aulico consiste nel fatto che se noi Italiani avessimo una reggia, esso sarebbe (lingua) di palazzo. Infatti se la reggia è la casa comune di tutto il regno, l’augusta reggitrice di tutte le parti del regno, qualsiasi cosa è tale da essere comune a tutti e non propria di alcuno, è ben che risieda ed abiti in essa (l’aula); né alcuna altra dimora è degna di tanto importante abitante: tale sembra certamente che sia quel volgare di cui parlo. Deve anche essere definito, a buon diritto, curiale, poiché la curialità non è nient’altro se non una norma ponderata delle cose che devono essere fatte; e poiché una bilancia capace di una tale pesata suole trovarsi solo nelle curie migliori, da questo deriva che qualsiasi cosa che c’è di ben ponderato è detto curiale. Da qui questo, poiché è stato pesato nella più eccelsa curia degli Italiani, merita di essere chiamato curiale.

Ciò che è importante in questo brano, al di là delle caratteristiche che tale lingua dovrebbe avere, è la riflessione politica che ne emerge: la mancanza d’unità politica che determina anche una conseguente unità linguistica. Nella parte del II libro giuntoci, Dante si sofferma sugli stili e sui generi poetici, dichiarando la superiorità della canzone sulle altre forme poetiche.

DE MONARCHIA

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Luca Signorelli : Dante con libri (1500/1504)

Il terzo trattato di Dante, dalla datazione ancora incerta, è sempre scritto in latino ed è, al contrario degli altri due, completo. E’ rivolto a un pubblico di dotti ed il suo argomento è politico. E’  costituito da tre libri:

  • nel primo individua la necessità della monarchia universale, cioè dell’impero rispetto ai principati singoli: infatti soltanto un unico imperatore, che in quanto tale non può desiderare di più, può garantire la pace universale, contro le cupidigie dei singoli stati. Il più alto esempio è infatti l’impero di Augusto, che riuscì a governare nella pace;
  • nel secondo libro si affronta la legittimità dell’impero romano, che, secondo Dante, era garantita dal diritto o non dalle armi. Inoltre esso è stato voluto da Dio, come dimostra la scelta di Cristo di farsi giudicare da tale impero, decretandone così la legittimità;
  • nel terzo libro Dante affronta il problema del rapporto tra Impero e Papato. Secondo lui il potere dell’Impero non deriva da quello della Chiesa: infatti, precedendo l’impero la formazione della Chiesa, non può dipendere da essa, ma direttamente da Dio.

Nell’ultima parte dell’opera dichiara le diversità dei compiti delle due autorità:
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Enzo Cucchi : La fontana dei due soli

DUOS FINES

Duos igitur fines providentia illa inenarrabilis homini proposuit intendendos: beatitudinem scilicet huius vite, que in operatione proprie virtutis consistit et per terrestrem paradisum figuratur; et beatitudinem vite ecterne, que consistit in fruitione divini aspectus ad quam propria virtus ascendere non potest, nisi lumine divino adiuta, que per paradisum celestem intelligi datur. Ad has quidem beatitudines, velut ad diversas conclusiones, per diversa media venire oportet. Nam ad primam per phylosophica documenta venimus, dummodo illa sequamur secundum virtutes morales et intellectuales operando; ad secundam vero per documenta spiritualia que humanam rationem transcendunt, dummodo illa sequamur secundum virtutes theologicas operando, fidem spem scilicet et karitatem. Has igitur conclusiones et media, licet ostensa sint nobis hec ab humana ratione que per phylosophos tota nobis innotuit, hec a Spiritu Sancto qui per prophetas et agiographos, qui per coecternum sibi Dei filium Iesum Cristum et per eius discipulos supernaturalem veritatem ac nobis necessariam revelavit, humana cupiditas postergaret nisi homines, tanquam equi, sua bestialitate vagantes “in camo et freno” compescerentur in via. Propter quod opus fuit homini duplici directivo secundum duplicem finem: scilicet summo Pontifice, qui secundum revelata humanum genus perduceret ad vitam ecternam, et Imperatore, qui secundum phylosophica documenta genus humanum ad temporalem felicitatem dirigeret.

La ineffabile provvidenza ha posto dunque innanzi all’uomo due fini cui tendere: la felicità di questa vita, che consiste nella esplicazione della propria specifica facoltà ed è simboleggiata nel paradiso terrestre; e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio e costituisce il paradiso celeste; ad essa quella facoltà specifica dell’uomo non può elevarsi senza il soccorso della luce divina. A queste due beatitudini, come a due fini diversi occorre giungere con mezzi diversi. Alla prima infatti perveniamo per mezzo degli insegnamenti filosofici; purché li mettiamo in pratica operando secondo le virtù morali e intellettuali; alla seconda invece perveniamo per mezzo degli insegnamenti divini che trascendono la ragione umana, purché li seguiamo operando secondo le virtù teologiche della fede, speranza e carità. Siccome quel fine e quei mezzi ci siano stati additati dalla ragione umana, quale si è manifestata a noi compiutamente attraverso i filosofi, e sebbene quel fine e quei mezzi (soprannaturali) ci siano stati indicati dallo Spirito Santo che ci ha rivelato la verità soprannaturale a noi necessaria attraverso i profeti, gli scrittori ispirati, Gesù Cristo, figlio di Dio, a lui coeterno, e i suoi discepoli, tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti dalla retta strada “con la briglia e con il freno”. Per questo l’uomo ebbe bisogno di una duplice guida in corrispondenza di un duplice fine, cioè del sommo Pontefice per dirigere il genere umano alla vita eterna mediante la dottrina rivelata, e dell’Imperatore per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia.

dove mostra come le due autorità sia complementari e non soggette l’una all’altra, infatti egli usa la metafora dei due soli, e non come allora era abitudine del sole (luce diretta) e della luna (luce riflessa). Il passo si chiude con la riverenza che un Imperatore deve mostrare verso il Pontefice, ma ciò sottolinea, invece che contraddire la sua teoria: essa infatti sembra richiamare alla necessaria presenza della grazia divina (di cui il papa è strumento) nell’agire di ogni uomo (di cui l’imperatore è la massima espressione).

DOLCE STIL NOVO

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Firenze tra il ’200 e il ’300

A seguito della sconfitta di Manfredi, figlio di Federico II, i ghibellini furono cacciati dalla città di Firenze ed i Guelfi poterono governare, in un periodo di relativa pace, dal 1267 sino al 1280. Dopo quella data, terminato il conflitto che divideva i filo imperiali (ghibellini)  ed i filo papali (guelfi), la città vide un forte affermazione delle componenti popolari, arrivando così alla formazione del priorato delle arti nel 1282, che prevedeva la partecipazione alla vita politica soltanto se ci si iscrivesse ad una corporazione. 

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Tale processo portò nel 1293 la creazione degli Ordinamenti di Giustizia, il cui ideatore, Giano Della Bella, allargò il numero delle Arti e decretò che solo chi fosse iscritto ad esse potesse essere eletto nelle cariche pubbliche, escludendo de facto ai grandi magnati della città o a chi non risultasse iscritto ad un’arte di partecipare alla vita pubblica. Queste innovazioni politiche accompagnarono la città durante una vera e propria sottomissione delle altre e ad un arricchimento tale che trovò la sua esplicitazione in un aumento vertiginoso della popolazione. Ma proprio questo acuì di nuovo i contrasti politici che opponevano ora i Guelfi Neri, capitanati dalla famiglia dei Donati, espressione dei grandi magnati e della nobiltà cittadina, molto legati al Papato e i Guelfi Bianchi, guidati dalla famiglia dei Cerchi, che promuovevano una maggiore presenza del popolo nel governo della città ed una maggiore autonomia rispetto all’ingerenza papale. Tale divisione non era solamente politica, ma nascondeva anche rancori e gelosie tra le due famiglie. A darcene dimostrazione fu la zuffa di Calendimaggio nella primavera del 1300: sembra che i giovani della famiglia dei Donati fossero andati in piazza a provocare una lite con i Cerchi, tanto che, durante la rissa Ricoverino de Cerchi si trovò con il naso mezzo tagliato. Tale episodio inasprì talmente i rapporti che dovette intervenire Bonifacio VIII che fece occupare la città dalle truppe di Carlo di Valois e che impose il governo dei Neri. I Bianchi vennero cacciati e tra di essi vi furono sia ser Petracco Dante Alighieri. 

 Il nome

All’interno di questa vivace politica cittadina, un gruppo di giovani, figli di una piccola nobiltà o borghesia più o meno benestante, partendo dall’insegnamento di Guido Guinizzelli, che ritengono il loro padre sia per la forma che per il contenuto, s’incontrano per dar vita ad un cenacolo intellettuale per parlare d’amore e di pensiero. Il nome da essi assunto viene loro assegnato da Dante Alighieri che da giovane fece parte di questo gruppo che, più tardi, nel suo Purgatorio, al canto XXIV, incontrando Bonagiunta Orbicciani, così scrisse:

«Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore
trasse le nove rime, cominciando
“Donne ch’avete intelletto d’amore”».

E io a lui: «I’ mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’e’ ditta dentro vo significando».

«O frate, issa vegg’ io», diss’ elli, «il nodo
che ’l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo!

«Ma dimmi se io vedo qui colui che iniziò / il nuovo modo di scrivere poesia / con la canzone Donne che avete intelletto d’amore. // E io a lui: «Io sono uno che, quando Amore mi ispira, annoto, e nel modo in cui mi detta nell’animo, lo esprimo in versi». «O fratello, adesso capisco, l’ostacolo che il Notaio (Iacopo da Lentini), Guittone d’Arezzo e me (Bonagiunta Orbicciani) al di qua del dolce stil novo di cui adesso sento parlare!»

Furono proprio questi versi a far sì che, successivamente, sulle parole fatte dire a Bonagiunta da Dante, si suole “nominare” questo gruppo di intellettuali con la definizione di “stilnovisti”, per meglio dire “poeti del dolce stil novo”.

Il contenuto
3.-Averroè_MariaNovellaFirenze.jpgAverroé

Consapevoli di aver dato vita ad una vera e propria scuola, la cui attività può inquadrarsi tra il 1280 ed il 1330, gli stilnovisti da una parte si riallacciano alla tradizione cortese (la poesia trobadorica, siciliana e toscana), dall’altra la superano. Tale superamento avviene alla stregua di una maggiore “intellettualizzazione”, grazie anche agli studi che la vicina Università di Bologna propone e che colui che viene considerato il “maestro” adotta nella sua poesia “manifesto”. In tale Università si approfondisce lo studio dell’aristotelismo che, grazie al commento di Averroè, fornisce le basi per la “Scolastica”, scuola filosofica in cui eccelle il pensiero di San Tommaso: egli tenta di superare la speculazione agostiniana, secondo la quale la conoscenza di Dio non può essere razionale e quindi l’amore verso di Lui è solo un atto di fede e pertanto mistico, quindi puro, (applicando il modo conoscitivo platonico). Tommaso, viceversa, recupera Aristotele e quindi attraverso il suo metodo scientifico tende a spiegare razionalmente l’esistenza di Dio, attraverso le famose cinque prove:

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  • Motore immobile: se tutte le cose sono in movimento, procedono da un punto e attraverso una “spinta” arrivano ad un altro, e se si considera tale processo un continuo mutamento da un qualcosa ad un’altra, possiamo altrettanto dire che questo qualcosa sia in potenza ciò che nel divenire si trasforma in atto. Andando indietro definitivamente si arriverà all’atto/movimento coincidenti in quanto primi, quindi Dio;
  • Causa non causata: tutto il reale è composto da effetti, che a loro volta diventano cause di nuovi effetti. Se dovessimo percorrere il concetto di causalità nel tempo, si raggiungerebbe il punto in cui l’effetto e la causa coincideranno in una causa di qualcosa che non è causata, appunto una causa prima, quindi Dio;
  • Concetto di possibile e necessario: Tommaso per tale dimostrazione fa riferimento, alla dottrina di Avicenna (intellettuale arabo) che distingue tra ciò che è necessario per sé, e ciò che è necessario in rapporto ad altro come effetto o causa. Da questo si può dedurre che ogni cosa è necessaria solo che Dio lo è per sé mentre le cose dipendono necessariamente da Dio come effetti e al contempo cause di altre cose e sono per questo possibili: il bene o male della terra sono possibili, le intelligenze motrici del cielo sono il necessario “per altro”, quindi, con la stessa logica, ragionamento in verticale, avremo un necessario per sé, che regole le intelligenze angeliche, che a loro volta danno a noi la possibilità di essere buoni o malvagi;
  • Assioma del comparativo: se l’idea che esiste una cosa più calda, rimanda all’idea che ce ne sia una “caldissima”, allo stesso modo l’idea di bontà, virtù, carità, presuppongono un assoluto in cui esse possono essere racchiuse, cioè Dio.
  • Assioma dell’ordine: ogni cosa tende ad un proprio fine, ma tutte poi si dispongono ad un fine che le trascende: tale ordine non può essere che divino.

Quali effetti ha tale speculazione filosofica nella produzione poetica stilnovista? Se già nelle poesie precedenti si era metaforizzato il rapporto tra “donna” e “amante” come specchio dei rapporti esistenti nella corte (poesia, appunto, cortese), ora si tratta di metaforizzare l’“amore” attraverso le cinque tesi che dimostrano l’esistenza di Dio: basta fare l’esempio di potenza e atto, tratto proprio dalla poesia di Guinizzelli o ancora dell’assioma del comparativo, della causa e via discorrendo.

Stile

Cos’è che tuttavia rende questa poesia unica e nuova nel panorama della tradizione italiana fino ad allora prodotta? Che nonostante la “concettosità” dottrinale dei maggiori esponenti, essa non cesserà mai di ricercare l’eufonia e la perfezione formale, inseguendo la “bellezza” del verso. Inoltre le parole dovranno rispondere a concetti lontani dal reale e dalla quotidiana (appartenenti, come vedremo, allo stile “comico”) per rimandare maggiormente a “concetti”, che devono riflettere il pensiero dell’autore.

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Guido Guinizzelli

GUIDO GUINIZZELLI

Di lui si sa che fu avvocato, formatosi nell’Università di Bologna e che scrive poesia per puro diletto, come facevano, a tempo loro i siciliani. Egli forse non si rende conto della novità del suo poetare, se chiama Guittone d’Arezzo “padre mio”, ma se ne renderà conto proprio un ferreo “guittoniano” che lo accuserà di “aver mutato lo stile”. Ne è un esempio la canzone che sarà considerata il manifesto del dolce stil novo:

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Codice della poesia guinizzelliana

AL COR GENTIL REMPAIRA SEMPRE AMORE

Al cor gentil rempaira sempre amore
come l’ausello in selva a la verdura;
né fe’ amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sì tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende amore in gentilezza loco
così propïamente
come calore in clarità di foco.

Foco d’amore in gentil cor s’aprende
come vertute in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
così lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.

Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Così prava natura
recontra amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura.
Amore in gentil cor prende rivera
per suo consimel loco
com’ adamàs del ferro in la minera.

Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno:
vile reman, né ’l sol perde calore;
dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore:
ché non dé dar om fé
che gentilezza sia fòr di coraggio
in degnità d’ere’
sed a vertute non ha gentil core,
com’aigua porta raggio
e ’l ciel riten le stelle e lo splendore.

Splende ’n la ’ntelligenzïa del cielo

Deo crïator più che [’n] nostr’occhi ’l sole:
ella intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
così dar dovria, al vero,
la bella donna, poi che [’n] gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.

Donna, Deo mi dirà: «Che presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me venisti
e desti in vano amor Me per semblanti:
ch’a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».

In un cuore nobile, si rifugia sempre, come sua sede naturale, l’amore, / così come l’uccello si rifugia in un bosco tra il verde della vegetazione; / né la natura creò l’amore prima di un cuore gentile, né il cuore gentile prima dell’amore: / come, non appena apparve il sole, / subito lo splendore rifulse, / né apparve prima del sole; / l’amore prende il suo posto nell’animo nobile / così naturalmente / come il calore nello splendore del fuoco. // La fiamma dell’amore si accende nel cuore nobile, / così come la virtù, nella pietra preziosa, / perché dalla stella non discende in essa la particolare virtù / prima che il sole non l’abbia resa gentile, (cioè pura, libera da ogni impurità); / dopo che il sole ha tratto da essa, con la sua potenza, ciò che in essa è impuro, / la stella le infonde il valore: / così il cuore che dalla natura è stato creato / eletto, puro e nobile / una donna, come la stella nel suo operare, lo innamora. // L’amore risiede in un cuor gentile per la stessa ragione / per la quale la fiamma sta sulla sommità della torcia: / vi splende a suo piacere, luminosa, sottile, non vi starebbe in un modo diverso tanto è sdegnosa. / Una natura cattiva, (un animo volgare), / respinge l’amore così come l’acqua il fuoco / per la sua freddezza. L’amore ancora prende dimora in cuor gentile, / perché è il luogo più simile ad esso, / come il diamante nel minerale del ferro. // Il sole colpisce il fango tutto il giorno: / il fango resta vile, né il sole perde il suo valore. / Dice un uomo superbo: “Io sono nobile per discendenza”; / io paragono lui al fango il valore gentile al sole: / perché l’uomo non deve credere / che la nobiltà esista al di fuori dell’animo, nella dignità dell’eredità, / se non possiede un cuore nobile incline alla virtù, / come l’acqua si lascia attraversare dal raggio / e il cielo trattiene le stelle e la luce. // Risplende nell’intelligenza celeste / Dio creatore del cielo più del sole nei nostri occhi, / ed essa riconosce il proprio Fattore oltre il cielo che presiede / e, facendolo girare, prende a obbedire a Lui, / e ne consegue immediatamente la beata realizzazione di Dio, / così in verità dovrebbe comunicare / la bella donna, dopo che risplende agli occhi / del suo innamorato, il desiderio / di non distogliersi mai dall’obbedire a lei. // O donna, Dio mi dirà “Quale è stata la tua presunzione?” quando la mia anima dopo la morte starà davanti a Lui: “Oltrepassasti il cielo e arrivasti fino a me // e prendesti Me come termine di paragone in un amore frivolo, / perché le lodi si addicono soltanto a Me e alla regina del vero regno, / per la cui virtù svanisce ogni inganno del demonio”. / Allora io potrò dire: “La donna che ho amato aveva l’aspetto di un angelo, / che appartenesse al Tuo regno; / non peccai, se io riposi il mio amore in lei.

Questa famosa canzone del Guinizzelli è considerata il manifesto “dolce stil novo”, perché in essa possiamo trovare quegli elementi dottrinali che la rendono nuova pur se conserva concetti già presenti nella giovane tradizione poetica. Basti pensare alla nuova definizione di nobiltà, maggiormente coerente col carattere antifeudale della civiltà comunale. Inoltre adopera un linguaggio più aderente al sentimento, più limpido, caratterizzato da una musicalità più semplice “dolce” appunto, come richiedeva il nuovo stile. Gli elementi dottrinali possono ridursi essenzialmente a due: il primo è che l’amore ha la sua sede naturale nel cuor gentile, cioè nell’animo nobile, che è tale non per ereditarietà di stirpe, ma per qualità naturali, e per conquista individuale grazie all’intelligenza e alla cultura; il secondo elemento è il concetto della donna che con la sua bontà e bellezza traduce in atto l’amore che potenzialmente risiede nel cuore gentile, esaltando le migliori qualità dell’uomo, liberandolo così da ogni bassezza e impurità e perfezionandolo moralmente. Così operando sull’uomo, la donna assolve una funzione in più o meno simile a quella di Dio, che risplende davanti all’intelligenza angelica, rendendo poetico il concetto di potenza/atto.

Quest’altro brano, un sonetto, Guinizzelli analizza l’effetto del “saluto” della donna, motivo ripreso, in seguito, da Guido Cavalcanti:

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Il “saluto” della donna

LO VOSTRO BEL SALUTO E ‘L GENTIL SGUARDO

Lo vostro bel saluto e ’l gentil sguardo
che fate quando v’encontro, m’ancide:
Amor m’assale e già non ha riguardo
s’elli face peccato over merzede,

ché per mezzo lo cor me lanciò un dardo

ched oltre ’n parte lo taglia e divide;
parlar non posso, ché ’n pene io ardo
sì come quelli che sua morte vede.

Per li occhi passa come fa lo trono,

che fer’ per la finestra de la torre
e ciò che dentro trova spezza e fende:

remagno come statüa d’ottono,
ove vita né spirto non ricorre,
se non che la figura d’omo rende

Il vostro soave saluto e il gentile sguardo / che mi fate quando vi incontro, mi uccide: / l’amore mi assale e non si cura / se mi reca danno oppure piacere, // perché attraverso il cuore mi ha lanciato una freccia / che lo divide a metà da parte a parte / non posso parlare perché brucio nel dolore / così come colui che vede la sua morte. // (L’amore) passa attraverso gli occhi come fa un fulmine, / che ferisce entrando da una finestra di una torre / e spezza e taglia ciò che trova dentro; // rimango immobile come una statua d’ottone, / dove non scorre né vita né anima / se non per il fatto che raffigura l’immagine umana.

Come si vede nelle due quartine s’ introduce il tema della sofferenza, mentre, nelle due terzine, l’amante si è trasformato in una statua di ottone, non più percorsa da alcuno spirito né flusso vitale e di umano ha solo le sembianze esterne. Infatti il sonetto è divisibile in due parti: nelle quartine emergono gli effetti diretti del saluto e dello sguardo della donna sull’amante; nelle terzine si notano anche eventi naturali, atti, in qualche modo a “paragonare” l’effetto dell’amore a quello del mondo circostante; anche qui, infatti, si tratta di un atto che non riesce a tradursi in potenza. Il concetto di statua d’ottone contiene in sé, a ben vedere, il concetto dell’immobilità che è contrario a quello appunto del motore aristotelico. Non c’è negazione ma la non trasformazione, proprio perché l’atto non ha colpito il poeta.

Se, come detto, è la sofferenza, il tema del sonetto precedente, questo invece presenta l’alto importantissimo tema della “lauda”, anch’esso sviluppato in modo importante dallo stilnovismo maturo:

IO VOGLIO DEL VER LA MIA DONNA LAUDARE

Io voglio del ver la mia donna laudare
ed assembrarli la rosa e lo giglio:
più che stella diana splende e pare,
e ciò ch’è lassù bello a lei somiglio.

Verde river’ a lei rasembro a l’are,
tutti color di fior’, giano e vermiglio,
oro ed azzurro e ricche gioi per dare:
medesmo Amor per lei rafina meglio.

Passa per via adorna, e sì gentile
ch’abassa orgoglio a cui dona salute,
e fa ‘l de nostra fé se non la crede:

e no ‘lle po’ apressare om che sia vile;
ancor ve dirò c’ha maggior vertute:
null’om po’ mal pensar fin che la vede.

Io voglio lodare la mia donna in modo veritiero / e paragonarla alla rosa e al giglio; / splende e appare luminosa più della stella Venere / e per me ciò che lassù è bello è simile a lei. // A lei paragono la verde campagna e l’aria, / tutti i colori dei fiori, giallo e rosso, / oro e azzurro e gioielli da donare: / perfino Amore per merito suo si perfeziona. // Passa per la strada ornata e così gentile / che abbassa l’orgoglio a colui che la saluta / e se non crede lo converte alla nostra fede; // e non le si può avvicinare chi non sia gentile: / in più vi dirò che ha un potere ancora più grande; / nessuno può pensare male fino a che la guarda.

Sia a livello stilistico che contenutistico questo sonetto appare come una “summa” dell’arte stilnovistica: la “similarità” tra la donna e Dio, pare dimostrata proprio dall’arte del paragone, arte già presente sia nella canzone dello stesso Guinizzelli che nella poesia francescana; poi l’effetto dell’apparizione della donna è visto come un processo salvifico, (“salute”) costruito con la tecnica del climax: dapprima abbassa l’orgoglio, quindi lo converte ed infine fa in modo che non pensi alcuna cosa malevola. Anche il lessico rimanda a concetti stilnovisti, come l’aggettivazione rivolta alla donna “adorna”, “gentile”; i sostantivi come “virtute” ed il verbo “laudare”.

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Guido Cavalcanti

GUIDO CAVALCANTI

Guido Cavalcanti è il poeta più importante dello stil novo ed anche della nostra letteratura prima di Dante. Con lui l’arte si trasferisce, per così dire, dall’Università bolognese a Firenze, ma, nello stesso tempo, approfondisce e rende più rigorosi i procedimenti stilistici del suo fondatore Guinizzelli. E’ uno degli uomini più importanti nella città Toscana, nato da nobile famiglia intorno al 1250. Si schiera con la parte dei Guelfi Bianchi e fa parte del governo cittadino. Allontanato dalla politica con gli Ordinamenti di Giustizia, rimane attivo, conducendo un aspra battaglia con i rappresentanti dei Guelfi Neri, capitanati dai Donati. Proprio per evitare disordini i priori della città, fra cui lo stesso Dante, esilia i più “esagitati” fra le due fazioni, fra cui il suo amico Cavalcanti. Dopo pochi mesi trascorsi a Sarzana, torna a Firenze per spegnersi in questa città dopo pochi mesi, nel 1300.

La particolarità di Cavalcanti è proprio nell’approfondimento filosofico che vede nell’amore un’esperienza drammatica che, lasciando liberi gli spiriti vitali, annienta l’uomo. Quindi l’uomo, la cui anima diventa “cosa” informe, si spezza, si dilania, non riesce più a “controllarsi” razionalmente: se ciò avviene egli non è più padrone di sé. Può un uomo simile giungere alla conoscenza? Questi temi sono espressi, in forma assai concettuale in una delle canzoni più difficili di tutta la nostra tradizione poetica:

DONNA ME PREGA

Donna me prega, – per ch’eo voglio dire
d’un accidente – che sovente – è fero
ed è sì altero – ch’è chiamato amore:
sì chi lo nega – possa ’l ver sentire!
Ed a presente – conoscente – chero,
perch’io no spero – ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
ché senza – natural dimostramento
non ho talento – di voler provare
là dove posa, e chi lo fa creare,
e qual sia sua vertute e sua potenza,
l’essenza – poi e ciascun suo movimento,
e ’l piacimento – che ’l fa dire amare,
e s’omo per veder lo pò mostrare.

In quella parte – dove sta memora
prende suo stato, – sì formato, – come
diaffan da lume, – d’una scuritate
la qual da Marte – vène, e fa demora;
elli è creato – ed ha sensato – nome,
d’alma costume – e di cor volontate.
Vèn da veduta forma che s’intende,
che prende – nel possibile intelletto,
come in subietto, – loco e dimoranza.
In quella parte mai non ha possanza
perché da qualitate non descende:
resplende – in sé perpetüal effetto;
non ha diletto – ma consideranza;
sì che non pote largir simiglianza.

Non è vertute, – ma da quella vène
ch’è perfezione – (ché si pone – tale),
non razionale, – ma che sente, dico;
for di salute – giudicar mantene,
ch la ’ntenzione – per ragione – vale:
discerne male – in cui è vizio amico.
Di sua potenza segue spesso morte,
se forte – la vertù fosse impedita,
la quale aita – la contraria via:
non perché oppost’ a naturale sia;
ma quanto che da buon perfetto tort’è
per sorte, – non pò dire om ch’aggia vita,
ché stabilita – non ha segnoria.
A simil pò valer quand’om l’oblia.

L’essere è quando – lo voler è tanto
ch’oltra misura – di natura – torna,
poi non s’adorna – di riposo mai.
Move, cangiando – color, riso in pianto,
e la figura – con paura – storna;
poco soggiorna; – ancor di lui vedrai
che ’n gente di valor lo più si trova.
La nova – qualità move sospiri,
e vol ch’om miri – ’n non formato loco,
destandos’ ira la qual manda foco
(imaginar nol pote om che nol prova),
né mova – già però ch’a lui si tiri,
e non si giri – per trovarvi gioco:
né cert’ ha mente gran saver né poco.

De simil tragge – complessione sguardo
che fa parere – lo piacere – certo:
non pò coverto – star, quand’ è sì giunto.
Non già selvagge – le bieltà son dardo,
ché tal volere – per temere – è sperto:
consiegue merto – spirito ch’è punto.
E non si pò conoscer per lo viso:
compriso – bianco in tale obietto cade;
e, chi ben aude, – forma non si vede:
dunqu’ elli meno, che da lei procede.
For di colore, d’essere diviso,
assiso – ’n mezzo scuro, luce rade.
For d’ogne fraude – dico, degno in fede,
che solo di costui nasce mercede.

Tu puoi sicuramente gir, canzone,
là ’ve ti piace, ch’io t’ho sì adornata
ch’assai laudata – sarà tua ragione
da le persone – c’hanno intendimento:
di star con l’altre tu non hai talento.

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Città medievale

Una donna mi invita a dire, e quindi parlo di un accidente, che spesso è crudele e violento da chiamarsi amore: chi lo nega lo possa sperimentare nella sua vera natura! E a questo fatto chiedo un esperto, poiché non mi attendo che, chi è di animo vile, possa comprendere un tale argomento: perché, senza una dimostrazione della filosofia naturale, non riesco a provare dove l’amore risiede e chi lo fa agire, quale sia la sua virtù e quale il suo potere, l’essenza, e i moti che provoca, l’attrazione che lo fa definire amore, e se lo si può raffigurare visibilmente. // L’amore si insedia in quella parte dove risiede la memoria e s’insedia stabilmente, formato da un’oscurità che procede dall’influsso di Marte, così come il corpo trasparente si trasforma in luminoso per la luce (potenza ad atto); l’amore è creato e, poiché è colto dai sensi, assume un nome, è disposizione naturale dell’anima e desiderio del cuore. Esso muove dalla visione di una figura, che si percepisce nell’intelletto possibile (intelletto che rimane in potenza, senza trasformarsi in atto) così come nel soggetto pronto ad accoglierla, ed in esso assume stabile dimora. Nell’intelletto possibile l’amore non può nulla, poiché esso è indipendente dai quattro elementi essenziali (terra, acqua, aria e fuoco): risplende in lui l’eterna capacità d’intendere attraverso l’intelletto; non accoglie il piacere ma contempla, tanto da non produrre elementi di confronto. // L’amore non è virtù ma proviene da quella capacità che è perfezione (tale è considerata) e non perfezione razionale ma sensitiva; l’amore sottrae il giudizio al sano ragionare, poiché il desiderio prende il posto della razionalità: fa cattivo uso del discernimento chi si lega alla passione. Dal potere di amore deriva spesso morte, se talora la virtù vitale venga ostacolata; e non perché l’amore si opponga a leggi naturali, ma [per il fatto che] quanto più ci si allontani dalla perfetta felicità, non si può dire che si viva veramente, poiché non si ha fermo autocontrollo. Lo stesso avviene quando qualcuno dimentica del bene perfetto. // L’essenza dell’amore si ha quando il desiderio è tanto intenso che supera i limiti naturali e non si accompagna mai al riposo. Esso muta colore e l’aspetto esteriore per paura, trasformando il riso in pianto e facendo mutare colore al volto; è incostante e lo si può vedere stabilmente in persone d’animo nobile. La novità della sensazione provoca sospiri e impone che si contempli un oggetto che non ha ancora ricevuto forma dall’intelletto possibile, per cui si genera ira che fa avvampare (non lo può immaginare chi non lo prova direttamente), ed impone che non ci si muova, per quanto attratti da lui, e che non ci si distolga, al fine di trovarvi gioia, né tanto meno una sapienza piccola o grande. // L’amore trae lo sguardo da un essere simile per natura, così da far sembrare certo il piacere: non può rimaner nascosto quando è giunto a questo punto. Le bellezze, non però quello scontrose,  sono frecce capaci di provocare le ferite d’amore, poiché il desiderio è messo alla prova dalla capacità di resistere al timore (provocato dalle ferite d’amore): chi ne è colpito trae valore, si autoperfeziona. E l’amore non si manifesta mediante la vista; concepito dall’anima sensitiva, la bianchezza (l’assolutezza) viene meno in tale oggetto; e, per chi comprende correttamente, la forma non si intuisce: tanto meno l’amore che da essa procede. Privo di colore, distaccato dalla sostanza, collocato in un mezzo oscuro, respinge la luce. Sinceramente affermo, meritevole di fiducia, che solo da un tale amore nasce ricompensa. // Tu canzone, puoi andartene in tutta sicurezza, ovunque ti piaccia, poiché io ti ho elaborata in modo tale che la tua argomentazione sia lodata da chiunque è competente in materia: non hai desiderio di startene con chi è estraneo a tali argomenti.

Ci troviamo di fronte ad un periodare che è formato da una ferrea argomentazione, tutta tratta dalla filosofia naturale averroistica, in cui si esplicita “scientificamente” la “fenomenologia dell’amore”. Essa può essere riassunta nelle risposte agli otto quesiti posti nella prima stanza:

  • quale sia la sede di Amore;
  • da chi è stato creato, qual è la sua origine;
  • a quale facoltà dell’anima esso si riferisca;
  • la sua potenza;
  • la sua essenza;
  • i suoi effetti;
  • il piacere che lo caratterizza;
  • se amore possa essere reso sensibilmente.

Attraverso le risposte a queste domande avremo la concezione dell’amore cavalcantiana:

  1. L’amore non è eterno ed incorruttibile, ma proviene da Marte e si situa dove sta la memoria, attraverso un processo di potenza (Marte) ed atto (il soggetto che lo riceve).
  2. L’amore è creato dalla percezione di una forma, che diventa intellegibile quando è situata nell’intelletto possibile; quest’ultimo non essendo attivo, rende l’amore statico, inoperante, in quanto la “visione” non lo rende comprensibile, non trasformandolo in azione, perché tale visione ha prodotto solo la facoltà di percepirlo in modo perfetto.
  3. L’amore, una volta attivato, va all’anima sensitiva: qui la percezione diventa azione, ma non vi è tuttavia l’anima razionale ad accompagnarla; esso è trainato dal desiderio per raggiungere la sua perfezione, così come lo ha percepito nell’animo possibile. Tale processo può portare alla non distinzione del “bene”;
  4. La potenza dell’amore può arrivare sino alla morte in quanto contrasta con lo spirito vitale che è naturalmente portato al bene. Infatti esso è piena consapevolezza del sé, che il desiderio della perfezione dell’amore, che pur non contrastando con natura, allontana dal fine del sommo bene.
  5. L’essenza dell’amore è nella passione che travalica i limiti della natura: cambiamento aspetto, colore…
  6. Nel momento in cui l’uomo guarda con passione (e non con ragione) l’oggetto dell’amore, non lo vede né può raggiungerlo nella sua realtà (mancanza di appagamento del desiderio), da ciò ira e sconforto.
  7. Il piacere che se ne determina è nel riconoscersi nell’altro attraverso lo sguardo che rimanda amore. La gioia che ne deriva si deve alla capacità di resistere alle “frecce” d’amore che costituiscono ferite “mortali”: da ciò si deduce il coraggio dell’uomo;
  8. L’amore non è rappresentabile: derivando dall’oscurità di Marte, passando dall’anima possibile, che lo contempla, all’anima sensitiva, che lo agisce, esso non può essere visto.

La canzone qui presente è tutta in endecasillabi, a sottolineare l’elevatezza di contenuto, rimarcata nei primi versi dall’indirizzo verso cui è rivolta perch’io no spero – ch’om di basso core e negli ultimi da le persone – c’hanno intendimento: ciò indica che la costruzione è ad anello (finisce come comincia). Sin dall’inizio la concezione dell’amore cavalcantiano entra in collisione con quello di Guinizelli: tanto per quest’ultimo l’amore è luce, quanto per il poeta fiorentino è oscuro. Sarà proprio il Cavalcanti a definirlo una guerra (proviene da Marte). Infatti l’amore nasce dalla visione di una forma perfetta (la donna) – come tradizionalmente dicevano già i siciliani; tale visione si situa nella memoria, che secondo la filosofia medievale è una delle tre parti dell’anima (vegetativa, sensitiva, intellettiva); ma la conoscenza, per Averroè non deriva da organi corporei – per cui conoscenza e amore sono antitetici. Nella poesia di Cavalcanti tale concetto ha una precisa ragione filosofica. Secondo la dottrina averroistica la conoscenza non comporta né dolore né piacere: essa è contemplazione del vero: è facile capire che l’innamorato, sospeso tra il dolore e il piacere sensuale, non può mai pervenire ad essa. L’intelletto, sede della conoscenza non può essere turbato dalla passione d’amore. L’anima sensitiva, sconvolta dalla passione d’amore determinata dal continuo ricordo della della donna, non può elevarsi alla conoscenza.  In ultima analisi ad un contenuto oscuro Cavalcanti risponde con uno stile che conserva la caratteristica dell’“eufonia” che caratterizza tale movimento, e lo fa con il ricorso di rime al mezzo – inusuali all’interno del genere canzone – accidente : sovente v. 2.; dimostramento : talento v. 8/9; l’intera sequenza dei versi 21/23: Vèn da veduta forma che s’intende, / che prende – nel possibile intelletto, / come in subietto, – loco e dimoranza. Per non parlare delle continue assonanze e consonanze di cui è intessuta l’intera canzone, composta da 5 stanze con la fronte di due piedi ciascuna con rima ABC, ABC; cui segue la sirma ognuna di 4 versi DEFG; DEFF.

In questo sonetto, invece, si può misurare la differenza che vi è tra Guinizzelli e Cavalcanti, pur esprimendosi entrambi nel genere della “lode”:

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CHI E’ QUESTA CHE VEN

Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira,
che fa tremar di chiaritate l’are
e mena seco Amor, sì che parlare
null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira,

dical’Amor, ch’i’ nol savria contare:
cotanto d’umiltà donna mi pare,
ch’ogn’altra ver’ di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza.

Chi è questa che avanza, che ciascuno l’ammira / che crea un tremolio di luminosità nell’aria / e conduce con sé l’Amore / così che nessun uomo può parlare / ma ciascuno sospira? // Oh Dio, che cosa sembra quando gira intorno gli occhi! / Lo dica Amore, che io non lo saprei esprimere / mi pare la signora stessa dell’umiltà / che ogni altra, rispetto a lei, la definirei superba. // Non si potrebbe descrivere la sua bellezza, / dato che davanti a lei si china ogni virtù / e la bellezza la indica come sua dea. // La nostra mente non fu così elevata / e non fu posta in noi tanta capacità / da poterne avere una conoscenza perfetta.

Il tema di questo sonetto (schema delle rime: incrociata nelle due quartine ABBA ABBA; invertita nelle terzine CDE EDC) è quello, già guinizzelliano, della lode della donna. Ma il Cavalcanti va oltre, facendo della donna un essere quasi sovrumano. Già l’interrogazione iniziale  con il riferimento alla figura femminile, si richiama a quello della Bibbia per Maria (Quis est ista, quae progreditur?), ma l’inserimento di Amore già nel terzo verso, l’allontana subito dalla sfera religiosa. Infatti altro tema importante è quello dell’incapacità della parola nel descriverla, in quanto ella, pur conservando tratti angelici, sembra rimandare ad un’idea di perfezione e di umiltà, tale da non potersi rappresentare. Infatti vedendo il modo attraverso cui in Donna me prega tale idea si formava nell’anima intellettiva, essa nel momento in cui passa nell’anima sensitiva toglie all’uomo la capacità di intenderla (non si poria contar la sua piagenza) e quindi di conoscerla (metafora donna/conoscenza). Non è a caso che a livello polisemantico qui il termine salute acquisti un ulteriore significato (gesto di saluto, salvezza, capacità di raggiungerla).

La costruzione si può definire in crescendo; ogni tema presente nelle stanze viene ripreso in quella successiva, ad eccezione dell’ultima che, sul tema dell’ineffabilità, si lega alla seconda. 

Tale fallimento è spiegato in modo ancor più radicale in un altro sonetto modellato sempre da Guinizzelli:

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VOI CHE PER LI OCCHI

Voi che per li occhi mi passaste ’l core
e destaste la mente che dormia,
guardate a l’angosciosa vita mia,
che sospirando la distrugge Amore.

E’ vèn tagliando di sì gran valore,
che’ deboletti spiriti van via:
riman figura sol en segnoria
e voce alquanta, che parla dolore.

Questa vertù d’amor che m’ha disfatto
da’ vostr’occhi gentil’ presta si mosse:
un dardo mi gittò dentro dal fianco.

Sì giunse ritto ’l colpo al primo tratto
che l’anima tremando si riscosse
veggendo morto ’l cor nel lato manco.

Voi che attraverso gli occhi mi trapassaste il cuore / e risvegliaste la mente che dormiva, / guardate a questa mia vita angosciosa / che, a causa dei sospiri, l’Amore distrugge. // Egli mi colpisce con tanta forza / che gli spiriti indeboliti scappano / rimane solo il corpo in suo potere / e poca voce, che esprime dolore. // Questa virtù d’amore che mi ha disfatto / veloce si dirizzò verso di me dai vostri nobili occhi: / una freccia mi gettò sin dentro il fianco. // Così giunse dritta fino al fianco sinistro, / che l’anima tremando per paura, si riscosse / vedendo morto il cuore nel lato sinistro.

In questo sonetto (schema delle rime: incrociata nelle due quartine ABBA ABBA; ripetuta nelle terzine CDE CDE) fa uso di una terminologia precisa che risponde all’esigenza di oggettivare il sentimento amoroso come un vero e proprio evento. Per far questo egli rappresenta le conseguenze che produce sull’amante la visione della donna: nella prima quartina descrive il processo di innamoramento. Al principio di tale processo è la donna, la cui immagine arriva fino al “cuore” e desta la “mente” dal suo sonno (passaggio dell’amore dalla potenza all’atto per opera di una causa, la donna). Poi l’azione che si svolge nel cuore è rappresentata come una battaglia: l’amore, penetrato all’interno dell’uomo, ferisce con forza e mette in fuga gli “spiriti”, che sovrintendono le facoltà sensoriali dell’uomo e che quindi ci sostengono in vita. Cavalcanti tuttavia, personifica anche questi elementi costitutivi dell’organismo dell’uomo. Essi si raccolgono a difesa del cuore, ma poi sono sgominati e messi in fuga dall’Amore. Rimangono soltanto la “figura”, cioè l’aspetto fisico dell’amante, e la sua “voce”. Il sonetto si conclude con la constatazione della “morte” del cuore. Si tratta ovviamente di una morte metaforica, risultato dello sconvolgimento portato nell’uomo dalla passione, che come nel sonetto precedente vede l’amore come ostacolo alla conoscenza.

Stessa sensazione di amore come dolore ce la offre lo straordinario sonetto seguente, nel quale il nostro non si presenta come io lirico che, oggettivando la fenomenologia dell’amore come annichilimento, condivide con il lettore la sensazione distruttiva. Qui a definire tale situazione sono gli oggetti che sono il mezzo attraverso cui nasce la poesia d’amore:

NOI SIAN LE  TRISTE PENNE SBIGOTTITE

Noi siàn le triste penne isbigotite,
le cesoiuzze e ’l coltellin dolente,
ch’avemo scritte dolorosamente
quelle parole che vo’ avete udite.

Or vi diciàn perché noi siàn partite
e siàn venute a voi qui di presente:
la man che ci movea dice che sente
cose dubbiose nel core apparite;

le quali hanno destrutto sì costui
ed hannol posto sì presso a la morte,
ch’altro non n’è rimaso che sospiri.

Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegn[i]ate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.

Noi siamo le tristi penne sbigottite, le forbicine e il dolente coltellino, che abbiamo scritto con dolore quelle parole che voi avete ascoltato. // Ora vi diciamo perché ci siamo allontanati e siamo giunti adesso qui di fronte a voi: la mano che si è servita di noi afferma che sente nel cuore gli appaiono cose paurose; // le quali lo hanno a tal punto debilitato da averlo portato così vicino alla morte, che non è di lui rimasto altro che sospiri. // Ora vi preghiamo per quanto possiamo più caldamente, che non vi sdegnate di tenerci finché siate un po’ toccate da pietà per noi.
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Questo sonetto pone al centro tematico gli strumenti dello scrivere, quindi con un solo termine, la parola poetica. Essi sono i veri protagonisti tanto cancellare la figura dell’autore e oggettivare in essi il suo dolore: sono infatti le penne e i mezzi per appuntirle che agiscono: si allontano, vanno dalla donna che ha provocato dolore e le chiedono pietà. Iol tutto risolto attraverso una “drammatizzazione” teatrale, svolta con tale leggerezza stilistica da colpire il più grande scrittore italiano della seconda metà del ‘900: Italo Calvino.

L’oggettivazione cavalcantiana dello stato psichico dell’anima e della mente trova il suo capolavoro nella ballatetta (piccola ballata) Perch’io no spero:

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PERCH’IO NO SPERO

Perch’i’ no spero di tornar giammai
ballatetta, in Toscana,
va’ tu, leggera e piana,
dritt’a la donna mia,
che per sua cortesia
ti farà molto onore.

Tu porterai novelle di sospiri

piene di dogli’ e di molta paura;
ma guarda che persona non ti miri
che sia nemica di gentil natura:
ché certo per la mia disaventura
tu saresti contesa,
tanto da lei ripresa
che mi sarebbe angoscia;
dopo la morte, poscia,
pianto e novel dolore.

Tu senti, ballatetta, che la morte
mi stringe sì, che vita m’abbandona;
e senti come ’l cor si sbatte forte
per quel che ciascun spirito ragiona.
Tanto è distrutta già la mia persona,
ch’i’ non posso soffrire:
se tu mi vuoi servire,
mena l’anima teco
(molto di ciò ti preco)
quando uscirà del core.

Deh, ballatetta mia, a la tu’ amistate

quest’anima che trema raccomando:
menala teco, nella sua pietate,
a quella bella donna a cu’ ti mando.
Deh, ballatetta, dille sospirando,
quando le se’ presente:
«Questa vostra servente
vien per istar con voi,
partita da colui
che fu servo d’Amore».

 Tu, voce sbigottita e deboletta
ch’esci piangendo de lo cor dolente
coll’anima e con questa ballatetta
va’ ragionando della strutta mente.
Voi troverete una donna piacente,
di sì dolce intelletto
che vi sarà diletto
darle davanti ognora.
Anim’, e tu l’adora
sempre, nel su’ valore.

Poiché io non spero di tornare più / piccola ballata, in Toscana, / vai tu, leggiadra e dolce, / direttamente alla mia donna / che, grazie alla sua grazia, / ti farà degna accoglienza. // Tu porterai notizie di sospiri / piene di dolori e di grandi timori; / ma bada che non ti osservi nessuno / perché certamente per la mia disavventura / tu saresti contrastata / e tanta oltraggiata da lei / che ciò mi angoscerebbe, / e anche dopo la morte, / pianto e nuovo dolore. // Tu senti, piccola ballata, che la morte, / m’incalza in tal modo, che la vita mi abbandona / e senti come il cuore si agita con forza / a causa di ciò che tutti gli spiriti gli dicono. / La mia integrità personale e già talmente distrutta / che ormai non sono più in grado di resistere: / Se tu mi vuoi rendere un servizio / porta la mia anima con te (e di ciò ti prego molto) quando uscirà dal cuore. // Oh, piccola ballata mia, alla tua amicizia / raccomando quest’anima tremante / portala con te, nella sua angosciosa situazione / a quella bella donna alla quale ti mando. / Oh, piccola ballata, dille con sospiri / quando ti trovi di fronte a lei: / “Questa vostra serva fedele / viene per stare con voi, / separatasi da lui / che fu vostro servo d’Amore. // Tu, mia voce turbata e flebile / che esci piangendo del mio cuore affranto, / insieme all’anima e a questa ballatetta, parla della mia mente distrutta. / Voi troverete una bella donna, / dal pensiero tanto gentile, / che sarà per voi una gioia / starle accanto. / Anche tu, anima, adorala sempre, per il suo valore.

La piccola ballata, schema ritmico inusuale e non semplicissimo (all’inizio una ripresa di 6 versi di cui un endecasillabo e 5 settenari con rime Abbccd, tale ripresa sarà ripetuta in tutte le sirme delle altre 4 stanze in cui la fronte – formata da due piedi – di ognuna presenta versi endecasillabi; ultimo verso rima con tutti gli ultimi versi della ripresa e delle stanze) non inficia su uno stile chiaro e lineare dal lessico abbastanza semplice, tipico del “dolce stil novo”. Anche qui, pur non affrontando in modo diretto il tema dell’amore, ma soprattutto quello della lontananza (si pensa possa essere stato scritto a Sarzana, dov’era esiliato) siamo di fronte a una sconfitta. Il poeta è infatti consapevole di non poter ricevere in cambio felicità o consolazione dal momento che, quando la ballata si allontanerà da lui, lo farà per sempre. La ballata è quindi solo una testimonianza di amore. Nel testo viene oggettivato il soggetto, è proiettata la personalità del poeta su degli elementi esterni. E’ la ballata che deve prendere il posto del poeta, rappresentarlo nel suo avvicinamento e servire la donna amata: vediamo l’anafora del “tu”, rivolto dal dolente poeta (deh, ripetuto nella quarta stanza) alla stessa ballatetta. Ma è proprio la distanza che non permette l’immaginazione, quindi il passaggio all’anima sensibile e il dolore per l’impossibilità della conoscenza: ecco perché la malinconia; l’uomo sconfitto in presenza della donna, ma quando è in assenza della donna è sconfitto in modo analogo, perché non provando tensione, non prova dolore e quindi il desiderio di conoscenza: ciò equivale alla morte. 

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Immagine della cortesia in Folgòre

All’interno della scuola stilnovista, non possiamo dimenticare che sorge, affiancandola e in parte capovolgendo i temi, un’altra lirica, alle volte meno intellettualizzata (così detta “realista”) e l’altra con accenti più crudi e parodistici (cosiddetta “comica).

Tra i primi ci piace ricordare Folgòre da San Gimignano (1270 – 1330), di cui si riporta qui un sonetto:

INTRODUZIONE

A la brigata nobele e cortese
en tutte quelle parte, dove sono
con allegrezza stando, sempre dono
cani, uccelli e danari per ispese,

ronzin portanti, quaglie a volo prese,
bracchi levar, correr veltri a bandono:
in questo regno Niccolò corono,
per ch’ell’è ‘l fior de la città sanese;

Tengoccio e Min di Tengo ed Ancaiano,
Bartolo con Mugàvero e Fainotto,
che paiono figliuoi del re Priàno,

prodi e cortesi più che Lancilotto;
se bisognasse, con le lance in mano
fariano tarneamenti a Camelotto.

Alla brigata nobile e cortese, dovunque se ne stia in allegria, donerò sempre cani, uccelli e denari per il mangiare, buoni cavalli, quaglie prese al volo, e il divertimento di liberare i bracchi e di far correre i veltri in libertà. Di questo regno do la corona a Niccolò di Nigi, perché egli è il fiore della città di Siena; e poi Tengoccio de’ Tolomei, Mino di Tengo, Ancaiano, Bartolo, Mogavero del Balza e Fainotto Squarcialupi, che sembrano figli del re Priamo, prodi e cortesi più di Lancillotto, se fosse necessario andrebbero con le lance in mano a fare tornei a Camelot.

La poesia, dal cui titolo si capirà essere introduttiva ad una collana dedicata ai dodici mesi, ognuno del quale era riportato in un sonetto, ci mostra come il poeta si discosti dalla poesia del dolce stil novo per un più semplice e diretto uso della lingua. Si tratta infatti di un brano lirico in cui, nei primi otto versi viene descritta una lieta brigata, cui si raccomanda una vita allegra e gaudente. L’ultima terzina porta questi giovani a “immaginarsi” in un regno in cui la loro vita s’impreziosisce di modelli nobili e quindi gentili, dove rifulge la virtù del torneo.

Metricamente la lirica è un sonetto, in cui le rime delle prime due quartine è detta incrociata (ABBA, ABBA), le terzine presentano invece una rima alternata CDC, DCD.

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Cecco Angiolieri

Sul versante comico è invece da ricordare Cecco Angiolieri (1260 – 1310), la cui vita sembra corrispondere alla sua poesia: nato da famiglia nobile a Siena, sperpera tutti i denari, tra multe ed infrazioni. Muore in povertà.

S’I FOSSE FOCO

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempesterei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo,
ché tutti cristïani imbrigherei;
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei?
A tutti mozzarei lo capo a tondo.

s’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente farìa da mi’ madre.

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
e vecchie e laide lasserei altrui.

Se fossi il fuoco, brucerei il mondo; se fossi il vento, lo colpirei con tempeste; se fossi l’acqua, lo annegherei; se fossi Dio, lo farei sprofondare; se fossi il papa, allora sarei contento, poiché metterei nei guai tutti i cristiani; se fossi l’imperatore, sai cosa farei? Taglierei a tutti la testa di netto. Se fossi la morte, andrei da mio padre; se fossi la vita, fuggirei da lui: farei una cosa simile con mia madre. Se fossi Cecco, come sono e sono sempre stato, prenderei le donne giovani e belle; lascerei agli altri quelle vecchie e brutte.

Anche questo è un sonetto con una struttura metrica simile alla precedente (ABBA ABBA, CDC, DCD). Tuttavia qui appare più marcato il senso dello stravolgimento di “significato” della poesia precedente. In primo luogo dobbiamo riconoscere a Cecco Angiolieri una buona perizia letteraria: l’anafora dei primi quattro versi che si ripete poi nel quinto e nel settimo, sta quasi ad indicare il desiderio ipotetico di essere qualcosa di diverso da quello che è per colpire, in modo imperioso, i suoi nemici che sono il mondo, tutti gli uomini cristiani, a tutti indistintamente. E’ chiaro che la “rabbia” all’inizio della poesia, gioca sull’assurdo. Cessa di essere tale al nono verso dove l’ipotesi di essere si scaglia contro le figure genitoriali (che non essendo propriamente generose nei suoi confronti, gli impongono una vita di stenti), e l’ultima, quasi con un colpo “giullaresco”, quando torna ad essere se stesso, il suo desiderio si dimostra essere quello di godersi le donne giovani e belle e di lasciare ad altri le vecchie e zoppe.

Bordello medievale

Ma il manifesto di Cecco Angiolieri viene espresso in questo sonetto:

TRE COSE SOLAMENTE M’ENNO IN GRADO

Tre cose solamente m’ènno in grado,
le quali posso non ben ben fornire,
cioè la donna, la taverna e ’l dado:
queste mi fanno ’l cuor lieto sentire.

Ma sì·mme le convene usar di rado,
ché la mie borsa mi mett’ al mentire;
e quando mi sovien, tutto mi sbrado,
ch’i’ perdo per moneta ’l mie disire.

E dico: «Dato li sia d’una lancia!»,
ciò a mi’ padre, che·mmi tien sì magro,
che tornare’ senza logro di Francia.

Ché fora a tôrli un dinar[o] più agro,
la man di Pasqua che·ssi dà la mancia,
che far pigliar la gru ad un bozzagro

Tre cose solamente mi sono gradite, che non posso raggiungere come vorrei, cioé le femmine, il vino, ed il gioco d’azzardo, che mi fanno sentire il cuore allegro. // Ma così sono costretto a permettermele raramente, che la mia borsa, che contiene pochi soldi, me le nega, e quando mi capita mi metto a sbraitare perché devo rinunciare per mancanza di denaro. // E dico: «Sia trafitto con una lancia!» questo a mio padre, che mi tiene a stecchetta, che tornerei senza dimagrire dalla Francia, // perché sarebbe più difficile togliergli un denaro la mattima di Pasqua quando si dà la mancia, che far catturare una gru da una poiana. 

Tale poesia (sonetto con una struttura metrica ABBA ABBA, CDC, DCD) risulta essere un “consapevole” capovolgimento rispetto a quella stilnovista: al suo essere eterea si risponde con la massima materialità. Cecco infatti dichiara apertamente la sua anti-intellettualità negando qualsiasi richiamo spirituale; ma quello che più emerge è da una parte il conflitto, già presente in  S’i’ fosse foco, tra padri e figli, ma soprattutto l’elemento economico, a dimostrazione della raggiunta stabilità finanziaria raggiunta dal ceto mercantile fiorentino. La fonte è certamente la poesia goliardica, il lessico è realistico, le rime aspre, con un ritmo piuttosto marcato che dà vita ad un andamento piuttosto frantumato.  

 

 

FRANCESCO PETRARCA

Parlare di Francesco Petrarca significa parlare del più grande poeta che ha saputo guardare dentro la sua anima e quindi nell’anima di ciascuno di noi. Forse per questo è stato il più imitato nell’Europa volgare. Ha influito a tal punto sull’intera cultura europea tanto da diventare un modello, grazie anche alla raffinatezza dello stile e alla grande intuizione di vedere il mondo in modo prospettico (attraverso il concetto temporale) e non più lineare.

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Francesco Petrarca

Biografia

Francesco Petrarca nasce ad Arezzo nel 1304 da Ser Petracco, di professione notaio, appartenente ai Guelfi Bianchi. Come Dante, con la conquista dei Neri a Firenze, è costretto a rifugiarsi ad Arezzo insieme alla moglie, dove, appunto, nascerà Francesco e dopo tre anni il carissimo fratello Gherardo. Nel 1312, come altri fiorentini, ser Petracco decide di trasferirsi in Provenza, in cerca di fortuna. Infatti è ormai da tre anni, dal 1309, che il papa Giovanni XXII si è traferito ad Avignone. Non trovando alloggio in città, si riparano a Carpentras, cittadina lì vicina.

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Avignone: palazzo papale

A soli sedici anni Francesco segue i corsi di diritto a Montpellier, dove gli giunge la notizia della morte della madre. Il dolore che prova troverà espressione in latino nella prima opera poetica di Petrarca. Nello stesso anno, 1320, insieme al fratello, torna in Italia per studiare all’Università di Bologna, ma, alla notizia della morte paterna (1326) preferisce rifugiarsi un’altra volta ad Avignone. Prende, infine, gli ordini minori.

Ad Avignone, entra a servizio dalla famiglia dei Colonna, ed è in questo nuovo centro papale che sembra si debba collocare l’incontro, nella chiesa di Santa Chiara, con una donna, di cui non si sa nulla (tanto che anche i contemporanei ne misero in discussione l’autenticità), cantata dal giovane poeta con il nome di Laura.

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Targa posta nel luogo dove sorgeva la Chiesa di Santa Chiara: “Qui, nel XIV secolo, sorgeva la chiesa di Santa Chiara, in cui, all’alba del 6 aprile 1327, Petrarca concepì un sublime amore per Laura, che la rese immortale”.

Pur rimanendo a servizio nella famiglia dei Colonna, nel 1347 i rapporti con essa s’incrinano per la simpatia mostrata da Petrarca per l’avventura politica di Cola di Rienzo, visto dal poeta come un restauratore dell’antica Repubblica Romana. Durante il ventennio in cui collaborerà con loro, oltre ad avere avuto estrema libertà per quanto concerne il suo lavoro letterario, ha potuto effettuare una serie di viaggi, attraverso cui conoscerà e colloquierà con i grandi intellettuali dell’epoca. E’ in questo periodo che comincia la scoperta di testi classici all’interno dei monasteri.

Intanto trova una casa a Valchiusa, in Provenza, dove ogni tanto trova rifugio. Qui comincia a mettere a frutto la sua conoscenza classica: compone, al modo degli antichi, il De viris illustribus e l’Africa; grazie alla sua profonda erudizione, nonché alla scrittura delle opere latine, riceve sia da Parigi che da Roma, l’invito per essere incoronato poeta. Accetterà l’invito di Roma, culla della cultura classica e, dopo esser stato interrogato da Roberto d’Angiò, re di Napoli, riceve ufficialmente la corona dall’alloro in Campidoglio, nel 1340.

Ma la gloria poetica e la vita mondana (è di questo periodo la nascita di due figli naturali, Giovanni nel ’37 e Francesca nel ’43) lo portano ad una profonda crisi religiosa, acuita dalla decisa scelta di monacazione di suo fratello Gherardo. E’ in questi anni che Petrarca elabora il primo “abbozzo” del Canzoniere.

Due elementi tra il 1347 e il 1348 colpiscono profondamente il poeta: l’avventura politica a di Roma di Cola di Rienzo, che, definendosi tribuno, riaccende le speranze “classiciste” di Petrarca e la grande peste, che oltre a sottrargli un gran numero di amici, gli porta via la donna amata, Laura. La delusione politica per il degenerare e quindi fallire dell’esperienza di Cola, la crescente corruzione della Chiesa avignonese, l’amicizia istaurata con il più giovane Boccaccio, spingono il poeta a trasferirsi in Italia.

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Busto di Cola di Rienzo

Una volta nella penisola accetta l’invito dei Visconti di Milano (nemici dei fiorentini): viene criticato quindi per esser diventato un cortigiano, ma egli risponde, in modo efficace, dichiarando che la vera libertà risiede nell’anima e nell’amore per Dio; presso i signori di Milano, oltre all’attività d’ambasciatore, gli viene garantita la possibilità di continuare i suoi studi intellettuali. Si allontana dalla città lombarda intorno agli anni ’60 per una pestilenza, e si trasferisce dapprima a Padova e poi a Venezia, dove riceverà, per tre mesi, l’amico Boccaccio.

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Casa del Petrarca ad Arquà

Nel frattempo torna a Padova, dove gli viene concesso l’acquisto di una casetta ad Arquà, in cui  torna puntualmente dopo altre missioni; è qui che continuerà a correggere le sue opere, fino alla fine della sua vita, che avverrà nel 1374 tra l’affetto della figlia e del genero.

L’uomo

Petrarca potrebbe definirsi il primo intellettuale moderno: la sua figura rappresenta infatti il passaggio da una visione della realtà di stampo medievale ad una realtà in cui al centro della meditazione intellettuale e filosofica viene messo l’uomo, che appunto prenderà, in seguito, il termine di “umanesimo”. Tale passaggio non è testimoniato solamente dalla sua biografia, in quanto non ha una città – è toscano, ma la sua formazione avviene in Francia e poi in Italia, gira per le corti italiane ed è in contatto con gli intellettuali europei – ma anche dalla sua “psicologia”, che qualche critico definisce come dissidio interiore (acuizzato dalle scelte fraterne, così sicure e determinate) che permette alla sua poesia di essere analitica e fortemente indirizzata all’io. D’altra parte tale dissidio si può addirittura leggere nella sua scelta linguistica: ama il latino a tal punto da ricevere, grazie ad esso, l’alloro poetico, ma il suo capolavoro, per cui sarà conosciuto in tutta Europa, è in volgare, lingua che egli non riteneva degna per l’altissima letteratura.  

petrarca-orig.jpegPetrarca giovane

L’opera

L’opera letteraria di Petrarca si suole dividere dapprima in quella in lingua latina e in lingua volgare; queste due grandi ripartizioni, si divideranno ulteriormente tra loro.

Le opere latine 

Prima di parlare delle singole opere è bene dire quale funzione il nostro dà alla sua produzione nella antica lingua di Roma. Come si è già detto, Petrarca ha, verso il mondo classico una vera e propria adorazione in quanto vede in quell’età realizzarsi i concetti di virtù umana che gli sembravano essersi persi nell’età presente. E’ proprio sotto il segno di questa venerazione che si situa tutto il suo mondo culturale. Egli infatti si fa scopritore e restauratore di opere antiche, cerca nei monasteri vecchi testi per riportarli alla luce (sua la scoperta della Pro Archia e dell’Epistolario di Cicerone), dà vita al modo di ripristinare la loro integrità, facendo di sé il primo intellettuale che applica la filologia (scienza che studia la parola cercando di ricostruirne l’esattezza testuale, attraverso lo studio e la comparazione delle fonti) su manoscritti latini (non possedeva neanche lui, come Dante, il greco antico). Tutto ciò può avvenire solamente se si ha coscienza del passato, quindi abbandonando l’idea dantesca di un continuum presieduto da Dio, ma vedendo l’età di Roma come un evento che, in quanto è stato, si può cercare di emulare. Ciò non vuol dire, tuttavia, cancellare la presenza di Dio, ma, viceversa viverla non più come fatto “esterno”, tomisticamente assodato, ma platonicamente interiorizzato. Infatti nelle opere morali ciceroniane e senecane, il nostro non vede la presenza dell’afflato divino che sospinge gli uomini di quel tempo a scrivere cose di cui essi stessi non avevano coscienza, ma soltanto uomini che, guardando il loro io, hanno insegnato verità morali non cristiane, ma nemmeno contraddittorie rispetto all’insegnamento di Cristo. Detto ciò dobbiamo quindi concludere che Petrarca inaugura un vero e proprio umanesimo (si parla infatti di lui come di un preumanista) il cui culto per l’antichità si traduce in, come già detto, cura filologica, conoscenza appassionata ed emulazione.

Le opere latine di Petrarca cercarono, appunto, di richiamare quelle più illustri o che tali apparivano nella sua età dell’età di Roma. Fra queste ricordiamo il De viris illustribus e i Rerum memorandum libri, ambedue rimasti incompleti; d’origine morale e anche religioso, con richiami ai pensatori classici e cristiani sono certamente il De vita solitaria, il De otio religioso e il De remediis utriusque fortunae (I rimedi per la buona e la cattiva sorte), nonché altre opere di carattere erudito e polemico.

Ma l’opera latina petrarchesca viene soprattutto ricordata per il poema epico Africa, con cui voleva, senza eguagliarlo, emulare Virgilio e per cui ricevette l’alloro poetico da parte di Roberto d’Angiò. L’opera, in cui si raccontano le fasi della seconda guerra punica, non è stata completata da Petrarca e si ferma al IX libro. Essa, non diede soddisfazione al nostro autore se ci è testimoniata la sua volontà di non pubblicarla (lo fecero gli eredi). Ciò è determinato non dal fatto che il nostro non sapesse “emulare”, dal punto di vista del genere poetico, la poesia virgiliana quanto dal fatto che il tema bellico-eroico è lontano dallo spirito introspettivo del poeta; le parti in cui riesce meglio infatti sono quelle liriche dove riflette sul destino della vita:

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Diretto in Apulia Annibale sfugge al Temporeggiatore

IL COMPIANTO DELLA MORTE DI MAGONE
(IV, 885-915)

Hic postquam medio iuvenis stetit aequore Poenus,
vulneris increscens dolor et vicinia durae
mortis agens stimulis ardentibus urget anhelum.
Ille videns proprius supremi temporis horam,
incipit: “Heu qualis fortunae terminus altae est!
Quam laetis mens caeca bonis! Furor ecce potentum
praecipiti gaudere loco. Status iste procellis
subiacet innumeris et finis ad alta levatis
est ruere. Heu tremulum magnorum culmen honorum,
spesque hominum fallax et inasis gloria fictis
illita  blanditiis! Heu vita incerta labori
dedita perpetuo, semperque heu certa nec umquam
sat mortis provisa dies! Heu sortis iniquae
natus homo in terris! Animalia cuncta quiescunt;
irrequietus homo perque omnes anxius annos
ad mortem festinat iter. Mors optima rerum,
tu retegis sola errors, et somnia vitae,
discutis exactae. Video nunc quanta paravi,
ah miser, in cassum, subii quot sponte labores,
quos licuit transire mihi. Moriturus astra
scandere quaerit homo, sed Mors docet omnia quo sint
nostra loco. Latio quid profuit arma potenti,
quid tectis inferre faces? Quid foedera mundi
turbare atque urbes tristi miscere tumultu?
Aurea marmoreis quidve alta palatia muris
erexisse iuvat, postquam sic sidere laevo
in pelago periturus eram? Carissime frater,
quanta paras animis? Heu fati ignarus acerbi
ignarusque mei!”. Dixit; tum liber in auras
spiritus egreditur, spatiis unde altior aequis
despiceret Romam siml et Carthaginis urbem,
ante diem felix abiens, ne summa videret
excidia et claris quod restat dedecus armis
fraternosque suosque simul patriaeque dolores.

A questo punto, mentre il giovane cartaginese si trovava in mezzo al mare, il dolore crescente della ferita e l’approssimarsi della dura notte lo incalza, ansante, con ardenti stimoli. Egli, vedendo avvicinarsi l’ora estrema della vita, incomincia: “Ohimè! Quale termine è dato ad un’alta fortuna! Come per i prosperi successi diventa cieca la mente! Questo stato di cose soggiace a mille procelle, e il fine di chi si è in alto levato è di precipitare. Ohimè vacillante vetta dei grandi onori, speranza ingannatrice degli uomini, e vana gloria ornata di orpelli menzogneri! Oh vita incerta, dedita a perpetua fatica; o giorno della morte sempre certo ma non mai abbastanza previsto! Ohimè sorte iniqua dell’uomo sulla terra! Tutti gli animali trovan riposo; l’uomo è inquieto per tutti gli anni, affretta ansioso il cammino verso la morte. O morte, al migliore delle cose, tu sola sveli gli errori e dilegui i sogni della vita passata. Vedo ora quante cose, o me misero, ho perseguito invano, quante fatiche mi sono imposto, che avrei potuto evitare. L’uomo, creatura mortale, si sforza di salire alle stelle, ma la morte ci insegna quel che valgano i nostri beni. Che giovò portare le armi contro il potente Lazio e appiccare il fuoco alle sue case? Che giovò turbare i patti del vivere umano e riempire le città di tristi tumulti? E che vale avere costruito alti palazzi adorni d’oro, dalle mura di marmo, se per avverso fato ero destinato a perire, così, in mezzo al mare? O fratello carissimo, quanta mole d’imprese volgi nel tuo cuore, ignaro, ahimè, del crudele destino, ignaro di me!” Disse, lo spirito si alzò, libero nell’aria tanto da poter osservare dall’alto a pari distanza e Roma e Cartagine, fortunato di partire anzitempo, prima di vedere l’estrema rovina e il disonore che attendeva le armi famose e i dolori del fratello e i suoi insieme e della patria.

Altra grande opera, anch’essa pubblicata dopo la morte di Petrarca è il Secretum, modellato, sui testi di Severino Boezio (filosofo medievale) e sant’Agostino. Quest’opera, il cui genere può essere iscritto nel dialogo filosofico, è strutturata in tre libri cui precede un prologo in cui una donna la Verità chiede ad Agostino di curare le malattie morali del poeta. Quindi si passa:

  1. nel primo libro al rimprovero di Agostino nei confronti di Francesco, riguardo la scarsa volontà, e la risposta del poeta che invoca la sua ricerca del bene; ma il santo lo invita a ricercare il bene spirituale e non terreno;
  2. nel secondo libro Agostino passa in rassegna i sette vizi capitali e dice a Francesco che egli è colpevole di ognuno di loro, ad eccezione dell’Invidia;
  3. nel terzo libro lo rimprovera perché egli distoglie l’attenzione verso Dio per l’amore per la gloria e per Laura.

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Immagine che ben chiarisce il rapporto tra Petrarca e la fede

L’AMORE PER LAURA E PER LA GLORIA

Fr. Unum hoc, seu gratitudini seu ineptie ascribendum, non silebo: me, quantulumcunque conspicis, per illam esse; nec unquam ad hoc, siquid est, nominis aut glorie fuisse venturum, nisi virtutum tenuissimam sementem, quam pectore in hoc natura locaverat, nobilissimis hec affectibus coluisset. Illa iuvenem animum ab omni turpitudine revocavit, uncoque, ut aiunt, retraxit, atque alta compulit espectare. Quidni enim in amatos mores transformarer? Atqui nemo unquam tam mordax convitiator inventus est, qui huius famam canino dente contingeret; qui dicere auderet, ne dicam in actibus eius, sed in gestu verboque reprehensibile aliquid se vidisse; ita qui nichil intactum liquerant, hanc mirantes venerantesque reliquerunt. Minime igitur mirum est si hec tam celebris fama michi quoque desiderium fame clarioris attulit, laboresque durissimos, quibus optata consequerer mollivit. Quid enim adolescens aliud optabam, quam ut illi vel soli placerem, que michi vel sola placuerat? Quod ut michi contingeret, spretis mille voluptatum illecebris, quot me ante tempus curis laboribusque subiecerim nosti. Et iubes illam oblivisci vel parcius amare, que me a vulgi consortia segregavit; que, dux viarum omnium, torpenti ingenio calcar admovit ac semisopitum animum excitavit?

Almeno questo, sia d’ascrivere a gratitudine o a sciocchezza, non voglio tacere, che quel poco che mi vedi, sono per essa (Laura), né sarei giunto a questo grado, quel che si sia, di nominanza e di gloria, se la tenuissima semente di virtù, che la natura aveva sparso in questo petto, non avesse ella con nobilissimi sentimenti educata. Ella distolse l’animo mio giovinetto da ogni lordura, e lo ritrasse, come si dice, con l’uncino, e lo spinse a mirare in alto. Come non mi sarei trasformato secondo i costumi dell’amata? E per vero non si è mai trovato un maligno così mordace, che toccasse con lacerante dente la fama di lei: ch’osasse affermare d’avere scorto, non dico negli atti suoi, ma pure in un gesto in una parola, alcun che di reprensibile, sicché coloro che nulla avevano lasciato intatto, lei risparmiarono ammirati e reverenti. Non è punto strano, dunque, se codesta così alta fama indusse anche in me il desiderio d’una fama più chiara; se attenuò le durissime fatiche con le quali conseguire il vagheggiato intento. Da giovane infatti non altro desideravo che di piacere a lei, proprio a lei sola, che proprio sola a me era piaciuta; e per riuscire a ciò, rinunciando alle lusinghe di mille piaceri, tu ben sai a quanti affanni anzi tempo mi sottoponessi e a quante fatiche. E mi comandi di dimenticare o d’amare più tiepidamente colei che mi ha allontanato dalla schiera volgare; che essendomi di guida per ogni cammino, mi ha spronato il torbido ingegno e mi ha destato l’animo semisopito?

Alle parole di Petrarca, Agostino s’inquieta aspramente contro Francesco che gli domanda cosa ha sbagliato nel descrivere ciò che lo ha condotto all’amore per Laura e quali effetti disastrosi per lui secondo Agostino ha prodotto, il filosofo risponde:

Aug. Nempe universa que memoras! primum omnium ubi ais te quod es per illam esse. Si sic intelligis ut hoc esse illa dederit, mentiris hauddubie: si vero sic ut haud amplius esse permiserit, verum dicis. O quantum in virum evadere poteras, nisi illa te forme blanditiis retraxisset! Quod es, igitur, nature bonitas dedit; quod esse poteras illa preripuit, imo tu potius abstulisti. Ista enim innocens est. Forma quidem tibi visa est tam blanda, tam dulcis, ut in te omnem ex nativis virtutum seminibus proventuram segetem ardentissimi desiderii estibus et assiduo lacrimarum imbre vastaverit. Quod autem te ab omni turpitudine illa retraxerit, falso gloriatus es; retraxit forsan a multis, sed in maiores impulit erumnas.

Ma tutto ciò che hai ricordato! E prima di tutto quando dici d’essere ciò che sei in grazia sua. Se con ciò intendi che ti abbia dato ella questo essere, senza dubbio tu menti, se invece che ella non ti abbia permesso di essere da più, allora dici la verità. Ah, che grand’uomo saresti potuto riuscire, se ella, con le seduzioni della bellezza non te n’avesse ritratto! Quello che sei, dunque, te l’ha dato la benignità della Natura; ciò che potevi essere te l’ha tolto lei, o piuttosto l’hai gettato via tu, ché ella è innocente. La sua bellezza veramente ti è apparsa così lusinghiera, così dolce, che attraverso gli ardori dell’acceso desiderio e le continue piogge di pianto ha inaridita in te ogni messe che poteva sorgere dalla virtuosa tua semenza nativa. Che ella poi ti abbia trattenuto da ogni atto turpe, te ne vanti a torto, ti ritrasse forse da molti, ma ti ha sospinto in affanni maggiori.

Le rimostranze di Petrarca si appuntano sul fatto che egli, amando lei, non si è basato sul corpo, ma sulla sua anima, che, appunto perché bella, lo ha elevato in alto; ma proprio tale elevazione è, per Agostino, un ulteriore segno di peccato e di debolezza, in quanto tale altezza non è stata concepita in quanto divina, ma ancora in quanto umana. D’altra parte egli ancora mente se afferma di aver amato Laura solo per l’anima e non per il corpo.

Fr. Hanc presentem in testimonium evoco, conscientiamque meam facio contestem, me (quod iam superius dixeram) illius non magis corpus amasse quam animam. Quod hinc percipias licebit, quoniam quo illa magis in etate progressa est, quod corporee pulcritudinis ineluctabile fulmen est, eo firmior in opinione permansi. Etsi enim visibiliter iuvente flos tractu temporis languesceret, animi decor annis augebatur, qui sicut amandi principium sic incepti perseverantiam ministravit. Alioquin si post corpus abiissem, iam pridem mutandi propositi tempus erat.
Aug. Me ne ludis? An si idem animus in squalido et nodoso corpore habitaret, similiter placuisset?
Fr. Non audeo quidem id dicere; neque enim animus cerni potest, nec imago corporis talem spopondisset; at si oculis appareret, amarem profecto pulcritudinem animi deforme licet habentis habitaculum.
Aug. Verborum queris adminicula; si enim nonnisi quod oculis apparet amare potes, corpus igitur amasti. Nec tamen negaverim animum quoque illius et mores flammis tuis alimenta prebuisse, nimirum cum, uti paulo post dicam, nomen ipsum nonnichil, imo vel plurimum, furoribus istis addiderit. Cum enim in omnibus animi passionibus, in hac presertim evenit, ut ex minimis favillis sepe incendia magna consurgant.

Fr. Chiamo per testimonio quella che è qui presente (la Verità), e faccio testimone la mia coscienza che, come ho detto dianzi, non ho amato il corpo più dell’animo suo. Il che potrai conoscere da ciò; che quanto più ella è avanzata nell’età che è la rovina inevitabile della bellezza corporea, tanto più fermo io sono rimasto nel mio pensiero; però che, quantunque il fiore della giovinezza visibilmente appassisse col passare del tempo, cresceva negli anni la venustà dell’anima, la quale come mi porse principio dell’amore, così mi ci fece perseverare poi che vi fu entrato. Altrimenti, se mi fossi smarrito dietro il corpo, già da gran pezza sarebbe stato tempo di mutare proposito.
Ag. Mi canzoni? Forse che se quell’animo stesso abitasse in un corpo squallido e rozzo, ti sarebbe del pari piaciuto?
Fr. Non oso dir questo, dacché né l’animo si può scorgere né l’immagine corporea me l’avrebbe fatto sperare tale; ma se apparisse alla vista, amerei senza dubbio la bellezza di un animo anche se avesse un deforme albergo.
Ag. Tu cerchi di puntellarti sulle parole; perché se puoi amare solo ciò che appare alla vista, segno è che amasti il corpo. Né vorrò tuttavia negare che anche l’animo di colei e i costumi abbiano porto esca alle tue fiamme, appunto come il suo nome stesso (secondo che ti dirò di qui a breve) contribuì non poco, anzi moltissimo, a codesti tuoi furori. Accade infatti in tutte le passioni dell’animo, ma specialmente in questa, che da piccole faville insorgano grandi incendi.

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Sant’Agostino

Il riferimento cui Agostino fa un rapido cenno è sulla gloria: infatti se Francesco ha amato il corpo è stato attratto anche dal suo nome, Laura, che richiamando l’alloro poetico, ha destato in lui la vanità letteraria.

Aug. Gloriam hominum et immortalitatem nominis plus debito cupis.
Fr. Fateor plane, neque hunc appetitum ullis remediis frenare queo.
Aug. At valde metuendum est, ne optata nimium hec inanis immortalitas vere immortalitatis iter obstruxerit.
Fr. Timeo equidem hoc unum inter cetera; sed quibus artibus tutus sim a te potissimum expecto, a quo maiorum michi morborum remedia suppeditata sunt.
Aug. Nullum profecto maiorem tibi morbum inesse noveris, etsi quidam forte fediores sunt.

Ag. Gloria tra gli uomini e immortalità al tuo nome desideri più del conveniente.
Fr. Lo confesso apertamente, e con nessun rimedio posso frenare questo appetito.
Ag. Eppure è da temere fortemente che questa troppo desiderata inane immortalità ti abbia a ostruire il cammino dell’immortalità vera.
Fr. Lo temo sì, e proprio questo fra tutto. Ma da te principalmente, che mi hai prestati i rimedi di mali maggiori, attendo di conoscere con quali mezzi possa farmene salvo.
Ag. Apprenderai che veramente non è in te malattia maggiore di questa, anche se qualcuna ve n’è di più sozza.

Quindi su richiesta di Petrarca, Agostino gli dà la definizione di gloria:

Aug. Est igitur flatus quidam atque aura volubilis et, quod egrius feras, flatus est hominum plurimorum. Scio cui loquor; nulli usquam odiosiores esse vulgi mores ac gesta perpendi. Vide nunc quanta iudiciorum perversitas: quorum enim facta condemnas, eorum sermunculis delectaris. Atque utinam delectareris duntaxat, nec in eis tue felicitatis apicem collocasses! Quo enim spectat labor iste perpetuus continueque vigilie ac vehemens impetus studiorum? (…) Et tandem quotidiana occupatione non contentus, que magna licet temporis impensa nonnisi presentis evi famam promittebat, cogitationesque tuas in longinqua transmittens, famam inter posteros concupisti. Ideoque manum ad maiora iam porrigens, librum historiarum a rege Romulo in Titum Cesarem, opus immensum temporisque et laboris capacissimum, aggressus es. Eoque nondum ad exitum perducto (tantis glorie stimulis urgebaris!) ad Africam poetico quodam navigio transivisti; et nunc in prefatos Africe libros sic diligenter incumbis, ut alios non relinquas. Ita totam vitam his duabus curis, ut intercurrentes alias innumeras sileam, prodigus preciosissime irreparabilisque rei, tribuis, deque aliis scribens, tui ipsius oblivisceris.

Ag. E’ dunque come un fiato e un volubile venticello; anzi, ciò che ti farà più dispiacere, fiato di una folla di uomini. So con chi parlo; ritengo che non ci sia al mondo persona cui siano più odiosi i costumi e gli atti del volgo. Vedi ora quant’è la stortura dei tuoi giudizi: dilettarti dei pettegolezzi di coloro dei quali condanni le azioni. E magari ti dilettassero soltanto e non ponessi in questi la cima della tua felicità! Perché, insomma, a che tende questo tuo assiduo lavoro, codeste continue veglie e il fervido trasporto verso gli studi? (…) E finalmente non contento della quotidiana attività, che pur con grande dispendio di tempo non ti permetteva fama se non durante questa età, e proiettando le tue ambizioni a un termine più lontano, vagheggiasti la fama tra i posteri. E così, mettendo mano a maggiori lavori, ti sei accinto a un libro di storia da Romolo re a Tito imperatore, opera immensa che richiede gran tempo e fatica; e non anche condotta a termine questa, passasti, per così dire, con poetico legno in Africa, tanti erano gli stimoli di gloria che ti eccitavano e ora attendi assidui ai libri dell’Africa senza tuttavia tralasciare gli altri: per tal modo dedichi tutta la vita a queste due imprese (per non dire delle altre innumerevoli che vi si frammettono), prodigo del più prezioso e irrecuperabile de’ tuoi beni, e scrivendo degli altri, dimentichi te stesso.

E’ un testo chiave che ci permette non solo di cogliere la profonda ambiguità dell’animo di Petrarca, ma anche il modo di procedere nell’autoanalisi: infatti Agostino, nume tutelare per il nostro, si presenta come colui che dalle regole generali scende a dimostrare gli inconsapevoli peccati di Francesco; quest’ultimo, viceversa, parte proprio da quest’ultimi, per elevarsi e giungere così alla verità. Sembra, con termini assolutamente “moderni” e tratti dalla psicologia, trattarsi di un dialogo, in interiore animi, tra ragione e coscienza. Si prenda ad esempio, il passo riguardante Laura: qui partendo dalla concezione dell’amore cortese, si passa a considerare la più intima frattura che, per Petrarca, esso rappresentava: lui, al contrario di Dante, non può elevare la donna in una trascendenza mistica in quanto non riesce ad opporsi alla fisicità del corpo femminile. Ma, al di là delle opere latine, egli con quali poesie cercava poi la gloria terrena verso il popolo “volgare” se non con quelle poesiole che ha poi raccolto nel Canzoniere? Sembra proprio che le contraddizioni petrarchesche siano destinate ad essere irrisolte.

La terza opera fondamentale in lingua latina che Petrarca ha prodotto e verso cui ha messo tutto l’amore per la classicità (Cicerone e Seneca) e tutto il suo impegno per emularli, ma nel contempo ha cercato di mettere a nudo se stesso, è il suo epistolario. Petrarca, infatti, redasse, per tutta la vita, un’enorme quantità di lettere in latino, di cui egli conservava una copia.

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Autografo delle Senili

L’Epistoliario petrarchesco, muovendosi all’interno di una ricercata emulazione, non può prescindere dall’esempio di quelle raccolte di lettere in lingua latina (Cicerone, Seneca, Plinio il Giovane) il cui fine non era solo “biografico”, ma soprattutto “letterario”. Nel suo rifacimento del genere egli egli deve filtrare il linguaggio togliendo tutto ciò che lo rende terreno e muoversi verso ciò che lo rende ideale.

Tutto l’Epistolario del poeta aretino si muove su questi due opposti: la realtà e l’idealità; non significa cioè raccontare ciò che lui non è, quanto trasfigurare se stesso fino a dare di sé un’immagine non falsa, ma esemplare. Tale esemplarità nasce dalla negazione della quotidianità e dall’immagine dell’intellettuale, del dotto, il cui dovere è quello sì di mettersi a nudo attraverso la grande capacità di leggere la propria psiche, ma nel contempo di farlo attraverso una ricerca linguistica assolutamente rarefatta ed armonica, che lo togliesse dall’impaccio del “tangibile” per rappresentare solamente l’anima.

Tali lettere le dividiamo in:

  1. Familiari: indirizzate a vari personaggi, trattano per lo più temi morali e psicologici. Fanno parte di esse anche quelle destinate agli illustri uomini del passato (chiara la derivazione letteraria di quest’ultime);
  2. Senili: Scritte in tarda età, riflettono soprattutto l’animo del poeta. Di questo gruppo doveva far parte quella rivolta ai posteri, ma rimasta esclusa per colpa dei primi copisti;
  3. Sine nomine: quelle a cui, per ragioni politiche, Petrarca tolse il destinatario (soprattutto uomini della Chiesa, durante la cattività avignonese);
  4. Variae: lettere rintracciate e riunite da parte di amici.

Certamente una delle lettere più importanti è quella indirizzata a Dionigi di Borgo di San Sepolcro, a cui racconta la salita, insieme al fratello Gherardo, sul monte Ventoso (Mont Ventoux, in Provenza, vicino ad Avignone).

L’ASCENSIONE AL MONTE VENTOSO

Altissimum regionis huius montem, quem non immerito Ventosum vocant, hodierno die, sola videndi insignem loci altitudinem cupiditate ductus, ascendi. Multis iter hoc annis in animo fuerat; ab infantia enim his in locis, ut nosti, fato res hominum versante, versatus sum; mons autem hic late undique conspectus, fere semper in oculis est.

Oggi, soltanto per il desiderio di visitare un luogo famoso per la sua altezza son salito sul più alto monte di questa regione che non a torto chiamano Ventoso. Da molti anni avevo in animo questa gita, poiché, come tu sai, fin dall’infanzia io ho abitato in questi luoghi per volere di quel destino che regola i fatti degli uomini, e questo monte, che è visibile da ogni parte, mi stava quasi sempre davanti agli occhi.

Dopo averci presentato il luogo e l’idea di salire sul monte, grazie anche alle letture dei classici, e soprattutto a quelle dello storico Tito Livio che narra le imprese di antichi romani atti a salire in alti luoghi, il poeta si mette alla ricerca di un compagno per il viaggio, ma, oltre ad alcuni che si rivelerebbero inadatti al cammino, teme di offendere qualcuno. Pertanto:

Tandem ad domestica vertor auxilia, germanoque meo unico, minori natu, quem probe nosti, rem aperio. Nil poterat laetius audire, gratulatus quod apud me amici simul ac fratris teneat locum.

Alla fine mi volsi agli aiuti di casa mia, e mi confidai con l’unico mio fratello, di me minore, che tu ben conosci. Egli non poteva ricevere più lieta proposta, ben contento di essere da me considerato e amico e fratello.

Quindi partono ben spediti, ma un vecchio, che incontrano lungo la strada, l’invita a non tentare l’erta salita:

Dies longa, blandus aer, animo rum vigor, corporum robur ac dexteritas et siqua sunt eiusmodi, euntibus aderat; sola nobis obstabat natura loci. Pastorem exactae aetatis inter convexa montis invenimus, qui nos ab ascensu retrahere multis verbis enisus est, dicens se ante annos quinquaginta eodem iuvenilis ardoris impetu supremum in verticem ascendisse, nihilque inde retulisse praeter poenitentiam et laborem, corpusque et amictum lacerum saxis ac vepribus, nec umquam aut ante illud tempus aut postea auditum apud eos quemquam ausum esse similia. Haec illo vociferante, nobis, ut sunt animi iuvenum monitoribus increduli, crescebat ex prohibitione cupiditas. Itaque senex, ubi animadvertit se nequicquam niti, aliquantulum progressus inter rupes, arduum callem digito nobis ostendit, multa monens multaque iam digressis a tergo ingeminans.

Il giorno lungo, l’aria mite, la buona volontà, il vigore e la destrezza delle membra e altre cose di tal genere favorivano gli alpinisti; sola era d’ostacolo la natura del luogo. Trovammo in una valletta del monte un vecchio pastore, che con molte parole cercò dissuaderci dal salire, narrandoci che cinquant’anni fa, preso dal medesimo nostro ardore giovanile, egli era salito sulla cima, e non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni; né mai egli aveva udito che altri, prima o dopo di lui, avesse fatto quel tentativo. Mentre egli così si scalmanava, in noi, com’è nei giovani, restii ad ogni consiglio, cresceva per quel divieto il desiderio. E allora il vecchio, visti inutili i suoi sforzi, fattosi alquanto avanti ci mostrò col dito un certo sentiero, dandoci molti avvertimenti e ripetendoceli alle spalle quando già eravamo lontani.

Comincia il cammino e sin da subito si nota la determinazione di Gherardo e la fatica di Francesco:

Sed, ut fere fit, ingentem conatum velox fatigatio subsequitur; non procul inde igitur quadam in rupe subsistimus. inde iterum digressi provehimur, sed lentius: et praesertim ego montanum iter gressu iam modestiore carpebam, et frater compendiaria quidem via per ipsius iuga montis ad altiora tendebat; ego mollior ad ima vergebam, revocantique et iter rectius designanti respondebam sperare me alterius lateris faciliorem aditum, nec horrere longiorem viam per quam planius incederem. Hanc excusationem ignaviae praetendebam, aliisque iam excelsa tenentibus, per valles errabam, cum nihilo mitior aliunde pateret accessus, sed et via cresceret et inutilis labor ingravesceret.  

Ma, come spesso accade, a quel primo grande sforzo seguì presto la stanchezza; sicché ci fermammo su una rupe non molto lontana. Ripartiti di lì, avanzammo, ma più lentamente; io soprattutto m’arrampicavo per il montano sentiero con passi più moderati, mentre mio fratello per una scorciatoia attraverso il crinale del monte saliva sempre più in alto; io, più fiacco, ridiscendevo verso il basso, e a lui che mi chiamava mostrandomi la via giusta rispondevo che speravo di trovare un più facile accesso dall’altro fianco dall’altra parte del monte, e che non mi rincresceva fare una via più lunga ma più agevole. Era questo un pretesto per scusare la mia pigrizia, e mentre i miei compagni erano ormai in cima, io erravo ancora nelle valli senza che mi apparisse, da nessuna parte, una via migliore; il cammino diveniva più lungo e l’inutile fatica mi stancava.

Dopo aver girovagato raggiunge, con uno sforzo il luogo in cui il fratello l’aspettava e riprendono il cammino insieme; ma subito dopo Francesco ricomincia a ridiscendere in basso, ripetendo l’errore di prima. Il fratello, vedendolo dibattersi invano, ride. Francesco, stanco e deluso si siede in una valle e pensa:

“Quod totiens hodie in ascensu montis huius expertus es, id scito et tibi accidere et multis, accedentibus ad beatam vitam; sed idcirco tam facile ab hominibus non perpendi, quod corporis motus in aperto sunt, animorum vero invisibiles et occulti. Equidem vita, quam beatam dicimus, celso loco sita est; arcta, ut aiunt, ad illam ducit via. Multi quoque colles intereminent et de virtute in virtutem praeclaris gradibus ambulandum est; in summo finis est omnium et viae terminus ad quem peregrinatio nostra disponitur. eo pervenire volunt omnes, sed, ut ait Naso, “Velle parum est; cupias, ut re potiaris, oportet”. Tu certe – nisi, ut in multis, in hoc quoque te fallis – non solum vis sed cupis. Quid ergo te retinet? Nimirum nihil aliud, nisi per terrena set infirmas voluptates planior et ut prima fonte videtur, expeditior via; verumtamen, ubi multum erraveris, aut sub pondere male dilati laboris ad ipsius te beatae vitae culmen oportet ascendere aut in convallibus peccatoribus tuorum segnem procumbere; et si – quod ominari horreo – ibi te tenebrae et umbra mortis invenerint, aeternam noctem in perpetuis cruciatibus agere”.

“Quello che tante volte oggi hai provato nel salire questo monte, sappi che accade a te e a molti quando si accostano alla vita beata; e se di ciò gli uomini non così facilmente si accorgono, gli è che i moti del corpo sono a tutti visibili, quelli invece dell’animo invisibili e occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto; è stretto, come dicono, il sentiero che vi conduce. In mezzo sorgono molti colli, e noi dobbiamo procedere con nobile incesso di virtù in virtù; sulla cima è il fine estremo e il termine della vita, meta del nostro viaggio. Lassù tutti vogliono arrivare, ma, come dice Ovidio ‘Volere è poco, bisogna desiderare ardentemente per raggiungere lo scopo’. Tu senza dubbio – se in questo come in tante altre cose non ti inganni – non solo vuoi, ma anche fortemente desideri. Che cosa dunque ti trattiene? Evidentemente, null’altro se non quella via attraverso i piaceri bassi e terreni; che è più facile e, come pare, più breve; ma, quando avrai molto errato, o sotto il peso di una fatica scioccamente differita dovrai salire verso la cima della vita beata, oppure sarai costretto a cadere spossato nelle valli dei tuoi peccati; e se – Dio allontani l’evento – là ti coglieranno ‘le tenebre e l’ombra della morte’, dovrai vivere una notte perpetua in perpetui tormenti”.

Preso e rinvigorito da questi pensieri, cerca di rimettersi in cammino, meditando sulla via giusta e sui suoi numerosi errori. Quindi raggiunta la cima si guarda attorno e vede uno spettacolo meraviglioso intorno a sé, mentre la mente va ora alle esigenze del corpo, ora alle meditazioni intellettuali:

Tempus forsan veniet, quando eodem quo gesta sunt ordine universa percurram, praefatus illud Augustini tui: “Recordari volo transactas foeditates meas et carnales corruptiones animae meae, non quod eas amem, sed ut amem te, Deus meus. “Mihi quidem multum adhuc ambigui molestique negotii superest, quod amare solebam, iam non amo; mentior: amo, sed parcius; iterum ecce mentitus sum: amo, sed verecundius, sed tristius; iamtandem verum dix, sic est enim; amo, sed quod non amare amem, quod odisse cupiam; amo tamen, sed invitus, sed coactus, sed maestus et lugens.

Verrà forse un giorno in cui potrò enumerare (i cambiamenti della mia vita) nell’ordine stesso in cui sono avvenuti, premettendovi le parole di Agostino: ‘Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio”. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza e impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo, lo amo, con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. E’ proprio così, amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza.

Quindi, dopo questa amare meditazione, prende in mano il libercolo che il monaco gli aveva donato, le Confessioni di sant’Agostino:

Quae dum mirarer singula et nunc terrenum aliquid saperem, nunc exemplo corporis animum ad altiora subveherem, visum est mihi Confessionum Augustini librum, caritatis tuae munus, inspicere; quem et conditoris et donatoris in memoriam servo habeoque semper in manibus: pugillare opusculum, perexigui voluminis sed infinitae dulcedinis. Aperio, lecturus quicquid occurreret; quid enim nisi pium et devotum posset occurrere? Forte autem decimus illius operis liber oblatus est. frater expectans per os meum ab Augustino aliquid audire, intentis auribus stabat. Deum testor ipsumque qui aderat, quod ubi primum defixi oculos, scriptum erat: “Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos.”

Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo vi lessi: “E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”.

Tali parole suscitano grande impressione nell’animo del poeta che lo porta a pensare a quanta fatica occorre per raggiungere la verità di Dio. Senza una parola scende e mentre i servi attendono alla cena, si ritira per scrivere al monaco queste righe in cui rievoca il viaggio.

E’ chiaro che questa epistola, pur conservando un valore di testimonianza, ne abbia uno morale: infatti, esso si struttura come un vero e proprio exemplum in cui il poeta mostra l’episodio come metafora di un viaggio di salvezza. Non per niente tale viaggio si struttura anch’esso, come quello di Dante, verso l’alto, descrivendo anche lui la classica opposizione basso-peccato, alto-salvezza. Non è un caso che a raggiungere prima la vetta sia il fratello, uomo deciso, senza ambiguità, che ha scelto la vita religiosa e che cammina dritto verso la meta (la beatitudine), di contro alle indecisioni, alle difficoltà di Francesco, che cerca vie più brevi per raggiungere Dio. Ma quello che emerge è che nel finale noi non avremmo alcuna decisione. Se infatti Agostino confessa la difficoltà, ma nella necessità della scelta verso Cristo, Petrarca confessa a sua volta la sua indecisione, la sua difficoltà, il suo amare/non amare dal quale non riesce ad uscire. Egli vorrebbe essere come Gherardo, ma sa che per far ciò, occorre una forte volontà, e sa, altrettanto, che tale volontà gli manca.

Altra grande Epistula è quella della Posterità, in cui Petrarca disegna un suo ritratto morale da lasciare a chi verrà dopo di lui. Ne riportiamo un breve passaggio in cui descrive i suoi amori letterari verso le Sacre Scritture e la storiografia classica. Vi è qui disegnato il passaggio dall’età giovanile a quella matura, sottolineato dalla preferenza a meditazioni più serie rispetto alla lirica:

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Un’altra immagine di Francesco Petrarca

AI POSTERI

Ingenio fui equo potius quam acuto, ad omne bonum et salubre studium apto, sed ad moralem precipue philosophiam et ad poeticam prono; quam ipse processu temporis neglexi, sacris literis delectatus, in quibus sensi dulcedinem abditam, quam aliquando contempseram, poeticis literis non nisi ad ornatum reservatis. Incubui unice, inter multa, ad notitiam vetustatis, quoniam michi semper etas ista desplicuit; ut nisi me amor carorum in diversum traheret, qualibet etate natus esse semper optaverim, et hanc oblivisci, nisus animo me aliis semper inserere. Historicis itaque delectatus sum; non minus tamen offensus eorum discordia, secutus in dubio quo me vel veri similitudo rerum vel scribentium traxit autoritas.

Fui d’intelligenza equilibrata piuttosto che acuta; adatta ad ogni studio buono e salutare, ma inclinata particolarmente alla filosofia morale ed alla poesia. Quest’ultima, con l’andare del tempo l’ho trascurata, preferendo le Sacre Scritture, nelle quali ho avvertito una riposta dolcezza (che un tempo avevo spregiata), mentre riservavo la forma poetica solamente per ornamento. Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altra. E perciò mi sono piaciuti gli storici; altrettanto deluso, tuttavia per la loro discordanza, ho seguito nei casi dubbi la versione cui mi traeva la verosimiglianza dei fatti o l’autorità dello scrittore.


Canzoniere

Il capolavoro di Petrarca, pur essendo conosciuto da tutti come Canzoniere, in realtà fu intitolato dal poeta stesso con un’espressione latina Rerum vulgarium fragmenta (Frammenti di cose volgari). Con questo titolo sembra quasi che il poeta aretino consideri queste sue liriche un lavoro minore, tanto da definirli “frammenti”, (che chiamerà, sempre in latino nugae, così come il poeta Catullo aveva definito le sue poesie). Ma forse il termine “frammenti” allude alla frammentarietà (diverse poesie attraverso cui egli “confesserà” a “voi” lettori della poesia proemiale, nonché a se stesso la sua anima “divisa”). Tuttavia ta le esperienza la scrive in volgare, allora perché porvi tanta attenzione? Infatti sappiamo, grazie al manoscritto conservato nei musei Vaticani (in verità due, uno che potremo definire la “minuta”, l’altro che rappresenta l’edizione definitiva), che durante l’intera sua esistenza egli elaborò e corresse le sue liriche, cambiò le parole e la disposizione di esse alla ricerca di una perfezione formale che le rendesse a tal punto armoniche ed inattaccabili da poter essere reputate l’acme della poesia volgare ed inoltre tale lavorìo di tornare sui versi già scritti, lo fece fino alla morte, mostrandoci un attaccamento insospettato, dal momento in cui soltanto la poesia latina poteva offrigli quella gloria da cui non si sapeva allontanare. Ciò può essere spiegato soltanto riferendosi al culto che Petrarca provava per la poesia latina, che non poteva certamente essere migliorata né contenutisticamente né formalmente, ma solo emulata (si veda l’Africa), mentre la poesia volgare presentava margini su cui si poteva, per così dire, sperimentare, arrivare al massimo, dato il livello cui era giunta, miglioramento.

Ma ciò è contraddetto dall’attenzione, durata l’intera sua esistenza, con la quale egli elaborò e corresse l’intero scritto fino alla morte, per darci, infine, l’edizione definitiva che, in onore alle pur scarse canzoni, ma ricche di novità, fu definita Canzoniere. Con questo termine s’intende una raccolta organica, in cui le liriche presentano un modello di raccolta interna ben definita, mentre le altre, in cui le liriche risultano semplicemente accostate l’una all’altra o raccolte da vari momenti poetici continuarono a chiamarsi Rime (si pensi a Dante). Nonostante quanto detto il Canzoniere di Petrarca non ricerca una narrazione, ma un percorso interiore in cui il poeta cerca, attraverso l’evento amoroso per Laura, sia quand’ella è in vita, sia quando muore, una verità che lo conduca verso la salvezza. Ma se in Dante tale salvezza si trova in un percorso religioso, in cui addita a tutti gli uomini il cammino per raggiungere Dio, in Petrarca tale percorso è interiore e psicologico e non ambisce a insegnare qualcosa ma, tutt’al più, a condividere un’esperienza di tipo morale.

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Marie Spartali Stillman: Primo  incontro tra Petrarca e Laura

L’opera è costituita da 366 liriche, ed è divisa in due grandi sezioni: le poesie in vita (1/263) e quelle in morte di Madonna Laura (263/366). La storia d’amore e disegnata attraverso la complessa psicologia del poeta e non è strutturata secondo un percorso lineare, ma, rivissuta all’interno dell’io lirico, essa vive di elementi contradditori, tra il desiderio dell’amore terreno e l’aspirazione all’amore divino e, nonostante tale dissidio, il poeta possiede una straordinaria capacità di renderla in modo assolutamente armonico.

Per far ciò è necessario partire da testi:
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Manoscritto del “Canzoniere”

VOI CH’ASCOLTATE IN RIME SPARSE IL SUONO 

Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore
quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,

del vario stile in ch’io piango et ragiono
fra le vane speranze e ’l van dolore,
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, nonché perdono.

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,

e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Voi, lettori, che ascoltate in componimenti sparsi, l’eco di quei sospiri di cui io nutrivo il cuore al tempo del mio primo smarrimento amoroso, quando, in parte, ero un altro uomo, diverso da quello che oggi sono: // dovunque ci sia qualcuno che, per esperienza personale, sappia capire che cosa sia l’amore, spero di trovare pietà, nonché perdono per l’aspetto mutevole dei miei versi, in cui esprimo il mio dolore e ne parlo fra inutili speranze ed inutili dolori. // Ma ora sì che comprendo bene come fui per la gente oggetto di pettegolezzo per un lungo periodo, e per questo, fra me e me, spesso provo vergogna di me stesso; // conseguenze del mio seguire vane speranze sono la vergogna, il pentimento e il capire con chiarezza che i beni e le passioni che allettano gli uomini costituiscono un sogno vano e passeggero.

Questo sonetto costituisce il proemio dell’intera opera ed in quanto proemio ne offre già un’indicazione: rime sparse, vario stile; ma anche la sottolineatura che in elementi tanto vari si nasconde un’unità tematica, quella di cantare l’esperienza giovanile, quando era un altro uomo, rispetto ad oggi. Quindi, le prime due quartine ci presentano l’argomento e il modo in cui si presenterà. Infatti esse non sono separate, ma continuano, con una piccola pausa, che tuttavia non ne interrompe il discorso. Ben diverse le terzine finali staccate dalle quartine precedenti, ma unite tra di loro. Esse possono essere così divise:

  1. Vergogna d’essere stato “favola” per tutto il popolo, a causa del suo “vagheggiare”;
  2. Il pentimento;
  3. La presa di coscienza.

Ma il testo assume un’importanza soprattutto strutturale: l’anacoluto (sospensione sintattica) tra il voi del primo verso e spero trovar pietà dell’ottavo, e la fortissima allitterazione de di me medesmo meco mi vergogno ad individuare quell’unità di suono che è importantissima per il poeta. Infatti è proprio sulla dicotomia tra il sentimento della vergogna e l’armonia del dettato che si costruisce l’intero sonetto. La mancanza di qualsiasi asprezza di suono e di una limitata scelta verbale (come vedremo anche in seguito) ci mostrerà l’unilinguismo petrarchesco di contro al plurilinguismo dantesco.

Se il numero che caratterizza la Beatrice dantesca è il nove, la Laura dantesca si riconosce nel numero 6: è infatti il 6 aprile (giorno della passione di Cristo) quando Petrarca la incontra per la prima volta, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone:

Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo factore i rai,
quando i’ fui preso, et non me ne guardai,
ché i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro.

Tempo non mi parea da far riparo
contra colpi d’Amor: però m’andai
secur, senza sospetto; onde i miei guai
nel commune dolor s’incominciaro.

Trovommi Amor del tutto disarmato
et aperta la via per gli occhi al core,
che di lagrime son fatti uscio et varco:

però, al mio parer, non li fu honore
ferir me de saetta in quello stato,
a voi armata non mostrar pur l’arco.Chiesa di Santa Chiara ad Avignone: Petrarca incontra Laura - Viaggio in baule

Chiesa di Santa Chiara ad Avignone

Era il giorno in cui il sole si oscurò per la pietà verso il suo Creatore; quando io fui catturato e non me ne difesi poiché il vostro sguardo mi legò. //  Non era il momento di stare in guardia  dagli assalti dell’Amore: per questo andavo sicuro, senza alcun sospetto; per questo i miei lamenti cominciarono tra il dolore comune (per la morte di Cristo) // L’amore mi trovò completamente disamartato a aperta la via verso il cuore attraverso gli occhi, che sono fatti ora porta e varco di lacrime: // perciò, secondo la mia opinione, non fece onore all’Amore colpirmi con un freccia mentre ero in quello stato, mentre voi, difesa, non mostrare neanche l’arco.

Il sonetto sembra continuare quello proemiale: rievocando l’incontro con Laura, egli sottolinea come esso gli abbia causato lacrime e lamenti; ma ciò che lo rende interessante è la coincidenza tra l’innamoramento e la morte di Cristo, mettendo in luce già il dualismo che, oltre che caratterizzare il Canzoniere, era già stato trattato nel Secretum.

MOVESI IL VECCHIEREL CANUTO E BIANCHO

Movesi il vecchierel canuto et biancho
del dolce loco ov’à sua età fornita
et da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi trahendo poi l’antiquo fianco
per l’extreme giornate di sua vita,
quanto piú pò, col buon voler s’aita,
rotto dagli anni, et dal camino stanco;

et viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:

cosí, lasso, talor vo cerchand’io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.

Il vecchietto canuto e bianco parte dall’amato luogo dove ha trascorso la sua vita e dalla sua famiglia turbata e sorpresa che vede il caro padre andare via; // di lì, trascinando poi il vecchio corpo per gli ultimi giorni della sua vita, quanto più può si aiuta con la forza della volontà, consumato dagli anni e stanco per il cammino; // e giunge a Roma, seguendo il suo desiderio, per contemplare l’immagine di colui che spera di poter vedere di nuovo in Paradiso: // così, ahimé, talvolta anch’io cerco, oh donna, per quanto è possibile, la vostra desiderata immagine in altre donne.

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Miniatura con l’immagine della “Veronica”

Anche questo sonetto, come il precedente è diviso in due: la prima parte è di ben 11 versi, l’ultima di una sola terzina. E’ costituito da un paragone: così come un vecchio va a vedere la Veronica (volto in cui è impresso il volto di Gesù, con il suo sangue e il suo sudore durante il Calvario), sperando di ritrovarlo in cielo, così il poeta va a ricercare il voto di Laura in mezzo ad altre donne. Quindi lo stesso sonetto sembra far riaffiorare due temi cari a Patrarca: quello della vecchiaia e quello dell’amore. A prima vista il paragone vecchio / Petrarca e la Veronica (dove appare il volto di Cristo) / Laura è parso ad alcuni blasfemo; tale paragone, d’altra parte, è sottolineato dall’identità d’espressione, il vecchietto che cerca il desio e Petrarca la desiata forma; ma altri hanno voluto leggere invece un innalzamento dell’amore terreno, o meglio, come dice un critico “la storia sacra d’un amore profano”.

SOLO E PENSOSO I PIU’ DESERTI CAMPI

Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi. 

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

 Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co’llui.

Solo ed immerso nei miei pensieri, percorro i luoghi più deserti con passi gravi e lenti, e osservo intorno attentamente per evitare ogni luogo dove il terreno possa recare qualche impronta umana. // non trovo altra difesa che mi salvi dal fatto che la gente si accorga chiaramente della mia pena, perché nei miei atteggiamenti privi di gioia e vitalità si mani-festa esteriormente come io interiormente bruci d’amore: // cosicché io credo ormai che i monti, i campi, i fiumi e i boschi, sappiano di che genere sia la mia vita intima, che è nascosta agli altri. // E tuttavia non so trovare sentieri tanto impervi e desertici che Amore non giunga sempre a colloquiare con me ed io con lui.

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Solo e pensoso 

Questo sonetto, è diviso in tre parti:

  1. La ricerca della solitudine del poeta;
  2. L’unione dello stato d’animo del poeta con i luoghi naturali;
  3. L’impossibilità della solitudine come dimenticanza, per la presenza continua di Amore.

Infatti troviamo in esso la corrispondenza tra l’elemento naturale e l’io lirico: tanto più il poeta vuole stare solo con i suoi pensieri, tanto più i campi, i fiumi, le montagne e la stessa terra gli rimandano, ingigantiti, l’impossibilità di rimanere solo. La solitudine qui, infatti, non è fisica, ma psichica: egli non riesce ad allontanare il pensiero ed il pensiero che l’accompagna è, come sempre, Laura. Vi è tra questo testo e il primo un collegamento: in Voi ch’ascoltate troviamo al popol tutto favola fui gran tempo, mentre in questa lo stesso concetto è espresso con il manifesto accorger de le genti. Ma ancora vi è in questo sonetto un tema “interiormente lacerante” a cui s’accompagna una scrittura “fortemente armonizzante”: le prime due strofe sono costruite in modo binario (2+2); allo stesso modo le terzine presentano costruzioni a coppia (moti e piagge; fiumi e selve; aspre e selvagge; meco  e co’llui); non vi sono enjambements  

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Petrarca e la religione

PADRE DEL CIEL, DOPO I PERDUTI GIORNI

Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando spese,
con quel fero desio ch’al cor s’accese,
mirando gli atti per mio mal sì adorni,

piacciati omai col Tuo lume ch’io torni
ad altra vita et a più belle imprese,
sì ch’avendo le reti indarno tese,
il mio duro adversario se ne scorni.

Or volge, Signor mio, l’undecimo anno
ch’i’ fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i più soggetti è più feroce:

miserere del mio non degno affanno;
reduci i pensier’ vaghi a miglior luogo;
ramenta lor come oggi fusti in croce.

Padre del cielo, dopo i giorni sprecati (nella passione d’amore), dopo le notti consumate in sogni vani, con quel folle e tremendo desiderio che si accese nel mio cuore, contemplando i gesti (di Laura) per mia sfortuna così leggiadri, // voglia tu che io giunga ormai, con l’aiuto della tua grazia, ad una vita diversa, più saggia, e ad azioni più degne, cosicché avendo teso le reti inutilmente, il mio crudele e tenace nemico ne esca sconfitto. // Ora, mio Signore, sono passati undici anni da quando io fui sottoposto allo spietato giogo, che è più crudele nei confronti dei più sottomessi: // abbi misericordia del mio dolore indegno, riconduci i miei pensieri erranti a più alti ideali; ricorda loro come in questo giorno fosti crocifisso.

Questo sonetto è strutturato come fosse una vera e propria preghiera rivolta al Signore, mettendo a paragone il Venerdì Santo, giorno in cui Cristo fu crocifisso e lui conobbe, in Chiesa, Laura. Infatti tutto il testo è costruito tra passato, in cui il nostro si dibatteva nel vano peccato dell’amore, e l’oggi, in cui, invece, implora il Signore d’aiutarlo per portarlo sulla “retta via” (come direbbe Dante).

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Simone Martini: L’Annunciazione (particolare)

ERAN I CAPEI D’ORO A L’AURA SPARSI

Erano i capei d’oro a l’aura sparsi
che ’n mille dolci nodi gli avolgea,
e ’l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch’or ne son sì scarsi;

e ’l viso di pietosi color’ farsi,

non so se vero o falso, mi parea:
i’ che l’esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di sùbito arsi?

Non era l’andar suo cosa mortale,

ma d’angelica forma; e le parole
sonavan altro che, pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch’i’ vidi: e se non fosse or tale,
piagha per allentar d’arco non sana

I capelli biondi erano scompigliati dal vento, che li intrecciava in mille delicati nodi, e la luce seducente dei begli occhi, che ora ne sono quasi privi, brillava in modo straordinario; // e mi sembrava che il suo viso si tingesse dei co-lori della compassione e dell’affetto per me, e non so se è davvero così. Che cosa c’è di straordinario se io, che avevo l’animo pronto ad accendersi d’a-more, immediatamente m’innamorai? // Il suo incedere non era proprio di un mortale, ma di un angelo e le sue parole avevano un suono diverso da quello di una voce semplicemente umana: // una angelo venuto dal cielo, un sole lucente fu quello che io vidi. E anche se ora non fosse più così bella, una ferita non si risana per il fatto che l’arco non sia più teso.

In questo sonetto vengono richiamati elementi tipici della poesia stilnovista: soprattutto il paragone, nella prima terzina, tra la donna e la sua apparenza angelica. Anche Francesco, come molti suoi predecessori, s’innamora di ciò che Dio ha realizzato di più meraviglioso, ma c’è in lui una differenza sostanziale: Laura non è eterna, ma sottomessa allo scorrere dei giorni. Infatti il tema dominante che qui viene espresso è il passare del tempo in cui si commisura l’io che ricorda e l’io del presente; non vi è frattura ma continuità, confermata dallo stesso sentimento che lega il poeta alla sua donna, testimoniato, inoltre, dall’epigramma finale, in cui viene contenuto l’intero messaggio. Si osservi anche l’uso cortese del senhal posto ad inizio verso: l’aura/Laura.

PACE NON TROVO ET NON O’ DA FAR GUERRA

Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra ’l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio.

Tal m’à in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m’ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d’impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.

Non ho pace e non ho armi per combattere; temo e spero; ardo e mi raggelo; volo sopra il cielo e giaccio in terra, non ho nulla da stringere e abbraccio il mondo. // Laura (tal) mi ha rinchiuso in una prigione che ella né mi apre né mi chiude, e non mi trattiene come suo prigioniero, né scioglie il laccio per liberarmi. Amore non mi uccide né mi libera dalle catene, non mi vuole vivo, né mi solleva dalla precarietà dandomi la morte. // Vedo, sebbene accecato dalla passione e grido di dolore, sebbene la mia lingua sia muta, desidero morire e invoco aiuto; odio me stesso e amo Laura. // Mi nutro di dolore, rido mentre piango, odio allo stesso modo la vita e la morte, sono in questa condizione, donna per voi.

Questo sonetto è interessante sia a livello tematico che stilistico: infatti egli costruisce tutto il tessuto poetico sull’antitesi, ad iniziare dal primo verso (pace/guerra) al penultimo (morte/vita), ad indicare il suo bifrontismo. Laddove non riesce con gli opposti si aiuta con l’ossimoro (veggio senz’occhi e piangendo rido) a rimarcare questo dualismo di fondo che caratterizza il suo atteggiamento amoroso diviso tra amore e desiderio, gioia e peccato, prigione e libertà.

O CAMERETTA CHE GIA’ FOSTI UN PORTO

O cameretta che già fosti un porto
a le gravi tempeste mie diürne,
fonte se’ or di lagrime nocturne,
che ’l dí celate per vergogna porto.

O letticciuol che requie eri et conforto
in tanti affanni, di che dogliose urne
ti bagna Amor, con quelle mani eburne,
solo ver ’me crudeli a sí gran torto!

Né pur il mio secreto e ’l mio riposo
fuggo, ma piú me stesso e ’l mio pensero,
che, seguendol, talor levommi a volo;

e ’l vulgo a me nemico et odïoso
(chi ’l pensò mai?) per mio refugio chero:
tal paura ò di ritrovarmi solo.

O cameretta che un tempo eri rifugio delle passioni che mi affannavano durante il giorno, ora sei causa di tormenti notturni, che di giorno nascondo per la vergogna. // O piccolo letto che rappresentavi la pace e il conforto ai miei numerosi affanni, quante lacrime di dolore Amore riversa su di te, per mezzo delle mani d’avorio di Laura, ingiustamente crudeli verso di me! // E non soltanto fuggo il mio ritiro e il mio riposo, ma più ancora me stesso e i miei pensieri, assecondando i quali, alcune volte, mi sono alzato a meditazioni elevate; // e la folla, nemica e odiata, (chi lo avrebbe mai pensato?) cerco per il mio conforto: tale è la paura di rimanere solo.

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Petrarca e Laura

Ci troviamo, quasi programmaticamente, di fronte a un capovolgimento, riguardo il tema, del sonetto proemiale: se infatti lì si vergognava della gente (ribadito, anche qui nel primo verso), tuttavia conclude in antitesi con esso, affermando, in modo metapoietico (cioè rivolgendosi al lettore) che della folla ne ha bisogno, per paura di rimanere solo. Vi è in questo sonetto, oltre la tensione, la concezione del trascorrere del tempo, resa attraverso un prima in cui la piccola camera e il piccolo letto (si veda l’uso dei diminutivi) erano all’inizio luogo di riposo e di pensiero elevato, mentre ora si presentano come luogo di dolore e di pianto. Il solito bifrontismo petrarchesco, che chiude sempre in modo epigrammatico a darci il messaggio del testo.

LEVOMMI IL MIO PENSIER IN PARTE OV’ERA

Levommi il mio penser in parte ov’era
quella ch’io cerco, et non ritrovo in terra:
ivi, fra lor che ’l terzo cerchio serra,
la rividi piú bella et meno altera.

Per man mi prese, et disse: “In questa spera
sarai anchor meco, se ’l desir non erra:
i’ so’ colei che ti die’ tanta guerra,
et compie’ mia giornata inanzi sera.

Mio ben non cape in intelletto humano:
te solo aspetto, et quel che tanto amasti
e là giuso è rimaso, il mio bel velo”.

Deh perché tacque, et allargò la mano?
Ch’al suon de’ detti sí pietosi et casti
poco mancò ch’io non rimasi in cielo.

La mia immaginazione mi innalzò nel luogo dov’era Laura, la donna che io cerco e non trovo sulla terra: là, fra gli spiriti amanti che il terzo cielo, quello di Venere, racchiude, la rividi più bella e meno sdegnosa. // Mi prese per mano e mi disse: “Sarai ancora con me in questo cielo di Venere, se il mio desiderio (d’averti accanto) non m’inganna: io sono quella che ti procurò tanti affanni, e che terminai la mia vita prima di raggiungere la vecchiaia. // La mia beatitudine non può essere intesa da una mente umana: aspetto solo te e il mio bel corpo che hai tanto amato e che è rimasto sulla terra”. // Perché tacque e lasciò la stretta della mia mano? Perché, all’udire quelle parole così piene d’affetto e pure, poco mancò che io rimanessi in cielo.

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Laura strappa il cuore a Petrarca

E’ questa una fra le più note poesia scritte in morte di Madonna Laura. Ciò implica un duplice confronto con Dante: sia Beatrice che Laura sono entrambe in Paradiso; sia il pensiero di Dante (Oltre la spera che più larga gira) che quello di Petrarca si sollevano fino al cielo. Vi è tuttavia un’enorme differenza: il viaggio di Dante, quale si espliciterà nel Paradiso sarà reale e Beatrice, come simbolo della Teologia, lo accompagnerà, lasciandolo nelle mani di San Bernardo fino alla Dei visio; quello di Petrarca si struttura sin da subito come viaggio dell’immaginazione (il mio penser) e le stesse parole dell’amata sembrano maggiormente un riflesso del desiderio del poeta più che una vera e propria mancanza (cosa può mancare ad un angelo del Paradiso? Si ricordi che Beatrice si muove non per avere con sé Dante, ma affinché egli diventi un exemplum per l’intera umanità). Da ciò l’ambiguità di quella mano che lascia la stretta, in altre parole, della dicotomia, piena di rimpianto da parte di Petrarca, tra mondo umano e mondo divino.

CHIARE, FRESCHE ET DOLCI ACQUE

Chiare, fresche et dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir’ mi rimembra)
a lei di fare al bel fiancho colonna;
herba et fior’ che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udïenza insieme
a le dolenti mie parole extreme.

S’egli è pur mio destino
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
et torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non poria mai in piú riposato porto
né in piú tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l’ossa.

Tempo verrà anchor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella et mansüeta,
et là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi; et, o pietà!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sí dolcemente che mercé m’impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior’ sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
humile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito et perle
eran quel dí a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: “Qui regna Amore”.

Quante volte diss’io

allor pien di spavento:
Costei per fermo nacque in paradiso”.
Cosí carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e ’l dolce riso
m’aveano, et sí diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
Qui come venn’io, o quando?;
credendo d’esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa herba sí, ch’altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia,
poresti arditamente
uscir del boscho, et gir in fra la gente.

Limpide, fresche e delicate acque, in cui l’unica che io considero signora (del mio cuore), immerse il suo bel corpo; nobile ramo al quale – mi ricordo sospirando – le piacque appoggiarsi; erba e fiori che la graziosa veste ricoprì con il candido lembo; aria resa sacra e serena (dalla bellezza di lei), dove Amore, per mezzo dei begli occhi di Laura, mi trafisse il cuore: ascoltate voi tutti le mie ultime parole di dolore. // Se è proprio mio destino, e il cielo si dà da fare (perché esso si compia), che Amore chiuda i miei occhi piangenti, una buona sorte, faccia in modo che il mio corpo misero sia seppellito in questi luoghi, e che l’anima priva del corpo giunga alla propria dimora. La morte sarà meno dura se avrò questa speranza fino a quel pericoloso passaggio (tra la vita alla morte); infatti l’anima stanca non potrebbe mai abbandonare il corpo tormentato in un porto più sereno o in una sepoltura più tranquilla. // Forse verrà ancora un tempo in cui Laura, animale selvaggio bello e mite, tornerà nel luogo in cui era solita soffermarsi; e là, dove ella mi vide in quel giorno maledetto, rivolga lo sguardo pieno di desiderio e di gioia nel cercarmi; e, spettacolo doloroso, vedendo che io sono ormai polvere, fra le pietre (della sepoltura), Amore le ispiri compassione, in modo che sospiri con tale dolcezza da ottenere per me misericordia, forzando la giustizia celeste, asciugandosi gli occhi con il bel velo. // Dai bei rami scendeva – dolce ricordo – una pioggia di fiori sul suo grembo; ed ella si sedeva con umiltà in un tale trionfo di fiori, ricoperta ormai da un’amorevole nuvola. Qualche fiore le cadeva sul lembo della veste, qualche altro sulle trecce bionde, che quel giorno parevano oro lucente e (i petali parevano) perle; altri (fiori) si posavano sul suolo, e altri sull’acqua; altri, volteggiando con leggiadria, sembravano dire: “Qui regna Amore”. // Quante volte io dissi allora, pieno di turbamento: “Costei senza dubbio nacque in paradiso”. Il portamento divino, il volto, le parole e il dolce sorriso, mi avevano reso a tal punto dimentico di ogni altra cosa e a tal punto separato dal mondo della realtà, che dicevo sospirando: “Come sono giunto qui, e quando?”, credendo di essere in cielo, non dove in realtà ero. Da quel momento in poi amo talmente questi prati, che non trovo pace in altro luogo. // Se tu, canzone, possedessi la bellezza e gli ornamenti che vorresti, potresti con sicurezza uscire dal bosco e andare fra gli uomini.

Con questa lirica Petrarca inaugura nella poesia la canzone elegiaca (componimento di carattere lirico-meditativo, spesso con toni melanconici e sentimentali) riprendendolo dalle Bucoliche virgiliane e inaugurando un genere d’enorme fortuna nella letteratura italiana. Tale canzone, infatti, risulta originale perché l’ambientazione idillico-agreste corrisponde ai sentimenti del poeta, diventando uno spazio soggettivo. Petrarca dà vita in questo modo al locus amoenus, visto qui con gli occhi rievocativi del poeta, e descritto con uno stile lento (a ciò servono la prevalenza dei settenari) che invita il lettore alla pace e serenità. Ma la poesia gioca anche sul concetto d’assenza. Laura in questa lirica non c’è, ma è solo rievocata e tale rievocazione non è reale, ma immaginativa: a tale scopo Petrarca gioca con i tempi verbali: passato, presente e futuro, i quali s’annullano a vicenda per darci un non tempo. Ecco allora che la mancanza di un luogo reale e di un tempo preciso ci portano verso un laico paradiso terrestre. Ancora una volta leggiamo la tensione verso l’assoluto di Petrarca e il suo frantumarsi nell’umano.

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“Chiare, fresche e dolci acque” miniatura presente ella Biblioteca Laurenziana

ITALIA MIA, BENCHE’ IL PARLAR SIA INDARNO

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che’ miei sospir’ sian quali  
spera ’l Tevero et l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che Ti condusse in terra
Ti volga al Tuo dilecto almo paese. 
Vedi, Segnor cortese,
di che lievi cagion’ che crudel guerra;
e i cor’, che ’ndura et serra
Marte superbo et fero,
apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda; 
ivi fa’ che ’l Tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa, 
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto, 
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede,
colui è più da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto di che deserti strani, 
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avene, or chi fia che ne scampi?

Ben provide Natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo 
pose fra noi et la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’ncontra ’l suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano à procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia 
fiere selvagge et mansüete gregge
s’annidan sì, che sempre il miglior geme;
et è questo del seme,
per più dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge, 
Mario aperse sì ’l fianco,
che memoria de l’opra ancho non langue,
quando assetato et stanco
non più bevve del fiume acqua che sangue.

Cesare taccio che per ogni piaggia 
fece l’erbe sanguigne
di lor vene, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise. 
Vostre voglie divise
guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio o qual destino
fastidire il vicino
povero, et le fortune afflicte et sparte 
perseguire, e ’n disparte
cercar gente et gradire,
che sparga ’l sangue et venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui, né per disprezzo.

Né v’accorgete anchor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno;
ma ’l vostro sangue piove 
più largamente, ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, et vederete come
tien caro altrui che tien sé così vile.
Latin sangue gentile, 
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto:
ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intellecto, 
peccato è nostro, et non natural cosa.

Non è questo ’l terren ch’i’ tocchai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sì dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido, 
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?
Perdio, questo la mente
talor vi mova, et con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso, 
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; et pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertù contra furore
prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: 
ché l’antiquo valore
ne l’italici cor’ non è anchor morto.

Signor’, mirate come ’l tempo vola,
et sì come la vita
fugge, et la morte n’è sovra le spalle. 
Voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda et sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle
piacciavi porre giù l’odio et lo sdegno, 
vènti contrari a la vita serena;
et quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche acto più degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode, 
in qualche honesto studio si converta:
così qua giù si gode,
et la strada del ciel si trova aperta

Canzone, io t’ammonisco
che tua ragion cortesemente dica, 
perché fra gente altera ir ti convene,
et le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura 
fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace.
Di’ lor: “Chi m’assicura?
I’ vo gridando: Pace, pace, pace.”

Italia mia, benché le parole siano inutili per le ferite mortali che vedo così numerose sul tuo bel corpo, desidero almeno che le mie speranze siano corrispondenti alle aspettative delle popolazioni italiane del Tevere, dell’Arno e del Po, presso il quale ora risiedo addolorato e preoccupato. Dio che governi il cielo, io chiedo che l’amore che ti indusse a farti uomo sulla terra, ti faccia rivolgere al tuo prediletto nobile paese. Vedi, Signore misericordioso, quale crudele guerra (è sorta) da futili motivi e i cuori, che la guerra superba e feroce rende duri e chiusi, aprili alla pietà, Padre, inteneriscili e scioglili: fa’ che nei cuori la tua Verità sia accolta grazie alle mie parole, per quanto io poco valga. // Signori d’Italia, ai quali la sorte ha affidato il governo delle belle contrade nei confronti delle quali pare che non abbiate nessuna pietà, che stanno a fare qui tanti mercenari stranieri? Affinché la verde terra (d’Italia) sia tinta col sangue dei barbari? Vi inganna una vana illusine: vedete poco e vi pare di veder molto, perché cercate amore o fedeltà in chi si interessa solo al guadagno. Chi ha più soldati al suo servizio è circondato da un maggior numero di nemici. O grande folla di gente adunata in desolate terre straniere per devastare i nostri fertili campi! Se questa rovina ci è causata dalle nostre stesse mani, chi sarà ora a salvarci? // La natura provvide in modo favorevole alla nostra sicurezza, quando pose le Alpi come barriera difensiva fra noi e il furore dei tedeschi; ma la cupidigia cieca e ostinata contro il proprio interesse, si è ingegnata tanto che ha procurato la scabbia al corpo sano del-l’Italia. Ora, dentro ad una stessa gabbia convivono animali feroci e greggi inermi, così che sempre i migliori vengono straziati: e, per aumentare il nostro dolore, questo è opera della discendenza di quel popolo barbaro al quale, come sappiamo dagli storici romani, Mario inflisse una sconfitta tale che non si è ancora sopito il ricordo di quell’impresa, quando, assetato e stanco per la battaglia, non trovò acqua pura da bere, ma tutta contaminata col sangue nemico. // Per non parlare di Cesare, che in ogni luogo dove combatterono le armi romane tinse l’erba del sangue dei barbari. Ora sembra che, non so per quale avverso influsso degli astri, il cielo abbia in odio noi italiani: colpa vostra, signori, che avete ricevuto un compito così alto. Le vostre ambizioni di-scordi rovinano la più bella parte del mondo, l’Italia. Quale colpa umana (da espiare), quale giudizio divino o quale destino (vi spinge) a danneggiare gli stati vicini più poveri, a colpire i suoi beni già impoveriti e dispersi, a cercare mercenari lontano dall’Italia, ad aver cara (gente) che sparge sangue e vende la vita per denaro? Io parlo per dire la verità, non per odio o disprezzo nei confronti di altri. // E non v’accorgete ancora, nonostante ne abbiate avuto tante prove, dell’inganno di questi mercenari tedeschi che scherzano con la morte alzando il dito in segno di resa? Secondo me, è peggiore la beffa che il danno. Ma il vostro sangue scorre più copiosamente (di quello dei mercenari), perché siete spinti da un odio fratricida. Riflettete dall’alba alle nove del mattino e vi accorgerete come non può stimare caro un altro chi considera se stesso con disprezzo. Virtuosa stirpe italiana, getta via questi pesi nocivi: non idolatrare una fama che non ha fondamento; infatti è colpa nostra e non una cosa naturale il fatto che l’ira della gente del nord, gente ottusa, ci superi per intelligenza. // Non è questa la terra che io (nascendo) toccai per la prima volta? Non è questo il nido in cui fui nutrito con tanto amore? Non è questa la patria in cui trovo sicurezza, madre buona e amorevole, in cui sono sepolti i miei genitori? Per amor di Dio, questo pensiero talvolta vi scuota, e considerate con compassione la triste situazione del popolo italiano, che affida le sue speranze di pace solo a voi, dopo che a Dio: e se voi mostrerete anche un solo segno di compassione, il valore degli italiani prenderà le armi contro la furia dei tedeschi e la lotta sarà breve: perché la virtù dei tempi passati non si è ancora spenta nei cuori degli italiani. // Signori, osservate come il tempo scorre veloce, e così la vita fugge e la morte incalza. Ora voi siete qui; pensate alla morte, perché l’anima deve giungere a quel passaggio temibile spoglia di tutto e sola. Mentre ancora siete su questa terra, siate disposti a deporre l’odio e l’ira, che sono come venti contrari alla vita serena; e quel tempo che si spende a procurare dolore agli altri, si impieghi in qualche opera più degna, o pratica o intellettuale, in azioni lodevoli, in qualche impegno onorevole: così sulla terra si può essere felici, e la strada della salvezza eterna si troverà aperta. // Canzone, io ti esorto a esporre con cortesia le tue argomentazioni, perché occorre che tu vada fra gente superba, i cui desideri sono appagati, già da molto tempo, dall’uso deleterio e antico (dell’adulazione), da sempre nemica della verità. Sperimenterai la tua sorte fra poche persone virtuose, amanti del bene. Di’ loro: “Chi mi protegge? Io vado gridando pace, pace, pace”.

E’ questo un esempio di lirica oratoria, in cui il poeta presenta il tema politico; tale tema è sviluppato:

  • Da un punto di vista storico: si prende in considerazione il frammentarismo italiano;
  • Da un punto di vista culturale: il richiamo all’unità è determinato dalla tradizione classica;
  • Da un punto di vista politico-militare: la critica verso l’uso delle truppe mercenarie;
  • Da un punto di vista morale: un invito commosso alla pace.

Da un punto di vista stilistico troviamo:

  • Lo stile umile quando si rivolge a Dio;
  • Lo stile fermo e severo e con ricorso anche al sarcasmo quando si rivolge ai principi;
  • Lo stile commosso nel chiedere la pace.

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Ritratto del Petrarca del 1376

Tale canzone avrà, come la precedente un’incredibile fortuna nella tradizione italiana, tanto da essere citata anche da Machiavelli nel Principe. Bisogna tuttavia ricordare che il concetto d’unità (o di fratellanza) italiana ha qui solamente valore utopico. Non era possibile infatti ricorrere ad armi proprie vista l’esiguità degli stati, la poco numerosità degli uomini e l’alto costo per rendere permanente ed efficiente un esercito: Inoltre non dobbiamo dimenticare che il richiamo alla pace d’Italia è soprattutto culturale, legato più all’idea di continuità con il mondo classico.

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Petrarca “I Trionfi” (sec XV)

I Trionfi

Con quest’opera in volgare, Petrarca sembra voglia cercare di comporre il suo dissidio interiore in unità e per far questo ricorre alla stesura di un poema, in forma allegorica, che nel metro e nello stile si richiama a quello di Dante. Infatti vi si narra di una sfilata a cui il poeta assiste e in essa vede le raffigurazioni dell’Amore, della Pudicizia, della Morte, della Fama, del Tempo e dell’Eternità, seguite da una folla di eroi del passato. Dall’ordine in cui vengono presentate si può dire che rappresentino il viaggio interiore del poeta, la sua ricerca ad una conversione. Per far ciò deve ricorre a costruzioni “oggettive” che esulino dalla sua interiorità. Ma tale impianto narrativo è estraneo alla natura del poeta, perché manca in lui un’organica e coerente visione del mondo, tale da procurargli l’agognato “porto”.